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1 TERZO DARWIN DAY - 2011 – “TRA IL CERCHIO E L’ELLISSE: L’AMBIVALENZA DELLA CONDIZIONE UMANA” Per entrare in argomento I relatori del terzo Darwin Day: Alessandra Aricò è autrice, regista e interprete di teatro e teatrodanza. Ha completato la sua formazione culturale e artistica in Francia. Ha alle spalle una carriera ricca di titoli e di esperienza, compresa quella radiofonica. Ha ricevuto riconoscimenti della stampa con numerose recensioni lusinghiere su riviste e quotidiani nazionali e locali. Mario Tanga, docente presso l’istituto suddetto, storico della scienza, Accademico dei Fisiocritici, membro della Società britannica per la storia della scienza, autore di numerose pubblicazioni Fausto Ghelli, docente di informatica presso il medesimo istituto, ingegnere, esperto di informatica e matematica. Don Mauro Mantovani è docente di filosofia teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’UPS (Università Pontificia Salesiana) di Roma Michele Mignone è laureato in Filosofia, Storia e Comunicazione, studia canto lirico, è intervenuto in conferenze e dibattiti della Società Filosofica Italiana. Anselmo Grotti dirige il Liceo Scientifico “Francesco Redi”e l’Istituto Tecnico Economico “Michelangelo Buonarroti”. Insegna Sociologia della Comunicazione presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Arezzo. È stato docente di Informatica Umanistica e Filosofia della Comunicazione (Università di Siena) e formatore presso la Scuola di Specializzazione per l’insegnamento superiore (Università di Pisa). Principali pubblicazioni: Saggio su Felice Balbo (Boringhieri 1984); Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet (Bollati Boringhieri 2000); L’agorà elettronica in ambienti di “presenza potenziata”, in Galeazzi – Ventura (a cura di), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Franco Angeli 2004; Scrittura come tecnologia della comunicazione, in Ex adversis fortior resurgo., Pacini Editore 2008; L’utilizzo delle nuove tecnologie nella ricerca e nell’insegnamento-apprendimento della Storia, in Greco – Mirizio, Una palestra per Clio, Utet 2008. Collabora con varie riviste tradizionali e on line. Alessandro Ristori è docente di Materie Letterarie e Latino presso il Liceo “Galileo Galilei”, è compositore e musicista di considerevole esperienza.

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TERZO DARWIN DAY - 2011 –

“TRA IL CERCHIO E L’ELLISSE: L’AMBIVALENZA DELLA CONDIZIONE UMANA”

Per entrare in argomento

I relatori del terzo Darwin Day:

− Alessandra Aricò è autrice, regista e interprete di teatro e teatrodanza. Ha completato la sua

formazione culturale e artistica in Francia. Ha alle spalle una carriera ricca di titoli e di

esperienza, compresa quella radiofonica. Ha ricevuto riconoscimenti della stampa con

numerose recensioni lusinghiere su riviste e quotidiani nazionali e locali.

− Mario Tanga, docente presso l’istituto suddetto, storico della scienza, Accademico dei

Fisiocritici, membro della Società britannica per la storia della scienza, autore di numerose

pubblicazioni

− Fausto Ghelli, docente di informatica presso il medesimo istituto, ingegnere, esperto di

informatica e matematica.

− Don Mauro Mantovani è docente di filosofia teoretica presso la Facoltà di Filosofia

dell’UPS (Università Pontificia Salesiana) di Roma

− Michele Mignone è laureato in Filosofia, Storia e Comunicazione, studia canto lirico, è

intervenuto in conferenze e dibattiti della Società Filosofica Italiana.

− Anselmo Grotti dirige il Liceo Scientifico “Francesco Redi”e l’Istituto Tecnico Economico

“Michelangelo Buonarroti”. Insegna Sociologia della Comunicazione presso l’Istituto

Superiore di Scienze Religiose di Arezzo. È stato docente di Informatica Umanistica e

Filosofia della Comunicazione (Università di Siena) e formatore presso la Scuola di

Specializzazione per l’insegnamento superiore (Università di Pisa). Principali pubblicazioni:

Saggio su Felice Balbo (Boringhieri 1984); Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie

conoscitive nell’epoca di Internet (Bollati Boringhieri 2000); L’agorà elettronica in ambienti

di “presenza potenziata”, in Galeazzi – Ventura (a cura di), Filosofia e scienza nella società

tecnologica, Franco Angeli 2004; Scrittura come tecnologia della comunicazione, in Ex

adversis fortior resurgo., Pacini Editore 2008; L’utilizzo delle nuove tecnologie nella ricerca

e nell’insegnamento-apprendimento della Storia, in Greco – Mirizio, Una palestra per Clio,

Utet 2008. Collabora con varie riviste tradizionali e on line.

− Alessandro Ristori è docente di Materie Letterarie e Latino presso il Liceo “Galileo

Galilei”, è compositore e musicista di considerevole esperienza.

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Per entrare in argomento

Nella mattina di Sabato 30 Aprile 2011 si è tenuta a Poppi la terza edizione di un evento

culturale che, con cadenza annuale, viene organizzato dall’Istituto “Galileo Galilei”.

Il nome della giornata, “Darwin Day”, è dovuto alla particolare ricorrenza che ha motivato la

prima tornata di questa tradizione, ovvero il doppio anniversario darwiniano del 2009. Si celebrava

in quell’anno, infatti, il 200° della nascita di Sir Charles e il 150° del suo famoso (per più motivi)

“On the Origin of Species”. La portata dei cambiamenti portati nel mondo non solo scientifico, ma

anche culturale in senso lato, dal pensiero e dall’opera del grande naturalista, cambiamenti che

possiamo definire senza mezzi termini epocali, giustifica a nostro parere questa iniziativa, che si

inserisce oltretutto tra altre analoghe (e omonime), in Italia e non solo. Gli sviluppi e il dibattito che

sono seguiti a Darwin, nei centocinquant’anni che ci separano dalla sua opera, sono tutt’altro che

esauriti o sopiti, a dimostrazione che molta strada è stata fatta dalla scienza, partendo da allora, ma

molta ne rimane da fare…

Negli anni successivi gli argomenti dei nostri convegni sono completamente cambiati, così

tanto che a prima vista poteva sembrare non giustificato mantenere il nome della manifestazione

legato a Darwin. Lungi da noi l’idea di conservare tale nome a scopo provocatorio o per semplice

inerzia. È piuttosto perché si è mantenuto un filo rosso che lega le tematiche trattate, che vogliamo

sottolineare questa continuità. Così come la rivoluzione darwiniana ha investito fin dalle

fondamenta il quadro delle conoscenze e delle concezioni in primo luogo del mondo e della vita,

altrettanto hanno fatto gli eventi e i contenuti presi a tema per le successive giornate darwiniane. I

consensi riscossi nelle due edizioni precedenti ci hanno incoraggiato a ripetere questa esperienza,

con un focus ancora una volta differente.

È bene chiarire fin da adesso che la nostra posizione si colloca ben oltre la scontata e ormai

datata polemica dualista darwinismo vs creazionismo, scienza vs fede, fisica vs metafisica e via

dicendo, che ha visto arroccarsi i sostenitori dell’una o dell’altra fazione su posizioni sterilmente

pregiudiziali e inutilmente rigide. Il dibattito più avanzato è oggi spostato su posizioni non così

manichee.

La cultura è un sistema dinamico e il suo valore sta nelle intersezioni con la vita e con il

mondo, non certo nel senso di un miope utilitarismo, o di uno striminzito riduzionismo materialista,

o di una strumentalizzazione ideologica. Piuttosto tale valore è nel saper investire l’uomo su tutti i

piani, da quello esistenziale a quello etico, da quello sociale e relazionale a quello creativo, a quello

metafisico.

È per questo che già il primo incontro del 2009, correlando la visione evoluzionista ai suoi

sviluppi successivi, ha voluto ospitare forme di espressione diverse, che vanno dalla recitazione

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teatrale alla musica, dall’esposizione erudita al colloquio e al dibattito. Ed è sempre per questo che

il discorso sull’evoluzionismo (che è quanto mai appropriato per mettere in evidenza la nostra

parentela con gli altri viventi, rifacendosi al motivo dell’origine comune) si è esteso trasversalmente

o, se si preferisce un “parolone”, transdisciplinarmente, fino a comprendere il tema dell’etica

animalista ed ecologica. Il dottor Malcolm Holliday, medico veterinario, e Andrea Legnani,

responsabile dell’associazione “Lo scudo di Pan”, hanno portato argomenti più che validi a

sostegno di questi collegamenti, non scevri di addentellati con la fraternità con gli animali di stampo

francescano.

Nel 2010 è stato protagonista il corpo, nella duplice valenza di oggetto (di studio scientifico,

di pratiche di ogni tipo, anche strumentalizzanti e di mercificazione, di rappresentazione letteraria,

artistica…) e soggetto (di esperienza, di relazione, di vita, di amore…).

Si è cercato di capire come e perché la rivoluzione scientifica (siamo nel XVII secolo) ha

marcato queste due polarità, della soggettività e dell’oggettivazione, divaricandole in modo talvolta

iperbolico, spingendo la divergenza talvolta fino al paradosso, fino a uno stallo imbarazzante. La

lunga deriva storica e culturale che è seguita alla rivoluzione scientifica e che ha portato al

ventesimo secolo, anzi al ventunesimo, ha visto mutare e soprattutto crescere le contraddizioni e i

contrasti portati da questa sorta di schizofrenia tra vita e conoscenza.

In questa terza edizione, prevista per Sabato 30 Aprile 2011, il titolo “Tra il cerchio e l’ellisse:

l’ambivalenza della condizione umana” vuole indirizzare gli interventi verso la zona di confine tra

la carenza e la pienezza, il viaggio e il traguardo, il desiderio e l’appagamento, laddove cioè si

genera la tensione tra il limite della contingenza e l’idealità più elevata, tensione intrinseca alla

condizione umana e pertanto insopprimibile.

Sono previsti interventi, oltre che di alcuni docenti della scuola, del Professor Don Mauro

Mantovani, Preside della Facoltà di Filosofia dell’Università Pontificia Salesiana, studioso che non

ha bisogno di presentazioni, dell’Accademia teatrale “Nata” di Bibbiena, che da anni avvicina tanti

nostri ragazzi al teatro come attori, di Michele Mignone, ex studente della nostra scuola, in veste di

cantante lirico.

Affidandosi a una metafora geometrica (che ha il doppio pregio della semplicità e

dell’evidenza) e ai trascorsi della nostra cultura (una retrospettiva storica è pur sempre un sostegno

giustificativo di un certo valore) possiamo assumere l’ambivalenza di questa coppia di figure (molto

simili e molto diverse allo stesso tempo) per tracciare dei riferimenti essenziali nella descrizione

della condizione umana. E quando si dice umana si intende l’insieme degli aspetti che fanno umano

l’uomo: esistenziali, morali, culturali, antropologici e via dicendo.

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Iniziamo con il dire che il cerchio è da sempre simbolo e metafora della perfezione, della

completezza, di un’appagata autoreferenzialità, non ha inizio né fine, o meglio ogni inizio possibile

coincide con una fine corrispondente, non varia mai di forma, ma solo di dimensione. La tracciatura

è costante per tutto lo sviluppo del suo contorno.

Versione solida del cerchio è la sfera, della quale troviamo un riferimento significativo già in

Parmenide, per il quale essa è l’immagine della Verità, che è non solo perfetta, ma anche totale e

compiuta al massimo grado, in modo assoluto. Parmenide parla del “cuore inconcusso della ben

rotonda Verità”, quindi un’entità centrata su se stessa, inviolabile, imperturbabile, immutabile nel

tempo, esente da differenze, difformità, trasformazioni di ogni genere. Dice a questo proposito

l’Autore che “…poiché vi è un limite estremo, è compiuto/ da ogni lato, simile alla massa di ben

rotonda sfera/ di ugual forza dal centro in tutte le direzioni;/ che egli infatti non sia né un po’ più

grande né un po’ più debole qui o là è necessario.”

Non lascia spazio a ulteriorità di alcun tipo perché è esso stesso l’ulteriorità, ha un che di

definitivo, risolutivo di tutte le provvisorietà, di assoluto, perché ha il potere di porsi al di sopra di

tutto... Non a caso raffigurazioni circolari o mandaliche sono spesso legate a iconografie sacre.

La figura dell’ellisse, anch’essa una curva chiusa, rappresenta rispetto al cerchio un’anomalia,

un’alterazione.

La prospettiva rinascimentale l’aveva usata come deformazione prospettica del cerchio, come

cerchio che, obliquo rispetto all’osservatore, rivelava in modo differenziato le sue dimensioni. Lo

scorcio prospettico ne comprimeva una delle due. Ciò era giustificato dall’illusione visiva che,

basandosi su leggi ottiche (della proiezione retinica), sembrava suggerire di ricorrere a tale

“espediente” per essere riprodotta. C’era un punto di vista soggettivo di cui tener conto, inclusi i

suoi limiti, la sua relatività, inclusa la sua illusorietà. A tale illusione si sacrificava, volentieri, la

perfezione geometrica.

Ma il meccanismo della prospettiva veniva giocato anche in senso contrario. Infatti da una

parte la distanza rimpiccoliva progressivamente (fino a farlo scomparire) e/o deformava un oggetto,

inscriveva l’infinito entro i limiti finiti e chiusi dell’immagine, mettendolo alla portata dell’occhio,

consegnandolo a una collocazione precisa. Dall’altra parte mettere in prospettiva un’immagine,

deformata preventivamente in modo opportuno, le ridonava la normalità, le giuste proporzioni. È

l’anamorfosi come ce l’ha fatta conoscere Arcimboldi, che chiude un cerchio (la metafora ci pare

ancora una volta appropriata…) di reciprocità tra immagine e realtà, tra forma e deformazione.

Questo disinnesca in parte il rischio della “messa in prospettiva” come perdita definitiva e

irreversibile.

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Quando l’ellisse fa la sua comparsa nella geometria astronomica, con Keplero, è il fattore

dirompente nel panorama scientifico-culturale dell’epoca e in generale nella visione del mondo,

almeno di quello celeste. La indiscutibile pienezza del cerchio non è più tale. Togliere la terra dal

centro era stata una bella rivoluzione, ma deformare le orbite e variare in continuazione la velocità

del moto dei corpi celesti era cosa di non minor impatto. Che la perfezione non abitasse il mondo

sublunare era risaputo, e rassegnatamente accettato, ma che facesse defezione anche tra gli astri,

questo era un salto difficile da fare…

Proprio per questo è forse Keplero, più che Copernico, a traghettare l’astronomia e, per

estensione, la scienza, nella modernità, e lo fa proprio infrangendo il cerchio e con esso l’uniformità

del moto dei pianeti.

Copernico fa precedere la sua teoria eliocentrica da tre postulati che sono l’esaltazione di

cerchio e sfera, come se la forma sferica dell’Universo, della Terra e del moto dei pianeti

(similmente alle sfere di Eudosso) garantisse una compensazione al drammatico cambio di centro

dei moti celesti. La stessa sfericità della Terra, grande scoperta degli antichi Greci, non era arrivata

con continuità attraverso i secoli che la separano da Copernico.

La geometria (cui entrambi, cerchio ed ellisse, comunque appartengono) è la stessa cui si

appellava Platone, quando all’ingresso della sua Accademia aveva fatto scrivere “Non entri chi non

è geometra”, connotandola definitivamente come astratta, dandole cittadinanza nel mondo delle

idee e facendole perdere definitivamente quel connotato di concretezza cui si riferisce la sua

etimologia, e lo scopo, prosaico se vogliamo, per cui era nata: misurare la terra, stabilire i confini

delle proprietà.

Le figure sono quindi praticamente da sempre considerate questione esclusiva o ampiamente

preminente della geometria. E questo ci condiziona e ci limita. Ma per quanto possano cambiare le

cose, se adottiamo punti di vista, strumenti, metodi e registri diversi, il rapporto tra cerchio ed

ellisse si ripropone. Per esemplificarlo, basta pensare alla differenza tra definizioni diverse delle due

figure in questione, anche se nulla vieta di estendere il discorso ad altre. Si pensi ad alcune di queste

diverse definizioni.

Geometrica: il cerchio è il luogo geometrico dei punti equidistanti da un punto detto centro…

L’ellisse è il luogo geometrico dei punti per i quali la somma delle distanze da due punti fissi detti

fuochi è costante. Il cerchio è l’unica figura piana con infiniti assi di simmetria. L’ellisse ha invece

solo due assi di simmetria.

Grafica: per la tracciatura del cerchio occorre fissare l’apertura del compasso, fare centro con

una delle due punte e far ruotare l’ altra sulla superficie… Per la tracciatura dell’ellisse occorre

fissare a due perni fissi gli estremi di uno spago la cui lunghezza sia maggiore della distanza tra essi

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e, tendendo lo spago con la matita, farla scorrere su tutto il tracciato consentito con lo spago stesso

sempre teso…

Analitica: il cerchio è la porzione di piano racchiusa dalla curva, i punti della quale hanno

valori di ascissa e ordinata tali che soddisfino la relazione x2+y2+ax+bx+c = 0. L’ellisse è la

porzione di piano racchiusa dalla curva i punti della quale soddisfino la relazione

ax2 + bxy + cy2 + dx + ey + f = 0.

Algoritmica: per percorrere una traiettoria circolare si proceda in una direzione per un

infinitesimo e si cambi direzione di un infinitesimo reiterando all’infinito tale passo senza variare

mai il rapporto tra avanzamento e deviazione. Per percorrere una traiettoria ellittica si proceda

variando opportunamente (in aumento e in diminuzione) e gradualmente il rapporto tra

avanzamento e cambiamento di direzione fino a tornare al punto di partenza dopo due cicli di

variazione.

Visiva: il cerchio è una forma convessa –o concava, se la si guarda dall’interno- perfettamente

uniforme, di cui non si percepiscono movimenti se ruota intorno al centro… L’ellisse è una forma

convessa –o concava- con due poli più acuti diametralmente opposti… e qualunque suo movimento

ha evidenza visiva.

Per quanto la pluralità delle definizioni ci faccia in parte riformulare il rapporto tra cerchio ed

ellisse, si noterà che gli aspetti essenziali della loro reciprocità rimangono inalterati.

Nel suo essere manchevole, l’ellisse ricorda, richiama la pienezza assente: l’ellisse parla del

cerchio che non c’è, indica la strada per raggiungerlo, ne garantisce l’esistenza, sia pure virtuale,

potenziale, al di là del contesto, dell’attualità.

Ellisse, elisione, elidere, cioè eliminare, tagliare via qualcosa, diminuire qualcosa, come

quando, nello scrivere, l’eliminazione di una parte della parola ci costringe a rimpiazzarla con un

apostrofo, una cicatrice, un surrogato, che è poi il segno, la memoria del fatto che la parola non è

più intera. Una parte è perduta, manca all’appello… ma la perdita non è dimenticata né ignorata:

l’apostrofo, farmaco contro il rischio di ipomnesi (rifacendosi sempre a Platone), lascia aperta la

possibilità di un ritorno, di una reintegrazione.

La condizione esistenziale dell’uomo si gioca sempre nell’ambivalenza del cerchio e

dell’ellisse. Nessuno dei due poli è quello definitivo, nessuno dei due esiste senza la reciprocità (e

complementarità) dell’altro. Carenza e limitatezza sono ineliminabili, il lavoro per compensarle, per

superarle non è mai concluso. E anche il cerchio è sempre presente: riferimento scelto

consapevolmente, è il motore che genera la tensione verso ciò che è grande, verso la perfezione e il

compimento.

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L’uomo, “ellittico” per sua natura, ha in sé cognizione, desiderio, presupposti per “rapportarsi

con il cerchio”. Molte e differenti sono le strade con cui viene stabilita la reciprocità, il doppio filo

che pone in rapporto dialettico ellisse e cerchio: la ricerca della verità, della bellezza, della giustizia,

della perfezione, dell’amore (intendendo tali termini nell’accezione semantica più estesa e profonda

possibile), tanto per citarne alcune.

