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APOCALISSE T r a c c i a di l e t t u r a Presentazione Il libro dell’Apocalisse prende il titolo dalla prima parola del testo greco «apokàlypsis» che significa “rivelazione”, ossia rimozione del velo che nasconde una cosa. Si propone di svelare le cose che lo scrittore ha visto: «quelle presenti», ossia a lui contemporanee «e quelle che devono accadere in seguito» (1,19). La figura ieratica di Gesù Cristo, entrato nella storia per salvarla, domina su questo scorrere del tempo e il libro non è soltanto rivelazione, ma anche profezia. Infatti, oltre a “rivelare” gli avvenimenti futuri, si propone di confortare e incoraggiare (“profezia”») quanti affrontano le tribolazioni annunciate (1,3 22,7.19). C’è differenza tra il profeta e apocalittico: «Mentre gli antichi profeti comprendevano e trasmettevano oralmente gli oracoli divini, l’autore di un’ apocalisse riceve le sue rivelazioni sotto forma di visioni e le trascrive in un libro» (BJ rivista). Purtroppo le visioni del testo sono piene di simboli di difficile decifrazione e quando si cerca di interpretarle in linguaggio corrente si corre il rischio di falsarle. Dal punto di vista complessivo l’ Apocalisse è un grande affresco della storia del mondo. I vari attori rappresentano le potenze che vi interagiscono per salvare o perdere gli uomini. Il genere apocalittico serve allo scrittore per rievocare visioni derivate dall'Antico Testamento, in particolare da Daniele ed Ezechiele. Fatti limitati e contemporanei «assumono proporzioni universali e cosmiche. Passato, presente e futuro si mescolano tra loro il senso nascosto ma reale degli eventi assume spessore drammatico e simbolico. Nonostante tutto, questo libro è un invito alla fiducia, perché alla fine, dopo difficoltà e lotte, si manifesterà il trionfo di Cristo» (CEI). Lotta fra il Drago e la donna Movimento apocalittico Il movimento apocalittico si sviluppò fra gruppi religiosi ai margini della società. Essi ritenevano che il mondo presente fosse irrimediabilmente corrotto ed aspettavano un intervento decisivo e definitivo di Dio per capovolgere la situazione. Questa irruzione divina era annunciata con immagini catastrofiche. Comportava un totale sterminio dei malvagi, mentre ai giusti sarebbe stata concessa un’era di pace in un mondo rinnovato. Ebbe inizio dopo l’esilio babilonese, ma è nel II secolo a.C. che produsse la maggior mole di scritti. Ne nacque la «letteratura apocalittica» con il suo simbolismo acceso, le scene allegoriche, le allusioni cifrate e quant’altro. Si rivolgeva ad iniziati cui

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APOCALISSET r a c c i a di l e t t u r a

Presentazione Il libro dell’Apocalisse prende il titolo dalla prima parola del testo

greco «apokàlypsis» che significa “rivelazione”, ossia rimozione del velo che nasconde una cosa. Si propone di svelare le cose che lo scrittore ha visto: «quelle presenti», ossia a lui contemporanee «e quelle che devono accadere in seguito» (1,19). La figura ieratica di Gesù Cristo, entrato nella storia per salvarla, domina su questo scorrere del tempo e il libro non è soltanto rivelazione, ma anche profezia. Infatti, oltre a “rivelare” gli avvenimenti futuri, si propone di confortare e incoraggiare (“profezia”») quanti affrontano le tribolazioni annunciate (1,3  22,7.19). C’è differenza tra il profeta e apocalittico: «Mentre gli antichi profeti comprendevano e trasmettevano oralmente gli oracoli divini, l’autore di un’apocalisse riceve le sue rivelazioni sotto forma di visioni e le trascrive in un libro» (BJ rivista). Purtroppo le visioni del testo sono piene di simboli di difficile decifrazione e quando si cerca di interpretarle in linguaggio corrente si corre il rischio di falsarle.

Dal punto di vista complessivo l’Apocalisse è un grande affresco della storia del mondo. I vari attori rappresentano le potenze che vi interagiscono per salvare o perdere gli uomini. Il genere apocalittico serve allo scrittore per rievocare visioni derivate dall'Antico Testamento, in particolare da Daniele ed Ezechiele. Fatti limitati e contemporanei «assumono proporzioni universali e cosmiche. Passato, presente e futuro si mescolano tra loro il senso nascosto ma reale degli eventi assume spessore drammatico e simbolico. Nonostante tutto, questo libro è un invito alla fiducia, perché alla fine, dopo difficoltà e lotte, si manifesterà il trionfo di Cristo» (CEI). Lotta fra il Drago e la donna

Movimento apocalittico Il movimento apocalittico si sviluppò fra gruppi religiosi ai margini

della società. Essi ritenevano che il mondo presente fosse irrimediabilmente corrotto ed aspettavano un intervento decisivo e definitivo di Dio per capovolgere la situazione. Questa irruzione divina era annunciata con immagini catastrofiche. Comportava un totale sterminio dei malvagi, mentre ai giusti sarebbe stata concessa un’era di pace in un mondo rinnovato.

Ebbe inizio dopo l’esilio babilonese, ma è nel II secolo a.C. che produsse la maggior mole di scritti. Ne nacque la «letteratura apocalittica» con il suo simbolismo acceso, le scene allegoriche, le allusioni cifrate e quant’altro. Si rivolgeva ad iniziati cui proponeva di rompere radicalmente con il presente, segnato dal peccato e dall’influsso delle potenze malvagie e attendere il vicino trionfo di Dio e l’esaltazione degli eletti. Lo stesso Gesù nel Vangelo fece uso del genere apocalittico (discorsi escatologici). L’Apocalisse, ultimo libro del Nuovo Testamento ricorse a questo stile per proporre una lettura simbolica sull’evolversi degli eventi storici. Era inoltre necessario adoperare un linguaggio cifrato, perché

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APOCALISSE

il messaggio rimanesse nascosto ai nemici della Chiesa e comprensibile solo ai credenti.

Autore Il filosofo Giustino (100circa-165) nel Dialogo con Trifone 81,4,

scrisse «Presso di noi un uomo di nome Giovanni, uno degli Apostoli di Cristo, ha profetizzato nell’Apocalisse». A quest’antica testimonianza fanno eco sant’Ireneo, Clemente d’Alessandria, Tertulliano e il canone Muratoriano. Parere diverso fu espresso dalle Chiese della Siria, della Cappadocia e della Palestina che ritardarono l’inserimento dell’Apocalisse nel canone dei libri ispirati fino al V secolo, per la difficoltà nell’attribuzione.

L’Apocalisse è un’opera diversa dal Vangelo di Giovanni e concorda con le circostanze storiche del tempo, ossia il predominio di Roma pagana, il culto all’imperatore e le persecuzioni sollevate contro i cristiani. Contiene molte citazioni anticotestamentarie e riferimenti al Nuovo Testamento (più di 400). Soprattutto racconta le visioni e le rivelazioni avute dall’autore.

Lo scrittore indica Patmos (1,9), un’isola del gruppo delle Sporadi nel Mare Egeo, come

luogo della composizione del libro. Là fu deportato Giovanni per la predicazione del vangelo. La data della redazione, secondo la tradizione, risalirebbe agli ultimi anni del regno di Domiziano. Eusebio fa deportare Giovanni a Patmos nel 14° anno dell’impero di Domiziano (81-96) e cioè nel 95. Questa data, almeno come prima stesura dello scritto, è comunemente accettata.

Dell’Apocalisse abbiamo circa 250 manoscritti. Il documento più antico che possediamo è il Papiro 47 (P47 incompleto) della metà del III secolo. Seguono il Codice Vaticano e il Sinaitico del IV secolo. Il Codice Alessandrino e quello di sant’Efrem appartengono al V secolo.

Caratteristiche L’Apocalisse sconcerta per lo stile la lingua greca è usata per

esprimere un pensiero dalla struttura profondamente semitica, che mette a dura prova grammatica e sintassi l’accesa creatività che vi si sviluppa, non tradisce mai l’intento teologico. L’uso dell’Antico Testamento è piuttosto considerevole: i 404 versetti del testo contengono almeno 278 citazioni bibliche. Sulla scia dei Padri l’Apocalisse è vista oggi come una «teologia della storia». Le sue profezie hanno un valore altamente religioso ed evidenziano il protagonismo di Dio sulle vicende umane. Certo, le visioni di Giovanni si riferiscono agli «ultimi tempi» ma questi sono già iniziati con la venuta di Cristo e si protrarranno sino al suo glorioso ritorno.

Destinatari Giovanni si rivolge a sette comunità cristiane dell’Asia Minore

(attuale Turchia). Quindi, i destinatari diretti sono i membri delle comunità giovannee residenti ad Efeso e nelle città vicine il numero simbolico di sette, evocando la totalità, lascia supporre l’intento di una destinazione universale. I cristiani sono perseguitati dall’autorità romana, dalla cultura dominante e dalle comunità giudaiche.

La politica di Roma imponeva il culto dell’imperatore e provocava reazioni sdegnate nell’ambiente cristiano. Domiziano (81-96) fu il primo a farsi chiamare

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«dominus et deus noster», esigendo dai sudditi dell’impero gli onori divini. Una tale pretesa provocò resistenze e inique discriminazioni. Tuttavia, il pericolo maggiore era rappresentato dal paganesimo intellettuale, un misto di dualismo platonico e di religiosità incline all’esoterismo, alla magia e legato al nascente "gnosticismo". Oltre a ciò, la comunità cristiana viveva momenti di difficile intesa con il mondo giudaico, che, proprio in quegli anni, si stava riorganizzando ed accentuava la linea di demarcazione tra la sua identità e quella dei seguaci della nuova Via (Gesù Cristo). Neppure all’interno dei gruppi cristiani mancavano problemi: la confusione e lo sconforto rendevano alcuni di loro facile preda di falsi profeti e di dottrine fuorvianti.

