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PAOLINE Editoriale Libri

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Per i testi citati dal magistero della Chiesa e da documenti dei pontefici© Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano

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Dalla marea che un popolo ha sommerso,e me con esso, ancoralevo la testa? Ancoraascolto? Ancora non è tutto perso?

Umberto Saba, Primo congedo

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Un grazie specialead Adriana, Alessandra,Anna e Laura,donne dallo sguardo profondo

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INTRODUZIONE

Vi dicono profughi, migranti, rifugiati, richiedenti asilo,ma, vi prego: ripetetemi ancora una volta i vostri nomi,mostratemi il vostro volto, narratemi le vostre storie,anche se poi non dormirò. Siete entrati nella mia vitacome nella mia casa: con timidezza rispettosae stupita meraviglia.

Le vostre madri vi hanno detto vai,confidando nell’abbraccio del cuore.Ma non sapevano di chi, se e dove. Ogni voltache parliamo o ceniamo insiemenon riesco a immaginare quali pensieri passatisovrapponete al vostro stare qui, ora.

Vorrei diventare vita intrecciata,restituirvi il sorriso che vi spettae custodirvi ancoraper chi non lo può più fare. Nei vostri sguardil’invocazione corale « facci posto nel tuo cuore ».Ma a volte non sento, non colgo l’urgenza.

Non siete figli miei,non siete come i miei figli,eppure nei vostri volti la stessa vogliadi trovare il vostro posto.

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O un posto possibile. Avete suonato la sveglia al mondoed è scoccata l’ora del cambio di passo,dell’inversione di rotta,del superamento di privilegi e immunità millenari.

Non c’è casa, non c’è lavoro,non c’è tempo per voi. Ma non sieteun’emergenza, una questione,un problema complesso.Siete figli e fratelli nel mondo.E io, figlio e fratello,faccio come se di ciascuno di voi fossi madre.

Amadou, Mady, Moussa, Festus e Ousain,non stancatevi di noi, dei nostri silenzi,del letto che manca, degli sterili abbracci.Siamo noi che dobbiamo ancora diventare grandi,pur avendone avuto il tempo.

gli autori

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I.

LA CASA DI AMADOU

Vita condivisa

È la prima volta che Ali entra in casa e i suoi occhi faticano a fermarsi su quelli di don Nandino, mentre parlano del più e del meno: sono catturati dalle cose più diverse, dai normalissimi oggetti del tinello a cui non si dà mai importanza, ma che per lui meritano almeno un’occhiata, uno sguardo curioso. Accade sempre più spesso che una piacevole lezione di italiano si improvvi-si anche solo davanti al cassetto delle posate, con quella domanda costante: « E questo cos’è? ».

Si conoscono ormai bene, il parroco e il giovane pa-chistano, e sorridono nel ricordare i primi, lunghi mesi all’Hotel Autostrada. La prefettura aveva sistemato lui e altri suoi amici in un alberghetto sotto il cavalcavia; soluzione inadatta per otto giovani richiedenti asilo che non avevano certo bisogno di essere serviti dai came-rieri a pranzo e a cena. Per fortuna il gestore, il signor Maurizio, aveva provato a far usare la cucina del risto-rante ai ragazzi ed era andata benissimo: quante volte il don era capitato all’ora di pranzo all’hotel e Ali, Sharif, Adil e gli altri avevano dimostrato la propria inconteni-bile gioia nel cucinare i loro piatti saporiti, aggiungendo un coperto in più a tavola. Il signor Maurizio era riusci-

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to a far diventare quell’esercizio pubblico un po’ più casa, soprattutto per la grande cucina industriale presto impregnata di spezie, dove i richiedenti asilo si muove-vano liberi e orgogliosi di realizzare le ricette imparate a casa dalla mamma.

Da quando Ali e gli altri hanno cominciato ad andare a trovarlo in canonica a Marghera, don Nandino è diven-tato sempre più loro amico. E i ragazzi non rimpiangono nemmeno l’enorme cucina dell’Hotel Autostrada quan-do, sempre più spesso, portano a casa sua ingredienti a lui sconosciuti che diventano presto piatti più o meno prelibati da condividere in parrocchia, con chi arriva.

