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APPALTO CONTRATTO D’OPERA

ENGINEERING

Docente

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Sommario

CONTRATTO D’OPERA....................................................................................... 3 1. IL CONTRATTO D’OPERA........................................................... …….. 3 2. LA DISCIPLINA DEL CONTRATTO........................................................ 6 2.1. LE OBBLIGAZIONI DELLE PARTI ...................................................... 6 2.2 LA RESPONSABILITÀ DEL PRESTATORE D’OPERA PER VIZI E DIFFORMITÀ .............................................................................................. 9 2.3. L’ESTINZIONE DEL CONTRATTO...................................................... 13

ENGINEERING...................................................................................................... 17 1. QUALIFICAZIONE E TIPI ............................................................................... 17 2. L’APPLICAZIONE DELLA L. 1815/1939 E LA L. 109/1994. ............................ 18 3. LE GUIDE ONU.......................................................................................... 19 L. 1815 / 39.................................................................... …………………… 20 CASSAZIONE, SEZ. I, 01-10-1999, N. 10872. ................................................. 22 Massime di riferimento................................................................................. 27

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CONTRATTO D’OPERA

1. IL CONTRATTO D’OPERA

Il codice civile del 1942, segnando una svolta rispetto al codice del 1865, ha abbandonato i

tradizionali tentativi della dottrina volti a inquadrare nello schema della locatio “qualsiasi attività

umana atta alla produzione e allo scambio di beni e servizi”

L’opzione del legislatore del 1942 è stata, piuttosto, quella di valorizzare l’elemento personale

necessariamente insito in ogni attività lavorativa, e di inserire nel libro V, dedicato, appunto, al

lavoro, un apposito titolo (il terzo) contenente la disciplina del lavoro autonomo. Questo

titolo,collocato simmetricamente fra la regolamentazione dell’impresa (contenente anche la

normativa del lavoro subordinato), e la regolamentazione della società, è diviso in due capi,

dedicati rispettivamente alle disposizioni generali e alla disciplina delle professioni intellettuali.

L’art. 2222 c.c., che apre il capo I, definisce il contratto d’opera come quel contratto con cui “una

persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro

prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”.

Emergono da questa definizione elementi idonei a differenziare il prestatore d’opera rispetto al

lavoratore subordinato da un lato, e all’imprenditore dall’altro. Rispetto al primo, la norma è

esplicita nell’escludere, come tratto caratterizzante del rapporto, quel vincolo di subordinazione

che è essenziale per aversi lavoro dipendente.

Più complesso è il discorso riguardante la distinzione dall’imprenditore. L’art. 2222 c.c. richiede

che l’opera o il servizio siano eseguiti dal prestatore con lavoro prevalentemente proprio; ciò

comporta che il contratto de quo è caratterizzato dall’ intuitus personae: pertanto il prestatore

d’opera deve essere una persona fisica. Se questo è sufficiente per contrapporre la figura del

prestatore d’opera a quella dell’imprenditore (art. 2082), che normalmente è una persona giuridica

(pubblica o privata) o possiede comunque una propria autonomia e funzionalità, distinta dal

soggetto che l’ha creato, non altrettanto si può dire per la figura del piccolo imprenditore, come

descritto dall’art. 2083. L’art. 2083 c.c., infatti, considera piccoli imprenditori, oltre ai coltivatori

diretti del fondo, agli artigiani e ai piccoli commercianti, anche “coloro che esercitano un’attività

professionale organizzata prevalentemente col lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Un

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primo elemento di contatto tra la figura del piccolo imprenditore e quella del lavoratore autonomo

sarebbe costituito, quindi, dalla prevalenza del lavoro proprio, richiesta dall’art. 2083 c.c. e dall’art.

2222 c.c.. In questo senso, il piccolo imprenditore e il lavoratore autonomo si possono

accomunare, e tenere distinti dall’imprenditore, appunto in ragione della personalità della

prestazione. Elemento comune ai due tipi normativi è anche l’assunzione del rischio del lavoro; si

tratta di un elemento che è invece assente nel lavoro subordinato; sotto questo aspetto, si

potrebbe ritenere che il legislatore abbia voluto collocare il lavoro autonomo nella branca

dell’ordinamento giuridico che è dedicato al diritto dell’impresa.

Parte della dottrina nota come la differente formulazione degli artt. 2222 c.c. e 2083 c.c. non vada

sottovalutata, esprimendo in realtà due concetti che non sono perfettamente sovrapponibili. Infatti

l’espressione “attività organizzata col lavoro prevalentemente proprio e dei familiari”, contenuto

nell’art. 2083, si riferirebbe ad “una attività che è organizzata con lavoro prevalentemente proprio”;

mentre con l’espressione “compie un’opera o un servizio” col lavoro prevalentemente proprio e

senza vincolo di subordinazione si punta direttamente sul lavoro prevalentemente proprio del

debitore, senza accennare ad alcuna forma di organizzazione.

A proposito del requisito dell’organizzazione, la dottrina più recente ha criticato l’orientamento che

ha teso alla svalutazione del dato della “organizzazione”; orientamento il quale, affermando che il

piccolo imprenditore si può “autoorganizzare”, espunge dalla definizione normativa il principale

elemento - appunto l’organizzazione - idoneo a distinguere il piccolo imprenditore dal lavoratore

autonomo.

Come è stato notato, la distinzione tra piccolo imprenditore e prestatore d’opera va ricercata su un

piano più generale: il codice civile regola le due figure con norme diverse, dando vita a uno statuto

dell’imprenditore e ad un distinto statuto del lavoratore autonomo. Gli elementi che pure sono

comuni assumono, quindi, un diverso rilievo giuridico, in ragione dell’inserimento dell’attività

imprenditoriale nell’ambito dei principi di economicità di gestione e di organizzazione

professionale, che sono invece assenti nell’attività del prestatore d’opera.

Uno dei problemi più dibattuti in dottrina riguarda la portata da attribuire alla clausola di salvezza

contenuta nella parte finale dell’art. 2222 c.c.: le “disposizioni generali” del capo I si applicano ai

rapporti caratterizzati dagli elementi descritti dallo stesso art. 2222 c.c., “salvo che il rapporto abbia

una disciplina particolare nel libro IV” (appalto, deposito, mandato ecc.). Si tratta di rapporti che, in

origine, erano compresi, insieme al contratto d’opera, nell’ampio schema della locatio operis, ma

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che progressivamente hanno maturato caratteristiche strutturali dotate di spiccata autonomia, che

ne hanno determinato la differenziazione rispetto al contatto d’opera e la regolamentazione

separata nel libro IV del codice, dedicato alle obbligazioni.

La Relazione ministeriale al codice civile (n. 914) avverte infatti che “la nuova figura del contratto

d’opera è più ristretta della figura romana della locatio operis, poiché non tutti i contratti che hanno

per oggetto la prestazione di un opus sono disciplinati nel titolo III, ma solo il tipo di locatio operis

più elementare”.

Una parte della dottrina ritiene che le disposizioni dettate per il contratto d’opera si debbano in ogni

caso considerare la matrice storica della disciplina contenuta nel libro IV “da cui trarre elementi di

interpretazione, ma anche come disciplina direttamente applicabile, nei limiti della compatibilità”.