Dall’Eros platonico alle creazioni artistiche, dalle teorie cosmogoniche alle grandi

metafisiche, dal puntamento di un telescopio alla conquista dello spazio, dalle imprese sperimentali

più ardite al perseguimento degli ideali più alti, questi e altri possono essere i modi di tendere il filo

dall’ellisse al cerchio, un filo che cuce insieme tutte queste avventure dell’uomo, di un uomo

sempre proteso verso l’ulteriorità, qualunque sia la direzione in cui cercare...

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LA PERFEZIONE NON È TUTTO: IL LUNGO VIAGGIO DELL’E-STETICA

Mario Tanga

1. IL QUADRO GENERALE

2. L’ESTETICA PRENDE FORMA

3. L’IMPORTANZA DI RISALIRE VERSO IL PROFONDO

4. L’INSOSTENIBILE PESO DELLA MATERIA

5. IN CHE SENSO I SENSI?

6. COSÌ È SE VI PARE… E ANCHE SE NON VI PARE

7. LO SGUARDO (È IL) PREDILETTO

8. LO SGUARDO SI ALLARGA

9. LO SGUARDO SI RIFLETTE SU DI SÉ…

10. IL CORTOCIRCUITO TRA SGUARDO E CORPO

11. PER LO SGUARDO GLI OCCHI DA SOLI NON BASTANO PIÙ

12. TEMPUS FUGIT

13. IL TRIONFO DEI SENSI

14. DALL’ARTE ALLA SCIENZA E RITORNO

15. NON DI SOLI CERCHI È FATTO IL BELLO

16. DOPO IL BELLO IL NULLA?

17. VERSO NUOVI ORIZZONTI

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1. IL QUADRO GENERALE Nell’antichità classica bello e perfetto avevano un’ampia e profonda zona di intersezione e

convergenza. I valori di vero, bello e bene formavano tre poli di un medesimo modello con cui tutto si doveva confrontare. Numero e figura avevano la pregnanza del riferimento semantico pitagorico e l’esattezza lineare della geometria euclidea. Iconografia artistica, schema architettonico, modello interpretativo della natura , tutto si iscriveva in definizioni precise, largamente condivise.

Nel lungo millennio medievale è decisiva la predominanza di un’antropologia e di una morale imperniate sui binomi grazia-peccato, uomo-Dio (o terreno-celeste), tempo-eternità e via dicendo. La perfezione e la bellezza prescindono da (escludono o ignorano) i connotati fisici, corporei, materiali, che sono visti casomai con sospetto, come espedienti del Maligno per irretire anime inclini alla cupidigia, alla concupiscenza, in una parola al peccato e alla perdizione. Il corpo e l’esteriorità sono puro strumento dello spirito, simboli asserviti alle sue manifestazioni, perdono ogni referenzialità propria e specifica. L’iconografia si irrigidisce e si cristallizza in stereotipi senza alcuna attenzione o preoccupazione estetica in senso proprio.

A muovere questa condizione sono due spinte. Una è il progressivo lento emergere della individualità interiore, di un’attenzione soggettivante con cui (nell’arte, ma non solo) i personaggi cominciano a venire colti. È l’arte italiana del Duecento a manifestare all’inizio questa tendenza. L’altra è il grande privilegio accordato alla vista (anche e soprattutto in senso ottico, dell’atto di percezione) che in questa ascesa si tira dietro tutte le altre forme di sensorialità, ma mantiene il suo primato. Tutto è guardato, osservato, scrutato, rimuovendo via via scrupoli e ostacoli che limitano fisicamente e moralmente il dominio di questo atto di acquisizione di immagini alla propria conoscenza. Nella modernità si infrangono le frontiere del visuale in tutte le direzioni: del piccolo (microscopia), del cosmico (telescopia), dell’interiorità corporea (dissezioni anatomiche), dell’interiorità psichica (introspezione), fino al parossismo della mania e della perversione voyeuristica…

Questo fa sì che il bello classico, appena riscoperto nel Rinascimento, non basti più. L’osservazione dilaga fuori dai canoni e se ne allontana, fino alla ricerca di quanto è mostruosamente opposto ai canoni stessi. Dalle novità e curiosità esotiche riportate dai grandi viaggi di esplorazione fino agli orrori delle pieghe più oscure dell’uomo e della natura, questo è l’arco compiuto dall’estetica nei secoli XVI-XIX. È tanta la foga nel cercare avventure in questa direzione che la equilibrata perfezione classica non ha più cittadinanza nell’estetica che addirittura si trasforma fino a rovesciarsi in un’antiestetica in cui la predominanza del bello è piano piano scalzata da un brutto che lo soppianta, per semplificare all’estremo. Il vuoto di riferimenti e di valori ha il sapore di una catastrofe, dello smarrimento senza redenzione. Ma nuove tendenze affiorano dal decantare di questa situazione. L’intersezione di arte e scienza, che si articola variamente nel corso della Modernità, produce frutti in parte inaspettati. Soprattutto nella seconda metà XX secolo, ma anche prima con la filosofia fenomenologica, vediamo emergere quadri concettuali che riconfigurano l’intera struttura della cultura e della visione del mondo secondo modalità più organiche e trasversali e che sembrano promettere grandi sviluppi.

2. L’ESTETICA PRENDE FORMA Per fare il punto sull’estetica attuale dobbiamo ripercorrere l’ampia parabola che è stata

compiuta da quell’insieme di concezioni, criteri, teorie e quant’altro che siamo soliti etichettare sotto il nome di “estetica”.

È un’onda lunga, ma di enorme portata, che tracima ampiamente oltre i margini dell’arte cui solitamente viene correlata in modo quasi biunivoco. Seguire il filo rosso dell’estetica, se ci liberiamo di stereotipi e luoghi comuni, ci porta a capire come anche altri confini, suddivisioni, classificazioni e limiti debbano essere riconsiderati per non dire dissolti o quanto meno riconfigurati. A cominciare da quello tra saperi umanistici e scientifici o, come piace dire a

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qualcuno, con chiare e profonde implicazioni, tra cultura e scienza, per continuare con quello tra mente e corpo, o tra pensiero e sensazione.

L’atto ufficiale di nascita dell’estetica moderna viene considerato il testo di Baumgarten del 1750 “Aesthetica”, in cui l’A. ne dà questa definizione: “Aesthetica (artium liberalium theoria, gnoseologia inferiore, ars pulchrae cogitandi, ars analogi rationis) sensitivae cognitionis est scientia”. Una definizione sicuramente ricca e pregnante, tutt’altro che neutra. L’estetica è per Baumgarten teoria, quindi un sistema compiuto e autonomo; gnoseologia, ovvero teoria della conoscenza, ma inferiore (dato che è basata sulla materialità dei sensi…), arte, ovvero conoscenza pratica, destinata all’esercizio e all’applicazione, un esercizio e un’applicazione del pensiero quando il referente è il bello, e infine scienza, ovvero conoscenza basata sulla razionalità.

L’opera di Baumgarten è un significativo punto di arrivo per tutta la deriva storica che la precede e di cui costituisce un esito importante, ma nello stesso tempo è anche un punto di partenza per gli sviluppi ulteriori che a suo tempo matureranno. 3. L’IMPORTANZA DI RISALIRE VERSO IL PROFONDO

Se facciamo un viaggio a ritroso nel tempo cogliamo un segnale importante della ricerca dell’interiorità nella allora nascente arte italiana, nel Duecento. La ieratica sacralità dei personaggi e delle figure che compaiono sulla scena della figurazione medievale e bizantina si infrange sotto una spinta che proviene dall’interno dei personaggi stessi, che, quasi motu proprio, si fa strada attraverso quel guscio (corporeo, materiale) che ipostatizzava simboli, allegorie e rimandi dottrinali. È il moto dell’emozione, dello stato d’animo che piega e plasma la somaticità della figura a esprimere quel sentire che muove da dentro, dal profondo, che agita l’anima prima del corpo. Così l’arte va a cogliere il corpo e i corpi come una scena sulla quale le emozioni cominciano ad acquistare un ruolo da protagonista. Trascurando una miriade di esempi sicuramente significativi, possiamo scegliere come emblema di questa svolta la smorfia di dolore che corruccia il volto del Cristo crocifisso di Cimabue, l’onda che inarca e tende il suo corpo torturato e sofferente. La compostezza imperturbabile delle più antiche figure sacre, il ruolo dell’arte che coglie le loro risonanze di solennità in odore di eterno sono irreversibilmente infranti.

Volendo risalire ancora più a monte potremmo citare S. Agostino, ma, fissando il basso Medioevo come punto di partenza, possiamo dire che allora è iniziato un viaggio che, nel volgere di otto secoli, porterà l’arte, la cultura e la vita in genere molto lontano…

È un viaggio che conta tappe importanti come il sorgere della ritrattistica non celebrativa nel Rinascimento (in cui il tratteggio delle caratteristiche interiori del soggetto è importante quanto quello dei tratti somatici), la logica di Port Royal nel Seicento (in cui il soggetto pensante diviene il protagonista dei processi logici, in rispondenza alla personalità del gusto nell’estetica), la psicoanalisi e la psicologia a cavallo tra Otto e Novecento, il voyeurismo interiore e la sua spettacolarizzazione mediatica dell’ultimo Novecento. In ogni caso il lavoro introspettivo pesa dalla parte della soggettività, diremo di più, ci si identifica.

Il Seicento e la rivoluzione scientifica possono essere considerati il grande punto di svolta del rapporto tra il soggettivismo e i metodi oggettivanti della nascente “nova scientia”. La forbice tra le due tendenze si allarga perché entrambe si accentuano, divergono, fino alle implicazioni estreme, nel corso dei secoli successivi. L’oggettivazione come metodo e come sistema, come modo di accesso al mondo e di appropriazione e dominio della realtà, diviene pervasivo. Il soggettivismo cartesiano, il cui statuto è significativamente espresso nel “Discorso sul metodo”, avrà un ampio seguito, ma dovrà anche subire l’assalto di spinte oggettivanti che tentano di ricondurlo a contenuto di una qualche scienza. Tuttavia il polo della soggettività si mantiene, se non certo nella scienza, quantomeno in ambito artistico, filosofico e letterario. Ma per vedere una chiusura di questa forbice bisognerà aspettare il Novecento.

Il viaggio nel profondo come fonte prima e ultima delle forze che spingono l’uomo nel suo vivere, agire, comunicare, pensare, provare sentimenti, giunge ad una svolta importante con il

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nascere della psicologia cosiddetta scientifica e con la psicoanalisi. La scoperta di immense profondità torbide, e turbolente, di un lato oscuro, per lo più inaccessibile alla limpida luce della ragione, fuori dalla portata della morale cristallina e dei nobili ideali, porta a constatare impotenza e sconcerto di fronte a se stessi: scoprirsi popolati di mostri produce un profondo scossone nella visione dell’uomo. Freud stesso definisce questa come la terza “ferita narcisistica” inferta dalla conoscenza all’uomo. Tre ferite, tre elisioni, tre toglimenti, dolorosi ma necessari, il primo con Copernico, che toglie la terra dal centro dell’universo, il secondo con Darwin, che toglie l’uomo dalla sommità della natura, il terzo con Freud, appunto, che toglie il primato della ragione e della morale, ponendo la primarietà dell’inconscio e delle pulsioni.

4. L’INSOSTENIBILE PESO DELLA MATERIA Il materialismo, specie nella sua versione radicale, riduzionista o eliminazionista, lascia poco

spazio alla ricerca della bellezza o della perfezione. D’altra parte, nella storia del pensiero occidentale, le stagioni del materialismo sono rare e brevi. Idealismo, costruttivismo o altre forme di prevalenza del mentale, del cognitivo, dello spirituale hanno il più delle volte avuto la meglio.

Se l’introspezione va nella direzione del soggettivismo, il materialismo va nella direzione opposta, quella dell’oggettivazione, magari quantitativa.

Descartes cerca di creare una simmetria tra quelle che sono considerate le due polarità dell’esistente, res cogitans e res extensa. Ma è un equilibrio instabile fin dal suo nascere: la res cogitans non tarda ad evidenziare la sua vocazione dominatrice e oggettivante nei confronti della res extensa. In ogni caso, la giustapposizione delle due solleva il problema della reciproca incompatibilità, una sorta di immiscibilità, di irriducibile incompatibilità che Descartes risolve con una piuttosto improbabile ghiandola pineale.

Il dualismo delineato da Descartes ha una rispondenza nella forbice che proprio in quel periodo si sta aprendo tra i metodi oggettivanti e quantitativi della “nova scientia” da una parte e la discesa sempre più precipitosa verso l’interiorità dall’altra. Il pensiero quindi manipola il mondo sotto forma di numeri e nello stesso tempo proclama una sorta di autarchia e autoreferenzialità in nome di un soggettivismo sempre più spinto. 5. IN CHE SENSO I SENSI?

I sensi acquistano sempre più importanza, sempre di più sono interrogati per conoscere la realtà. Ma nonostante questa espansione del dominio sensoriale, corpo e materia scivolano sempre in posizione di subordine rispetto all’intelletto. Lo stesso John Locke, in An Essay Concerning Human Understanding, afferma che “Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu” (Libro II, cap. 1, §5). Si afferma cioè la priorità causativa dei sensi, ma in funzione, finalisticamente, della priorità dell’intelletto, riferimento obbligato di ogni conoscenza. Comunque, accordare una maggiore attenzione alla modalità sensoriale di approcciare il mondo materiale, soprattutto attraverso i sensi più “concreti” e perciò meno nobili come il gusto, l’odorato, il tatto, non esaurisce subito le conseguenze, se ne vedrà la deriva nei secoli a venire.

Quando la sensorialità (nell’accezione corporea) si sarà affrancata dalla sudditanza verso l’intelletto, la cognizione e l’astrazione, potrà finalmente giocare il suo ruolo nell’incontro tra la soggettività e l’oggettivazione, un terreno cioè dove il soggetto e l’oggetto si incrociano, interagiscono e vanno olisticamente a costituire un sistema che li trascende entrambi. Ma per questo occorrerà aspettare il Novecento.

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6. COSÌ È SE VI PARE… E ANCHE SE NON VI PARE Nella classicità la bellezza era basata su canoni condivisi e fissati fuori da ogni ambiguità,

esplicitati in modo “oggettivo”, ispirati a criteri di perfezione, di esattezza geometrica, di simmetria (syn-metron), nel senso etimologico di commensurabilità.

Proprio questa simmetria e, più in generale, la regola (nomos), la logica condivisibile (logos), il procedere secondo scansioni calibrate, calcolabili e prevedibili (eurythmia) sono gli assi portanti del senso estetico della classicità. E proprio questi assi, ripresi nel Rinascimento, inizieranno da allora ad essere progressivamente deviati, fino a rovesciarsi radicalmente nella più recente modernità.

Sia pur messa in crisi da subito da due delle figure più regolari della geometria euclidea, il quadrato e il cerchio, per il rapporto rispettivamente tra diagonale e lato e tra circonferenza e diametro, la simmetria geometrico-numerica la fa da padrone nel mondo classico. Il concetto di tò kalòn lascia poco spazio a interpretazioni personali e variazioni arbitrarie.

7. LO SGUARDO (È IL) PREDILETTO Nella nuova ed estesa attenzione ai sensi, a partire dal Rinascimento e soprattutto dal

Seicento, lo sguardo ha un ruolo del tutto particolare, non solo perché è un senso “nobile”, che non implica contatto o interazione materiale, ma soprattutto perché consente di avere accesso a realtà di ogni tipo, di esercitare una sorta di dominio, di penetrazione, di controllo, che non di rado acquista risvolti sensuali o sconfina nel morboso. L’occhio non si contenta di posarsi su corpi perfetti in pose accademiche, rispettosi di una geometrica compostezza, inscritti in canoni esatti, ma si compiace di andare a sorprendere e rubare visioni di corpi colti in pose poco composte, poco convenienti, poco accademiche. Atteggiamenti del corpo che si trasformano in pose voluttuose o si contorcono sotto l’impulso delle emozioni più diverse: dolore, orrore, sorpresa… la bellezza della scoperta o meglio la soddisfazione del guardare e vedere anche ciò che non dovrebbe essere consentito, gratifica esteticamente il soggetto. Meglio se ciò che si guarda è in grado di suscitare emozioni forti, quindi meglio se è insolito, sorprendente, strano, bizzarro, imperfetto o addirittura brutto, orrendo o disgustoso. Abbattendo quest’ultima frontiera l’estetica, con un processo che ha il suo culmine nel XIX e XX secolo, l’estetica rovescia completamente i suoi assunti di partenza. A circa 100 anni dall’Aesthetica di Baumgarten, vede la luce L’estetica del brutto di Karl Rosenkranz (1853). Il teatro di Grand Guignol nella Parigi a cavallo tra Otto e Novecento, con i suoi spettacoli che mettono in scena il sanguinolento, il disgustoso, il truce, raccoglie un significativo consenso di pubblico. Chiuderà nei primi decenni del Novecento con l’affermarsi e il diffondersi del cinema, che ripropone gli stessi temi in una chiave più consona ai tempi mutati.

Il gusto del clamoroso, dell’iperbolico, dell’esagerato, nell’ultimo quarto del XX secolo si è impossessato dei media e porta un’invasione di immagini oltre ogni limite dell’assurdo, spinge la tecnologia a mettere a punto modalità di registrazione, ma anche di elaborazione di immagini con ogni sorta di effetto speciale. Televisione, cinema, videogiochi, grafica di sintesi, tutto converge verso questi nuovi parametri. 8. LO SGUARDO SI ALLARGA

Il dominio dello sguardo con la modernità espande i suoi orizzonti in molte direzioni. Le scoperte geografiche, tanto per cominciare, consentono di offrire alla vista molti reperti di inimmaginabile stranezza o bellezza. La fauna e la flora tropicali rendono obsoleto e povero il repertorio di immagini conosciute. L’accesso all’esotico spalanca un mondo di cui non si intravede l’orizzonte: le novità sembrano destinate a non finire mai, non si finisce di stupirsi per una cosa che altre cento ne arrivano. L’alone di favola, mito o prodigio ammanta i mondi nuovi agli occhi dei più. È difficile tenere distinte fantasia e realtà, è difficile frenare fantasia e curiosità. Il mondo irenico e perfetto della classicità rimane un po’ “stretto”… la spinta ad ampliare gli orizzonti è

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ormai insopprimibile. Novità, diversità, anomia o anomalia, finora deprecate e temute, vengono introdotte nell’universo estetico della cultura moderna occidentale, dapprima timorosamente e dopo averle filtrate, poi sempre più esplicitamente e clamorosamente.

Nel volgere di due o tre secoli a partire dal Rinascimento si passa dal cercare di trovare il bello-perfetto ovunque, a costo di portarlo dove non è, allo sbirciare il reale nel cercare di individuarvi l’anomalia, la stranezza, la rottura dell’ordine, fino ad essere attratti in massimo grado dal mostruoso, dall’abominevole, dall’orrendo. Si afferma l’estetica delle rovine e dei mostri. Ciò che è irenico, rassicurante, comprensibile senza riserve perde interesse, attrattiva. Lo strapotere dello sguardo cerca ciò che sovverte tutto questo, accettando anche di mettere in primo piano ciò che disgusta o è brutale. Ordine e perfezione sono aboliti, rifiutati, disgregati… L’uso (e abuso) dello sguardo porta una progressiva assuefazione all’ovvio e al consueto, occorrono dosi sempre più forti di sensazionalità per soddisfare gli occhi affamati di novità da divorare. Alla fine occorre risvegliare i mostri, gli esseri turpi e abominevoli, e non basta andare a visitarli in un mondo parallelo e distaccato, ma occorre coglierli nel loro potere invasivo e contaminante del nostro mondo, nelle loro incursioni nel nostro quotidiano. L’immaginario artistico e letterario prima e cinematografico dopo ci offrono molti esempi significativi in tal senso.