Perché nel frattempo si sono moltiplicate le occasio-ni in cui la porta della canonica si è spalancata, per re-galare a persone senza dimora o a richiedenti asilo mo-menti semplici di vita familiare. Certo, ne hanno sempre organizzate di cene parrocchiali in casa del prete, con il consiglio pastorale o le catechiste, e quante grigliate sono state fatte con i giovani in terrazza, e quante agapi fraterne con il gruppo famiglie.

La canonica da tempo non è più la porta invalicabile dell’appartamento del parroco, che « l’ha visto solo la Lucia quando il don era ammalato », perché « il parroco ha pur diritto a una sacrosanta privacy ».

Ora è diventato sempre più facile trovarvi qualche « amico delle colazioni », qualche « barbone della stazio-ne » o, appunto, qualcuno di quei profughi ospitati nelle strutture delle cooperative che vanno chiamati con il nome giusto, per non far confusione: « richiedenti asilo ».

Ma don Nandino trova ormai sempre più insoppor-tabile inchiodare sulla fronte di Faisal e nel cuore di Monday quell’appellativo tanto freddo e vuoto. Perché,

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infatti, dovrebbe rinunciare a chiamare per nome questi fratelli, appiccicando loro un’etichetta? E come potreb-be ridurre la vita di Yakoba e la storia di Zaib a queste due parole, come se il loro nome fosse « richiedente », supplica umiliante adatta a chi può solo chiedere qual-cosa a chi « concede », e il loro cognome « asilo politico », condizione che, pur riconosciuta solennemente come un diritto fondamentale nella Costituzione del 1948, in Italia non è stata ancora disciplinata da una legge?

Ecco un altro frutto dolcissimo di questo aprire la casa a tutti: se già con i fratelli senza dimora il don ha imparato a non tollerare più l’uso di nomignoli o di deformazioni del loro nome, aprendo la porta a tanti fratelli di Paesi lontani sta imparando a non accettare di ridurre la loro identità a una corretta compilazione del modulo C3 della prefettura. Sta realizzando che, da quando la sua porta di casa si è aperta a tutti, la sua vita di prete è decisamente cambiata.

Se ne accorge ogni lunedì, quando Franca ha il com-pito di apparecchiare in canonica per due persone. È stato facilissimo: alle colazioni della domenica don Nan-dino invita un povero o uno straniero a pranzo a casa sua e il giorno dopo, a tavola, la condivisione del cibo diven-ta l’affascinante spalancarsi del libro della vita, l’ascolto spontaneo di frammenti inaspettati di vite sconquassate e la compartecipazione di speranze partite su un barcone nel Mediterraneo.

Quando Ali o qualsiasi altra persona « bisognosa » si siede alla sua tavola, scompare prima di tutto l’umilian-te gesto di chiedere soldi e poi accade che, nel progres-sivo aprirsi alla confidenza, non si senta più la necessità di ricamare i discorsi con piccole bugie. Nel tempo di

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arrivare alla frutta, il don e i suoi ospiti si sono fatti re-ciprocamente il regalo più bello: l’amicizia sincera.

E così si è creata, come naturale conseguenza, un’ul-teriore, inedita possibilità di stare insieme. I giovani « richiedenti asilo », che intanto si sono moltiplicati an-dando ad abitare in alcuni appartamenti nei dintorni della parrocchia, si sono passati la voce. In quella cano-nica addossata alla strada e alla stazione si può andare e stare: infatti, le ore da trascorrere in attesa di conoscere un altro pezzetto del proprio destino sono tante, e vive-re in quelle case, che per fortuna ci sono, ma scalcinate e anonime, e rapportarsi con l’operatore, che per fortuna c’è, ma che passa solo ogni qualche giorno, è avvilente.

I ragazzi sentono il bisogno di una casa vera, o alme-no di un posto simile a un luogo di incontro informale, vivo. E vengono con la scusa di usare Internet o sempli-cemente passano di lì dopo un giro in bici. E i giovani e gli adulti volontari, che insegnano quell’italiano che per molti si sta rivelando lingua ostica e dura, hanno pensa-to di offrire spazio e tempo speciali agli amici nuovi. È nata così, senza grandi programmi, la Casa di Amadou, dedicata a uno dei più giovani tra loro. Un momento condiviso, a casa del prete, a fare... niente. Ed è proprio questo il bello. Se si va a casa di amici tra ragazzi, non è che si sa prima, ma si decide insieme. Non si va a fare un corso, ma a chiacchierare. E poi magari ci si ferma a cena e si cucina insieme. E poi si schitarra e si prendono in prestito i bonghi del prete e ci si allunga sul divano, ché tanto si può.