La regolamentazione del capo I del titolo III del libro V si verrebbe in questo modo a configurare

come una disciplina residuale e sussidiaria, applicabile per colmare le eventuali lacune normative

che è dato riscontrare nella disciplina dei singoli rapporti contenuti nel libro delle obbligazioni, e

caratterizzati da un rapporto sinallagmatico, avente ad oggetto il compimento di un’opera o di un

servizio, dietro pagamento del corrispettivo.

Questa concezione è respinta da un’altra parte della dottrina, secondo cui la riserva posta dal

legislatore nell’art. 2222 c.c. dà luogo a una vera e propria contrapposizione tra diverse categorie

giuridiche. Tale conclusione è fondata sul rilievo che, nel libro V, i rapporti negoziali sono esaminati

avendo riguardo al lavoro (come si evince dalla collocazione sistematica) e, in ultima analisi,

all’attività svolta dal prestatore di lavoro come fonte essenziale delle situazioni obbligatorie che ne

derivano. Nel libro IV, invece, si ha riguardo prevalentemente e direttamente al rapporto

obbligatorio derivante dal contratto e solo in subordine alla prestazione del soggetto, pur sempre

riconducibile nell’ambito delle molteplici manifestazioni del lavoro autonomo.

Le disposizioni del capo I del titolo III del libro V sono quindi definite come “un complesso di

norme, il cui ambito di applicazione è limitato, perché relative a una specifica figura contrattuale,

ma che, tuttavia, hanno una portata e una valenza molto ampia, in quanto riguardano e qualificano

tutte quelle situazioni che attengono al lavoro autonomo in tutte le sue molteplici manifestazioni.

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2. LA DISCIPLINA DEL CONTRATTO

2.1. LE OBBLIGAZIONI DELLE PARTI

Secondo quanto dispone l’art. 2222 c.c., il contratto d’opera obbliga il prestatore d’opera al

compimento di un’opera o di un servizio. Si tratta della stessa espressione utilizzata dall’art. 1655

c.c. per definire l’oggetto del contratto d’appalto. Ciò che distingue l’appaltatore dal prestatore

d’opera è che il primo dispone di un’organizzazione di mezzi di produzione idonea a conferirgli la

qualifica di imprenditore, mentre il secondo deve compiere l’opera o il servizio con lavoro

prevalentemente proprio. Il prestatore d’opera, quindi, si potrà qualificare come imprenditore, sia

pur piccolo, soltanto se dia esito positivo l’indagine relativa alla sussistenza dei requisiti richiesti

dall’art. 2083 c.c..

Come si deduce dall’art. 2225 c.c., dedicato al corrispettivo, il contratto d’opera è un contratto

sinallagmatico, caratterizzato, appunto, dalle prestazioni reciproche del compimento dell’opus da

parte dell’artefice, e dal pagamento del compenso, incombente sul committente. Da ciò deriva che

la pattuizione del corrispettivo è un elemento naturale, ma non essenziale, del negozio; le parti lo

possono escludere, ma la parte che intende valersi di questa pattuizione è soggetta al relativo

onere probatorio.

In mancanza di espressa clausola determinativa dell’ammontare del compenso l’art. 2225 c.c.

prevede tre fonti integrative del contratto: le tariffe professionali, gli usi (si tratta degli usi integrativi

di cui all’art. 1374 c.c.) e, infine, l’intervento del giudice. Quest’ultimo decide in veste di arbitratore,

in base a criteri oggettivi, tenendo conto “del risultato ottenuto e del lavoro normalmente

necessario per ottenerlo”. Le parti però possono chiedere al giudice di merito di decidere secondo

equità ex art. 114 c.p.c.; in questo caso la pronuncia sarà inappellabile.

In caso di inadempimento del committente, il prestatore d’opera non è legittimato ad esercitare il

diritto di ritenzione, trattandosi di una forma eccezionale di autotutela privata non applicabile a casi

che non siano espressamente previsti dalla legge.

Un problema molto dibattuto in dottrina riguarda l’applicabilità al contratto d’opera dell’art. 36, 1°

comma, Cost., per il quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e

qualità del suo lavoro in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera

e dignitosa”. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza costante escludono l’applicabilità della

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norma costituzionale al contratto d’opera, ritenendo che essa sia stata dettata con riferimento

esclusivo al lavoro subordinato, e avuto riguardo alle primarie esigenze di tutela del lavoratore

dipendente.

Per quanto riguarda l’esecuzione dell’opera, l’art. 2224 c.c. stabilisce che se “il prestatore d’opera

non procede all’esecuzione dell’opera secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte,

il committente può fissare un congruo termine, entro il quale il prestatore d’opera deve conformarsi

a tali condizioni. Trascorso inutilmente il termine fissato, il committente può recedere dal contratto,

salvo il diritto al risarcimento dei danni”. Questa norma pone un limite all’autonomia che

caratterizza la figura dell’artefice, attribuendo al committente il potere di controllare che l’attività sia

svolta con le regole dell’arte, cioè secondo le regole della tecnica e dell’esperienza, con la

diligenza qualificata del buon lavoratore, ai sensi dell’art. 1176 , 2° comma, c.c. Resta fermo che le

direttive impartite non possono essere così penetranti da risolversi in un comando tale da

snaturare la natura del rapporto, che rimane un rapporto di lavoro autonomo. Infatti, se al

lavoratore non fosse lasciato alcuno spazio decisionale in ordine alle modalità esecutive

dell’attività, dovremmo concludere di essere in presenza di un rapporto subordinato caratterizzato

dalla costante e completa soggezione del lavoratore ai poteri direttivi del datore di lavoro. Il

committente, quindi, ha diritto di impartire le direttive per lo svolgimento dell’attività diretta alla

produzione del risultato, non solo al momento della conclusione del contratto, ma anche durante

l’esecuzione di esso, senza che i risultati delle verifiche effettuate siano per lui vincolanti al

momento dell’accettazione dell’opera ex art. 2226 c.c.. La facoltà di verifica è anche un onere per il

committente. Attraverso la rimozione di eventuali vizi e la collaborazione con l’artefice, egli

svolgeun’attività diretta ad evitare che terzi estranei possano eventualmente subire danni

dall’opus.. Se entro il termine fissato dal committente, il prestatore d’opera non si conforma alle

istruzioni impartite, il committente può recedere ante tempus dal contratto, chiedendo la

restituzione del corrispettivo già versato e il risarcimento del danno. La risoluzione non si verifica

ipso jure per volontà del legislatore, ma per volontà di una delle parti; l’intervento del giudice può

avvenire in un momento precedente, per accertare la ricorrenza dei presupposti necessari per la

diffida o la congruità del termine fissato all’artefice per adeguarsi alle istruzioni del committente. Si

tratta comunque di risoluzione per inadempimento, poiché, nel contratto d’opera, il risultato a cui

tende il committente non rileva soltanto di per se stesso, ma anche in quanto sia ottenuto

attraverso una determinata attività produttiva . Dal termine ex art. 2224 c.c., va tenuto distinto il

termine iniziale e il termine finale per l’esecuzione dell’opus. In assenza di espressa pattuizione

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per quanto riguarda il termine iniziale, si deve ritenere applicabile l’art. 1183, 1° comma, c.c., per

cui il prestatore d’opera deve iniziare a svolgere l’attività diretta alla realizzazione dell’opus

immediatamente. Il termine finale è di solito fissato dalle parti. In mancanza di una simile

previsione, si potrà richiedere l’intervento del giudice, il quale fisserà il termine tenendo conto del

risultato concordato in contratto e dell’attività normalmente necessaria per conseguirlo. Alla

scadenza, se l’opus non è stato consegnato, il committente potrà chiedere la risoluzione del

contratto per inadempimento; soltanto se non è stato convenuto alcun termine, sarà necessario un

formale atto di messa in mora del prestatore.