9. LO SGUARDO SI RIFLETTE SU DI SÉ… Lo sguardo si esercita in duplice direzione: transitivamente sul mondo, fino a addentrarsi nei

suoi meandri più segreti e scabrosi, e riflessivamente su di sé, instaurando un gioco di rimandi e rispondenze. Il mito di Narciso ben rappresenta questa seconda tendenza. Il culto della propria immagine da offrire allo sguardo proprio, ma senza escludere quello altrui, porta a una sua valorizzazione edonistica fino alla pretestuosità e alla frivolezza e sfocia nella figura del “Dandy” ottocentesco. Il “dandismo” indica ben più di uno stile di vita o un modo di porsi, giunge al culto maniacale e alla ricerca ossessiva del clamoroso, dell’eccentrico, dell’assoluta divergenza dal consueto, dal condiviso, dallo scontato. Il Dandy pone una logica che è la mancanza della logica riconosciuta come tale. Non ha argini etici o morali, ma solo mire iperboliche orientate allo scalpore.

Lo sguardo che si riflette su di sé segue un po’ la storia del dell’idealismo che, dopo la lunga stagione platonica e neoplatonica (intrecciata quest’ultima con il realismo tomistico), con la modernità va a seguire la curvatura del soggettivismo di Decartes, Berkeley e Kant e, più oltre ancora quella dell’idealismo assoluto di stampo romantico con Fichte e Shelling. 10. IL CORTOCIRCUITO TRA SGUARDO E CORPO

Nella modernità si tolgono progressivamente le mediazioni e gli alibi nel guardare il corpo. Le opere d’arte richiedono sempre meno il pretesto della mitologia o della storia sacra per mostrare corpi nudi. La nudità diviene meno casta. Mentre l’abbigliamento, pur non scoprendo, lascerà a partire dall’Ottocento i corpi sempre più liberi di muoversi e, così facendo, di rivelarsi, di attirare sguardi, di concedersi allo sguardo, il corpo diviene già dal Rinascimento sempre più presente per assistere direttamente alle scene concrete, senza la mediazione della loro raffigurazione iconografica. La vita di corte ai vertici della società e la vita sociale in genere acquistano importanza dal basso Medioevo. Il corpo diviene anche per questo sempre più osservatore e osservato, sempre più protagonista di libertà mai sperimentate prima. Non è un caso che la storia della medicina registri proprio nel XVIII secolo la cosiddetta “svolta fisiologica”, significativa nel rivelare questa maggior attenzione per la funzionalità corporea. Funzionalità e prestazioni sono sempre più in primo piano, nel XIX secolo la danza si dinamizza e perde l’alone ideale con la danza moderna (e successivamente contemporanea), nasce lo sport. Il gesto esibitivo acquista valore estetico. Il dinamismo è uno dei contenuti preferiti dell’attività osservativa. Il corpo si rivela nel muoversi, nel guizzo dei muscoli, nelle tensioni delle giunture, nella compressione delle masse,

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nella sua ponderalità, nello sprigionare o subire forze. Il corpo che si muove ha una sua spettacolarità che taglia fuori la mediazione iconica dell’arte, lo sguardo si appoggia ora sempre più sulla carne. Le sue (necessarie) imperfezioni sono non solo tollerate, ma scrutate, cercate. Si struttura a poco a poco una geografia del corpo e, per l’esplorazione dei suoi territori, il cinema offrirà vie d’accesso privilegiate.

Tutto è colto e rivelato dallo sguardo che allarga a dismisura il suo campo di osservazione in una direzione che nasce con la Modernità. 11. PER LO SGUARDO GLI OCCHI DA SOLI NON BASTANO PIÙ

Molti sono i segni che annunciano la modernità. Ogni storico ha preferito accordare il privilegio a uno di questi per qualificarlo come determinante. Ma nessuna cosa da sola può aver “fatto” la modernità. Plausibilmente è la sinergia di tutto che funziona in tal senso, che a volte non è stata vista per lo stesso motivo per cui non si vede il bosco perché è nascosto dietro l’albero. E tra il coacervo di fattori causa e prodotto della modernità c’è sicuramente lo strumento. Non, sic et simpliciter, l’utensile, prolungamento della mano, che estende o migliora un po’ le sue prestazioni, senza cambiarle sostanzialmente. Nato dalla pratica empirica, l’utensile è di uso intuitivo e richiede al massimo un po’ di tirocinio per affinarne l’uso, magari fino al virtuosismo, ma tale uso rimane molto aderente al corporeo originario. Lo strumento ha invece una genesi concettuale e consente un salto qualitativo delle modalità di azione e di percezione. Per niente intuitivo, si pone in continuità con il corpo, ma non semplicemente per espanderlo un po’ senza snaturarlo. Lo strumento fa del corpo qualcosa di diverso, chiede di essere inglobato, compreso nel corpo per far emergere una nuova entità che oggi chiameremmo “cyborg”, un misto di artificiale e naturale che consente di superare la “natura naturale” e di far vivere ciò che vivo di per sé non è.

Una pompa aspirante è ancora un utensile, un dispositivo che crea il vuoto torricelliano è uno strumento. Lo stilo che incide o segna la superficie di scrittura è un utensile. La stampa a caratteri mobili è uno strumento. Un paio di pinze sono un utensile per afferrare. L’appendice prensile di un robot programmato o sotto telecontrollo è uno strumento. Una lente che ingrandisce un po’ è un utensile sensoriale. L’ottica composta di un cannocchiale o di un microscopio è uno strumento. L’occhio-obiettivo, l’occhio fuso con la macchina fotografica e, ancor di più, con la macchina da presa, è strumento anch’esso e costituisce un esito tutto otto-novecentesco di tale processo, ma che ha radici profonde. Dopo aver guardato il mondo da dietro l’obiettivo di una macchina da presa o (per noi spettatori) attraverso uno schermo, il mondo non ci potrà mai più apparire lo stesso, anche se momentaneamente ci liberiamo materialmente del dispositivo tecnologico.

12. TEMPUS FUGIT Il tempo, il suo flusso inarrestabile e irreversibile, la fondamentale asimmetria che stabilisce

tra il passato e il futuro, tra i quali il presente è solo una sfuggente parentesi, conquista pervasivamente la conoscenza del mondo, di quello fisico, di quello vivente, di quello umano, si radica in profondità. Anche il gusto e l’estetica devono fare i conti con questa nuova dimensione. Nuova non nel senso che prima non esistesse o fosse sconosciuta, ma per il ruolo e l’importanza che non ha riscontro nella cultura precedente. È il tempo fisico, materiale, meccanico, misurabile che adesso viene alla ribalta, non il tempo metafisico, escatologico, divino, eterno. È un tempo con cui tutto deve fare i conti, che tutto erode o snatura, che tutto rende irriconoscibile. La perfezione e la bellezza, che facevano conto sull’immobilità, la costanza, l’identità con se stesse, sono travolte, nella piena modernità, dal torrente del tempo che non dorme mai, che tutto trascina con sé… non è più solo il “tic-tac” del cosmo-orologio e del suo dio orologiaio, un tic-tac tutto sommato eterno, sempre uguale a se stesso, con una sua perfezione e regolarità. Dal XVIII secolo il tempo porta il superamento, l’asimmetria, la differenza, infrange ogni antica perfezione. E così, sia pure con

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sfasature e sfumature più o meno considerevoli, il tempo entra in ogni settore della vita, dell’immaginario, del gusto… Eccone alcune indicazioni significative.

La geologia, sia pur divisa tra il catastrofismo e il attualismo, accoglie la concezione di un mondo che cambia. I cambiamenti avvengono comunque, per alcuni in modo silenzioso e costante, e sono sempre in atto, sia pure così gradualmente da non essere percepibili nei tempi delle ordinarie osservazioni umane (attualisti), per altri eventi catastrofici, rari quanto eclatanti, punteggiano in modo del tutto discontinuo la storia della terra (catastrofisti).

Il mondo dei viventi con Darwin (e anche prima con Lamarck) abbandona il fissismo, predominante da sempre. Ma non è tanto il cambiamento che sconvolge la visione del mondo dei viventi, quanto piuttosto la rimozione di un rassicurante finalismo, capace di garantire la direzione dei processi e delle vicende del mondo vivente. Ancora presente nell’evoluzionismo lamarckiano, non ve n’è più traccia nelle teorie di Darwin.

L’entropia è la colossale (e anche un po’ ingombrante e scomoda) protagonista della fisica a partire dall’Ottocento. Figlia di un indirizzo di ricerca, quello della termodinamica, nato sostanzialmente con lo scopo di ottimizzare il rendimento delle macchine a vapore della nascente industria meccanizzata, finisce con il produrre risultati inaspettati: una concezione del mondo che costringe a rivedere tutte le conoscenze di allora… Tutto ha un costo, nei processi naturali, qualunque trasformazione chiede di pagare il conto, secondo un andamento che non può essere né eluso né invertito, senza eccezioni. E soprattutto fa intravedere in scorcio il capolinea di tutti i processi e le trasformazioni dell’universo, una sorta di “fine dei tempi”, in senso fisico, la cosiddetta “morte entropica dell’universo”.

La caratterizzazione fisiognomica lascia a poco a poco il posto alla patognomica che coglie l’attimo fuggente dell’espressione di un’emozione, di un sentimento, dell’atteggiamento del corpo che interagisce dinamicamente con il mondo. Pur potendo ravvisarne le radici nel Duecento, la svolta fondamentale e decisiva è nel XVIII secolo con Lichtenberg. La fisiognomica non scompare, ma si colloca sullo sfondo. L’arte spesso trasforma l’immagine in una sorta di istantanea di un processo in corso.

La processualità del reale colto dalla scienza, dalla letteratura, dalla filosofia, dall’arte dà sempre maggior rilievo al vissuto, all’esperienza che concretamente facciamo delle cose e, di conseguenza, ai modi e ai mezzi di tale esperienza. I sensi divengono sempre di più un punto di passaggio e un termine di confronto obbligato. L’esercizio dei sensi non può non valorizzare, trovando in un certo senso fine in se stesso, la sensualità, il compiacimento, il piacere che tale esercizio può offrire. 13. IL TRIONFO DEI SENSI

Pur continuando gli occhi ad avere un ruolo privilegiato nella sensorialità, tutti i sensi sono alla ribalta. Si assottiglia il confine tra i sensi “nobili” e quelli “materiali”. Nuove arti emergono in funzione di produrre creazioni che soddisfino tutti i sensi. Dal XVII secolo assistiamo all’affermarsi dell’arte profumiera e della gastronomia di alto livello. Oggetti destinati alla cura di sé sono sempre più diffusi, ma anche semplicemente si fa maggiore l’attenzione a ciò che è destinato al tatto, come la qualità dei tessuti e degli oggetti destinati ad essere manipolati. Anche il corpo è visto con maggior attenzione e minor inibizione. Il nudo viene rappresentato in grazia di se stesso e non più dietro giustificazioni mitologiche o bibliche e rimanda a corpi veri e concreti.

E il corpo abbandona le pose composte della classicità, viene percorso dalle onde dell’emozione e della sensualità. Atteggiamenti di abbandono, di concessione al piacere sono sempre più frequenti. Il soggetto dell’opera d’arte, raffigurato nell’atto di provare piacere, è destinato a stabilire un filo sempre più diretto con lo spettatore, suscitando piacere anche in lui, in una sorta di risonanza reciproca.

Questo processo ha una lunga deriva e nel Novecento investe anche la sensorialità propriocettiva e il vissuto corporeo. Inoltre la valutazione estetica riguarda aspetti sempre più estesi

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dell’ambito umano, delle sue attività e prerogative, della sua esistenza in toto. Per questo molti autori parlano di un’estetica della vita (intesa nelle sue varie accezioni, compresa quella sociale e politica), di un’estetica della forma (la mediaticità dilagante nel XX secolo vede in campo una miriade di codici e di modalità di formalizzazione, riconducibili alla loro maggiore o minore capacità di rispondere a criteri estetici), di un’estetica della conoscenza (la conoscenza contamina l’arte e viceversa, la distinzione netta non è più possibile: le conoscenze in sé mostrano –o non mostrano- armonia, coerenza, bellezza, eleganza…), di un’estetica dell’azione (le occasioni dell’agire –e con agire si intende soprattutto l’agire interattivo e comunicativo- si moltiplicano, le interazioni causali si fanno più intricate, pervasive e potenti e la loro rispondenza a criteri estetici si rende sempre più evidente; problema postosi già con il dover regolare la vita cortese nel Tre-Quattrocento, prende forma nel famoso manuale del Galateo in epoca moderna), di un’estetica del sentire (o del sentire in senso fisiologico: la fisiologia ha un posto sempre maggiore nelle conoscenze e rappresenta ormai un modo imprescindibile di ermeneutica dei comportamenti propri e altrui; in questo rimando a doppio filo tra vita e fisiologia il sentire è sottoposto a valutazioni estetiche).

14. DALL’ARTE ALLA SCIENZA E RITORNO Il dialogo tra arte e scienza, iniziato in termini significativi nel Rinascimento, ha visto

all’esordio l’arte in posizione di radicale preminenza. Le figurazioni scientifiche, anatomiche, naturalistiche e persino tecnologiche, sottostavano a criteri e gusti artistici. E dalla scienza l’arte attingeva informazioni, riferimenti e quant’altro per arricchire il proprio repertorio, per aumentare il grado di dettaglio delle raffigurazioni. Ma già nel XVIII secolo questa sudditanza iconografica e di gusto si è attenuata, le concessioni della raffigurazione scientifica all’arte bella si sono assottigliate, l’iconografia scientifica diviene sempre più asciutta, acquista piano piano autonomia e specificità. La necessità di veicolare contenuti, di offrire chiavi interpretative e cognitive comincia a bastare a se stessa. Ma la rappresentazione scientifica va ancora oltre. Soprattutto nel XX secolo riesce a rovesciare il rapporto rinascimentale. È ora la scienza a offrire modelli e modalità all’arte. Le tecnologie via via più sofisticate per ottenere, produrre e riprodurre immagini impongono la loro legge anche in molti ambiti artistici. Delle immagini di sintesi e della geometria frattale, tanto per fare due esempi, si ritrovano echi in molte immagini artistiche. La sintesi grafica digitale diviene una importante palestra di immaginazione e creatività. Gli schemi resi evidenti dalla geometria frattale consentono di accostare entità cosmiche ed entità microbiologiche, strutture organiche e fisiche, naturali e sintetiche. Questo porta a dare un’importanza prioritaria allo schema comune che consente di connettere tutto questo, piuttosto che la specificità unica e irripetibile di ciascun ambito. Lo statuto dell’arte non può essere isolato da tutto il resto, non può più reggersi in virtù di se stesso.

15. NON DI SOLI CERCHI È FATTO IL BELLO Non è un caso che il primo libro del “De rivolutionibus orbium caelestium” di Copernico sia

dedicato ad esaltare la circolarità e sfericità del cosmo. È come premurarsi di dare garanzie di perfezione prima di abbattere un’antica certezza per sostituirla con un’altra del tutto diversa e in odor di eresia. Sono le orbite deformate di Keplero, è l’incostante velocità dei corpi celesti a segnare l’ingresso dell’astronomia nella modernità, quanto e più ancora, forse, dell’eliocentrismo.

Dopo secoli passati a voler portare, idealisticamente, la terra in cielo, cercando di adeguarla alla sublime (e circolare…) perfezione siderale o ideale, la modernità porta il cielo sulla terra, lo pone in continuità con essa, con la sua concretezza, con le sue imperfezioni, le sue ellitticità… Newton che unifica in un’unica teoria la fisica celeste, dei moti planetari, e quella terrestre della gravità inaugura una nuova epoca della visione del mondo.

Dante descrive nientemeno che il più alto degli Esseri come cerchio, Giotto disegna un cerchio a mano libera per dimostrare le sue somme virtù pittoriche, Leonardo inscrive l’uomo

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vitruviano in una doppia figura, cerchio (guarda caso) e quadrato (pur sempre equidimensionale). L’ellisse mina alle radici la pienezza dell’antica perfezione. Ci vorrà tempo prima che l’elisione, la mancanza, l’imperfezione (secondo i canoni classici) vengano viste non più in negativo, venga scoperta una nuova bellezza. Una scoperta che non sarà né veloce, né scontata, né indolore, ma che dovrà passare attraverso la disgregazione dei tre tradizionali pilastri portanti dell’estetica: la poiesis, l’aithesis, la katarsis. 16. DOPO IL BELLO IL NULLA?

Quei tre pilastri hanno sorretto per tanto tempo l’edificio estetico del mondo nella cultura occidentale. Ma la storia incalza, nuove condizioni maturano, nuove forze agiscono. Per tali riferimenti è tempo di dissolversi silenziosamente o di cadere fragorosamente, ma comunque di lasciare il campo all’inarrestabile avanzare della storia. Non è questione del meglio o del peggio, di fare il bilancio tra perdite e guadagni, è solo la forza della storia… Vecchie circolarità si distorcono in nuove ellitticità. Nella visione del mondo, a cavallo tra Otto e Novecento, acquista un ruolo senza precedenti il vuoto, la mancanza per eccellenza, la mancanza di tutto. Principale veicolo di questa irruzione del vuoto è la teoria atomica: non solo il vuoto esiste, ma è l’ingrediente prevalente nella costituzione della materia. Il pieno è sempre una piccola eccezione nella quasi totale regola del vuoto!... e nel Novecento questo “vuoto atomico” non è solo atomico, diviene cosmico, travalica i limiti della fisica e della scienza, diviene esistenziale. Lo si avverte nel fatto che la rotondità piena e perfetta viene a mancare nei tre termini poco sopra citati di poiesis, aisthesis, katarsis.

La poiesis, ovvero la produzione dell’oggetto d’arte, la creazione di qualcosa di unico che rimane a testimonianza dei moti dell’animo dell’artista. La riproducibilità industriale, seriale degli oggetti in modo indefinito, senza limiti di numero, toglie senso alla cosa unica, prodotto di un atto, espressione di volontà. Il legame tra uomo creatore, o quantomeno facitore, e oggetto creato si è spezzato. La produzione è sempre più macchinizzata, sempre più slegata dall’atto, dal fare diretto delle mani e dei sensi. L’esperienza di sentirsi attore e autore si è dissolta…

L’aisthesis. La mediazione strumentale e tecnologica si interpone tra l’uomo e il mondo. Nulla ci arriva più direttamente. La presa diretta sul mondo è potenziata, ma al tempo stesso disinnescata della sua immediatezza. Abitare il mondo ed essere abitati dal mondo in un atto di presenza reciproca viva e concreta è un’esperienza perduta…

La katarsis. Il senso di liberazione che ci può donare la contemplazione o la creazione è legato al senso di appartenenza reciproca tra noi e il mondo. L’alienazione e il senso di estraneità verso un mondo mal conoscibile e poco accessibile hanno preso il posto dell’identità, del riconoscimento e dell’appartenenza. Ci sentiamo estranei e prigionieri persino dentro noi stessi. “Io è un altro” scriveva Rimbaud, riassumendo mirabilmente il senso di questo distacco, di questa mancanza.

Questa perdita di riferimenti ci porta al rifiuto di noi stessi, a ritirarci dalla nostra soggettività, in primis da quella corporea, come in quell’atroce abbandono di se stessi che è l’anoressia. Neghiamo al nostro corpo la titolarità di soggetto. Relegato a un’oggettività distaccata e distante, gli neghiamo ogni sostentamento, lo affidiamo alla consunzione del tempo, lo proiettiamo verso un dissolvimento nullificante. Lo maltrattiamo, quasi sottoponendolo a punizioni, a una condanna senza appello. Non è l’edonistico rifiuto dell’aspetto del corpo (per ottenerne uno più bello), ma è il rifiuto del corpo stesso, dell’intollerabile carico di disagio che sentiamo provenire da esso.

