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“TESTIMONI DELL’INGEGNO”

RETI EPISTOLARI E LIBRI DI LETTERE NEL CINQUECENTO E NEL SEICENTO

a cura di CLIZIA CARMINATI

EDIZIONI DI ARCHILET MMXIX

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Edizioni di Archilet 2019 Edizione digitale Gratis Open Access 2019 Volume realizzato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Filosofia, Comunicazione – progetto PRIN 2015 Repertorio Epistolare del Cinquecento. Teorie, lingua, pratiche di un genere (Bibbiena, Della Casa, Bernardo e Torquato Tasso, Marino) dell’Università degli studi di Bergamo (Protocollo MIUR: 2015EYM3PR). Edizioni di Archilet via della Chiesa, 15 24067 Sarnico (BG) Direzione: Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo Comitato Scientifico: Eliana Carrara, Giuseppe Crimi, Luca D’Onghia, Roberta Ferro, Enrico Garavelli, Riccardo Gualdo, Carlo Alberto Girotto, Paolo Marini, Paola Moreno, Matteo Residori, Stefano Telve, Franco Tomasi, Massimo Zaggia ISBN: 978-88-99614-04-1

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INDICE

CLIZIA CARMINATI, Premessa 5 PAOLO PROCACCIOLI, La lettera volgare del primo Cinquecento:

destinatari e destini 9 STEFANO GHIROLDI, Lettere dalla frontiera (1522-1525):

l’attività ufficiale di Messer Ludovico Ariosto in Garfagnana attraverso l’epistolario 33

MARIO CARLESSI, Tra ‘Cesano’ e ‘Lettere’: Claudio Tolomei e le ragioni del volgare 97

FRANCESCA FAVARO, Le forme dell’arte nelle missive di Aretino

a Tiziano e su Tiziano: riflessioni ed esempi 119 MICHELE COMELLI, Ricerche in corso sulle lettere di Giovanni

Della Casa 137 ELISABETTA OLIVADESE, Questioni critiche e filologiche su alcune

lettere dell’ultimo Tasso (Guasti 1112, 1121, 1151, 1181) 165 FRANCESCO ROSSINI, Corrispondenti strozziani (Magliabechiano

VIII, 1399): le lettere di Angelo Grillo 185 MARZIA GIULIANI, Da Pistoia a Varsavia (e ritorno). Il viaggio

europeo delle ‘Lettere miscellanee’ di Bonifacio Vannozzi 231 FEDERICA CHIESA, Per un primo inquadramento delle lettere di

Cesare Rinaldi 261 GIACOMO MARZULLO, La raccolta di lettere di Ottavio Rossi 325 ANDREA COLOPI, Tra erudizione e collezionismo librario: le

lettere di Lorenzo Pignoria a Domenico Molin 357

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LUCA CERIOTTI, Don Valeriano e alcune lettere di minima

importanza 379 MARIANNA LIGUORI, Per l’epistolario di Carlo de’ Dottori:

primi rilievi sulla tradizione estravagante 415 MARCO BERNUZZI, «Trovandomi in finibus terrae».

Lettere inedite di Donato Calvi ad Antonio Magliabechi 437 Indice dei nomi 487

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PREMESSA

Registrando i progressi recenti degli studi sull’epistolografia di Antico Regime, Paolo Procaccioli concludeva con un invito ad «as-secondare un contesto tanto favorevole» e ad «arricchirlo con pro-poste di analisi che consentano una penetrazione sempre più con-sapevole – sempre più criticamente consapevole – dell’oggetto e del fenomeno».1 A neanche un anno di distanza dalla pubblicazione di queste parole, raccolgo qui una corposa e corale risposta a quell’in-vito: risposta di cui è bene illustrare storia, ragioni, modi.

Il titolo, anzitutto: Reti epistolari e libri di lettere, nella consapevo-lezza, ormai dato acquisito, che lo studio delle prime vada unito al-lo studio dei secondi. L’intento con cui è nata la base dati Archilet (www.archilet.it), quando ancora – almeno per l’epistolografia – le Digital Humanities erano ai primordi in Italia, era quello di rendere tracciabili i commerci epistolari, ricostruendone in rete la rete: così, lo studio di prima mano delle lettere ha offerto una messe di dati interrogabili in più direzioni, con un incremento decisivo per la co-noscenza non solo e non tanto dei flussi epistolari, quanto dei con-tenuti e delle informazioni. La struttura della base dati, però, ha fatto sì che le singole unità epistolari venissero, appunto, ‘singola-rizzate’, con l’esito di mettere in secondo piano tutta una serie di a-spetti riconducibili all’originaria pertinenza delle unità individuali a un insieme collettivo, dotato di una struttura e di una sequenza, risultato di una selezione e di un’orchestrazione consapevoli. Il li-bro di lettere, insomma, dopo essere stato scorporato per analizzare una a una le singole missive, è tornato prepotentemente a farsi sen-tire, chiedendo di essere ricostruito e interpretato, di essere ricono-sciuto nel suo ruolo di portavoce di significati ulteriori, che sbal-zano in rilievo non i contenuti ma le architetture, l’immagine da offrire ai nuovi destinatari – diversi e più numerosi di quelli cui in origine erano dirette le lettere –, il ruolo e l’immagine dell’archi-tetto, sia egli l’autore o un curatore. Bisognerà pensare a come le

1. PAOLO PROCACCIOLI, Epistolografia tra pratica e teoria, in L’epistolografia di

Antico Regime. Convegno internazionale di studi. Viterbo, 15-16-17 febbraio 2018, a cura del medesimo, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 9-33, a p. 10.

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CLIZIA CARMINATI

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tecnologie digitali possano farsi carico di questi altri aspetti, che rivelano i nuovi «destini» delle lettere, come illustra qui lo stesso Procaccioli nel saggio d’apertura. Intanto, occorreva studiarli: per quanto strano possa sembrare, solo una minima parte della biblio-grafia critica ne teneva conto.

Questo, quanto alle ragioni. Quanto alla storia e ai modi, il let-tore mi perdonerà se adotto un tono meno misurato. È con orgo-glio che voglio informare chi legge del fatto che, dei tredici contri-buti che seguono, solo un paio sono firmati da studiosi affermati. Cinque dei tredici autori sono alla loro prima pubblicazione. Molti sono al dottorato o l’hanno appena terminato, altri sono laureati magistrali, alcuni addirittura triennali. Eppure, il loro lavoro ha già la qualità necessaria per uscire alla luce, nella scrittura critica così come nell’edizione e nel commento ai testi. Ma neppure eccedendo nei toni riuscirei a rendere a parole la passione con cui i giovani e giovanissimi presenti in questa miscellanea si sono dedicati allo stu-dio, spesso molto gravoso, degli epistolari cinque-secenteschi. Tut-ti, senza eccezione, con un approccio serissimo, filologicamente av-vertito, storicamente e linguisticamente consapevole; con sistema-ticità e ordine stupefacenti; con un entusiasmo tale da doverlo tal-volta contenere; e soprattutto con la capacità di dialogare con gli altri, di mettere davvero ‘in rete’ le idee.2 Che fossero alle prese con un tirocinio,3 con una prova finale, con una tesi, o che avessero scelto di collaborare senza averne l’obbligo curriculare, trovando il tempo tra i mille impegni e decidendo di sacrificare le serate, i fine settimana, le vacanze, a tutti loro va il mio ringraziamento più sen-tito, colmo di ammirazione e di speranza.

La compilazione dell’indice dei nomi del volume è stata rivela-trice: si è creata davvero una rete, ricostruita leggendo le lettere e leggendosi a vicenda. Valeriano Castiglione, per esempio, è autore di una sua raccolta, ma sue lettere compaiono anche tra le lettere di Ottavio Rossi; Rossi, a sua volta, è ricordato da Cesare Rinaldi,

2. Lo si è fatto anche pubblicamente, con alcuni degli autori, nella giornata

di studi che di questo volume aveva il titolo, tenutasi all’Università di Bergamo il 9 maggio 2019.

3. Convenzioni per l’attivazione di tirocini curriculari sul progetto Archilet sono attivi tra le Università di Bergamo, Milano Cattolica, Milano Statale, Vi-terbo (Tuscia): colgo l’occasione per ringraziare i responsabili Claudia Berra, Roberta Ferro, Paolo Procaccioli, nonché gli uffici competenti.

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PREMESSA

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e i suoi interessi eruditi e artistici si collegano a quelli di Lorenzo Pignoria; Giovan Battista Strozzi scambia lettere con Angelo Grillo, mettendo in comunicazione il circolo degli amici di Tasso con quel-lo barberiniano più tardo; sue lettere sono state scoperte in que-st’occasione tra quelle stampate da Bonifacio Vannozzi, a sua volta in contatto con Giulio Segni, curatore di un’importante raccolta secentesca delle lettere di Tasso: entrambi corrispondenti del Ri-naldi. Tutti questi contatti si traducono in una costante riflessione degli autori sulla natura, rilevanza, struttura del libro di lettere, da quello ordinato cronologicamente a ritroso del Rinaldi alla polie-dricità di quello di Grillo, prima improntato a una varietas vaga-mente rispettosa della gerarchia sociale dei destinatari, poi a una suddivisione cronologica, infine alla consueta disposizione ‘per ca-pi’. E inducono una riflessione sul rapporto tra lettere originali, spedite e recuperate da archivi e biblioteche, e loro approdo a stampa, come si leggerà nei saggi su Tasso e su Carlo de’ Dottori. Inquadrati in un contesto siffatto, anche i temi e i contenuti delle lettere (dall’arte agli scambi librari, dall’invio di componimenti al resoconto di spettacoli teatrali e musicali, dall’epigrafia alle contro-versie erudite) risultano rinnovati e finalmente interpretati nella lo-ro costante, e spesso nascosta, relazione con i modelli di scrittura e di raccolta epistolare: dalle lettere ‘di negozio’ dell’Ariosto commis-sario in Garfagnana o di Giovanni della Casa, alle ‘nuove letterarie’ inviate da Antonio Magliabechi verso la periferica Bergamo di Do-nato Calvi, passando per i problemi censori di Rossi e per le preoc-cupazioni di Rinaldi e di Vannozzi sulla vicenda editoriale dei ri-spettivi libri di lettere, raccontata per lettera nei libri stessi.

In tal modo, la storia e la geografia della cultura italiana dell’età moderna non solo si uniscono in una mappa sempre più nitida, ma la colorano, evidenziando uniformità e difformità entro un qua-dro le cui tinte sono sempre più mescolate. Con quel quadro, chi verrà dopo potrà più facilmente comparare nuovi colori; le nuove tessere entreranno nel mosaico, completando un’immagine ormai a fuoco, benché moltissimo sia ancora da fare.

Clizia Carminati

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PAOLO PROCACCIOLI

LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO:

DESTINATARI E DESTINI

1.

Gli studi condotti negli ultimi anni sulla materia epistolare hanno avuto uno sviluppo tale da consentire al ricercatore di dominare con una certa sicurezza le grandi scansioni epocali di quella impor-tante tradizione, a cominciare dal passaggio dalle stagioni latine – quella dell’ars dictaminis (secc. XII-XIV) e quella della lettera de- gli umanisti (sec. XV) – alla prima modernità volgare (secc. XVI-XVII).1

Le indagini pionieristiche avviate negli ultimi decenni del No-vecento e quelle condotte più di recente, sfociate in ricostruzioni storiografiche innovative e in recuperi testuali preziosi, prima car-tacei e poi soprattutto digitali, hanno consentito infatti di riflettere sugli elementi di continuità che caratterizzano la lettera di sempre e hanno permesso di mettere a fuoco le altrettanto nette specificità che l’hanno distinta nelle varie epoche. Ciò ha reso possibile tra-durre in progetti – concretamente, in siti e in collane editoriali – gli auspici sempre più pressanti a intraprendere lo studio sistema-tico di un oggetto cui finalmente è diventato ovvio guardare come a un potente strumento di relazione e non più solo come a una sommatoria di singoli momenti, più o meno significativi dal punto di vista tematico e più o meno felici e efficaci a vedere invece le cose in chiave stilistica o retorica.

A questo punto, consapevoli del rapporto strettissimo che lega

1. Per un inquadramento della problematica e delle discussioni più e meno

recenti rinvio ai materiali prodotti in occasione degli incontri di Bergamo del dicembre 2014 (Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, atti del Seminario internazionale di Bergamo, 11-12 dicembre 2014, a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016) e di Viterbo del febbraio 2018 (L’epistolografia di antico regime, atti del Convegno internazionale di studi Viterbo, 15-16-17 febbraio 2018, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019), dei quali il pre-sente si pone come una prosecuzione naturale.

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PAOLO PROCACCIOLI

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sempre la singola lettera, chiunque la scriva e quale che sia il suo argomento, a una prassi dalla quale dipende la sua riconoscibilità proprio in quanto lettera, diventa oltre che naturale anche obbli-gato procedere nella ricerca su ciascuno dei vari fronti aperti. Tutti necessari ma tutti inevitabilmente parziali. A partire dal recupero testuale e critico dei singoli carteggi, dalla perlustrazione e dalla de-scrizione dei depositi epistolari e dei moltissimi corpora ancora ine-splorati, dalla ricostruzione dei termini del dibattito che in ogni epoca ha affiancato l’uso della scrittura epistolare e che si è tradotto nella trattatistica incaricata di ripensare costantemente la pratica traducendola in una norma talora più talora meno rispettata ma mai rifiutata.

Ma anche, e non meno, a partire dalla ricostruzione sia delle forme sia delle logiche secondo le quali nel tempo la materia epi-stolare è stata sottratta al suo fluire puntiforme per essere recupe-rata – materialmente e idealmente – alla dimensione libraria.

E è appunto su un aspetto problematico connesso a un mo-mento storicamente determinato di questo ultimo filone di inda-gine che qui vorrei richiamare l’attenzione. Lo farò con una breve riflessione sulla fase aurorale di una vicenda in sé per altro molto nota come fu quella del libro di lettere volgari a stampa.

Gli annali editoriali dicono che in Italia la lettera volgare ha fatto la sua apparizione per tempo2 e che nella storia che ne di-scende a una primissima stagione – i cinquant’anni e poco più che vanno dagli anni Settanta del Quattrocento alla metà degli anni Trenta del secolo successivo – che vede l’apparire sempre più fre-quente di stampe isolate di singole lettere3 succede una seconda, segnata dall’apparizione delle raccolte, che stando a quanto finora noto dovrebbe avere la sua data d’esordio nel 1535. Una data non casuale che spiega il moltiplicarsi di quelle iniziative in connessione con una vicenda di enorme risonanza politica e ideale come fu la

2. Nell’appendice che segue (cfr. infra, pp. 27-31) saranno elencate le edizioni

di singole lettere volgari così come si susseguono fino al 1535. 3. Che in qualche caso, come nelle iniziative connesse alla predicazione savo-

naroliana, rivela una certa sistematicità. Ricordo che si tratta di un prodotto la cui fortuna materiale è stata a lungo misconosciuta, e questo fino a tempi re-centissimi (basti qui rinviare alle considerazioni e alle ricostruzioni che si leg-gono in UGO ROZZO, La strage ignorata. I fogli volanti a stampa nell’Italia dei secoli XV e XVI, Udine, Forum, 2008).

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LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO

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spedizione africana di Carlo V.4 Di quella storia vorrei richiamare qui e sottoporre all’attenzione del lettore qualche episodio che con-senta di avviare una riflessione sul tema della destinazione delle let-tere, una problematica che ha riflessi diretti tanto sulla materialità degli oggetti – per esempio sul frontespizio e sul formato – quanto sulla selezione dei testi proposti.

Ma anche su un altro dettaglio. A stare a quanto dicono titoli e argomenti del campione di edizioni proposto in appendice, nei de-cenni interessati (ca. 1470-1535) le iniziative editoriali dovevano es-sere condotte per lo più in tempo reale rispetto ai fatti ai quali si riferivano. Dove la lettera era un’eco immediata di un avvenimento e si traduceva in stampa man mano che quell’eco si diffondeva. Dopo invece le cose sarebbero cambiate, non nel senso che non si sarebbero più date quelle pubblicazioni ma nel senso che quella non sarebbe stata la natura del libro di lettere. Con poche eccezioni infatti, su tutte quella autorevolissima dei sei libri aretiniani, le rac-colte epistolari a stampa persero il carattere di iniziativa militante e si imposero come sillogi evocative di un passato più o meno lon-tano, quando non proprio come bilancio di una carriera.

2.

Nell’avviare la breve indagine annunciata parto dalla considera-zione ovvia che lo scambio epistolare, quali che siano le persone, le istituzioni, gli argomenti, i luoghi, i tempi, le lingue, i livelli di for-malizzazione e ogni altro possibile parametro o condizione attra-verso cui lo si voglia considerare e valutare, vive da sempre all’in-terno di una convenzione generalissima che suppone uno scambio in atto tra un ‘io’ e un ‘tu’. L’io che scrive e il tu che legge, il mit-tente e il destinatario. Dove la lettura da parte di quel destinatario rappresenta il compimento del destino primo della lettera ma dove

4. Vd. CARL GÖLLNER, Turcica. Die europäischen Türkendrucke des XVI Jahrhun-

derts, I, Band MDI-MDL, Bucureşti-Berlin, Editura Academiei R.P.R.-Akade-mie-Verlag, 1961, un repertorio che per il solo 1535 registrava 29 pubblicazioni (quelle che figurano ai nn. 513, 516-517, 521-522, 530-533, 535-537, 539-540, 542, 544-545, 553-559, 562, 566-567, 570-571); per i resoconti non andati in stampa mi limito a richiamare quelli gonzagheschi illustrati in GIUSEPPE CO-

NIGLIO, L’impresa di Carlo V contro Tunisi nei dispacci dell’oratore mantovano Agnelli, in «Bollettino storico mantovano», 15-16, 1959, pp. 235-239.

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PAOLO PROCACCIOLI

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all’avvento di ogni nuovo lettore consegue l’istituzione di un patto anch’esso nuovo, diverso rispetto a quello originario ma altrettanto stringente. Dal fatto che il destinatario ufficiale della lettera ne è anche il lettore primo, e cioè quello naturale, non discende che quella destinazione debba essere anche l’unica. A partire dalla clas-sicità greca e latina infatti all’uso legato all’occasione che lo ha pro-dotto e al rapporto di cui è testimonianza se ne sono venuti affian-cando altri possibili. Usi convenzionali e potenziali, tali cioè che si possano replicare o anche moltiplicare nello spazio e nel tempo, ma non per questo meno reali, che accanto a quelli iniziali hanno fi-nito per affiancare altri ‘io’ e altri ‘tu’.

Su questa potenzialità apertissima e inesauribile si basano le rac-colte di cui si diceva, sulle quali credo sia opportuno soffermarsi soprattutto perché quelle realizzazioni, tutte legittime, generano ne-cessariamente significati secondi, per lo più impliciti, che possono rappresentare tanto un arricchimento indubbio dei testi primari, a rigore gli unici ‘veri’, quanto una loro alterazione, al limite una loro negazione. L’importante è riuscire a mantenere distinte le due oc-casioni – quella originaria e quella secondaria – e a leggerle nei ter-mini (e tempi e finalità) loro propri. Un conto insomma è scrivere una lettera, un altro riproporla a distanza di tempo e al di fuori della circostanza che l’ha originata. Fatti che, se non ribaditi, pos-sono arrivare a interferire anche pesantemente con l’interpreta-zione dei testi. Col risultato che da un possibile incremento di senso si può passare a un fraintendimento, e dunque di fatto a una perdita.

In fenomeni come questi è in gioco sempre una doppia prospet-tiva: da una parte quella tecnica del documento, che induce a con-siderare ciascuna delle singole cellule di un carteggio come un ele-mento autonomo, discreto anche se non irrelato; dall’altra quella che guarda a quelle cellule come a parti di un tutto che è il libro che le raccoglie e che le sottopone a una forte tensione unitaria e centripeta, con riflessi diretti sull’interpretazione del testo stesso. Sul suo autore, sull’argomento, sulle modalità tecnico-retoriche di scrittura, e con un’incidenza che può essere di rilievo perfino sulla determinazione di elementi come lo stesso mittente, il destinatario, il luogo e la data (elementi che non a caso in moltissime sillogi ri-sultano o assenti o mobili). Fino alla loro sparizione quando il de-stinatario diventa generico e l’occasione da specifica si fa topica.

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LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO

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In sé la spedizione della lettera, al pari dell’‘invia’ dei nostri messaggi di posta elettronica, è un taglio definitivo che obbliga a intonare il «voce dal sen fuggita». Ma quando la lettera torna sotto le mani di un autore – sia o no quello originario – per essere raccol-ta in un libro, la pagina sembra legittimata a riprendere vita. In-tanto rivive perché è compresa in quel tutto oggettivamente nuovo che, si è appena detto, istituisce nuove relazioni tra le sue parti; e poi rivive (può tornare a rivivere) nel senso che da Petrarca in poi le nuove destinazioni hanno sempre autorizzato interventi ulteriori anche rilevanti, sia di aggiornamento formale, sia di integrazione o di soppressione di testi o di loro parti.

Naturalmente in questo modo tanto i punti di vista quanto le logiche relative sono destinati a entrare in conflitto, ma si tratta di un conflitto tacito, i cui termini sono accettati dall’autore e dal let-tore ‘secondo’, e che prevede sempre una ricomposizione. La lettera d’altra parte si adattava benissimo a ogni nuovo destino, fosse essa «di negozio» o «familiare», per usare le categorie tecniche allora in voga, o uno di quegli «avvisi» nei quali un professionista della vita politica dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento come Gio-van Francesco Peranda, tra l’altro epistolografo di successo, vedeva «il fondamento di chi negocia et di chi delibera».5

Si adattava, certo, ma è lecito chiedersi con quali conseguenze. Nessun dubbio che la variabile che prendiamo qui in conside-

razione sia tale da modificare radicalmente lo statuto stesso del te-sto. A vedere le cose dal punto di vista connesso a quel particolare parametro è evidente che siamo di fronte a una moltiplicazione della funzione autore e contestualmente a una ridefinizione sostan-ziale delle altre. Facendo leva su quel parametro la tradizione che ne risulta finisce per metterci di fronte a tanti autori altrettanto legittimi (accanto ai mittenti originari avremo per esempio gli stam-patori e i curatori), a tanti destinatari (oltre al destinatario primo, i lettori a lui prossimi, spesso veri e propri codestinatari; i lettori coevi ma estranei alla cerchia ristretta di quei codestinatari; i lettori del libro…), e con essi, inevitabilmente, a tanti destini (della singola lettera o della sua serie; del libro di lettere come silloge d’autore/di

5. Giovan Francesco Peranda al cardinale Enrico Caetani, Legato in Francia,

il 25 nov. 1589, in Le lettere del signor Gio. Francesco Peranda divise in due parti, Venezia, Gio. Battista Ciotti, 1601, pp. 204-207, a p. 206.

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PAOLO PROCACCIOLI

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editore/di curatore; del libro di lettere come mera successione di documenti, o al contrario come una storia o una biografia; del libro di lettere come silloge di modelli…).

Tutto questo determina approdi testuali diversi, ciascuno dei quali comporta nel lettore un differente livello di consapevolezza, e dunque una lettura sua propria. Sappiamo bene infatti che una volta uscita dal circuito originario, quello del dialogo mittente-de-stinatario, e entrata in quello librario, la lettera diventa componen-te di un tutto al cui senso concorrono tanto la somma delle parti quanto il disegno di chi quel tutto ha immaginato immettendo nel testo tensioni nuove delle quali sarebbe opportuno che il lettore fosse consapevole.

È vero che un mattone può essere impiegato altrettanto bene per lastricare una strada o per elevare un arco, una parete, una volta, senza che questo gli faccia perdere forma o natura, ma è an-che vero che la sua ‘interpretazione’ dipende sempre dal disegno di chi di volta in volta lo ha utilizzato. Un dato di fatto, questo, le cui implicazioni, almeno nel caso che ci riguarda, credo che siano più facili da cogliere se invece che in considerazioni teoriche le vediamo riflesse in qualche caso specifico. In qualche caso di un uso edito-riale di materiale epistolare che consenta di verificare come l’inter-ferenza delle due iniziative – quella di chi scrive la singola lettera e quella di chi allestisce un libro di lettere – comporti modificazioni del punto di vista che possono determinare nel lettore le interpre-tazioni ulteriori di cui si diceva.

3.

Comincio da una silloge allestita nel 1535, a Roma, forse da Anto-nio Blado, la Copia de littere, mandate da Tunisi, Al Molto Magnifico Messer Sabastiano Gandolfo, intimo Sacrettario dello Illustriss. Signor Pier-lovisi Farnese Con il dissegno del paese di Tunisi, che contene tutte le sca-ramuccia fatte alla Goletta, et la morte di Christiani, et de Mori. Una raccoltina proposta due volte; questi i due frontespizi: 6

6. È una stampa sine notis attribuita al Blado: Catalogo delle edizioni romane di

Antonio Blado Asolano ed Eredi (1516-1593), possedute dalla Biblioteca Nazionale centrale «Vittorio Emanuele II» di Roma, compilato da Emerenziana Vaccaro So-

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LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO

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Fig. 1. Copia de littere, mandate da Tunisi, [Roma, Blado, 1535] (Roma, Biblioteca Vallicelliana, S.BOR.II130.5 – per concessione della Biblioteca Vallicelliana –

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo)

fia, IV, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1961, p. 328, n. 1422, attribu-zione ripresa in TULLIO BULGARELLI, Gli avvisi a stampa in Roma nel Cinque-cento, Roma, Istituto di Studi Romani, 1967, p. 42, n. 18. L’edizione delle let-tere figurerà in un volume in preparazione destinato a raccogliere i testi del Gandolfi e la documentazione a esso relativa (SEBASTIANO GANDOLFI, Scritti. Rime, corrispondenza, documenti, a cura di Alfredo Cento e Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli).

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PAOLO PROCACCIOLI

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Fig. 2. Copia de littere, mandate da Tunisi, s.n.t. (Wien, Österreichische Nationalbibliothek, C.P. 2 B 47/8)

Poche carte che propongono ai lettori delle due edizioni cinque

lettere e una mappa allo scopo di aggiornarli sugli sviluppi di un momento della campagna africana dell’imperatore.7 Non sappiamo chi scriva (la sigla «Aur. Taul.» con la quale le lettere sono firmate al momento rimane non sciolta), sappiamo solo che si tratta della

7. Sull’iniziativa mi sono soffermato in Prima del libro di lettere. Corrispondenza

tunisina per Sebastiano Gandolfi, in «Tutto il lume de la spera nostra». Studi per Marco Ariani, a cura di Giuseppe Crimi e Luca Marcozzi, Roma, Salerno Editrice, 2018, pp. 347-357.

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corrispondenza destinata a un segretario. Nella stampa di Roma quel materiale viene presentato (da

Blado?) in relazione al circuito farnesiano (Pier Luigi era capitano di Carlo V) e contrassegnato, in funzione di marca, dalla riprodu-zione dell’immagine di una moneta siracusana. Per quanto riguar-da i nomi fatti nel frontespizio, uno, quello in primissimo piano del segretario Sebastiano Gandolfi, è leggibile solo in ambito ro-mano e farnesiano,8 quello di Pierluigi ha una valenza più ampia: non a caso spetterà a lui, come capitano di parte imperiale, acco-gliere alle porte di Roma un Carlo V di ritorno dall’Africa e impe-gnato nel viaggio trionfale attraverso tutta l’Italia tirrenica. I prota-gonisti della vicenda, a stare al nostro frontespizio, non sono gli spagnoli o gli imperiali, ma i cristiani e i mori. Il messaggio è chiaro: Carlo V è uno strumento, a muovere contro la Tunisi del Barba-rossa non è l’imperatore ma la cristianità.

Non a caso l’immagine utilizzata9 è lì a evocare al dotto lettore un altro momento di contrapposizione Europa-Africa, la lotta di Siracusa contro Cartagine; in particolare, ipotizzo, sarà stata un’al-lusione alla spedizione di Agatocle del 307 a.C. e all’assedio di Car-tagine. Come il tiranno siciliano aveva rovesciato le cose trasfor-mando gli assedianti in assediati, così la cristianità reagiva alla mi-naccia turca. Il che, non era detto ma si trattava di un dettaglio politico essenziale, era una condanna della ‘scandalosa’ strategia fi-loturca nella quale era impegnato Francesco I.

Ripreso in ambito imperiale,10 lo stesso materiale viene propo-sto come celebrazione diretta di Carlo V. Lo dice un frontespizio dove dominano l’aquila asburgica e le colonne col «Plus ultra» che affiancano un tondo raffigurante una nave che approda in un golfo

8. Sul personaggio si vedano gli studi raccolti in Sebastiano Gandolfi. Un segre-

tario per i Farnese. Atti della Giornata di Studi di Ischia di Castro, 13 aprile 2013, a cura di Alfredo Cento e Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2014.

9. La riproduzione di una moneta siracusana (testa di Aretusa con legenda «ΣΥΡΑΚΩΣ»; diam. 55 mm.).

10. L’esemplare di Vienna (Österreichische Nationalbibliothek, C.P. 2 B 47/8), l’unico censito in GÖLLNER, Turcica (n. 533, a p. 261), è disponibile al sito http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ17174 2502 (ancora al 5 maggio 2019 quattro delle otto immagini risultavano ripro-dotte solo parzialmente). La biblioteca viennese attribuisce le lettere ad «Aure-lio Taul».

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contornato dal motto biblico (da Ps., 18 5) «Exivit sonus eorum in omnem terram», e dove l’impaginazione riduce il titolo quasi a una didascalia. Non c’è spazio per altro: Siracusa e la sua storia, e con esse la Roma della classicità, sono percepite come estranee alle idea-lità asburgiche e come tali annullate.

Questo mi pare dicano i due frontespizi. Così come dicono che anche un semplice manipolo di lettere, di quelle delle quali si ali-mentava la corrispondenza dei segretari, può diventare gesto poli-tico e strumento di apologia. Il che, a vedere le cose nella prospet-tiva particolare del nostro incontro, pone un interrogativo di solu-zione non ovvia: a chi spetta la palma nel conflitto di titolarità in-nestato dalla ripresa editoriale del breve carteggio? E in subordine, a chi si deve l’iniziativa editoriale? Escluso il mittente, che rimane celato nella sua sigla e in ogni caso, è facile supporre, lontano da Roma e dall’Italia, si dovrà pensare o direttamente al destinatario o a qualcuno a lui prossimo o almeno della sua parte. Questo natu-ralmente a guardare all’esemplare della Vallicelliana; ma per quello di Vienna le cose non sono così ovvie. A quale titolo un membro del giro farnesiano avrebbe dovuto farsi carico della diffusione di quei materiali in veste tanto marcatamente filoasburgica?

Le domande al momento sono destinate a rimanere senza una risposta soddisfacente, ma ciò non toglie che di quelle lettere, quan-tunque tutt’altro che res nullius, erano possibili usi diversi. E con gli usi erano diversi anche i destini.

Insieme non è senza interesse il fatto che la pubblicazione bla-diana faccia affiorare per la prima volta il nome del Gandolfi e ne sancisca ufficialmente il ruolo di segretario, cioè di mediatore tra il signore e i suoi corrispondenti. In questo senso quella pubblicazio-ne sembrerebbe un gesto di routine, e per molti aspetti lo era sen-z’altro. Ma per un altro era gesto del tutto innovativo: era la prima volta infatti, almeno a stare a quanto noto finora, che veniva pub-blicata una silloge, sia pure minima, di lettere volgari indirizzate a un unico destinatario. E il fatto che questo sia avvenuto nel nome di un segretario, quantunque oscuro, non è di certo un caso, sem-mai ribadisce che la materia lettera era di pertinenza soprattutto di quelle figure, alle quali dunque spettava in primo luogo la titolarità.

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4.

Per una microsilloge condannata alla clandestinità una raccolta in-vece corposa, il primo libro delle Lettere di Pietro Aretino, che ha avuto da subito il massimo della visibilità e dell’onore, al punto di imporsi come modello riconosciuto del genere e non solo in Italia. Un testo e un’iniziativa notissimi che qui vorrei prendere in consi-derazione riflettendo su come un dettaglio, la variazione del for-mato, abbia potuto influire sulla destinazione del testo.

Testo che, è noto, venne proposto dalle stampe di Francesco Marcolini. La prima edizione (gennaio 1538 in prima emissione, settembre 1538 in seconda) si giovò delle cure redazionali di Nic-colò Franco, la seconda edizione invece (agosto 1542) di quelle di Lodovico Dolce.

A sottolineare come per Aretino-Marcolini il libro epistolare na-scesse quasi come replica materiale del foglio scritto a mano è utile ricordare la prossimità del formato del libro, l’in folio piccolo (lo specchio di stampa è di mm. 241x144), a quello della lettera mano-scritta, e cioè al «mezzo foglio» che in una pagina famosa lo stesso Aretino aveva indicato esplicitamente come misura dell’unità epi-stolare: «il caso è ridurre, come ho fatto io, in un mezzo foglio la lunghezza de l’istorie e il tedio de l’orazion, come si può vedere ne le mie lettre».11 Il libro pubblicato nel gennaio e nel settembre del 1538 era dunque un prodotto riconoscibile come tale in prima istanza dai destinatari effettivi delle singole lettere, che non a caso diventavano i destinatari primi anche del libro. Quelli ai quali, pre-cisò Aretino scrivendo a Marcolini il 22 giugno ’37, competeva il compenso dell’autore:

Con la medesima volontà ch’io, Compar mio, vi donai l’altre opere, vi dono queste poche lettere, le quali sono state raccolte da l’amore che i miei giovani portano a le cose ch’io faccio. Ora sia il mio guadagno il vostro testimoniare ch’io ve l’ho donate, perché stimo più gloria il farne Presente ad altri, che d’averle composte a caso, come si sa; e il fare imprimere a suo costo, e a sua stanzia vendere i libri che l’uom si trae de la fantasia, mi par proprio un mangiare i brani de le istesse membra. […] Io voglio, con il favor di Dio, che la cortesia de i Principi mi paghi le fatiche de lo scrivere, e non

11. Nella lettera a Sebastiano Fausto da Longiano, del 17 dicembre 1537 (PIE-

TRO ARETINO, Lettere. Libro I, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Edi-trice, 1997; è la lett. 297).