Messaggio Il messaggio dell’Apocalisse, quantunque rivolto ad alcune comunità

particolari, si estende a tutti e all’intero arco della storia umana, dalla venuta di Cristo sino alla fine del mondo. I destini dell’universo sono saldamente nelle mani di Dio, il quale, pur non impedendo tribolazioni e calamità di vario genere per richiamare gli uomini a conversione, porta a compimento il suo disegno di salvezza. Questo traguardo è atteso con incrollabile speranza dai suoi seguaci. L’Agnello ossia Gesù Cristo, che in questa “rivelazione” apre il libro dei sette sigilli per rendere virtualmente leggibile il futuro dell’umanità, sorveglia il divenire storico tanto nello svolgimento quanto nell’approdo finale.

Contenuto L’Apocalisse si apre con un preludio solenne per creare l’atmosfera

adeguata alla portata della «rivelazione» (c 1). Nella prima sezione detta profetica (cc 2-3), il “Vivente” trasmette sette messaggi alle chiese dell'Asia Minore (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia e Laodicea) in cui fa il punto della situazione, sprona alla perseveranza e minaccia castighi. La seconda sezione, quella apocalittica, occupa il resto del Libro. La prima parte (cc 4-11) presenta 24 anziani attorno al trono dell’Altissimo, mentre l’attenzione è calamitata dall’Agnello che spezza i sigilli del libro dov’è elencato il decorso della storia (cc 4-7). All’apertura del settimo sigillo rimbomba lo squillo di sette trombe annuncianti una serie di sciagure (cc 8-11). Nella seconda parte (cc 12-22) scendono in campo gli antagonisti dell’Agnello, sino alla sconfitta totale. Le visioni dei sette segni mostrano la donna in lotta con il Drago, scortato dalle bestie che ne sono l’incarnazione (cc 12-15). Sette angeli versano il contenuto delle loro coppe sull’universo. Subito dopo risuona l’annuncio della caduta di Babilonia-Roma (cc 16-18). Il libro si chiude con la sconfitta di Satana e delle sue incarnazioni, con il giudizio finale e l’apparizione della Gerusalemme celeste (cc 19-22).

Attualità La Chiesa o comunità cristiana, al pari d’ogni essere umano, s’interroga

sul “senso della vita” ed è costantemente protesa verso il traguardo finale, personale e universale. Il credente vive di passaggio sulla terra nell’attesa di una città permanente e ravviva la sua speranza, anche con le parole di questo libro.

1. LA CHIESA IN UN MONDO OSTILE (1,1-11,19)

I cristiani sono mal tollerati nella società in cui vivono, che tende ad emarginarli. Li combatte e li rifiuta per il loro modo di comportarsi e la fede che professano. Il conflitto non cesserà che alla fine del mondo.

1,1. VISIONE INAUGURALE (1,1-20)

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Giovanni testimonia quanto gli è stato rivelato da Cristo. È beato chi legge, ascolta e custodisce le parole «di questa profezia». In ogni evento della storia, il credente scorge la presenza del suo Signore, che regge saldamente i destini degli uomini e del cosmo.

Prologo e indirizzo (1,1-11) Il racconto esordisce con l'esilio inflitto a «Giovanni», «a

causa della parola di Dio», ossia della predicazione del vangelo. Egli fu relegato nella rocciosa isola di Patmos di 26 km quadrati, a circa 100 chilometri a sud-ovest di Efeso. «Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore», dice, e si ritrovò a partecipare ad una solenne liturgia celeste. Il «giorno del Signore» è la «domenica» e sostituisce il culto sabbatico. In quel giorno il veggente fu "rapito in spirito" e gli fu ingiunto di scrivere ciò che vedeva e ascoltava.

Visione del Figlio dell'uomo (1,12-20)

Il primo ad apparire era «simile a un Figlio d’uomo». Vi è sottesa la visione di Daniele (7,13 10,5s) che presenta un personaggio ritenuto comunemente Gesù Cristo, Dio-Uomo. Indossava vesti sacerdotali e regali. «I capelli candidi sono simbolo dell'eternità gli occhi fiammeggianti indicano l'onniscienza e i piedi di bronzo, l'immutabilità. La spada affilata è il potere del giudizio» (CEI). Con

gesto solenne rialzò il discepolo sgomento e tramortito e disse «Io sono il Primo e l'Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi». In queste parole si racchiudono le enunciazioni della fede circa l'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio.

Il Vivente possiede le chiavi del regno della morte e degli inferi (sheòl) soggetti al suo potere. Lo “sheòl”, secondo la concezione dell’Antico Testamento, era il soggiorno sotterraneo dei morti. I «sette candelabri d’oro» simboleggiano le chiese nelle quali vive e continua ad agire il Cristo glorioso. «Teneva nella sua destra sette stelle», cioè gli angeli o meglio le «guide» (i pastori) delle sette chiese su cui regnava.

1,2. LETTERE ALLE SETTE CHIESE (2,1-3,22)Il Cristo risuscitato si rivolge a sette chiese o comunità cristiane dell’Asia

Minore (Turchia) per esortarle a perseverare nella fede. Sette è il numero che significa “totalità”. I messaggi, molto diversi e aderenti alla concretezza del vissuto, hanno valore universale. All’interno delle singole comunità affiorano tensioni; si avverte l'insidia delle prime eresie e la perdita del fervore iniziale. Lo schema delle Lettere è fisso indirizzo, parola del Risorto, esame della situazione, invito ad ascoltare e a convertirsi e promessa finale.

Chiesa di EFESO (2,1-7) Efeso, capitale dell'Asia proconsolare era per grandezza la terza città

dell'impero romano, celebre per il culto di Diana e le arti magiche. Il Vivente comanda a Giovanni di scrivere al capo della comunità d’Efeso. La chiesa efesina era stata fondata da Paolo (At c 19) e qui riceve grandi lodi, ma anche un

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rimprovero: “Hai «abbandonato il tuo primo amore», ossia hai perso l’iniziale slancio di fede e carità.

Le si riconosceva come merito l’aver resistito senza compromessi alle «opere dei Nicolaiti». Secondo Ireneo si fa riferimento all'ellenista Nicola diacono (At 6,5), la cui eresia conduceva a sregolatezze morali; ma niente di tutto ciò è accertato. I membri della setta soggiacevano all’influenza dello “gnosticismo” e si ritenevano detentori di una conoscenza superiore. L'«albero della vita» (Gen 2,9; 3,22.24) simboleggia l’immortalità. L'angelo (o pastore d’ogni Chiesa) è responsabile davanti a Dio della sua comunità ed è parte integrante della stessa.

Chiesa di SMIRNE (2,8-11)                           Smirne, l'attuale Izmir, presunta patria d’Omero a 50

chilometri a nord di Efeso, era una ricca città con porto e commerci. Vi si praticava il culto di Bacco con i relativi “baccanali”. La comunità cristiana benché povera di beni materiali, spiritualmente era ricca. Subì la persecuzione da parte degli Ebrei molto numerosi in quel centro. Sembra che i credenti in Cristo, la cui appartenenza religiosa era assimilata a quella dei Giudei, siano stati da questi rifiutati, denunciati e perfino imprigionati. Dal carcere in quei tempi era difficile uscirne vivi. «Avrete una tribolazione per dieci giorni», vale a dire per un periodo breve. «Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte», cioè da quella eterna o dalla dannazione.

Chiesa di PERGAMO (2,12-17)                        La città di Pergamo, situata a 70 chilometri a nord-

est di Smirne, era famosa per l’invenzione della «pergamena», carta di pelle ovina usata per scrivere libri. Fu la patria di Galeno e devota ad Esculapio. Aveva una rinomata scuola di medicina e una fornita biblioteca. Nel 29 a.C. era stata autorizzata da Augusto ad erigere un tempio in suo onore. Forse per questo motivo il luogo è detto «dove Satana ha il suo trono». Antipa è un martire ignoto di cui non si conosce altro.

Il Vivente biasima la comunità per l'accettazione «dei seguaci della dottrina di Balaam». Nella Scrittura (Nm 31,16) Balaam è il profeta che suggerì al re di Balak di adescare gli Israeliti seducendoli con donne Moabite per indurli all'idolatria, imperniata su riti licenziosi e conviti sacri. Ogni idolatria per la Bibbia è prostituzione. I "Nicolaiti" ritenevano lecito o almeno non dannoso partecipare ai banchetti sacri del paganesimo. «Convèrtiti dunque!» altrimenti combatterò contro di te. Il monito è rivolto a tutti i cristiani inclini al compromesso religioso. «La manna è il cibo degli eletti. La pietruzza è come una tessera di riconoscimento data agli eletti il nome nuovo è il rinnovamento vitale del battesimo» (CEI).

Chiesa di TIATIRA (2,18-29) Tiàtira, l'attuale

Akhisar, ubicata nella valle del Lico a 65 chilometri a sud-est di Pergamo, era dedita ai commerci e all’industria della tintura di tessuti. Lidia, la mercantessa di stoffe incontrata da Paolo a Filippi (At 16,14), era oriunda di questa città. Il Risorto loda la comunità per l’amore, la fede e la costanza, ma ecco il rimprovero. «Tu lasci fare a Gezabele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi,

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insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli». Gezabele, principessa fenicia, fu moglie del re d’Israele Acab e propagatrice del culto a Baal (1 Re 16,31). Qui il suo nome sembra la personificazione di una setta aderente alla dottrina dei Nicolaiti, i quali ritenevano di conoscere “le profondità di Dio” (Rm 11,33) o i suoi misteri; cosa talmente ridicola che l’autore le definisce «profondità di Satana». Il castigo minacciato alla setta parla di sofferenze personali e perdita di seguaci: «Io getterò lei in un letto di dolore e colpirò a morte i suoi figli». Viceversa, Cristo premierà quelli che respingeranno un tal movimento ereticale e li farà partecipi del suo potere regale e della gloria di «stella del mattino».