Anche per quanto concerne il luogo dell’adempimento, bisogna guardare innanzitutto alla volontà

espressa nel contratto. Se le parti non hanno disposto nulla in questa direzione, troveranno

applicazione le norme generali sul diritto delle obbligazioni: l’obbligazione di consegnare la cosa,

oggetto del contratto, va adempiuta nel luogo in cui la cosa si trovava al momento in cui

l’obbligazione è sorta (art. 1182, 2° comma, c.c.), cioè, con riferimento all’obbligazione accessoria

di consegna che incombe sul prestatore d’opera, nel luogo in cui si è compiuto il processo

produttivo. In tutti gli altri casi, se il luogo di esecuzione della prestazione non può essere desunto

dalla convenzione o dagli usi, le obbligazioni vanno adempiute al domicilio del debitore (il

prestatore d’opera), al tempo della scadenza. Nello stesso luogo deve essere adempiuta

l’obbligazione del committente di pagare il corrispettivo (1182, 3° comma).

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2.2 LA RESPONSABILITÀ DEL PRESTATORE D’OPERA PER VIZI E DIFFORMITÀ

L’art. 2226 c.c. contiene la disciplina degli effetti che derivano dalla presenza, nell’opus, di vizi e

difformità.

Nel contratto d’opera, infatti, la prestazione di colui che si è obbligato a compiere l’opera non

comprende solo lo svolgimento di un’attività lavorativa, ma anche la produzione del preciso

risultato avuto di mira dal committente .

A questo scopo è preordinato l’istituto della “verifica in corso d’opera”, di cui all’art. 2224 c.c. e la

regolamentazione della responsabilità dell’artefice, di cui all’art. 2226 c.c.

Il primo comma di questo articolo stabilisce che “l’accettazione espressa o tacita libera il prestatore

d’opera dalla responsabilità per difformità o per vizi della medesima, se all’atto dell’accettazione

questi erano noti al committente o facilmente riconoscibili, purché in questo caso non siano stati

dolosamente occultati”.

Si può preliminarmente notare che la differenza tra difformità e vizi, dell’opera o del servizio,

corrisponde all’incirca a quella tra qualità essenziali e vizi della cosa, sancita in relazione alla

compravendita (artt. 1497 e 1490); “difformità” è, infatti, la non corrispondenza dell’opera o del

servizio alle prescrizioni contrattuali, mentre il “vizio” è il difetto derivante da particolari

caratteristiche di esecuzione, richieste dalla valutazione normale o dalle regole dell’arte.

Fondamentale, in ogni contratto d’opera, è l’accettazione, cioè l’attestazione, da parte del

committente, che l’opus è conforme a tutti i requisiti oggettivi e soggettivi che erano stati prescritti.

Secondo la più recente dottrina, l’accettazione si può definire come un negozio unilaterale

recettizio, che si articola in tre momenti, tra loro distinti: la verifica, il giudizio e la presa in

consegna.

La verifica è il complesso delle operazioni materiali poste in essere dal committente (o da un terzo

da lui incaricato), a proprie spese, per accertare la corrispondenza quantitativa e qualitativa

dell’opus a quanto dovuto. Essa è un onere per il committente, il quale potrebbe accettare l’opera

anche senza effettuarla: in questo caso, però, egli perde la garanzia per vizi e difformità palesi,

conservandola solo per quelli occulti. La verifica implica una certa collaborazione da parte del

lavoratore, che deve consegnare la cosa e astenersi dal compiere atti che possono impedire o

turbare lo svolgimento dell’attività di verifica. Tale attività deve avvenire entro il tempo strettamente

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necessario secondo la circostanza del caso concreto e, una volta terminata, può aver luogo la fase

del giudizio.

Il giudizio, che corrisponde al collaudo, è un atto unilaterale recettizio, con il quale il committente

compie la sua valutazione in ordine allo stato dell’opera. Tale valutazione, involgendo questioni di

carattere tecnico, deve essere compiuta da personale tecnicamente qualificato, con l’arbitrium boni

viri.

Alla fase del giudizio segue la consegna della cosa, sempre che questa non sia avvenuta in un

momento anteriore, per consentire al committente di effettuare la verifica.

L’accettazione può essere fatta expressis verbis o per facta concludentia; nel secondo caso

varranno le regole generali sulle manifestazioni di volontà nei negozi giuridici. Essa determina la

decorrenza del diritto al corrispettivo; fa sorgere nel committente il diritto alla consegna dell’opera,

qualora essa non si trovi già in suo possesso; dà luogo al trasferimento del rischio dall’artefice alla

sua controparte e, secondo alcuni autori, segna anche il momento del passaggio della proprietà,

nell’ipotesi di prestazione della materia da parte del prestatore d’opera (art. 2223 c.c.).

Si discute in dottrina se difformità e vizi formino oggetto di una garanzia in senso tecnico, oppure

se questi vengano in rilievo sotto il profilo della sussistenza di una responsabilità contrattuale per

inadempimento. La dottrina è unanime nel risolvere la disputa nel senso della responsabilità

contrattuale, sussistente solo in caso di dolo o colpa.

Per il contratto d’opera e l’appalto, la legge disciplina la responsabilità del debitore, il quale non ha

esattamente adempiuto la sua obbligazione, a causa dei vizi e delle difformità. “Ciò consente di

ritenere che, mentre nel contratto d’opera e nell’appalto, effettivamente i suindicati elementi

incidono sulla esattezza della esecuzione della prestazione , in quanto la loro sussistenza rileva al

momento della accettazione e, quindi, successivamente alla conclusione del contratto e nell’ambito

del suo svolgimento - nel contratto di compravendita, i vizi e le difformità dell’opus rilevano nella

fase di conclusione del contratto stesso con la conseguenza che essi incidono sul processo

formativo della volontà delle parti”.

Il committente può accettare l’opera pur sapendo che essa è affetta da vizio o da difformità. In

questo caso si profila una liberazione negoziale del prestatore d’opera da responsabilità; in altre

parole, anche se l’opus non è stato eseguito secondo le condizioni stabilite nel contratto, il

committente ritiene che il risultato preso di mira sia stato comunque perseguito, ed è quindi tenuto

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al pagamento del corrispettivo. Dal momento che si versa in materia di diritti disponibili, la parte

può rinunciare ad agire per l’esatto adempimento, ma, perché l’atto di disposizione sia validamente

compiuto, occorre che il soggetto disponente sia a conoscenza dell’esatto quadro della situazione;

per questo motivo, se, con dolo, il prestatore d’opera ha taciuto al committente l’esistenza di vizi o

difformità, quest’ultimo può far valere le sue pretese, nonostante abbia accettato l’opera senza

riserve. Perché il dolo del prestatore d’opera sia rilevante non bastano il silenzio e la reticenza: è

necessario che il lavoratore abbia posto in essere artifici e raggiri per occultare i difetti della sua

prestazione.