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la miseria di chi le compra. […] Et è chiaro che i venditori de le lor carte diventano facchini e osti de la infamia loro. Impari a esser mercatante chi vole i vantaggi de l’utile, e facendo l’essercizio di libraio, sbattezzisi del nome di poeta.12

Ma la proposta avanzata da Aretino e condivisa dal suo editore

era destinata a rimanere senza seguito. Nella primavera dello stesso ’38 altri stampatori si erano affrettati a riprendere l’opera e nei mesi che seguirono la riproposero per nove volte, tutte in un nuovo for-mato, l’ottavo. Era quello il formato destinato a imporsi, e infatti sarà in quella stessa misura (con lo specchio di stampa di mm. 122x70) che le Lettere saranno edite dallo stesso Marcolini nel mo-mento in cui metterà mano alla seconda edizione. E in ottavo sa-ranno poi tutti i libri epistolari aretiniani a venire, quali che fossero i curatori e gli editori. Senza dire che quella rimarrà poi la misura convenzionale del genere, adottata, con pochissime eccezioni, per tutti i libri di lettere del Cinque e del Seicento.

A prima vista sembrerebbe trattarsi di un dettaglio tecnico, sia pure di grande rilievo merceologico. In realtà il nuovo formato era la riprova di una metamorfosi. Una trasformazione radicale in gra-zia della quale al destinatario primo dell’opera – che, si è visto, Are-tino indicava al Marcolini nella sommatoria dei destinatari delle singole lettere – si sostituisce il lettore. Il cambio di formato in sé non era una cosa nuova, lo stesso era successo con il Cortegiano nel momento in cui all’in folio dell’aldina dell’aprile 1528 aveva fatto seguito nell’ottobre dello stesso anno l’ottavo della giuntina,13 ma si converrà che mentre l’operazione del ’28 era frutto di una strate-gia editoriale, quella di dieci anni dopo appare come una resa. L’au-tore e il suo editore prendevano atto che ‘il mercato’ aveva ricono-sciuto nel formato minore quello conveniente al testo e lo aveva imposto su ogni altro. La lettera volgare debordava dal circuito che sembrava quello suo naturale – la cerchia dei destinatari – per di-ventare materia di lettura universale.

12. La lettera, che si chiudeva con una richiesta («sì che stampatele con dili-

genza e in fogli gentili, che altro premio non ne voglio») e una promessa («di mano in mano sarete erede di ciò che mi uscirà de l’ingegno»), si legge solo nelle due emissioni della prima edizione (ARETINO, Lettere, App. 1).

13. L’analogia era richiamata da Fabio Massimo Bertolo nella sezione I.A, a sua firma, della Nota al testo di ARETINO, Lettere I, p. 536.

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Stesso destino toccò alla prova epistolare di Niccolò Franco, le Pistole vulgari del novembre 1538, a conferma della valenza subito esemplare degli esiti aretiniani, e nonostante l’antagonismo dichia-rato. Un testo, le Pistole, del quale prima ancora di avviare la lettura era agevole cogliere tanto la dipendenza dal precedente diretto quanto l’agonismo nei confronti di quello. Il frontespizio fran-chiano infatti rappresentava allo stesso tempo una replica e una dichiarazione di guerra. Era una replica nel formato e nell’im-pianto; era una contrapposizione frontale nel titolo e, almeno nel-l’edizione del ’42, nell’esibizione del nome dell’editore.

Il fatto di aver intitolato la silloge ‘pistole’ e non ‘lettere’ non era riducibile a una semplice ricerca di variatio. In ballo c’era la le-gittimazione retorica del genere, cosa che Aretino colse immediata-mente e che dichiarò nel momento in cui scriveva a un editore raf-finato come Francesco Calvo che «un Franco di Benevento, capita-tomi inanzi ignudo e scalzo, come andrà sempre, doppo i segnalati benefizii da me ricevuti, volse concorrer meco, e per aver detto pi-stole e non lettre ne va altero quasi vincitor di quel ch’io sono».14

Da umanista infatti Franco sapeva bene che la lettera di Aretino a nessun titolo poteva essere ricondotta alla tradizione epistolare che ai suoi occhi contava, quella latina. Ma il seguito della vicenda e gli stessi destini dei contendenti dimostrano che ormai l’arma era spuntata: nella Venezia di Marcolini e di Giolito, e perfino in quel-la di un cultore dell’epistola ciceroniana come Paolo Manuzio, non si veniva più crocifissi per lesa latinità, semmai si veniva premiati per l’audacia con cui si aprivano strade nuove al volgare.

Più difficile da cogliere, almeno per noi, l’altra frecciata, quella rappresentata dall’editore. L’Antonio Gardane che firmò tutte le edizioni delle Pistole non era un editore qualsiasi. Era quello che con le sue innovazioni tecnologiche aveva tarpato le ali alle ambi-zioni dello stesso Marcolini nel campo dell’editoria musicale. E che la scelta non fosse fatta senza malizia anche da parte del francese lo dimostra il fatto che i testi del Franco rimangono le uniche opere non musicali tra quelle edite dal Gardane nei trent’anni e oltre della sua attività a Venezia.

14. PIETRO ARETINO, Lettere. Libro II, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Sa-

lerno Editrice, 1998, dove è la lett. 156, del 16 febbraio 1540; cfr. anche, nello stesso libro, la 131, al Dolce, del 7 ottobre ’39.

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Se insomma le Lettere si presentano come il libro di un perso-naggio pubblico con una sua storia gloriosa da esibire e in nome della quale proporsi all’ammirazione universale, alle Pistole bisogna guardare come al libro di un letterato che vuole dare prova di una competenza, e cioè della sua padronanza del mestiere. A stare solo ai rispettivi frontespizi il lettore era informato che gli interlocutori dell’uno e dell’altro autore – e quindi i destinatari privilegiati delle loro lettere – erano sì i cultori del volgare, ma lo erano per l’uno nel nome del rifiuto del vecchio e della sperimentazione del nuovo, per l’altro nel richiamo esplicito alla tradizione alta del genere, quella degli umanisti.

5.

Passano pochi anni e nello stesso 1542 e nella stessa Venezia che vede la pubblicazione della seconda edizione tanto delle Lettere are-tiniane quanto delle Pistole franchiane, una delle officine più pre-stigiose, quella di Paolo Manuzio, stampa il primo libro delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie. «Diversi» gli «uomini» e «diverse» le «materie», e, si suppone, non meno diverse le occasioni all’origine di ciascuna del-le lettere raccolte; ma alle finalità iniziali l’editore ne affianca una tutta nuova e tutta sua che espone nella dedica, dove dichiara:

mi persuado, che gli autori di queste lettere non haveranno a male ch’io dimostri al mondo i fiori dell’ingegno loro con utilità communi. Perché così porgeranno ardire [idest saranno di stimolo] all’industria di quei che sanno, et quei, che non sanno, gli haveranno obligo, potendo da questi essempi ritrar la vera forma del ben scrivere.15

Naturalmente questo non voleva dire che l’argomento origina-

rio fosse annullato, voleva dire che alla finalità perseguita da chi a-veva sottoscritto la lettera, della quale il mittente rimaneva titolare, se ne affiancava una in tutto nuova – quella appunto tecnico-reto-rica – della quale diventava titolare chi quella lettera aveva raccolto

15. «Alli Magnifici, et molto valorosi, M. Federico Badoero, et M. Dominico

Veniero», in Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, Venezia, In casa de’ figliuoli di Aldo, 1542, c. A2r-v.

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e pubblicato. Se è inevitabile che ogni volta che si ripropone un testo del pas-

sato alla sua parola si sovrapponga un’intenzionalità seconda, si converrà che nel caso delle lettere questo assume un peso tale che ci autorizza a parlare se non proprio di un’opera, almeno di un’ope-razione seconda e in tutto altera.

Passa un anno rispetto alla stampa della silloge manuziana e nel 1543 Girolamo Ruscelli nell’ultima carta della sua operetta d’esor-dio, l’Apologia, informa il lettore di aver composto un trattato sul «segretario»: «in quei tempi che non mancavano de Romani fasti-diosi in volere che la lor lingua fosse la sola perfetta al mondo, come hora di molti in questa nostra. Dilche per havere io detto à longo nel mio libro dela vita civile et nel Segretario non dirò per hora altro».16 Solo un annuncio, il progetto infatti non sarà realiz-zato, ma quello che conta è l’apertura, precocissima, a quella figura professionale. Il che consente una prima considerazione su quanto fin qui richiamato: 1535, le lettere da Tunisi sono raccolte e edite in quanto indirizzate a un segretario; 1538, Franco si propone co-me modello di epistolografia umanistica; 1542, Manuzio raccoglie e pubblica lettere-modello di grandi segretari; 1543, Ruscelli più di vent’anni prima di Sansovino annuncia un trattato sul segretario.

Nessun dubbio che a quell’altezza cronologica la norma sia la lettera del segretario e quella degli umanisti. Aretino sembrerebbe, e è di fatto, l’eccezione, anche se lui stesso ne attenua la portata riconoscendosi nella funzione di «secretario del mondo» certificata dalle soprascritte delle lettere a lui dirette,17 ma un’eccezione in gra do di imporsi, almeno fino a quando il personaggio rimase in vita. Poi le cose sarebbero cambiate e anche le sue lettere sarebbero state assorbite nell’alveo dell’epistolografia più convenzionale. Come tali soggette ai trattamenti richiesti dalla stagione, cosa dimostrata dagli interventi operati sul primo libro nel momento in cui venne riedito

16. Apologia di M. Hieronimo Ruscelli contra i biasmatori della continovatione d’Or-

lando furioso del Filogenio, Venezia, Zoppino, 1543, c. B4v. 17. Nella lettera a Francesco Alunno compresa nella parte finale del primo

libro (lett. 257, la data è 27 novembre 1537), quella nella quale aumentano i testi scritti per l’occasione e il discorso metaletterario è evidente; nella lettera riconosce: «mi par esser diventato l’oracolo de la verità, da che ogniuno mi viene a contare il torto fattogli dal tal principe e dal cotal prelato. Onde io sono il secretario del mondo, e così mi intitolate ne le soprascritte».

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nel 1637,18 dove agli ovviamente prevedibili ritocchi censori se ne affiancavano altri e meno ovvi di natura retorica dovuti alla nuova funzione del libro di lettere. Che aveva perso pressoché del tutto le finalità documentarie per risolversi in quelle retoriche. Né più né meno di una qualsiasi silloge ciceroniana approntata da un umani-sta.

In questo senso «dal formulario al formulario»19 non è solo un titolo felice, è prima di tutto la sintesi efficace di una tappa fonda-mentale di un percorso scandito in tempi lunghissimi che vanno dalla classicità all’oggi e che per la stagione della prima modernità sono segnate dalla varia fortuna del Formulario di lettere missive e re-sponsive di Bartolomeo Miniatore. L’operetta, edita a Bologna nel 1485 a coronamento di un lavoro protratto negli anni e consegnato a varie sillogi manoscritte,20 è stata presente per un secolo sia nelle riprese dichiarate,21 sia in pubblicazioni che ne hanno messo a frutto i materiali, come la silloge delle Lettere missive alli suoi Principi di Michelangelo Biondo (1552).22

Le modificazioni registrate nel breve canone esaminato, dichia-rate o no che fossero, erano destinate a riproporsi in termini ana-loghi o poco diversi pressoché in ciascuno dei moltissimi libri di lettere che sarebbero stati editi da lì in poi. Quando ogni autore, ogni editore, ogni stagione si sarebbero sentiti legittimati a sovrap-porre ai testi e ai corpora originari e alle loro specificità formali e priorità tematiche quelle di chi li selezionava e su quella base pren-deva l’iniziativa di riproporli. Fossero essi indicati come documen-to storico (così per la serie delle Lettere di Principi) o come modello

18. Saranno allora le Lettere di Partenio Etiro. Al Molto Illustre, et Reverendissimo

Signor, Signor Collendissimo, Monsignor Leonardo Severoli Canonico di Faenza, et Vi-cario Archiepiscopale di Ragusa, Venezia, Ginammi, 1637.

19. È il titolo del saggio di Amedeo Quondam (Dal «formulario» al «formulario»: cento anni di «libri di lettere») che apre la miscellanea critica Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cin-quecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 13-158.

20. Tradite dal ms. 226 della Biblioteca Universitaria di Bologna e dal Vati-cano Latino 4612.

21. Censite alle pp. 278-291 di MARIA CRISTINA ACOCELLA, Il ‘Formulario di epistole missive e responsive’ di Bartolomeo Miniatore: un secolo di fortuna editoriale, «La Bibliofilía», CXIII, 2011, 3, pp. 257-291.

22. Delle littere missive alli suoi Principi raro esemplare antico, novamente da Michel Angelo Biondo illustrato, Venezia, Nicolò de’ Bascarini, 1552.

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di scrittura professionale (e penso ai numerosissimi che conflui-rono nei trattati sul segretario), quei testi erano soggetti a modifi-cazioni anche radicali.

A volte questo poteva riguardare anche il dettato, sottoposto a interventi di natura formale (stilistica o lessicale) o contenutistica (di aggiornamento o censura), ma anche quando il dettato rima-neva inalterato a cambiare profondamente era la sua funzione. E se all’epoca i meno avvertiti potevano anche accontentarsi di letture limitate a questo o a quel livello di discorso, a noi si chiede un ap-proccio più consapevole, che sappia cogliere testi e iniziative nella pienezza delle loro significazioni e ne sappia restituire densità e complessità.

6.

Naturalmente il processo appena descritto non va visto come una degenerazione della lettera vera, che rimarrebbe quella originaria, né tanto meno comporta un passaggio da una ‘lettera’ a una ‘non lettera’. È e rimane lettera tanto il testo all’origine quanto ciascuna delle sue repliche, comunque e dovunque fossero riproposte, chiunque fosse il responsabile dell’iniziativa e quali che fossero le sue finalità. Cambiano, questo sì, le modalità di lettura, che do-vranno tenere conto delle motivazioni di ogni ripresa e delle nuove finalità, oltreché verificare gli interventi apportati e renderne conto.

Il che, si converrà, è un prendere atto della vitalità di quella tipologia testuale e delle sue potenzialità, che, ci dice oltre che la proliferazione anche l’adattabilità dei libri di lettere del Cinque-cento e del Seicento, permangono tali a lungo prima di essere con-segnate alla fissità ne varietur del documento. Alla coppia mittente-destinatario iniziale, legata a un’occasione specifica certificata dalla data, se ne potevano affiancare altre dove il mittente diventava di volta in volta Paolo Manuzio o Lodovico Dolce o Girolamo Ru-scelli…, e il destinatario diventava il lettore. Che poi in questo se-condo o ennesimo invio l’occasione prima potesse anche essere marginalizzata lo rivela un dettaglio in apparenza secondario come la data, che, e successe in molti casi, perse il suo peso al punto che poté essere modificata senza che nessuno avesse a lamentarsene

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fino al punto di arrivare a sparire del tutto senza compromettere la tenuta della pagina.

È chiaro a questo punto che non possiamo leggere un libro di lettere come se fosse ‘solo’ una raccolta più o meno completa di documenti. Un libro di lettere è sempre prima di tutto un libro, con modelli e finalità suoi propri che di volta in volta ne hanno condizionato selezione e trattamento. In questo senso tutto era già chiaro nella raccolta modello, quella del Petrarca. Di volta in volta, lo si è visto, potevano essere in primo piano lo stile, la carriera, la parte politica o ideale, ma in fondo era sempre una questione di apologia, con i suoi riflessi evidenti, dichiarati o no che fossero, sui destinatari – quelli particolari e diretti delle singole lettere e quelli indeterminati del libro –, sulla cronologia e sugli argomenti trattati. Questo naturalmente vale sia che si tratti di un libro d’autore sia che a allestirlo sia stato uno stampatore o un curatore. In questi ul-timi casi semmai bisognerà considerare anche le ragioni della sele-zione, che aveva lo scopo di comprovare la capacità e il potere di aggregazione di chi raccoglieva i testi e l’ambiente di cui voleva dare conto. Cosa, quest’ultima, che risulta di una particolare evidenza nelle sillogi (sia epistolari che liriche) di un Dionigi Atanagi inte-ressato a ribadire la centralità della Roma primocinquecentesca, in particolare di quella farnesiana.

Destinazioni e destini, è evidente, non sono fatti indipendenti. I libri di lettere in quanto frutto di selezioni hanno ciascuno genesi e destinazione differenti dalle quali dipendono l’impianto che as-sumono e i contenuti che vi confluiscono. A monte infatti dobbia-mo immaginare un insieme di testi all’interno del quale l’autore della raccolta (può essere l’autore delle lettere o no) opera la sua scelta e sottopone a un trattamento particolare calibrato sulle fina-lità che si propone e sul modello che considera maggiormente fun-zionale al raggiungimento di quelle finalità. Più il lettore e lo stu-dioso saranno consapevoli di queste dinamiche più saranno in grado di interrogare l’oggetto finale e più quello svelerà se stesso e la sua storia.

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APPENDICE

Raccolgo qui, a puro scopo di esemplificazione e naturalmente senza nes-suna pretesa di completezza, un breve elenco di testi epistolari volgari editi tra il 1471 e il 1535, prima cioè che prendesse piede la pratica della raccol-ta. Il campione non comprende le pubblicazioni prodotte in occasione della spedizione di Tunisi ricordate supra (cfr. nota 4 e rinvio a GÖLLNER, Turcica).

Epistola de don Nicolo di Malherbi veneto al Reverendissimo professore dela

sacra Theologia maestro Laurentio del ordine de sancto Francesco: nella Biblia vulgatizata [sic], Venezia, Vindelino da Spira, 1471

Incomentia la epistola de sancto bernardo abate della cura et muodo de guber-

narsi si medemo e la suoa fameglia, [Venezia, ca. 1472] Incomincia el prologo o veramente epistola del beato Hieronymo sopra de la

Biblia dignamente vulgarizata per el clarissimo religioso don Nicolo de Mallermi venetiano et del monasterio de Sancto Michele de Lemo abbate dignissimo, Vene-zia, Antonio Bolognese, 1477

Epistola del Tibaldeo de ferrara che finge chel habbia facta vna donna e man-

data a lui, [Pisa, ca. 1495] Copia duna epistola laquale manda el venerabile padre frate Hieronymo da

Ferrara dellordine de frati predicatori a Madonna Magdalena contessa della mi-randola, la quale volea intrare in monasterio, [post 1495]

Epistola di frate Hieronymo da Ferrara dellordine de frati predicatori a uno

amico, Firenze, Lorenzo Morgiani e Johann Petri, 1496 Angelo da Vallombrosa, Epistola del romito di Valembrosa ad papa Ale-

xandro VI, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1497 Epistola del reverendo padre Frate Hieronymo da Ferrara acerte persone divote

perseguitate per laverita da lui predicata, [Firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1497] Epistola di Bernardino de fanciulli della citta di Firenze mandata a epsi fan-

ciulli el di di sancto Bernaba apostolo adi 11. di giugno 1497, [post 11 giugno 1497]

Epistola di fra Girolamo da Ferrara contra la excomunicatione subreptitia

nuovamente facta, [post 19 giugno 1497]

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PAOLO PROCACCIOLI

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Epistola di frate Domenico da Pescia mandata a fanciulli fiorentini, Floren-

tie, [Bartolomeo de' Libri] in sancto Marco, die .iii. Septembris, 1497 Epistola di frate Hieronymo da Ferrara dellordine de frati prdicatori [sic] a

tucti li electi di Dio et fedeli christiani, [post 8 maggio 1497] Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi

viaggi, [Firenze, Tubini e Ghirlani, 1504] Copia de la lettera per Columbo mandata a li sere.mi Re et Regina di Spagna:

de le insule et luoghi per lui trovate, Venezia, Simone di Lovere, 1505 Manuel di Portogallo, Copia de una littera del re de Portagallo mandata al

re de Castella del viaggio et successo de India, Roma, Besicken, 1505 Copia de la lettera del catholico re de Spagna mandata alla sanctita de nostro

signore Iulio papa secundo sopra la presa di Bugia cita de Africa, [1510?] Copia d’una lettera nuovamente mandata al serenissimo duce di Vinegia della

secta del Sophy et de suoi gesti, [1514?] Copia de la littera venuta a la signoria di Venetia del conquisto che ha facto

el gran Turcho contro el Soldano di Babilonia, [1514] Lettera di Andrea Corsali allo illustrissimo signore duca Iuliano de Medici.

Venuta dellindia nel mese di octobre nel 1516, Firenze, Giovanni Stefano da Pavia, 1516

Bartolomeo Martinengo, Littera de le maravigliose battaglie apparse nova-

mente in bergamasca, [1517] Littera scritta alla santitade dil nostro Signore Papa Leone X. Nella quale

intederete [sic] tutte le guerre passate del gran Turcho: El gran Soldano. Con il nome et tituli delli Reverendissimi. S. Cardinali: et per qual Pontefice furon creati, [1517?]

Littera mandata della Insula de Cuba de India in laquale se contiene de le

insule citta gente et animali novamente trovate de lanno. 1519 per li spagnoli, [1519?]

La copia duna letra dela incoronatione de lo Imperator romano col nome dei

signori conti duchi vescovi che si trovano alla incoronatione, [1520?]

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LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO

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Translato di latino in vulgare di una littera scripta dallo illustrissimo signore

donno Alphonso da Este duca di Ferrara per sua iustificatione allo imperatore et mutatis mutandis a gli altri principi christiani, [Venezia, 1521]

Resposta alla invectiva qui annexa di don Alphonso gia duca di Ferrara; pu-

blicata contra la sancta et gloriosa memoria di Leone. papa. X. Sotto pretexto de una littera scripta alla cesarea maestà. Translata di latino in vulgare, [1521]

Copia de una littera scripta dallo oratore senese alla magnifica sua Repub-

blica, dove si narra particularmente el facto darme di Pavia: et victoria cesarea con la presa del re di Francia: re di Navara: et altri baroni. Alli 24 di febraro 1525, [1525]

Lettere dela cesarea et catholica maestà, al sanctissimo signor nostro papa Cle-

mente VII. et al sacro collegio de li reverendissimi cardinali, et ad alcuno altro reverendissimo cardinale in specie dela pace et parentado fatto col christianissimo re di Francia con tutti li capituli et conventioni di detta pace, [1526?]

Copia duna letra del sucesso et gran crudeltade fatta drento di Roma che non

fu in Hierusalem o in Troia cosi grande, [1527?] Pistola bellissima di messer Giovanni Boccaccio a messer Pino de Rossi da

messer Tizzone Gaetano di Pofi diligentemente rivista, Venezia, Girolamo Pen-zio, 1528

Copia de una littera mandata allo illustriss. duca di Lorena de li successi pro-

digii, et inundationi dacque in la provincia de Fiandra, [1530] Transonuo [sic] duna lettera che da Portugallo fu mandata al molto illuss. S.

Marchese de Tarifa in laquale li fanno relalione [sic] del multo spaventoso e stranio terremoto et timorori [sic] signali de gran admiratione che foro et se videro in Por-tugpllo [sic] in mare e in terra. Iovidi a 26. de gennaro 1531, [1531?]

Copia d’una lettera scritta in Parigi alli 8. di marzo. 1531. della incoronatione

della christianissima regina, [1531] Littera novamente mandata dal gran turco a la sacra maiesta di Carlo V.

imperador di Roma piena di admirandi secreti illuminati da Dio e dalla gloriosa nostra donna, [1531]

Copia di una lettera portata da gli Antipodi paese novamente ritrovato nella

quale si narra del vivere et costumi di quelle genti cosa nova et bella da leggere,

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PAOLO PROCACCIOLI

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Bologna, Giustiniano da Rubiera, 1532 Copia de una lettera de la partita del turcho particolare de giornata in giornata

insino a Belgrado, [Roma, 1532] Copia de una letera del giongere del N.S.S. papa Clemente VII. in Marsilia et

sua intrata scritta a uno honorato gentilhuomo di Roma. H. Mi. An. Portus, [1533?]

Copia delle lettere del prefetto della India la nuova Spagna detta, alla Cesarea

maesta rescritte, [1533?] Littera del fanciullo nato in Babilonia de mesi 11 il quale subito parlando,

continuamente ha fatto molti diversi et evidenti miracoli, [1533?] Lettera de tutti li successi di Roma per la infirmita del N.S. Li ordini celebrati

per il reverendissimo Collegio delli signori card. et particularmente per lo illust. mons. de Medici: et le provisione del Consilio delli Romani: per la guardia et asse-curatione della citta di Roma. etc. 1534. Papa Clemente settimo, [1534?]

Copia de una letera dele sontuosissime feste et torniamenti et giostre che la

cesarea maesta con gli suoi baroni et cavalieri de Castiglia ha fato in Toleto prin-cipal citta in Hispagna, [1534?]

Girolamo Fantini, Copia di una lettera, che contiene, tutti gli accidenti di

Roma dalla malattia di Clemente VII. insino a hora et tutte le feste, et allegrezze nella elettione et coronatione del novo pontefice Paolo 3, [1534]

Lettera del reverendiss. car. Contarino, mandata per il vescovo di Aquino alle

religiosissime donne suora Italia, et suora Emilia, sorelle del reverendissimo cardinal Maffei, [1535?]

Copia de una lettera scritta in Barcelona alultimo di maggio del anno presente

al signor don Gasparo da Mendozza, gentilhuomo del imperador, tratta dalla lin-gua spagnola nelle nostra volgar lingua, [1535?]

Lettera et avviso della morte dello illustrissimo et eccellentissimo signore Fran-

cesco Sforza, secondo, duca de Milano, et lordine delle esequie, [Roma, 1535] Copia de una littera de Constantinopoli, della vittoria del Sophi, contra il gran

Turcho. Della presa delle genti, et capitani del Turcho. De’l numero dell'artiglieria presa a’l gran Turcho. Del nome delle terre, et paesi acquistati. Della arrivata di Barbarossa in Constantinopoli, con la mogliere, [Roma, Blado, 1535]

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LA LETTERA VOLGARE DEL PRIMO CINQUECENTO

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Copia de una letera mandata dalla cesarea maesta de limperator al christia-

nissimo Re di Francia de le cose grande e nove ritrovate nella provincia de Peru: ditto el mondo nuovo, [Parigi, 1535]

Copia de una littera del gran Turcho che viene alla Italia, s.n.t. Copia della lettera scritta dalla Sereniss. Republica di Genova, in risposta

d’una scrittale dal dose, e republica di Venetia, s.n.t.

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STEFANO GHIROLDI

LETTERE DALLA FRONTIERA (1522-1525): L’ATTIVITÀ

UFFICIALE DI MESSER LUDOVICO ARIOSTO IN GARFAGNANA ATTRAVERSO L’EPISTOLARIO

1. Alcune considerazioni preliminari

Tra gli scritti scaturiti dalla penna dell’Ariosto, le Lettere ricoprono apparentemente un ruolo marginale, complice in primis l’azione della critica che – a partire da Benedetto Croce – sottovalutò la rilevanza di un carteggio in cui tendevano a scarseggiare dati squisitamente letterari e momenti di fine lirismo. Nel 1920 il padre dello storicismo italiano espresse infatti un giudizio alquanto negativo intorno alle epistole ario-stesche definendole «tutte d’affari, secche, sommarie e tirate in fretta», capaci solo in poche occasioni di far emergere «l’intimo dello scriven-te».1 A dire il vero, una posizione altrettanto insofferente verso la cor-rispondenza del poeta reggiano era già stata sostenuta dal Fatini cinque anni prima. Dalle pagine del Giornale Storico della Letteratura Italiana – pur riconoscendo alle missive un intrinseco valore cronachistico – lo studioso toscano aveva sentenziato:

L’epistolario dell’Ariosto non si può dire né bello né degno di essere ravvi-cinato a qualcuno dei numerosi epistolari del Cinquecento […] Già messer Ludovico non ebbe mai l’intenzione, come l’ebbero non pochi suoi con-temporanei, di dare al pubblico, sull’esempio degli antichi […] una raccolta di lettere; egli considerava la lettera non come esercizio d’arte, un genere cioè letterario che, per riuscire piacevole e istruttivo, era necessario seguisse certe norme, si svolgesse sotto la guida di un modello, e possedesse tutte le così dette doti del bello scrivere. Per l’autore del Furioso la lettera era invece un mezzo essenzialmente pratico. […] Quindi nessuna preoccupazione né del pubblico letterario e dei critici, a cui le lettere non erano destinate, né dei modelli artistici o di teorie estetiche, dai quali non si sentiva affatto vincolato. […] In tal modo come opera d’arte mancano di sufficiente pre-parazione e difettano gravemente di lima, di quell’accurato e lungo lavoro di revisione che è cosi sottile e miracoloso nell’Orlando come nelle Satire. 2

1. BENEDETTO CROCE, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1920, p.

16. 2. GIUSEPPE FATINI, Ludovico Ariosto prosatore, «Giornale Storico della Lette-

ratura Italiana», LXV, 1915, pp. 312-313.

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STEFANO GHIROLDI

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Scarsamente godibili sul piano estetico a causa d’una «prosa mo-notona e pesante»,3 le Lettere furono dunque relegate ad un livello subalterno di prestigio, sovrastate in ambito accademico dall’assolu-ta predominanza del Furioso.4 Ciononostante, al di là di giudizi for-mali variamente condivisibili, esse rappresentano – forse più delle Satire, dove le esperienze personali dell’autore risultano profonda-mente condizionate nella loro esposizione da un imprescindibile filtro letterario – le fonti di maggior interesse ed utilità per una pun-tuale ricostruzione della biografia ariostesca.

La raccolta – organizzata nella sua forma ad oggi più autorevole da Angelo Stella nel 19655 – consta di 214 epistole, redatte in una scorrevole koinè cancelleresca dai moderati tratti padani (eccezion fatta per la lettera I, allo stampatore veneziano Aldo Manuzio del 9 gennaio 1498, scritta in latino) tra la fine del XV secolo e il 1532. Le Lettere occupano dunque l’intera esistenza dell’Ariosto, dal suo ingresso alla corte estense fino alla morte, sopravvenuta a Ferrara nel 1533. Diversi per foggia e contenuto, tali documenti racconta-no ben poco sulla genesi dei capolavori poetici di messer Ludovico o sui sodalizi intellettuali intrattenuti dallo stesso negli anni; nondi-meno, allo sguardo dello storico moderno, essi appaiono di un’im-portanza ineguagliabile, giacché sono in grado di fornire una vivida istantanea del Cinquecento italiano, nonché una panoramica in presa diretta di un sistema cortigiano al servizio del quale – non senza noie – Ariosto operò per tutta la vita.

L’epistolario racchiude, anzitutto, l’unica testimonianza attendi-bile giunta sino a noi circa l’operato ufficiale del poeta in Garfagna-na, un periodo, quello del commissariato (1522-1525), sovente de-rubricato dalla manualistica come una spiacevole diversione del percorso artistico ariostesco per accondiscendere agli ordini del-

3. WALTER BINNI, Metodo e Poesia di Ludovico Ariosto e altri studi ariosteschi,

Venezia, La Nuova Italia Editrice, p. 284. 4. È stato Walter Binni infatti a suggerire l’idea d’«un isolamento eccessivo

del Furioso rispetto alle sottovalutate opere minori» nel repertorio ariostesco; si veda WALTER BINNI, Le Lettere e le Satire dell’Ariosto, in Atti dei Convegni Lincei – Ludovico Ariosto, a cura di Enrico Cerulli, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1975, p. 134.

5. L’edizione di riferimento delle Lettere ariostesche è LUDOVICO ARIOSTO, Lettere, a cura di Angelo Stella, Milano, Arnoldo Mondadori, 1965; si citeranno secondo la numerazione assegnata in questa edizione.

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LETTERE DALLA FRONTIERA (1522-1525)

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l’autorità ducale. Poco studiata, la parentesi garfagnina emerge in tutta la sua peculiare complessità attraverso la scrittura meticolosa dell’Ariosto.6 Delle oltre duecento lettere che costituiscono il cor-pus epistolare, infatti, ben 157 risalgono alla stagione commissaria-le, consegnandoci un’immagine inedita dell’autore del Furioso, cer-tamente lontana dalle frettolose semplificazioni proposte dai canali critici più datati.7 Una mole imponente di dispacci, comunicati ur-genti e messaggi diplomatici, ampiamente giustificata dalla gravosi-tà dell’incarico che il nostro si trovò a rivestire a partire dal febbraio 1522.8

La Garfagnana – regione montuosa storicamente corrisponden-te all’Alta Valle del Serchio, stretta fra l’Appennino tosco-emiliano e le Alpi Apuane – rappresentò per il potere estense un’area ad ele-vata criticità.9 Lungamente oggetto di contesa tra Lucca e Firenze,

6. Tra gli studi di maggior rilevanza in merito al commissariato dell’Ariosto

in Garfagnana si segnalano MARIA CRISTINA CABANI, Ariosto in Garfagnana. “Qui vanno gli assassini in sì gran schiera”, Lucca, Pacini Fazzi, 2016; PIETRO

PAOLO ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale estense in Garfagnana, Lucca, Pacini Fazzi, 2016; VITTORIO ANGELINO, Il commissariato di Ludovico Ariosto in Garfagnana – Il Ludovico della tranquillità tra i “poveri humili”, Castel-nuovo di Garfagnana, Garfagnana Editrice, 2011; GIUSEPPE FUSAI, Lodovico Ariosto poeta e commissario in Garfagnana, Arezzo, Zelli, 1933.

7. FRANCESCO DE SANCTIS, Storia della Letteratura Italiana, vol. II, Napoli, Morano, 1873, pp. 15-17; ANTONIO BALDINI, Ariosto e dintorni, Caltanissetta-Roma, Sciascia editore, 1958, p. 93.

8. La vastità dell’epistolario garfagnino risulta ancor più imponente se si con-sidera che una quantità imprecisata di missive è andata perduta in diversi in-cendi, l’ultimo dei quali (verificatosi nell’Ottocento presso l’Archivio Estense di Modena) ebbe luogo prima che Antonio Cappelli organizzasse il corpus epi-stolare. Si veda FATINI, Ludovico Ariosto prosatore, p. 310. Una testimonianza diretta circa l’intensa attività scrittoria dell’Ariosto in Garfagnana è contenuta inoltre nella Satira IV, vv. 149-153: «Convien che […] ogni dì scriva et empia fogli e spacci, / al Duca or per consiglio or per aiuto / sì che i ladron, c’ho d’ogni intorno, scacci». L’edizione di riferimento per la presente e le seguenti citazioni è LUDOVICO ARIOSTO, Satire, a cura di Alfredo D’Orto, Parma, Guanda, 2002.

9. Per un quadro storico complessivo della dominazione estense in Garfa-gnana si segnalano La Garfagnana – dall’avvento degli Estensi alla devoluzione di Ferrara, Atti del convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca Arioste-sca, 11-12 settembre 1999, a cura di Gian Carlo Bertuzzi, Modena, Aedes Mu-ratoriana, 2000 e CARLO DE STEFANI, Storia dei Comuni della Garfagnana, Pisa, Giardini, 1978.