Chiesa di SARDI (3,1-6)                  A Sardi, città a 50 chilometri a sud-est di Tiàtira, esisteva una

comunità cristiana, ma non sappiamo chi l’abbia fondata. Purtroppo, dopo appena una ventina d’anni di vita, dava già segni di declino. Non era facile seguire Cristo in una città opulenta e dedita al culto di Cibele, dea della fecondità. Sardi fu abbattuta da Tamerlano nel XIII secolo. Oggi conta poche capanne con il nome di Sart.

Il Figlio di Dio si presenta come il Capo supremo della Chiesa e indirizza questo messaggio "Credi di essere viva e invece sei morta". «Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire». Le è richiesto di pentirsi amaramente per aver lasciato spegnere la fiaccola della fede e di tornare ad amare il Signore con la gioia di un tempo. In quella comunità, pur nel decadimento generale, vi sono alcuni «che non hanno macchiato le loro vesti bianche», emblema di grazia e di vittoria sul male. Saranno iscritti nel libro della vita, ossia parteciperanno alla vita nuova e all’eredità divina.

Chiesa di FILADELFIA (3,7-13)                                 Filadelfia dal nome del fondatore, il re Attalo Filadelfo, era

una città della Lidia dedita al commercio e distava circa 45 chilometri da Sardi. Non conosciamo il suo evangelizzatore, ma sappiamo dallo scritto che era combattuta dai Giudei. A merito della piccola comunità cristiana è ricordata "l'osservanza della Parola" con l’invito a perseverare nella fede e a lavorare per il «Regno di Dio». Le è promesso che alcuni Giudei, sino allora avversari si sarebbero convertiti a Cristo. In ogni caso, potrà contare sempre sull’aiuto divino «nell'ora della tentazione. Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona» di vittoria. Il nome nuovo che Cristo si attribuisce è forse Verbo di Dio (19,13).

Chiesa di LAODICEA (3,14-22) Laodicea, sul fiume Lico, era una cittadina ricca ad est di Efeso impegnata nel

commercio e nell’industria tessile. Distava 65 chilometri da Filadelfia. L'Amen o il Verace, ossia Cristo ci introduce nello spaccato di una comunità che si credeva normale e invece era “tiepida” perché mancante di slancio missionario e di autentica testimonianza. All’angelo o guida dice: «Tu non sei né freddo né caldo». Non si può essere paghi di se stessi in uno stato di torpore profondo da provocare il “rigetto” da parte del «Testimone fedele». La comunità s’illudeva di possedere i doni dello Spirito, ma non era così. Forse la sua mediocrità spirituale e la debole adesione a Cristo si doveva al benessere materiale e al degrado morale dell’ambiente. Il rimprovero evidenzia questa «nudità» di meriti, ma è ispirato da un grande amore «Io tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convèrtiti. Ecco: sto alla porta e busso». Resterà con chi gli permetterà di entrare e si siederà a mensa con lui. Infine, «il vincitore lo farò

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sedere con me, sul mio trono»; per dire che non solo possederà la gloria del Risorto, ma parteciperà anche alla sua regalità.

1,3. L’AGNELLO APRE I SETTE SIGILLI (4,1-7,17) L’apertura del Libro dai sette sigilli è preceduta dalla visione del trono di Dio e degli spiriti che lo circondavano. Poi è descritto l’«Agnello» che ha il potere di aprire il Libro. Alla rottura dei primi quattro sigilli appaiono quattro cavalieri che percorrono il mondo, seminando distruzione e morte. All’apertura del quinto sigillo si ha la visione delle anime dei martiri della

fede. Ad essa fa seguito un gran terremoto con una sequenza di sconvolgimenti nel sole e negli astri (sesto sigillo). Un silenzio drammatico accompagna la rimozione dell’ultimo sigillo.

Visione del trono di Dio e dei vegliardi (4,1-5)    Invitato a salire in alto, il veggente si

trovò di fronte al trono di Dio. La scena s’ispira ad Ezechiele (capitoli 1 e 10). Stando alla cosmogonia orientale, il "cielo" o residenza di Dio è concepito come un palazzo che poggia sulla volta celeste o firmamento. Il trono era fasciato da un arcobaleno, simbolo d’alleanza e di pace (Gen 9,13) e un'immensa corte celeste circondava l’Eterno. Vicino a lui sostavano ventiquattro anziani associati al governo del mondo (i seggi), con poteri regali (le corone) e con funzioni sacerdotali (in candide vesti). Sono i rappresentanti del popolo di Dio e ricordano le 12 tribù d’Israele e i 12 Apostoli. Questo “consiglio del trono” compiva atti d’omaggio e prorompeva in inni di lode. «Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni», simboli dell’invisibile presenza dell'Onnipotente.

I quattro spiriti viventi (4,6-11) «Attorno al trono vi erano quattro esseri viventi, pieni d'occhi

davanti e dietro» sono creature angeliche che eseguono gli ordini divini e intervengono nel governo del mondo fisico. Il loro numero ricorda i quattro punti cardinali e quindi la totalità del creato. «Le loro forme (leone, toro, uomo, aquila) rappresentano ciò che nella creazione vi è di più nobile, forte, saggio, agile. Da sant'Ireneo, la tradizione cristiana vi ha visto il simbolismo dei quattro evangelisti» (BJ). «Hanno ciascuno sei ali» per significare la celerità nell’esecuzione degli ordini e cantano giorno e notte: «Santo, santo, santo il Signore Dio». Alla loro lode rispondeva l’adorazione dei “vegliardi”.

Visione dell’Agnello che apre il libro sigillato (5,1-14)      Nella mano destra, l’Onnipotente aveva un libro «sigillato con

sette sigilli». Alla richiesta dell’angelo su chi fosse degno di aprire quel libro, il veggente fu preso da grande sgomento, perché non si trovava nessuno in grado di aprire e dissigillare il libro che racchiudeva il futuro della storia. Un vegliardo lo rincuorò affermando che c'era «il Germoglio di Davide» capace di tanto. Ed ecco apparire in mezzo al trono un «Agnello, in piedi, come immolato», cioè ucciso e con i segni della morte subita, dritto (cioè risorto) e «circondato dai quattro esseri

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viventi e dagli anziani». Il titolo di «Agnello» riferito a Cristo Signore ricorre 28 volte nell'Apocalisse e rievoca l’agnello pasquale sacrificato dagli Ebrei (Es c 12) e quanto il Secondo Isaia dice del «Servo di Jahvé» (53,7). «Aveva sette corna e sette occhi» che significano la pienezza del potere e della conoscenza o dello Spirito. Lui soltanto poteva aprire il libro e toglierne i sigilli.

«Giunse e prese il libro dalla destra di Colui che sedeva sul trono». Era scritto di dentro e di fuori e chiuso da sette sigilli. Dalla corte celeste esplose una trionfale acclamazione di lode e d’adorazione verso di lui. Al culto di Dio si associava quello tributato all'Agnello in una grandiosa liturgia cosmica. Il canto che vi si udì era «un canto nuovo», che esaltava il tempo della venuta del Messia con tutte le novità che essa comportava. Dell'assemblea celebrativa facevano parte gli uomini di tutta la terra rivestiti della dignità sacerdotale. Anche gli Angeli, pur non essendo oggetto della redenzione si unirono al coro di lode proclamando che l’Agnello era degno di ricevere la potenza e la gloria, perché era stato «immolato». Tutti inneggiavano e adoravano, mentre il Padre affidava al Figlio il suo piano segreto e salvifico del futuro della storia.

I quattro cavalieri dell'apocalisse (6,1-8)

I castighi causati dai quattro cavalieri rievocavano le minacce dei profeti contro Israele: bestie selvagge, guerra, carestia e peste (Lv 26,21-26). Più in genere, tali sciagure contrassegnano il decorso della storia, specialmente nei momenti peggiori. A

spronare all’azione i cavalieri furono i “quattro esseri viventi”. Infranto il primo sigillo, «ecco, un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava

aveva un arco». «Si discute sul valore del cavallo bianco: per alcuni sarebbe segno della vittoria che schiaccia i popoli, per altri un rimando a Dio o a Cristo, che pur sempre controllano le sventure della storia» (Ravasi: Nuova…).

All'apertura del secondo sigillo «uscì un altro cavallo, rosso fuoco» allo scopo di «togliere la pace dalla terra». Simboleggia ogni tipo di guerra, di violenza e di persecuzione di cui la spada è l’emblema. La pace è schiacciata dall’urto della prepotenza che tutto travolge, lasciando dietro di sé una funesta scia di sangue.

Tolto il terzo sigillo «ecco, un cavallo nero. Colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano», figura della carestia. Il cavaliere ha una “bilancia” per pesare le scarse derrate di viveri razionati. C’è chi pensa alla grave carestia di cereali sotto Domiziano. Attualmente la fame è ancora la piaga di molti popoli, spesso provocata da un ingiusto potere economico e politico a danno degli indigenti.

Rimosso il quarto sigillo, «ecco, un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano». Il colore del cavallo fa pensare ai cadaveri in decomposizione.

Tuttavia il potere distruttivo dei cavalieri dell'Apocalisse era limitato: potevano sterminare solo un quarto dell’umanità «con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra».