Il secondo comma dell’art. 2226 c.c. stabilisce che “il committente deve, a pena di decadenza,

denunziare le difformità e i vizi occulti al prestatore entro otto giorni dalla scoperta. L’azione si

prescrive entro un anno dalla consegna.”

Questa norma, risolvendo contrasti dottrinali insorti nel vigore del codice del 1865, ha stabilito che

nell’ambito di applicazione della norma rientrano tutti i rapporti aventi ad oggetto il compimento di

un’opera o di un servizio ai sensi dell’art. 2222 c.c., rimanendone esclusi i rapporti di lavoro

autonomo disciplinati nel libro sulle obbligazioni, e in particolare l’appalto, per il quale dispone l’art.

1667 c.c.. Secondo la giurisprudenza, la scoperta del vizio occulto dell’opera, al fine della

decorrenza del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di responsabilità di cui all’art. 2226

c.c. non può ricondursi all’insorgenza del medesimo sospetto, ma presuppone la sopravvenienza

di fatti oggettivi percepibili e tali da rendere manifesta al committente, senza l’ausilio di particolari

cognizioni tecniche, ma sulla base della sola comune esperienza, l’esistenza del vizio, e da

determinare conseguentemente, a carico del committente medesimo, l’insorgere dell’obbligo di

denuncia, che la legge prevede a tutela dell’altro contraente, per consentirgli un’analoga e

tempestiva conoscenza della scoperta.

La disciplina prevista dall’art. 2226, 2° comma, c.c. si applica soltanto se il committente abbia

accettato l’opera senza riserve, per cui la responsabilità del prestatore si estende ai vizi e alle

difformità non conosciute o conoscibili, o dolosamente occultati. Da ciò deriva che la norma non si

applica se il committente ha rifiutato l’opera, ritenendola non conforme a quanto pattuito. In questo

caso, infatti, il prestatore d’opera è inadempiente e può scegliere se restituire il corrispettivo

eventualmente già ricevuto, eliminare i vizi e le difformità a proprie spese o agire per la risoluzione

del contratto.

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Questo scritto non intende sostituirsi in alcun modo all’assistenza di un professionista. Chiunque dovesse utilizzare le informazioni contenute nel presente scritto senza il parere di un

esperto in materia deve accettarne tutte le conseguenze. L’autore declina ogni responsabilità in merito.

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Secondo la giurisprudenza, sebbene l’art. 2226 c.c. non ne faccia richiamo, l’onere della denuncia

del vizio o della difformità trova un limite nel riconoscimento di questi da parte del prestatore

d’opera, con la conseguenza che anche l’impegno di provvedere alla eliminazione dei difetti o vizi

dell’opera dà vita ad un nuovo rapporto che si sostituisce a quello originario, ed è fonte di

un’autonoma obbligazione, che si prescrive nel termine ordinario decorrente dalla data

dell’assunzione dell’impegno stesso.

La dottrina recente concorda con questo orientamento, notando come la specialità del rapporto

che lega le parti nel contratto d’opera consenta di applicare le norme generali sull’inadempimento

contrattuale, quando non ricorrano le condizioni previste dall’art. 2226 c.c.

Nell’esecuzione della prestazione, l’artefice deve tenere un comportamento diligente ai sensi

dell’art. 1176, 2° comma, c.c. La diligenza a cui egli è obbligato assume una rilevanza particolare,

perché occorre tenere conto della peculiarità del rapporto che intercorre con il committente, in

relazione al risultato a cui aspira quest’ultimo. A proposito degli obblighi del prestatore, viene in

rilievo l’incoercibilità della prestazione a cui egli è tenuto: di conseguenza, salvo l’eventuale diritto

al risarcimento del danno, il creditore insoddisfatto, trattandosi di obbligazione di fare, potrà

chiedere l’esecuzione in forma specifica da parte di un terzo a spese dell’artefice, o la riduzione del

corrispettivo, o la risoluzione del contratto. Proprio in base a queste considerazioni, il legislatore ha

accomunato la disciplina dell’appalto e del contratto d’opera, stabilendo per entrambi l’applicazione

dell’art. 1668 c.c. Ai sensi del 1° comma, “il committente può chiedere che le difformità e i vizi

siano eliminati a spese dell’appaltatore.” Tali rimedi si riferiscono all’ipotesi di inesatto

adempimento, cioè di vizi tali da ridurre l’utilità dell’opus, laddove la risoluzione può essere chiesta

nel caso di opera del tutto inadatta alla sua destinazione. In alternativa alla risoluzione, il

committente, in caso di vizi o difformità che determinano la totale inidoneità dell’opera, può

esercitare l’azione generale di adempimento per ottenere l’esecuzione della prestazione attraverso

il totale rifacimento dell’opera.

Il rimedio della risoluzione ha un campo di applicazione più limitato rispetto a quanto previsto

dall’art. 1455 c.c. che consente, invece, la risoluzione se l’inadempimento non era di scarsa

importanza.

La dottrina ha evidenziato la difficoltà di valutare in concreto quando l’opera sia “inadatta” alla sua

destinazione; le difficoltà aumentano, inoltre, nel caso in cui le parti abbiano concordato particolari

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qualità o requisiti della cosa per assicurarne un determinato impiego, qualità o requisiti che sono

divenuti contrattualmente vincolanti.

In conformità ai principi generali (art. 1458, 1° comma, c.c.), la risoluzione ha effetto retroattivo:

pertanto, il lavoratore rimane proprietario della cosa, che gli deve essere restituita, se la consegna

era già avvenuta; mentre il committente è liberato dall’obbligo del corrispettivo.

Secondo la giurisprudenza, ove siano lamentati vizi o difformità dell’ opera, ancorché tali da

renderla inadatta alla sua destinazione, il committente, anche se proponga azione risarcitoria

cumulativamente o meno con quelle intese alla eliminazione del vizio o alla rifusione del prezzo o

alla risoluzione del contratto, soggiace al termine di decadenza previsto dall’art. 2226, 2° comma

c.c.; e ciò in funzione dell’esigenza della tempestiva contestazione e del tempestivo accertamento

della difformità o del vizio, esigenza cui non è dato sottrarsi attraverso la proposizione dell’azione

generale di risoluzione, ricollegandosi questa a fatti diversi di inadempimento.

2.3. L’ESTINZIONE DEL CONTRATTO

Il modo naturale di estinzione di ogni rapporto contrattuale è l’adempimento delle obbligazioni che

gravano sulle parti: pertanto, nel contratto d’opera, il rapporto potrà dirsi estinto quando siano state

adempiute le prestazioni dei contraenti, aventi ad oggetto, rispettivamente, il compimento

dell’opera o del servizio e il pagamento del corrispettivo, Il rapporto, però, si può estinguere anche

prima di questo momento, per recesso del committente (art. 2227 c.c.) o per impossibilità

sopravvenuta di esecuzione dell’opera (art. 2228 c.c.).

Secondo l’art. 2227 c.c., “il committente può recedere dal contratto, ancorché sia iniziata

l’esecuzione dell’opera, tenendo indenne il prestatore d’opera delle spese, del lavoro eseguito e

del mancato guadagno”.