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STEFANO GHIROLDI

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il territorio garfagnino entrò nella sfera d’influenza ferrarese nel 1429, quando i comuni del Sillico e di Bargecchia – confinanti con i possedimenti del Marchese d’Este nel Frignano – si offrirono al medesimo, preferendo sottomettersi ad un padrone lontano e ri-spettoso delle autonomie locali piuttosto che sopportare il giogo opprimente delle vicine repubbliche toscane. Il 17 dicembre, Nicco-lò III accettò la dedizione delle suddette contrade, dando così prin-cipio alla dominazione estense su una cospicua porzione di quella tumultuosa provincia.10 Si definì allora, a cominciare dalla prima metà del XV secolo, una tripartizione giurisdizionale della regione, la quale restò in parte sotto il controllo di Fiorentini (Barga, Som-mocolonia) e Lucchesi (Minucciano, Gallicano, Castiglione); i si-gnori d’Este, dal canto loro, provvidero ad organizzare con criterio le recenti acquisizioni, suddividendole in quattro vicarie: Castel-nuovo (sede del Commissario Generale e capoluogo provinciale), Camporgiano, Trassilico e Terre Nuove. Una ratifica ufficiale del-l’annessione giunse il 18 maggio 1452, allorquando Borso d’Este ottenne dall’imperatore Federico III d’Asburgo l’investitura ducale per Modena e Reggio, vedendosi inoltre riconosciuti, tra le proprie dipendenze comitali, i centri di Rovigo e Comacchio, nonché quel-la frazione di Garfagnana assoggettata dal suo predecessore.11

Tuttavia, i colpi di mano, gli screzi tra le fazioni – esacerbati dal-l’esplodere delle Guerre d’Italia – si susseguirono numerosi negli anni seguenti. Nel 1512 la Garfagnana estense fu occupata da Fran-cesco Maria della Rovere, nipote del pontefice Giulio II. Il duca di Urbino, il quale aveva invaso i domini di Alfonso I (scomunicato per l’alleanza contratta coi Francesi ed inviso alla Santa Sede per il matrimonio con Lucrezia Borgia) con il benestare della Lega di Cambrai, non riuscì però a mantenere le posizioni conquistate; ap-profittando del caos generatosi, le milizie della Repubblica di Lucca marciarono infine su Castelnuovo, riaffermando – a distanza di quasi un secolo – la propria leadership sulle lande garfagnine. L’ele-zione al soglio pontificio del mediceo Leone X (1513) sconvolse per l’ennesima volta gli equilibri geopolitici di quel distretto: nel 1521 il nuovo papa assecondò le pretese dei suoi concittadini sulla Garfa-

10. ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 15. 11. LUCIANO CHIAPPINI, Borso d’Este, duca di Modena, Reggio e Ferrara, in Dizio-

nario Biografico degli Italiani [DBI], XIII, 1971, pp. 134-143.

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LETTERE DALLA FRONTIERA (1522-1525)

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gnana, consentendo l’insediamento nelle piazzeforti della Valle del Serchio di guarnigioni fiorentine. Ma la morte improvvisa del Me-dici (1 dicembre 1521) spinse la popolazione locale ad insorgere contro il presidio di Castelnuovo. A capitanare la rivolta che avreb-be in seguito ricondotto gli Estensi a capo della provincia s’erano fatti avanti i rampolli della famiglia Attolini verso i quali Ludovico Ariosto, in una lettera datata 14 maggio 1523, dimostra di nutrire la massima stima. Scrive infatti rivolgendosi al duca Alfonso, desi-deroso di premiare i giovani per la fedeltà mostratagli in passato:

Io referisco […] che Mastro Zan Piero e Baldassari e Bartolomeo Attolini sono reputati in Castelnovo et in tutta Garfagnana homini da bene quanto altri che ci sieno, e meritano che alli lor libri sia dato fede. (XXCI, § 1)

Il mutato quadro politico esigeva pertanto l’invio in loco d’un uffi-ciale capace di ripristinare la legalità e i contatti con Ferrara. La scelta del principe d’Este ricadde su Ariosto, nominato commissa-rio generale il 7 febbraio 1522.

A motivare la decisione del duca contribuirono, con ampia pro-babilità, due fattori. Anzitutto, Ludovico aveva già avuto modo di conoscere la particolare realtà garfagnina in precedenti momenti della sua attività cortigiana. Nel 1509, ad esempio, egli aveva sog-giornato nella Rocca di Castelnuovo, chiamatovi dal cugino Rinal-do, al quale – in qualità di governatore – era stato commissionato il rafforzamento delle difese del capoluogo provinciale, di Campor-giano e delle Verrucole.12 In seguito vi aveva fatto ritorno – in cerca di riparo – nel 1512, trovandosi braccato dagli armigeri papali in occasione della rocambolesca fuga da Roma che lo vide protagoni-sta insieme al suo signore Alfonso.13 Una descrizione decisamente

12. Si veda MICHELE CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi

documenti, vol. I, Ginevra, Olschki, 1931, p. 504. 13. Conclusasi la battaglia di Ravenna, Alfonso I d’Este si era recato a Roma

presso Giulio II nella speranza di riconciliarsi con lui. Tuttavia, ogni tentativo di distensione diplomatica fallì e il ‘duca artigliere’, onde evitare l’incarcerazio-ne, fu costretto a travestirsi da frate e darsi alla fuga. Dopo un periglioso viaggio attraverso l’Umbria e la Toscana in compagnia dell’Ariosto, egli riuscì a rien-trare a Ferrara nell’ottobre 1512. Secondo recenti ricostruzioni Alfonso avreb-be pernottato nella Rocca di Castelnuovo, prima di intraprendere la traversata dell’Appennino. Si vedano ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 17; ROMOLO QUAZZA, Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, in DBI, II, 1960, pp. 332-337; CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita, vol. I, pp. 538-539.

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STEFANO GHIROLDI

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romanzesca dell’evento giunge prontamente dall’epistolario del po-eta. In una lettera indirizzata a Ludovico Gonzaga, e recante data 1 ottobre 1512, Ariosto riportava:

De’ nostri periculi non posso anchora parlare: animus meminisse horret, luc-tuque refugit […] da parte mia non è quieta anchora la paura, trovandomi anchora in caccia, ormato da levrieri, da’ quali Domine ne scampi. Ho pas-sato la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile masche-rato, l’orecchio all’erta et il cuore in soprassalto. (XIII, § 2-4)

Passaggio obbligato per valicare la catena appenninica e raggiun-gere così la salvezza, la Garfagnana funse da rifugio per i due fuggia-schi in quei drammatici giorni.

Eppure, più che la pregressa conoscenza dei luoghi, a determi-nare il trasferimento di messer Ludovico all’estrema frontiera occi-dentale del Ducato furono le gravi ristrettezze economiche in cui l’autore era precipitato all’indomani del 1521. Nella Satira IV (vv. 184-186), rivolta a Sigismondo Malaguzzi, abbiamo un’esplicita conferma di tale ipotesi. Fresco reduce dal ‘gran rifiuto’ dispensato al cardinale Ippolito dopo quattordici anni di «mala servitù» (Satire I, v. 85) ed improvvisamente vistosi sospendere dal duca il consueto stipendio (Satire, IV, vv. 172-177) a causa delle ingenti spese di guer-ra sostenute da Ferrara per respingere tanto la minaccia veneziana quanto gli eserciti della Lega Santa, Ariosto – spinto da «mere, pro-saiche […] questioni finanziarie»14 e dall’impellente necessità di provvedere al sostentamento della propria famiglia – fu natural-mente indotto ad accettare il mandato di governatore nella remota Garfagnana, da poco emancipatasi dall’occupazione fiorentina («Grafagnini […] essendo fresca / la lor rivoluzion, che spinto fuori / avean Marzocco») e all’impaziente ricerca d’una guida («facean fretta / d’aver lor capi e lor usati onori»).15

Seppur non entusiasta di una mobilitazione così lontana dal-l’amata Alessandra e dalle comodità della natia Emilia, Ludovico, il «vigesimo giorno di febraio» (Satire, IV, v. 1) del 1522, prendeva fisicamente possesso dell’ufficio assegnatogli – dopo un’«improvisa eletta» (Satire, IV, v. 193) – presso la rocca di Castelnuovo «per cu-stodir, come al signor mio piacque, / il gregge grafagnin, che a lui

14. ANGELINO, Il commissariato di Ludovico Ariosto, p. 39. 15. Satire, IV, vv. 187-201; si veda inoltre CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto

ricostruita, vol. I, p. 533.

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LETTERE DALLA FRONTIERA (1522-1525)

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ricorso /ebbe, tosto che a Roma il Leon giacque» (ivi, vv. 7-9). Ma i nobili propositi del poeta dovettero ben presto scontrarsi

con le asperità di una situazione al limite dell’anarchia, da gestire e riportare all’ordine nel bel mezzo di dispute infinite, pestilenze e carestie. Dinnanzi al creatore del Furioso stavano dunque per aprirsi tre lunghi anni di lotte continue e gravosi sacrifici, inevitabili pegni d’un arduo compito di cui le Lettere – come vedremo – costituisco-no l’accurata relazione.

2. La piaga del banditismo garfagnino

La permanenza dell’Ariosto in Garfagnana è strettamente legata alla lotta contro le bande di briganti che infestavano la provincia, attività ch’egli portò avanti con costanza per l’intera estensione del proprio mandato. Il toponimo stesso – se associato alla biografia dell’autore – evoca da sempre, nell’immaginario di studiosi e appas-sionati, scenari selvaggi, sistematicamente trasformati in teatri idea-li per raid banditeschi. A corroborare la pessima fama della fron-tiera estense nella tradizione letteraria italiana concorse la più volte citata Satira IV.16 Intento a confidarsi – pur attraverso un mezzo poetico inconsueto – con il cugino Sigismondo, Ludovico non si trattiene di certo dal dipingere negativamente lo stato complessivo delle terre affidategli. Indaffarato nel dirimere controversie d’ogni sorta («accuse e liti sempre e gridi ascolto, / furti, omicidii, odi, vendette et ire»: Satire, IV, vv. 146-147), egli riferisce di un’enclave in cui «li assassini» imperversano «in sì gran schiera», tanto da im-porre cautela al suo operato e da indurlo ad abbandonare di rado il forte di Castelnuovo («Saggio chi dal Castel poco si scosta!», ivi, v. 160). Abitata da gente fiera e «inculta, / simile al luogo ove ella è nata» (Satire, VII, vv.119-120), la Garfagnana giaceva al tempo del-l’Ariosto in una condizione di piena emergenza. I continui muta-menti politici avevano innescato faide inveterate e concorso a crea-re un clima di tensione. Discordie interne ed atteggiamenti sedizio-si regnavano nelle contrade e negli 83 borghi lambiti dal Serchio, divenuti – già prima dell’insediamento ariostesco – dei veri e propri

16. Tra gli studi più recenti circa il rapporto tra l’esperienza garfagnina del-

l’Ariosto e il testo della Satira IV si segnala PAOLO MARINI, L’inferno in Garfa-gnana. Per una lettura della satira IV di Ludovico Ariosto, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXCV, 2018, pp. 1-22.

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ricettacoli di banditi e furfanti.17 Che le circostanze fossero a tal punto critiche traspare, ovvia-

mente, anche dalle Lettere. A poche settimane dal suo arrivo nel ca-poluogo garfagnino il commissario neoeletto si vedeva appunto co-stretto a scrivere, il 2 marzo 1522, al podestà fiorentino di Barga in occasione del ferimento d’un cittadino barghigiano da parte d’un brigante castelnovese (XXX, § 2). Pur scosso dall’increscioso inci-dente, Ariosto colse l’opportunità per presentarsi ai «circumvicini» come garante dell’ordine e della pace, sostenendo la necessità – fre-quentemente reiterata in futuro – di una collaborazione tra le am-ministrazioni confinanti affinché gli abitanti della regione vivessero nella concordia. Ciononostante, a distanza di soli sei giorni, l’au-tore, in una lettera indirizzata al supremo organo politico lucchese, il Collegio degli Anziani, tornava a denunciare con rammarico l’en-nesimo atto di violenza, perpetrato da alcuni uomini del Sillico ai danni di certi residenti di Castiglione.18

Quanto Ludovico ignorava era che dietro simili atti si celavano – neanche troppo nell’ombra – le strategie di spietati capi-fazione, pronti a destabilizzare le vicarie garfagnine con il loro seguito di masnadieri (tra cui militavano finanche nobili decaduti, notai ed ecclesiastici) al solo scopo di trarne guadagno. Sarà bene ricordare

17. Problemi d’ordine pubblico nella regione erano già stati notificati dal pre-

decessore dell’Ariosto, messer Ludovico Albinelli, il quale – in due lettere da-tate rispettivamente 31 dicembre 1521 e 18 gennaio 1522 – aveva lasciato in-tendere al duca Alfonso di non essere in grado di contenere, con una forza esigua di uomini, le azioni violente dei sudditi garfagnini. Estratti delle missive sono presentati dall’Angelino nel suo già citato studio. Si vedano ANGELINO, Il commissariato di Ludovico Ariosto, p. 47; CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita, vol. I, p. 537.

18. Scrive l’Ariosto l’8 marzo 1522: «Circa quelli dal Silico che alli dì passati ferirno quelli di Castilione, ne farò ugni rigorosa demonstratione di iustitia [...] acciò le Signorie Vostre effectualmente cognoschino quanto mi sia dispiaciuto tale excesso perpetrato» (Lettere, XXXII, § 3). Fermamente deciso a punire i colpevoli, Ludovico tornerà a rinnovare il proprio impegno a favore dei sudditi lucchesi feriti in una lettera agli Anziani del 20 aprile 1522: «Circa quelli dal Silico che ferirno, sì come è stato ditto, quelli dui da Castilione […] non reste-ranno impuniti dello excesso perpetrato; e penso, domane o l’altro, andare fino a Castiglione per parlare con il Vicario di Vostre Signorie, e provedere che di nuovo si assicurano ambi li comuni di Castiglione e Silico, acciò possino prati-care in qualunque loco, e l’uno a casa de l’altro, senza sospecto» (Lettere, XXXVI, § 3).

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infatti come il fenomeno del banditismo in terra di Garfagnana sia da collegare ad un altro problema, quello dello scontro tra gruppi armati per il controllo del territorio. La definizione degli schiera-menti tra le forze in campo durante le Guerre d’Italia produsse per riflesso una divisione delle consorterie banditesche in due partiti: il primo, detto ‘franzese’, guidato da Frediano Ponticelli,19 si diceva allineato alle politiche di Francesco I e pertanto vicino alla corte e-stense; il secondo, noto come ‘parte italiana’, rimaneva invece su posizioni chiaramente papiste e filo-medicee.20

Il brigantaggio, dunque, si sarebbe conformato – parafrasando il Clausewitz21 – come una prosecuzione, con mezzi alternativi, dei conflitti in corso nella Penisola, per quanto ogni azione di rapina e disturbo tradisse il perseguimento di interessi di volta in volta par-ticolari piuttosto che un inquadramento organico in piani tattici eterodiretti. Per ovvie ragioni, la repressione ariostesca si dispiegò principalmente contro il partito italiano, dichiaratosi ostile alla do-minazione ferrarese. All’iniziativa di fuoriusciti della pars Italiae so-no difatti da ricondurre alcuni sconfinamenti in territorio lucchese al fine di suscitare agitazioni in Toscana dei quali Ariosto – pressato da un duca Alfonso alquanto turbato circa i possibili effetti nefasti delle stesse sui propri possedimenti– chiese ragguagli agli Anziani il 15 e il 20 aprile 1522 (XXXIII, § 1; XXXVI, § 2).

Sempre nella primavera del ’22 messer Ludovico poté prendere coscienza delle reti assistenziali di cui questi criminali godevano a livello istituzionale. Rispondendo al proprio signore il 19 aprile, il commissario forniva notizie circostanziate su Tomaso Micotto, di recente eletto podestà di Trassilico. Prematuramente dipinto come

19. Ponticelli, uomo autorevole e ben visto presso la corte estense per i servizi

forniti durante le occupazioni fiorentine e lucchesi, venne assassinato nel set-tembre del 1520 dalla parte italiana, la quale prese rapidamente il sopravvento in Garfagnana. Il partito francese fu successivamente guidato da Francesco Ca-saia e dagli eredi del defunto messer Frediano. Si veda ANGELINI, Ludovico Ario-sto Commissario generale, pp. 140-141.

20. La suddivisione qui presentata è puramente convenzionale, giacché – come si vedrà – i banditi garfagnini tenderanno con una certa frequenza a cam-biare schieramento, alleandosi di volta in volta con il partito a loro più conve-niente.

21. «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi» - KARL

VON CLAUSEWITZ, Della Guerra, a cura di Ambrogio Bollati ed Emilio Cane-vari, Milano, Mondadori, 2012, p. 38.

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un cittadino onesto («Circa alla condicione de l’homo, per quanto a me para e per quanto io me n’ho potuto informare, è assai tenuto homo da bene, secondo gli altri che son qui»), egli vantava tuttavia delle scomode parentele delle quali il poeta fece pronta menzione nella sua relazione:

È vero che egli [Micotto] e Pierino Magnano hanno per lor mogli due so-relle, et al presente habitano amendui ne la casa de la lor suocera, l’uno per sospetto e per essere più sicuro dentro da le mura in casa de la suocera, che nel borgo dove ha la propria casa: e questo è Pierino; e l’altro per essere da Camporeggiano e non havere casa qui. […] Che costui séguite parti, non ne fa dimostratione extrinseca, ma so ben che Bastiano Coiaio, un figliolo del quale è cognato di costui e di Pierino (perché ha l’altra sorella), ha fatto la pratica per far che costui sia potestade; e che Bastiano l’habbia fatto a qualche suo disegno, più presto si può dubitare che non, perché lui non ho a modo alcuno per persona neutrale, anchora che si sforzi di farlo cre-dere a me. Tuttavia Vostra Excellentia può essere certa che, havendo da essere potestade di Trasilico homo di questo commissariato […], è forza che sia notato o per bianco o per nero; e se ben non fusse in effetto (il che serìa difficillimo a trovare), pur serà sempre in sospetto ad una de le parti. Il padre di costui è un ser Giovanni, notaio e procuratore a Camporeggiano, il quale, al tempo che Luchesi hebbono questa provincia, fu mandato da loro ad un suo castello detto Camaiore per notaio. Ch’egli fusse in trattato mi serìa dificile a ritrovare per la verità, perché s’io ne dimanderò la parte ittaliana mi diranno che non fu vero, e che egli è un homo da bene; s’i’ dimanderò la francese, tutti mi diranno che fu vero, e mi aggiungeranno tutto il male che imaginar si potranno. (XXXIV, § 3-8)

Micotto era quindi cognato di Pierino Magnano, spregiudicato capo-fazione del partito italiano di Garfagnana, nonché trasversal-mente imparentato con Bastiano Coiaio, consigliere del precedente e noto favoreggiatore delle bande più violente della zona. L’ipotesi di una collusione della figura podestarile con le alte sfere della cri-minalità indigena pareva ulteriormente suffragata dal coinvolgi-mento con cui Coiaio, «procuratore de tutti li tristi»,22 aveva soste-nuto – forse anche con brogli – l’elezione di Tomaso, lasciando in-tendere l’esistenza di un «qualche […] disegno» retrostante. I so-spetti dell’Ariosto si sarebbero in seguito rivelati fondati, tanto che

22. Con questo appellativo Ludovico Ariosto definì Bastiano Coiaio in una

lettera del 25 aprile 1523 indirizzata ad Alfonso I. Si veda Lettere LXXII, § 7.

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il 25 novembre giunse da Ferrara l’ordine perentorio di estromet-tere Micotto dalla carica prima della sua naturale decadenza.23 Cio-nonostante, egli continuò a mantenere sine iure il controllo sulla vicaria di Trassilico almeno fino al 23 gennaio 1524, data in cui Ludovico comunicava l’implicazione del «potestade»24 in deprecabi-li scorrerie. Nella lettera in questione il governatore estense dimo-strava d’aver drasticamente mutato opinione sulla buonafede di To-maso e di riconoscere nelle sue pressioni per mantenere il potere il desiderio dei capibanda di avere un solido appiglio nelle istituzioni locali.

Ma le connivenze tra il sottobosco banditesco e gli ufficiali du-cali non si limitavano di certo alla sola vicenda del Micotto. Eb-bene, dalla corrispondenza ariostesca apprendiamo del caso del Ca-pitano di Camporgiano il quale – preso in custodia un tale «Baldu-cio da Carreggini, imputato de haver morto un Togno che stava alla Isola Santa» – non lo incarcerò secondo l’uso consono, bensì per-mise ch’egli passeggiasse «libero per la rocca, e senza guardia».25 Una così vistosa deroga al protocollo spinse probabilmente l’Ariosto ad approfondire le indagini sulla torbida condotta del capitano, Raf-faele da Carrara. In un corposo dispaccio inviato al Duca d’Este nel novembre del 1522 (LV, § 5-7) il commissario generale rinnovava le proprie riserve circa l’operato del collega camporgianese non solo in merito all’incidente di Balduccio ma anche riguardo al compor-tamento venale tenuto dallo stesso nell’adempiere alle incombenze giudiziarie. Colpevole di peculato, l’uomo sembrava agire in spaval-da sintonia con i «ribaldi» della sua vicaria, arrivando persino ad as-solvere e rilasciare gli omicidi colti in flagranza di reato. Chi am-mansito da lusinghe pecuniarie, chi intimorito dalle minacce, molti furono i tutori della legge che scesero a patti con le fazioni impe-ranti in Garfagnana.

Il 15 giugno 1523 messer Ludovico riferiva il sorgere di alcuni contrasti con il Capitano di Giustizia Giovan Maria Sorboli, il

23. Lo testimonia la lettera LV, del 25 aprile 1522, dove l’Ariosto si mostra

propenso ad accettare la sostituzione del Micotto con Achille Granduccio nel ruolo di podestà di Trassilico.

24. Micotto è descritto come «in liga» con altri criminali «a rubare et a scorti-care il resto de la Vicaria» (Lettere, CXXXVII, § 1).

25. Lettere, XLVII, § 6. L’epistola, indirizzata al segretario estense Remo Obizo, reca data 5 ottobre 1522.

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quale, adducendo speciosi cavilli burocratici, si dimostrava restio – presumibilmente dopo aver subito pesanti intimidazioni – a perse-guire Moro dal Silico, violento esponente della parte italiana.26 E ancora il 2 agosto 1524 Ariosto denunziava la spiacevole intesa ve-nutasi a creare tra Giacomo di Passino, comandante dei cavalleggeri di Reggio, e due guardaspalle di Bastiano Coiaio, Battistino Ma-gnano e Margutte da Camporeggiano, «banditi et assassini publi-<ci>» asserragliati in quel di Soraggio. Parente della moglie del Coiaio, l’ufficiale estense avrebbe deliberatamente attaccato il covo dei briganti senza il favore della notte, consentendo altresì ai ricer-cati di scorgerlo da lontano e fuggirsene impunemente.27

Talvolta protetti dagli stessi sudditi garfagnini (come si evince da una missiva ad Alfonso I del 17 luglio 1523, in cui è segnalato il concorso dei paesani di Camporgiano nell’ostacolare la cattura di certi «tristi» residenti nel villaggio),28 i briganti potevano parimenti

26. «Ultimamente con comandamento penale ho fatto che gli homini di Ci-

cerana m’hanno exhibita quella lor suplicatione col rescritto di Vostra Excel-lentia, nel quale è commesso al capitano [...] che faccia che da questo Moro e dal fratello Giuglianetto, li quali sempre hanno in lor casa dato ricetto a’ ban-diti, sia del patito danno per lor causa satisfatto il commun di Cicerana […]. Per questo il capitano non si è voluto muovere del suo passo, ma risponde che se quelli di Cicerana voranno ragione, bisognerà ch’essi sieno quelli che si sco-prano e che la domandano. E per questo son venuto in sospetto che a’ preghi e contemplatione di qualchuno esso capitano tenga questa via, acciò che ’l Moro vada exempte, e che quelli di Cicerana restino nel danno» (Lettera XCII al duca Alfonso, § 6-8).

27. «Iacomo di Passino, Capitano de li cavalli liggieri di Reggio […] la sera dinanzi era giunto a Soraggio et havea trovato in la chiesa un figliolo et un nipote di Bastian Coiaio et altri compagni, circa 10, e tutti li havea presi. […] Battistino Magnano e Margutte da Camporeggiano, banditi et assassini pu-bli<ci>, eran con gli altri, ma che [...] se n’erano fuggiti, e che ci havean havuto tempo perché havean veduto venire li balestrieri da lungi, imperhò <che> que-sta compagnia era giunta a Soraggio su le 22 hore: de <la qual> cosa ho havuto dispiacere che questo Iacomo non sia stato tant<o> aveduto, che non habbia saputo giungere di notte, o su l’alba, sì che non s’habbia lasciato vedere prima che sia stato lor ad<osso>. Io non so se l’habbia fatto scioccamente, o pur d’in-dustria, per<ché> di poi m’è stato detto che la moglie di Bastiano Coiaio è p<aren>te di Iacomo di Pasino: sit quomodocumque, io sento grandissimo d<ispia>cere che quelli dui ribaldi sieno campati.» (Lettera CLXIII al duca Al-fonso, § 1-4).

28. «Appresso, certi banditi che sono assassini, e sono dui deserti che non

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fare affidamento su alcuni sostenitori d’eccezione: i sacerdoti. An-che i preti rivestivano un ruolo di primo piano nella violenta società garfagnina. Ariosto giunge addirittura a definirli «li peggiori e li più partiali» della provincia nella Lettera LXXVI al duca Alfonso (aprile-maggio 1523, § 15). Ad oggi non sappiamo quanto dello sfogo ario-stesco costituisca un resoconto oggettivo della situazione o quanto rappresenti invece l’esagerata generalizzazione di un letterato noto-riamente poco tenero verso il clero contemporaneo. È comunque innegabile che dal corpus epistolare del poeta emerga un’immagine degenerata dei religiosi, in parte avvalorata dai numerosi misfatti ad essi attribuiti e subitamente trasmessi a Ferrara.

La lista di iniquità commesse dai ministri garfagnini è inaugura-ta da un tentato omicidio. Il 17 aprile 1523 Ludovico narrava di co-me – in seguito al fallito tentativo di rapimento d’una giovane di Castelnuovo orchestrato dai suoi fratelli – un certo prete Iob, «chie-rico ordinato in sacris», avesse assalito per vendetta la madre della ragazza, rompendole la testa e lasciandola esanime al suolo.29 Sep-pur riconosciuto esecutore materiale dell’aggressione, Iob era riu-scito a scampare al carcere grazie ad «una inhibitoria» prodotta dal vescovo di Lucca.30 Le intromissioni della curia lucchese e dell’omo-

hanno né credito né séquito, stanno tuttavia a Camporeggiano, […] il che in-tendendo io per altra via, vi mandai li balestrieri, e giungendo improviso si trovò che uno di questi tristi, detto il Frate, giocava a carte con uno da Cam-poreggiano col circulo di tutta la terra intorno, e come li balestrieri si scoper-sono lo ascosero, e lo fêro fuggire in un campo di canape: e tutti lo vedevano e sapevano, né fu alcuno che volesse cennare alli balestrieri» (Lettere, CIII, § 5).

29. Si veda Lettere, LXVI. Sia i rapitori che il sacerdote aggressore erano figli di Evangelista dal Sillico, legale e padre di banditi di parte italiana; costui rap-presenterà, insieme a Bastiano Coiaio, una costante fonte di preoccupazione per l’Ariosto durante la sua intera permanenza in Garfagnana, tanto che, nella lettera XLI Ludovico sosterrà: «Esso Bastia<no et Evan>gelista [dal Sillico], che sono partesani e consiglieri di Pierino [Magnano], son quelli che <aiutano> e consigliano questi banditi; e chi li levassi di questa terra insiem<e al loro> capo Pierino, la risanerebbe, come chi ne levassi tutto il morb<o>» (§ 5).

30. La lettera inibitoria del vescovo lucchese lasciò Ariosto completamente impotente. Fortemente risentito, esternava così le sue opinioni in merito: «Questa cosa è di mal exempio, et a me spiace sommamente; e se non fosse che io temo le censure ecclesiastiche per haver beneficio, io non guarderei che co-stui fosse prete, e lo castigherei peggio che un laico; e quando io non potessi fare altro, almen li darei bando: ché se bene li Signori temporali non hanno

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loga lunense nelle faccende processuali di Garfagnana – faceva pre-sente, in calce all’epistola, un Ariosto oltremodo contrariato – ten-devano a verificarsi con molesta assiduità, conducendo sempre ad un verdetto d’assoluzione per gli ecclesiastici incriminati.31 Intocca-bili, sicuri della loro inviolabilità, i sacerdoti iniziarono a mettere a disposizione dei banditi i campanili e «le canoniche de le chiese» (CXL al duca Alfonso, § 12). Gli edifici di culto erano divenuti a tal punto nascondigli di tagliagole e lestofanti che, in una lettera del febbraio 1524, Ariosto ribadiva:

Bisogneria un’altra cosa a mio giudicio: che ’l [...] capitano havesse com-missione da Vostra Excellentia che in tutti <q>uelli luoghi dove trovassi che banditi fussino alloggiati, <che> ci fussino o non ci fossino li banditi alhora dentro, ca<cciasse sù>bito il foco, e maxime in le canoniche […] Io son st<ato più> volte in animo di far bruciar questa canonica <di San Ro-mano>, che non è mai sì povera che non habbia qualche ban<dito>; […] e far <altretanto> al prete da Sillano, a quel da Ogno, da Cicerana, da <Car-reggine e> finalmente a quante chiese sono in questo paese, ché <tutte, parte> perché li preti voglion così, parte perché non ponno fare <altri-mente, servono di> ricetto di banditi. (Ivi, § 12-15)

Per quanto radicale, la proposta di dare alle fiamme refettori e sagrestie avrebbe privato le marmaglie banditesche di eccellenti luo-ghi d’asilo e inviato un forte messaggio a tutti quei prelati che rite-nevano di potersi porre al di sopra della legge. Alla fine, il progetto dell’Ariosto venne accantonato, forse per timore di suscitare l’ira della Santa Sede in un frangente in cui i rapporti tra Roma e il ca-sato d’Este si mostravano sufficientemente tesi.

Di conseguenza, voci di complicità clericali coi briganti garfa-gnini continuarono ad affluire numerose verso la corte di Ferrara tramite i solerti dispacci del commissario generale. Il 5 marzo 1524,

potestà sopra li chierici, pur mi pare che né ancho li chierici debbiano poter star nel dominio de li detti Signori contra lor volontà» (Lettere, LXVI, § 5).

31. Dice l’Ariosto: «Se vogliamo ricorrere alli vescovi havremo poco aiuto: et io ancho n’ho fatto experientia; che questa passata estade mandai in mano del vescovo di Lucca quel prete Matheo che havea ferito il mio cancelliero et era homicida et assassino publico, e con poca aqua lo mandò assolto; e prima ch’io venissi qui, un prete Antonio da Soraggio, c’havea morto un suo cio, fu in mani del vescovo di Luna, e con un misereatur fu liberato.» (Lettera LXVI, post scripta). Dei due casi sovraesposti e del crimine di prete Iob, l’autore tornerà a scrivere più dettagliatamente nella lettera LXXVI al duca Alfonso.

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scrivendo allo «Illustrissimo et Excellentissimo» Alfonso, Ludovico raccontava delle circostanze in cui Donatello da Sommacolonia e i fratelli di Moro dal Sillico, rintanati nella Pieve di Cicerana, erano riusciti a scappare nel corso di una retata grazie ad un sacerdote che aveva mostrato loro un’uscita defilata sul retro dell’edificio («<il> prete per un uscio di drieto li ha fatto fuggire», CXLIII, § 3). Il 20 luglio di quello stesso anno l’ufficiale reggiano annunciava con sol-lievo al duca la morte del «prete da Soraggio de li Bosi», ricordato come «una mala <bestia>» che «teneva in grandissima paura tutto Soraggio, e stupra<va d>onne, e dava ferite e bastonate».32 Al primo agosto risale invece una scarna missiva, spedita agli Anziani di Luc-ca, dove si chiedevano informazioni circa il rinvenimento a Gurfi-gliano, in casa d’un non meglio precisato «prete Michele», di parte d’una refurtiva, evidentemente frutto di razzie perpetrate in territo-rio estense.33 Infine, sempre al governo lucchese, Ariosto scriveva il 29 maggio 1525 per perorare la causa di un religioso, Giuliano da Mulassana, pesantemente minacciato da un altro ecclesiastico, Mar-tino da Vergemoli (Lettere, CXXCV, § 1).

Tutte le falle fin qui riscontrate nella macchina amministrativa ducale in Garfagnana determinarono – nonostante gli sforzi com-piuti da messer Ludovico lungo l’intero arco della sua permanenza a Castelnuovo – una latitanza della giustizia, il dilagare dell’omertà e l’incremento costante di gesti violenti, per lo più destinati a rima-nere impuniti. Eppure, all’Ariosto non erano ignoti gli autori e i re-gisti di simili nefandezze. Il 13 settembre 1522 egli intercettava una lettera di Bastiano Coiaio spedita a Moro del Sillico, uno dei figli di quel Pellegrino la cui losca progenie era divenuta tristemente ce-lebre nell’area per l’assassinio di ser Frediano Ponticelli.34 Il messag-gio riportato dal commissario al suo signore Alfonso I, oltre a ri-confermare – qualora ve ne fosse ancora bisogno – la sussistenza tra i notabili garfagnini di una rete di soccorso legale a sostegno dei sottoposti a bando, sancì l’inizio della campagna di repressione

32. Lettere, CLVI, § 19. Del prete da Soraggio Ariosto aveva già fatto menzione

al duca Alfonso nella lettera LXXVI. 33. Si tratta di parte dei beni sottratti alla nobile famiglia dei San Donnino,

uccisi in un agguato dai banditi garfagnini e di cui parleremo ampiamente in seguito; si veda Lettere, CLXII, § 1.

34. Riferendosi ai banditi del Sillico, Ariosto puntualizza come essi siano senza dubbio «quelli che amazaro ser Ferdiano» (Lettere, XLI, § 3).

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ariostesca contro le ingerenze dei briganti sillichini. In un comuni-cato a Ferrara del 15 aprile 1523 la banda del Sillico riemergeva dalle pagine del carteggio, accostata ad altri gruppi – ponteccini e ‘lombardi’ – dotati di un discreto curriculum criminale. Esplicava nel dettaglio il poeta:

Alla mia giunta qui trovai che questi banditi del Costa da Ponteccio con li figliuoli di Pelegrin dal Silico et alcuni lombardi de la factione di Virgilio da Castagneto erano in numero di circa sessanta in Grafagnana; li quali, […] di poi erano stati a Salacagnana, et havevano preso un homo da bene detto Capello, e l’havevano menato via legato e poi amazzato. (LXIV, § 1)

L’efferata esecuzione di Capello da Sillicagnana costituiva sol-tanto la più recente dimostrazione di forza attribuibile alle opera-zioni di un nutrito stuolo di facinorosi vicini alla «parte taliana». Nel tentativo di estirpare la presenza banditesca nella Valle del Ser-chio, Ariosto aveva cercato di organizzare una spedizione punitiva, ottenendo in contraccambio dai sudditi di Trassilico, Sillano e Camporgiano defezioni e tradimenti. Il racconto del fallito blitz consegnatoci dal governatore estense (lett. LXIV, § 11) si chiudeva con un’amara considerazione, coscienziosamente sottoposta all’at-tenzione dell’Artigliere:

Se non ci si fa qualche buona provisione, questa provincia anderà di male in peggio, et a Vostra Excellentia non resterà altro che ’l titolo di esserne signore, ché la signoria in effetto sarà di questi assassini e dei capi e fautori c’hanno in questa provincia e specialmente in Castelnovo.