Quinto e sesto sigillo (6,9-17)

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All’apertura del quinto sigillo la scena cambiò completamente. Comparvero le anime dei martiri cristiani sotto l'altare, che chiedevano giustizia. Ebbero tutti una “veste candida”, simbolo di esultanza e di vittoria; furono pregati di pazientare fino a che non sarebbe stato completato il numero di coloro «che dovevano essere uccisi come loro». Il testo parla di «anime», giacché non è ancora avvenuta la risurrezione. Sono, però, alla presenza di Dio in uno stato di felicità e di riposo.

Scomparsa la visione dei martiri, fu aperto il sesto sigillo. «Vi fu un violento terremoto» con l’oscuramento del sole e lo sconvolgimento degli astri, segni caratteristici degli ultimi tempi e immagini abituali per indicare il «giorno del Signore» (Am 8,9; Gl 2.11), ossia l’imminente giudizio divino sugli empi della terra. I re e i potenti del mondo, atterriti dallo sconquasso del cosmo, cercavano rifugio nelle caverne e chiedevano ai monti di cadere sopra di loro, per sottrarsi all’imminente processo dell’Agnello.

Il popolo di Dio (7,1-17) Tra il sesto e il settimo sigillo si ha un’affascinante visione

della Chiesa come anticipo della “Gerusalemme celeste”, che attende fiduciosa il ritorno del Signore. La scena è preceduta da quattro angeli che trattengono i venti per consentire ad un collega di imprimere il marchio divino sulla fronte degli eletti. Poi si fece il computo dei salvati dalle dodici tribù d'Israele (il quadrato di dodici moltiplicato per mille dà 144.000 per dire tantissimi). «Poi apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» vestiti di bianco e con le palme in mano, in segno di gioia e di trionfo. Tutti costoro «vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell'Agnello». La «gran tribolazione» può riferirsi sia alle persecuzioni contro i cristiani o a qualcosa di misterioso accennato nel Libro di Daniele (12,1) o ad altro. Gli eletti, lavati dal sangue dell’Agnello, erano destinati alla felicità celeste dove, il Pastore che li aveva guidati alle fonti della vita, avrebbe asciugato «ogni lacrima dai loro occhi».

1,4. IL SUONO delle SETTE TROMBE (8,1-11,19)Con la rottura del settimo sigillo il libro fu completamente aperto, ma non era

ancora scoccata l’ora della fine. Alle sventure precedenti se ne assommarono altre, in un crescendo di catastrofi e di tormenti.

Settimo sigillo: le prime quattro trombe (8,1-13)

«Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz'ora». Il lungo silenzio è una pausa drammatica d’effetto opprimente per l'attesa acuta e inquietante di quanto doveva accadere. Poi «vidi i sette angeli, che stanno davanti a Dio e a

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loro furono date sette trombe». La tradizione ebraica chiama questi sette spiriti gli "angeli della presenza o i sette arcangeli”. Nell'Antico Testamento il clangore delle trombe accompagnava le teofanie di Dio e gli assalti di guerra. Prima che iniziassero gli squilli, un angelo con l’incensiere d’oro si avvicinò all’altare e offrì le preghiere dei santi, mescolate a molti profumi. Quindi riempì l’incensiere col fuoco dell’altare e lo scagliò sulla terra; ne seguirono tuoni, fulmini e terremoti, segnali di imminenti castighi. Le rovinose sciagure provocate dal suono delle prime quattro trombe sono ispirate alle piaghe d'Egitto (Es cc 7-11); colpiscono gli elementi della natura e lanciano un monito all’umanità perché rinsavisca.

La prima tromba fece scrosciare sulla terra «grandine e fuoco mescolati a sangue». Un terzo della terra e degli alberi furono bruciati. Limitare ad "un terzo" la sciagura inflitta vuol dire che non si è ancora giunti alla totale distruzione.

Al secondo suono di tromba «qualcosa come una gran montagna, tutta infuocata, fu scagliato nel mare». Provocò la morte di un terzo degli animali acquatici. Dall’espressione «fu scagliato», sembra alludere più a un corpo celeste che di una colata lavica in mare.

«Il terzo angelo suonò la tromba: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola». L'acqua di un terzo dei fiumi e delle sorgenti divenne amara come l’assenzio. Forse al posto di una stella si potrebbe pensare ad una cometa o una grande meteorite. L’assenzio era una pianta amara ritenuta velenosa. Quanti bevvero di quell’acqua morirono.

Lo squillo della tromba del quarto angelo fece oscurare di un terzo il sole, la luna e gli astri. La catastrofe si riferisce a quanto previsto dai profeti per la fine dei tempi e alla nona piaga d’Egitto (Es 10,21). Non sappiamo se un tale fenomeno ha carattere permanente o provvisorio. Ad ogni modo, i castighi accennati colpiscono la natura che circonda l’uomo e sono un monito dell’Onnipotente per richiamare alla conversione gli abitanti della terra.

L’annuncio delle sciagure delle tre ultime trombe è demandato a un'aquila anziché all’angelo; essa con strida laceranti predice i "guai" dei restanti flagelli.

La quinta e sesta tromba (9,1,21) Allo squillo della quinta tromba «vidi un astro caduto dal cielo sulla

terra». «L’astro caduto dal cielo è probabilmente un’allusione agli angeli ribelli, detenuti negli inferi» (Ravasi: Nuova...). È forse lo stesso Satana che ricevette la chiave per aprire «il pozzo dell'Abisso», vale a dire il passaggio o cunicolo che collegava la vasta caverna sotterranea alla terra. Era piena di fuoco e popolata da spiriti ribelli che aspettavano l'ultimo giudizio. L’Abisso, infatti, è un luogo temporaneo di tormenti fino a quando sarà gettato nello «stagno di fuoco e di zolfo» (20,10). Le miriadi di cavallette che uscirono dal pozzo facevano parte del mondo demoniaco e tormentavano «gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte», per cinque mesi. Le guidava "l'Angelo dell'Abisso". Lo strazio da esse provocato era talmente insopportabile che si bramava «morire, ma la morte fuggirà da loro». Le cavallette rassomigliavano a cavalli di guerra con teste umane, denti di leone e con aculei di scorpione nelle code. Le loro punture velenose provocavano dolori indicibili.

«Il sesto angelo suonò la tromba». Mentre l’angelo si accingeva all’opera, qualcuno da presso l’altare gli disse di sciogliere «i quattro angeli incatenati sul grande fiume Eufràte». Erano gli “angeli della vendetta” tenuti a freno per intervenire al momento giusto voluto da Dio. Allo squillo della tromba, un esercito sterminato di cavalieri (duecento milioni) uscì dal fiume ed invasero la terra al pari degli inarrestabili Parti. Dalla bocca dei loro cavalli infernali uscivano «fuoco, fumo

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e zolfo» cioè bruciore ed esalazioni asfissianti che uccisero un terzo dell'umanità. Le loro code erano "simili a serpenti" con testa per mordere e martoriare. La visione nel suo insieme fa pensare all’uso di strumenti bellici terrificanti come le moderne armi atomiche e chimiche già in grado di sterminare parte dell’umanità.

Nel progetto di Dio, questi castighi dovevano servire alla conversione degli uomini, ma così non fu. Si continuò a prestar culto agli idoli e ai demoni e non diminuì il numero degli omicidi e d’ogni altra depravazione.

L'angelo del libretto (10,1-11) Nell’attesa del settimo squillo, il veggente introduce due visioni che

fanno da intermezzo fra il secondo e l’ultimo “guai” dell’aquila. Hanno lo scopo di rassicurare i credenti sul trionfo del “Regno di Dio”, ma solo dopo una lotta terribile con Satana che userà tutti i mezzi per impedirlo. Apparve un angelo di grado elevato e fulgente, forse Gabriele per annunciare ormai vicina la salvezza. «Nella mano teneva un piccolo libro aperto». Per la piccolezza, il rotolo è aperto e leggibile. «Simboleggia il secondo ciclo di visioni, in cui sono chiaramente definiti i personaggi del dramma escatologico, la natura del conflitto degli ultimi giorni e la sua soluzione» (Vigini). Evidente è il riferimento ad Ezechiele (2,8-3,3).

L'angelo, poggiando un piede sul mare e l'altro sulla terra a conferma dell'universalità del messaggio, emise un urlo terrificante cui risposero sette tuoni. Essi simboleggiavano la voce di Dio (vedi Salmo 29,3-9) che annunciava il giudizio e la fine del mondo (però il tutto doveva rimanere segreto). Lo stesso angelo giurò per il cielo e la terra che «non vi sarà più tempo!». Al suono della settima tromba, ossia dal capitolo 12 in poi, si sarebbero adempiuti gli eventi predetti dai Profeti e predicati dagli Apostoli. Poi il veggente fu invitato a prendere il libretto dalle mani dell’angelo e a divorarlo. Doveva nutrirsi di quanto vi era contenuto e assimilarlo per annunciare quanto v’era scritto. Lo sentì "dolce" al palato perché messaggio di vittoria del popolo di Dio, "amaro nelle viscere" perché vaticinio di sofferenza.

I due testimoni (11,1-14) A Giovanni fu data una canna per misurare «il tempio di Dio e

l'altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando», una metafora per indicare la comunità dei credenti che il Signore non abbandona nella tribolazione e nel martirio, mentre il “tempio” simboleggia la stessa Chiesa. «Ma l’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte e non lo misurare» perché è in potere dei pagani che lo calpesteranno per 42 mesi. L’espressione significa che la durata dell’oppressione dei malvagi sarà breve. I quarantadue mesi corrispondono a 1260 giorni (11,3) o a tre anni e mezzo (12,14) o a «un tempo (un anno), due tempi (due anni), e la metà di un tempo (mezz’anno)» di Daniele (12,7 ). La cifra è calcolata sulla persecuzione d’Antioco IV Epifane re di Siria che combatté la religione ebraica dal giugno 168 al dicembre 165 a.C., presa ad emblema di ogni persecuzione successiva a scadenza limitata.