La dottrina più recente ricorda la bipartizione di origine tedesca tra recesso (legale) ordinario e

recesso straordinario: il primo generalmente operante nei rapporti di durata privi di termine finale; il

secondo concesso in presenza di una “giusta causa.” La categoria dei recessi straordinari è

piuttosto eterogenea: infatti, nel caso del contratto d’opera, il committente può recedere ad nutum,

a prescindere dall’esistenza di un giustificato motivo.

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La ragione di tale previsione viene individuata dalla maggioranza degli autori nell’esigenza di

tutelare l’interesse del committente, il quale ripone un certo affidamento nelle qualità professionali

e nelle cognizioni tecniche dell’artefice. E’, quindi, l’elemento fiduciario, che costituisce una delle

peculiarità del contratto d’opera, a dare ragione della disposizione normativa contenuta nell’art.

2227 c.c.

A differenza di quanto è previsto dall’art. 2237, 2° comma, c.c. per il professionista intellettuale, il

prestatore d’opera manuale non ha una facoltà di recesso analoga a quella consentita al

committente. Secondo un orientamento dottrinale questa alterazione del sinallagma contrattuale

non può trovare esauriente spiegazione nei principi generali, ma si giustifica alla luce della

posizione economico-sociale delle parti: il committente aspira ad un risultato utile attraverso una

determinata attività lavorativa; questo scopo legittima la discrezionalità dello stesso

nell’interruzione del rapporto ed è confermato dalla previsione dell’art. 2224 c.c. Il prestatore

d’opera, invece, è un lavoratore, il cui interesse è di ottenere i mezzi economici per il

soddisfacimento delle esigenze di vita proprie e della sua famiglia; tale interesse trova

riconoscimento e tutela nell’art. 2227 c.c., che fa obbligo al committente di tenere indenne l’artefice

delle “spese sostenute, del lavoro eseguito e del mancato guadagno”. La norma in esame,

nonostante abbia alterato l’equilibrio formale tra le posizioni delle parti, tuttavia ha instaurato un

equilibrio sostanziale, conforme alla natura del rapporto. Infatti, il criterio della legge è che, se è

giusto che il committente non rimanga più legato al completamento di un’opera che non ritiene

opportuna, è anche giusto però che il prestatore non solo non subisca perdite, ma ottenga tutto

quel guadagno che avrebbe ricavato se il contratto avesse ricevuto regolare e completa

esecuzione.

Per “spese sostenute”, si intendono tutte quelle spese che non siano state conglobate nella

prestazione già eseguite; si tratta, principalmente, dei materiali acquistati ma non utilizzati, che

diventano, così, di proprietà del committente. Sono in posizione analoga le retribuzioni dei

lavoratori eventualmente assunti dall’artefice per eseguire l’opus, per quanto riguarda il tempo

intercorso tra la data in cui il recesso è diventato efficace e la data di maturazione periodica della

retribuzione, a patto che i lavoratori non siano stati altrimenti utilizzati dal prestatore.

In secondo luogo, il committente deve rimborsare all’artefice i “lavori eseguiti” fino al recesso,

valutandoli in base ai prezzi contrattuali, con l’arbitrium boni viri, prescindendo - a differenza di

quanto prescritto dall’art. 2228 c.c. - dall’utilità che essi eventualmente rivestano. La parte di opus

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già eseguito diviene così di proprietà del committente, il quale può servirsene per realizzare l’opera

completa a cui aspira. Infine, il prestatore d’opera deve essere indennizzato del “mancato

guadagno” per l’opera non ancora eseguita, cioè l’utile netto che il prestatore avrebbe conseguito

se avesse completato l’opus; utile netto corrispondente alla differenza tra il prezzo contrattuale

ancora da eseguire e l’ammontare preventivo delle spese accessorie per tale esecuzione. La

dottrina nota che il committente non potrebbe ridurre il mancato guadagno, affermando che il

prestatore d’opera, una volta liberato dall’esecuzione del contratto, può dedicarsi ad altre attività:

infatti, ciò è vero solo nel caso del tutto eccezionale (che, invece, costituisce la regola nel lavoro

subordinato) che l’artefice avesse vincolato tutte le sue energie lavorative a quel determinato

committente.

Secondo un orientamento, se il committente non provvede a rimborsare al lavoratore le somme

che gli sono dovute, il recesso si converte in risoluzione a carico del committente, con tutte le

conseguenze che ne derivano. Inoltre, non c’è nessun ostacolo alla sussistenza di una clausola

contrattuale che escluda pattiziamente la facoltà di recesso.

Ai sensi dell’art. 2228 c.c., “se l’esecuzione dell’opera diventa impossibile per causa non

imputabile ad alcuna delle parti, il prestatore d’opera ha diritto ad un compenso per il lavoro

prestato in relazione all’utilità della parte dell’opera compiuta”.

La dottrina è unanime nel ritenere che, nonostante il tenore letterale della norma, l’impossibilità

possa colpire non solo l’esecuzione dell’opera, ma anche il compimento di un servizio, in armonia

al dettato dell’art. 2222 c.c.

Il presupposto logico-giuridico di questa norma deve essere individuato nella particolare struttura

del contratto: il contratto d’opera, infatti, pur non rientrando nella categoria dei contratti di durata, è,

comunque, un contratto ad esecuzione prolungata. Ciò comporta che una impossibilità intervenuta

durante il suo svolgimento non pregiudica la possibilità che una parte di opera sia già stata

compiuta, e che questa disponga di un certo grado di utilità per il committente. D’altro lato, il

prestatore è un lavoratore autonomo, che assume tutti i rischi inerenti allo svolgimento della sua

attività, compreso il rischio di non poter adempiere l’obbligazione di cui è gravato, per cause a lui

non imputabili.

Tale posizione di rischio dell’artefice trova un limite nell’art. 2227 c.c. La Relazione ministeriale al

codice civile (n. 905) afferma, infatti, che “l’incidenza del rischio della produzione a carico del

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prestatore d’opera è attenuata, nel senso che, anche in caso di impossibilità dell’opera, spetta al

prestatore d’opera un compenso in relazione alla utilità della parte dell’opera compiuta”. Ciò

significa che le conseguenze della impossibilità vengono addossate in parte anche al committente,

il quale, nei limiti dell’utilità, deve corrispondere all’artefice un compenso per l’opera compiuta fino

al momento del verificarsi dell’ostacolo.

La norma in esame contempla una particolare ipotesi di impossibilità parziale della prestazione,

regolata in via generale dall’art. 1464 c.c.. Il compenso dovuto al prestatore non è, però,

determinato in proporzione alla prestazione eseguita: l’evento non imputabile, che ha reso

impossibile l’esatto adempimento, fa sorgere la necessità di una valutazione originaria del lavoro

svolto dall’artefice; tale valore sarà remunerato nella misura in cui sia utile al committente, secondo

l’arbitrium boni viri, cioè come la valuterebbe l’uomo medio. Se sorge contrasto tra le parti, il

relativo apprezzamento sarà compiuto dal giudice di merito; e sarà insindacabile in Cassazione,

ma solo se tenga conto di tutti i principi della materia, che sono vincolanti anche per il giudice.

L’utilità deve essere stabilita in relazione al contenuto del contratto e all’interesse del committente,

che il contratto tende a soddisfare. La liquidazione del compenso non va fatta in base al criterio

dell’arricchimento, ma con diretto riferimento ai prezzi contrattuali. Si devono distinguere i lavori

eseguiti da quelli che possono presentare utilità per il committente, e questi ultimi devono essere

integralmente pagati, ai prezzi contrattuali .