Senza l’attuazione di provvedimenti d’urgenza volti a colpire i malfattori e i loro facilitatori storici (Coiaio, Magnano e Mazzei), la Garfagnana sarebbe presto sfuggita al controllo effettivo dell’auto-rità ducale, concedendosi in toto alle scorribande e ai regolamenti di conti che animavano la politica sotterranea della frontiera. Dieci giorni dopo, Ludovico, notificando alla corte l’uccisione a Cicerana – noto feudo dei sillichini – di «un prete pisano» con la correspon-sabilità di «Giugliano figliolo di Pelegrin dal Silico», segnava un pe-sante punto a favore della giustizia rivelando al signore d’Este d’aver preso in custodia l’inafferrabile Moro, in probabile combutta col fratello omicida (LXXII, § 1). In merito all’accaduto e all’indole del novello prigioniero, Ariosto si esprimeva dicendo:

Questo Moro mi è venuto a parlare, e l’ho preso e l’ho in prigione, non

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solo per questo [...] che li danari de l’assassinamento son stati partiti in casa sua (e credo ch’esso n’habbia havuto una buona portione), ma anchora perché è sempre il capo o gran parte de tutti li assassinamenti che si fanno in questa provincia: hora egli era a San Pelegrino con quelli da Barga e da Sommacologna, hor ne la Vicaria di sopra con quelli del Costa, hor con quelli de la Temporia, per modo che mi pareva che fosse il signore de la campagna di Grafagnana. (ivi, § 4)

Temendo una delibera sbrigativa del proprio signore a vantag-gio del detenuto, l’autore dapprima invitava Alfonso alla cautela, mettendolo in guardia dalle false dichiarazioni che avrebbero potu-to pervenirgli copiose dai sodali del Moro;35 poi, in una missiva ri-salente al 28 maggio 1523, sciorinava i gravi capi d’imputazione contestati al bandito recluso:

Io mi truovo havere questo Moro di Pelegrino dal Silico in prigione, contra il quale […] il capitano ha processo e procede: prima per haver sempre dato ricapito a’ suoi fratelli banditi et ad alcun altri pur banditi et assassini come a quelli che insieme con un suo fratello detto Iulianetto assassinaro quel prete pisano e gli tolsero cento ducati. […] Appresso gli procede contra per essere caduto per le mie gride in disgratia [...] et in confiscatione de tutti li suoi beni, per essere ito con genti e bandita et altra sorte in Lombardia in aiuto de una di quelle parti; appresso gli procede per essersi trovato al Pog-gio […] in compagnia di alcuni che amazaro uno subdito di quella.36

In breve tempo, però, il timore dell’Ariosto circa la formula-zione d’un giudizio favorevole a Moro del Sillico si tramutò in una comprensibile paura per la propria incolumità. Nella Lettera XXCIV, mentre esponeva al principe ferrarese le modalità con cui i sottoposti di «mastro Zan Iacomo Cantello» – brigante locale rite-nuto vicino al leggendario Domenico Amorotto, spina nel fianco di Francesco Guicciardini durante la reggenza di Reggio –37 avevano

35. «Prego Vostra Excellentia che, ad instantia di alcuno che venisse a quella

per volerglilo dipingere per uno homo contrario a quello che egli è, non si muova a commettere che non si exequisca quanto vol di lui giustitia» (ivi, § 5).

36. Lettere, XXCIII, § 1-2. Ludovico illustrerà nuovamente e con maggiori det-tagli i reati imputati a Moro del Sillico il 15 giugno 1523, nella lettera XCII al duca di Ferrara.

37. Si vedano: FRANCESCO GUICCIARDINI, Lettere, a cura di Pierre Jodogne, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1986, vol. III; CARLO BAJA GUARIENTI, Il bandito e il governatore: Domenico d’Amorotto e Francesco Guicciardini nell’età delle Guerre d’Italia, Roma, Viella, 2014.

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derubato e preso in ostaggio Francesco Guidone, «parente del Ca-pitano Mesino dal Forno», insieme ad altri bravi cittadini modenesi in transito per la Garfagnana, Ludovico si rivelava assai inquieto asserendo:

Né al bosco, né dentro alle terre, né sarrato in le case nessuno in questo paese è sicuro da li homicidi et assassini. Io fo fare ogni notte la guardia a questa casa, o ròcca che sia, dove habito, e ci fo dormire, oltra li miei fami-gli, sempre dui balestrieri, perché ogni dì son minacciato che mi verranno a tôrre questo prigione ch’io ci ho per forza. (XXCIV, § 5-7)

Non più al sicuro neppure in quella rocca che in un già illu-strato motivo delle Satire veniva eletta ad unica zona esente dalla fe-rocia del mondo circostante, Ariosto ebbe prova della completa vul-nerabilità della sua posizione il 29 agosto 1523. Facendo rapporto al duca, egli segnalava l’evasione del Moro dalle carceri di Castel-nuovo con l’apporto proditorio della consorteria facente riferimen-to a Bastiano Coiaio, passata tempestivamente dalle semplici mi-nacce all’azione diretta. Scriveva infatti il commissario in relazione all’avvenimento:

Meglio informato come il Moro è fuggito, ho trovato un coltello in pri-gione, il quale per quattro testimonij è provato essere di quel figliuolo di Bastiano Coiaio il quale tutto hieri, come per l’altra mia ho scritto, stette seco in parlamento. Con questo coltello il Moro ha cavato dentro via una fessura in l’uscio, con la quale è ito a trovare la chiavatura che di fuora era col cadenazzo, e con questo coltello ha respinto il chiavistello, e così si ha aperto. […] [Bastiano Coiaio] mi è stato a ritrovare, e con la sua solita inso-lentia ha detto parole assai altiere, come è suo costume, e mi ha voluto mostrare ch’io non scrivo cosa a Vostra Excellentia ch’egli non ne sia avi-sato: insomma non può patire ch’io habbia scritto male di questi fratelli del Silico, e le sue parole più tendono per far che per paura io desista di avisar di volta in volta le cose come occorreno a Vostra Excellentia, che per buoni portamenti mi voglia far suo amico. Poi mi disse che venendo di certo suo luogo, scontrò il Moro che fuggiva, il quale gli haveva narrato di punto in punto come era uscito di prigione: Vostra Excellentia può per questo solo coniecturare se esso era conscio di questo ordine, ché non mi par così verisimile che a ventura l’havessi trovato, quanto che lo stessi ad aspettare alla posta. (CVIII, § 1-6)

Tuttavia, né la fuga indisturbata di un famoso capobanda, né l’inquietante scoperta d’essere costantemente monitorato negli scambi epistolari confidenziali potevano competere in gravità con

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un terribile fatto che insanguinò il territorio garfagnino in quegli stessi anni. Nell’estate del ’23 un giovane gentiluomo, Carlo di San Donnino, venne ucciso nel suo castello assieme alla madre, la con-tessa Maria Giulia, e i suoi beni trafugati.38 Le disgrazie del casato, ad onor del vero, erano incominciate nel 1521 in seguito all’omici-dio del conte Giovanni, brutalmente liquidato da un sicario. La spietatezza con cui gli assassini avevano condotto all’estinzione di-nastica una stirpe comitale benvoluta a Ferrara spinse il governato-re generale a spendersi senza remore per la risoluzione del caso. Alla tragedia dei San Donnino Ariosto riservò tre lettere (CIX, CXIV, CXV) del suo epistolario, superstiti isolate di un plico di documenti che è lecito supporre includesse molte più missive.39 Dai dispacci sopravvissuti si comprende come messer Ludovico avesse identifi-cato come mandante del primo delitto ed esecutore materiale del secondo un controverso aristocratico, Giovanni di Piero Maddale-na. Rivendicando le proprie scoperte, il 24 settembre scriveva agli Otto di Pratica, deputati del supremo consiglio fiorentino:

Non sono anchora dui anni ch’un ribaldo detto Giovanni di Pier Mada-lena, d’una terra di questa ducale provincia detta San Donino, fece amazza-re il conte Giovanni, suo Signore e di quel luogo, il quale era da lui ricono-sciuto in feudo da l’Illustrissimo Duca mio. Ma la cosa non si è scoperta fin al presente, ch’esso di nuovo, accompagnato da alcuni ribaldi, ha morto un giovenetto e la madre insieme, figliuolo e moglie del detto Conte Gio-vanni, e totalmente ha extinto quella progenie; et appresso ha saccheggiato la casa, e statovi dentro molti giorni, et exhibitosi come herede. (CXV, § 1)

Avvalsosi dei servigi di un certo Genese allo scopo di eliminare il vecchio conte di San Donnino, il Maddalena – spalleggiato dai banditi ponteccini – aveva preso d’assalto gli appartamenti del no-bile Carlo e, una volta eliminato il rivale, vi si era stabilito in guisa

38. Circa la sorte dei beni trafugati ai San Donnino si veda la nota 33. 39. Possiamo affermare ciò alla luce dell’incipit della prima lettera dell’Ariosto

inerente il caso San Donnino giunta sino a noi; vi si legge infatti: «Appresso quello che de la morte del Conte giovine di San Donino e de la madre ho scritto [...] ». Rivolgendosi al duca il 29 agosto 1523, Ludovico fa esplicitamente riferimento ad un precedente rapporto sull’accaduto, il quale tuttavia non è pervenuto. Si veda Lettere, CIX, § 1. Assai frequenti sono poi, lungo tutta la produzione epistolare garfagnina post 1523, i rimandi alla strage dell’orfano e della vedova San Donnino, a riprova dell’impatto che essa ebbe sulla persona di Ariosto.

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di legittimo successore. Ma il regno di Giovanni ebbe durata effi-mera: il duca Alfonso ruppe infatti ogni indugio, inviando sul posto truppe fresche e motivate. Gli usurpatori si videro così forzati a ri-parare a Fivizzano, sotto la giurisdizione della Repubblica di Firen-ze, località dalla quale Ariosto non sarebbe mai più riuscito a sta-narli.40 Solo Genese non sfuggì al capestro: catturato alle Verrucole e gettato «nel fondo de la torre con li ferr<i> a’ piedi» – come certi-fica la Lettera CXL (8 febbraio 1524) – fu condannato a morte e impiccato.41

La riuscita esfiltrazione del Maddalena nelle terre del Marzocco ci consente, a questo punto, di mettere a fuoco lo spinoso gratta-capo dell’intangibilità dei confini nel settore garfagnino, una que-stione di primaria importanza, specie per chi – come l’Ariosto – deteneva l’onere di assicurare un’uniforme applicazione delle leggi nelle vicarie concessegli in delega. La conformazione impervia della regione – a cui si debbono senz’altro aggiungere l’assenza d’un effi-cace sistema di sorveglianza e il proliferare di alleanze inter-bandi-tesche di respiro sovradistrettuale – rendeva pressoché impossibile l’interruzione del flusso di briganti, contrabbandieri e mercenari che – bidirezionalmente – investiva la Garfagnana e le contigue cir-coscrizioni fiorentino-lucchesi. I municipi amministrati dalle re-pubbliche toscane infatti non fungevano unicamente da estremi ri-fugi dove i ricercati estensi potevano trovare ricetto dalle gride e-messe contro di loro;42 all’occorrenza, essi divenivano i centri logi-stici avanzati dai quali far partire incursioni in territorio ferrarese. Ne abbiamo la certezza grazie ad un pugno di lettere di Ariosto, riconducibili alla metà del 1523.

Nella giornata del 18 maggio Ludovico si rivolgeva al capitano di Barga, Bencio de’ Benci, esprimendosi in questi termini:

40. Lo sconfinamento del Maddalena in terra fiorentina spiega la ragione per

cui l’epistola da cui è tratta la presente citazione sia indirizzata all’ufficio degli affari esteri della Repubblica gigliata, gli Otto di Pratica. Nella missiva Ariosto invocava una collaborazione di Firenze nella consegna dei banditi, richiesta che non sarà mai accolta. Si veda ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 195.

41. Si vedano la lettera CXL al duca Alfonso, § 1 e ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 195.

42. Se ne conservano ben 4 (27 febbraio 1522; 3 marzo 1524; 10 marzo 1524; 14 maggio 1524), riportate in appendice nell’Edizione Stella delle Lettere, pp. 389-393.

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Bertholino Zanotto da Corfino, terra di questa ducale provintia, è venuto a me a dolersi che a questi giorni alla Barcha sul territorio di Signori Luche-si è stato assassinato da Paulaccio da Barga e da Donatello da Summacolo-gna et altri compagni, tutti da Barga e da Summacologna; et oltra che gli deron molte ferite gli levarono una cavalla et un par de buoi et uno ga-banno di valuta circa dui ducati, e trenta bolognini in denari. (XXCII, § 1)

Allarmato dalla deposizione di un suddito di Corfino, Ariosto richiamava l’interlocutore fiorentino alle sue responsabilità, presen-tandogli il conto d’una rapina che vedeva implicati diversi villici barghigiani e sommocoloni. Eppure, non era la crudeltà dell’atto in sé a sconcertare un ufficiale comprensibilmente indurito dal-l’esperienza maturata sul campo, quanto piuttosto la constatazione della rapacità con cui le bande agivano in spregio di qualsiasi di-ritto, giocando sui cambi di pertinenza tra una provincia e l’altra per scampare alla cattura. Il reggiano, pertanto, concludeva aggiun-gendo:

Mi dolgo più che questi medesimi con questi et altri compagni subditi di Vostra Magnificentia vengono quasi ogni giorno nel territorio nostro, e fanoci assassinamenti e cose di pessima sorte. (ivi, § 2)

Le rimostranze mosse al de’ Benci caddero inascoltate. Il 29 maggio l’autore si presentava al nuovo podestà di Barga, Lorenzo Pandolfini, ricordando il fattaccio occorso a Bertolino Zanotto e l’indifferenza con cui il medesimo era stato accolto dall’autorità co-munale.43 Il ripristino dei contatti con l’amministrazione attigua s’era reso necessario in seguito all’ennesima prepotenza commessa dai briganti barghigiani ai danni di «un famiglio […] de’ frati di San Francesco», cittadino estense.

Dopo aver prodotto un’accurata descrizione degli assalitori e delle precise dinamiche dell’agguato, il commissario si premurava di aggiornare il destinatario neoinsediato sulla reale portata della minaccia banditesca:

E perché Vostra Magnificentia, anchora che sia nuova in l’officio, può ha-vere inteso li assassinamenti che ogni dì si fanno qui d’intorno, né io sono

43. «Sì come ancho pochi dì sono ch’io scrissi al precessore di Vostra Magni-

ficentia d’uno assassinamento che [...] havean fatto [...] alcuni pur da Barga e da Sommacologna, [...] e mai di quella mia lettera non ho havuto risposta, con tutto ch’io gli avisassi il nome di molti di quelli che s’erano trovati a far tale assassinamento» (Lettere, XXCVII, § 2-3).

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atto a provederli, perché fatto c’hanno il male si riducono hor sul territorio di Signori fiorentini, hora di luchesi; et appresso questi malfattori vanno le più volte in più compagnia che non sono li balestrieri ch’io tengo qui per mia guardia; e, per quanto intendo, la maggior parti di questi sono da Somacologna e da Barga, che vengono e fanno il male, e poi fuggono a casa; […] Hora, se a tanti mali non si piglia riparo, dubito che non solo li viandanti et homini del paese che vanno a lavorar fuore non saranno si-curi, ma né noi officiali anchora saremo sicuri ne le terre e ne le ròcche. (ivi, § 2-4)

Di fronte a questi frontalieri del crimine, abili nel colpire oltre-confine per poi riparare presso i borghi natii, Ariosto si scopriva impotente, mentre i pericoli incombenti su viaggiatori, mercanti e pubblici funzionari non accennavano a dileguarsi. Anzi, il 23 luglio 1523 il poeta del Furioso – avendo bypassato la consueta mediazione delle autorità bargee, inviando direttamente una nota agli Otto di Pratica – lamentava «li latrocinij et assassinamenti et altre violentie che alcuni tristi da Barga e Sommacologna» avevano compiuto nella «ducale provincia di Grafagnana […] sempre in buona quantità ar-mata manu, hor in compagnia de li nostri banditi, hora da per sé […] hora assassinando, hora mettendo taglie» (CV, § 1). Proseguiva poi sentenziando:

Io non sento mai altro se non che hor uno, hor un altro è stato assassinato, e sempre vi si truovano genti hor da Barga, hor da Sommacologna in com-pagnia. (ivi, § 2-5)

Sul versante lucchese lo scenario non era molto differente. A conferma di ciò, il 5 luglio partiva da Castelnuovo, diretta al Colle-gio degli Anziani, una lettera di questo tenore:

Io credo di udire ancho questa sera qualche altro delicto, e domane un altro, e l’altro dì uno altro, et ugni giorno, non vi si facendo altra provi-sione. (XCV, § 6)

L’apertura di ulteriori fronti – oltre a quello interno – nella cam-pagna voluta da Ferrara per debellare il brigantaggio in Garfagnana rese prioritaria la stipula di accordi tra gli Stati interessati. Di una simile iniziativa Ludovico Ariosto si fece promotore sin dal 12 set-tembre del 1522 (XL, agli Anziani di Lucca). Conscio di trovarsi in una posizione scomoda, circondato com’era dalla sfuggente delin-quenza locale, il commissario estense intavolò delle trattative col governo di Lucca per «castigare li malfactori» e perseguitare quegli

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«homini di pessima vita» i cui misfatti affollavano le cronache. Il piano ariostesco, patrocinato dal duca, venne notificato alla corte il giorno seguente (13-09-1522):

Appresso ho scritto al commissario fiorentino da Fivizano et alli Signori Luchesi acciò che tutti insieme mettiamo in ordine una bella caccia, sì che da ogni banda si dia adosso a questi ladri, li quali tuttavia non cessano di far ogni dì assassinamenti e por taglie a chi lor pare.44

Il progetto di una convenzione di mutuo soccorso tra potentati vicini fu accolto favorevolmente da Alfonso I, come si evince da una lettera inviata al segretario ducale Remo Obizo (o Opizo) il 2 ottobre 1522 dove il governatore garfagnino esordiva affermando:

Mi piace che ’l Signore sia contento ch’io pigli accordo con Signori luchesi e fiorentini, che li lor banditi non sieno sicuri sul nostro, né li nostri sul loro: io tratterò la cosa maturamente, sì che vada di pare, e non habbino vantaggio da noi. (XLVI, § 3-4)

Forte del benestare dell’establishment ferrarese, Ludovico prose-guì nel tessere relazioni diplomatiche con le istituzioni finitime, ot-tenendo, tuttavia, risultati modesti. Dopo ripetuti solleciti ad ade-rire all’intesa anti-banditesca (Lettere, LIII e LXII) e una serie di ap-pelli disattesi ad intervenire contro i briganti del Sillico (Lettere, L e XXCIX), Lucca cedette alle richieste estensi nella tarda primavera del 1523. In aprile, gli Anziani sondarono il terreno a Castelnuovo, chiedendo garanzie circa la reale fondatezza dell’autorità commissa-riale e mostrandosi propensi a stringere un patto formale.45 Sul fini-re del mese l’Ariosto si preparava pertanto ad accogliere con tutti gli onori l’emissario lucchese Santuccio Santucci, accreditato dalla Repubblica per siglare un trattato (LXXI). Ottenuta dal duca l’auto-rizzazione a procedere il 27 aprile, il concordato venne firmato l’8 maggio 1523; una copia del documento ratificato fu poi inoltrata a Lucca il 5 giugno. Gli effetti positivi della delibera – per quanto

44. Lettere, XLI, § 1. Non esistono testimoni epistolari della corrispondenza

dell’Ariosto con il commissario fiorentino di Fivizzano per il mese di settembre del 1522.

45. Lo attesta la lettera LXIX del 19 aprile 1523 indirizzata agli Anziani, in cui Ariosto certifica di godere del nulla osta ducale nella contrazione di un’alleanza, la quale – qualora fosse stata siglata – avrebbe beneficiato della ratifica di Al-fonso I.

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limitati – non tardarono a palesarsi: il 19 settembre 1524 – ad esem-pio – in occasione di una retata per «reprimere la temerità di alcuni homicidiali», il poeta reggiano salutava con «grandissima allegrezza» l’intervento di milizie lucchesi, al fianco delle quali egli si sarebbe erto «per operare che la violentia» non potesse «più della iustitia» (CLXIX, p. 321, § 1-2).

Sulle rive dell’Arno, al contrario, ogni proposta di collaborazio-ne avanzata dai rappresentanti ferraresi fu sprezzantemente decli-nata. Ariosto, ancora nel ’22, aveva tentato vanamente di percorre-re la via della diplomazia appellandosi alla persona di Niccolò Guic-ciardini, commissario di Fivizzano, affinché si rinnovasse «una con-ventione» interstatale che non desse quartiere ai colpevoli di «rebel-lione, assassinamento et homicidio volontario» (LI, § 1). Nel giugno del ’23 un gesto sconsiderato del Capitano di Pietrasanta, Niccolò Rucellai, contribuì da ultimo al naufragio di qualsiasi speranza d’ac-comodamento. Secondo la versione fornitaci da una lettera spedita a Ferrara il 13 luglio, il funzionario fiorentino – precedentemente distintosi per scaltrezza e disonestà nel trattare alcuni episodi di furto di bestiame – tese un tranello a messer Ludovico, portandosi – «contra l’ordine dato» – ad un incontro pacifico con «forse du-cento persone armate e […] appresso cento schoppitieri», dimo-strando in tal modo d’essere accorso nel luogo convenuto «più per combattere et ottenere per forza, che per vedere di equità».46 L’in-sorgere provvidenziale di un forte temporale («Fosse naturale acci-dente, o fosse volontà di Dio, a quell’hora si levò il più horribil tem-po che fosse già dieci anni in questo paese»; Lett., XCIX, § 10) im-pedì che l’imboscata si risolvesse tragicamente per l’Ariosto, diret-tosi all’appuntamento – in osservanza ai patti – con una scorta di soli dodici armigeri.

La consapevolezza d’essere fortuitamente scampato alla cattura, o peggio, ad una morte ignominiosa, non inibì il commissario gar-fagnino dallo spendersi ex novo – il 20 giugno 1523 – in favore di una coalizione che accogliesse il duca d’Este, il papa, gli Anziani di Lucca e, ovviamente, «li Signori Fiorentini» (XCIV, § 3 agli Anziani di Lucca). L’ipotesi di una cooperazione tra Stati atta a «provedere a’ tanti mali» che quotidianamente si andavano moltiplicando in

46. Lettere, XCIX, § 8-12. L’episodio è altresì evocato alla lettera XCI del 9

giugno 1523, rivolta allo stesso Rucellai (pp. 171-173).

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Garfagnana per opera di «assassini et homini di mala conditione» fattisi sovrani di quelle montagne, era in ogni caso votata al falli-mento proprio a causa del calcolato disinteresse della Repubblica fiorentina. In pessimi rapporti con Ferrara fin dal 1521, Firenze scorgeva infatti nel brigantaggio un inconsueto strumento di distur-bo attraverso cui minare segretamente la tenuta della dominazione estense nell’area. Più che una piaga da contrastare, il banditismo fu dunque inteso dai magistrati fiorentini come un movimento sovver-sivo da alimentare e al quale appoggiarsi per mettere le mani – col beneplacito della Santa Sede – sull’intera Valle del Serchio.

Il tacito assenso del Marzocco alle gesta della malavita garfagni-na non passò inosservato a Castelnuovo. Il 17 gennaio 1525 Ario-sto consegnò tutto il proprio risentimento ad un’epistola recrimina-toria rivolta agli Otto di Pratica (CLXXVI). Nella missiva il reggia-no, esasperato, sottolineava il cinismo con cui la controparte fioren-tina era venuta meno alla prassi che impegnava i due governi ad un reciproco scambio di latitanti («Quanto più mi pare di fare il mio debito, tanto mi dà più da dolere il non mi vedere rendere il cam-bio»).47 Avendo appreso della concessione d’un salvacondotto a Ber-nardello da Ponteccio, «bandito […] per tanti homicidij, furti, assas-sinamenti e violentie d’ogni sorte, che a volerle explicare non baste-ria né questo né dieci altri fogli appresso», per iniziativa del commis-sario di Fivizzano, Ludovico chiudeva asserendo stizzito:

Se anco per qualche causa (ch’io non so) a Vostre Signorie piace che [i banditi] habbino ricapito e favore sul suo, io non sono per oppormi alla voluntà loro, e mi basterà che non sia mancato per me di non haverne dato adviso: e se bene non serò ricambiato circa questo officio e debito, non resterà per questo ch’io non observi quanto dal mio Signore Illustrissimo mi è stato imposto, di havere li banditi e ribelli di Vostre Signorie come capitali nimici di sua excellentia. (CLXXVI, § 7)

In un clima viziato da simili sotterfugi e rivalità, le accorate pro-poste ariostesche per una condivisione degli sforzi contro la crimi-nalità dilagante non potevano certamente attecchire; d’altra parte,

47. La mancata consegna lamentata dall’Ariosto è quella di Giovanni (Gian)

Maddalena e dei suoi complici nell’omicidio San Donnino, riparati a Fivizzano e mai estradati nella Garfagnana estense. Fondamentale risulta, anche in que-sta occasione, la connivenza del supremo magistrato fiorentino presente in zona.

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la loro mancata attuazione permise alle sacche malavitose di soprav-vivere e continuare indefesse a tenere in scacco – con sommo di-spiacere dell’Ariosto – le risicate forze ducali. Al suo arrivo, il nuovo governatore estense si ritrovò a dover gestire una provincia vasta e turbolenta col sostegno di uno scarno manipolo di balestrieri, una dozzina di uomini soltanto (spesso ridotti di numero in seguito a ferimenti o malattie),48 a cui era stata affidata l’insostenibile missio-ne di soffocare con rapidità ed efficienza qualsiasi focolaio d’illega-lità fosse divampato in Garfagnana. Ora, perfino ai meno versati nelle scienze militari risulterà chiaro come le principali ragioni della scarsa efficacia degli accorgimenti anti-brigantaggio messi in campo dall’Ariosto siano in larga parte ascrivibili alle deficienze nu-meriche e all’inadeguatezza strutturale delle milizie acquartierate a Castelnuovo. Sottorganico e non sempre estranei a collusioni con le fazioni indigene, i dodici fanti ai comandi del commissario duca-le non potevano di certo costituire una reale minaccia allo strapo-tere dei banditi, i quali continuarono, spavaldi, ad agire indistur-bati.49

Stando all’epistolario le carenze esistenti fra le truppe provincia-li in termini di effettivi assillarono messer Ludovico per tutto il cor-so del suo difficile mandato. Sprovvisto di contingenti quantitativa-mente sufficienti da dispiegare laddove la pressione banditesca si dimostrava maggiore, Ariosto sperimentò quanto fosse inerme di fronte alla pur minima emergenza, incapace – com’egli stesso con-fidò il 14 ottobre 1522 agli Anziani di Lucca – di muoversi profi-cuamente fuori dal microcosmo della rocca («Per non havere io più

48. Le operazioni di polizia comportavano non pochi rischi per i balestrieri

dell’Ariosto, come attesta la lettera LXXVII del 3 maggio 1523 al Duca Alfonso. In chiusura di dispaccio, il nostro ricorda al suo Signore la delicata situazione di un fante e di un capitano, entrambi feriti in azione: «Altro non accade di nuovo, se non raccomandare a Vostra Excellentia il balestriero c’ha perduto il cavallo e fu ferito, et il capitano che non è anchora ben guarito de la ferita c’hebbe a Camporeggiano» (§ 7).

49. In merito alla collusione dei balestrieri con la malavita locale si consideri quanto Ariosto notificò al duca Alfonso in data 20 luglio 1524: «ma io non son sufficiente, parte per<ché> non ho se non dieci balestrieri, et ancho perché di essi <no>n mi fido, ché per il lungo tempo che sono stati in questo paese <n>on sono meno partiali de li grafagnini, ché la maggior <p>arte v’ha moglie e pa-rentado» (Lettere, CLVI, § 11).

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braccio di quello che io mi habbi»).50 Urgevano dunque più combat-tenti per garantire un controllo capillare della regione: nuove reclu-te dovevano essere addestrate, equipaggiate e schierate a protezione della cittadinanza, il tutto a spese dei sudditi garfagnini.

Ferma era infatti presso la corte alfonsina la volontà di deman-dare alla competenza dei Parlamenti locali la gestione dei costi di mobilitazione e mantenimento delle milizie di polizia, riservando al governo centrale la direzione delle sole forze di difesa, pronte ad entrare in azione in occasione di invasioni o eventuali situazioni di crisi. Per quanto il Duca d’Este s’auspicasse che «li homini» di Gar-fagnana «facesseno quella spesa per lor bene […] compartendola fra loro», le vicarie della Valle del Serchio si dimostrarono fin da subito restie a subire passivamente l’imposizione di ulteriori tributi per e-rogare una congrua diaria ai balestrieri ariosteschi.51 Così, quando da Ferrara giunse su richiesta di Ludovico un rinforzo temporaneo di 25 armigeri, i gendarmi di rincalzo furono presto richiamati in patria, in risposta al rifiuto da parte delle curie garfagnine di farsi carico della loro retribuzione. A corto di risorse umane al pari di ser Albinelli, suo predecessore, 52 Ariosto si ritrovò quindi schiaccia-to fra il lassismo della classe dirigente ferrarese – solitamente sorda alle invocazioni d’aiuto provenienti dalla frontiera occidentale – e l’indocilità dei montanari verso ogni forma di prelievo fiscale.

A pochi mesi dall’approdo in terra appenninica, l’autore reggia-no poteva già dirsi impelagato in una spiacevole condizione d’impas-se, essendo essenzialmente privo degli strumenti operativi indispen-sabili alla conservazione della salute pubblica. Davanti alle recrude-scenze degli assalti briganteschi nell’ottobre del ’22, consapevole che l’escalation di violenza scaturisse dall’esiguità dei reparti di vigi-lanza, l’ufficiale estense – sforzandosi di trovare una soluzione per assicurarsi un discreto stuolo di armati con cui costituire un deter-rente senza gravare sulle finanze ducali («Io non cesso di pensare e

50. La lettera L, da cui è tratto il presente passo, lascia trasparire tutto il disap-

punto dell’Ariosto per non essere stato in grado d’impedire – causa insuffi-cienza di uomini – l’insediamento in Ceserana del ribelle lucchese Totti con la complicità dei figli di Pellegrino dal Sillico (§ 1).

51. Il frammento citato proviene da una missiva inviata a Castelnuovo dalla Cancelleria Ducale nella primavera del 1522 ed è riportato in SFORZA, Docu-menti, p. 114.

52. Cfr. nota 17.

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di fantasticare come sanza spesa del Signore nostro io possi accre-scere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi habbian paura di me») – elaborò un geniale «expediente» che si affrettò a illustrare alla Cancelleria generale (XLVII, § 15-17). Il programma prevedeva

che la vicaria di Camporeggiano eleggesse cinquanta homini sotto dui ca-porali, e quella di Castelnovo cinquant’altri sotto dui altri caporali, e questi fussino obligati, o tutti o parte secondo li bisogni, ad ogni richiesta del commissario venire armati, et insieme con li balestrieri andare a far le exe-cutioni che serian lor commesse, et ogni volta che fusseno messi in opera, ogni Vicaria fusse obligata a pagare li suoi a sei bolognini per fante il giorno: ché questa serìa poca spesa alla Vicaria, e pigliandosi questo ordine non accaderà che ’l Signore mandi qui altri balestrieri. (ivi, § 17)

La creazione di una milizia civica reclutata sul posto avrebbe potuto rappresentare un valido compromesso tra le rigide posizioni di Alfonso I e le rivendicazioni del notabilato provinciale, consen-tendo agli ufficiali presenti in Garfagnana di coscrivere – in caso di allarme – dei commandos di pronto intervento (100 militi agli ordini di 4 caporali), con costi modesti per i cittadini e per nulla finanziati dalle casse di Casa d’Este. Ariosto tornò a caldeggiare entusiastica-mente tale arrangiamento il 15 aprile (lettera LXIV) e il 2 maggio 1523 (Lettera LXXVI), ottenendo però anche in questa circostanza un riscontro negativo.53 Ferrara, infatti, non vedeva di buon occhio la formazione in un’area celebre per la maliziosità dei suoi abitanti di compagnie in armi che avrebbero potuto impiantarvi in qualsiasi momento il seme della sedizione. A messer Ludovico non restò infi-ne altra scelta che seguitare insistentemente nel richiedere all’auto-rità ducale l’invio di soldatesche per dar man forte ai ranghi dei balestrieri.

Lamentele e richieste si susseguirono numerose nei mesi succes-sivi. L’estate del ’23 mise a dura prova la tenuta degli istituti estensi

53. Si vedano Lettere, LXIV, § 16-17, e soprattutto Lettere, LXXVI, § 4: «Io

havevo proposto di far li battaglioni a questo effetto, che quando accade simile cosa, che forse è per accadere più presto e più spesso che Vostra Excellentia non pensa, e che montando io a cavallo per obstarli, havessi sùbito chi mi se-guisse, ché mentre io comando li communi che mi vengan drieto, l’un guarda l’altro, e chi dice che non ha arme e chi truova altra excusa, e se pur vengano, la cosa va in lungo di modo che li banditi han tempo di far li lor disegni e di partirsi a salvamento».