17. VERSO NUOVI ORIZZONTI Si alludeva alla “scoperta” del vuoto, che in barba all’horror vacui di aristotelica memoria e di

grande fortuna in oltre due millenni di storia del pensiero e della conoscenza, si prende un posto da protagonista nello scenario scientifico del Novecento. Einstein, con la sua relatività speciale, aveva reso superfluo uno dei più tenaci baluardi contro la minaccia del vuoto: l’etere, mezzo “luminifero” per eccellenza. Ma, superato l’impatto traumatico iniziale, vediamo che questo non corrisponde alla

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fine di tutto, alla nullificazione di tutto. Con Dirac il vuoto si popola, in qualche modo si riempie, sebbene in modo nuovo: particelle, fluttuazioni quantistiche e altre entità sconosciute alla vecchia scienza, elusive, impalpabili, ma pur sempre qualcosa, qualcosa di fisico. Insomma nel vuoto c’è pur sempre qualcosa, il vuoto è pur sempre qualcosa. Analoga rivalutazione del vuoto e della sua necessità, del toglimento e della mancanza viene anche da altri fronti come quello della biologia. Il darwinismo neuronale dimostra che l’eliminazione di una gran quantità di neuroni subito dopo la nascita non è un danno, non è nemmeno un accidente tollerabile, ma un processo indispensabile perché il S.N. acquisti la piena efficienza e funzionalità, come un blocco di marmo ha bisogno che gli venga tolta la maggior parte della materia perché prenda forma, divenga una statua e acquisti contenuto e funzione. Togliere qualcosa aggiunge qualcosa, paradossale ma indubitabilmente vero!...

Nell’ultimo scorcio del Novecento si delinea un nuovo quadro dell’estetica. Si cominciano intravedere nuove prospettive oltre la caduta delle vecchie certezze. Nuovi paradigmi emergono e prendono consistenza. La loro è una geografia di confine, il loro statuto è quello della transitorietà e della contaminazione, il loro contesto è quello olistico della generalità dei saperi e della vita. La questione estetica rimane sempre quella di dare un giudizio alle cose, di assumere un orientamento, esprimere una preferenza. Quello che è cambiato completamente sono i termini e le motivazioni di questo giudizio, le modalità procedurali e gli scopi per cui si genera, i criteri orientanti e di scelta. Il dialogo con la scienza e le scienze non è più eludibile. E se una volta era la scienza a dare certezze e a fornire garanzie di esattezza e perfezione, oggi è proprio la scienza a dissolvere tali sicurezze. I nuovi domini scientifici (parlare di scienze in senso tradizionale non è più adeguato) sono delineati da campi di studio trasversali come la complessità, l’emergenza, l’autorganizzazione. Prendono consistenza teorie nuove come quella delle reti o dei sistemi dinamici. Il sapere si organizza secondo logiche non convenzionali, tra le quali quella sfumata è solo un esempio. La geometria frattale, nella quale è più facile perdersi che orientarsi, ha mostrato che la limpida ed esatta (fino all’astrazione) geometria euclidea non è l’unica. Altri esempi sono portati dagli spazi curvi e multidimensionali, prospettive che ci sconcertano.

Tra l’ordine perfetto e deterministico della fisica newtoniana e il disordine termodinamico totale, nel Novecento acquista inaspettatamente evidenza una zona intermedia, un caos abbastanza fluido da consentire cambiamenti, ma non abbastanza da far dominare la completa anomia, in cui l’autorganizzazione diviene possibile e molto probabile, in cui si assiste all’emergere di livelli di organizzazione imprevedibili, in cui si delineano attrattori più o meno strani e si addensano nuvole di probabilità. Qui vale una legalità minima e parziale in senso tradizionale (ma non per questo meno efficace, quella, per capirsi, denominata “local rules, global order”), piuttosto che sovraordinata e talvolta in odor di finalismo.

La forbice di cui si diceva, tra soggettivismo e oggettivazione, che nel Seicento si è aperta macroscopicamente, trova finalmente nel Novecento una inversione di tendenza. La fenomenologia compie uno dei passi più significativi in tal senso, istituendo un chiasma tra soggetto e oggetto, una radicale intersezione e una possibilità di scambio reciproco. La psichiatria fenomenologica, tratteggiata da Binswanger, cerca di muoversi in questa direzione, salvo subire poi uno scacco inevitabile. L’analisi di Umberto Galimberti (ci si riferisce qui soprattutto a Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983) fa un prezioso lavoro di scavo dei motivi e delle dinamiche storico-antropologiche e culturali che hanno infranto l’originaria sim-bolicità del corpo, che è poi l’organica integrazione della dimensione soggettiva e oggettiva-oggettivante dell’uomo.

Andando avanti, teorie come l’esternalismo, come quella della conoscenza radicata e incarnata (Embodied Embedded Cognition, EEC), del comportamento interattivo immediato (Immediate Interactive Behaviour, IIB), dell’accoppiamento strutturale, tecnologie come quelle che istituiscono e consentono di usare l’interfaccia cervello-macchina (Brain-Machine Interface, BMI), portano acqua al mulino della reintegrazione reciproca tra soggettivismo e oggettivazione, lavorano nel senso della chiusura di quella forbice allargatasi nell’arco degli ultimi tre secoli.

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È in questa temperie che si delinea una nuova estetica che, pur affondando le proprie radici nell’humus dei correlati neurofisiologici, riesce a non perdere la sua alta poesia. Quando contempliamo l’universo, un artefatto o la stessa vita, non possiamo più sdegnosamente ignorare o mettere tra parentesi la conoscenza scientifica che ci illumina su queste realtà, ma nemmeno possiamo strumentalizzare queste conoscenze per legittimare un riduzionismo mortificante. L’universo forse oggi è più bello proprio perché lo conosciamo di più e meglio. Attraverso la lente della conoscenza, la meraviglia e il piacere della contemplazione possono illuminarsi di bagliori che finora non ci erano concessi…

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BELLO O PERFETTO? UNA DOMANDA TRA SCIENZA, MATEMATICA E

TECNOLOGIA1

Fausto Ghelli

Tale nuova direzione è indicata da molti esempi. Uno di essi può essere considerato la nascita

della ergonomia contemporanea a Oxford, nel 1949, che inaugura un filone di ricerca su base medico-ingegneristica finalizzato a orientare la progettazione (compreso il design) al soddisfacimento di esigenze psico-fisico-relazionali.

L’ingegneria estende il suo campo, non di rado interferendo in quelli che tradizionalmente erano i domini di azione dell’architettura e delle “belle arti” in genere.

La contemplazione e l’“aisthesis” non sono più l’unico e nemmeno il principale modo di rapportarsi con l’oggetto.

La staticità lascia il posto al dinamismo, il prodotto al processo, la contemplazione all’azione, la struttura alla funzione, e via dicendo.

In particolare l’aspetto processuale e la sua valorizzazione ha radici che potremmo far risalire addirittura al tardo Medioevo: si pensi alla tecnica di costruzione della cupola del Duomo di Firenze senza ricorrere a centine. Oltre che progettare il prodotto l’ingegneria progetta anche e sempre di più il processo, processo che ha un contenuto tecnologico e teoretico sempre più elevato. Nella modernità avanzata, e soprattutto dal XIX secolo, la conoscenza diviene sempre più fonte di piacere e gratificazione. Un’altra barriera che dovrebbe isolare l’estetica nella sua torre d’avorio (separandola in questo caso dalla conoscenza) è infranta.

In tutto questo trova spazio l’ingegneria che costruisce e offre gli strumenti di formalizzazione, controllo e gestione di produzione e uso degli oggetti. Dall’ingegneria vengono le spiegazioni e le indicazioni di come e perché un oggetto è o può essere piacevole, gradevole, elegante…

Ingegnerizzare i rapporti con la realtà non significa avere la garanzia dell’infallibilità, anzi significa proprio lasciare all’errore spazio e assegnargli una funzione informativa, farne un elemento di confronto.

Il vissuto estetico oggi non può prescindere dalla semplicità di uso dell’oggetto, dalla qualità (anche fisica, corporea) dell’esperienza di interazione, dalle implicazioni funzionali e di utilità che tale interazione mette in gioco. Semplicità come eleganza, come pulizia, come purezza, come assenza di disturbi, come economia di tempo e risorse attentive per le caratteristiche intrinseche dell’oggetto e quindi come possibilità di concentrarsi su aspetti esterni e sovraordinati, quindi come libertà e apertura del pensiero.

Un esempio paradigmatico è il mouse prodotto dalla Apple (“Magic Mouse”) nel 2009, che presenta una superficie compatta, intera, senza alcun elemento di azionamento meccanico, come erano i tradizionali tasti (sx e dx), e la rotellina di scorrimento. Il lembo di superficie superiore è di fatto un “touch-pad” interattivo, con ulteriori funzioni. Il tipo di contatto (ampiezza, direzione, velocità…) calibra e determina le azioni “sfoglia pagina”, “zoom” di pagina o di schermo, “scorri pagina”, e in genere tutte le funzioni tradizionalmente affidate ai tasti dx e sx. Le vere novità sono che tutta la superficie è recettiva in tal senso (e quindi non ci obbliga a azionare in modo mirato questo o quel comando), inoltre i gesti di “touch” sono molto più intuitivi e accettano un margine di approssimazione maggiore, senza perdere efficacia e precisione, infine la gamma di comandi è molto più articolata e consente di evitare in molti casi lo spostamento fisico del mouse sul pad.

1 La presente relazione è stata presentata all’adunanza scientifica dell’Accademia dei Fisiocritici in Siena in data 8

Settembre 2011 e destinata alla pubblicazione negli atti dell’Accademia.

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Questo è ottenuto grazie a una tecnologia sempre più evoluta e che è presente in sempre maggior quantità all’interno dell’oggetto, ma per offrire un’interfaccia sempre più conformata sulle esigenze e i gusti del soggetto.

È pur vero che l’oggetto diventa sempre più una “scatola nera” e si segna un divario sempre maggiore tra la conoscenza del fruitore (relativa all’uso) e la natura dell’oggetto, sempre più inaccessibile, ma il vissuto è sempre più soddisfacente in termini che possiamo definire insieme “estetici” e “funzionali”.

La vera innovazione è che questa nuova estetica si interessa di oggetti che tradizionalmente sono stati non solo ignorati, ma anche ritenuti tutt’altro che degni di considerazioni di questo tipo. Cosa c’è di “bello” o esteticamente apprezzabile in un mouse? In una curva di un tracciato stradale?

La prima cosa che notiamo (che l’ingegneria ci fa notare) è la stupefacente (dobbiamo davvero stupirci?) analogia tra strutture naturali (del mondo biologico o minerale) e strutture ingegneristiche, la convergenza tra le soluzioni cui è giunta l’evoluzione biologica o a cui portano i processi entropici da una parte e quelle messe a punto dall’ingegneria dall’altra. Tale convergenza viene notata spesso a posteriori, come dire che l’ingegneria giunge a tali soluzioni, analoghe a quelle naturali, indipendentemente da esse.

Questa può essere se non una prova almeno un indizio a sostegno del fatto che le soluzioni in questione [es. l’impacchettamento esagonale delle schiume, dell’alveare, le reti metalliche di contenimento degli argini, o briglie] rappresentano un optimum a prescindere. In seguito alla constatazione di tali convergenze, oggi l’ingegneria sempre di più cerca zone di intersezione con le scienze naturali. Sembra evidente che questo interloquire tra l’ingegneria (progettuale e prescrittive) e le scienze naturali (descrittive ed esplicative) sia solo all’inizio e molto resti ancora da fare su questa strada.

Nell’attualità la demarcazione tra utilità, modo di fruizione, funzionalità, convenienza da una parte e bellezza dall’altra non è più sostenibile nei termini tradizionali che facevano della mancanza di implicazioni pratiche l’elemento definitorio della bellezza: “un oggetto è bello se prescinde dall’utile”.

Per dimostrare quanto ormai bellezza e utilità siano indissolubilmente legate, segnando un decisivo salto di qualità rispetto alla visione dell’estetica del XVIII secolo, possiamo usare innumerevoli esempi, che ci offre l’ingegneria.

Uno di questi esempi significativi di convergenza di utilità e bellezza lo possiamo trovare nello sviluppo plano-altimetrico di una sovrastruttura stradale. L’aspetto altimetrico sarà qui solo accennato per brevità di esposizione.

Il percorso della strada, per molti e differenti motivi, presenta uno sviluppo non rettilineo. Il problema della curvatura lo troviamo, è l’esempio comparativo che scegliamo,

nell’anatomia dei molluschi, in particolare dei gasteropodi. Probabilmente per ragioni di “compattamento dimensionale” forse per essere meno esposti ai predatori, l’evoluzione ha favorito massicciamente l’avvolgimento elico-spirale delle parti molli e del guscio da esse formato e che le protegge.

Infatti, la torsione viscerale e la conseguente torsione conchiliare dei molluschi gasteropodi, di alcuni cefalopodi e, anche se in modo meno evidente, dei bivalvi segue un andamento particolare che, guarda caso, è “imparentato” con la tracciatura delle nostre strade.

La conchiglia soddisfa esigenze biologico-adattive del mollusco, ma attira anche la nostra meravigliata ammirazione. La conformazione della strada non ha forse lo stesso tipo di attrattiva, ma ugualmente ha dei pregi estetici, come vedremo, che, al di là dell’eleganza della formulazione matematica, offre piaceri percettivi e motori, in accordo con quelle che sono oggi le concezioni dell’estetica.

Cominciando a porre il problema della tracciatura di una strada, il primo elemento che intuitivamente (e rozzamente) possiamo usare è un insieme di segmenti variamente dimensionati e variamente angolati.

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Per la schematizzazione di una sovrastruttura stradale, scegliendo di rappresentarla con il suo asse (all’interno di un piano cartesiano georeferenziato), possiamo infatti utilizzare una linea poligonale irregolare che tenga conto, questo sì, della morfologia del territorio indicata dalle curve di livello. Questo tipo di tracciatura richiede solo l’uso del righello. La strada così fatta sarebbe impercorribile!...

Un secondo approccio, tutt’oggi utilizzato nelle strade a basso scorrimento e nei piani di zonizzazione primaria, per ragioni di semplicità ed economia (anche se nulla vieterebbe di ricorrere a modelli più evoluti, come quello che si va ad esporre), che affina quello suesposto, è quello di raccordare gli angoli della poligonale tramite archi di circonferenze tangenti ai segmenti, il cui centro è ovviamente collocato nell’angolo convesso che a due a due, disposti contiguamente, essi formano. Ma anche questa combinazione di segmenti e parti di circonferenza non ottimizza la percorrenza, lasciando un ampio margine di pericolo e di disagio all’utente, soprattutto perché si passa istantaneamente da una curvatura zero a una curvatura determinata e quindi con una derivata dell’accelerazione (contraccolpo) infinita. A basse velocità il fatto è pressoché trascurabile. I problemi iniziano con velocità sostenute. Pertanto occorre andare oltre!... ed è qui che le curve conciliari fanno il loro significativo ingresso, a sostegno di quella visione olistica degli oggetti naturali e artificiali cui si accennava.

Nella progettazione di sovrastrutture stradali (tipologia “A”, cioè autostrade, superstrade…), l’elevata velocità di percorrenza dei veicoli richiede un modello più evoluto di quello segmento-arco.

In tale modello si sceglie di realizzare il raccordo tra l’elemento geometrico rettifilo (segmento di retta) e lo sviluppo di una curva a raggio fisso (arco di circonferenza) attraverso l’impiego di una curva a raggio variabile, appartenente alla famiglia delle spirali logaritmiche, di equazione

1+=⋅ nn Asr dove r è il raggio della curva nel punto considerato, s non è altro che lo sviluppo della curva nel punto considerato, ovvero l’ascissa curvilinea, n è il coefficiente di forma che rappresenta di quanto varia la curvatura (1/r) al variare di s, ovvero dello sviluppo. I tre casi limite sono:

1. Arn =⇒= 0 , che è una curva circolare ( 022 =++++ cbyaxyx ) 2. ∞=⇒∞= rn , che è una retta ( qmxy += ) 3. 21 Asrn =⋅⇒= , che è una clotoide, ovvero un caso particolare di spirale logaritmica. Di questi tre la scelta cade sul terzo perché rappresenta l’entità fisico-geometrica adatta a

realizzare il raccordo tra elementi a curvatura diversa, grazie alla variazione punto-punto del suo centro di istantanea rotazione (e quindi anche del raggio) lungo l’intero sviluppo dell’asse stradale. In coerenza a tutto ciò, anche la rotazione della piattaforma stradale viene effettuata all’interno della curva di transizione in modo che la transizione dell’asse stradale corrisponda anche la transizione della piattaforma. La piattaforma, infatti, dotata di ingombro, richiede uno studio sul comportamento ed evoluzione dei cigli (margine sx e dx), e questo anche per evitare fenomeni di ristagno dell’acqua con conseguente acqua-planning (effetto Orn)

Tutto ciò è necessario perché il semplice inserimento di un arco di circonferenza tangente al rettifilo non tiene conto del fatto che su un tracciato stradale ci sono veicoli in movimento a velocità elevata e per questo sottoposti a diverse considerevoli forze fisiche, in particolar modo

all’accelerazione centrifuga il cui modulo è espresso dalla relazione

= 2

2

secm

rvac .

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Un rettifilo può essere pensato come una porzione di circonferenza il cui centro è posto all’infinito, per cui, come riscontrabile nella pratica, il veicolo è sottoposto solo ad accelerazione

longitudinale, poiché 0=→

ca . Una circonferenza dal canto suo presenta un raggio definito e quindi un centro identificabile

fisicamente, ad es. con coordinate cartesiane assolute o parziali (x;y), il quale fa sì che 0≠→

ca e, nell’ipotesi che la velocità si mantenga costante, l’accelerazione faccia altrettanto.

Tralasciando l’importanza del contributo dato dalla sovrapendenza della carreggiata stradale e dal fenomeno dell’aderenza trasversale lungo la percorrenza di un tratto di curva, utilizzate per compensare la spinta della forza centrifuga, possiamo esaminare il ruolo del contraccolpo [c].

La grandezza del contraccolpo nell’ipotesi di velocità costante, di essere così definito:

2

3232

2

1

1

Av

sAs

vs

v

rv

vsrv

tac c =

=∂

=

=∂∂

=

L’unico elemento geometrico che consenta un passaggio graduale da accelerazione nulla ad accelerazione definita, è rappresentato dalla figura geometrica della clotoide in cui, per ogni punto appartenente al suo sviluppo, il centro di rotazione cambia consentendo una variazione graduale e controllata della forza dell’accelerazione centrifuga.

Per cui il contraccolpo, applicato puntualmente negli ipotetici punti di attacco retta-cerchio e cerchio-retta, può essere “spalmato” con una funzione ad andamento lineare lungo lo sviluppo dell’elemento di transizione, rappresentato proprio dalla clotoide, in cui il centro di istantanea rotazione cambia punto per punto, facendo variare gradualmente la accelerazione centrifuga, sia nella fase di ingresso in curva che nella fase di uscita.