L’interpretazione dell’identità dei «due testimoni» è un vero rompicapo. Essi fanno pensare a Giosuè e a Zorobabele (Zc 4,2-14). «Nel giudaismo si amava identificare con questi personaggi i protagonisti dell’era

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messianica, nei quali convergeva tutta la storia. Infatti, essi sono descritti con le stesse caratteristiche di Mosè e di Elia, quali profeti e legislatori. Nell’Apocalisse probabilmente sono figura della Chiesa, la testimone dell’antica profezia, divenuta nuova in Cristo, e della risurrezione di Gesù. Il numero “due” si spiega perché la testimonianza doveva essere resa da due o tre testimoni (Dt 19,15). C’è forse, però, un’allusione a Pietro e Paolo, vittime della persecuzione» (Ravasi: Nuova...). Sono figura di tutti i «testimoni» che lottano e muoiono per il loro Signore Gesù, detti anche «olivi» perché alimentati dalla Scrittura e, nel loro intimo, circola l’olio dello Spirito Santo, mediante il quale fanno grandi prodigi fino al termine della missione Chiesa. Poi «la bestia che sale dall’abisso li vincerà e li ucciderà». Messi a morte dalla potenza demoniaca e dalla malvagità umana, i loro cadaveri resteranno insepolti nella “grande città” a scherno dei passanti. Si parla di Roma, nonostante il riferimento esplicito sia a Gerusalemme là dove fu crocifisso il Signore. In tal caso Gerusalemme emulerebbe l’empietà della capitale dell’idolatria.

In seguito, tra lo stupore di tutti, i testimoni martirizzati si leveranno in piedi sotto gli sguardi dei loro nemici. Alla risurrezione tenne dietro l’ascensione al cielo, mentre un gran terremoto sterminava settemila (molte) persone della città dov’erano rimasti esposti, e «i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo».

La settima tromba (11,15-19) Siamo arrivati al terzo “guai”. «Il settimo angelo suonò la tromba e nel

cielo echeggiarono voci potenti» che inneggiavano a Dio e al suo Cristo, come Signore dell’ universo. Questi canti di esultanza intendono introdurre al giudizio finale. Prima però è necessario glorificare l’Onnipotente che ha ripreso il dominio del mondo, cioè la regalità effettiva su di esso, un tempo usurpata da Satana. I ventiquattro vegliardi si prostrarono e fecero risuonare voci di lode, annunciando imminente l’ora del giudizio. «L'arca della sua alleanza» che apparve nel tempio del cielo significava la definitiva presenza di Dio in mezzo al suo popolo glorificato.

 2. PROTAGONISTI della lotta e GIUDIZIO finale (12,1-22,15) Entrano in campo i protagonisti di questa singolare battaglia combattuta per

il “Regno dei cieli” dai membri della Chiesa contro il Drago (Satana) e le bestie che ne incarnano il potere. Gli angeli delle sette coppe riversano nuovi e più atroci castighi sull’umanità. Infine, scocca l’ora del giudizio che condanna per sempre le forze del Male ed esalta la Chiesa perseguitata. Nella nuova creazione operata dal Signore, la “Gerusalemme celeste” sarà la patria dei redenti.

2,1. LA DONNA insidiata dal DRAGO (12,1-14,20)La donna è figura della Chiesa, ossia del popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo

Testamento. Nel descrivere la Chiesa, «forse Giovanni pensa anche a Maria, nuova Eva, la figlia di Sion, che ha dato vita al Messia» (BJ). Il Dragone infernale lotta contro Dio e contro la Chiesa di Cristo, associandosi due potenze terrene chiamate “Bestie”; esse rappresentano l’idolatria politica (impero romano) e quella religiosa (il falso profeta).

La donna e le bestie apocalittiche (12,1-18)

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La donna-Chiesa è «vestita di sole» perché in possesso della verità illuminante della fede. Ha una corona di «dodici stelle» che rappresentano le tribù d’Israele e i dodici Apostoli. «Gridava per le doglie e il travaglio del parto». Ed ecco apparire «un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi». Il “rosso” indicava la sua spietata malvagità e i “sette diademi” lo strapotere che aveva sul mondo. La sua coda trascinò in terra un terzo delle “stelle”. Se per “stelle” s’intendono gli “angeli” ribelli (Gd v 6), significa che la sua potenza era davvero prodigiosa. Voleva divorare il figlio della donna «destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro»; ossia voleva impedire al Messia di compiere l’opera di salvezza, ma gli fu sottratto e rapito in cielo. «La donna fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per 1260 giorni»

cioè un periodo limitato equivalente a 42 mesi o tre anni e mezzo. A questo punto, il veggente si sofferma a spiegare l'origine e l’attività di Satana.

«Scoppiò una guerra nel cielo Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» che fu sconfitto e scacciato definitivamente dal cielo. Non sembra che Giovanni intenda raccontarci la rivolta primordiale degli angeli che divennero ribelli o “demoni”. È più plausibile che voglia esaltare la vittoria del Messia stabilendo una relazione con il trionfo di Michele. In altre parole, l’annientamento del potere di Satana è provocato dalla vita, morte e risurrezione di Cristo, venuto a distruggere il regno del Male e instaurare quello di Dio. Satana non è più l’accusatore implacabile del genere umano, ma uno sconfitto. Perciò gli eletti del cielo erompono in grida di lode: «Ora si è compiuta la salvezza… Esultate o cieli e voi che abitate in essi». Dal trionfo di Cristo deriva quello dei cristiani, che fedeli a lui affrontano il martirio disprezzando «la vita fino a morire».

Guai però alla terra. Il diavolo caduto su di essa è pieno di furore e, «sapendo che gli resta poco tempo», perseguita con rabbia la donna-Chiesa. Ma il Signore le diede «due ali della grande aquila» perché riparasse nel deserto, luogo di rifugio. Tuttavia, il “Drago” non si arrese e scagliò contro la donna «come un fiume d'acqua» per travolgerla. C’è chi attribuisce ciò all'impero romano, emblema di tutte le persecuzioni future. Risultato vano il tentativo di "divorare" il figlio e trascinare via la donna, la rabbia di Satana si accanì contro «il resto della sua discendenza», ossia contro ogni battezzato. «E si appostò sulla spiaggia del mare».

La bestia che viene dal mare (13,1-10)

«Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste». Ricevette dal

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Drago i suoi stessi poteri e ne diventò una perfetta clonazione. «Sette teste e dieci corna» simboleggiano il dominio sul mondo. La «bestia» era quindi un'incarnazione del Drago che in Daniele (7,7) rappresentava Antioco IV Epìfane; qui forse impersona l’ imperatore Domiziano che pretendeva onori divini e si era fatto costruire in tempio grandioso ad Efeso. È più che certo che il Drago sa mimetizzarsi, in ogni epoca storica, nelle forze che combattono e si oppongono a Dio. Il suo “identikit” presenta alcuni tratti specifici arroganza, bestemmia, volontà di sostituirsi a Dio e, come lui, esigere l’adorazione e la sudditanza assoluta.

«Una delle teste sembrò colpita a morte», ma guarì subito; probabile riferimento a qualche crisi all’interno della struttura. Ripresasi dal momentaneo malore, la bestia fu adorata dagli uomini e accolta con fanatica ammirazione. Cominciò a bestemmiare e uccidere quanti si opponevano. Siamo al tempo dell'imperatore Domiziano, che si attribuì il titolo di "Signore e Dio" ed esigeva un culto divino alla colossale statua erettagli nel tempio d’Efeso. La durata di quella persecuzione è di tre anni e mezzo, ossia un periodo limitato.

La bestia che giunge dalla terraferma: 13,11-18 La seconda bestia arrivò dalla terraferma ed assomigliava a un «agnello»;

aveva «due corna, simili a quelle di un agnello, ma parlava come un drago». Per l’autore dell’Apocalisse si tratta della religione al servizio del potere politico e

rappresenta l’influenza religiosa manipolata da falsi profeti (Mt 24,5.24) o la cultura ideologica intollerante. Nonostante l’apparenza d’agnello, è piena di faziosità e di violenza e mette a morte quanti non adorano la statua della prima bestia. «Seduce gli abitanti della terra» con strepitosi prodigi. Tutti i cittadini dovevano ricevere «un marchio sulla mano destra o sulla fronte» che li distingueva da coloro che si rifiutavano di prestare il culto idolatrino, mettendo così a repentaglio beni e vita.

Del numero ebraico 666 sono state molte interpretazioni, finora ancora allo stato di ipotesi. «Seicentosessantasei: è, probabilmente la somma del valore numerico delle singole lettere ebraiche corrispondenti al nome di NERONE CESARE, il primo persecutore dei cristiani e figura

dell'anticristo per la sua crudeltà e ipocrisia» (Nuova CEI). L'Agnello e il suo corteo vittorioso: 14,1-5. In antitesi con i seguaci del “Drago”, è presentata

un’anticipazione del corteo di Cristo. Il numero di 144.000 indica la totalità degli eletti (vedi anche 7, 3-9). «Recavano scritto sulla fronte» il nome di Cristo e del Padre, in contrapposizione al marchio della bestia. «Essi cantano come un canto nuovo». Come fu "nuovo" il canto di Mosè, liberatore degli Ebrei dall'Egitto, a maggior ragione lo è quello degli eletti che celebrano la perfetta e definitiva liberazione del popolo di Dio. Essi sono vergini, metafora per dire che hanno rigettato i culti idolatrici che la Bibbia chiama «prostituzione». «Seguono l'Agnello dovunque vada» fedeli a Cristo nell'umiliazione e nella sofferenza, fanno parte ora della sua gloria.