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lungo il corso del Serchio. Le scorrerie dei banditi sillichini tocca-rono picchi inusuali in luglio, spingendo il poeta del Furioso a sol-lecitare la venuta di Giovanni Ziliolo con alcuni distaccamenti del-l’esercito ducale, allora siti «in Frignano per rasettare quel paese».54 A quattro giorni dal primo scambio epistolare con la capitale, Ario-sto dipingeva, a beneficio dell’Artigliere, un quadro esaustivo della situazione garfagnina: i fuorilegge di Garfagnana – a detta del com-missario generale –, per quanto pericolosi, non raggiungevano nel loro insieme le quattrocento unità. Troppo pochi per giustificare l’invio di un’armata atta a «brugiare o saccheggiare», essi sarebbero stati facilmente dispersi e catturati con il trascurabile apporto di 100-50 fanti («A far tutte queste cose basteriano cento fanti, et an-cho cinquanta», CI, § 16, del 15 luglio 1523). Le intuizioni del-l’Ariosto risultarono corrette, tant’è che il 25 luglio 1524 egli era in grado di notificare «il buono effetto venuto» dall’arrivo alle Verru-cole di «25 schioppeteri», talmente temuti da causare un esodo da quelle contrade d’ogni brigante («Alla lor giunta tutti li banditi hanno sgombrat<o> il paese, né credo, fin che ci stiano, che se ne senta alcuno»).55 In linea di massima, tuttavia, gli appelli accorati di messer Ludovico ad una maggiore partecipazione del Ducato ai ra-strellamenti furono in larga misura ignorati, talvolta parzialmente esauditi o tardivamente ascoltati.56

I dissapori del poeta con Alfonso I si susseguirono molteplici nella fase calda del commissariato garfagnino, tra il 1523 e il 1524. Tali cesure maturarono non solo in ragione dei disattesi aiuti bellici alla causa ariostesca, ma – nel complesso – per il procedere ondi-vago e contraddittorio del Duca negli ambiti più disparati, dalle strategie da tenere nei confronti delle bande ribelli, alle direttive politiche impartite agli ufficiali sottoposti. Sulla psiche di un corti-giano che, scrivendo all’Obizo nel 1522, confessava di non essere

54. Lettera XCVIII dell’11 luglio 1523 al Duca Alfonso, § 4. 55. Lettera CLX al duca Alfonso, § 2-3. La distribuzione dei 25 archibugieri

fra le molte rocche sguarnite della regione affievolì l’effetto benefico di tale rinforzo, contribuendo al rapido ripristino della situazione precedente.

56. Tra i diversi casi citabili basti ricordare l’invio a Castelnuovo, in data 13 settembre 1523, di 50 fanti al comando di Gimignano Zuccho, improvvisa-mente dirottati, per ordine del Duca, sui fronti di Reggio e Modena in seguito alla morte di papa Adriano VI. Si veda ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 200.

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«homo da governare altri homini»,57 i continui ripensamenti e i suc-cessivi rimproveri del principe ebbero un effetto devastante. La per-dita di una serenità mai pienamente posseduta anima una missiva dell’Ariosto rivolta all’Estense nell’estate del 1523. Vi si legge in-fatti:

Queste lettere, et altre simili a queste, mi tolgono l’ardire, e mi fanno have-re quel tanto rispetto e quel che mi fa essere tenuto troppo timido, che Vo-stra Excellentia in me riprende per la sua lettera: ché da un lato haver poca forza e poco braccio all’officio, et essere capo de subditi che non sono […] per seguitarmi in alcuna impresa dove si maneggi arme; e da l’altra parte essere tuttavia admonito e fatto pauroso da le lettere di Vostra Excellentia, e sempre dettomi ch’io soporti e ch’io proceda con prudentia e dexterità, son sforzato che s’io fossi un leone io diventassi un coniglio. (XCVII, § 9)

Condizionato nel suo operato dai ripetuti ammonimenti del proprio Signore, il governatore sentiva venir meno il coraggio e, as-sieme ad esso, la speranza di veder sconfitti i criminali della Valle del Serchio. Ludovico incominciò pertanto a considerare l’eventua-lità di disertare l’ufficio assegnatogli a Castelnuovo, dove le accuse di inettitudine piovevano sferzanti sia contro di lui, sia contro la dinastia estense.58

Come se non bastasse, nel gennaio del ’24 venne privato per volere dell’Artigliere di certi privilegi giurisdizionali (quali l’«autho-rità di pot<er fare accordi> e compositioni», CXXXV del 12 genna-io, § 1) recentemente dispensatigli dal medesimo. L’Este aveva pre-ferito assecondare le lagnanze del Capitano castelnovese Giovan Maria Sorboli – notoriamente ostile all’Ariosto – circa la cessione al commissario reggiano di talune delle sue prerogative, ledendo in modo irrimediabile l’onore e la dignità di Ludovico. Abbandonato in maniera tanto plateale dal suo stesso principe, nella mente del poeta del Furioso riprese piede l’ipotesi di ritirarsi da un impiego sentito come avvilente e fallimentare. Quanto scritto al Duca il 12

57. Scrive Ariosto il 2 ottobre 1522: «Io ’l confesso ingenuamente, ch’io non

son homo da governare altri homini, ché ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata». Si veda Lettere, XLVI, § 6.

58. Nella lettera CX del 31 agosto 1523 ad Alfonso I, Ariosto annuncia riso-lutamente: «Quando io non havrò più che dire e che havrò totalmente perduto il credito [presso i Garfagnini], me ne fuggirò di notte e me ne venirò a Ferrara» puntualizzando poi nelle righe di congedo: «[In Garfagnana] ognuno è di ma-lavoglia, e dicono mal di me, ma più di Vostra Signoria» (§ 4-5).

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gennaio parla da sé:

A’ sette giorni de febraio proximo saranno compiuti <dui> anni ch’io sono in questo officio; il quale volentieri muterei in uno dove io fossi più vicino a quella, quando con sua bona gratia <p>otessi farlo, come sarebbe il com-missariato di Romagna, ché <per q>ualche pratica ch’io ho pur imparata qui in Grafagnana, mi daria <da sperar>e di far meglio quello officio ch’io non ho saputo far questo. (ivi, § 8-9)

Il sogno di riavvicinarsi all’amata Ferrara e agli intimi affetti re-sisteva nella mente del poeta, ed acquistava – giorno dopo giorno – sempre maggior vigore, specie allorquando veniva ad essere com-parato al tetro grigiore della quotidianità garfagnina. Nonostante le gride, i trattati e le esecuzioni, la frontiera continuava a pullulare di briganti, i quali – laddove non fosse bastante il sistema cospiratorio venutosi a formare con la silente partecipazione di una popolazione talora corresponsabile – beneficiarono di svariate amnistie, loro elargite – incredibile a dirsi – proprio da Alfonso I.

Gli impegni militari assunti dallo Stato estense durante le Guer-re d’Italia esigevano continue immissioni di truppe fresche nelle fi-la dell’esercito ducale. Al problema poteva facilmente ovviarsi ricor-rendo ai mercenari; nell’indistinta massa di questi professionnels de la guerre, non di rado trovarono spazio i peggiori tagliagole di Garfa-gnana, allettati dalle prospettive di bottino e dalla certezza di ottene-re, al congedo, la remissione dei reati commessi in passato. Difatti, per ricompensare gli uomini accorsi sua sponte sotto le insegne e-stensi, Alfonso ricorse spesso allo strumento straordinario dei prov-vedimenti di grazia, permettendo a provati colpevoli di scampare al patibolo.

Se da un lato l’assoldamento dei malavitosi toscani e il loro con-seguente spiegamento presso altri lidi venivano salutati positiva-mente dall’Ariosto, giacché consentivano di allentare la morsa sof-focante delle fazioni (si spiegano in quest’ottica, ad esempio, le due lettere del 20-23 novembre 1523 spedite a Ferrara in cui Ludovico raccomandava al Duca il reclutamento di «Moro dal Silico e li altri fratelli» e mostrava compiacimento per la chiamata alle armi di Bat-tistino Magnano insieme a Bernardello da Ponteccio: CXXV, § 5-7; CXXVI, § 7-8), dall’altro i servigi prestati dai vari capibanda an-davano ad obliterare i delitti compiuti precedentemente, lasciando quindi irrisolta la spinosa questione del brigantaggio.

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Si può dunque comprendere l’amarezza del commissario reggia-no dinnanzi all’imprudente gestione ducale dei condoni, ulteriore complicazione in una realtà già oltremodo intricata. I danni buro-cratici e legali che siffatte disposizioni vennero a creare nella curia di Castelnuovo furono ingenti. Il 19 novembre 1522 Ariosto com-mentava con queste parole l’attribuzione della grazia al famoso Mo-ro, bandito sillichino:

Hieri il Moro dal Silico mi appresentò la gratia che Vostr<a Excellentia> gli ha fatta per un certo homicidio [...] Hoggi ho havuto lettere e messo a posta dal commissario di Frignano, che <mi> avisa che questo Moro in-sieme con li fratelli et altri compagni, de li quali esso Moro era capo, tor-nando di Frignano in qua […] introro in casa d’un suddito di Vostra Excel-lentia [...] e gli spezzaro gli usci e le casse, e depredarono roba <per> valuta di cento lire. [...] Se ’l Moro mi to<r>na più dinanzi, io lo piglierò, e farò che ’l Capitano lo punirà come merita il delitto, senza guardare a gratia che gli habbia f<atto> Vostra Excellentia, perché non si extende in questo né in altri assassinamenti che <mi> è stato detto che questo Moro insieme con li fratelli hanno fatto. (LII al duca Alfonso, § 1-4)

Salvatosi per intercessione di Alfonso I da un’accusa di omici-dio, Moro non aveva perso tempo a cacciarsi di nuovo nei guai, macchiatosi in correità con «altri compagni» di effrazione e furto. Un delirio di onnipotenza che messer Ludovico – lo si deduce dalla chiusura della missiva LII – considera figlio degli indulti alfonsini, i quali non innescavano in quei balordi un processo di redenzione, bensì ne accentuavano la tracotanza. Il 22 giugno, Ariosto aveva chiarito il concetto dicendo:

Le troppe gratie che Vostra Excellentia fa a questi homini [...] li inasinisce, ché più honesto vocabolo non so loro attribuire, e nessuna cosa son per far mai se non per forza. (XXXIX, § 1)

Incomprensibilmente, gli atti di misericordia investirono l’in-tera banda del Sillico e finanche Ulivo e Nicolao da Ponteccio «che, oltra gli altri lor delitti, <andaro> in compagnia ad amazzare quelli poveri Conti di San <Donino>».59

59. Lettera CL del 5 luglio 1524 al Duca Alfonso, § 8-9. La concessione for-

male della grazia ai due fratelli assassini si tenne a Ferrara mentre Ariosto si trovava in città in un momento di sospensione dal commissariato garfagnino («La lor suplicatione [...] era stata segnata questo <stesso> tempo ch’io ero a Ferrara»). Il fatto di non essere stato chiamato in causa nel processo per poter

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Giunto al limite della sopportazione, il 30 gennaio 1524, il com-missario consegnò ai corrieri un dispaccio per il principe d’Este col-mo di delusione e dallo stile rimbrottante; dettato da un’indigna-zione non più trattenuta, esso recitava:

Se Vostra Excellentia non mi aiuta a difendere l’honor de l’officio, io per me non ho la forza di farlo; ché se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi Vostra Excellentia li absolva, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’authorità del magistro. Serìa meglio che, s’io non ci sono idoneo, a man-dare uno che fosse più al proposito, che guastando tuttavia quello che bene o male io faccia si attenuasse la maestà del commissariato. […] Se tale igno-minie si facessine a me solo, non ne farei parola, perché Vostra Excellentia mi può trattare come suo servo; ma redundando tali incarichi più ne l’ho-nor de l’officio e subsequentemente a far le persone con chi ho da praticare più insolenti verso li lor governi, non mi par di tolerarlo senza dolermine a Vostra Signoria. (CXXXIX, § 1-4)

L’irresolutezza e la fastidiosa tendenza del Signore estense a ri-baltare le decisioni prese dal suo vicario avevano minato la credibi-lità stessa «de l’officio» commissariale. La frattura era ormai insana-bile: umanamente provato nel fisico e nell’animo, Ariosto replicò agli scarsi attestati di stima della corte ferrarese augurandosi d’esse-re sostituito da qualcuno dotato di «miglior stomacho» nel patire le «ingiurie» che ne intaccavano «l’honor» in quella desolata provincia (ivi, § 8). In calce al documento, alfine, egli vergava a mano quello che, a tutti gli effetti, era un atto di resa pronunciato al cospetto di Alfonso:

Ma dove importa tanto smaccamento de l’honor mio, io vo’ gridare e farne instantia, e pregare e suplicare Vostra Excellentia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna. (ivi, § 11)

Dopo anni di battaglie inconcludenti ed attese tradite, dunque, nel giugno del 1525, Ludovico volse definitivamente le spalle alla

fornire una testimonianza schiacciante sulla reale condizione di Ulivo e Nico-lao rappresentò l’ennesimo punto di rottura nei rapporti tra Ariosto e Alfonso I («E qui vostra ex<cellentia> mi perdoni, che mi voglio lamentare di lei un poco, […] A me par che <in ogni> cosa di Carfagnini, et essendo io a Ferrara, <dove>vo esser domandato di che conditione eran costoro»). Si veda CATA-

LANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita, vol. I, p 553.

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Garfagnana.60 Ma se l’autore s’era de facto guadagnato la tranquillità tanto agognata, la terra da lui lasciata – per converso – avrebbe con-tinuato a ribollire, nelle stagioni venture, per via delle usuali scor-ribande banditesche.

3. Echi di guerra dalla Garfagnana

La collocazione limitanea del saliente garfagnino – a ridosso di quella direttrice emiliano-tirrenica che avrebbe conosciuto, nel mo-mento culminante del confronto tra Carlo V d’Asburgo e France-sco I di Valois, l’incedere in gran mole di eserciti pontifici, imperiali e transalpini – richiedeva, da parte del commissario estense invitato a trasferirsi in tale contesto, il possesso di sincere competenze di-plomatiche, organizzative e belliche. L’eventualità di manovre ostili (papali e fiorentine) aventi per palcoscenico la Valle del Serchio do-veva essere stata contemplata dallo stato maggiore ferrarese forse già all’altezza del 1521, trovando – ci pare realistico pensarlo – il consenso dell’Artigliere. La rilevanza strategica di Castelnuovo e delle vicarie ad esso facenti riferimento imponeva pertanto l’asse-gnazione del ministero provinciale ad un burocrate esperto e fedele, dalle pregresse esperienze militari nonché abbastanza sagace da co-gliere le avvisaglie di una guerra imminente e riferire al duca ogni spostamento di truppe sospetto. Alla ricerca, all’interno della corte, d’un profilo corrispondente, Alfonso – da ultimo – ritenne di scor-gere il candidato ideale in Ludovico Ariosto.61

E come dargli torto: da poco ammesso nell’entourage ducale, il poeta reggiano – discendente da una famiglia di onorate tradizioni

60. Come riportato nel Registro delle nomine dell’Archivio Estense e riferito

dall’Angelini, l’1 giugno 1525, «Dominus Cesar Cathaneus successit […] D. Ludo-vico et habuit litteras [le credenziali ducali per assumere la carica di commissario] pro uno anno». Cesare Cattaneo emise il primo atto ufficiale il 22 giugno. Si vedano ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, p. 21; GIULIO BER-

TONI, L’Orlando Furioso e la Rinascenza a Ferrara, Modena, Orlandini, 1919, p. 327.

61. Scrisse in proposito Giovan Battista Pigna: «Il Duca conoscendo la diver-sità delle fattioni ch’era in Graffignana et la destrezza di Messer Lodovico, gl’im-pose ch’egli là per governatore n’andasse.» (GIOVAN BATTISTA PIGNA, La Vita di Messer Lodovico Ariosto tratta in compendio da i Romanzi del Signor Giovanbatti-sta Pigna, in LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Furioso - con annotazioni di Ieronimo Ruscelli, Venezia, Felice Valgrisi, 1603, p. 7).

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marziali –62 aveva ricevuto da Ercole I d’Este il comando della rocca di Canossa, mantenendolo con merito fino al 1503; sotto il patro-nato del cardinale Ippolito, invece, egli aveva affiancato ad un’in-tensa attività ambasciatoriale l’assunzione di incarichi insidiosi in veste di esploratore o staffetta durante il conflitto che fra il 1509 e il 1513 devastò la Romagna, assistendo di persona – certi passi del Furioso sembrano confermarlo – all’assalto della Polesella e alla bat-taglia di Ravenna.63 Per giunta, al servizio degli Estensi, l’autore a-veva sviluppato una discreta dimestichezza nel ramo della politica internazionale, la quale avrebbe potuto rivelarsi decisamente utile per la quotidiana amministrazione di un’area ad alto rischio come la Garfagnana.

Nelle intenzioni di Alfonso I, Ariosto avrebbe dovuto incarnare l’avanguardia del potere principesco ai confini occidentali del Du-cato, gli occhi e le orecchie di un corpo statuale proteso a captare qualsiasi segnale di pericolo proveniente dall’esterno. Fin dai primi mesi di commissariato Ludovico soddisfece abbondantemente le a-spettative in tal senso. Scrivendo a Ferrara il 22 giugno 1522, per e-sempio, il neogovernatore erudiva il suo Signore in merito a quanto appreso da alcuni sudditi di ritorno dalla Maremma, i quali ave-vano raccontato di «molti fanti, c’havevan preso denari a Pisa e […] s’erano imbarcati a Livorno per ire alla guardia di Genua», salvo poi cadere vittime – «ad un luogo detto Meloria» – della flotta guidata dall’ammiraglio genovese Andrea Doria o dal gerosolimitano Ber-nardino d’Airasa, entrambi al soldo dei Valois e – al tempo – alleati

62. Emblematica, da questo punto di vista, risulta essere la carriera di Niccolò

Ariosto, padre di Ludovico, il quale fu capitano di guarnigione in quel di Reg-gio e Rovigo al tempo delle guerre con Venezia per il controllo del Polesine e di Comacchio (fine XV secolo). Si veda LUISA BERTONI ARGENTINI, Ariosto, Niccolò, in DBI, IV, 1962, pp. 190-192.

63. I dati biografici sono tratti da NATALINO SAPEGNO, Ariosto, Ludovico, in DBI, IV, 1962, pp. 172-188. Circa la memoria ariostesca degli episodi cruciali del conflitto del 1509-1513 si vedano, per la Polesella: Orlando Furioso, Canto XV, ott. 2; Canto XL, ott. 2-3; per la battaglia di Ravenna invece: O.F., XIV, 2-9; XXXIII, 40-41. L’edizione qui adottata è LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Fu-rioso, a cura di Emilio Bigi e Cristina Zampese, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2013. All’estate-autunno del 1510 risale poi un gruppo di tre dispacci destinati al cardinale Ippolito d’Este, recanti le informazioni raccolte dall’Ario-sto circa l’attività delle forze francesi e pontificie nel territorio di Carpi, Reggio, Sassuolo e Rubiera (Lettere, VI, VII, VIII).

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del casato d’Este (XXXIX, § 4-5). Il 7 luglio 1523, il nostro riferiva ancora del panico suscitato nei centri costieri di Toscana dall’avvi-stamento in mare di un’«armata di Francia», forte di «ottanta» o «cento vele» (XCVII, § 4-5, al duca Alfonso).

Limitatosi inizialmente ad informare il palazzo riguardo a quan-to accadeva fuori dal raggio di copertura del proprio ufficio, messer Ludovico, da semplice spettatore defilato, divenne poi testimone diretto di azioni guerresche, fomentate e coordinate da quelle stesse bande criminali cui si doveva il turbamento costante della situazio-ne interna in Garfagnana. Che il brigantaggio fosse un fenomeno strutturalmente intrecciato alla militanza attiva negli schieramenti in lotta per il dominio della Penisola è un dato acclarato di cui si è latamente discorso nel paragrafo precedente.

Nemmeno lo stesso Alfonso I poté esimersi dallo stringere o-scuri accordi con efferati capi-fazione e personalità comprometten-ti. Tra gli arcana imperii sui quali si fondava il potere estense sulla frontiera appenninica figurava per certo l’instaurazione di intese occulte fra il gabinetto ducale e le più violente famiglie della regione (Mazzei, Campori, Bertacchi, Lavelli, Magnani, Coiai), 64 inclini a disfarsi all’improvviso mutare delle fragili alleanze che determinava-no gli equilibri di forza nel pieno delle Guerre d’Italia. Con i rego-lari tutti impegnati nella riconquista di Modena e Reggio – perdute nei rovesci bellici del 1521 – 65 gli Estensi non potevano agire diver-samente: le lacune in termini di organico nei reparti armati anda-vano colmate senza tergiversare, e poco importava che i rincalzi giungessero dalle masnade contro le quali Ariosto si era erto sin dal principio del suo carteggio.

L’etica del commissario entrò in collisione con la calcolata Real-politik alfonsina a partire dall’autunno del 1522. Il 5 ottobre – quod

64. ANGELINI, Ludovico Ariosto Commissario generale, pp. 200-201. 65. Ricacciate al di là delle Alpi le armate francesi nel 1521, le truppe ispano-

pontificie occuparono stabilmente le regioni di Cento, di Romagna, di Pieve e Frignano, tutti domini del casato estense. Sostenuta dagli Spagnoli, la Santa Sede si impadronì di Modena e Reggio. Avrà così inizio per Ferrara un lungo percorso – diplomatico e militare – volto alla redenzione di quelle importanti città. Ferita bruciante per la corte e per il reggiano Ariosto, la querelle meritò menzione nell’epistolario garfagnino. Nella lettera XLVI a Remo Opizo (2 ot-tobre 1522), il commissario ringraziava il segretario ducale per le rassicuranti informazioni inviategli circa le ambascerie di Ercole d’Este (a Roma) e Ludo-vico Cato (in Spagna), condotte per risolvere la vertenza sovraesposta (§ 11-12).

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erat demonstrandum – Ludovico si diceva sorpreso per la confessione fattagli da alcuni uomini accusati di furto e saccheggio ai danni di certi «lombardi» (vocabolo – precisa Angelo Stella – abitualmente impiegato per indicare gli abitanti dell’Appennino reggiano-mode-nese),66 i quali «farebbono intendere che il tôrre de li denari […] era stato lor fatto fare sotto fede che ne farebbono piacere al Signore nostro» (XLVII, § 12-13). La naturale reticenza dell’Ariosto ad accet-tare la possibilità di patteggiamenti con l’universo banditesco fu ra-pidamente surclassata da un pragmatismo cosciente delle criticità del settore garfagnino. Sulla scia di questo cambiamento di pensie-ro, in data 25 novembre 1522 l’autore trasmetteva al principe d’E-ste la proposta di associazione fattagli recapitare da Domenico d’A-morotto:

Ser Tito, qui notaro […] scrive, et ancho più volte ha cercato di persua-dermi, che Domenico d’Amorotto sia buon servitore di Vostra Excellentia; che esso sia o non sia, Vostra Excellentia lo debbe sapere meglio di me: io per me di questa bona opinione di Domenico non son ben chiaro, perché gli effetti che per li tempi passati ho veduto mi paron contrarij; pur, havendo esso più possanza in questi paesi che non hanno li officiali di Vostra Excellentia, non mi pare che sia fuor di proposito di mostrare di credere che più presto ne sia amico che inimico. […] Io mi son sforzato fin adesso di tenermilo per amico, et ancho di persuadere a lui che Vostra Excellentia l’habbia per buon servi-tore; e questo credo che sia stato bona causa che fin adesso non ha (sotto specie di partialitadi) molestata questa provincia. Se questo mio discorso par bono a Vostra Excellentia, prego quella che ancho con extrinseche demostra-tioni si sforzi di tenere Domenico, se non amico, almen non nimico. (LV, § 14-17)

I toni concilianti tenuti dall’Ariosto nel tratteggiare la figura e i reclami di Domenico Bretti – guardiano di pecore divenuto brigan-te e fattosi feudatario di Carpineti grazie alla brutalità dei suoi fe-delissimi –67 erano dettati dal timore che gli squadroni di montana-ri carpinetani piombassero sugli sguarniti possedimenti estensi, e-gualmente a quanto era accaduto nei territori di Reggio, occupati dai partigiani pontifici. Per quanto l’Amorotto avesse militato sotto i vessilli di Leone X (1512-1517) e avesse sventato l’insurrezione –

66. ARIOSTO, Lettere, a cura di Angelo Stella, p. 444, XLVII, nota 20. 67. Per ricostruire la vita del leggendario Domenico di Amorotto, la cui esi-

stenza si intrecciò con le carriere extraletterarie di Ludovico Ariosto e France-sco Guicciardini, si consultino GASPARE DE CARO, Bretti, Domenico in DBI, XIV, 1972 e ANGELINO, Il commissariato di Ludovico Ariosto, pp. 85-101.

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promossa da Ferrara – di Cato da Castagneto (1521), le profferte d’amicizia rivolte dal Bretti ad Alfonso (sulla genuinità delle quali Ludovico dimostra di avere più di qualche dubbio) andavano ac-colte per rabbonire l’animo dell’energico signorotto e sperare – alla peggio – in una sua neutralità. Ragion per cui, nel maggio del ’23, il reggente di Castelnuovo si avvicinò a Domenico con l’intento di servirsene al fine di liquidare i banditi più molesti («Né mi parebbe male, quando non si può far altrimente, d’imitar Christo che disse: de inimicis meis cum inimicis meis vendicabo me»).68

Le preoccupazioni maggiori per il governatore generale di Gar-fagnana, tuttavia, sarebbero arrivate da ponente. Le repubbliche to-scane ad ovest seguitavano a destare allarme nei saloni di San Mi-chele, come testimoniano due missive del novembre-dicembre 1523 indirizzate al Duca, in cui Ariosto ostendeva puntuale le relazioni richiestegli dall’Artigliere circa le mobilitazioni di fanti e cavalieri a nord dell’Arno.69 Comunque sia, era sempre a Firenze – loro storica rivale sul fronte garfagnino – che i Ferraresi guardavano con ragio-

68. Nel 1523, quello stesso Domenico che si era professato «buon servitore»

(Lettere, LV, § 15) di Alfonso I discese nuovamente in territorio estense e a Riva incendiò 40 casolari compiendo una strage. Braccato dagli Estensi e dal bri-gante rivale Virgilio da Castagneto, fu indotto a dar battaglia presso il torrente Scoltenna, affluente del Panaro. Qui fu gravemente ferito; mentre i suoi seguaci lo portavano fuori della mischia e cercavano di raggiungere Cometo, soprag-giunse da Reggio Tebaldo Sessi, nemico giurato dell’Amorotto, forse inviato dal Guicciardini: gli uomini di Carpineti furono sgominati e il Bretti venne ucciso. Si veda CESARE CAMPORI, Di alcuni capi di fazione nelle montagne di Mo-dena, di Reggio e di Bologna nel secolo XVI, in «Atti e memorie delle R. R. Depu-tazioni di storia Patria per le province modenesi e parmensi», VI, 1872, pp. 18-24. La citazione evangelica in chiusura proviene dalla lettera LXXVI al Duca Alfonso, § 7. Il progetto di servirsi di certi banditi per uccidere altri criminali è altresì fissato da due gride emesse l’una il 3 marzo 1524 («si replica […] che ogni bandito, o condennato, che amazzi un altro che sia bandito per homicidio, guadagnerà la gratia libera […] et intanto […] haverà un salvo condotto di poter stare nella provincia»), la seconda il 14 maggio 1524 («ogni bandito che ama-zasse un altro bandito di questa provincia per homicidio, haverà la gratia di sé, et gli serà perdonato ogni pena in la quale fussi incorso» (ARIOSTO, Lettere, a cura di Angelo Stella, pp. 391-393, appendici V e VII).

69. Nella lettera CXXV (20 novembre 1523) Ariosto delucidava Alfonso sulla reale entità di certe leve di fanti segnalate in Toscana; nella lettera CXXX (8 dicembre 1523) si notificava il reclutamento a Pisa di cavalleggeri per il fronte di Lombardia (§ 1-3).

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nevole apprensione. Tale attitudine conobbe un incremento pro-prio nel ’23, allorché sopravvenne da Roma l’annuncio dell’elezio-ne di papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici (1478-1534). Il ritorno di un esponente della dinastia medicea sul trono di Pietro a breve distanza dal convulso pontificato di Leone X, quartogenito del Magnifico, convinse gli abitanti della frontiera dell’imminenza di un conflitto armato per il controllo dell’alto corso del Serchio. Era opinione comune fra i borghigiani di Garfagnana che gli E-stensi – rivelatisi incapaci di porre rimedio al banditismo e di salva-guardare l’assetto interno del paese – fossero destinati a soccombere davanti al rinnovato vigore militare del Marzocco. Chi poteva, frat-tanto, si affrettava a raccogliere i propri beni e a programmare la fuga, in vista di un incombente reintegro degli statuti antecedenti alla deditio del 1521.

Questo è quanto emerge dalla Lettera CXXVI (§ 11-13), dove – dopo aver espresso, come di consueto, rammarico per le pessime condizioni dei corpi di vigilanza – Ariosto scriveva al suo Signore, «in Castris Herberiae»:

Appresso mi venne una lettera da Lucca che mi avisava come Medici era creato papa; la qual nuova come si udì da questi di Castelnuovo, parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono intrati in tanta paura che furo alcuni che mi volean persuadere che quella sera medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere, e chi di fuggir le sue robe. Io mi sforzo di confortarli, e dico lor ch’io so che stretta amicitia è tra Vostra Excellentia e Medici, e che non hanno da sperar se non bene.70

Le rassicurazioni elargite da messer Ludovico ai sudditi castel-novesi non tenevano in debito conto né le manifeste simpatie di certe branche della malavita locale per il blocco fiorentino, né lo spiegamento – proprio di quei mesi, tra la Lunigiana e l’Umbria – delle compagnie di ventura comandate da Giovanni delle Bande Nere. In particolare, la vicinanza del Medici e dei suoi rodati came-rati all’importante crocevia estense di Camporgiano – vera porta d’accesso alla provincia garfagnina – avrebbe dovuto inquietare gli uomini preposti alla difesa della regione, ma nessuno – Ariosto in-

70. Al campo estense di Rubiera, città occupata da Alfonso il 9 ottobre 1523

nella manovra di avvicinamento a Reggio, Ariosto invierà una seconda epistola, la CXXV del 20 novembre 1523.

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cluso – comprese di giacere su una polveriera in procinto di esplo-dere.

Ogni cosa precipitò tra il giugno e il luglio del 1524, in conco-mitanza con la momentanea rentrée a Ferrara del commissario ge-nerale.71 Fomentati dall’improvvisa irreperibilità del plenipotenzia-rio ducale, le «genti del Signore Giovannino» avevano attaccato la rocca di «Camporeggiano» e, riscontratavi una fiacca resistenza, se n’erano impadroniti in attesa di puntare su Castelnuovo (CL, § 5, al duca, 5 luglio 1524). Tornato al suo ufficio, messer Ludovico an-notava scioccato nel resoconto stilato per Alfonso I:

Questa matina per tempo giunsi <in Carfagnana>, e trovai tutto il paese in grandissima paura, <sentendo da> questi di Castelnovo che quasi ognuno haveva fug<gita> la sua roba. (ivi, § 1)

Per una strana beffa del destino, la sopravvivenza della Garfa-gnana estense si trovò a dipendere, in quei cupi giorni, da «quattro-cento <perso>ne forastiere, venute ad instantia qual di Pierino <M>agnano, qual di Acontio [Filippi], e qual di Soardino» (CL, § 2). Cosa aveva spinto i caporioni della pars Italiae, tradizionalmente tanto avversi al dominio ferrarese quanto prossimi alle posizioni medicee, a volgere in «buona servitù» il loro dissenso verso l’Arti-gliere? Forse il raffreddarsi dell’amitié fra il casato d’Este e i Valois al chiudersi del ’24? Non sembra plausibile. Anche in questo caso è l’epistolario ariostesco a fare chiarezza.

Descrivendo al Duca gli sviluppi dell’invasione, Ludovico si di-ceva certo del fatto che i mercenari del Medici fossero stati chiamati ad operare sul suolo garfagnino «da alcuni <de la> provincia, tanto più che Ulivo e Nicolao da Ponte<ccio> e dui figlioli di Pier Mada-lena et il Bosatello, alias <detto> Cornacchia» erano «in squadra de li nimici» (ivi, § 7). Orbene, i facinorosi individuati dal poeta tra gli ideatori del blitz appartenevano tutti al partito francese e – in quan-to tali – s’erano guadagnati non pochi avversari nelle file della fa-zione italiana. Di ciò consapevole, Ariosto invitava il duca a diffida-re dell’apparente riscatto dei vari Magnano, Filippi et ceteri, soste-nendo:

Li meriti di questi banditi, li quali se son venuti in favor di questo p<aese>,

71. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita, vol. I, p 553.

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Vostra Excellentia non creda che sia stato perché gli siano tanto af-fecti<onati> più de gli altri, ma per difensione de la lor factione, vedend<o che> con li nimici veniva il Cornacchia e li figlioli di Pier <Ma>dalena e quelli da Ponteccio, cioè Ulivo et il fratello <che sono> lor nimici capitali. (CLXIII, § 22, 2 agosto 1524)

Com’era comparsa, la violenta marea che aveva investito la Valle del Serchio iniziò progressivamente a defluire con l’aprirsi di cesure nei ranghi dell’esercito invasore. Dopo aver attaccato battaglia nei pressi di Camporgiano, gli aggressori furono messi in rotta e co-stretti a ripiegare in città. Castelnuovo era salva; i nemici – ridotti all’inazione – si approntavano a sostenere un difficile assedio.

Poi, la sera del 5 luglio, l’autore del Furioso ricevette dai suoi informatori due rapporti incoraggianti («Hoggi di nuovo son venuti dui casi per noi optimi»; Lett. CL, pp. 279-280). Dapprima questi apprese dell’ammutinamento delle soldatesche medicee, le quali – perduta ogni parvenza di disciplina – avevano aggredito il loro co-mandante Todeschino ferendolo gravemente. In un secondo mo-mento, mentre si apprestava ad inviare cinquecento fanti sulla linea del fronte per l’assalto finale, Ariosto venne a conoscenza dell’ar-rivo sul luogo del fattaccio di Morgante Demino, luogotenente di Giovanni dalle Bande Nere. Costui, scrive il commissario ducale ad Alfonso,

<g>iunto a Camporegiano <con> 25 cavalli e 60 schioppetteri, […] quando vide che [gli assediati] haveano <minor for>za di Vostra Excellentia, fe’ loro di male parole, dic<endo che> questo era senza saputa del Signore Giovan-nino, e co<mandò> che lasciasson l’impresa e gli andasson drieto. […] Con-segnò la ròcca di Vostra Excellentia e <racco>mandò quel Capitano Tode-schino […] ferito a m<orte>. (CL, § 5)

Ergo, l’avvento di ser Morgante – uomo di «bona fede» – aveva scongiurato un inutile spargimento di sangue, permettendo alle au-torità estensi di uscire vittoriose da una prova d’armi sempre gio-cata sulla difensiva e a sfavore di pronostico.72

Ex abrupto, l’impresa garfagnina venne declassata dal Demino

72. Il peso decisivo dell’intervento del Demino è sottolineato in chiusura della lettera CL: «Vostra Excellentia, se un signor può essere <ob>ligato a un subdito, ha grande obligo a Morgante Demino, perché se aventura e la sua bona fede non ne aiutava, Vostra Excellentia non so quando fosse mai più per rihavere questa ròcca di Camporeggiano» (ivi, § 10).