Come si traduce questo nella fase di progetto? Dettate delle limitazioni sul maxc e sulla maxv di percorrenza della sovrastruttura, ne derivano le limitazioni sul parametro A e quindi, per la

2Asr =⋅ , sullo sviluppo della clotoide stessa in base alla sua equazione reologica. La questione sembrerebbe semplice, ma in realtà il vero problema dell’inserimento è

costituito dallo scostamento iniziale tra cerchio e rettifilo. Tale problema può essere risolto: 1) esprimendo l’equazione parametrica della clotoide in funzione dell’angolo al vertice τ, da

cui 2

2

2

2

221

rA

As

==τ ;

2) ricavando l’espressione della curva di transizione in coordinate cartesiane. Si rende necessario definire dx e dy in funzione dell’angolo al vertice τ, risolvendo il sistema algebrico di coordinate del punto generico P appartenente alla clotoide con uno sviluppo in serie di Taylor ed arrestandolo al primo ordine che corrisponde ad un errore accettabile (ingegneristicamente parlando) dell’ordine del mm;

3) si arriva alla determinazione della grandezza fisica cercata, ovvero lo scostamento indicato con r∆ . Questo parametro è stimato attraverso la relazione

3

4

24rAr ≅∆ arrestando lo sviluppo in serie di Taylor al primo termine.

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Tutto questo, che pare un’elucubrazione astratta e poco pertinente, ha invece delle importanti ricadute nell’esperienza di uso della strada, quando la percorriamo guidando un veicolo qualunque.

Oltre al maggior margine di sicurezza che viene garantito sul singolo elemento (ma che tuttavia è già contemplato dall’esame del diagramma delle velocità del tracciato nel suo insieme), si nota che vengono soddisfatti dei parametri che possiamo porre in relazione con il lato “estetico” dell’esperienza di guida.

Si tratta della piacevolezza e della facilità di conduzione del veicolo, della tempistica dell’azionamento dei comandi, oltre che dell’assenza di ambiguità o disorientamento. Quest’ultimo aspetto è legato alla percezione e ai processi cognitivi che consentono di anticipare, programmare, eseguire e supervisionare tali operazioni nel loro insieme.

Il nostro S.N, i nostri recettori e analizzatori, il nostro apparato locomotore hanno delle loro caratteristiche strutturali e funzionali, irriducibili ad aspetti puramente concettuali. Se tali caratteristiche vengono rispettate e sollecitate in modo ottimale (anche tramite un’opportuna configurazione della sede stradale, appunto) questo corrisponde ad una esperienza piacevole e .

Pur se tale aspetto estetico dell’esperienza conserva un quid difficilmente definibile, tuttavia possiamo trovare dei modelli matematici che lo esprimono.

Il primo è percettivo (ottico: visione della curva) e il secondo è motorio (velocità di sterzatura).

- Viene definito “criterio di guida ottica”, in cui per una corretta percezione della prospettiva

stradale la curva di transizione deve possedere uno sviluppo minimo oltre il quale non si provochi disagio ottico, ovvero se la clotoide ha una lunghezza piccola, l’angolo al centro è piccolo e quindi è piccolo anche l’angolo di deviazione. Affinché una clotoide sia otticamente individuabile, l’angolo τ deve essere ≥ 30° nel punto di tangenza con la curva

circolare. Questo implica che rA31

≥ .

Dall’altro canto se la clotoide è molto lunga non si riesce a percepire la presenza dell’arco di circonferenza. Vuol dire che si è portati ad arrivare su tale arco con velocità troppo elevata, da cui, limitazione superiore, rA ≤ .

- Indicando con P il passo del veicolo (distanza tra asse anteriore e posteriore), definito con θ l’angolo di sterzo e con r il raggio della curva, si ha che

sArdove

rPrP

2

, ==⇒⋅= θθ , la variazione di θ con il tempo porta a definire

vAP

vAP

ts

AP

AsP

ttAsP

sAP

rP

2

2222

2

=

=∂∂

=

∂∂

=∂∂

⇒⋅

=

⋅=

⋅=

θ

θθ

θ

θ

Questo ci dice la velocità angolare con cui muovo lo sterzo è proporzionale alla velocità lineare del veicolo e inversamente proporzionale al quadrato del parametro A della clotoide.

Questo modo di concepire, realizzare e usare un tracciato stradale trova una sua

generalizzazione in alcuni casi più complessi. Oltre che raccordare un rettilineo ad una curva o viceversa (da cui il nome curva “di

transizione”) si assiste a necessità ulteriori che la realtà ci presenta: A) Raccordo tra due curve (con centri distinti) nello stesso senso e consecutive, oppure

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B) Raccordo tra due curve con verso di sterzata opposto senza lo spazio sufficiente per interporre un rettifilo tra esse.

Nel primo caso si ha una “clotoide di continuità”, mentre nel secondo si ha una “clotoide di

flesso”. Tra le due la più interessante è la seconda perché presenta un cambio di convessità e una schematizzazione geometrica affascinante per la disposizione dei centri di istantanea rotazione.

Questa nomenclatura ci permette di rileggere in chiave ingegneristica le strutture conchiliari. Possiamo prendere come esempi alcuni gusci di conchiglia. Sono particolarmente interessanti alcuni cefalopodi del tardo Cretaceo, il cui avvolgimento piano-spirale presenta molte e bizzarre variazioni di curvatura. Tali gusci, denominati scaficono, amiticono, baculicono ed appartenenti a diversi generi, hanno andamenti che “fanno spreco” di tali curve di raccordo.

Se poi si osserva la sezione di una valva dorsale di un Lamellibranco, genere Pectinidae, con guscio piano-convesso, si nota che la valva dorsale, approssimativamente piana, in realtà è concava nei pressi dell’umbone, in prossimità cioè della cerniera, mente è leggermente convessa nella parte distale. È presente quindi un flesso a tangente orizzontale, nella parte intermedia della valva.

Altro esempio di clotoide è dato dalla curvatura in proiezione sagittale dei condili femorali. Il raggio di tale curvatura varia e varia il centro di rotazione, in relazione alla fisiologia dell’articolazione, in particolar modo della tensione dei legamenti e della combinazione mobilità-stabilità del ginocchio stesso.

Se un approccio matematico basato sull’esame degli “stress pattern” sembrerebbe di maggior pertinenza, si è preferito l’esame strutturale perché il paragone con la progettazione ingegneristica (in questo caso stradale) consente pienamente di analizzare, per es., lo sviluppo elico-spirale di una conchiglia con altri strumenti che ci fanno meglio comprendere gli atti di moto assiali (rotazione, traslazione, espansione) infinitesimi che la generano e ce la fanno meglio rappresentare in 3D.

Ciò è possibile perché da un punto di vista matematico una figura non perfetta, la clotoide, può essere scelta come elemento di raccordo per lo sviluppo di due elementi perfetti (il cerchio e la retta), in quanto può essere intesa come un insieme infinito di cerchi con l’errore di approssimazione che tende a zero.

La riflessione ingegneristica, che l’esperienza e l’utilizzo ci porta a verificare, non aspetta più di constatare coincidenze a posteriori, ma si dà come criterio euristico primario l’esame della natura, in questo viaggio andata e ritorno che unisce il naturale e l’artificiale.

La stasi del mondo classico è definitivamente infranta, ma la scienza e, con essa la tecnologia, hanno nello stesso tempo lavorato per costruire un altro tipo di bellezza. Con i dovuti tempi si è capito che l’ellisse kepleriana, per es., non era solo una negazione delle sfere e dei cerchi, ma anche l’affermazione di forme nuove, diverse, animate da dinamismi fino ad allora sconosciuti, aperte verso orizzonti che in un primo tempo avrebbero spaventato. Oggi consideriamo “bello” un frattale, o la sensazione tattile e motoria offerte da un oggetto tecnologico ben realizzato, o un procedimento cognitivo e/o costruttivo: le frontiere dell’estetica hanno traslato quantitativamente e qualitativamente in modo e misura tali da essere impensabili nel XVIII secolo.

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L’UOMO, QUESTA “MERAVIGLIA” E QUESTO “PARADOSSO”. TRA

LIMITE, DESIDERIO E AUTOTRASCENDIMENTO

Mauro Mantovani

1. ABSTRACT

2. ENTRANDO NELL’ARGOMENTO…

1. ABSTRACT

L’intervento, che si colloca primariamente sul piano dell’antropologia filosofica ma con i necessari collegamenti al piano etico, estetico e soprattutto metafisico, è volto ad evidenziare le categorie della “meraviglia” (tra le radici originarie della stessa indagine filosofica) e del “paradosso” come manifestative della condizione umana così come esistenzialmente essa di pone, nella sua ambivalenza, tra carenza e pienezza, viaggio e traguardo, desiderio e appagamento, tra “cerchio ed ellisse”.

La presa di coscienza della propria contingenza d’essere, il senso del limite, e le categorie costitutive di “autotrascendimento” e di apertura alla Trascendenza verranno sviluppate come indicatori fondamentali da tenere in considerazione in vista di un’appropriazione adeguata dell’esistere umano (individuale e collettivo) nella storia, innestandosi così nel tema della sfida “qualitativa” lanciata a suo tempo da Darwin ed oggi da varie forme di riduzionismo antropologico ed epistemologico sul come fornire un risposta adeguata e completa alla domanda “uomo, chi sei?”, che più che porre di fronte ad un “problema” evidenzia la presenza di un vero e proprio “mistero” (G. Marcel), a proposito del quale i dati antropologici provenienti dalla rivelazione cristiana e dalla sua tradizione di pensiero – pur certamente in dialogo con altre culture e tradizioni religiose ed umanistiche – mostrano la loro originalità, pregnanza e preziosità.

2. ENTRANDO NELL’ARGOMENTO… Ringrazio di cuore per l’invito a partecipare a questa Giornata di studio. Il titolo di

quest’incontro, ed il nome dell’iniziativa (Darwin Day), mi hanno molto incuriosito, e ho voluto subito leggere le pagine che si riferiscono alla storia di questi vostri significativi momenti culturali.

Io mi occupo di filosofia teoretica, sono un sacerdote salesiano, ed il mio campo specifico di studio è la questione della dimostrazione dell’esistenza di Dio così come si pone nelle cosiddette “vie” offerte al pensiero occidentale dal teologo e filosofo domenicano medievale Tommaso d’Aquino (la loro formulazione, i commenti e le critiche, il loro valore oggi, ecc.), ma ho sempre coltivato un particolare interesse per il rapporto tra filosofia, teologia e scienza, per le “questioni di confine” – come per esempio il concetto di creazione e l’origine dell’universo e la sua evoluzione –, scoprendo via via l’importanza della mediazione offerta in genere dalla cultura e in specie dalla filosofia al rapporto tra scienza e fede,2 e maturando così sempre più la convinzione che i modelli concordisti e discordisti sono entrambi inadeguati, e che all’“aut-aut” può legittimamente subentrare un “et-et”.

Nel programma scritto di questa giornata si trova più volte la parola “cultura”, così definita: «un sistema dinamico, e il suo valore sta nelle inserzioni con la vita e con il mondo. […] Tale

2 Se può risultare di qualche interesse, rimando al volume M. MANTOVANI – M. AMERISE (a cura), Fede, cultura e

scienza. Discipline in dialogo, Lev, Città del Vaticano 2008.

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valore è nel saper investire l’uomo su tutti i piani, da quello esistenziale a quello etico, da quello sociale e relazionale a quello creativo, a quello metafisico».3

Ciò che assai brevemente mi riprometto di fare in questo intervento è di offrire qualche semplice spunto di riflessione sulla realtà della persona umana tenendo conto di cinque categorie (quelle indicate tra titolo e sottotitolo) che mi sembrano particolarmente preziose per descriverne l’esistenza. Interrogarsi filosoficamente sull’uomo, dunque, facendo interagire metafisica e antropologia. L’enciclica di papa Giovanni Paolo II (che sarà dichiarato beato proprio domani, 1 maggio 2011) dal titolo Fides et ratio ricorda, a tale proposito, che «è necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È un’esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico, e voglio rivendicare la capacità che l’uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa all’antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica. Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta […] è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge».4

Mi colpisce sempre rileggere alcune pagine di un testo di M. Ferraris dal suggestivo titolo Dove sei? Ontologia del telefonino, e penso a come effettivamente ci possa essere un rapporto tra la tecnologia che usiamo e le domande che ci facciamo: quando una volta usavamo il telefono fisso, normalmente chiedevamo: “C’è….?” (sapevamo dove stavamo telefonando, ma non sapevamo se c’era la persona); oggi, con il telefono mobile, chiediamo invece “Dove sei?” (se risponde, infatti, siamo sicuri di aver trovato la persona, ma non sappiamo dov’è).5 E vale davvero la pena riflettere – ma non è questo il momento – sul rapporto tra tecnologie e domande esistenziali. La riflessione antropologica, quando ha un “respiro metafisico”, assume come sue, al di là di ogni tecnologia, le domande fondamentali che l’uomo di ogni tempo e condizione si porta con sé, ossia gli interrogativi più radicali che toccano il significato ultimo della stessa esistenza: chi sono?; chi è l’uomo?; che senso ha la vita?; è possibile essere uomo?

La già citata enciclica Fides et ratio così sintetizza nel suo incipit queste domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’intera vicenda umana: «chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? [E, aggiunge] Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza».6 Il filosofo francese Gabriel 3 Dalla presentazione del III Darwin Day. 4 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio, Lev, Città del Vaticano 1998, n. 83. 5 Cf. M. FERRARIS, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2005. 6 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio, cit., n. 1. E potremmo aggiungere che queste domande sono

presenti anche in tanti film, canzoni, opere d’arte, ecc., che anche oggi incontriamo.

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Marcel mette giustamente in luce la distinzione, pensando all’“homo viator”, tra “problema” e “mistero”: l’uomo davanti a se stesso non si accontenta di essere “un problema”, ma si autocomprende come mistero, nella piena identità tra interrogante ed interrogato. «La scienza, la tecnica fanno enormi progressi e ci informano sul come è fatto l’universo nel macro e nel micro, ma non portano l’io profondo a conoscere il vero perché della vita: perché io esisto? Dove devo ultimamente andare e per dove arrivare? Chi reprime questi ineluttabili interrogativi rischia di essere nella vita uno zombi, che non vive ma si lascia vivere nel profondo di sé».7

Si possono comprendere così, anzitutto, le due parole del titolo: meraviglia e paradosso. Come sappiamo la meraviglia e lo stupore sono fin dall’inizio indicati come gli atteggiamenti propri del percorso filosofico e sapienziale. Platone dice infatti che «è proprio del filosofo […] di essere pieno di meraviglia».8 Anche per Aristotele «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia».9 «Sul buon terreno della calma interiore, del silenzio, della solitudine e della docilità – scrive G. Savagnone – sboccia la meraviglia. […] Ma la meraviglia che è inizio del filosofare non va confusa con lo sbalordimento di fronte a uno spettacolo fuori dell’ordinario. Essa è, piuttosto, l’atteggiamento di chi guarda con occhi limpidi la realtà. Nel prodigio di questo sguardo nuovo che si apre sul mondo, quel che più profondamente suscita meraviglia è proprio l’ordinario, ciò che da sempre stava davanti a noi e che forse proprio per questo era diventato invisibile».10 Ciò a partire dalla nostra esistenza personale, dal nostro essere uomini e donne del nostro tempo.

Il tema del paradosso ci viene illuminato dallo stesso significato etimologico della parola, dal greco pará, contro, e dóxa, opinione, come termine applicato, nella sua accezione più ampia, «a qualsiasi affermazione o ragionamento che contrasti con ciò che di solito è ritenuto ovvio. In un senso più specifico, si parla di paradosso quando una conclusione assurda, o che sembra tale, è ottenuta a partire da premesse plausibili attraverso pochi passaggi deduttivi in apparenza corretti».11

In che senso l’uomo è paradosso? Egli veramente rappresenta un enigma, nel darsi continuo dell’ambivalenza (quella rappresentata anche dalle due figure del cerchio e dell’ellisse che accompagnano questa Giornata di studio) tra la sua grandezza e la sua miseria. Siamo capaci di raggiungere la Luna e di collegare in rete tutti i computer che riusciamo a “creare”, eppure il nostro Novecento ha prodotto Auschwitz e altri genocidi; ci sono ancora malati di lebbra nonostante possa essere debellata; si muore ancora di fame. Ma è anche paradossale, per esempio, che si faccia compravendita di amici su Facebook e ci si scopra incapaci di relazionarci o semplicemente di andare d’accordo con i propri compagni di banco, o che non si conoscano i propri vicini di casa. E molti altri esempi potrebbero essere aggiunti, ma non è questo il contesto.

In senso più propriamente filosofico si potrebbe dire, con Palumbieri, che l’uomo così potrebbe essere “sintetizzato”: «come meraviglia, è una realtà capace radicalmente di superare il puro sé, per raggiungere altro da sé, passando per la fase intermedia della conoscenza di sé, del possesso del sé, del progetto al meglio di sé. Come paradosso, poi, è compresenza di contrari ma non di contraddittori. Che tuttavia possono convivere in un equilibrio, che è insieme dono e compito. Che è sforzo e gaudio. Che è fobia e ardimento. Che è rassegnazione e speranza. Davanti alla meraviglia vibra lo stupore. Davanti al paradosso si attiva il fervore».12

L’ambivalenza della condizione umana è ben espressa anche da alcune espressioni del Salmo 8: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissate, / che cosa è

7 S. PALUMBIERI, L’esistenza: vocazione radicale, senso della vita, in TR News (2011/1), p. 5. 8 Cf. PLATONE, Teeteto 154 d. 9 Cf. ARISTOTELE, La Metafisica I, 2, 982 b. 10 G. SAVAGNONE, Theoria. Alla ricerca della filosofia, La Scuola, Brescia 1991, p. 84. 11 Paradosso, in Filosofia (N-Z) (=Le Garzantine), Il Corriere della Sera, Milano 2006, p. 819. 12 S. PALUMBIERI, L’uomo, questo paradosso. Antropologia filosofica II. Trattato sulla con-centrazione e condizione

antropologica, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2000, p. 27. Cf. anche ID., L’uomo, questa meraviglia. Antropologia filosofica I. Trattato sulla costituzione antropologica, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 1999.

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l’uomo, perché te ne ricordi, / il figlio dell’uomo perché te ne curi? / […] L’uomo è come l’erba, come il giorno di ieri che è passato. […] / Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, / di gloria e di onore lo hai coronato, / gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, / tutto hai posto sotto i suoi piedi». L’uomo cammina tra consapevolezza della sua grandezza e altissima dignità, e la coscienza del suo limite e anche dei “contrari” che lo abitano.