I principi generali riprenderanno vigore in tutte le ipotesi non prese in considerazione nella

specifica sedes materiae. Così, in caso di impossibilità totale (art. 1463 c.c.), il contratto si risolve

automaticamente e per intero: il prestatore non solo non ha diritto ad alcun compenso per l’opera

svolta, ma deve restituire quello eventualmente percepito; infatti, dal momento che la

controprestazione non è stata eseguita, il compenso percepito diviene privo di causa. L’obbligo di

restituzione costituisce debito di valuta e non di valore: pertanto, è soggetto al principio

nominalistico.

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ENGINEERING

1. Qualificazione e tipi

Sulla qualificazione dell’engineering come contratto misto o complesso hanno concordato

LAPERTOSA, L’engineering, Milano, 1993, 186.

Il Prof. De Nova dopo aver rilevato come i tipi legali che nella specie possono venire in

considerazione sono il contratto di prestazione d’opera intellettuale, il contratto d’appalto, di servizi

e d’opera, osserva tuttavia che “dal richiamo di codesti tipi legali non è possibile attendersi molto”,

e ribadisce l’esigenza che si identifichi prima l’oggetto del servizio, e di conseguenza si qualifichi la

natura della prestazione e si affermi l’analogia con qualche modello legale tipico.

Gli elementi di differenza rispetto al contratto di appalto sono rimarcati dal fatto che la possibilità di

adattare a contratti atipici parte della disciplina legale di quei contratti non conduce

automaticamente ad adottare anche il resto della stessa disciplina.

Alcuni Autori individuano la divaricazione più significativa nella partecipazione dell’engineer ad un

rischio più esteso di quello usuale dell’appaltatore.

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2. L’applicazione della L. 1815/1939 e la L. 109/1994.

A tutti gli intuibili inconvenienti ingenerati dall’applicazione della L. 1815/1939 devono aggiungersi

quelli conseguenti al ritardo rispetto alla situazione divisata dal legislatore europeo, in particolare

attraverso la direttiva n. 92/50 del 18 giugno 1992 volta al “Coordinamento delle procedure di

aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi” da cui discende la possibilità per le società di

professionisti stranieri di operare liberamente nell’intero mercato comune, ivi incluso quindi il

nostro Paese.

La svolta è parsa coincidere con la L. 11 febbraio 1994, n. 109 “Legge quadro in materia di lavori

pubblici” il cui art. 17 all’8° comma così ha disposto: “Ai fini della presente legge sono società di

ingegneria le società costituite nelle forme di cui ai capi V, VI e VII del Titolo V e al Capo I del

Titolo VI del libro quinto del codice civile, che eseguono studi di fattibilità, ricerche, consulenze,

progettazioni, direzione dei lavori, valutazioni di congruità tecnico-economica e studi di impatto

ambientale e che non esercitano le attività di produzione di beni. A tali società non si applica il

divieto previsto dall’art. 2 della L. 23 novembre 1939, n. 1815 ss.”.

L’entrata in vigore della norma – insieme ad una consistente parte dell’intera legge – è stata

rinviata a più riprese, e nel frattempo emendata, in particolare ad opera dell’art. 5 sexies D.L. 3

aprile 1995, n. 101 convertito con modificazioni nella L. 2 giugno 1995, n. 216. Nella versione

risultante ad esito di tali interventi l’art. 17 con un comma successivo (l’ottavo) demanda ad un

emanando regolamento ministeriale l’individuazione dei “requisiti organizzativi, professionali e

tecnici delle società d’ingegneria”, vincolandolo tuttavia al “principio che l’attività di progettazione

ed i singoli progetti devono essere eseguiti da uno o più professionisti iscritti negli appositi albi

nominativamente indicati e personalmente responsabili”. Il successivo comma dell’art. 17 vieta agli

affidatari di incarichi di progettazione di partecipare “agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici,

nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiamo svolto la suddetta attività di

progettazione”.

La lettura di queste norme restituisce un quadro incentrato sul consulting engineering, che viene

espressamente convalidato, e che conserva invece sullo sfondo il tipo commercial.

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3. Le Guide ONU

Particolare prestigio hanno assunto le Guide redatte dall’ONU sia per il consulting engineering (La

“Guide for drawing up international contracts on consulting Engineering, including some related

aspects of technical assistance. United Nations publications. Economic Commission for Europe n.

145”) sia per quello operativo (la “Guide for drawing up contracts for large industrial worts”, n. 117

della medesima collana), al punto che in queste e nei citati schemi di condizioni generali si tende

ormai ad individuare la vera fonte dei contratti di engineering ravvisandovi un modulo operative

presente con caratteri “di rilevante uniformità, di piena compatibilità con i singoli diritti nazionali e di

progressive tendenza ad una autosufficienza della disciplina e, quindi, ad una

internazionalizzazione o delocalizzazione del rapporto contrattuale” (CAVALLO BORGIA,

Engineering, cit., 1104).

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L. 1815 / 39

Legge 23 novembre 1939, n. 1815.

Disciplina giuridica degli studi di assistenza e di consulenza.

Art. 1. Le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate

all'esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano per

l'esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o autorizzate, debbono usare,

nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di "studio

tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario", seguito dal nome e cognome,

coi titoli professionali, dei singoli associati.

L'esercizio associato delle professioni o delle altre attività, ai sensi del comma precedente, deve

essere notificato all'organizzazione sindacale da cui sono rappresentati i singoli associati.

Art. 2. [Abrogato]

Art. 3. Sono esclusi dal divieto di cui all'articolo precedente gli enti e gli istituti pubblici, nonché

fermo restando l'obbligo della notificazione preveduta dall'art. 1, comma secondo, gli uffici che le

società, ditte od aziende private costituiscono per la propria organizzazione interna nelle materie

indicate nei precedenti articoli.

Art. 4. [Abrogato]

Art. 5. [Abrogato]

Art. 6. Coloro che alla data di pubblicazione della presente legge nella Gazzetta Ufficiale del

Regno esercitano una professione o attività associata in modo diverso da quello stabilito dall'art. 1

devono conformarsi, entro il termine di sei mesi a decorrere da tale data, alle disposizioni dello

stesso articolo. Trascorso inutilmente questo termine, essi devono cessare dall'esercitare la

professione o l'attività associata in contrasto con il citato art. 1.

Coloro che, alla data indicata nel comma precedente, attendono alla tenuta o alla regolarizzazione

dei documenti delle aziende senza essere legati alle aziende stesse da rapporti di impiego,

possono chiedere l'autorizzazione prescritta dall'art. 4, ovvero provvedere alla denuncia di cui

all'art. 5, entro il termine di tre mesi a decorrere dalla data anzidetta. Essi devono cessare la loro

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attività alla scadenza del termine di tre mesi, qualora nel termine stesso non abbiano presentato la

domanda di autorizzazione, o la denuncia, ovvero entro tre mesi dal giorno in cui è divenuto

definitivo il provvedimento di rigetto della domanda di autorizzazione.