Un pomeriggio, in inverno, sono salite con loro anche alcune signore, di quelle che insegnano italiano agli stranieri in altre occasioni o che hanno incrociato i ra-

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gazzi su e giù per le scale della parrocchia. « Hanno l’età dei nostri », si sono dette, « ma chissà che vite die-tro ». E anche davanti. E hanno desiderato incontrarli, farsi raccontare, capire davvero chi sono questi giovani e cosa ci fanno tanto lontano da casa.

Mi chiamo Festus e sono nato a Benin City, in Nigeria, nel 1996.

Io sono Moussa, sono nato in Mali, nel villaggio di Diedigikasse, vicino alla città di Diakon, nel 1992.

Sono Ousain, ho ventisei anni, vengo dal Senegal, sono nato a Kaolack.

Sono Mady, nato il 23 dicembre 1998 in Costa d’A-vorio, ma sono del Burkina Faso.

Provengo dal Gambia, sono nato nel 1997 e mi chiamo Amadou1.

Le madri di altri figli sono sedute in mezzo a loro, nel soggiorno colorato di questa casa-canonica inusuale, e stringono loro le mani e non sanno se sporgersi anche ad abbracciarli o mantenere un certo riserbo. Qualcuno tra i ragazzi abbassa rispettosamente il capo. Le mamme, in Africa, sono proprio le mamme.

Le donne scrutano l’abbigliamento dei ragazzi e confrontano... Felpa con cappuccio, cappellini, jeans e scarpe da ginnastica fasciano corpi snelli, scattanti, ner-

1 In tutto il testo, le parole con cui i cinque ragazzi parlano di sé e delle vicende della propria vita sono contraddistinte da cinque caratteri tipografici diversi.

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vosi. Uguali ai figli di casa, in qualche modo. Anna sorride e trasmette empatia mentre gli occhi grandi si riempiono – già? – di lacrime buone. Adriana prova a parlare invano in inglese con Festus, Betta pasticcia in francese con Moussa e Ousain. Alessandra e Laura non li lasciano con lo sguardo.

Anna, Adriana, Betta, Alessandra e Laura.Anna, la caposcout che non smette mai di coinvolge-

re ragazze e ragazzi in progetti in cui ognuno non impa-ra tanto a fare sempre meglio, quanto piuttosto a fare il meglio possibile. Anna, madre di tre ragazze ormai af-facciate alla vita adulta con la consapevolezza e l’impe-gno appreso da due genitori amorevoli e da esperienze intrise di mondo. Anna dal sorriso largo, creatrice instan-cabile di menù al Roof Garden, il singolare ristorante gestito da senzatetto e rifugiati, ennesima invenzione di questa parrocchia fucina di idee e azioni sorprendenti.

Adriana braccia spalancate, che forse fino a qualche tempo fa mai avrebbe pensato che le sarebbe capitato di piangere sommessamente all’ospedale, aspettando di consegnare il pigiama a Khuram, pachistano « figlio d’anima » con l’appendicite. Adriana, che un giorno si è trovata a insegnare l’italiano a un gruppo di richieden-ti asilo giunti in pullman da Lampedusa, l’isola della morte e della speranza, fino alla sua, il Lido di Venezia, l’isola d’oro della laguna. I suoi concittadini li avevano attesi con le catene e i cartelli di « malvenuto ». « Ci ro-vinano la stagione balneare », avevano urlato in pieno gennaio. Adriana, con altre persone dell’isola dei divi, aveva insegnato le prime parole italiane ai trentacinque giovani impauriti, che non sapevano quasi di essere in Italia. E loro, balbettando bisillabi e dispensando sorri-

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si e cenni di ringraziamento, avevano iniziato a cambia-re la loro vita e quella di Adriana e perfino quella delle anziane maestre in pensione. Era stato suo figlio, ormai giovane uomo cresciuto a pane e Costituzione, a coin-volgere la madre perché conoscesse i suoi coetanei ve-nuti da lontano. E lei aveva detto sì, fino a non temere di farsi strizzare il cuore, pensando non tanto e non solo al futuro del suo ragazzo, ma anche a quello di chi ora, con pudore e rispetto, la chiama ormai ammi ji2.