All’inizio di questo incontro è stato letto un brano famoso del De dignitate hominis di Pico della Mirandola. A. Finkielkraut13 ha suggerito a proposito l’idea che la modernità si potrebbe aprire [1486!] proprio con Pico della Mirandola, quando egli riscrive il libro della Genesi facendo affermare dal Creatore – come abbiamo sentito – l’assoluta e totale indeterminazione dell’uomo, in vista della sua libertà. Contrariamente a tutte le altre creature, l’uomo, scrive infatti Pico, non ha una natura che deve necessariamente seguire; ha, invece, la libertà di autodeterminarsi, di fare di sé ciò che vuole, fino a diventare come un animale o come un dio, usando liberamente a questo scopo di tutto il creato: «A te, Adamo, non ho assegnato un posto determinato, né un aspetto e neanche una dote particolare, e ciò affinché sia tu stesso a volere, a conquistare e a possedere da solo il tuo posto, il tuo aspetto e le tue doti. La natura contempla altre specie tra le leggi da me stabilite. Ma tu che non hai alcun confine come limite definirai te stesso secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani io ti ho posto. […] Non ti ho creato né celeste, né terrestre, né mortale né immortale, affinché, sovrano di te stesso tu possa completare liberamente la tua forma, come un pittore o uno scultore. Potrai degenerare in forme inferiori, come quelle bestiali, oppure, rigenerato, potrai raggiungere le forme superiori e divine».14

Questa affermazione di Pico, uno dei “grandi” dell’Umanesimo, ci sembra sia “meravigliosa” e “paradossale” insieme. Da una parte, infatti, eleva l’uomo alla sua più alta dignità di essere, in qualche modo, artefice di se stesso, e pur tuttavia – proprio per affermarne la dignità e liberarlo dai ceppi dell’autorità e della tradizione – può aprire, pur forse involontariamente, una via che tende a rendere l’uomo quasi una “terra di nessuno”, una realtà che non si distingue come forma né dalle bestie né dagli dei perché può assumere l’una e l’altra forma. Così commenta I. Colozzi: «La sua distinzione direttrice, il ‘proprium’ che lo caratterizza è l’arbitrio, la contingenza, la possibilità di essere e di fare sempre altrimenti. Per secoli la paradossalità di questa concezione è rimasta latente perché l’Occidente, che l’ha fatta propria, l’ha applicata alla conoscenza e al controllo tecnico del mondo esterno […]. Il sempre altrimenti, quindi, si è tradotto per diversi secoli in sempre di più, cioè nella possibilità di migliorare le condizioni complessive di vita dei singoli e dei popoli. Oggi, però, la paradossalità dell’idea moderna di uomo emerge evidente nel momento in cui la irrefrenabile spinta al superamento di ogni limite e confine o al perfezionamento continuo produce l’artificializzazione della vita umana, la trasformazione dello stesso organismo umano in una macchina artificiale, una bio-tecno struttura il cui programma […] riduce contemporaneamente lo spazio dell’arbitrio, del non programmato, in ultima istanza della libertà. L’uomo che programma, infatti, non è l’uomo programmato che, avendo un destino biologico predeterminato dal programma, non potrà più concepirsi come autore della propria vita, cioè, appunto, come uomo se il ‘proprium’ dell’uomo è la sua capacità e possibilità di autodeterminarsi».15

Assistiamo dunque a questa profonda “sfida culturale” che caratterizza il momento in cui viviamo, detto della società tardo-moderna o post-moderna, o dopo-moderna, in cui la parabola della modernità sembra confluire quasi, dopo aver preso le mosse proprio dall’esaltazione dell’umano, nell’abolizione della distinzione fra umano e non umano, col rischio di trasformare l’uomo in macchina. E torna così, insopprimibile, la questione dell’humanum.

La domanda sull’uomo, e sul significato profondo della sua esistenza, porta con sé la questione radicale del “senso”, che potremmo esplicitare nel duplice versante del significato “in sé” 13 Cf. A. FINKIELKRAUT, Noi i moderni, Lindau, Torino 2006. Cf. anche I. COLOZZI, Perché è urgente che l’Europa

recuperi la distinzione umano/non umano (Intervento al Convegno Europeo dei Docenti Universitari), Lumsa, Roma 2006.

14 Cf. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Guanda, Milano 2003. 15 I. COLOZZI, Perché è urgente che l’Europa recuperi la distinzione umano/non umano, cit.

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e “per me” (e qui si colloca il grande tema del rapporto, col rischio dello sganciamento, della divaricazione, tra senso – inteso come significato – e verità], e della direzione, orientamento a, prendendo coscienza che lì dove c’è fine c’è anche, in qualche modo, un ordine. E. Lee Master, nell’Antologia di Spoon River esprime assai bene la drammaticità della domanda di senso quando scrive, quasi come fosse – nell’Epitaffio di George Gray – il bilancio di una vita: «Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. / E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio – / è una barca che anela al mare eppure lo teme».16

La domanda di senso è infatti “ineliminabile”, e coinvolge anche il tema epistemologico del rapporto tra i saperi, tra le discipline. «A livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo dell’esistenza umana. Vi sono scienze, quelle umane e naturali, che all’interno dei loro ambiti di competenza, ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana. E tuttavia queste discipline non danno risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente diverso. Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’».17

Se l’uomo si manifesta effettivamente come lo “snodo” nel quale un universo che è materia-energia diventa razionalità, e in qualche modo anche responsabilità e libertà, tanto che egli può assumere il controllo della stessa materia-energia, allora ciò ci rimanda al problema più radicale del senso della parola “uomo”: «mai una questione soltanto teoretica, ma anche decisamente pratica, nella quale entra in gioco il tutto di noi stessi, con la nostra intera soggettività: ben diverso, ad esempio, è vivere come se l’uomo fosse soltanto una ‘sporgenza’ della natura, o avesse invece una dignità inviolabile e un destino eterno. Nessuno pertanto può pretendere di conoscere davvero l’uomo per una via puramente ‘neutrale’, oggettiva e ‘scientifica’: gli sfuggirebbe quello che è proprio dell’uomo, il suo essere soggetto e non soltanto oggetto».18

L’uomo, che fa esperienza del suo limite radicale d’essere, è anche caratterizzato dalla categoria del desiderio. Oggi sembra di vivere in una cultura della continua dilatazione del desiderio, ossia di far diventare la realtà stessa la misura del desiderio. Ci si immagina di poter desiderare tutto, e l’uomo sembra valere per quello che riesce ad ottenere, e non per quello che è. In questo senso la “verticalizzazione degli ideali” ed un corretto ordine dei desideri sono quantomai necessari, riscoprendo che la parola desideri viene da de-sideribus, cioè dalle “stelle”: il vero desiderio è ciò che in qualche modo …deriva dall’alto.19

Si tratta allora, nella verità della stessa esperienza umana, di imparare ad educare il desiderio; il desiderio di Dio, infatti, insieme con le risorse dell’intelligenza e del cuore, ogni uomo lo porta nel più profondo di se stesso, nel desiderio di verità, bene, bellezza, proprio perché l’uomo è cuore inquieto. L’uomo, che è veramente un viandante, oggi ci si chiede se lo è come un nomade senza origine né meta, o se come pellegrino. A seconda della risposta, ne consegue una rispettiva etica: nell’etica del nomade non ci si appella alla norma, ma alla sola esperienza, spesso meramente personale e soggettiva. Il senso della vita non viene colto in un progetto ma nell’accadimento

16 E.L. MASTER, Antologia di Spoon River (a cura di F. Pivano), Einaudi, Torino 1959, p. 67. 17 BENEDETTO XVI, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni (Viaggio apostolico nel Regno Unito, 17 settembre

2010). 18 C. RUINI, Università, cultura, educazione, Pontificia Università Salesiana, Roma 2009, p. 7. Cf. anche L. LEUZZI,

Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, Lev, Città del Vaticano 2007, pp. 22-23. 19 Cf. I. SANNA, Un’antropologia cristiana nel contesto della postmodernità, in R. NARDIN (a cura), Vivere in Cristo.

Per una formazione permanente alla vita monastica, Città Nuova, Roma 2004.

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quotidiano, frammentato e soggettivo. Nell’etica del pellegrino c’è invece una direzione, una meta (progetto) che è assunto, fatto proprio pienamente, ma anche ricevuto nel rapporto con qualcun altro. E da ciò ne dipende anche una diversificata concezione di speranza: se l’orizzonte si abbassa dalla speranza alla semplice attesa – oggi notiamo in effetti una preoccupante perdita della speranza –, allora non si comprende più l’uomo nella sua “nostalgia di Infinito”. Risollevarsi all’autentica dimensione della speranza significa scoprire che essa non è solo una virtù morale (e teologale), ma è struttura d’essere stessa dell’uomo.

Nella Lettera enciclica Spe Salvi Benedetto XVI, ricordando un testo di Gregorio Nazianzeno ove si dice che «nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell’astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l’orbita determinata da Cristo»,20 così afferma: «Di fatto, in questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo; non le leggi della materia e dell’evoluzione sono l’ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l’inesorabile potere degli elementi materiali non è più l’ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell’antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale, c’è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore».21

E veniamo così ad un punto fondamentale. L’uomo in effetti, come nota Sartre, è di per sé un aspirante all’Assoluto, anche se inesistente per il filosofo francese, così che per questo l’uomo diventa nel contempo una “passione inutile”. Così commenta S. Palumbieri: «Acutamente Sartre osserva, prima di approdare al nihilismo, di sentirsi ‘un di troppo’ nell’esistenza. Perché l’esistenza abbia un senso – egli rimarca – bisogna poter trovare una giustificazione, che è quella di essere chiamati ad essa. L’essere ‘par hasard’ di J. Monod dichiara l’ingiustificabilità. E V. Frankl incalza: se non si è giustificati non si può avere un senso. E invece l’uomo è un affamato di senso. Non è una patologia, bensì un bisogno costitutivo».22 E così aggiunge il nostro autore: «Un fatto indubitabile è che io esista. Se esisto io in quanto uno, unico, irripetibile, non è certamente perché i miei genitori mi hanno desiderato. Tutt’al più desideravano avere un figlio. Ma, nella mia originalità di essere, io ero un inconoscibile. Di qui una delle due: il caso o un progetto? La roulette o la chiamata? Il caso originario priva di senso tuti i sensi particolari della vita. Il progetto? Di chi? Non può essere di altri che di Chi trascende tutti gli anelli della catena che hanno portato fino a me ed è così potente da farmi fare il balzo dal non-essere del mio essere al suo proprio essere. Mi ha fatto ex-sistere cioè uscire dalla situazione assolutamente statica del mio niente».23

L’antropologia cristiana, secondo la prospettiva evangelica, ossia di “una buona notizia”, intende effettivamente presentare – offrendola a tutti – quella «bella notizia che riguarda ciascuno di noi. Io non sono figlio di una roulette ma di un progetto. Dio mi ha chiamato per nome. Ha scommesso su di me, nonostante la mia povertà di essere. E ciò mi ha scavato dentro una fame di Assoluto. Che è approdante».24

L’uomo infatti, ed è questa l’ultima categoria posta nel sottotitolo di questo intervento, è autotrascendimento, è un “voler essere di più”, “in alto e in avanti”. L’uomo è anelito ad essere di più, e si trova davanti allo scacco del limite insuperabile, di cui l’espressione più radicale è la morte. Egli è effettivamente fatto per un “arricchimento ontologico” che però da solo non potrà mai darsi: a questo proposito Pico della Mirandola avevo colto – pur in modo equivocabile – come l’uomo abbia effettivamente una “natura aperta”. Ed è proprio su questo versante che il cristianesimo oggi 20 GREGORIO NAZIANZENO, Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429. 21 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Spe salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, n. 5. 22 S. PALUMBIERI, L’esistenza: vocazione radicale, senso della vita, cit., p. 4. 23 Ibidem, pp. 4-5. 24 Ibidem, p. 5.

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può ricomprendere se stesso e la propria originalità proprio nel suo essere quella esperienza dinamica che raggiunge l’uomo nella sua esistenza e gli dona la vita nuova, «una nuova base sulla quale l’uomo può poggiare»25 per il suo “voler essere di più”, offrendo così una “speranza affidabile” proprio nei termini di quella vita che – donata attraverso l’evento battesimale – acquista «un nuovo spazio di esistenza»26 perché innesta dentro un “noi”, una nuova società, intesa non solo sociologicamente, ma ontologicamente, in cui si vive e si sperimenta l’amore di Dio in Gesù Cristo, amore che sostiene la libertà dell’uomo nel proiettarsi nella “costruzione” senza annullarsi.27 La “vita eterna” non è così solo ciò che ci attende alla fine, ma ciò che ci è già dato in primizia: ciò che dona un nuovo spazio, “allargato”, di esistenza. J. Ratzinger lo esprime in modo assai emblematico anche nel suo ultimo libro: «il dono – il sacramentum – diventa exemplum, esempio, e rimane tuttavia sempre dono. Essere cristiani è anzitutto un dono, che però poi si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono».28

In conclusione. Abbiamo lavorato sul piano dell’antropologia filosofica e della riflessione metafisica, cercando di evidenziare le categorie della “meraviglia” (tra le radici originarie della stessa indagine filosofica) e del “paradosso” come manifestative della condizione umana così come esistenzialmente essa si pone, nella sua ambivalenza, tra carenza e pienezza, viaggio e traguardo, desiderio ed appagamento.

La presa di coscienza della propria contingenza d’essere, il senso del “limite”, e le categorie costitutive del “desiderio”, dell’“autotrascendimento” e dell’apertura alla Trascendenza risultano così degli indicatori fondamentali da tenere in considerazione in vista di un’appropriazione adeguata dell’esistere umano (individuale e collettivo) nella storia, innestandosi così nel tema della sfida “qualitativa” lanciata a suo tempo da Darwin (o forse, più che da Darwin, da certe interpretazioni della sua opera) ed oggi da varie forme di riduzionismo antropologico ed epistemologico sul come fornire una risposta adeguata alla domanda “uomo, chi sei?”, che più che porre di fronte ad un “problema” evidenzia la presenza di un vero e proprio “mistero”, a proposito del quale i dati antropologici provenienti dalla rivelazione cristiana e dalla sua tradizione di pensiero mostrano secondo noi tutta la loro originalità, pregnanza e preziosità.

L’insaziabile cuore dell’uomo cerca l’inesauribile Fonte dell’Amore, che si è rivelato in Cristo.29 L’uomo si trova effettivamente tra cerchio ed ellisse, con un’esistenza aperta che

25 Cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi. Il nuovo cortile dei Gentili, Lev, Città del Vaticano 2010. 26 «Il Battesimo è una cosa ben diversa da un atto di socializzazione ecclesiale, da un rito un po’ fuori moda e

complicato per accogliere le persone nella Chiesa. È anche più di una semplice lavanda, di una specie di purificazione e abbellimento dell'anima. È realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una nuova vita. Come possiamo comprenderlo? Penso che ciò che avviene nel Battesimo si chiarisca per noi più facilmente, se guardiamo alla parte finale della piccola autobiografia spirituale, che san Paolo ci ha donato nella sua Lettera ai Galati. Essa si conclude con le parole che contengono anche il nucleo di questa biografia: ‘Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’ (Gal 2, 20). Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un ‘non’ e si trova continuamente in questo ‘non’: Io, ma ‘non’ più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza». BENEDETTO XVI, Omelia nella Veglia pasquale nella Notte Santa (Basilica Vaticana, 15 aprile 2006).

27 Cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi. Il nuovo cortile dei Gentili, cit., soprattutto le pp. 51-72 e 103-108. 28 JOSEPH RATZINGER BENEDETTO XVI, Gesù di Nazareth. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Lev,

Città del Vaticano 2011, p. 78. 29 Il beato Giovanni Paolo II ebbe a dire ai giovani: «In realtà è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è lui che vi

aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è lui la bellezza che tanto vi attrae; lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna». GIOVANNI PAOLO II, Discorso in occasione della Veglia di preghiera del 19 agosto 2000 (Giornata Mondiale della Gioventù, Roma Tor Vergata).

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teologicamente trova la sua origine nell’impronta trinitaria. E questo dato, per chi lo accoglie e lo vive, può diventare oggi germe di nuova cultura, in un tempo30 in cui ce n’è particolarmente bisogno, proprio per essere più autenticamente umani. «Bisogna pensare. Parlarsi (non monologarsi). Leggere pochissime cose che meritano. Riflettere, contemplare. Sapersene andare da dove si è solo numero. Muoversi senza fretta. Persuadersi che, poiché si può morire tra cinque minuti, ciò che conta è sempre fuori dalla logica dei calcoli, quali che siano. Non essere ricattabili dalla paura della solitudine o di morire o di non essere stimati da questo o da quello. Cercare il bello […]. ‘Patire’ il bello, ovvero purificarsi alla sua luce, al suo fuoco: è difficile trovarlo, difficile comunicarlo; ma proprio perciò è la strada giusta, impegna tutta la vita».31 Specie quando l’aria culturale che si respira diventa più pesante, quando il mix di banalità-mediocrità-volgarità diventa quasi insopportabile, allora puntare sulla bellezza, sulla verità, su Dio, può far respirare a pieni polmoni.

30 G. CASOLI, Senza cultura. Chi l’ha uccisa? Indagine su un delitto, in Città Nuova (2011/4), pp. 72-73. 31 Ibidem, p. 73.

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BELLEZZA, GIUSTIZIA E LIBERTÀ NELLA FIGURA DI ANDREA

CHÉNIER. INTERPRETAZIONE DI BRANI SCELTI: “COME UN BEL DÌ

DI MAGGIO” DI UMBERTO GIORDANO (1867 – 1948)

Michele Mignone

Parlare di “ambivalenza della condizione umana” significa anche “affacciarsi alla finestra

dell’anima”, gettare lo sguardo su quel paesaggio interiore fatto di passioni, sentimenti e sfaccettature emozionali che, da tempo immemore, costituiscono uno dei “motori espressivi” della nostra cultura. Dall’Epica alla tragedia, dalla poesia al romanzo, dalla pittura al cinema, a farla da padrone è proprio quella dimensione che vede l’uomo imperfetto, asimmetrico, ellittico tendere verso l’assoluto, verso il perfetto, l’infinito, verso ciò che è fuori della sua portata, oltre l’umano, ma che al tempo stesso è parte inscindibile della creatura uomo.

L’ Opera lirica è uno dei generi che meglio riesce a rappresentare questo tipo di tensione: considerata da sempre opera d’arte completa, almeno fino all’avvento del cinema32, la lirica è il territorio delle grandi passioni, degli amori impossibili ma anche degli eroismi, dei gesti estremi, delle morti gloriose e dei dolori che avvicinano a Dio, o che esaltano quel senso di infinito, di eternità presente in molte vicende letterarie e storiche, soprattutto di epoca romantica. Poesia, dramma, musica, canto: una sintesi perfetta che tocca le corde dell’anima, e che per secoli diverte, intrattiene, dà spettacolo ma che, nell’ottocento in particolare, riesce anche ad infiammare i cuori della gente generando partecipazione, coinvolgimento, patriottismo. L’Italia e la sua produzione operistica sono forse l’esempio più alto di questo fenomeno: da Bellini a Donizetti a Verdi sul palcoscenico si muore, si combatte, si canta la patria e ci si unisce per conquistare la libertà.

Alla fine del XIX secolo si assiste ad un’ulteriore evoluzione all’interno dell’opera: i sentimenti e gli eroismi restano, ma questa volta vengono descritti “da dentro”, attraverso l’interiorità dei personaggi: la psiche, le emozioni, i dissidi33 diventano il “focus” su cui si concentrano le “lenti” dei compositori. Lo sfondo storico-letterario passa in secondo piano, diventa ora più che mai, un pretesto per scavare all’interno dell’uomo. La forza che muove il dramma è il personaggio: la sua anima, la sua storia personale si espongono genuine e crude alla luce del palcoscenico, descritte in modo immediato, a volte violento, dal canto e dalla musica. È il momento del “Verismo musicale”34 chiamato anche “Giovane Scuola”, che nasce sulle orme dell’omonima corrente letteraria.

Umberto Giordano (1867 - 1948) è un vero e proprio “gigante” tra i rappresentanti di questo movimento. L' "Andrea Chénier" composto nel 1896 su libretto del grande Luigi Illica, resta la sua opera più nota, salutata da un grande successo sin dalla prima rappresentazione (Milano, Teatro alla Scala, 28 marzo 1896) e tuttora sempre presente nei cartelloni dei teatri di tutto il mondo.

32 Teniamo a precisare che la visione novecentesca del cinema come evoluzione o completamento dell’opera è ancora

tutta da discutere: in verità l’opera è da considerarsi sì precursore del cinema ma, più precisamente “sorella di quest’ultimo”. I due generi, pur così lontani storicamente, sono nettamente diversi, indipendenti tra loro: l’opera vive di vita propria e i suoi prodotti non sono da considerarsi inferiori o meno evoluti rispetto a quelli del cinema.

33 Da notare che anche nelle opere di Giuseppe Verdi (1813-1901), sebbene precedenti alla produzione verista, si rintracciano delle forti tendenze all’introspezione psicologica dei personaggi e alla sottolineatura delle loro sfumature caratteriali ed emotive, questo soprattutto nel Verdi della “Trilogia Popolare” (Rigoletto, Traviata, Trovatore) e nel Verdi maturo.