Art. 7. Salvo che il fatto non costituisca reato più grave:

a) i contravventori alle disposizioni dell'articolo 1 e dell'art. 6, comma 1, sono puniti con la

sanzione amministrativa fino a lire 400.000;

b) i contravventori alle disposizioni dell'articolo 2, dell'art. 4 e dell'art. 5, comma 2, sono

puniti con l'arresto sino a sei mesi o con l'ammenda da lire 40.000 a lire 200.000.

I professionisti indicati nell'art. 5, che omettano di provvedere alle denunce di cui agli artt. 5 e 6,

sono puniti con l'ammenda fino a L. 80.000.

Art. 8. Con decreti Reali da emanarsi su proposta del Ministro per la grazia e giustizia, di concerto

con il Ministro per le corporazioni, a termini dell'art. 3, n. 1, della L. 31 gennaio 1926, n. 100,

saranno date le norme che potranno occorrere per l'integrazione e l'attuazione della presente

legge.

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Cassazione, sez. I, 01-10-1999, n. 10872.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1) Con lodo arbitrale dell’11 novembre 1995, veniva dichiarata la nullità di tre contratti stipulati [il

30 ottobre ’89, il 26 febbraio e 27 settembre ’90] tra la "Azienda Ospedaliera S. Luigi Gonzaga"

[già USL n. 34] di Orbassano e la s.p.a. "Protecne", per violazione dell’art. 2 l. 1815/1939, per

avere ad oggetto - detti contratti - "incarichi rientranti tra le attività tipiche dei liberi professionisti"

che non possono essere affidati a società quando non presentino, come accertato nella specie,

elementi di particolare complessità richiedenti l’apporto di tecniche ed operazioni non disponibili

dal professionista; o, in subordine, per mancata adozione delle procedure di appalto o licitazione

prescritte per gli "appalti di servizi" ove fossero come tali qualificabili quegli incarichi nella

eventuale ricorrenza dei suddetti contenuti di complessità.

Con il lodo stesso veniva riconosciuto alla società un indennizzo ex art. 2041 c.c., liquidato

equitativamente, in L. 60.442.319, in difetto di prova sull’ammontare degli oneri e spese (di

progettazione, generali gravanti sullo studio ecc.), cui l’indennizzo andava commisurato.

E veniva altresì accolta la domanda dell’Ospedale volta ad ottenere la restituzione delle somme

già versate e costituenti "indebito" in conseguenza dell’accertata nullità dei contratti di riferimento.

2) L’Azione per declaratoria di nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., promossa dalla Proteine

innanzi alla Corte di appello di Torino veniva poi da questa respinta con sentenza del 18 settembre

1996.

Da qui l’odierno ricorso per cassazione della stessa società, illustrato anche con memoria.

Il difensore dell’Azienda intimato, previo deposito della procura in udienza, ha concluso oralmente

per la reiezione del ricorso, depositando poi note in replica alle contrarie richieste del P.G.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I) Con i sette motivi, di cui si compone il ricorso, la società, rispettivamente, sostiene che abbia

errato la Corte territoriale:

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1) nell’adombrare un preteso, ma insussistente, difetto di specificità dei motivi di impugnazione del

lodo;

2) nel ritenere che il Collegio arbitrale fosse competente a decidere anche in merito alla "validità"

dei contratti, ancorché la clausola compromissoria si limitasse a definire al medesimo la soluzione

delle [sole] questioni "dipendenti" da tali contratti;

3) nel far discendere la pretesa nullità dei riferiti negozi dalla violazione dell’art. 2 l. 1815/1939, non

avvedendosi della intervenuta "abrogazione" del correlativo divieto nei riguardi delle società di

ingegneria, come essa Protecne;

4) nel condividere acriticamente la motivazione "subordinata" di nullità dei contratti in questione,

prospettata dagli arbitri, sotto il profilo della violazione della eventuale procedura di aggiudicazione;

5) nel non tener conto della portata "ricognitiva" della successiva legge n. 109 del 1994 ai fini

ancora della rimozione del divieto sub art. 2 l. 1815/1939;

6) nel confermare la liquidazione dell’indennizzo ex art. 2041 c.c., pur riduttivamente operata dal

Collegio, "in violazione dei principi applicativi dell’arricchimento senza causa";

7) nel non rilevare la pur eccepita "carenza di giurisdizione degli arbitri" in ordine alla domanda

riconvenzionale, di ripetizione, avanzata dall’Azienda ospedaliera, "non dipendente dal contratto"

perché di "fonte e natura extracontrattuale".

II) Nessuna delle riferite censure può trovare accoglimento.

II.1. Inammissibile è, in particolare, la prima doglianza, perché la ricorrente non ha interesse ad

impugnare l’affermazione, incidentale della Corte torinese sul [l’adombrato] difetto di specificità dei

motivi ex art. 829 c.p.c. una volta che la stessa Corte tali motivi ha in concreto poi comunque

esaminato.

II.2. Infondato è, a sua volta, il secondo motivo del ricorso.

Pur essendo esatto, in linea di principio, che la clausola compromissoria, costituendo deroga alla

competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, deve essere interpretata in senso restrittivo (cfr. nn.

376/1967; 12077/1990, per tutte), non può ritenersi, infatti, in contrasto con siffatto principio, né

con alcun altro canone ermeneutico, l’esegesi (non altrimenti sindacabile) del Collegio arbitrale -

correttamente quindi confermata dalla Corte d’appello - che ha presupposto un rapporto di

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Questo scritto non intende sostituirsi in alcun modo all’assistenza di un professionista. Chiunque dovesse utilizzare le informazioni contenute nel presente scritto senza il parere di un

esperto in materia deve accettarne tutte le conseguenze. L’autore declina ogni responsabilità in merito.

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continenza logica delle controversie sulla validità del contratto all’interno di quelle "dipendenti dal

contratto" devolute agli arbitri con la clausola in esame.

II.3 e 5. Del pari destituite di fondamento sono altresì le doglianze di cui al terzo e quinto motivo

che, per la loro connessione, possono congiuntamente esaminarsi.

- Con riguardo al parametro normativo della dichiarata (e qui nuovamente contestata) nullità dei

contratti in questione, è pur vero, infatti che la disposizione dell’art. 2 l. 1815/1939 [volta ad

impedire che le norme prescrittive di specifiche capacità ed abilitazioni per l’esercizio delle

professioni c.d. "protette", e la stessa norma penale che ne sanziona l’esercizio abusivo, siano

eluse attraverso lo svolgimento anonimo, in forma societaria, delle correlative attività] è stata

ritenuta abrogata, per incompatibilità, nei riguardi delle società che progettino impianti mediante

strutture industriali e complesse organizzazioni tecnico-amministrative, ovvero che svolgano

attività di studio e progettazione richiedenti speciali competenze tecniche e scientifiche. Ciò in

correlazione e alla stregua delle sopravvenute disposizioni di cui all’art. 13 della legge 2 maggio

1976 n. 183 (in tema d’interventi straordinari nel mezzogiorno), all’art. 1 del D.L. 30 gennaio 1979

n. 20, convertito in legge 31 marzo 1979 n. 92 (in tema di contenimento del costo del lavoro ed

obblighi contributivi), ed all’art. 11 della legge 12 febbraio 1981 n. 17 (in tema di potenziamento

delle Ferrovie dello Stato), prevedenti la concessione di contributi ed agevolazioni, ovvero il

conferimento di incarichi da parte delle Ferrovie dello Stato, anche in favore di società di

progettazione munite dei connotati sopra specificati (cfr. Cass. nn. 7263 - 7265/86; 5648/1994).