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allo status d’incresciosa bravata, concepita in seno alla truppa anno-iata all’insaputa del Medici. V’era da crederci? Che il maggior con-dottiero del Rinascimento italiano avesse subito dai suoi subalterni un raggiro di sì vaste proporzioni risulta difficile da accettare. È assai più probabile che la puntata in Garfagnana fosse stata tacita-mente avvallata dal «Signore Giovannino» allo scopo di saggiare le forze ducali in quel quadrante; solo in seguito, l’inaspettata débâcle patita in terra camporgianese aveva reso necessaria l’elaborazione di un racconto di copertura, di un alibi volto a tutelare – al cospetto della corte ferrarese – la reputazione del «Gran Diavolo».

Lo spauracchio di una cospirazione fiorentina votata alla sotto-missione delle terre da lui rette fu evocato ripetutamente dall’Ario-sto nelle giornate successive all’«aventura» di Morgante Demino. A meno d’un mese dalla ritirata da Camporgiano, Ludovico incassava la notizia – tramite viaggiatori lucchesi – delle grandi manovre me-dicee in atto in Lunigiana (nel corso delle quali era stata «presa u<na> fortezza detta la Bastia ch’era tenuta inexpugna<bile»), con-cepite per arrestarsi a Fosdinovo e calare daccapo «in Carfagnana» (CLX, § 20, al duca, 30 luglio 1524). Il 2 agosto invece – nonostante le cure ricevute – Todeschino moriva. Il capitano, ormai spacciato, dal suo capezzale continuò a sostenere la totale estraneità di Gio-vanni dalle Bande Nere alla fallita occupazione del luglio 1524, ma si lasciò sfuggire un’indiscrezione scottante. Sul punto di spirare, confessò

che quel giudice da Fivizano l’havea mosso con speranza che, succedendo le cose ad vota, il Signore Gianino dovesse esserne contento e pigliar questa excusa che li homini l’havesson chiamato. (CLXIII, § 25, al duca)

La longa manus della Repubblica gigliata aveva operato in sor-dina attraverso Arcangelo da Colle, amministratore della giustizia nella contrada di Fivizzano, per innescare un cambio di regime nel-le vicarie concessesi all’Aquila d’Este. Sul concreto coinvolgimento del Medici nell’intrigo non è dato sapere: Todeschino, negando fi-no all’ultimo la veridicità di tale illazione, portò il segreto con sé nella tomba.

Ma lasciamo da parte le supposizioni e ritorniamo alle evidenze incontestabili desumibili dalla corrispondenza ariostesca. L’elemen-to che trapela maggiormente dalle lettere vergate dal commissario generale in quell’estate movimentata è il senso d’inquietudine per

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il pessimo stato delle rocche adibite alla preservazione del territorio provinciale. La caduta di Camporgiano – la più solida fra le fortezze della regione secondo l’opinione dell’Ariosto – s’era verificata a causa dell’assoluto abbandono in cui la stessa versava; affidata a bu-rocrati incompetenti e sfornita di presidî degni di questo nome, la piazzaforte, da utile risorsa, andò a costituire l’anello debole della cintura difensiva garfagnina durante la crisi del ’24. Non che gli altri castelli fossero da meno. Innanzi all’incuria alfonsina nel provve-dere al corretto potenziamento delle cittadelle, Ludovico saggia-mente suggeriva la loro distruzione («Meglio saria minar queste ròc-che totalmente, che tenerle senza guardia»: CL, § 11) affinché non divenissero facili prede di sorties estemporanee. L’impietosa disa-mina delle fortificazioni di Garfagnana prodotta dal poeta reggiano poneva allora sotto i riflettori le mancanze delle guarnigioni delle Verrucole e di Castelnuovo, rimaste prive «de polvere» da sparo e d’ogni «provisione»73 (Lettere, CLVII), per poi raccomandare (Lettere, CLX) la ristrutturazione ed il rafforzamento della rocca di Sassi, sita «in luogo importan<te> […] alle confine di fiorentini et de’ luchesi», eppure disabitata e «tutta discoperta».74 Nell’adempimento del suo dovere l’Ariosto non si limitò a porre in risalto le falle del vallo e-stense; egli tentò altresì di coinvolgere i maggiorenti garfagnini ne-gli investimenti essenziali al rifornimento dei forti della zona. Circa l’esito della trattativa – da ritenersi verosimilmente negativo alla lu-ce dell’innata micragna dei sudditi appenninici – nulla è noto.

Frattanto, la parentesi commissariale di messer Ludovico si av-viava verso una pacifica conclusione. Il 30 dicembre 1524, però, il soggiorno in Garfagnana regalò al poeta del Furioso un sussulto fi-nale, quando – senza «aviso alcuno» – la frontiera estense conobbe

73. «<Non sar>ia fora de proposito che Vostra Excellentia facesse provedere

<una so>ma de polvere in queste forteze, fra qui in Castelnovo […] e le Veru-cule, in ogni caso che potesse avenire, <perc>hé la polvere qua è molto cara. […] Vostra Excellentia farà cosa grata a questi homini, et anchora li innanimerà; ché <a no>n farlo, queste forteze non hanno provisione alcuna, quando acca<d>esse alcuna cosa.» (Lettera CLVII del 24 luglio 1524 al duca Alfonso, § 1 e 4). La stato della fortezza delle Verrucole era pessimo, come apprendiamo dalla lettera CLXIII. In essa Ariosto definisce la pizzaforte «ròcca forni<ta solo di tutti> li disagi», provvista peraltro di «una porta […] marza e guasta» (§ 6 e 11).

74. «In quella ròcca [di Sassi] non sta alcuno, né ancho vi può stare, perché è tutta discoperta» (Lettera CLX, § 4-5).

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il «passaggio del Duca di Albania [Albany]» in marcia verso Napoli con «14 m[ilia] persone tra piedi e cavallo».75 L’iniziativa di John Stewart (1481-1536) – Pari di Scozia messo a capo di un’armata d’Oltralpe da Francesco I – non bastò a strappare il capoluogo cam-pano agli Spagnoli. Di lì a breve (24 febbraio 1525), le nationes gal-lica ed iberica si sarebbero affrontate a Pavia, ponendo fine ad un lustro di alterchi e dissidi che aveva trascinato in un turbine autodi-struttivo fasce consistenti dell’aristocrazia italica.76 L’era delle “liber-tà d’Italia” volgeva così al tramonto. Per l’Ariosto, al contrario, si spalancava – dopo tante ristrettezze – la meritata quiete di Mira-sole.77

4. La malattia e la fame: pestilenze e carestie in Garfagnana

L’espletamento del servizio d’ordine nella cornice di Castelnuo-vo fu funestato dai soprusi di sfuggenti scherani e dagli strascichi delle guerre italiane, ma al contempo reso più arduo dal manifestar-si di impreviste calamità naturali. Prima fra tutte la peste che, origi-natasi forse nelle malsane paludi maremmane, forse nel contado di Pisa, si diffuse a macchia d’olio tra il 1522 e il 1523 nelle repubbli-che di Lucca e Firenze, confinanti con la provincia di Garfagnana.

Onde evitare il propagarsi dell’epidemia verso nord-est, la pro-miscuità dei sudditi estensi con le genti delle aree infette andava impedita ad ogni costo. Ludovico, uomo di buonsenso, ne era co-

75. Il passaggio in Garfagnana dello Stewart, alleato di Ferrara, è così descritto

nella lettera CLXXIV agli Anziani di Lucca: «Io non ho dal Signore Duca mio aviso alcuno di questo passaggio del Duca di Albania, né da un Commissario di Sua Excellentia che intendo essere con il dicto Duca d’Albania: e me ne maraviglio forte. Dalli homini di Silano, per lettere e per relatione a bocha di 3 delli miei che vi ho mandati a posta, ho inteso come iarsera a hore dui di notte arrivò a Silano uno furiero del dicto Duca che domandava vettovaglia per 14 m. persone tra piedi e cavallo, e che questa sera, che serà alli 30 di decembre, arrivaranno a Silano» (§ 1-2).

76. Si veda MARCO PELLEGRINI, Le Guerre d’Italia – 1494-1530, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 168-177.

77. Ci riferiamo, ovviamente, alla casa di Contrada del Mirasole (nell’Addi-zione Erculea a Ferrara) che l’Ariosto acquistò da Bartolomeo Cavalieri nel giu-gno del 1526, con rogito del notaio Ercole Pistoia e nella quale il poeta tra-scorse in serenità gli ultimi anni di vita. Si veda GIUSEPPE BELLI, La casa dell’Ariosto in Ferrara, «L’Omnibus Pittoresco», XIX, 1838, pp. 147–150.

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sciente e pertanto si attivò presso il governo lucchese per avere de-lucidazioni sulla reale distribuzione della malattia a quelle latitudi-ni e decidere così il da farsi. Il 28 settembre del ’22 scriveva agli An-ziani:

Perché per gratia di Dio tutta questa Ducale provincia di Garfagnana fino a qui è sana e senza un male al mondo, vorrei con tutti li modi che mi sieno possibile che anco per lo advenire si conservasse; e per questo non cesso di far fare buona guardia di non lasciare venire persone di paese suspecto: ma questi sono mali che nascono tanto improviso, che non mi confido di conoscere bene da chi mi debbia guardare. Per questo ho voluto ricorrere a Vostre Signorie come a quelle nelle quali ho grandissima fede, [...] così le supplico che siano contente per questo messo che io mando a posta di avisarmi le terre da chi mi debbio guardare, e che anche mi consiglino s’io debbo lassare fare la fiera, la quale, spe-rando che le cose megliorasseno, havevamo differito a’ cinque di octobre. (XLV, § 1-3)

Momentaneamente preservate dallo spandersi della pestilenza, le contrade garfagnine giacevano in una condizione d’immunità quasi surreale. Investito delle responsabilità del comando, Ariosto sapeva che, senza interventi adeguati, tale congiuntura fortuita a-vrebbe lasciato il passo all’orrore della Morte Nera. I flussi umani da e verso i centri travolti dall’infezione dovevano essere interrotti e sottoposti a rigida sorveglianza, anche se ciò equivaleva a troncare, con ricadute commerciali considerevoli, il florido mercato del sale che sull’impraticabile asse pisano-castelnovese conduceva i suoi red-ditizi traffici. L’abbattimento delle probabilità di contagio aveva la priorità persino sul consueto allestimento della fiera in onore della Vergine Maria, un’attrazione in grado di richiamare folle di avven-tori da tutta la Toscana settentrionale e sul cui successo si reggeva gran parte dell’economia della Valle del Serchio. I rischi sanitari de-rivanti dall’alta concentrazione di individui in ambienti ristretti nel bel mezzo di un fenomeno epidemico all’apparenza irrefrenabile in-dusse il governatore a posticipare la rassegna in attesa di tempi mi-gliori. Nonostante la «mala contentezza» dei borghigiani, i divieti di mercatura rimasero – almeno fino al 28 marzo 1524 (quando l’in-gresso «a Castelnovo» fu interdetto agli stranieri sprovvisti di «bul-letta e fede della sanità») – la prassi più ovvia per scansare l’insor-genza di focolai pestiferi nelle terre detenute dai principi d’Este ad ovest della dorsale appenninica.

Nel novembre del ’22 le missive dell’Ariosto iniziarono a tradire

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un’ansia crescente per un morbo che andava intensificando la sua virulenza in luoghi non molto distanti dai villaggi di Garfagnana. Turbato come «ugni altra persona che non sia in tutto stolta» dalle raccapriccianti cronache raccolte oltrefrontiera al punto da parago-nare il flagello della peste ad un’emergenza militare a cui consacrare il proprio ministero,78 Ludovico sdoganava il tema a Ferrara con la lettera LVI. Alla laconicità di due concisi paragrafi egli affidò al-cune interessanti considerazioni:

Qui si vive molto quietamente et in pace, et ogni cosa anderia bene se non fosse per la vicinanza c’havemo d’alcune terre che sono infette di peste; ma io col Capitano de la Ragione e con alcuni homini da bene di questa terra non cessamo di far tutte le debite provisioni: ma gli è il pericolo c’havemo a far con villani, che mal si ponno tenere che non vogliano ir traficando [...]. Pur, quando accadessi che alcuno se infettassi, suplico Vostra Excel-lentia che sia contenta ch’io, senza scrivere altrimente, possa levarmi e ve-nirmene a casa, perché in ogni altro luogo mi daria il core di poter schivar la peste fuor che qui, dove ho sempre villani all’orecchie, e non c’è alcuno che stesse a maggior pericolo di me. (LVI, § 7-8, 26 novembre 1522 al duca)

Miracolosamente, i possedimenti estensi si presentavano an-cora incontaminati, la pestilenza relegata alle circoscrizioni vicine. Merito delle «debite provisioni» (respingimenti, limitazioni al tran-sito, roghi preventivi?) che il commissario – per una volta in sim-biosi con il Sorboli e i valentuomini della provincia79 – aveva dispo-sto, sebbene non fosse da escludere – pure in questo caso – una decisiva intercessione celeste. Ariosto, tuttavia, dall’alto della sua razionalità, non nutriva false speranze attorno al perdurare di quel-la situazione benedetta. Per quanto i controlli fossero serrati, per quanto le contromisure adottate si dimostrassero valide, era solo questione di tempo prima che la malattia penetrasse nel cuore del dipartimento garfagnino. E chi se non Ludovico stesso – sempre coi «villani all’orecchie» mentre esercitava le proprie funzioni – avrebbe rischiato maggiormente di essere contagiato? Scopertosi d’un tratto pavido, il commissario sondò la buona disposizione del

78. «Mi pare che sia mio debito […] di porre questa cosa per il maggiore pen-

siero che io habbia […] come, se la guerra me instasse» e ancora «In questa peste, che non mi spaventa meno che farebbe la guerra, userò la medema confidentia» (Lettera LIV agli Anziani di Lucca del 25 novembre 1522, § 1).

79. Sui precedenti rapporti dell’Ariosto con il Capitano Giovan Maria Sorboli si vedano le pp. 43-44 e 62.

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Duca ad un suo richiamo in patria non appena i prodromi di un attecchimento della pestilenza in quelle lontane vicarie fossero stati segnalati.

La richiesta fu respinta e il 29 gennaio 1523 il padre del Furioso – consegnato nella rocca di Castelnuovo – finì per notificare al Col-legio degli Anziani la presenza di appestati «alla Pieve Fossana», lo-calità di spettanza ferrarese ad un tiro di schioppo dallo snodo luc-chese di Castiglione (LX, § 1). Le modalità con cui la peste germinò in Garfagnana, al pari dell’identità del ‘paziente zero’, sono così e-splicitate:

Certifico [...] come un Luca Pierotto, per uno suo figliuolo che nascosa-mente era andato non so dove, si è infettato di modo che dui o tre sono morti di casa sua; ma presto si è facto provisione, che tutta quella famiglia si è facta ire in loco separato, e prohibito a tutti quelli della Pieve che non iscano dalle loro confine, benché, gratia di Dio, in quella terra non si sia la peste scoperta in altra casa, et a Castel Nuovo non è male né suspitione alcuna, e stiamo con buonissime guardie. (ibidem)

Il memorandum girato a Lucca da messer Ludovico metteva per iscritto le procedure di profilassi adottate per arginare un episodio infettivo che aveva già mietuto 2-3 vittime tra i cittadini pievani. Individuata nella casa dei Pierrotto (simpatizzanti della fazione ita-liana) la sorgente della piaga, il governatore sottopose a quarantena i membri superstiti della famiglia, isolandoli dal resto dei loro com-paesani ai quali fu intimato di non abbandonare l’abitato di Fo-sciana. Così facendo, le perdite furono limitate e i fattori di conta-minazione circoscritti ad una comunità di cento anime sulla spon-da sinistra del Serchio.

A tre chilometri di distanza, sulla riva opposta del fiume, Ca-stelnuovo manteneva alto il livello di allerta. L’esperienza della Pie-ve Fossana, in effetti, aveva acclarato l’origine alloctona della peste. Estranea al clima salubre della zona, essa era migrata nella Garfa-gnana estense congiuntamente a quelle carovane di villici improvvi-di che – in barba ai bandi emanati dal governatore – discendevano a cadenza regolare le valli appenniniche alla ricerca di impieghi sta-gionali. Lo apprendiamo dalla lettera CI, dove l’Ariosto – dopo aver ribadito con fermezza l’intenzione di bloccare le strade all’indirizzo di Pisa, colpita dal morbo («Perché vi è la peste […] io non lascio in-trar qui persona che venga di là [Pisa], né alcuno de’ nostri andare a quella via») – rivelava ad Alfonso I:

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Noi semo stati in gran pericolo circa la peste, perché questi contadini, fatto Pasqua, hanno usanza di andare in gran quantità su quel di Roma e ne le Maremme a guadagnare, e poi, segati li grani, tornano a casa, e nel ritorno molti hanno seco il morbo. Io ho durato grandissima fatica a far che non sieno ricettati ne le lor terre, ma confinati chi qua chi là, e provisto lor al bosco de li lor bisogni; pur non ho possuto proveder tanto che molti furti-vamente non sieno andati alle moglie et alle lor case, et in una de le Terre Nove detta Roggio si è attaccata la peste, sì che sùbito ne son morti nove. Provisioni grandi se gli sono fatte e fanno tuttavia, e spero che non si dila-terà più inanzi. (CI, § 7-8, del 15 luglio 1523)

Il costume dei rustici garfagnini di farsi ingaggiare, all’approssi-

marsi del tempo della mietitura, nei latifondi della Maremma e del-l’Agro Romano poneva le autorità ducali di fronte a difficoltà logi-stiche non indifferenti. Gli agricoltori assoldati fuori dai confini provinciali, infatti, avevano maggiori chances di contrarre la malattia durante le corvées estive. Obbligati a vivere in condizioni igieniche deficitarie, a contatto con ratti e pulci, questi uomini sovente dive-nivano, al loro rientro, dei vettori inconsapevoli della Yersinia pestis. Lasciarli rincasare in massa avrebbe rappresentato per la Garfagna-na un azzardo biologico che l’Ariosto non era disposto a correre.

Nel luglio del 1523, Ludovico si vide allora costretto ad applica-re nei confronti della pletora di contadini affrancati di ritorno sul suolo natale, il protocollo quarantenario collaudato nel corso del-l’affaire Pierrotto. I frontalieri, ansiosi di riabbracciare i propri cari dopo mesi di lontananza, furono – con «grandissima fatica» – dirot-tati verso strutture di confino, dei lazzaretti allestiti fra gli impene-trabili boschi della regione, acciocché vi trascorressero l’ordinario periodo di segregazione e di osservazione spettante a chi era sospet-tato di celare in sé i germi della peste. Com’era prevedibile, molti furono coloro i quali, di straforo, elusero i controlli ariosteschi e incautamente si ricongiunsero ai famigliari, decretandone – in que-sto modo – la morte. Ciò accadde – exempli gratia – a Roggio, nella partizione di Terre Nuove, ove l’aver dato ricetto ai conterranei fug-giti dall’isolamento costò alla cittadinanza la perdita di nove vite umane. Fonti alla mano, la pestilenza – endemica nel resto dell’en-troterra toscano – ebbe comunque un’incidenza piuttosto blanda sulla demografia della Valle del Serchio. I dispacci del poeta reggia-no sull’argomento (otto in totale) certificano il trapasso per infirmi-tatem di 11-12 «Grafagnini» soltanto, a fronte delle migliaia di de-

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cessi verificatisi nelle campagne di Lucca, Pisa e Firenze.80

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Lacerata nel suo delicato tessuto sociale dalle striscianti conflit-tualità del Primo Cinquecento italiano, la provincia estense di Gar-fagnana, dopo essere passata pressoché indenne attraverso il dram-ma della peste, sperimentò, tra il 1523 e il 1525, i contraccolpi di una carestia senza precedenti. In quelle annate disgraziate, difatti, la raccolta del frumento fu particolarmente avara, tanto da spingere gli abitanti della Valle del Serchio a sostituire, nella loro misera die-ta, le rare granaglie con i meno nutrienti marroni. Ma perfino i ca-stagneti, diffusissimi in tutto l’Appennino Toscano, diedero poco frutto, acuendo l’inopia di viveri.

Quando i morsi della fame cominciarono ad attanagliare i resi-denti delle 95 villae orbitanti attorno a Castelnuovo, messer Ludo-vico si rivolse a Ferrara in cerca di assistenza. Il 26 novembre 1523, il commissario in carica spiegava accuratamente all’Artigliere:

Hoggi uno mandato da gli homini di Meschioso mi hanno dato una lettera di Vostra Excellentia, per la qual mi commette ch’io lasci a quelli homini cavare di questa provincia tutte le castagne che hanno colte ne le selve […]. Prima ch’io habbia dato lor licentia, ho voluto avisare Vostra Excellentia che questa provincia si truova in gran carestia, che hora il frumento si vende 20 bolegnini il staiolo, […] e le castagne, perché ne sono state pochissime, sono in più prezzo che sieno anchora state poi ch’io son qui, e già son fatti cinque o sei mercati, che in tutto non è comparso più ch’un sacco di grano. Intorno intorno tutte le tratte son serrate, ché da nessun luogo ne può venir granello; di Lombardia, che forse ne potria venire, non ne compare se non pochissimo; [...] Se Vostra Excellentia, […] sarà pur di volontà ch’io lasci portare fuore le casta-gne a tutti li subditi lombardi suoi, io la ubidirò, ma questa provincia si affa-marà di modo che di questo havrà poco obligo a Vostra Excellentia. Queste prohibitioni c’ho fatte sono a mio danno, ma ho preposto l’utile commune

80. Oltre alle epistole citate nel paragrafo corrente, si segnalano: lettera LVII

del 12 dicembre 1522 agli Anziani di Lucca; lettera CXLVI del 28 marzo 1524 agli Anziani di Lucca. Tale aspetto è sottolineato anche da Vittorio Angelino tra i meriti principali dell’Ariosto. Si veda ANGELINO, Il commissariato di Ludo-vico Ariosto, p. 143. Sulla gravità dell’epidemia scriveva Angelo A. Frari: «Questa peste afflisse la Toscana e specialmente Firenze dall’anno 1522 a tutto il 1527. Di essa vi perirono più di 200 mila persone nel solo Dominio della Repubblica Fiorentina» (ANGELO ANTONIO FRARI, Della peste e della pubblica amministra-zione sanitaria, Vol. I, Venezia, Tipografia Francesco Andreola, 1840, p. 353).

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al mio, perché per ordine antico li commissarij pigliano tre quattrini di ogni soma di roba da mangiare che va fuore. (CXXIX, § 1-5)

La scarsità di derrate alimentari aveva comportato un’impenna-ta dei prezzi del grano, ormai irreperibile sia sulle piazze autoctone sia nei mercati lombardi e lucchesi. A nord, le devastazioni causate dai quadrati franco-svizzeri e dai tercios spagnoli non consentivano di soddisfare adeguatamente la domanda garfagnina; a meridione, viceversa, il governo di Lucca applicava dazi elevati alle esportazioni di cereali, farina e castagne (diventate costosissime), punendo con l’incarcerazione qualunque forestiero fosse stato sorpreso a non de-nunciare parte della merce in suo possesso. Le gabelle esorbitanti, unite all’esigenza di sopperire ai bisogni primari, indussero parec-chi sudditi ferraresi a darsi al contrabbando con esiti largamente deludenti: i trafficanti colti sul fatto – una volta vistisi confiscare i beni trasportati illecitamente e imporre multe in denaro che non potevano rifondere – finivano per essere trattenuti dagli ufficiali doganali, costringendo l’Ariosto – «astrecto da’ lor preghi e da com-passione» – ad intercedere in favore di costoro presso il Collegio degli Anziani.81

Affamati e «disfacti», i «poveri homini» di Garfagnana (lettera CXLV, § 2) dovevano altresì guardarsi da quanti nella provincia spe-culavano sul rincaro dei macinati. Con le quotazioni cerealicole in costante rialzo, mugnai, massari e fornai – infatti – avevano tutta la convenienza ad imboscare il frumento o a spacciarne sottobanco i derivati, traendovi – a discapito dei consumatori – il massimo gua-dagno. La borsa nera era dunque un male da debellare alla svelta se non si voleva acutizzare la «povertade» (CXLV, § 3) dei Garfa-gnini e accrescerne l’inedia.

Per combattere il fenomeno, il 20 giugno 1523, messer Ludo-vico emanava la grida Sul doversi vendere il pane nelle botteghe, né por-tarlo drieto a’ viandanti. Essa prescriveva a chiare lettere:

Ad ogni persona che voglia far pan da vendere […] non habia a tenir fora,

81. Si faccia riferimento per eventuali riscontri alle lettere CXXXIII, CXLII,

CXLV, CLXXX, redatte dall’Ariosto tra il 27 dicembre 1523 e il 24 febbraio 1525 per richiedere trattamenti di favore nei confronti dei sudditi garfagnini sorpresi a contrabbandare castagne dalle terre della Repubblica lucchese. I passi citati provengono invece dalla lettera CXLV del 17 marzo 1524 agli Anziani di Lucca, § 3.

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né a venderlo in altro loco che veramente drento alle porte della Terra […] a loco diputato; et nissun ardisca di partirsi dalla sua bottega, o dal suo banchetto, con pane, per andar drieto a’ viandanti per vendere, sotto pena di perder tutto il pane che si troverà haver fora del loco concesso et esser condennato 10 scudi per volta.82

A questo decreto, teso a trattenere nella Valle del Serchio ogni pagnotta disponibile, fece seguito un lapidario emendamento. Ri-lasciato l’1 gennaio 1525, vi si comandava:

Tutti quelli che hanno grano in casa, in poca o assai quantità, […] sotto pena della disgratia di Sua Excellentia [Alfonso I] et di 50 ducati per cia-scheduno disobediente, […] fra il termine di una settimana lo debbino de-nuntiare a Sua Signoria.83

Fortunatamente, da quanto si rileva dalle Lettere, i casi di occul-tamento scarseggiarono. Cionondimeno, un corretto vettovaglia-mento della frontiera occidentale stentava a consolidarsi per colpa di una gestione dissennata dei traffici in uscita, imputabile intera-mente alla disavvedutezza del Duca d’Este. Ariosto sembra non aver remore a ribadirlo nell’epistola CXXIX («Questa provincia si affa-marà di modo che di questo havrà poco obligo a Vostra Excellen-tia»; § 4), sottolineando con quale leggerezza, in un frangente così periglioso per le sorti della regione, il principe Alfonso avesse dato licenza ad alcuni fittavoli di Mescoso (nel Reggiano) di «cavare» dal-le selve garfagnine tutti i marroni che potessero spostare.

All’insensibilità di Ferrara il commissario generale – vicino alle sofferenze del suo «gregge» (Sat., IV, v. 8) – replicò provvedendo ad arrestare il trafugamento delle risorse locali. Con le castagne strap-pate a raccattatori e mercanti stranieri, Ludovico – privatosi, a be-neficio de «l’utile commune» (lett. CXXIX, § 5), delle provvigioni di rito alle quali i governatori avevano diritto per ciascuna «soma di roba da mangiare» venduta esternamente – riuscì a sfamare 8.000 esseri umani altrimenti condannati a perire di stenti.

5. Vallico e Vagli: due modelli di disputa territoriale

Espletando in «Castro Novo» i propri doveri di cortigiano, messer

82. Il testo della grida qui evocata è tratto da ARIOSTO, Lettere, a cura di An-

gelo Stella, p. 391, appendice IV. 83. Ivi, p. 393, appendice VIII.

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Ludovico dovette convincersi dell’indispensabilità di un saldo regi-me politico che, ai piedi della «nuda Pania» (Sat., IV, v. 139), pren-desse a cuore le istanze dei suoi subditi humiliores, tutelandone i di-ritti e proteggendone gli esigui averi. Purtroppo, nelle lande bagna-te dal Serchio, Ariosto scoprì di avere alle spalle un principato in grave difetto, perlopiù ricalcitrante ad intromettersi nella caotica routine garfagnina. Ora, enfatizzare di nuovo le manchevolezze (mi-litari, amministrative, infrastrutturali) della signoria estense in am-bito frontaliero sarebbe ridondante; ci limiteremo pertanto ad ana-lizzare due cas exemplaires in cui l’assenza in Garfagnana di un appa-rato di land-control degno di questo nome generò contenziosi terri-toriali fra borghi attinenti a differenti giurisdizioni.

Il 31 dicembre, «ultimo anni 1522», il governatore reggiano si rivolse agli Anziani di Lucca per risolvere una disputa di confine sorta tra l’insediamento ferrarese di Vallico e la comunità lucchese di Cardoso. Annoso grattacapo ereditato dalle passate gerenze com-missariali, tale diatriba s’era improvvisamente riaccesa ad appena dieci mesi dall’insediamento ariostesco. A questo proposito, l’au-tore riportava di come «contra li pacti» alcuni Cardosini avessero «passato le confine et arato e seminato sul terreno» dal cui sfrutta-mento, per convenzione, erano stati esclusi.84

L’invito consecutivamente formulato ai «Magnifici ac potentes domini» Lucchesi affinché si degnassero «de intendere la veritade» (Lett., LVIII, § 3) attorno all’accaduto traeva origine in Ludovico non solo da quella sua spontanea probità di gentiluomo che sembra informarne l’agire, ma anche dallo sgomento di doversi destreggiare attraverso un mondo politicamente impalpabile, sorretto dalle leggi della dissimulazione e della ritorsione. Vallico – insieme all’attiguo polo siderurgico di Fabbriche, fondato nel Trecento da maniscalchi originari del Bergamasco –85 giaceva all’estremità meridionale della Garfagnana estense, sicché fu reiteratamente coinvolto in liti e sca-ramucce consumatesi a cavallo di un limes arbitrario, per certi versi evanescente, dove alla giurisprudenza si preferiva di gran lunga la

84. Ivi, § 3. La dichiarazione di confine vide l’intervento del commissario

estense Leonardo Bernardo Rossello e del corrispettivo lucchese Ambrogio Boccella.

85. Si veda: Memorie di Geografia Antropica, vol. VII, Napoli, Centro Studi per la Geografia Antropica, 1952, p. 162.

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libera interpretazione delle norme o il ricorso alla rappresaglia.86 Di tutto ciò il poeta lasciò traccia nella lettera LXXX, scritta

sempre agli Anziani, il 10 maggio 1523. Appreso della carcerazione presso «Lucha» d’un delegato vallichino avvenuta su «instantia delli homini di Gello», i quali pretendevano venissero loro pagate «certe còlte» dagli adiacenti municipî «di Valico e delle Fabriche» sulla scorta «di una stima» erronea, mai ratificata da Alfonso I, Ariosto invocava prudenza e si approcciava agli esimi interlocutori dicendo:

Prego [...] che faccino relaxare questo nostro ritenuto dalle Fabriche; e se le si credeno havere alcuna ragione in questo, siano contente scriverne allo Illustrissimo Signore mio, et amicabilmente tractare la cosa, e venire a una compositione, in la quale né l’una parte né l’altra sia iniustamente op-pressa, e non volere cominciare alle represaglie, ché saria totalmente con-trario a quello che pare sia la intentione dello Illustrissimo Signore mio e di Vostre Signorie che questi dui stati stiano fraternalmente uniti e bene d’accordio. (XXX, § 3)

Espostosi personalmente per soccorrere un innocente rimasto invischiato nelle torbide trame della contrattazione giudiziaria e per difendere i cittadini del fondovalle garfagnino che – «o per paura, o per ignorantia, o per altre cause» – avevano ceduto, tempo addie-tro, alle petizioni illecite dei Gellesi, messer Ludovico supplicava il Collegium lucense di recedere dagli intenti di rivalsa dopo il rifiuto dei Vallichini di corrispondere la benché minima tassa di coltura ai contermini, auspicando una composizione ponderata ed amichevo-le della vicenda. Del resto, non v’era motivo di aggiungere alla cor-posa lista di seccature che affollavano l’agenda giornaliera del com-missario delle faide ataviche tra rustici bellicosi, per non parlare di un ipotetico sgarbo diplomatico inferto alla Repubblica lucchese.87

86. Si legga a tal proposito quanto scritto da Giuliano Nesi in merito all’uni-

verso garfagnino, contraddistinto da una «società dove la violenza è legge e la legge è violenza, dove il diritto stesso, più che rappresentare una norma di ga-ranzia, costituisce, spesso, la complice copertura delle quotidiane prepotenze e prevaricazioni e dell’arbitrio discrezionale dei compromessi» (GIULIANO NESI , I banditi dell’Ariosto e la politica di assimilazione della Provincia di Garfagnana al sistema estense, in La Garfagnana dall’avvento degli Estensi, pp. 253-272).

87. Il contenzioso con Gello si protrasse fino al 31 ottobre 1524, come dimo-stra la lettera CLXXII spedita agli Anziani di Lucca in cui Ariosto, consultato il Duca e ricevute direttive precise sul da farsi, invitava l’esecutivo della Pantera a rilasciare il fabbrichino arrestato nel ’23 e a placare le richieste dei Gellesi:

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A dispetto di tutte le prove di distensione legale imbastite da-vanti agli Anziani, nel luglio del 1524, la popolazione di Vallico si lanciò in una razzia di bestiame a scapito dei mandriani di Cardoso. Il gesto – criticato dall’Ariosto e dal medesimo accolto come un’im-perdonabile «insolentia» (CLIII, §1-2) – scaturiva dalla rude concre-tezza della mentalità montanara, da quei suoi codici consuetudinari per i quali la giustizia non poteva assumere altra declinazione all’in-fuori della primitiva lex talionis. Tribunali e pubblici ufficiali gode-vano di scarso credito nei villaggi più isolati, cosicché qualsiasi ver-tenza veniva risolta affidandosi al principio di sopraffazione.