Betta, un figlio e due figlie che hanno scavalcato con determinazione, impegno, ma anche sana allegria, l’ado-lescenza. Anche lei, come Adriana, osservando il mondo dalla comoda isola lagunare, è sempre più conscia che i confini vanno oltre i palazzi e le bricole3 che ha intorno, oltre la laguna e il mare, oltre i muri di cemento e di con-vinzioni sclerotizzate; Betta che pensa: “Se provi a spo-starli sempre più in là, magari è la volta che spariscono”. E che di conseguenza cerca di agire, come può, spesso scrivendo; ora, sempre più, condividendo la quotidianità con i giovani arrivati.

E poi Alessandra, una figlia adolescente, tanti im-pegni e la voglia di mettersi ancora in gioco professio-nalmente, facendo scuola in carcere, a chi i muri e le sbarre li ha proprio davanti agli occhi, mentre la libertà perduta sembra durare un tempo infinito.

Infine Laura, una figlia adolescente e una piccolina. Laura, donna umile e tenace, che osserva piena di stupo-re le persone che si donano amicizia e sostegno tra le

2 « Mamma » in urdu, lingua parlata in Pakistan.3 Denominazione veneziana per « briccole », i tipici pali di legno conficcati

in acqua per indicare i canali navigabili nella laguna veneta.

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stanze di questa parrocchia in cui lei è cresciuta e che ora vede diventare sempre più multietnica in modo davvero profondo. Giovane e dolcissima madre che conosce il senso dell’accogliere e del condividere a prescindere.

Tutte lì, madri appagate che hanno portato o stanno portando a conclusione – sperano serena – gli anni dell’accudire e del consolare. Sono finiti quasi per tutte i giorni delle coccole, dei « si fa e non si fa », dei « vedrai che andrà tutto bene », dei compiti a casa, lo sport al pomeriggio e i giardinetti e gli amichetti a dormire; di Babbo Natale, della formica dei denti e dei « ti voglio un bene grande come il mondo, mamma »; dei « sai, mamma, è difficile diventare grandi, ora ho sette anni ma devo trovare ancora un lavoro, una casa e una mo-glie »; dei codini in tinta con i calzini per andare all’asi-lo, dei mal di pancia prima dell’interrogazione e dei diciotto anni festeggiati una notte intera.

Tutte, ora, ascoltando i ragazzi, si riempiono di mera-viglia e di stupore. E cominciano a insinuarsi le prime domande mute, quelle del cuore: « Perché? Perché siete qui, voi che avete l’età dei nostri figli che studiano e ancora non hanno deciso della loro vita, e sognano, pos-sono sognare, cambiare idea e magari anche sogno? ».

Le domande, però, le esprimeranno a voce alta più tardi, tra loro, perché adesso il pudore impedisce di chie-dere come hanno fatto le madri di questi ragazzi a lasciar-li partire. E ora provano solo a immaginare lo strazio e non sanno che qualcuno è partito perché madre e padre non li aveva più. « Hanno l’età dei nostri figli », ripeteran-no attonite, « e nessuno a custodirli ancora un po’ ».

Intanto cominciano ad ascoltare.

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Qui, da soli

Da bambino mi divertivo per le strade a cantare con un gruppo di amici. Avevo sette anni, quando ho comin-ciato a rappare. Eravamo in otto, i Benin City Boys. Alcu-ni di loro ora sono famosi, sono diventati grandi artisti in Nigeria. Io ero il boss. Vivevamo tutti insieme in un ap-partamento, io, mia sorella, mamma e papà.