Tre angeli annunciano il tempo del giudizio (14,6-13)

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Appena descritta la sorte beata dei seguaci di Cristo, un angelo volteggiando come un'aquila promulgò la gran notizia «È giunta l'ora del giudizio». Allo stupore di un così terribile presagio, un secondo angelo incalzò «È caduta, è caduta, Babilonia la grande». Babilonia ossia Roma, capitale dell'impero, stava per subire l'ira del giudizio di Dio a causa dell’idolatria e del culto all'imperatore. La sua rovina sarà oggetto di un lungo lamento funebre (18,1-19,4). Ora è la volta del terzo angelo che confermò la punizione eterna nello stagno di fuoco e zolfo per quanti portavano in fronte il "marchio della bestia". Saranno castigati «con fuoco e zolfo», immagini tratte dalla distruzione di Sodoma e Gomorra, per significare la rovina eterna.

Sono, invece «beati i morti che muoiono nel Signore»; le loro opere li seguiranno. "Morire nel Signore" vuol dire morire nella fede in lui e nel compimento della sua volontà. Contiene anche la soddisfazione di chi ha terminato la sua giornata combattendo per testimoniare Cristo. In questa beatitudine sono compresi non soltanto i martiri, ma ogni membro della Chiesa.

«È giunta l'ora di mietere» (14,14-20) Su una nuvola bianca apparve uno «simile ad un Figlio

d’uomo», ossia Gesù Cristo giudice supremo della storia. Era cinto della corona della vittoria ed aveva una falce in mano per indicare l’imminente giudizio di cui gli angeli sarebbero stati i ministri. Un angelo a gran voce lo esortò a mietere «perché la messe della terra è matura». Può significare che l’iniquità ha raggiunto limiti non più tollerabili dalla pazienza divina.

Ad un altro angelo fu imposto di vendemmiare, ed egli «vendemmiò la vigna della terra e rovesciò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio». La vigna qui simboleggia la terra dominata dal male; i grappoli sono i peccatori che provocano l’intervento della giustizia dell’Onnipotente. Le immagini di «mietitura» e di «vendemmia» sono derivate dall’ Antico Testamento per descrivere il «giudizio» finale.

2,2. LE SETTE COPPE (15,1-16,21)Siamo ormai alle soglie dell'ultimo giudizio. Le sette coppe piene di flagelli

spargeranno sull'umanità i castighi finali per l’eliminazione d’ogni antagonista di Dio. Le piaghe provocate dalle "sette coppe" richiamano quelle già annunciate dalle “sette trombe" (cc 8-11), tanto da far ritenere che ne siano la ripetizione, anche se d’intensità ed estensione maggiore.

Il canto di Mosè e dell'Agnello (15,1-5) «Vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che

avevano sette flagelli; gli ultimi» per completare il ciclo della storia. I castighi sarebbero ricaduti su chi induriva il cuore alla voce di Dio. Ricordiamo che il numero sette significa completezza o perfezione.

Ancora una volta, prima dell’ultima operazione, riecheggiò un canto vittorioso sul Drago e le sue bestie. La visione celebrativa associava Mosè (Es c 15), vincitore sul faraone che opprimeva Israele a Cristo Gesù. Come un nuovo Mosè, l’Agnello conduceva le schiere dei credenti insidiati dal Drago al successo finale e glorificava la potenza trionfante di Dio sulle nazioni e sul Male.

I flagelli delle sette coppe (15,6-16-21)

La “Tenda della testimonianza” (Es 25,9), era servita di modello al tempio

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di Gerusalemme, copiato da quello del cielo. Di là «uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli». Pertanto l’incarico di far piovere sulla terra gli ultimi castighi è affidato a sette angeli provenienti dal “santuario celeste”, vestiti di bianco. A ciascuno fu consegnata una coppa d'oro “colma dell'ira di Dio” con l’ingiunzione di riversarla sulla terra. Le piaghe rievocano quelle d’Egitto e vanno interpretate metaforicamente. I castighi in corso si differenziano da quelli delle sette trombe perché colpiscono la totalità del mondo e non soltanto un terzo.

Il liquido della prima coppa punì gli adoratori della bestia, producendo «una piaga cattiva e maligna» (vedi Es 9,8-11). Come si può constatare, le piaghe d'Egitto fanno da sottofondo al testo.

La seconda coppa fu riversata sul mare. Trasformò l'acqua in sangue e fece perire gli esseri che l'abitavano. Se la prima “piaga d’Egitto” danneggiò solamente il Nilo (Es 7,17-24) e la sciagura della seconda tromba distrusse un terzo degli esseri viventi (8,8s); ora il liquido della seconda coppa trasformò il mare in sangue e produsse la morte di tutti i viventi che vi abitavano.

Allo spargimento della terza coppa, le acque delle sorgenti e dei fiumi «diventarono sangue». Una cosa simile era capitata allo squillo della terza tromba (8,10) con la trasformazione dell’acqua dolce in salata e amara come l’assenzio. Secondo l'angelo delle acque tutto ciò era giusto, perché era stato versato «il sangue di santi e di profeti».

Il quarto angelo rovesciò la sua coppa sul sole, il cui «terribile calore» cominciò ad ustionare gli uomini. Questo flagello si distingue da quello prodotto dalla quarta tromba che fece oscurare il sole e la luna (8,12). Gli uomini, «invece di pentirsi per rendergli gloria», si dettero a bestemmiare Dio ritenendolo causa delle loro calamità.

È la volta del quinto angelo che «versò la sua coppa sul trono della bestia», simbolo della potenza romana e incarnazione del Drago o Satana «e il suo regno fu avvolto dalle tenebre». Ricorda l’oscurità provocata dalla quinta tromba (9,1s) e la nona piaga d’Egitto (Es 10,21-23). Le “tenebre” potrebbero riferirsi sia al campo morale sia al mondo fisico. Gli uomini reagirono alle tenebre e al dolore come in precedenza, ribellandosi a Dio.

L’angelo versò la sesta coppa «sopra il grande fiume Eufrate e le sue acque furono prosciugate per preparare il passaggio ai re dell’oriente». Il periodo della secca favoriva l'invasione dei guerrieri Parti contro l'impero romano. Con la sesta tromba (9,16) erano già usciti dall'Eufrate milioni di cavalieri, causando la morte di una terza parte degli uomini. Nell’imminenza della fase finale, Giovanni vede uscire dalle bocche della trinità satanica (il Drago, la bestia e il falso profeta) «tre spiriti impuri, simili a rane». Il “falso profeta” qui nominato per la prima volta, s’identifica con la «bestia a due corna» (13,11). Era opinione corrente che le “rane”, immonde e schifose, fossero spiriti al servizio del Male. Esse radunarono tutti i re della terra «per la guerra del gran giorno di Dio, l’Onnipotente». Usarono ogni mezzo, anche i miracoli per convincerli a sferrare l’offensiva decisiva contro Dio e il suo Cristo. Lo scontro definitivo, cui parteciperà Cristo in persona, è situato simbolicamente in Armaghedòn che significa «la montagna di Meghiddo». Meghiddo o “luogo di adunata” era una città nella pianura di Izreel alle falde della catena del Carmelo. Vi si combatterono famose ed infauste battaglie (Giosia vi fu ucciso da Necao: 2 Re 23,29s). Ma quest’ultimo conflitto avrebbe causato lo sterminio definitivo delle forze del male (vedi 19,11-21).

Al versamento della settima coppa, dal tempio «uscì una voce potente che diceva “È cosa fatta». Tutto è pronto per il giudizio stabilito da Dio. I segni dell'imminente catastrofe di Roma (Babilonia) e dell'impero romano, assumono

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contorni sinistri e drammatici. «Ne seguirono folgori, voci e tuoni e un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale». I fenomeni indicati sono connessi all'apertura del sesto sigillo (6, 12). Si fa perfino menzione di una grandinata i cui chicchi erano «pesanti come talenti». Gli uomini, sebbene colpiti da una serie tanto funesta di sciagure, non si pentirono e continuarono a contrapporsi a Dio e a bestemmiare.

2,3. IL GIUDIZIO FINALE (17,1-20,15)La relazione dei vari giudizi che Dio sta per emettere è preceduta dalla

descrizione e dalla condanna della “grande prostituta”. Le forze ostili a Dio sono punite in ordine inverso alla loro comparsa sulla scena Babilonia, le due bestie ed infine il Drago.Castigo di Babilonia-Roma (17,1-18) La "grande prostituta" che l'angelo mostra al veggente è Roma «che siede presso le grandi acque». È detta «prostituta» perché ha indotto molti popoli

all'idolatria e all’adorazione dell'imperatore, cose che si oppongono al vero culto di Dio. La donna sedeva «sopra una bestia scarlatta». La «bestia», come si è detto, personificava l’imperatore e la donna come lui vestiva di rosso, segno di lusso e di potenza. «Della bestia cavalcata dalla prostituta si racconta la morte, ma anche una sua strana risurrezione: c’è chi vede in questa notizia un riferimento a Nerone che, secondo una leggenda popolare, sarebbe tornato in vita per continuare la sua opera maligna» (Ravasi: Nuova…). «Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli orrori della terra». Babilonia cioè «confusione» (vedi torre di Babele: Gen 11,4-9), era soprattutto la città dove gli Ebrei, strappati alla patria e al culto di Jahvé, furono esiliati. In Giovanni assurge a figura dell’idolatria e del vizio. Roma imperiale ne era la copia perfetta ed in più simboleggiava ogni istituzione futura dedita alla «prostituzione» o «idolatria», ossia alla vendita di se stessi a false divinità. Era «ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù».