In definitiva, la propensione dei Garfagnini ad azzuffarsi e ad impugnare le armi per proteggere i propri interessi era ben nota a Castelnuovo; lo attesta un decreto commissariale del 14 ottobre 1522, il quale recita:

Si fa comandamento che qualunque volta accaderà che […] si faccia que-stione, rissa o tumulto, che nissuno sia ardito di metter mani a l’arme, se non li balestrieri dello Illustrissimo Signore nostro, e qualunque serà tro-vato con arme inhastate, o spade, o pugnali nudi, caderà subito in pena di 25 ducati […] e chi non haverà modo di pagare, haverà tre tratti di corda.88

I medesimi problemi – seppur con schemi alternativi – si pre-sentarono alla frontiera con Firenze, coinvolgendo questa volta il centro ferrarese di Vagli Sopra e il comune gigliato di Cappella di Pietrasanta. Nell’estate del 1523 un gruppo di pastori vaglini chiese udienza al governatore estense; il sunto di quella seduta e dei temi trattati fu trasmesso all’Artigliere il 13 luglio:

Un’altra diferentia […] è fra li homini de la Capella, del Capitaneato di Pietrasanta, e li nostri de Vagli di sopra. Il Commune de la Capella ha fatto represaglia de una gran quantità di bestie grosse ritrovate pascere in un luogo confinale fra essi e li nostri di Vagli, e secondo l’instrumento che li

«Vostre Signorie […] siano contente di commettere che questo nostro sia sùbito relassato, e commettere alli suoi homini di Gello che desistano da questa im-presa» (§ 3). Gli Anziani – dice lo Stella, basandosi sulla documentazione dell’Archivio estense edita da Giovanni Sforza – si adoprarono per scarcerare il prigioniero ma ingiunsero agli uomini di Vallico di versare 15 lire di imposta annuale all’erario della Repubblica per i diritti di coltura. Si veda SFORZA, Do-cumenti, p. 301; ARIOSTO, Lettere, a cura di Angelo Stella, p. 483, CLXXII, nota 2.

88. ARIOSTO, Lettere, a cura di Angelo Stella, p. 390, appendice II.

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homini di Vagli m’hanno exhibito, e secondo che anchora in fatti ho man-dato a vedere, son certo che tal bestiame è stato tolto su quello che è di nostra iurisditione, e non de la loro. (XCIX, § 6-8)

Quant’era stato confidato vis-à-vis all’Ariosto nell’intimità della Rocca era sconcertante. Nel pieno di una polemica concernente l’u-sufrutto dei Pascoli d’Arni in Aquaruolo,89 dei sudditi fiorentini s’e-rano indebitamente appropriati di molti buoi, rinvenuti a pasturare in prossimità delle terre contese. Depredati dei loro capi migliori, i postulanti di Vagli, dapprincipio, scartarono l’opzione di una spe-dizione punitiva e cercarono nel sommo magistrato ducale un di-sperato supporto. Ludovico, posto di fronte ad una lampante viola-zione della proprietà individuale e degli statuti di buon vicinato, per di più incoraggiata dal Capitano Rucellai,90 non tardò ad atti-varsi per comporre la «differentia» venutasi a creare al limite sud-oc-cidentale della provincia e che prometteva di degenerare in guerra aperta. Poiché un dialogo con le corrotte autorità pietrasantesi s’era rivelato inutile, il poeta s’appoggiò completamente alla persona del Duca, al quale scrisse:

Bisognerà, a mio giudicio, che se si havremo a condurre su queste confine, che l’una parte e l’altra vi vada con quella gente sola che sia atta a iudicare di tal lite, perché, per l’odio che è tra li nostri di Vagli e li homini de la Capella e di Pietrasanta, si potrebbe attaccare una scaramuzza di mala sorte: e dovendo Vostra Excellentia mandarvi, io non sarò buono, salvo se Vostra Excellentia non mi desse compagnia di dottore e persona bene in-strutta. Ma saria forse meglio che la causa fosse commessa o a Lucca o a Sarzana, sì che, senza andare quelli che sono parte sul locho, si giudicasse per la iustitia. (XCIX, § 16-17)

Impedire esecrabili rigurgiti di violenza, reintrodurre una par-venza di costituzionalità nelle relazioni tosco-ferraresi, giudicare i fatti con equità e distacco: questi erano dunque gli obiettivi prefis-satisi dall’autore. Ad ogni modo, gli ostacoli ad una perfetta attua-zione degli stessi abbondavano.

89. «Quel luogo che nomina lo instrumento Aquaruolo, e quali sieno quelli

che si chiamano le pascoli d’Arni.» (ivi, § 17-18). La località, oggi frazione di Stazzema (LU), era egualmente rivendicata da Pietrasanta e da Vagli.

90. In merito alla personalità e all’atteggiamento proditorio del Rucellai si è già discusso nel paragrafo 2 del qui presente elaborato; cfr. p. 56.

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Anzitutto doveva essere tenuta in debita considerazione la dop-piezza delle istituzioni gigliate, di cui il «Capitaneato di Pietrasanta» costituiva un immediato prolungamento. Ariosto, che con accen-tuata modestia stentava a ritenersi degno di trattare direttamente con «li homini de la Capella» senza la consulenza di un «dottore e persona bene instrutta», aveva appunto intuito, con disarmante lu-cidità, la vera cagione di tutti quei furti di armenti, fatti passare sotto la voce di sequestri legittimi dai funzionari del Marzocco.91 In sostanza, seguitando ad esasperare gli animi, essi miravano a susci-tare una reazione rabbiosa dei Vaglini, istigandoli ad accantonare le inconcludenti negoziazioni intavolate da Ferrara e a passare ipso facto al confronto armato. Invero, qualora il livore dei danneggiati fosse sfociato in un attacco deliberato ai cittadini e ai possedimenti della Repubblica di Firenze, le milizie dell’«Auricellario»92 avreb-bero finalmente avuto un valido pretesto per occupare la località di Aquaruolo, punto nodale delle lucrose tratte commerciali che met-tevano in comunicazione il litorale di Massa con l’entroterra pa-dano. Per nulla sprovveduto, messer Ludovico fiutò l’insidia al-l’istante ed intravistine i potenziali risvolti catastrofici sul comparto economico garfagnino, ebbe la lungimiranza di dichiarare:

Questo paese, che questi di Pietrasanta vorebbono occupare, non è da la-sciar perdere così pianamente, perché va a confinare col stato de la Mar-chesa di Massa, e per quella via potemo noi condure sali et altre robe di tutta quella spiaggia; che se fiorentini l’usurpassino, vi porrebbono la ga-bella, con grandissimo detrimento di questo paese. (XCIX, § 14)

91. Ciò era reso possibile dalla mancanza di una demarcazione perentoria tra

la provincia ducale di Garfagnana e la Repubblica fiorentina in corrispondenza dell’abitato di Vagli. Come ebbe ad evidenziare il Fusai, esisteva effettivamente un «instrumento» notarile – firmato da un predecessore dell’Ariosto (tale Au-gustino da Villa, in carica dal febbraio 1505 al gennaio 1508) e menzionato dal poeta nella lettera CI (15 luglio 1523 ad Alfonso I) – con cui s’era tentato di fare chiarezza; il documento, rintracciabile negli Archivi di Lucca e Sarzana, non era però ritenuto valido dalle autorità gigliate, le quali avevano buon gioco ad interpretare i confini a proprio esclusivo vantaggio. Si vedano: FUSAI, Lodo-vico Ariosto poeta e commissario, p. 91; Lettera CI, § 2-3.

92. Latinizzazione di Rucellai, tratta dall’intestazione dell’ariostesca lettera XCI («Magnifico tanquam fratri honorandissime Don Nicolao Auricellario Ca-pitano ac Commissario Petraesanctae»).

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Ma ai borghigiani di Vagli Sotto poco importava della geopoli-tica estense. Tosto, costoro divennero inquieti ed incominciarono ostinatamente a reclamare «licentia di far all’incontro represaglia d’homini e de bestie» nel circondario di Cappella (lett. XCVII, § 5). Ariosto – suo malgrado – riuscì a trattenerli, evocando la contra-rietà di Alfonso I al coup de main («Io gli ho pur tenuti in freno, fa-cendo lor sapere che faranno cosa che dispiacerà a Vostra Excellen-tia»; ivi, § 6). Intanto, da Pietrasanta, non cessavano di levarsi in di-rezione dei Garfagnini avvertimenti sprezzanti ed insolenti intimi-dazioni.93 D’altronde, la solidità della guarnigione comandata da Niccolò Rucellai era stata opportunamente soppesata dalla gente dei Pascoli d’Arni, la quale si risolse a chiedere l’intromissione mi-litare di Castelnuovo semmai si fosse arrivati ad una resa dei conti. Sempre nel luglio del ’23, Ludovico esternò al principe d’Este il proprio parere sulla faccenda:

Questi di Vagli cognoscono che per sé non sono possenti a resistere a quelli di Pietrasanta, e voriano che se si attaccassi la zuffa io li soccorressi: ma io che homai cognosco la natura de li Grafagnini, che con tutti li comanda-menti del mondo non ne potrei far movere uno a simil cose, ché già n’ho fatto più d’una experientia, ellego per minor danno e minor vergogna con-fortare li nostri a star con la testa rotta, e ricorrere a Vostra Excellentia per consiglio. (ivi, § 7)

Il poeta – sospeso in un cipiglio tra il combattivo e il rammari-cato – deplorava l’inettitudine del volgo di Garfagnana a coadiu-varlo in qualsivoglia cimento guerresco e a misurarsi con la vita mar-ziale. Con tali premesse, al gentiluomo reggiano non rimaneva altro da fare se non predicare ai sudditi la calma, confidando in un tem-pestivo interessamento della corte ferrarese. Al tergiversare del com-missario ducale, però, i Pietresantesi risposero tornando all’abi-geato nell’agosto del 1524.94 L’anno seguente, la controversia Vagli-Cappella era ancora lungi dal definirsi superata; lo possiamo estra-polare da una lettera della segreteria estense destinata all’autore del

93. «Quel capitano [Rucellai] non resta di minacciar che se li nostri saranno

arditi di levar pur una capra de le loro, anderà a bruciar Vagli» (ivi, § 6). 94. Lo riportano le righe di apertura di una lettera del 29 agosto 1524, scritta

agli Otto di Pratica: «Li exhibitori di questa, Barone e Corsetto da Vagli di Sopra, vengono a Vostre Signorie per far loro intendere, in nome del suo com-mune, di certe bestie che fur lor tolte da gli homini da la Capella del capita-neato di Pietrasanta» (Lettera CLXVI, § 1).

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Furioso. Il documento – censito e trascritto dallo Sforza – suggeriva infatti all’Ariosto, oramai prossimo alla scadenza del proprio incari-co, di recarsi in situ per accordarsi con le parti in vista di un arbitra-to ed approdare ad una risolutiva pacificazione.95

Congedandosi dall’officio garfagnino, Ludovico contava in-somma i diversi fallimenti incassati nell’appianare le divergenze fra villaggi limitrofi. Ai suoi sottoposti – come una volta s’era arrischia-to a scrivere all’Artigliere – il cantore di Orlando e Angelica non aveva «saputo dare altro che parole» (CX, § 4).

6. Conclusioni

Una consultazione approfondita delle Lettere – quella filza di epi-stole che, volendo credere al loro illustre mittente, «non contengo-no mai falsità né bugia alcuna» (CXXXVII, § 1) –dà indubbiamente adito a riflessioni trasversali, di natura tanto storico-evenemenziale quanto stilistico-letteraria. Accostato alle Satire e ai dati autobiogra-fici desumibili dalle stesse, il carteggio ariostesco – con la sua prosa essenziale – aggiunge un ulteriore, eccezionale tassello alla ricostru-zione del profilo dell’Ariosto ‘uomo di corte’, del ministeriale in-quadrato in un ordinamento cogente e totalizzante, consentendoci peraltro di risolvere quel «dilemma di azione e contemplazione» che – parole di Cesare Segre – «ha spesso diviso la critica italiana» nel delineare il ritratto del poeta.96

Di certo non v’è dubbio che i problemi, le incertezze, gli scru-poli saggiati dall’autore nel triennio passato in Garfagnana trovino la loro «espressione più armoniosa ed artisticamente valida» nel cor-pus satiresco, mentre acquistino nelle aride Lettere ora la rudezza pungente di una «ferita», ora l’incisività comunicativa di un «gri-do»;97 ciononostante, l’epistolario – da tempo riabilitato dalla criti-ca –98 ci consente di andar oltre i limiti – imposti dalla fictio poetica

95. Si veda SFORZA, Documenti, p. 331. Il documento reca data 5 giugno 1525;

Ariosto dismise effettivamente la carica commissariale il 20 o il 21 dello stesso mese. Si veda CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita, vol. I, p. 550.

96. CESARE SEGRE, Esperienze Ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966. 97. SEGRE, Premessa alle Satire, p. 5. 98. Non tutto il mondo accademico è rimasto insensibile al ‘fascino’ delle Let-

tere. Tra gli studi che hanno cercato di trovare per l’epistolario ariostesco – dice lo Stella (Introduzione, p. VIII) – un’«esatta collocazione prospettica» rispetto al Furioso, alle Satire e alla restante produzione letteraria del poeta, si segnalano:

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– della celeberrima Satira IV. Infatti, quando Ariosto vi accentua l’entità d’un fallimento o il senso di disagio sperimentato in quella «fossa […] profonda» in cui risiedeva e dalla quale non poteva sco-starsi «senza salire / del silvoso Apennin la fiera sponda» (vv. 142-144), egli ha ben fisso nella mente – trovandosi alle prese con il ge-nere oraziano per eccellenza, quello satirico – l’ossimorico motivo della «strenua inertia», la smaniosa indolenza celebrata dall’Ape del Matino nel libro I delle Epistulae come la principale fonte d’afflizio-ne per il saggio.99 Ludovico, pertanto, esagera volutamente nel con-fezionare un rendiconto così disastroso delle esperienze vissute nel «rincrescevol laberinto» (Sat., IV, v. 171) garfagnino, instaurando, quale vecchio cultore di Orazio, un dialogo intellettuale con l’auc-toritas di riferimento, andando a riproporre il topos – tanto caro alla latinità – del sapiente alla forsennata ricerca di una tregua dagli affanni, ancorché incapace di adattarsi alla commutatio loci e di co-struirsi un «nido» dove coltivare serenamente le Muse.100

Le epistole dell’Ariosto, al contrario, rispondendo a finalità dia-metralmente diverse, non mancano di esaustività; col rischio di ri-sultare pedanti e scialbe, esse registrano minuziosamente l’attività commissariale del poeta, rendendo possibile la stesura di un bilan-cio complessivo circa l’operato ariostesco in Garfagnana. Tra i falli-menti di messer Ludovico figura senz’altro l’inconcludente lotta contro il brigantaggio, la quale produsse risultati minimi. Tuttavia, leggendo le missive, pare che ciò non si fosse verificato per demeriti esclusivi dell’Ariosto. Il commissario generale – carte alla mano – agì scientemente nei limiti operativi impostigli da un principe as-sente e da sudditi che – spiega Angelo Spaggiari –101 si ritenevano an-zitutto «uomini del proprio comune, in secondo luogo uomini

BINNI, Metodo e Poesia di Ludovico Ariosto; CESARE SEGRE, Premessa alle Satire, edizione critica e commentata, Torino, Einaudi, 1987; LANFRANCO CARETTI, Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1961.

99. Ep. I, 11, v. 28. 100. L’accezione, così pascoliana, del ‘nido’ quale luogo familiare (e conge-

niale) in cui dare libero sfogo alla propria vena artistica, è presente già nella satira IV: «Già mi fur dolci inviti a empir le carte / li luoghi ameni di che il nostro Reggio, / il natio nido mio, n’ha la sua parte» (vv. 115-117).

101. ANGELO SPAGGIARI, Considerazioni sulla legislazione statutaria della Garfa-gnana estense, in La Garfagnana. Storia, cultura, arte. - Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo Garfagnana il 12 - 13 settembre 1992, Modena, Aedes Muratoriana, 1993, pp. 147-161.

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di vicaria, e solo in ultima istanza, e saltuariamente, uomini di pro-vincia». Stando a quanto viene riportato nel carteggio ariostesco, Alfonso I mantenne un comportamento altalenante e approssima-tivo nell’impartire istruzioni a Castelnuovo. Dalle sollecitazioni del maggio 1523 ad «ardere e spianare le case» di banditi e assassini, in giugno l’Artigliere passò a prescrivere a Ludovico la massima circo-spezione, onde non attizzasse «li galavroni» in quel remoto angolo di Toscana (LXXVII, § 1 e XCVII, § 8). Talora, invece, il benessere della Garfagnana e la stabilità del contrafforte occidentale dovet-tero soggiacere ai capricci di gola del Signore d’Este. Accadde nel-l’aprile del ’23: virtualmente degradato a dispensiere, Ariosto ven-ne infatti distolto dagli usati affari per reperire sul territorio – con gran spreco di tempo ed energie – «li prugnoli e […] le trote» pretesi da Ferrara (LXIV, § 24-26). Adoprarsi perché gli esigenti palati della mensa ducale fossero adeguatamente soddisfatti rientrava nelle mansioni annesse alla soggezione cortigiana; è l’infelice tempistica con cui questa fatica venne richiesta che, a ogni buon conto, turba i lettori moderni, tanto quanto all’epoca – sarebbe lecito supporlo – urtò l’intelligenza di un governatore preso da problemi ben più gravi. Tutt’altro che rosei nel quadro dipintoci da messer Ludovico, i rapporti tra il commissario e il Duca rimangono ancora incerti nella loro reale entità, essendo unilaterale la fonte da cui giungono i fatti precedentemente citati. Comunque sia, future indagini d’ar-chivio potranno senz’altro gettare ulteriore luce sulle effettive dina-miche con cui si consumò, in territorio garfagnino, la difficile su-bordinazione dell’Ariosto ad Alfonso I.

Tra i meriti dell’autore va invece annoverata l’attitudine propo-sitiva con cui assolse al proprio ruolo. In anticipo di due lustri sul-l’edizione bladense de Il Principe (1532), il nostro consigliò la costi-tuzione di una milizia civica provinciale, intravedendovi le mede-sime potenzialità successivamente esaltate da Machiavelli (De Prin-cipatibus, XIII).102 Caparbio, Ludovico pianificò retate ed operazioni anti-banditesche cercando di coinvolgervi Lucchesi e Fiorentini, né disdegnò – se forzato – di rivolgersi con schietto utilitarismo alle brigate dell’Amorotto per «purgare» il paese delle sue «male herbe» (CXXVI, § 7). Grazie ai rudimenti d’arte militare assorbiti durante

102. NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il Principe, Manchester, Manchester University

Press, 1979, XIII, p. 41.

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l’apprendistato giovanile, concordò con gli Anziani di Lucca un pia-no congiunto di risposta rapida contro i raid predatorî della crimi-nalità garfagnina, i quali sarebbero stati preventivamente segnalati dal suono di una «campana a martello» (Lett., LXII e LXV). Sconvol-to infine dalla corruttela e dal nepotismo imperanti fra «li Sindici et officiali de li commu<ni>», il poeta propose una riforma avveni-ristica dei meccanismi d’elezione, suggerendo al Duca d’autorizzare la votazione diretta – «per ballotte» e «senza fraude» – dei rappre-sentanti locali (CXXXVII, § 4).

Come definire allora l’intervallo di tempo speso da messer Lu-dovico in Garfagnana? Esso fu un cruciale spartiacque nell’esi-stenza ariostesca, paragonabile per rilevanza all’incontro con Pietro Bembo. Sebbene studiosi dell’importanza di Angelo Stella asseri-scano che, «svanito il contatto con la provincia terribile», il manda-to commissariale «sia stato nella sua dura cronaca e nel suo stimolo sociale rapidamente dimenticato»,103 gli scritti licenziati dal vate reg-giano post 1525 rivelano tutt’altro e lasciano intravedere le ripercus-sioni che la dimora castelnovese ebbe sul suo percorso formativo. Effettivamente, i tormenti dell’Ariosto ‘governatore’ modificarono in maniera indiscutibile la Weltanschauung dell’Ariosto ‘autore’, in-fluendo per vie traverse sulla redazione sia delle aggiunte al Furioso del 1532, sia dei Cinque Canti.

Tra gli episodi introdotti nella terza edizione dell’Orlando ai quali si potrebbe attribuire una matrice garfagnina vi sono le ottave centrali del canto XLV, dove il bizantino Leone e un suo sodale, capitati ambedue nella stessa torre in cui Ruggiero era stato segre-gato per volere di Teodora, riescono ad evadere portandosi ap-presso il paladino di Risa.104 Il passo (invero la sola ott. 44, vv. 5-8)

103. ANGELO STELLA, Introduzione alle Lettere, p. XXVII. 104. ARIOSTO, O. F., XLV, ott. 42-45: «Il cortese Leon che Ruggiero ama / […]

molto fra sé discorre, ordisce e trama, /e di salvarlo al fin trova la via, [...] Parlò in secreto a chi tenea la chiave / de la prigione; e che volea, gli disse, / vedere il cavallier pria che sì grave / sentenza, contra lui data, seguisse. / Giunta la notte, un suo fedel seco have / audace e forte, ed atto a zuffe e a risse; / e fa che ’l castellan, senz’altrui dire / ch’egli fosse Leon, gli viene aprire. / Il castel-lan, senza ch’alcun de’ sui / seco abbia, occultamente Leon mena / col compa-gno alla torre ove ha colui / che si serba all’estrema d’ogni pena. / Giunti là dentro, gettano amendui / al castellan che volge lor la schena / per aprir lo sportello, al collo un laccio, / e subito gli dan l’ultimo spaccio. / Apron la cataratta, onde sospeso / al canape, ivi a tal bisogno posto, / Leon si cala, e in

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fu presentato da Walter Binni come una genuina filiazione dell’in-terludio commissariale, in virtù del crudo realismo, di quel «gusto risolutivo e spietato», con cui è alluminato lo strangolamento del castellano posto a guardia delle segrete.105 La conclusione – stando alla quale la prosaicità dell’omicidio commesso dal «cortese» Leone deriverebbe da un indistinto bagaglio di sanguinose reminiscenze toscane proprio dello scrivente – non convince del tutto. Binni, di-fatti, nel ricercare la sorgente immaginifica del frammento citato, indugia sul generale dimenticandosi del particolare. Volendo en-trare nel dettaglio, la fuga di Ruggiero dal carcere ha, nelle Lettere (CVIII), un nitido precedente da cui trarre spunto: l’evasione di Moro dal Sillico dalla Rocca di Castelnuovo.106 Similmente al capo-stipite della dinastia estense, il bandito sillichino si sottrasse ai cep-pi avvalendosi di un basista esterno, senza peraltro uccidere nessu-no dei suoi aguzzini. Così, una tranquilla mattina di agosto, messer Ludovico – qui incredibilmente affine al personaggio di Ungiardo che, sul far dell’alba, trovava «Ruggier fuggito, il suo guardian stroz-zato / […] e aperta la prigione» –107 conobbe i pungoli aguzzi della frustrazione, assaporò il boccone amaro del raggiro, pur risparmian-dosi – questa l’unica difformità col signore di Novengrado – il cor-doglio per la perdita d’un subordinato.

Viceversa, nei Cinque Canti, i richiami alla stagione garfagnina si fanno innegabilmente più sfumati. Accettata la datazione post 1521 della «gionta» del Furioso avanzata dal Segre nonché recente-mente avvalorata dalle ricerche di Ida Campeggiani,108 si possono rinvenire nell’architettura dei Canti alcuni passaggi legati in ma-niera a tal punto sospetta alla Garfagnana da far supporre una loro composizione durante gli anni del governatorato generale, sia che si tratti dell’episodio di Ottone e Bianca di Villafranca (CC II, 60-

mano ha un torchio acceso, / là dove era Ruggier dal sol nascosto.».

105. WALTER BINNI, Ariosto – scritti (1938-1994), Firenze, Il Ponte, 2015, pp. 387-389.

106. Cfr. p. 50. 107. ARIOSTO, O. F., XLV, ott. 50, vv. 1-2. 108. CESARE SEGRE, Nota al testo in LUDOVICO ARIOSTO, Orlando Furioso, a

cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 1976; IDA CAMPEGGIANI, L’ultimo Ariosto – Dalle Satire ai Frammenti autografi, Pisa, Edizioni della Normale, 2017, pp. 119-217.

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73) – probabilmente ispirato alle vicende umane di Tommaso Ma-laspina e Bianca di Collalto, svoltesi in Lunigiana mentre Ariosto reggeva la limitrofa Valle del Serchio – o del frequente ricorso del-l’autore ad ambientazioni in cui scenografie alpino-appenniniche vengono poste in relazione con paesaggi marittimi circoscrivibili al-la zona dell’Alta Toscana (CC II, 73, vv. 1-3; CC II, 60; CC II, 18).109 Per giunta, nel raffigurare lo scosceso sentiero tendente alla rupe ove alberga la personificazione del Sospetto, il poeta reggiano – me-more forse delle notti insonni trascorse, divorato dall’angoscia, fra i «monti / che danno a’ Toschi il vento di rovaio» (Sat., IV, vv 2-3) – chiama simbolicamente a paradigma i tortuosi viottoli di Luni-giana, usi ai briganti e ai cavatori del ferro garfagnini. Non si tratta di un accostamento casuale: infatti, se i Cinque Canti incarnano il lucido attacco di un Ludovico ormai disilluso alla società rinasci-mentale e ai suoi vuoti retaggi feudali, se essi rappresentano davvero l’arazzo sul cui ordito l’autore diede forma alle laceranti contraddi-zioni delle corti principesche e alle tribolazioni del «populo inno-cente»,110 analogamente la fase commissariale costituì il banco di prova attraverso il quale egli poté esperire, senza filtri, i chiaroscuri del potere.

E riguardo all’epistolario? Circa le modalità con cui le Lettere entrano nell’equazione si sono espressi Giulio Ferroni e Stefano Jossa.111 In sostanza, il carteggio garfagnino fu per Ludovico una fu-cina di scrittura in prosa, una preziosa palestra dove perfezionare le proprie abilità di narratore e raggiungere la piena maturazione lin-guistica confrontandosi con interlocutori prevalentemente toscani. In esso, nel suo «retroterra concreto»,112 l’inventiva ariostesca rin-venne un sostrato esperienziale affollato di scene di sedizione, rapi-menti, uccisioni, inganni, attingendo al quale fu in grado di pla-smare le visioni pessimistiche e cruente degli ultimissimi parti let-terari.

Superata allora la fase del silenzio poetico indotto dalla mobili-tazione garfagnina (Satire, IV, vv. 16-18) e dismesse le vesti del com-

109. CAMPEGGIANI, L’ultimo Ariosto, pp. 183-186. 110. ARIOSTO, O. F., Canto V, ott. 5, v. 1. 111. GIULIO FERRONI, Ariosto, Roma, Salerno Editrice, 2008, p. 109; STE-

FANO JOSSA, Ariosto, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 79. 112. FERRONI, Ariosto, p. 109.

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missario integerrimo (determinato a non avere, per l’intera esten-sione del suo mandato, «alcuno amico, se non la giustitia»)113, Ario-sto ritornò alla poesia con una disposizione d’animo inedita, con quella «tonalità amara e polemica»114 che innerva il congedo dell’au-tore dalla materia cavalleresca.

113. Lettere, CLX, § 15: «Finch’io starò in questo officio, non sono per <ha-

verm>i alcuno amico, se non la giustitia». 114. CAMPEGGIANI, L’ultimo Ariosto, p. 20.

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MARIO CARLESSI

TRA ‘CESANO’ E ‘LETTERE’: CLAUDIO TOLOMEI

E LE RAGIONI DEL VOLGARE

L’epistolario di Claudio Tolomei ricopre, forse con un leggero scorno del suo stesso autore, una posizione di primaria importanza nella sua opera: il Tolomei, che fu senz’altro una delle figure di spic-co della questione cinquecentesca della lingua, si sarebbe magari augurato di raggiungere la fama presso contemporanei e posteri per un suo contributo alla questione stessa, nella quale invece rimase uno dei punti di riferimento indiscussi ma solo a livello morale, per così dire, e culturale, e non nei risultati effettivi. Il suo contribu-to più importante alla questione fu Il Cesano de la lingua toscana1 del 1525, dialogo nel quale venivano passate in rassegna le posizioni forti del filone onomastico della questione ma che, per una tratta-zione tutto sommato un po’ superficiale e per un’infelice coinciden-za cronologica (è lo stesso 1525 delle Prose del Bembo), venne igno-rato, dimenticato e pubblicato addirittura solo trent’anni dopo, nel 1555 a Venezia.

Il Cesano si inserisce infatti nel solco di quel filone minoritario – per quanto polemico e sentito – della questione della lingua che abbiamo chiamato ‘onomastico’ perché, di fatto, i suoi protagoni-sti, animati da vivo spirito campanilistico, si sforzarono di portare e riservare a una parte o un’altra d’Italia le glorie della lingua volga-re. La questione emerse quando, nel 1524, Gian Giorgio Trissino pubblicò la sua Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana.2 Nell’Epistola, in realtà, il letterato vicentino proponeva un adeguamento dell’alfabeto latino alla fonetica italiana con l’aggiun-ta di alcune lettere, perlopiù greche, la cui introduzione avrebbe potuto rimuovere lo iato – di fatto ancora perdurante nell’italiano odierno – tra la grafia latina e i nuovi fonemi italiani: e quindi l’omega greco sarebbe servito a distinguere la o aperta (scritta perciò

1. CLAUDIO TOLOMEI, Il Cesano de la lingua toscana, a cura di Ornella Castel-

lani Pollidori, Firenze, Accademia della Crusca, 1996. 2. Leggo l’epistola in Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di Mario

Pozzi, Torino, Utet, 1988.

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ω) dalla chiusa (scritta normalmente o), la epsilon per la e aperta, la ζ per la z sonora da distinguere dalla sorda, ecc. Tuttavia, l’Epistola alla fine suscitò più reazioni per quell’aggettivo del titolo riferito al-la lingua, italiana, piuttosto che per la riforma ortografica proposta. E così, alla proposta trissiniana seguirono rapidissime prese di posi-zione: immediate furono quella di Angelo Firenzuola (amico e cor-rispondente epistolare del Tolomei, di posizioni assai simili al No-stro nella questione), che pubblicò nel dicembre dello stesso 1524 un Discacciamento de le nuove lettere, inutilmente aggiunte ne la lingua toscana; e quella di Ludovico Martelli che, nello stesso mese e stesso anno, stampò la sua Risposta all’Epistola del Trissino delle lettere nuo-vamente aggiunte alla volgar lingua fiorentina (si noti in entrambi i casi la sostituzione polemica di italiana con toscana e fiorentina).3

Il Cesano del Tolomei cercò di esporre la propria tesi – che la lingua fosse toscana – inserendola all’interno delle altre più famose posizioni dell’epoca nel frattempo riordinate in maniera schemati-ca: quella del Trissino (lingua italiana), del Machiavelli (fiorentina), del Castiglione (cortigiana).4 Il personaggio del Bembo, invece, nel dialogo sostiene l’improbabile tesi che la lingua sia volgare «perché il vulgo (nel qual vocabolo tutti gli huomini di un paese si racco-gliono) è fabbro e maestro de le lingue e de le parole» e siccome «il volgo è architetto de la lingua, però la lingua è volgare»:5 niente di

3. Cfr. l’introduzione di Paolo Trovato a NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorso

intorno alla nostra lingua, a cura di Paolo Trovato, Padova, libreriauniversita-ria.it, 2014, p. XXIX.

4. Per la tesi italiana cfr. GIAN GIORGIO TRISSINO, Dialogo intitulato il Castel-lano nel quale si tratta de la lingua italiana, Vicenza, Ianiculo, 1529. Per quella fiorentina MACHIAVELLI, Discorso, anche se il testo è più famoso oggi che all’epoca della questione (nel dialogo, peraltro, la tesi fiorentina è sostenuta da Alessandro de’ Pazzi). Per quella cortigiana cfr. in particolare la lettera dedica-toria del Cortegiano, rivolta a don Miguel da Silva e preposta al testo medesimo del Cortegiano nella quale Castiglione si difende dalle accuse di non aver «imi-tato il Boccaccio» e cioè di non aver aderito alle prescrizioni linguistiche bem-besche. (BALDASSAR CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di Walter Bar-beris, Torino, Einaudi, 2017, p. 8). La tesi del Tolomei è affidata all’amico Gabriele Cesano, destinatario di diverse lettere dell’Epistolario perlopiù di ca-rattere politico, compresa quella per cui l’epistolario venne condannato e riti-rato poco dopo la pubblicazione, salvo poi essere rimesso in circolazione quasi subito. Cfr. infra.

5. Il discorso del Bembo è il capitolo II del Cesano. TOLOMEI, Cesano, pp. 7-10.

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più diverso e anzi antitetico rispetto alle reali idee linguistiche del Bembo, non solo aristocratiche ma anche apertamente ‘antipopola-resche’, sempre tese cioè a conformare la lingua volgare ai massimi modelli trecenteschi, separandola invece dalla lingua dell’uso, che non fu mai presa in considerazione dal Bembo né come punto di partenza né d’arrivo. Peraltro, nell’opera del Bembo si trovano con la stessa frequenza le denominazioni di fiorentino e toscano accanto a quella di volgare, sintomo dell’estraneità del Bembo al filone ono-mastico della questione.

Il Bembo del Cesano sostiene idee così bizzarre perché venne scritto prima della pubblicazione delle Prose, nell’estate del 1525, quando si sapeva che il Bembo stava per pubblicare il suo contribu-to alla questione e si conosceva il titolo dell’opera, ma se ne poteva solamente indovinare il contenuto.6 E il Tolomei, in buona sostan-za, indovinò male, sbagliò ipotesi. Sulla base del confronto con l’E-pistola del Trissino per la lingua italiana, con il Discacciamento del Firenzuola per quella toscana, con la Risposta del Martelli in favore della fiorentina, così il Nostro immaginò che il Bembo stesse per so-stenere nelle sue Prose delle brevi ragioni che potessero meramente proporre la denominazione di volgare per la nostra lingua. Dopo il settembre del 1525, il Tolomei dovette facilmente capire di non avere a che fare con un semplice contributo al filone onomastico della questione, ma con una riorganizzazione completa della lingua italiana, con la sua sistemazione definitiva tanto attesa, e con la fine di quella fase della questione.

Il Cesano, a quel punto, privato di interesse e di spessore, già superato prima di essere pubblicato, rimase nel cassetto fino a quando l’editore Giolito di Venezia non lo stampò nel 1555: ormai smussato nella sua incisiva attualità e nella sua verve polemica, va-leva solamente a restituire al pubblico una bella testimonianza di una disputa già lontana nel tempo e oramai chiusa. Il Tolomei ripo-se allora le sue maggiori speranze nell’Eccellenza della lingua toscana (1527 ca.), ma anche quest’opera fu sfortunata, benché per altri mo-tivi: essa non vide mai la luce a causa delle turbolenze del Sacco di Roma, nel quale andò dispersa:

6. Cfr. l’introduzione all’ed. critica citata di Ornella Castellani Pollidori, nella

quale viene efficacemente sostenuta la datazione dell’estate 1525 per la compo-sizione del dialogo del Tolomei.