Il mio era un piccolo villaggio vicino alle montagne, in Mali. Lì la vita è difficile. Nel 1998 mia madre se ne è andata con un altro uomo, dopo che mio padre l’aveva ripudiata. Ho cominciato la scuola nel 2000, in un’altra regione del Mali. Era una scuola cora-nica e io vivevo con il maestro e altri bambini in un grande appar-tamento. Non era facile. Si mangiava una volta al giorno. Eravamo tutti maschi. Mi sentivo già grande. Tra i bambini avevo degli amici, ma non molti. Non amo gli amici.

A casa, in Senegal, sappiamo tante lingue. Ma la sola inse-gnata è il francese. Siamo tre fratelli e due sorelle. Tutti sono rimasti lì. Mamma lavorava come infermiera. Mio padre era contadino e un po’ commerciava.

E poi mio padre se n’è andato con mia madre in Costa d’Avorio, ha disboscato i campi e ha piantato il cacao. I miei genitori lavoravano lì, quando sono nato. I campi li avevano comprati, eh. C’erano altre persone, che non erano ivoriane e avevano avuto la stessa idea, e tutti litigavano, eccome. E c’erano imbrogli e se le davano anche con il machete. E poi è scoppiata la guer-ra civile lì e il papà l’hanno ucciso perché lui era stranie-ro e quelli del posto volevano prendersi i campi. Era il 2002, lui aveva ventinove anni e aveva già avuto una moglie e un figlio da un’altra parte.

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Mio zio ha sposato mia madre che era rimasta vedova. Lui aveva altre tre mogli e tutti vivevamo nella stessa casa. Le mogli, a turno, preparavano il pranzo. Da noi, in Gambia, si usa così. Era buono, all’inizio, lo zio.

Le donne provano a immaginare questa vita diversa, laggiù, fatta di paesaggi e usanze a loro sconosciuti.

La vera casa di Amadou bambino... Ogni stanza una mamma, dei figli, frasi sussurrate in una lingua tramanda-ta solo con la potenza della memoria. Ma forse anche una stanza comune, figli mescolati, affetti moltiplicati e ango-sce condivise. O anche no.

È timido e un po’ impacciato, Festus: il basco e i pan-taloni da rapper parlano per lui, per quello che vorrebbe dire. Adriana lo incalza e piano piano chiede. Lui parla un inglese strano. La studia e si domanda forse se si può fidare. Lei osserva le sue cicatrici, una sulla fronte, una sul braccio. Non domanda, per ora, niente. Guardano insieme su YouTube i video dei suoi amici rapper. Final-mente Festus sorride e gli si illumina lo sguardo. E allora inizia a raccontare. E Mady traduce dall’inglese faticoso dell’amico i primi pezzetti di questa vita che era buona.

« Vi conoscevate, prima di oggi? »« No, ma siamo fratelli. Non ho studiato inglese, io,

ma ci capiamo ».Eppure questi ragazzi faticano a parlare della famiglia

lontana, forse per difendersi da una nostalgia lancinan-te, o da una rabbia fortissima, come quella che trapela subito dallo sguardo inquieto di Moussa, che ha il cuo-re che scoppia, mentre invano si appiglia a parole che non vengono. Eppure erano bambini, solo pochi anni fa, e giocavano con gli altri, spesso per strada.

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I figli di queste madri italiane giocavano nelle case riscaldate, o correvano nelle palestre, sui campi da ten-nis, da sci o tra i vialetti dei parchi cittadini. Le loro madri, allora, dovevano risalire alla propria infanzia – a volte a quella dei propri avi – per ritrovare, mitizzati, i giochi spontanei, magari in un campiello veneziano. E qualche volta li proponevano ai loro figli divertiti e can-zonanti. Ora rievocano davanti a questi ventenni i giochi all’aperto, credendoli patrimonio di ogni infanzia. Ruba bandiera, guardie e ladri, nascondino... ma l’eco di que-ste parole non torna indietro. Chissà se davvero questi ragazzi da bambini erano così ridenti. Sembra quasi che abbiano già messo da parte, per i momenti di maggior sconforto, il ricordo degli anni delle coccole e della spensieratezza.

« E poi forse l’infanzia bella nell’Africa lontana e scalza la stiamo mitizzando noi », dice Laura. « Non avete ascoltato bene: mangiare una volta al giorno, il machete per contendersi i campi, gli amici inesistenti di Moussa… Non deve essere stata una pacchia ». Le altre si zittiscono. E ritornano ad ascoltare.