Ma siffatte disposizioni - se pur espressive (al di là del loro specifico contesto spaziale e settoriale)

di un generale principio di liceità della costituzione di società di ingegneria [nelle due forme del

"commercial" e del "consulting" engineering, secondo che l’opus "più complesso" fornito dalla

società sia o non esteso anche alla concreta realizzazione del progetto: cfr. pure, rispettivamente,

n. 566/1985 e 1405/1989] - debbono considerarsi, ai diversi fini della validità, in concreto, dei

contratti conclusi dalle predette società, solo limitatamente abrogative del divieto, sub art. 2 l. 1815

cit., di esercizio in forma anonima di attività ingegneristica.

Nel senso - come già precisato - che tale divieto, nel quadro normativo esaminato, "può cadere

solo quando l’apporto intellettuale dell’ingegnere costituisca uno soltanto dei vari fattori,

comprensivi di contributi intellettuali non riservati, confluenti nel risultato promesso" (cfr. n. 5468/94

cit.); rimanendo esso viceversa operante (con la connessa sanzione di nullità, conseguente alla

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sua violazione) qualora l’attività, oggetto del contratto tra il committente e la società, consista,

secondo l’accertamento del giudice del merito, in una opera di progettazione di ingegneria civile

interamente rientrante nell’attività professionale tipica dell’ingegnere e dell’architetto, e non in una

attività preparatoria ed accessoria rispetto all’indicata progettazione.

Nella specie, con motivata valutazione di merito del Collegio arbitrale (per tal profilo non

sindacabile), è stato accertato che "tutti gli incarichi svolti dalla Protecne rientravano nella ordinaria

attività del libero professionista": e ciò appunto comporta la resistenza a critica della conseguente

dichiarazione di nullità dei correlativi contratti.

Né a quel Collegio, e alla Corte di appello che ne ha confermato la decisione, può essere

addebitato (ciò su cui in particolare insiste il quinto mezzo) di non aver preso in considerazione la

successiva legge 109/1994 ai fini della prospettata integrale abrogazione della norma di tutela

dell’attività del libero professionista.

Ed invero - a prescindere dalla considerazione che per una siffatta abrogazione del citato art. 2 l.

1815/1939 occorre attendere l’art. 24 della l. 7 agosto 1997 n. 266 (c. d. "Bersani") - è assorbente

il rilievo che la menzionata legge 109 del 1904 è dichiaratamente comunque applicabile (v. art. 38)

ai soli incarichi affidati dopo la sua "entrata in vigore" - data che, al di là delle problematiche sulla

sua individuazione, è di certo posteriore ai contratti per cui è controversia - potendo detta legge [al

pari del successivo d.lgvo n. 157 del 1995, attuativo della direttiva CEE n. 92/50 in materia di

appalti pubblici di servizi] considerarsi "ricognitiva" (secondo l’espressione della ricorrente)

unicamente della liceità (in effetti, per quanto detto, già non più in discussione) della costituzione di

società di ingegneria.

II.4. Inammissibile risulta, per conseguenza, la censura di cui al quarto motivo, non avendo

interesse la società ad attaccare la ratio "subordinata" di nullità dei contratti in questione [per

violazione delle procedure di conferimento di eventuali appalti di servizi pubblici] una volta che la

declaratoria di quella nullità resta consolidata in relazione alla sua ratio "principale", quale appena

esaminata.

II.6. Non sussiste poi neppure la violazione dell’art. 2041 c.c. denunciata con il sesto mezzo del

ricorso.

Per tal profilo il Collegio arbitrale [cui non è stato posto, e che non si è posto, il problema sull’"an"

della debenza di un indennizzo in correlazione ad attività svolta in violazione di norma di ordine

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pubblico] ha, con riguardo alla ricorrenza dei presupposti concreti dell’indennizzo, esattamente

fatto riferimento a [l’"utilizzo" quale indice de] l’"utilità riconosciuta" dall’amministrazione

committente e al danno subito dalla società, individuato nelle "spese di progettazione, spese pro

quota gravanti sulla organizzazione e nel tempo impiegato per la redazione del progetto e non

impiegato in altre attività"; e, nella carenza di prova di tali spese da parte della interessata, ha non

arbitrariamente (v. artt. 1226, 2056, c.c.) liquidato quindi l’indennizzo in via equitativa, con

valutazione omnicomprensiva e riferita all’attualità.

Per cui correttamente, a sua volta, la Corte di appello ha avallato tale decisione, a prescindere

dalla, pur rilevata, improprietà dei motivi di impugnazione, incentrati su generiche considerazioni di

"non corrispondenza del principio applicato dagli arbitri a quanto elaborato in dottrina", su non

concludenti differenze fra "utilizzo riconosciuto" e "utilità riconosciuta", o su non pertinenti

valutazioni di ingiustizia sostanziale del risultato liquidatorio.

II.7. Inaccoglibile è, infine, anche l’ultimo motivo del ricorso.

Quanto all’ultimo motivo - in disparte il non appropriato riferimento alla "giurisdizione" e la

rilevabilità di una pronuncia implicita di rigetto della eccezione proposta - è sufficiente osservare

che la denunciata omissione non è, comunque, idonea a determinare la cassazione dell’impugnata

sentenza, non comportandone la ingiustizia (e non essendo, quindi, a questo fine casualmente

efficiente), poiché l’obbligazione restitutoria delle somme versate in esecuzione a contratto nullo

non è estranea - come si pretende - alla fonte negoziale, attenendo viceversa proprio alla

disciplina degli effetti delle patologie della fonte medesima (cfr., per riferimenti, Cass. n.

1177/1994).

III) L’odierna impugnazione va, pertanto, integralmente respinta.

Possono comunque compensarsi, tra le parti, le spese di questo giudizio di legittimità.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte respinge il ricorso e compensa le spese.

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Massime di riferimento

Le disposizioni degli art. 13 l. n. 183 del 1976, 1 l. n. 92 del 1979, 11 l. n. 17 del 1981, che

consentono la costituzione di società di ingegneria (nelle due forme c.d. del commercial e del

consulting engineering), hanno parzialmente abrogato il divieto di cui all’art. 2 l. n. 1815 del 1939 di

esercizio in forma anonima di attività ingegneristica per l’ipotesi in cui l’apporto intellettuale

dell’ingegnere sia uno dei vari fattori del più complesso risultato promesso ma non per quella in cui

l’attività oggetto del contratto tra committente e società consista, secondo l’accertamento del

giudice di merito, in un’opera di progettazione interamente rientrante nell’attività professionale

tipica dell’ingegnere e dell’architetto e non in un’attività preparatoria e accessoria rispetto

all’indicata progettazione; conseguentemente è nullo il contratto che affida ad una società

l’esecuzione di incarichi rientranti in pieno nell’ordinaria attività del libero professionista (fattispecie

precedente all’entrata in vigore delle l. n. 109 del 1994 e n. 266 del 1997).

Riferimenti legislativi:

c.c., art. 1418

l. 23-11-1939 n. 1815, art. 2

l. 02-05-1976 n. 183, art. 13

l. 31-03-1979 n. 92, art. 1

l. 12-02-1981 n. 17, art. 11

l. 11-02-1994 n. 109, art. 17

l. 07-08-1997 n. 266