34 Citiamo i maggiori rappresentanti del verismo musicale assieme alle opere che li hanno resi famosi: Pietro Mascagni (Cavalleria rusticana 1890), Ruggero Leoncavallo (Pagliacci 1892), Alfredo Catalani (La Wally), Francesco Cilea (L'Arlesiana), Umberto Giordano (Andrea Chenier, Fedora) e, per quanto considerato prevalentemente autore sé stante, Giacomo Puccini (Tosca, Il tabarro)

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È ispirata alla vera storia del poeta francese André Chénier (1762-1794), ghigliottinato nel 1794 sotto il regime di Robertspierre: uomo di grandi ideali, poeta della rivoluzione, precursore del movimento romantico in un’epoca ancora tardo classicista. Partecipò attivamente alla rivoluzione ma prese poi le distanze da quella degenerazione violenta del movimento, nota come regime del terrore. Di carattere sanguigno, formatosi nel Collegio Militare di San Cyr, in Navarra, finì per essere additato come “nemico della patria” (destino riservato a molti intellettuali dell’epoca): un poeta, in grado di infiammare gli animi, di plagiare il popolo con le sue parole e quindi pericoloso per il regime. Proprio lui che con i suoi versi cantò l’amor patrio e criticò duramente l’aristocrazia, cavalcando gli ideali rivoluzionari, venne giustiziato da quella stessa patria a cui aveva dedicato una vita intera.

Andrea Chénier ha in se i caratteri del poeta illuminista, incline all’invettiva e sostenitore di ideali ancora classicisti, ma anche quelli dell’uomo romantico, che tende verso l’assoluto, quasi alla ricerca di una fusione panica con la bellezza e col divino. Il suo vivere nella luminosa congiunzione tra vita e morte gli permette di descrivere il mondo con occhi nuovi, quasi incorrotti, e di mostrare agli uomini quegli ideali perfetti di amore, verità, giustizia che stanno al di là del mondo cieco e corrotto.

Ed è questo lo Chénier plasmato dalla musica di Giordano, nello stile forte ed incisivo del verismo musicale. Egli incarna certo la figura del poeta illuminista, un combattente, un cavaliere della libertà che abbraccia l’umile per scagliarsi contro l’oppressore. Ma a venir fuori in tutta la sua forza è proprio quella figura “cardine”, squisitamente romantica, del poeta come “mediatore” tra l’uomo e l’assoluto, come vero e proprio “pontifex” che unisce il mondo terreno con quello ultraterreno, il fisico con il metafisico, che indica agli uomini la strada per scorgere l’infinito. È questa la caratteristica che accomuna Andrea Chénier ai poeti tedeschi dello “Sturm und Drang” come Goethe, Schiller, Herder ma più di tutti ad un immenso maestro della poesia romantica: Friedrich Hölderlin (1770-1843). Proprio su questa figura ci sembra utile soffermarsi per comprendere appieno tale dimensione “mediatrice” del poeta, molto marcata nell’Opera di Giordano. Come sottolinea il filosofo Martin Heidegger (1889 – 1976) in “L’origine dell’opera d’arte” (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1936), Hölderlin è il poeta che per eccellenza ha compreso il rapporto tra umano e divino ma soprattutto il ruolo della poesia nel contatto tra queste due dimensioni. “Poeticamente abita l’uomo su questa terra”35 recitano i versi della sua poesia “In lieblicher Bläue”: è attraverso la poesia che l’uomo entra in contatto con il divino, il quale si manifesta proprio attraverso gli elementi all’uomo più familiari, quelli che fanno parte del suo abitare sulla terra. Gli elementi naturali, il mondo con le sue manifestazioni sono il mezzo di contatto con l’assoluto: il poeta ha il ruolo di far parlare il divino attraverso tali elementi. Per questo Heidegger arriva a dire che la poesia è il “linguaggio autentico” che coincide con “l’essere nel mondo” o “esser-ci” (“Da sein”) da parte dell’uomo, poiché rende possibile l’incontro di quest’ultimo con l’essere degli enti (ovvero con ciò che sta al di là dell’apparenza fisica, con il metafisico). Ancora: poetare è misurare (“Die Mass-Nahme”) e la misura è la divinità, con la quale l’uomo si confronta, si rapporta, si misura, appunto. E tale rapporto risiede in ciò che è sconosciuto, che è al di là, che è “assente” ma che tuttavia traspare attraverso le cose, gli elementi, come il cielo per esempio. Recita Hölderlin:

“In un adorabile azzurro fiorisce, con il suo tetto di metallo, il campanile.

Gli volano intorno le strida delle rondini, lo circonda il blu più commovente. […] È permesso ad un uomo, quando la vita è solo pena,

guardare verso l’alto e dire: voglio essere anch’io così? Certo. Fino a che l’amicizia, la Pura, si trattiene nel cuore, l’uomo non si misura infelicemente con la Divinità.

35 "Voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde": "pieno di merito e tuttavia poeticamente abita

l'uomo su questa terra". Da “In lieblicher Bläue”, Stuttgarter Ausgabe, 2, I pp. 372 ss.

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È ignoto Dio? È Egli manifesto e aperto come il cielo? Questo credo io piuttosto. La misura umana è tutta qui” 36.

Dio è misterioso, esattamente come il cielo attraverso cui Dio stesso si manifesta come

“assenza”, per dirla con Heidegger: “l’apparire di Dio attraverso il cielo consiste in un disvelamento che lascia vedere ciò che si nasconde”37, anche se non del tutto. Pur essendo estranea, la divinità può essere abbracciata attraverso la “misura” data dagli aspetti familiari del cielo. In altre parole i versi di Hölderlin ci suggeriscono, secondo Heidegger, che terra e cielo si compenetrano reciprocamente e che l’uomo può percorrere questa “misura”38con il pensiero e con la “poiesis”. È infondo quello che esprime meravigliosamente Blaise Pascal (1623-1662) nei suoi “Pensées”:

“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo

intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio

che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare:

ecco il principio della morale”.39

L’uomo è sì soverchiato dall’infinità dell’universo, da quell’immensità descritta da Hölderlin, ma può abbracciarla col pensiero, toccarla con la forza della poesia, percepirla vicina pur essendo “divinamente” muta e lontana.

Questa dimensione, che possiamo definire filosofica a questo punto, al limite tra umano e divino è proprio il territorio in cui si muove il nostro Andrea Chénier: egli ha il ruolo di far brillare quell’immensa azzurrità del metafisico agli occhi degli uomini, mettendoli in contatto con il silenzio del cielo che parla agli uomini attraverso la bellezza, l’amore, la giustizia, la verità. Non è un caso che l’aria che Chénier canta nel primo atto dell’opera reciti:

“Un dì all'azzurro spazio

guardai profondo, e ai prati colmi di viole,

pioveva loro il sole, e folgorava d'oro il mondo:

parea la terra un immane tesor, e a lei serviva di scrigno il firmamento.

Su dalla terra a la mia fronte veniva una carezza viva, un bacio.

Gridai vinto d'amor: T'amo tu che mi baci,

divinamente bella, o patria mia!”

È qui che il poeta canta i grandi sentimenti, l’amore per la patria, indicandoli come qualcosa di perfetto, assoluto, autentico a cui tendere. La seconda parte dell’aria invece descrive a tinte forti le miserie del popolo affamato e si trasforma in un’ invettiva contro i potenti assetati di danaro: ecco che emerge l’altra faccia dell’universo, quella “ellittica” appunto. Il compito del poeta è quella di renderla palese agli occhi di uomini e donne che ne nascondono l’evidenza, perché troppo

36 Ibid. Riportiamo il testo in Tedesco: “Darf, wenn lauter Mühe ein Leben, ein Mensch aufschauen, und sagen : So

will ich auch sein? Ja. Solange die Freundlichkeit noch am Herzen, die Reine, dauert, misset nicht unglücklich der Mensch sich mit der Gottheit. Ist unbekannt Gott ? Ist er offenbar wie der Himmel ? Dieses glaub'ich eher. Der Menschen Maß ist's.”

37 M. Heidegger, Conferenze di Brema (1949). 38 “Perché solo questa misura attinge, misurandola, tutta l’essenza dell’uomo. L’uomo infatti abita in quanto misura

diametralmente il «sulla terra» e il «sotto il cielo». 39 Blaise Pascal, Pensieri, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994

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avvezzi ad un sistema corrotto (nell’opera lo Chénier irrompe in una festa di nobili cantando quest’aria):

“Varcai d'una chiesa la soglia; là un prete ne le nicchie dei santi e della Vergine,

accumulava doni - e al sordo orecchio

un tremulo vegliardo invan chiedeva pane

e invano stendea la mano! Varcai degli abituri l'uscio;

un uom vi calunniava bestemmiando il suolo

che l'erario a pena sazia e contro a Dio scagliava

e contro agli uomini le lagrime dei figli. In cotanta miseria

la patrizia prole che fa”?

L’aria del IV atto (che abbiamo scelto di interpretare dal vivo in questa sede) si intitola “Come un bel dì di maggio”: rappresenta un vero e proprio testamento spirituale che il poeta canta rivolgendosi all’umanità, prima di essere giustiziato. In questo pezzo Giordano fa esplodere tutta la tragedia umana del poeta attraverso un lirismo ed una forza drammatica senza pari, regalando a chi l’ascolta pochi attimi densi di emozione. L'azione si svolge nel cortile della prigione di San Lazzaro.

Assistito dall'amico Roucher, in attesa di morire Andrea Chénier scrive i suoi ultimi versi. Il poeta da addio alla vita invocando la forza della poesia: la bellezza e gli ideali puri che sempre aveva cantato lo accompagnano fino all’ultimo. Le sue strofe inneggiano alla libertà, difendono i giusti e accusano i tiranni. Anche in punto di morte, quella bellezza invocata si fa viva come una fiamma, infuocando quell’anima pura, colma dell’incanto che ogni vero artista prova guardando al mondo. La prima parte descrive immagini limpide e pure, accompagnata da un cullante andantino in 6/8:

“Come un bel dì di maggio

che con bacio di vento e carezza di raggio,

si spegne in firmamento, col bacio io d'una rima,

carezza di poesia, salgo l’estrema cima dell’esistenza mia.”

La seconda strofa evoca l’immagine della circolarità, di una vita che conclude il suo ciclo con

la morte, che “chiude il cerchio” di un’esistenza spesa per gli ideali puri e che la morte consacrerà all’eternità. Il tempo diventa un 2/4 “più mosso”, incitando a riflettere sull’ora della morte:

“La sfera che cammina per ogni umana sorte ecco già mi avvicina, all'ora della morte,

e forse pria che l’ultima mia strofa sia finita

m’annuncerà il carnefice la fine della vita.”

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Il pensiero prende forma, diventa azione incalzante: pronto ad affrontare la morte a viso aperto, Andrea si alza in piedi ed invoca la “Dea poesia” che sorge come un sole infuocato dal crescendo improvviso dell’orchestra:

“Sia! Strofe, ultima Dea! ancor dona al tuo poeta

la sfolgorante idea, la fiamma consueta;

io, a te, mentre tu vivida a me sgorghi dal cuore,

darò per rima, il gelido spiro d'un uom che muore.”

Il destino è deciso, ma l’anima del poeta è raggiante di felicità e colma di tragedia al tempo

stesso: la poesia non l’ha abbandonato, lo accompagnerà al trapasso e donerà ai posteri il messaggio di un uomo che ha dato la sua vita per gli ideali più alti. Andrea Chénier ha costruito il suo ponte verso l’assoluto, verso il cerchio: l’uomo ellittico, figlio dell’umanità imperfetta, ha combattuto i “cattivi assoluti”, gli ideali sterili del materialismo, indicando con la sua arte la via da percorrere verso il buon infinito, verso gli ideali della vita giusta ed autentica.

Nell’opera di Giordano il poeta andrà alla morte insieme alla sua amata, Maddalena di Coigny (cosa che non accadrà invece allo Chènier storico, che morirà solo), gridando:

“La nostra morte è il trionfo dell'amore! Nell'ora che si muore eterni diveniamo!...

Eternamente amiamo!... Morte è infinito, è amore!”

Umberto Giordano e Luigi Illica ci hanno lasciato un’opera intrisa di grandi emozioni. Andrea

Chénier ci ha lasciato un testamento che parla di amore e di fratellanza. Dovremmo essere in grado accogliere questa eredità, mettendo da parte le nostre convinzioni troppo assolute di uomini contemporanei, troppo intenti a “far quadrare il cerchio” dei nostri bilanci, della nostra materialità a discapito dei nostri simili e dell’ambiente in cui viviamo. Se cerchiamo di essere un po’ ellittici, più umili nei confronti dell’umanità e del mondo, amando il cerchio perfetto della bellezza e dell’arte, forse un poeta non sarà morto invano.

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ASIMMETRIE: QUANDO IL DISORDINE È INFORMAZIONE

Anselmo Grotti [email protected]

1. IL FASCINO DELLA SIMMETRIA

2. TRA LOGOS E ALOGOS

3. LA SCIENZA CERCA LA REGOLARITÀ

4. «È LA DISSIMMETRIA CHE CREA IL FENOMENO»

5. L’ASIMMETRIA E LA VITA

6. ORDINE SEMANTICO E IRREGOLARITÀ STATISTICA

1. IL FASCINO DELLA SIMMETRIA Nella tradizione classica la simmetria rimanda all’idea di perfezione, non a caso è stata

particolarmente privilegiata nelle arti, nell’architettura, nella stessa organizzazione retorica del discorso. Essa fa emergere la regolarità, l’ordine, la disposizione armonica. Risponde a una “esigenza” dei sensi e della mente, in una certa misura li appaga perché risponde a quella che appare come una sorta di “esigenza”. C’è quasi una anticipazione nella mente di una struttura che, vista parzialmente, “deve” proseguire secondo determinati canoni.

Un altro motivo del particolare fascino esercitato dalla simmetria è dato dalla convinzione che un ordine ben regolato non possa essere frutto della casualità. Il caso produce elementi tra loro non coordinati: se compare una “serie” con una logica interna si suppone che una qualche forma di intelligenza abbia precostituito tale ordine, di cui la simmetria rappresenta una controprova evidente a tutti.

Abbiamo tutti presente la famosa immagine dell’uomo di Vitruvio secondo Leonardo da

Vinci40. Vitruvio nel De Architectura sostiene che la simmetria «è l'accordo armonico tra le parti di una medesima opera e la rispondenza di proporzioni tra le singole partì e l'intera figura». Il corpo umano ne fornisce un esempio naturale, che serve da modello delle opere architettoniche. «Senza rispettare simmetria e proporzione nessun tempio può avere un equilibrio compositivo, come è per la perfetta armonia delle membra di un uomo ben formato».

Microcosmo e macrocosmo, natura e cultura si richiamano a vicenda secondo una chiave esplicativa chiara e oltretutto esteticamente appagante. La simmetria è presente quindi non solo in natura ma anche nelle opere dell’uomo: dalle piante alle conchiglie, alle stelle marine, ai fiori, ai rosoni delle chiese romaniche, dagli archi dei portici alle arcate dei ponti..

La simmetria degli antichi di cui parla Vitruvio si fonda sul concetto di numero intero, è una relazione di commisurazione numerica, che permette di stabilite un accordo armonico tra diversi elementi. Il termine greco stava appunto a significare commensurabilità

40 Talmente famoso che, ancora nel 2011, Greenpeace ha chiesto ad un artista una riproduzione gigante dell'Uomo

Vitruviano per sensibilizzare i leader mondiali sul tema del cambiamento climatico e dello scioglimento dei ghiacci: per questo la riproduzione è stata fatta, in scala gigante, su di un blocco di ghiaccio nel mare Artico.

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2. TRA LOGOS E ALOGOS Per i Pitagorici il numero è all’origine di ogni cosa. L’universo è razionale perché misurabile.

La “misura” rappresenta in effetti la stessa leggibilità e razionalità di tutto ciò che esiste: dagli astri all’essere umano, dalla musica agli dei. Ma con la celebre scoperta di grandezze incommensurabili emerge una radicale impossibilità di usare la “misura” in ogni circostanza, si fa strada fortissima l’idea di un alogos, di una irrazionalità e una asimmetria nella natura più profonda della realtà.

Ippaso di Metaponto, ultimo allievo della scuola del supremo maestro Pitagora, colui per il quale tutto è numero, scopre invece come la più semplice delle forme geometriche, il quadrato, nasconda la dimostrazione della presenza di un numero che in realtà non è affatto un numero, almeno non nel senso inteso dai Pitagorici. Una scoperta che può minare le basi stesse della società ellenica e che suscita una grande riprovazione.

Platone (nel dialogo Teeteto) sostiene che i segmenti che non hanno proporzione sono linee

non simmetriche. Le proporzioni numeriche hanno la funzione di "accordare" in un'unità due o più termini diversi e «il più bello dei nessi è quello che fa, di sé e delle cose che connette, la maggior unità possibile; e questo è la proporzione che lo realizza nel modo più bello». La sezione aurea di un segmento, la proporzione "divina" tra le sue parti, ne costituisce, l'esempio paradigmatico. Il successo straordinario della sezione aurea non conosce soste e giunge sino ai giorni nostri. Solo per fare un esempio ricordo che le dimensioni delle odierne “carte di credito” bancarie sono basate sulla proporzione aurea, poiché si tratta di un rapporto proporzionale particolarmente apprezzato dalla nostra mente.

Policleto, nel suo famoso Canone, annota come lo scultore adotti per le proporzioni, come unità di misura (modulo), la testa umana, che viene contenuta 8 volte nel corpo umano perfetto. 3. LA SCIENZA CERCA LA REGOLARITÀ

Ma non sono solo la filosofia o l’arte a dare particolare importanza alla simmetria. Anche la scienza è impegnata a ”rendere conto” dei fenomeni molteplici e apparentemente dispersi offerti dal reale, cercando regole stabili (episteme) nel caos apparente del fluire degli eventi. La scienza cerca la regolarità, l’ordine, la semplicità. La natura è un insieme molto complesso di fenomeni. Il linguaggio della matematica individua leggi di grande semplicità: alla matematica è affidato il compito di dar conto in modo intellegibile della realtà. Il Rinascimento riprende molte tematiche pitagoriche e platoniche, tra cui l’amore per la simmetria. Potremmo addirittura sostenere che se la matematica è il linguaggio della realtà la simmetria ne è la sua sintassi.

Luca Pacioli apre il XVI secolo pubblicando a Venezia il suo Divina proportione; Keplero e il suo fondamentale Mysterium Cosmographicum chiuderanno lo stesso secolo (a Tubinga) con queste parole: "Che cos'è il mondo? Che cos'è che ha portato Dio a crearlo e secondo quale piano? Da dove Dio ha tratto i numeri? Quale regola governa una massa così enorme? Perché Dio ha creato sei orbite? Perché ci sono questi intervalli tra ciascuna orbita? Perché Giove e Marte, che non si trovano nelle prime orbite, sono separati da uno spazio così vasto?".

Ancora nel XIX secolo Goethe scrive che “Con il termine simmetria… si pensa a una relazione esterna tra parti armoniche di un insieme… una forza che soppianta la debolezza, una bellezza fuori dall’ordinario” (1810).

In matematica si dice che un sistema non cambia in seguito a una ben definita manipolazione. Si può avere una simmetria continua: il cerchio. Oppure una simmetria discreta: il quadrato. In modo non dissimile in fisica ci si richiama a una idea di bellezza e armonia.

Il giovanissimo e brillante matematico Evariste Galois (1811-1832) giunge per così dire a

«misurare» il grado di simmetria delle soluzioni di un'equazione algebrica, attraverso il concetto – da lui introdotto – di “gruppo”. Le equazioni risolubili per radicali sono esattamente quelle il cui gruppo si può scomporre in fattori, in maniera in qualche modo analoga alla scomposizione di un

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numero in fattori primi. Nel linguaggio della teoria dei gruppi si esprimono anche le proprietà di simmetria delle figure. La simmetria di una figura dipende dalle trasformazioni che la lasciano invariata, per esempio le traslazioni e le rotazioni. O le riflessioni, come in uno specchio, come avviene per la destra e la sinistra. In generale, la simmetria indica l'invarianza di una figura rispetto a un gruppo di trasformazioni.