Mio padre è morto di malattia quando avevo dieci anni. E mia madre e mia sorella si sono trasferite ad Abuja. Sono andato a scuola fino alle elementari. Ero ragazzino, quando ho cominciato a lavorare come piastrellista. Mia mamma e mia sorella vendevano il pane alla stazione degli autobus. Nel 2014, in una mattina d’aprile, il 14 aprile, mia mamma e mia sorella erano con me a conse-gnare il pane, quando c’è stato un attentato di Boko Haram. Loro sono morte. La mamma aveva quarantotto anni. Mia sorella ventidue. Da quel giorno mi dico: « Festus,

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INDICE

Prefazione, di F. Montenegro pag. 9

Introduzione » 17

I. La casa dI amadou » 19Vita condivisa » 19Qui, da soli » 27

II. « NoN sapevo che IL mare fosse saLato » » 36Verso il Brennero » 36In fuga da guerre e povertà » 39La globalizzazione dell’indifferenza » 46Il viaggio per mare » 51Ponti, non muri » 54

III. pIoggIa dI LacrIme » 58Lampedusa, scoglio dell’accoglienza » 58Coraggiosi fino alla fine » 62Squarci nella rete e non solo » 68Numero 201 » 75

Iv. « come se, dI cIascuNo, fossImo madre » » 78I figli del mare » 78« Ma i tuoi lo sanno? » » 85

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v. vulnerabili e senza voce pag. 90 Una priorità per papa Francesco » 90 Attraversando tutta l’Italia » 94

vi. viaggi e miraggi » 99 « Non sono venuto per chiedere la carità » » 99 Nel ghetto » 101 Una nuova consapevolezza » 108 Danzare alla vita » 112

A mo’ di conclusione: Sogni e capriole » 117

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Mettere le periferie al centro: includere l’escluso, dare la ribalta allo sfondo, rendere essenziale lo scarto. Ecco la vera rivoluzione che sta attuando papa Francesco.

Esplorare i margini e incontrare gli ultimi non è solo un modo per esercitare la solidarietà: è un modo per liberare se stessi, aprendosi a un inesauribile arricchimento.

Questo libro racconta un’esperienza di incontro e condi-visione ispirata dal Papa giunto dalla periferia del pianeta. Leggendo queste pagine si avrà voglia di uscire, di valicare il recinto e andare verso chi credevamo distante, scoprendolo invece straordinariamente « prossimo ».

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Gli autori si sono recati nei villaggi palestinesi dei Terri-tori Occupati, a Gaza e in Israele, e hanno parlato con alcune famiglie che, oltre alla casa, hanno aperto loro il cuore. Han-no raccontato, per esempio, come si vive in un’abitazione occupata dai soldati o con il muro di divisione a un metro dal proprio cancello.

Tuttavia, accanto a soprusi e violenze, cresce la « voglia di normalità ». Le foto nel salotto buono di Violette, i panni stesi nella casa di Omar, le pagine della tesi di laurea di Mah-moud e tutte le altre « finestre » di nonviolenza sono una sorta di vademecum di resistenza domestica, un modo per continuare a sognare un futuro possibile.

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ISBN 978-88-315-4887-8

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Vi dicono profughi, migranti, rifugiati,richiedenti asilo, ma, vi prego:ripetetemi ancora una volta i vostri nomi,mostratemi il vostro volto,narratemi le vostre storie,anche se poi non dormirò. Siete entratinella mia vitacome nella mia casa: con timidezza rispettosae stupita meraviglia.

Le vostre madri vi hanno detto vai,confidando nell’abbraccio del cuore.Ma non sapevano di chi, se e dove. Ogni voltache parliamo o ceniamo insiemenon riesco a immaginare quali pensieri passatisovrapponete al vostro stare qui, ora.

Amadou, Mady, Moussa, Festus e Ousain,non stancatevi di noi, dei nostri silenzi,del letto che manca, degli sterili abbracci.Siamo noi che dobbiamo ancora diventare grandi,pur avendone avuto il tempo.

gli autori

Questo volume è stato pubblicatocon il contributo dell’AssociazioneComunicazione e Cultura Paoline Onlus