Vi è sottesa la memoria della persecuzione di Nerone (64) e quella di Domiziano che infuriava al tempo di Giovanni. «Le sette teste sono i sette monti» o colli di Roma. Anche «i re sono sette». «I primi cinque sono gli imperatori Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Ad essi fanno seguito Vespasiano e Tito. L'ottavo impero, reincarnazione di Nerone per la crudeltà, è quello di Domiziano» (CEI). «Le dieci corna che hai visto sono i dieci re», vassalli di Roma e complici delle sue nefandezze e della guerra contro l'Agnello, ottenendo un successo effimero. A loro volta: «Le dieci corna e la bestia odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco». Roma sarà distrutta per mano di quei popoli vassalli (barbari) che la conquisteranno e sarà abbandonata dagli imperatori. Quell’impero che sta schiacciando i cristiani, presto crollerà.

Lamento sulla caduta di Babilonia (18,1-24)

L'Apocalisse, raccogliendo brani dall'Antico Testamento contro Babilonia (vedi Is 21 47 Ger 50 51

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Ez 26-28 43), fa intervenire un coro che intona un triste lamento per la fine della grande città, data come avvenuta tanto è ineluttabile. «Roma  è il simbolo di tutti i peccati e i vizi delle antiche città. Roma è l’incarnazione del concetto giovanneo di “mondo”, che rivendica una struttura e una vitalità indipendenti da Dio. Ma la sventura si abbatterà su di essa “in un attimo” (il ritornello nei vv. 10.17.19), perché il giudizio efficace di Dio la colpirà come un fulmine» (A. Schena).

«È caduta, è caduta Babilonia la grande», grida un angelo splendente che scende dal cielo. La caduta, dovuta alla sua immoralità e alla persecuzione contro la Chiesa, coinvolge «i re della terra che si sono prostituiti con essa» e i mercanti che si sono arricchiti accettandone il potere e l’idolatria.

Un'altra voce dal cielo, quasi fuoricampo, invita i cristiani ad uscire dalla città «Uscite, popolo mio, da essa». Non avevano nulla da spartire con le azioni malvagie che vi si commettevano e perciò dovevano evitarne il castigo. La fuga tuttavia va intesa più come allontanamento dai peccati che dal territorio cittadino. San Paolo insegna a non partecipare alle opere delle tenebre (2Cor 6,17).

Anche i re vassalli, complici delle idolatrie di Roma, cioè del culto a divinità pagane e allo stesso imperatore, tenendosi a distanza intonano un mesto lamento «Guai, guai, città immensa, Babilonia, città possente in un'ora sola è giunta la tua condanna». Al pianto si uniscono i mercanti che vedono svanire la fonte dei loro lauti guadagni. Infine, i comandanti di navi con le loro ciurme, che costituivano le arterie di quel lucroso commercio, vedendola bruciare, esclamano «Quale città fu mai simile all'immensa città».

Da ultimo interviene un angelo possente, cui erano affidate le missioni più importanti. Egli scaglia nel mare una gran pietra per significare l'inabissamento di Roma-Babilonia, perché «in essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi».

Canti di trionfo in cielo (19,1-10) Le voci d’esultanza del cielo sono l'esatto contrario del precedente

lamento di cordoglio per la caduta di Babilonia. «Alleluia Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, perché veri e giusti sono i suoi giudizi». Per la prima volta, in uno scritto cristiano, risuona l'Alleluia ossia "Lode a Jahvé". L’invocazione frequente nell’Antico Testamento faceva presumibilmente già parte della liturgia ecclesiale. Il giudizio divino è detto “giusto”, perché la “grande città” corrompeva la terra con l’idolatria e perseguitava gli appartenenti a Cristo. I 24 vegliardi e gli esseri viventi si prostrano in adorazione dicendo: «Amen, Alleluia», ossia sta bene così.

All’invito di un angelo rispose una folla sterminata con grida vigorose: “Dio ha preso possesso del suo Regno”, ossia è entrato nel pieno uso del suo potere, esercitando non solamente il governo ma anche il giudizio del mondo. «Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta». Le nozze significano l'alleanza e la comunione tra Dio e il suo popolo. La

Chiesa purificata dal lavacro battesimale e riscattata dal sangue di Cristo è pronta e indossa le bianche vesti della salvezza e delle opere dei santi. Un angelo disse al veggente: «Scrivi: “Beati gli invitati alle nozze dell’Agnello!». Giovanni si prostrò

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davanti all’angelo che proclamava il messaggio, ma fu sgridato: “Solo Dio si deve adorare”.

La battaglia finale (19,11-21) Poi apparve nel cielo «un cavallo bianco, colui che lo cavalcava si

chiama “Fedele” e “Veritiero” perché, fedele alle promesse, veniva a combattere e giudicare gli oppositori di Dio «con giustizia». Aveva occhi scintillanti, molti diademi ed era avvolto in un mantello intriso del sangue dei nemici. Con la spada affilata della sua bocca colpiva le genti, «Il suo nome è Verbo di Dio», un nome che è al centro di tutta l’Apocalisse. Difatti è lui, Verbo o Parola di Dio ad aprire i sette sigilli che svelano il divenire della storia, ad ammonire gli uomini con i castighi delle sette trombe e delle sette coppe. Lo seguivano dei cavalieri su destrieri bianchi e con vesti candide; sono forse i martiri. «Sul mantello e sul femore porta scritto un nome: Re dei re e Signore dei signori» ed era pronto alla battaglia. Lo scontro finale ebbe inizio nella valle dell’Armaghedòn e si concluse con la folgorante vittoria di Cristo e lo sterminio delle nazioni pagane.

La scena del trionfo è scandita da tre «vidi» in rapida successione: «Vidi un cavallo bianco» segno di conquista, cavalcato da Cristo il «Fedele e Veritiero». «Vidi poi un angelo» che già prima della battaglia chiamava gli uccelli a far banchetto delle carni dei vinti: «Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re e di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi». Ed infine, ecco avanzare l’esercito per l’ultima battaglia: «Vidi la bestia e i re della terra con i loro eserciti radunati per muovere guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito». Nel corso del combattimento la bestia e il falso profeta, strateghi del campo nemico, furono catturati e «gettati vivi nello stagno di fuoco». La bestia, incarnazione del Drago o del potere politico e il suo profeta, ossia l’influenza religiosa e culturale che costringeva all’obbedienza della bestia, furono vinti e scaraventati nel luogo della punizione e della condanna eterna. «Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni».

Il «Millenarismo» (20,1-6) Dopo la punizione della bestia che si opponeva a Cristo e del suo

falso profeta, ora è la volta di Satana, ossia del mandante ad essere incatenato per mille anni dall’angelo. Il significato di questi mille anni fa discutere; infatti, dal testo non appare chiaro ciò che Giovanni voglia dire, essendo il suo un linguaggio metaforico o di stile apocalittico. Il piccolo brano è tuttora al centro di una riflessione quasi morbosa da parte di letterati, cineasti e movimenti religiosi. I Testimoni di Geova e un nutrito numero di riformati, la New Age e perfino un 10% di cattolici danno al testo un’interpretazione letterale, cioè di un effettivo regno del Signore sulla terra insieme ad alcuni giusti (martiri) risuscitati. Nei primi secoli alcuni Padri della Chiesa aderirono alla spiegazione letterale, ma da sant’Agostino (354-430) in poi le cose cambiarono. Lui, un tempo incline alla tesi testuale, scrisse che bisognava dare a questi versetti un senso spirituale e intendere per «prima risurrezione» la remissione dei peccati e per i “mille anni di regno” la Chiesa che si espande sulla terra per costruire il «Regno di Dio» fino al ritorno di Cristo (vedi De civitate Dei). La frase: «Beati quelli che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte», verrebbe a significare: “Beati quelli che si convertono alla fede e vivono il proprio battesimo o grazia». Partecipando a questa “prima risurrezione”; sono certi di non essere più in potere della seconda morte o della morte eterna.

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Il millenarismo, inteso come regno beato di Cristo sulla terra fu condannato dal concilio di Efeso nel 431, perché si opponeva a tutto ciò che sull’argomento era scritto nel Nuovo Testamento. Basti ricordare le parole di Gesù a Pilato: «Il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). Pertanto, i “mille anni” si riferiscono all'intera durata della vita della Chiesa nel mondo. Significano il lungo periodo di tempo che va dall'incatenamento di Satana (con la passione e risurrezione di Cristo) alla fine del mondo. I giusti o l’intero popolo dei salvati parteciperà a questo «regno» vivendo in Cristo. Verso la fine dei tempi, Satana liberato si porrà a capo dell’ultima offensiva prima della sconfitta totale. In sintesi: «Secondo la Chiesa cattolica i mille anni non sono da prendersi alla lettera ed essi intercorrono nel periodo tra la prima e la seconda venuta di Cristo, durante il quale Satana è incatenato e il Regno di Dio è stabilito sulla terra nella Chiesa e mediante l'opera della Chiesa. In questo periodo le anime dei morti, sia che abbiano subito il martirio o siano morte nella perseveranza della loro fede, vanno in cielo, ove regnano con Cristo (questa sarebbe la prima risurrezione, ma spirituale). Alla seconda venuta di Cristo seguirà la risurrezione corporale (seconda risurrezione) di tutti i morti, buoni e cattivi, cui terrà dietro il giudizio universale, dove i cattivi saranno condannati alla punizione eterna (morte seconda, mentre la prima morte sarebbe quella fisica); i buoni, invece, andranno a godere il premio in cielo» (Minestroni).

La sconfitta di Satana e il Giudizio (20,7-15) Prima dello scontro finale che chiuderà la storia, «Satana verrà liberato

dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni». Riuscirà a scagliare contro Dio tutti i popoli della terra, simboleggiati da Gog e Magòg, Og è il mitico capo della regione sconosciuta di Magog, (il temibile guerriero previsto da Ezechiele cc 38-39) per combattere, alla fine dei tempi, il popolo di Dio. È quindi la personificazione di tutti i nemici irriducibili della Chiesa di Cristo. Stavolta Satana crede di avere finalmente in pugno l’inerme popolo dei credenti che affronta con un esercito sterminato, ma Dio intervenne con un fuoco dal cielo e distrusse l’armata nemica. Dopo l’ultima decisiva sconfitta, «il diavolo fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli». I tre nemici che tanto terrorizzato i cristiani sono stati per sempre annientati.