Il destino di Galois è stato tragico. Il 29 maggio 1832, poche ore prima di essere ferito a morte in un duello, scrisse alcune lettere che avrebbero rappresentato il suo testamento umano e scientifico. Non ancora ventunenne, aveva fondato una nuova branca dell'algebra, la teoria dei gruppi, la chiave per affrontare i segreti della simmetria, e dimostrato che non esistono formule per risolvere un'equazione di quinto grado o di grado superiore: l'equazione impossibile, appunto.

Tre anni prima di lui si era spento, consumato dalla tubercolosi, il ventiseienne matematico norvegese Niels Hendrik Abel, che era giunto indipendentemente alle stesse conclusioni di Galois. Vicende che hanno sempre molto colpito la fantasia delle persone, tanto che recentemente un astrofisico e divulgatore scientifico, Mario Livio, ne ha fatto oggetto di saggi e perfino di un thriller scientifico41

4. «È LA DISSIMMETRIA CHE CREA IL FENOMENO»

«È la dissimmetria che crea il fenomeno», ha scritto Pierre Curie (1859-1906). E successivamente ha ribattuto Heisenberg (1901-1976): «A somiglianza dei corpi regolari della filosofia platonica, le particelle elementari della fisica moderna sono determinate da condizioni matematiche di simmetria»; e ancora: «la radice ultima dei fenomeni non è quindi la materia, ma la legge matematica, la simmetria, la forma matematica».

Come è possibile che affermazioni apparentemente così diverse possano essere state pronunciate da grandi fisici del Novecento?

Escher (1898-1972) nelle sue opere grafiche ha molto giocato sul paradosso di una simmetria che viola le leggi della fisica e della prospettiva. Lo stesso Einstein ha sostenuto che l’invarianza (simmetria) determina le leggi fisiche e non viceversa, tanto che su questo ha avuto uno scontro iniziale con Lorentz.

La simmetria ha una funzione potentissima: essa determina, per così dire, le leggi fisiche. Ma lo fa una volta che l’evento si è prodotto, istituendo una regolarità. È invece la dissimmetria che fa «accadere» le cose, che crea il fenomeno, per usare le parole di Curie.

È molto interessante – anche per motivi diciamo antropologici – il caso della matematica Emmy Noether (1882-1935), una delle prime donne a veder riconosciuta in modo autorevole, anche se contrastato, la sua grandezza intellettuale e scientifica. Noether mette in rilievo come qualsiasi simmetria continua implichi una legge di conservazione. Ad esempio i punti del cerchio si muovono in rotazione ma la distanza dal centro non muta. Il fatto di essere una donna la espose a problemi, diciamo, di dissimmetria rispetto alla tradizione accademica. Si narra che i docenti dell’Università di Gottinga, nel 1915, abbiamo sostenuto - dichiarando la loro contrarietà ad affidarle la docenza -: “Cosa direbbero i nostri soldati quando tornando all’università dovessero scoprire di essere obbligati ad imparare ai piedi di una donna?”. Per fortuna il grande matematico David Hilbert ebbe modo di redarguire in modo spiritoso l’illustre Senato Accademico: “Non vedo come il sesso del candidato possa essere un argomento contro la sua ammissione come Privatdozent. Dopo tutto siamo un’università e non un bagno pubblico”. Ma non sono finiti i guai “politici” per la Noether. Nel 1933 prende il potere Hitler e lei, che si rifiuta di insegnare “matematica ariana”, deve fuggire negli Usa.

Anche nella fisica contemporanea la nozione primaria non è la forza, ma la simmetria. “La 41 Dio è un matematico, 2009, Rizzoli. L'equazione impossibile, 2005, Rizzoli. La Sezione Aurea, 2004 Ed. Hera. La

bellezza imperfetta dell'universo, 2003.La Sezione Aurea - Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, 2003, BUR.

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simmetria detta l’interazione” Cheng Ning Yang (fisico cinese, nato nel 1922, premio Nobel nel 1957).

Il fascino della simmetria aveva a lungo condizionato la visione del cosmo, poiché si partiva

dal presupposto che le orbite dei pianeti fossero circolari. Ma perché le orbite non sono circolari? Altri prima di Newton avevano ipotizzato che la forza di gravità fosse inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Ma ne sarebbe derivato comunque un sistema solare circolare, non ellittico. Newton ipotizza che i pianeti posseggano velocità iniziali che non rispettano la simmetria di rotazione attorno al Sole.

In modo più ampio, possiamo comprendere la necessità di liberarsi da aspetti che condizionano il nostro modo di pensare immaginando uno scienziato dentro una stanza senza finestre. La direzione verticale apparirebbe come “speciale”, ma solo perché siamo soggetti all’attrazione gravitazionale.

Dobbiamo ipotizzare una rottura spontanea della simmetria. Lo spazio è simmetrico rispetto alle rotazioni? Aristotele riteneva di no, come è noto.

Vediamo il caso del vuoto. Il vuoto secondo Aristotele non esiste: “Non esiste un vuoto che sia separato” (Fisica, Libro IV, 8). Da qui la celebre espressione Horror vacui. Ma già nell’antichità non tutti erano d’accordo: Empedocle sosteneva che il vuoto esiste e lo dimostrava sperimentalmente con la famosa “Clessidra di Empedocle”. Tuttavia dobbiamo attendere Evangelista Torricelli (1644) per una inconfutabile dimostrazione dell’esistenza del vuoto.

Ma davvero il dibattito è concluso? Oggi sappiamo che il nulla non esiste. Infatti non basta “svuotare” una cavità perché “dentro” non ci sia nulla. Le pareti della cavità emettono una radiazione elettromagnetica, la “radiazione di corpo nero”. Dipende dalla temperatura delle pareti, nessuna pompa la può togliere

Nell’universo c’è la radiazione cosmica di fondo, -270°C. Immaginiamo di portare una regione dello spazio sino allo zero assoluto: secondo la meccanica quantistica si producono continue fluttuazioni dei campi, piccole increspature che vanno e vengono. Il vuoto non è il nulla, bensì la configurazione di minima energia di un sistema. A Ginevra l’esperimento LHC sta cercando di far vibrare leggermente questo “qualcosa”, facendola risuonare, creando su di essa delle increspature e rivelarle sotto forme del bosone di Higgs. La natura detesta il nulla e preferisce riempire il vuoto (chissà come sorride Aristotele…) 5. L’ASIMMETRIA E LA VITA

Il DNA è asimmetrico. La struttura della molecola del DNA ha la forma di una scala che si attorciglia solo in senso levo-giro, non esistono in natura molecole destro-gire. Primo Levi ha scritto L’asimmetria e la vita, una raccolta di scritti saggistici comparsi su giornali e riviste fra il 1955 e l'anno della sua scomparsa, il 1987. Ci sono testi dedicati ad Auschwitz, all'ebraismo, recensioni di libri, saggi curiosi di argomento scientifico, letterario, linguistico.

Primo Levi insiste molto sulla dissimmetria. La vitalità di tutto nasce da una discrepanza, da una dissimmetria. Anche l'organizzazione del libro, in due parti apparentemente simmetriche intitolate rispettivamente Buco nero di Auschwitz e Altrui mestieri, conferma questa sensazione doppia: scrittore di una chiarezza apparente che non si finirà mai di esplorare.

L'asimmetria e la vita è lo scritto-cardine. Levi riprende dopo quarant'anni, per una rivista di divulgazione scientifica, il tema della sua tesi di laurea; da chimico frequentatore della fisica nucleare e dell'astrofisica s'interroga sull'origine della vita, sulla misteriosa circostanza che "l'asimmetria destra-sinistra è intrinseca alla vita; coincide con la vita; è presente, immancabile, in tutti gli organismi, dai virus ai licheni alla quercia al pesce all'uomo".

La vita è dunque asimmetrica. Levi era stato il testimone delle mostruosità generate dalla ragione elevata ad assoluto e simmetrico principio di un'organizzazione politica mobilitata allo sterminio biologico. L’asimmetria (o l'impurità, o il "granello di senapa“) è in rapporto con la

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confusione, l’irregolarità, l’imperfezione della vita. Allo stesso tempo l’asimmetria è in rapporto con la vitalità: il potenziale energetico di tutto quanto non si lascia mettere completamente a fuoco, che non si lascia appiattire a una dimensione.

Nella Tregua, attraverso Mordo Nahum il Greco, Levi ci racconta che dal rinnovato Caos primigenio del dopo-lager si generavano "esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi”.

Anche il mondo fisico si genera per asimmetrie: piccole differenze nel processo di morte

stellare provocano ampie variazioni nel grado di asimmetria. La nube interstellare è in equilibrio dinamico tra energia cinetica del gas e forza di gravità. Se

l’equilibrio si spezza abbiamo il collasso e la nascita di una stella, con la formazione degli elementi pesanti. L’Antimateria è' un materiale composto di antiparticelle. Le particelle comuni nel nostro universo, come l'elettrone e il protone, definiscono la materia e le loro antiparticelle l'antimateria. I fisici ritengono che nell'universo sia presente solo una piccolissima percentuale di antimateria. Tuttavia, a livello microscopico, le interazioni delle antiparticelle fra loro sono quasi del tutto identiche a quelle tra le corrispondenti particelle. L'origine dell'asimmetria tra particelle e antiparticelle nell'universo costituisce un problema complesso non ancora pienamente compreso. È accaduto a un certo momento un fatto di enorme importanza: una violazione della simmetria.

Tra 0 e 10-43 sec nell’universo regnavano le simmetrie. Tra 10-43 e 10-35 sec si spezza la simmetria materia/antimateria. I quark superano gli antiquark di una piccola percentuale (1 su di 1 miliardo). Le particelle si annichilirono reciprocamente a un centesimo di secondo dal big bang. A 3 minuti dal big bang rimane un piccolo nucleo di materia (il nostro universo). Viviamo in un universo asimmetrico. Solo nel 1998 gli astronomi hanno scoperto di aver

trascurato quasi tre quarti dell’universo. Un secolo prima Haeckel riteneva di poter scrivere che gli enigmi del mondo erano stato svelati dalla scienza42.

Proprio la pervasività dell’energia oscura ne ha reso difficile la scoperta. Mentre la materia è distribuita in modo irregolare, l’energia oscura è “sparsa” in modo uniforme: tutta assieme equivale alla massa di un piccolo asteroide. I suoi effetti si percepiscono solo su lunghe distanze e su lunghi periodi di tempo. Se ci fosse più energia oscura di quella effettivamente presente l’universo sarebbe rimasto un insieme amorfo, mentre esso si è andato sviluppando costruendo strutture distribuite a ragnatela. Non viviamo in un universo simmetrico, ma asimmetrico. Se non ci fossero state piccole irregolarità, l’universo sarebbe rimasto una pappetta primordiale, un insieme indistinto.

Una curiosità: la perfetta simmetria nel nostro Pianeta esiste. Per la precisione alla latitudine 79 gradi e 50 primi, nord e sud, Groenlandia e Antartide, equinozio d’estate e d’inverno: per un millisecondo gravità e accelerazione dovuta alla rivoluzione e rivoluzione terrestre si annullano a vicenda.

In altri ambiti la simmetria è impossibile. L’evoluzione di un sistema caotico deterministico è

prevedibile, ma occorre conoscere le condizioni iniziali del sistema in modo preciso, vale a dire con infiniti numeri dopo la virgola, una cosa di fatto irrealizzabile. 6. ORDINE SEMANTICO E IRREGOLARITÀ STATISTICA

Pensiamo al disordine come caos, in un certo senso esso è regolarità: non c’è “differenza”. È una regolarità povera, perché è senza informazione. È come un estrarre lettere a caso: avremo regolarità statistiche, ma non significative, non saranno mai un testo compiuto. È un tipo di ordine: quello entropico.

Comporre la divina commedia vuol dire invece introdurre “differenze” portatrici di

42 Gli enigmi del mondo 1899 (ne saranno vendute 400.000 copie).

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informazione, sviluppare entropia negativa – che richiede inserimento di energia. Avremo l’ordine semantico ma anche l’irregolarità statistica.

In che rapporto sta l’informazione con la sua assenza? Lo stesso di quello tra un cumulo di

pietre e la casa edificata; tra il corpo vivente e il cadavere. Rovina della casa, morte del vivente: passaggio dall’ordine semantico all’ordine entropico

La rottura spontanea della simmetria era stata intravista nel concetto di Clinamen. Un

concetto non solo fisico ma anche etico. La conseguenza del clinamen in sede etica è la giustificazione della libertà dell'agire: declinando casualmente nel loro moto di caduta, gli atomi spezzano la necessità del mondo e aprono una prospettiva in cui l'agire umano trova un margine di libertà tale da rendere possibile un'etica.

Clinamen, παρέγκλισις:

Infine, se sempre ogni movimento è concatenato e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,

né i primi principi deviando producono qualche inizio di movimento che rompa i decreti del fato, sì che causa non segua causa da tempo infinito, donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà, donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati, per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato, né in un determinato punto dello spazio, ma quando la mente di per sé ci ha spinti? Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni la sua propria volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.

(Lucrezio, De rerum natura, II, 251 e seguenti)

Rottura della simmetria- Nell'opera De rerum natura (II, 216-219) Lucrezio, commentando la

filosofia di Epicuro, afferma che «gli atomi cadono in linea retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, essi deviano impercettibilmente la loro traiettoria, appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell’equilibrio».

È meglio essere o non essere? Perché gli asini “reali”, al contrario di quello di Buridano, non

muoiono di fame sospesi in perfetta simmetria tra due mucchi eguali di fieno? Perché essi rompono spontaneamente la simmetria e a un certo punto “scelgono” senza un particolare motivo uno dei due mucchi? In ultima analisi, e scusate se è poco, perché l’Essere piuttosto che il Nulla?

Creare è separare. L’asimmetria è una separazione. L’asimmetria è informazione: è attribuire un significato

Emerge un sistema di ridondanze che permette di completare un sistema di informazioni analogo, ma incompleto:

− Conversazione disturbata al telefono − Segnalatore di direzione in auto − Processi di socializzazione primaria e secondaria Il che naturalmente comprende anche la possibilità di interpretazioni sbagliate. Bateson 1972

[1976]; 1979 [1994] ha scritto: l’informazione è “percezione di una differenza”; “Una differenza che produce una differenza”.

La stele di Rosetta fu ritrovata nel 1799, risale al 196 a.C., venne decifrata nel 1822. La sua

ridondanza è costituita dal un codice triplo: Geroglifico Demotico Greco

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È un po’ come quando risolviamo un cruciverba crittografato. Si richiede la conoscenza della lingua italiana e quella di procedimenti matematici e logici complessi. Come si fa a decrittare un codice? Il manuale della FBI americana dà quattro indicazioni fondamentali, valide anche per i giochi della “Settimana Enigmistica”:

Breaking any code involves four basic steps:

1. determining the language used; 2. determining the system used; 3. reconstructing the key; and 4. reconstructing the plaintext.

Consider this cipher: Nffu nf bu uif qbsl bu oppo. Now apply the four steps:

1. Determining the language allows you to compare the cipher text to the suspected language. Our cryptanalysts usually start with English.

2. Determining the system: Is this cipher using rearranged words, replaced words, or perhaps letter substitution? In this case, it’s letter substitution.

3. Reconstructing the key: This step answers the question of how the code maker changed the letters. In our example, every character shifted one letter to the right in the alphabet.

4. Reconstructing the plaintext: By applying the key from the previous step, you now have a solution: Meet me at the park at noon.

A volte utilizzare un linguaggio non ben conosciuto può portare a spiacevoli inconvenienti. Il

grande matematico Sophus Lie (1842-1889) fu arrestato dalla polizia francese e scambiato per spia prussiana a causa degli appunti di matematica che portava sempre con sé. Non sempre è facile capire se il significato è quello che appare o quello che decrittiamo noi. Si pensi al film A Beatiful Mind, nonché alle decrittazioni che John Nash svolge nel film. Alcune rispondono alla realtà, altre sono il frutto di una mente alterata. Comunicare significa interpretare, e l’errore è sempre possibile. Ma come si comunica? Sempre per asimmetrie, come non equivalenza di stati.

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…DUE PASSI IN “VIA DEL CAMPO”. INTERPRETAZIONE DI “VIA DEL

CAMPO” DI FABRIZIO DE ANDRÉ

Alessandro Ristori

Fabrizio De Andrè ha raccontato molte storie, con la semplicità e l’immediatezza che ce le fa

arrivare dritte al cuore e alla coscienza, la semplicità e l’immediatezza che sono un dono concesso solo ai grandi. Non fa eccezione “Via del campo”, che abbiamo scelto per questa occasione, per portare la voce dell’indimenticabile Fabrizio in questo contesto in cui si mettono in discussione il concetto di perfezione e il suo rapporto con la bellezza.

A me è toccato questo compito, che ho accettato con piacere e che ancora una volta mi fa sentire vicino a questo Autore straordinario, e ancora una volta mi permette di rendergli omaggio.

Il fatto che l’argomento in campo sia così profondo e impegnativo non significa che bisogna parlarne in toni seriosi e (pseudo-)accademici, sfoggiando citazioni erudite e riservate a pochi. Una semplice storia, un semplice ritratto, che emergono in modo prorompente da questa canzone possono dirci molto. La magia della musica, delle note che risuonano nella sala e nelle orecchie e nei cuori di chi ascolta fa sicuramente il resto.

La storia è presto detta, è la storia di una ragazza che agli occhi dei benpensanti è un’anomalia, una macchia della società, personifica la colpa, il peccato, qualcosa che, non potendo essere eliminata, quantomeno dovrebbe essere nascosta o taciuta. E invece De André la celebra, in modo limpido e senza falsi pudori. Dal potere maliardo di quegli occhi verdi alla forza prorompente dell’eros, questa creatura, che non ha un posto nella società “perbene”, è un simbolo scomodo della vita e della sua capacità conquistarsi il futuro.

La perfezione cristallina e assoluta dei diamanti è immobile e sterile, è l’ipostasi di ciò che è stato scelto come modello e come valore. Così facendo è stato svuotato di ogni potere, di ogni forza germinativa, di ogni capacità di promettere vita e amore. In altre parole la perfezione adamantina che nulla può scalfire è un guscio vuoto, rinsecchito e inutile, privo di valore e significato.

La metafora prosegue cercando l’antitesi più lontana dalla geometrica e ialina perfezione della gemma: il letame, maleodorante e amorfo, indefinibile e scomodo. Ma nel fermento disgustante di questa deprecabile materia, prende origine e trae forza il più nobile e delicato degli esseri, un fiore che, ironia della sorte, è anche immacolato e profumato. Ovvero ciò che è più imperfetto ha il potere di generare una perfezione, che però non è quella minerale e sterile della pietra, per quanto preziosa e desiderabile, ma è quella della vita, delicata e palpitante. Un diamante è chiuso in se stesso, un fiore dischiude la sua corolla al mondo e si concede a chi vuol bearsi del suo profumo… c’è una bella differenza.

Inoltre il generare la perfezione avviene, per il letame, capovolgendosi nel suo opposto, disegnando questa grande e prodigiosa parabola. I riflessi del diamante sono alla fine autoreferenziali: l’occhio si illude di catturarli, si lascia ingannare da questa mistificazione, ma rimane alla fine inappagato. Nulla intacca l’autoreferenzialità del diamante. Ha la perfezione del cerchio, ma solo per tagliare il mondo fuori da sé. Il letame è più che ellittico, ha tutte le ellitticità del mondo, ma dal caos amorfo e deprecabile scocca la scintilla magica di ciò che di più prezioso possa prendere vita, più prezioso di una gelida gemma, se ciò che cerchiamo è la vita e l’amore.