«E vidi poi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva». Una volta conclusa l'eliminazione degli avversari di Dio (la bestia, il falso profeta, il Drago o Satana), si compie l'ultimo atto del dramma escatologico il giudizio finale. Al comparire del Giudice seduto su un bianco trono, «scomparvero dalla sua presenza la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé», ossia la creazione attuale concludeva il suo ciclo. I morti d’ogni luogo e tempo risuscitarono (seconda risurrezione) per affrontare il giudizio in conformità a ciò che era scritto nei libri, dov’erano annotate le opere di ciascuno. I nomi dei giusti comparivano anche in un altro libro, quello della vita per cui entrarono in paradiso anche con il corpo. Dopo la risurrezione, la morte ridotta all'impotenza (non colpisce più e le sono state sottratte le prede precedenti) e gli

inferi (lo sheol o il regno dei morti ormai vuoto a causa della risurrezione) «furono

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gettati nello stagno di fuoco» o luogo del castigo. Insieme a queste due realtà diventate inutili, furono associati ai tormenti nel lago di fuoco i risuscitati che non erano scritti nel libro della vita, cioè i tenaci oppositori di Dio e condannati con il corpo alla seconda morte o castigo eterno.

2,4. LA GERUSALEMME FUTURA (21,1-22,15)Al termine del lungo e accidentato cammino della storia proposto

dall’Apocalisse, si approda finalmente alla pace e alla serenità della “città di Dio”. L’eterno progetto dell’Onnipotente reso vano dal peccato dell’uomo, è ricostruito. Al primo cielo e alla prima terra si sostituiscono “nuovi cieli e terra nuova”e al sole e alla luna, luminari scomparsi, lo stesso Signore che rischiarerà la nuova città della sua splendida luce. L’uomo, che aveva rifiutato l’offerta della vita nel paradiso terrestre, affidandosi a Dio riceverà un paradiso di felicità infinita. Satana, l’ingannatore e il vincitore dell’ uomo, è sconfitto per sempre e gettato nel lago di fuoco. La nuova Gerusalemme, dove Dio regna

con gli eletti, è l'aspirazione e il luogo di incontro dell'umanità credente. La nuova creazione (21,1-8) «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova». Dopo la chiusura della storia

umana, Giovanni è spettatore della creazione di un nuovo mondo. Dio sostituisce la prima creazione con un'altra d’ordine diverso; infatti, non c'era il mare, considerato il soggiorno delle potenze del male e dimora del Dragone infernale. Al centro di questo mondo alternativo c’è «la Gerusalemme nuova», vale a dire la città santa che scende dal cielo come una sposa; perché la sua origine è divina. Uno dei quattro esseri viventi annunziò che questa era la dimora di Dio in mezzo al suo popolo, per tergere ogni lacrima o lutto passato. «Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Nell'Apocalisse si ode per la prima volta la voce di Dio, cui appartiene ogni trasformazione o perfezionamento. La nuova creazione è destinata agli eletti risuscitati, che avranno da colui che è “il Principio e la Fine» l’acqua della vita ossia lo Spirito Santo e l’eredità paradisiaca destinata ai vincitori. Con quest’ultimo tassello, il progetto iniziato con la venuta di Cristo è stato portato a termine. La sorte felice dei beati è in assoluto contrasto con quella dei condannati al castigo eterno.

La Gerusalemme celeste (21,9-27) Gerusalemme, la città santa

per antonomasia, era considerata in Israele la metropoli e futura dimora del popolo messianico. «Qui la città santa designa la Chiesa, ma vista nella sua realtà gloriosa e ideale della parusìa. Essa può chiamarsi Gerusalemme in quanto è il luogo di riunione

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del popolo sacro. Viene dal cielo, perché non si tratta di una realizzazione umana ma di una comunità fondata e animata da Dio» (TOB). È il dono del Signore all’umanità redenta dal suo Figlio e che gli ha reso testimonianza nella fede.

«L'angelo mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo». La città santa che il veggente ammirò da un monte altissimo era di una bellezza incantevole e la stupenda architettura ne metteva in luce tutta l'armonia. Dodici è il numero della pienezza che, moltiplicato per mille, indica la perfezione suprema. Dodici ne sono le porte (le dodici tribù d’Israele) e dodici sono le basi che sostengono la città e portano il nome degli Apostoli. Ogni lato si estendeva per dodicimila stadi, ossia per 2.220 km. Centoquarantaquattro braccia era l'altezza delle mura e corrispondeva a circa 70 metri. Così pure la bellezza e la ricchezza della città erano ineguagliabili. Le fondamenta risplendevano di dodici pietre preziose, in riferimento a quelle del pettorale del sommo sacerdote. «In essa non vidi alcun tempio il Signore Dio, l'Onnipotente e l'Agnello, sono il suo tempio». L’incontro con la divinità è diretto e passa attraverso l’umanità di Cristo, essendo il suo corpo il nuovo tempio per accedere all’Eterno. Vi entreranno «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello»

Una profezia da far conoscere a tutti (22,1-15) Dal trono di Dio e dell’Agnello sgorgava un fiume ai cui lati

cresceva l’albero della vita con dodici raccolti all’anno. Come il giardino dell'Eden anche la città di Dio è solcata da un fiume e contiene "l'albero della vita" che preservava dalla morte (Gen 2,9). In tal modo, «l'origine della storia umana e la sua conclusione si ricongiungono» (CEI). I salvati adoreranno il Signore, ne vedranno la faccia e «non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli».

Al termine delle visioni da trascrivere, Giovanni sentì dirsi dall’angelo «Queste parole sono certe e vere. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro». Il presente messaggio deve essere conosciuto da tutti: «Non mettere sotto sigillo le parole della profezia di questo libro» e non aver paura delle reazioni che può suscitare. È assolutamente certo che il piano di Dio si compirà e la profezia è un monito ai perversi che continuano a compiere il male. «Beati coloro che lavano le loro vesti per aver diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città», mentre tutti gli altri ne saranno esclusi.

EPILOGO (22,16-20)È Gesù stesso a garantire questa profezia. «Ho

mandato il mio angelo» per rivelare alle chiese tutte queste cose. Io sono «la stella radiosa del mattino», simbolo di vittoria e di sovranità. Lo Spirito e la Chiesa pregano nell'attesa fiduciosa del trionfo futuro: «Vieni, Signore Gesù» La Bibbia si chiude con questa struggente invocazione in aramaico «Maranà tha» (1Cor 16,22). Con essa i fedeli si rivolgevano al Signore durante le celebrazioni liturgiche, per esprimere l'attesa impaziente della parusìa.

L'Apocalisse presenta il piano divino sulla storia; è il libro del presente e del futuro, della lotta e della speranza, della tribolazione e della felicità, del giudizio e della gloria.

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Bibliografia

BIBBIA-CEI. Nuova traduzione 2008BJ. Bible de Jérusalem, riveduta, Paris 1998RAVASI G. La Bibbia per la famiglia Apocalisse. San Paolo, Milano 1998RAVASI G.: Nuova guida alla Bibbia. Ed. san Paolo, Milano 2008DOGLIO C. LA BIBBIA – Apocalisse. Ed. Mondadori, Milano 2000 ROSSANO P.: BIBBIA VIVA – Apocalisse – Ed. PaolineDEISSLER A.: Che cosa accadrà alla fine dei giorni? Queriniana, Brescia 1992A. SCHENA: Il Libro dell’Apocalisse - internetMINESTRONI I.: L’Apocalisse di Giovanni apostolo – internetStudi, dizionari e commenti biblici

INDICEPresentazione 1Movimento apocalittico, autore 2Caratteristiche, destinatari 2  Messaggio, contenuto, attualità 3

1. La Chiesa in un mondo ostile (1,1-11,19) Visione inaugurale 3            

Prologo e indirizzo 4 Visione del Figlio dell’uomo 41,1. Lettere alle sette Chiese (2,1-3,22) 4

1,2. L’Agnello apre i sette sigilli (4,1-7,17) 6Visione del trono di Dio e dei quattro vegliardi 7I quattro spiriti viventi 7

Visione dell’Agnello che apre i sigilli 7 I quattro cavalieri dell’Apocalisse 8

Quinto e sesto sigillo 8Il popolo di Dio 9

1,3. Il suono delle sette trombe (8,1-11,19)Settimo sigillo: Le prime quattro trombe 9 La quinta e sesta tromba 10L’angelo del libretto 10I due testimoni 11La settima tromba 12

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2. Protagonisti della lotta e Giudizio finale (12,1-22,15)

2,1. La Donna insidiata dal Drago (12,1-14,20) La donna e le bestie apocalittiche 12

La bestia che viene dal mare 13La bestia che giunge dalla terra ferma 13L’Agnello e il suo corteo vittorioso 14Tre angeli annunciano il giudizio 14È giunta l’ora di mietere 14

2,2. Le sette coppe (15,1-16,21)Il canto di Mosè e dell’Agnello 15I flagelli delle sette coppe 15

2,3. Il giudizio (17,1-20,15)Castigo di Babilonia-Roma 16Lamento sulla caduta di Babilonia 17Canti di trionfo in cielo 18La prima battaglia finale 18Il «Millenarismo» 19La sconfitta di Satana 19

2,4. La Gerusalemme futura (21,1-22,15)La nuova creazione 20 La Gerusalemme celeste 21Una profezia da far conoscere a tutti 21

Epilogo (22,16-20)

Bibliografia e Indice 22

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