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Quello scellerato sacco di Roma, […] oltre agli altri gravi danni che mi fece, non si vergognò por la brutta mano ne le scritture e dispergermi questa insieme con alcune altre mie povere e misere fatiche. Ma ringraziato sia Iddio, che almeno non si disperse la mente, la quale come madre di questo parto ne potrà forse rifar degli altri.7

La fama del Tolomei, allora, si legò al ricco e per molti versi

mirabile suo epistolario, uno dei più letti del secolo, stampato senza il consenso dell’autore nel 1547.8 Il senso profondo dell’epistolario del Tolomei, credo, sta nella sua statura retorica e rispecchia, come non sempre accade, il valore storico del suo autore. Claudio Tolo-mei fu uno dei più famosi e apprezzati retori volgari del primo Cin-quecento; la sua rilevanza storica sta nell’aver difeso con il suo peso intellettuale la dignità della lingua volgare in un periodo storico in cui «la poverella»9 veniva ancora non infrequentemente vituperata. La valenza letteraria e storica dell’epistolario del Tolomei perciò coincidono e stanno nel suo essere – in ogni lettera, perfino in quel-le più quotidiane – esempio di bello stile. La maestria linguistica del Tolomei diede lustro alla lingua italiana10 e contribuì alla sua

7. Eccellenza della lingua Toscana doveva probabilmente essere proprio il titolo

dell’opera. Cfr. la lettera a Fabio Benvoglienti del 13 giugno (senza indicazione d’anno), incipit «Io ho paura che non mi bisogni dir di voi quel che diceva Cassio di Bruto», cc. 192r-192v dell’ed. citata alla nota seguente.

8. CLAUDIO TOLOMEI, De le lettere di M. Claudio Tolomei libri sette, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1547. Le epistole del Tolomei furono raccolte per la pubblicazione da Fabio Benvoglienti, amico e interlocutore costante del To-lomei. Per la storia della pubblicazione dell’epistolario e la condanna ad esso inflitta nel 1548 da Siena per una lettera del Tolomei al Cesano, cfr. LUIGI

SBARAGLI, Claudio Tolomei, umanista senese del Cinquecento [1939], Firenze, Ol-schki, 2016, pp. 91 e ss. Cfr. anche la lettera a Paolo Manuzio del 2 agosto 1544, TOLOMEI, De le lettere, cc. 79v-80v, nella quale dimostra di aver raccolto e diviso in sette libri le sue lettere volgari, salvo poi accantonarle. Per la grande fortuna dell’epistolario del Tolomei, che ebbe quattro ristampe in meno di dieci anni, cfr. LODOVICA BRAIDA, Libri di lettere: le raccolte epistolari del Cinque-cento tra inquietudini religiose e buon volgare, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 109, 264 e passim. La punteggiatura, non autoriale, rende farraginosa la lettura. Per-ciò, nelle citazioni seguenti la riporterò parzialmente corretta da me ove sia ritenuto necessario per una migliore fruizione.

9. Cfr. infra, lettera del Bembo sulle prolusiones dell’Amaseo. 10. Si userà, in questo saggio, indifferentemente, l’espressione di lingua ita-

liana, lingua volgare o, al massimo, per assecondare le idee linguistiche del To-lomei stesso, lingua toscana. Ad ogni modo s’intenderà pur sempre la stessa

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definitiva affermazione, avvenuta appunto in seguito alla questione cinquecentesca e per opera di spiriti appassionati come lui.

Solo nell’ottica della valorizzazione del volgare si possono giu-stificare talune sue lettere, come quella, tanto per fare un esempio, del 26 luglio 1543 a Giovambattista Grimaldi, uno degli amici più cari del Tolomei e uno dei suoi interlocutori costanti nell’epistola-rio. Il Grimaldi, che, possiamo immaginare dalla risposta del Tolo-mei, rivolse all’amico l’innocua e usuale domanda di «com’è andata la tal cena a cui eri invitato ieri sera?», ricevette come risposta dal colto umanista senese: una lode preliminare delle sorgenti d’acqua che raggiungono Roma grazie alla riforma della rete idrica del-l’Urbe operata da Agrippa in epoca augustea; la bella descrizione – quasi ecfrasi di gusto già barocco nella sua indecisione fra la supe-riorità di Arte o Natura – degli zampilli creativi di una fontana della villa ospitante; un dotto excursus sul convito, tra letteratura e buon costume; e, finalmente, la descrizione della cena, impreziosita, va da sé, da allusioni o rinvii espliciti a Zoroastro, Cicerone, Varrone e Plutarco.11

[Il Tolomei, invitato a cena a casa di Agapito Bellomo, del giardino di que-sti loda] l’ingegnoso artifizio nuovamente ritrovato di far le fonti […] ove mescolando l’arte co la natura non si sa discernere s’ella è opera di questa o di quella; anzi hor altrui pare un naturale artifizio e hora una artifiziosa natura. […] Ma quel che più mi diletta in queste nuove fonti è la varietà de’ modi co’ quali guidano, parteno, volgono, menano, rompeno, e hor fanno scendere e hor salire l’acque. [...] Havvene altre che per via di zam-pilli in aria salendo, come lor manca la forza d’ire in alto si ripiegano al basso, e ripiegando si spezzano, e in varie gocce si rompeno, e con dolcis-sima pioggia, quasi lacrime d’innamorati, cadeno a terra. [...] Ma di quelle è da pigliar gran diletto, le quali stando nascoste, mentre l’huomo è tutto involto ne la maraviglia di sì bella fonte, in un subbito come soldati che escon d’agguato, s’apreno, e disavvedutamente assagliono, e bagnano altrui onde nasce e riso e scompiglio e piacer tra tutti.

cosa, ovverosia la lingua comune già esistente a quest’altezza, e che il Salviati definiva lingua «corrente» (ne tratta in Degli avvertimenti della lingua sopra ’l De-camerone, libro II, cap. V; si trova anch’esso in Discussioni linguistiche del Cinque-cento, pp. 813 e ss.)

11. Zoroastro o più probabilmente dagli Oracoli Caldaici, nel Rinascimento erroneamente attribuiti al leggendario mistico iranico. TOLOMEI, De le lettere, cc. 31r-32v.

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E, si noti, già prima della pubblicazione dell’epistolario alcune lettere del Tolomei venivano lette e rese pubbliche, spesso proprio ad opera del Grimaldi.12 Perciò, per quando dissimulata, la coscien-za del valore pubblico e culturale delle proprie lettere volgari era ben presente al Tolomei. L’ostentata rielaborazione retorica, ten-dente con decisione verso l’alto, è dunque il tratto costante dell’in-tero epistolario, che lo percorre trasversalmente e lo segna in modo determinante. Perpetrato con regolarità anche nelle pieghe più quotidiane, esso è il mezzo attraverso il quale il Tolomei perviene allo scopo precipuo della pubblicazione della raccolta di lettere, al di là delle loro singole contingenze: la valorizzazione del volgare.

La celebre Orazione della Pace,13 d’altronde, risponde alle stesse finalità. Composta in un delicato momento storico-politico,14 fu pronunciata in un contesto di particolare importanza, durante cioè l’incontro a Bologna, tra il 1529 e il 1530, di Clemente VII e di Carlo V per le trattative di pace conseguenti alle vicissitudini belli-che di quegli anni – le guerre d’Italia, come siamo soliti chiamarle – culminate nell’episodio del Sacco di Roma del 1527. La conver-genza in una stessa città dei più importanti signori d’Italia, legati in vario modo all’una o all’altra autorità, e del relativo seguito, pro-

12. Come è espressamente ammesso nella lettera al Grimaldi del 25 maggio

1543. Ivi, c. 28v. 13. CLAUDIO TOLOMEI, Orazione de la pace, Roma, Blado, 1534. 14. Le circostanze politiche erano più o meno queste: Carlo V era stato di

fatto, con il suo tacito assenso prima e con il suo mancato intervento poi, il vero responsabile del Sacco di Roma (1527), la cui onta era del tutto fresca nella memoria del papa. Clemente VII, costretto per otto mesi in Castel Sant’Angelo, prigioniero in casa propria, circondato da una città in preda al saccheggio alle fiamme all’anarchia alla peste, venne liberato solo nel gennaio 1528 dall’intervento francese. Tra le conseguenze del Sacco vi fu anche la per-dita di Firenze e la cosiddetta terza cacciata dei Medici: si può allora capire facilmente come fosse allettante per il mediceo Clemente VII la tentazione di un’alleanza con Francesco I re di Francia e la prosecuzione della guerra. Il papa si trovava dunque a poter scegliere tra la possibilità di dar sfogo al proprio de-siderio di vendetta contro Carlo V – alleandosi con Francesco I e dando così seguito alle guerre d’Italia – o quella di rendersi garante, come accadrà, della pace che tratterà giustappunto nel 1529 a Bologna con l’imperatore e che verrà sancita dall’incoronazione imperiale di Carlo V. Cfr. per tutto questo MARCO

PELLEGRINI, Le guerre d’Italia 1494-1530, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 180-185.

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dusse la confluenza straordinaria in una stessa città dei migliori in-tellettuali e letterati legati alla questione della lingua e rappresentò un’occasione unica di confronto. L’entusiasmo del Tolomei lo spinse a convocare anche il Firenzuola che avrebbe potuto dar man forte ai toscani nelle assai probabili discussioni sulla lingua che sa-rebbero nate con i «Lombardi».

Ricordatevi Firenzuola di quel concilio? Quando noi per istrigar molti dubbi de la lingua nostra lo tentammo in Roma? Ma la malagevolezza di raccoglier molti huomini dotti che erano sparsi per Italia ce lo fece intrala-sciare. Qui hor di nuovo si pone innanzi, ch’essendoci venuto il Bembo, guida e maestro di questa lingua, non è ben che si perda sì bella occasione. Ecci poi una selva di gentili ingegni, il Priolo dico, il Trissino, il Molsa, il Guidiccione, il Broccardo, e molti altri ch’ogni giorno con la lingua e con la penna si fanno illustri. Ma la somma e il fondamento è nel Bembo.15 A me parrebbe, che se bene havete sprezzato il concilio che fanno insieme il Papa e l’Imperatore, voi almeno apprezzaste il nostro; anzi il vostro dico, che prima in Roma lo poneste innanzi e più ch’altri lo affrettavate. Il Gui-diccione, il Benassai e io (o ci fusse l’Alamanno!) ve ne preghiamo, che se pur con questi Lombardi facessimo quistione, sappiam certo che v’have-rem da la nostra. Non mancate (vi prego) al vostro vecchio disiderio, né al nostro nuovo. Godete e venite.16

15. Non credo che la reverenza concessa al Bembo dal Nostro in questa lettera

sia una «cortigianeria». Paolo Trovato commenta così il passo in questione nella sua già citata introduzione al Discorso del Machiavelli, p. LIV: «le cortigianerie relative al Bembo non si confanno alle idee linguistiche del mittente e del de-stinatario, e saranno state introdotte forse in occasione della stampa». L’ammi-razione per il Bembo del Tolomei credo che fosse sincera. D’altronde, già prima del 1525 gli riservò un ruolo di primo piano nel Cesano dove il Bembo parla per primo e tutti lo riveriscono. Inoltre, il Bembo si mantenne sempre estraneo alle dispute minute ed aspre del filone onomastico della questione, perciò non sorprende affatto l’ammirazione del Tolomei per il più grande interprete della questione, della cui opera fondamentale egli intuì prontamente l’importanza e la portata tanto da precludere per ciò la pubblicazione del suo Cesano. Credo, insomma, che prevalessero, agli occhi del Tolomei, l’ammirazione e la stima per «la somma e il fondamento» di tutti gli ingegni che amavano sinceramente la lingua volgare e si adoperavano per essa.

16. Lettera al Firenzuola dell’8 novembre 1529 (data proposta grazie alla cor-rezione del Rajna – segnalata da Paolo Trovato in MACHIAVELLI, Discorso, p. LIV: la sequenza degli ultimi due numeri della data risulta invertita nella cin-quecentina, presentando perciò MDXXXI da MDXXIX). TOLOMEI, De le let-tere, c. 77v.

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L’entusiasmo, tuttavia, fu smorzato e sferzato dalle due scomo-de e roboanti prolusiones di Romolo Amaseo del 1529 dal titolo De linguae Latinae usu retinendo.17 Pronunciate in occasione dell’inaugu-razione dell’anno accademico in una Bologna affollatissima e al centro delle attenzioni del mondo, esse produssero un’eco avverti-bile tuttora nelle parole del Bembo:

La poverella [la lingua volgare], farà molto male per lo innanzi in quella guisa vituperata da così grande uomo.18

Nel Dialogo delle lingue dello Speroni, di undici anni più tardo ma ambientato nel 1530, il Cortegiano del dialogo così si esprime sulle due orazioni dell’Amaseo:

Messer Lazaro,19 qui tra noi ditene il male che voi volete di questa lingua toscana; solamente quello non fate che fece l’anno passato messer Romolo in questa città; il quale orando publicamente con tante e tali ragioni bia-simò cotal lingua ch’ora fu che inanzi arei tolto d’esser morto famiglio di Cicerone, per avere bene latinamente parlato, che viver ora con questo Papa toscano.20

Nell’orazione, che il Tolomei pronunciò in prima persona al

papa nel 1529, il Nostro coglie l’occasione di rallegrarsi per la ritro-vata salute di Clemente VII, colpito in quell’anno da grave ma-lanno, per incitarlo poi a mantenere, con la sua, la recuperata salute d’Italia. Ma le ragioni politiche dell’orazione furono certamente se-condarie. Contemporanea alle prolusiones dell’Amaseo,21 l’orazione

17. ROMOLO AMASEO, Orationum volumen, Bologna, Rubrio, 1564, pp. 101-

146. 18. Lettera a Vittore Soranzo del 16 novembre 1529. PIETRO BEMBO, Lettere,

ed. critica a cura di Ernesto Travi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1987, vol. III, p. 88.

19. Lazzaro Bonamico, che nel dialogo sostiene le ragioni dei latinisti. 20. Discussioni linguistiche del Cinquecento, p. 290. 21. Sfugge la cronologia esatta dell’orazione. Anche sulla data di pubblicazione

c’è incertezza tra il 1533 di alcune fonti e il 1534 di altre; ma gli originali Blado dicono con certezza 1534, e comunque questo cambia poco. Ben più impor-tante sarebbe sapere il mese esatto in cui venne pronunciata, ovvero se prece-dette o seguì le prolusiones dell’Amaseo. Ma purtroppo, su questo punto, le fonti antiche dell’orazione tacciono, come tace lo Sbaragli.

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sembra esserne una risposta consapevole, giacché il Tolomei com-pose in toscano, e non in latino, un testo di un genere letterario fra i più alti in cui la lingua possa essere impiegata, l’orazione politica, indirizzata alle orecchie del principe della cristianità, del vicario di Cristo in terra. L’importanza della scelta del volgare per l’Orazione della Pace fu limpidamente avvertita dai contemporanei: nella let-tera prefatoria di Giovanni Guidiccioni a Vincenzo Buonviso, pre-posta al testo dell’orazione nell’edizione citata, si legge:

Ma dirò bene, che rechi laude a se medesimo et utilità al mondo colui, il quale ardisce con la Toscana favella manifestare i sensi et consigli della mente sotto le severe leggi degli oratori.22

22. Peraltro, il Guidiccioni, pur avendo imitato il Tolomei rivolgendo al Se-

nato lucchese una famosa orazione in lingua toscana, non condivideva le stesse convinzioni del Nostro sulla lingua o, quanto meno, dimostra un’oscillazione sconosciuta al Tolomei sulla questione della lingua e della dignità del volgare rispetto al latino. Nella lettera prefatoria queste parole precedono e seguono la citazione riportata: «Io non voglio, messer Vincenzo, che sia mia cura porvi nell’animo che l’orazione volgare sia di quella reverenza degna della latina: con-ciossiacosa che io farei grande ingiuria a quegli antichi divini scrittori, e avrei all’incontro tanti fieri avversari, che ritrovandomi forse solo non potrei resi-stere all’impeto; senza ch’io farei cosa diversa dai miei pensieri; ma dirò bene che […] chi si mette a questa degnissima impresa [di scrivere orazioni in volgare] conviene che egli abbia più che coi primi labbri gustato i fonti della latina: oltreché essendo ornata di splendidi vestimenti, di chiari lumi di parole e di altre infinite ricchezze, può essere la latina con i suoi seguaci liberalissima, dove la toscana, poco ricca di andamento e non ben dipinta di quei colori dei quali la grandezza dell’eloquenza risplende, non può così agiatamente farlo». Per Pie-tro Dazzi, che raccoglie le Orazioni politiche del secolo XVI (Firenze, Barbera, 1866), «il passo surriferito è riprova della tenacia de’ pregiudizi» del secolo XVI nei confronti del volgare. Le due prolusiones dell’Amaseo per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’università bolognese, ora si può intuire meglio, pro-nunciate di fronte ad un tale uditorio e da un tale studioso, dimostrano che, a distanza di secoli dalla presa di posizione dantesca e anche dopo il Bembo, la questione tra la superiorità del latino e la dignità del volgare era ancora pen-dente. Solo la terza e definitiva edizione dell’Orlando furioso dell’Ariosto (1532), e cioè la rielaborazione e riproposizione in conformità alle prescrizioni bembe-sche di un testo già letto, famoso ed amato, decretò la definitiva affermazione della lingua proposta dalle Prose e plasmata sui modelli trecenteschi. Il 1532 è, allora, se proprio vogliamo trovarla, la data convenzionale più adatta ad indi-care la fine della questione (cfr. MAURIZIO VITALE, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1984, p. 43). La condivisione della convinzione della di-gnità della lingua volgare, credo, è ciò che avvicina il Tolomei al Bembo e che

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E certo il Tolomei, fermo sostenitore della dignità della lingua volgare, era perfettamente conscio della necessità del suo impiego negli usi alti richiesti dall’oratoria per l’affermazione della lingua volgare stessa. Nella lettera a Giovanfrancesco Bini del 26 maggio 1543, così il Tolomei si pronuncia sulla sua Orazione della Pace:

Quantunque tutti li stili e de l’epistola e de l’historia e del dialogo in questa lingua mi piacciono sommamente, non di meno lo stil de l’orazione sopra tutti gli altri mi diletta e mi rapisce. Certo quando io feci già quella della Pace, non da altra cagione fui mosso maggiormente, che per mostrar al mondo come questa nostra lingua Toscana era atta ad isprimere altamente e in orazioni tutti i gran concetti. La qual cosa in que’ tempi da certi litte-rati di debile stomaco non era creduta.23

Uno degli aspetti più sorprendenti della questione della lingua

del Cinquecento, a mio parere, è proprio la consapevolezza lingui-stica che dimostrarono i suoi protagonisti trecento anni prima della nascita della linguistica come disciplina scientifica. Tra i criteri con cui la linguistica moderna stabilisce il limite tra una lingua, una varietà linguistica minore e un dialetto, c’è la sua capacità di adat-tarsi «a tutti gli usi e domini di impiego, anche quelli alti e setto-riali»; oltre ovviamente ad altri, tra i quali la codificazione (ovvero «l’esistenza di un corpo riconosciuto di regole normative di riferi-mento […] fissate in grammatiche e dizionari») e la tradizione lette-raria illustre (cioè il novero degli autori illustri di quella lingua): criteri entrambi soddisfatti e fissati dalle Prose del Bembo.24 La cita-zione della lettera al Bini dimostra che il Tolomei – come il Bembo – era altamente consapevole della necessità di impiegare il volgare anche per gli usi alti affinché il volgare divenisse pienamente una lingua; si dimostrò, insomma, consapevole di un criterio fissato in

spiega l’ammirazione di cui s’è detto.

23. TOLOMEI, De le lettere, cc. 46v-47r. 24. Chiamo lingua quella che propriamente si chiama varietà standard di lingua.

Le regole per l’identificazione dello standard variano leggermente fra un autore ed un altro. Ad ogni modo, la codificazione e la tradizione sono quasi ovunque criteri fondamentali per l’identificazione delle varietà standard di lingua. Si possono controllare le proprietà dello standard in un qualunque manuale di sociolinguistica. Ad es. quello da cui son prese le citazioni: GAETANO BER-

RUTO-MASSIMO CERRUTI, Manuale di sociolinguistica, Torino, Utet Università, 2015, pp. 70-71.

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forma esplicita dalla sociolinguistica solo secoli dopo di lui. La di-chiarazione del Tolomei nella lettera citata, per la quale le motiva-zioni letterarie nell’Orazione della Pace, per stessa ammissione del suo stesso autore, sono, se non uniche ed esclusive, sicuramente preponderanti, è perciò di grande importanza storica per la nostra lingua.

Per quanto riguarda i contenuti, invece, la dottrina linguistica del Tolomei profusa nell’epistolario (e non solo) ebbe fama più bre-ve dello stile e della personalità intellettuale del suo autore. Tra le idee più interessanti del Tolomei, per quanto infruttuose, è da an-noverarsi sicuramente l’opinione circa l’endecasillabo – e l’endeca-sillabo sciolto in particolare – nella lettera a Marcantonio Cinuzzi.25 Il Tolomei, chiamato a giudicare la traduzione italiana del Cinuzzi, letterato senese, del poemetto tardo-antico di Claudiano De raptu Proserpinae, loda apertamente la composizione poetica complessiva ma dichiara una certa avversione nei confronti della «forma di que-sti versi sciolti» per tradurre l’esametro, già usata da Luigi Alamanni per tradurre l’epitalamio di Peleo e Teti di Catullo, da Lodovico Martelli per tradurre il quarto libro dell’Eneide, dal suo signore e mecenate, il cardinal Ippolito de’ Medici, per tradurne il secondo; versi sciolti in cui si vociferava che Gian Giorgio Trissino stesse scri-vendo «heroicamente in molti libbri le guerre che fece Belisario in Italia».26 Il principale difetto dell’endecasillabo sciolto – e dell’en-decasillabo in generale – è proprio la sua inadeguatezza alla materia eroica; l’endecasillabo è per il Tolomei un metro che tradisce la ca-ratteristica principale che dovrebbe tradurre dall’esametro.

Pur io non so, quanto ella [la forma dell’endecasillabo sciolto] mi piaccia; non ch’io la biasmi, havendo massimamente così grandi e honorati huo-mini per guida, ma non ardisco lodarla, perché mi par che que’ versi così sciolti e dissipati perdano il vigore e lo spirito che gli avviva non essendo ritenuti, non ristretti da nodo o da legamento alcuno. E mi sovviene di quel che dice Aristotile ne la Poetica,27 il qual loda molto il verso Hesame-tro atto a lo stile Heroico: percioché quella sorte di verso non cade così agevolmente nel parlar che l’huom fa tutte l’hore, come i versi senarii e

25. Lettera a Marcantonio Cinuzzi del primo luglio 1543. TOLOMEI, De le

lettere, cc. 7v-11r. 26. L’Italia liberata dai Goti del Trissino fu infatti pubblicata pochi anni dopo,

tra il 1547 e il 1548, presso gli editori Dorico di Roma e Gianicolo di Vicenza. 27. Cfr. ARISTOTELE, Poetica, 1458b.

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alcune altre simili forme. Così mi par che questi versi endecasillabi usati da Dante e dal Petrarca troppo agevolmente cadan nel parlar de la prosa. Né credo sia huomo alcuno che ragionando non ne faccia ogni dì molti senza avvedersene. Onde se non ritenuti e ritardati da qualche legamento di rima o d’altro artifizio, non differiscono molto da la prosa, né mi par che si facciano atti a lo stile Heroico.28

Tuttavia, quand’anche «ritenuti», i versi endecasillabi creano delle difficoltà e continuano a non convincere il Tolomei. La terzi-na dantesca, per esempio, ha il problema contrario rispetto all’en-decasillabo sciolto, quello cioè di esser troppo legato, obbligato, dif-ficile, e di risultare «aspro» se la bravura del poeta non sopperisce alla durezza chiudendo con la fine della terzina il periodo o il pen-siero (molto più efficacemente il Tolomei dice «il sentimento»). Così, per rimediare agli inconvenienti dell’endecasillabo, il Tolo-mei tempo prima aveva ritrovato certe «catene» già usate da Ber-nardo Tasso:

Dante, il quale primo forse tra ’ dicitor Toscani s’alzò a scrivere Heroica-mente, ritrovò la terza rima, la qual fu seguita dal Petrarca ne’ Trionfi e da molti altri dopo lui. Nondimeno quella rima di terzo in terzo verso arreca con sé grande incommodità. Imperoché sempre par che richieda nel fin del terzetto il sentimento finito, e ove non si finisce, se non si sospende con molto giudizio, il poema ne diviene aspero e duro e con poca o nissuna grazia; la qual cosa è in tutto inimica a lo stile Heroico […]. Onde per fuggir la troppa libertà di que’ versi sciolti e ’l troppo secco nodo di queste terze rime, io già più di vinti anni sono ritrovai certe catene e certi collegamenti di rime variate le quali ritenevano e annodavano il verso con qualche spi-rito: né però l’obbligavano a terminarsi in alcun luogo per forza, schifando insieme e la licenza di quelli e la strettezza di queste altre. La quale inven-zion è stata già pochi anni fa da alcuni poeti o similemente ritrovata o ver posta in maggior luce. […] Tra li quali Messer Bernardo Tasso, huomo di pellegrino spirito, l’ha felicemente abbellita. Ma perché pur il verso resta endecasillabo e corto e non s’alza per se stesso, quasi corpo di piccola sta-tura, a la grandezza de l’heroico; però m’è parso, e così in coscienza vi dico, ch’a la degnità ed altezza sua non si possa senza la gravità de l’Esametro arrivare.29

28. TOLOMEI, De le lettere, c. 8v. 29. Ivi, cc. 8v-9r.

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Le ultime critiche riguardanti la grammatica (un po’ troppo «Se-nese») fanno invece riaffiorare nella prosa del Tolomei la verve degli anni più combattivi della questione.

Quanto a la grammatica, parmi che vi siate lassato trasportare un poco troppo da l’uso del parlar Senese, la qual cosa se ben si potesse difendere, dicendo che voi scrivete ne la lingua Toscana de la città vostra, come han fatto molti poeti e prosatori Grechi ne la lingua de la lor patria, nondi-meno egli è meglio fuggir sempre ogni scoglio, benché piccolo, che urtarvi, ancora che la nave non si rompa. E certo ne’ nostri tempi son cresciuti certi giudizii fastidiosi, li quali per troppa debilezza di stomaco non sop-portano. Ma non dico di lor qui più; un giorno forse ne parlarò più a pieno.30

Faccio notare, per collegarmi a quanto detto finora, la sapiente

disposizione retorica degli argomenti della lettera. Alle lodi del componimento del Cinuzzi in apertura (asserite non a caso secon-do le prime tre parti della retorica classica: «…questi tre libbri […] ingegnosi per invenzione, chiari per disposizione, […] vaghi per va-rio ornamento»)31 seguono le critiche sull’endecasillabo, a cui suc-cede a sua volta l’elogio della «chiarezza» del componimento del Ci-nuzzi, suo massimo pregio e principale caratteristica della grande poesia, prima delle ultime critiche finali (su qualche «paroletta» im-precisa,32 la grammatica e l’idea della traduzione).33 Qui s’è riportata ovviamente solo la pars destruens della lettera, la più interessante, ma la disposizione ragionata degli argomenti, che riesce a dissemi-nare le critiche facendole sembrare in minoranza rispetto alle lodi (quando in realtà forse non è così), non è solo dimostrazione del tatto del Nostro, ma anche dell’impegno retorico di cui s’è detto fi-nora, soprattutto quando la prosa del Tolomei si innalza «dal basso stil de le lettere» alla «forma di discorso».34

30. Ivi. c. 10v. 31. Ivi. c. 8r. 32. Ivi, c. 10r. 33. L’ultimissima critica in realtà riguarda proprio l’idea stessa della tradu-

zione poetica, «questa foggia di tradurr i poeti d’una lingua in una altra», che non convince il Tolomei perché gli sembra che «si toglia al poeta quella parte che è la principale in ogni poesia, cioè l’invenzione» (ivi, c. 11r).

34. Lettera ad Anton Santi da Trievi dell’11 ottobre 1542. Ivi., cc. 91r-95r.

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La riflessione sui metri della poesia italiana fu peraltro una co-stante dell’impegno letterario del Tolomei, come dimostra l’espe-rienza dell’Accademia della Poesia Nuova. Dispensato dalle fatiche e dalle missioni diplomatiche che il suo signore, il cardinal Ippolito de’ Medici, gli commissionava,35 il Tolomei poté, nella prima metà degli anni Trenta, intraprendere l’esperienza dell’Accademia della Virtù,36 che tra gli altri spiriti eletti coinvolse Luca Contile e Anni-bal Caro. L’Accademia si assegnava argomenti eterogenei (dalla Ro-ma antica al Petrarca) con otto giorni di anticipo e si riuniva per di-scuterne in casa del Tolomei, vera anima del gruppo. Dopo l’im-provvisa morte del cardinal Ippolito nel 1535, l’Accademia non scomparve ma cambiò nome e indirizzo: da quel momento l’obiet-

35. Il Tolomei, a causa soprattutto degli sconvolgimenti politici della sua

epoca, soffrì spesso per i rivolgimenti della fortuna. Fuoriuscito senese dal 1518 (probabilmente in seguito alla chiusura per motivi politici dell’Accademia Grande), esiliato dal 1525 (la revoca dell’esilio risale al 1542 e si deduce dalla lettera del 25 gennaio di quell’anno alla Balìa di Siena; ivi, c. 7r), il Tolomei dovette per il resto della vita rinunciare ai privilegi della sua condizione nobi-liare e ricercare continuamente signori a cui offrire i propri servigi, non solo intellettuali ma spesso diplomatici o burocratici. Il Tolomei trovò, come molti fuoriusciti senesi, l’appoggio della famiglia Medici, ritornata stabilmente a Fi-renze e ben salda in Vaticano, ed entrò nel seguito del cardinal Ippolito. Da una lontana missione diplomatica a Vienna, così pregava il cardinale per di-spensarlo da quelle fatiche: «…sì come ha voluto la mia disavventura, né le forze mi rispondeno del corpo, né gli occhi né l’orecchie fanno l’offizio loro come prima, e trafitto da continui dolori de le membra, sento ancora la mente essere indebilita: a che, per la durezza del male e l’incommodità de’ luoghi e del viag-gio, mal posso usar rimedii che mi giovino. […] A me certo fia maggior grazia che da voi (se ve ne degnarete) mi sia dato uno ozio honesto, il qual mi sarà via più grato che l’affaticarmi ad ognihora per appalesar la mia dappocaggine. E sì come ne’ gran giardini si pongon talora arbori che non fanno frutto alcuno ma solo son buoni a far ombra, così io ne la gran corte vostra sarò arboro disutile, il qual faccia solo ombra senza frutto alcuno. Che dirò più? Che se a la bontà vostra piacesse di dar riposo a’ miei interrotti studii, forse ancora potrei un giorno mandar fuor qualche frutto non indegno d’esser almen da voi rimirato». (Lettera al cardinal Ippolito de’ Medici inviata da Vienna il 2 ottobre 1532. TOLOMEI, De le lettere, cc. 21v-22v).

36. Il nome deriva dal verso petrarchesco «che né fuoco, né ferro a Virtù noce». L’emblema dell’Accademia era perciò una donna che cupidini tutt’attorno cer-cavano di tormentare con ferro e con fuoco, ma invano, talché il fuoco e il ferro si ritorcevano loro contro. Cfr. SBARAGLI, Claudio Tolomei, pp. 48 e ss.

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tivo del gruppo fu quello di trasporre la metrica quantitativa clas-sica nella poesia volgare e prese perciò il nome di Accademia della Poesia Nuova. L’esperienza dell’Accademia non portò a risultati soddisfacenti. Cionondimeno, il Tolomei pubblicò nel 1539 l’o-pera Versi et regole de la nuova poesia toscana.37 Già l’anno prima così il Tolomei avvertiva Benedetto Accolti, il fine cardinale di Ra-venna, inviandogli «certi saggi d’una nuova poesia»:

Mi sono sforzato in lingua Toscana rinovare [la poesia] ad imitazion de’ poeti Grechi e Latini. In che m’occorrerebbe dir infinite cose, mostrando le belle ragioni che m’hanno mosso a ciò fare. E bisognarebbe ispiegar molte regole, che vi son dentro raccolte. Ma sarebbe opera da un libbro, non da una lettera, la qual cosa spero in ogni modo dar tosto in luce. Solo vi ricordarò che se forse nel principio vi parranno versi duri o senza suono, non però vi maravigliate, né ve ne schifate; perché così avviene in tutte quelle cose ove l’orecchio per innanzi non è avvezzo. Ma degnatevi di leg-gerli più volte, pensando di leggere non Dante o ’l Petrarca, ma Tibullo o Properzio, ad imitazion de li quali son fatti questi.38

Il tentativo, dunque, non s’impose, ma ebbe quanto meno il

merito di inaugurare una chimera che avrebbe aleggiato sulla no-stra letteratura sino alle Odi barbare del Carducci. Più distesamente, in un’altra lettera, di qualche anno più tarda, il Tolomei, volgendo-si indietro e ripensando a quel progetto probabilmente già vecchio di qualche anno, spiegò più distesamente alcuni scogli difficilmen-te eludibili: su tutti, l’individuazione di un criterio universalmente valido per distinguere sillabe lunghe e brevi nella lingua volgare.

’N questa nostra lingua, v’è misura di tempo longo e breve, la qual cosa a molti pare strana e nuova e non la voglion credere, e nondimeno io gli ho altre volte convinti per sei o ver sette manifestissime ragioni; in tal guisa che chi non lo confessa, stimo più tosto sia ostinato che ignorante. […] in

37. CLAUDIO TOLOMEI, Versi et regole de la nuova poesia Toscana, Roma, Blado,

1539. 38. Lettera al cardinale di Ravenna del 2 maggio 1538, TOLOMEI, De le lettere,

c. 77r-v. Cfr. anche la lettera a Dionigi Atanagi del 25 marzo, senza anno, incipit «Troppe lode son quelle che voi date a le mie due orazioni», cc. 208r-209v, in cui il Tolomei incita l’amico a non abbandonare «la poesia nuova, perché vi giuro che ogni giorno mi piace di più»; o quella al Citolini, senza data, incipit «Se quel ch’io v’ho scritto de l’Hacca lettera vanissima», c. 221v in cui invia un esempio di componimento di poesia nuova, non a caso definito «epigramma».

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que’ primi tempi ch’io con molti belli ingegni ragionai e disputai di questa invenzione,39 furono alcuni che crederono e dissero che tutta questa arte si doveva risolvere in queste poche regolette che voi udirete. Tutte le sillabe dove è l’accento acuto son longhe. Tutte le sillabe che son dinanzi a l’ac-cento acuto son brevi, se già non v’è l’addoppiamento. E così volevano che tessonsi, rompente, volgerlo, havesseno la sillaba di mezzo breve […]. Io allora assomigliai costoro a’ medici che da se stessi si chiamavan Metodici, gli quali per lo contrario Galeno soleva chiamare ἀμεθόδους, perché con quat-tro o sei regolette volevano insegnar tutta la medicina. Omne laxum astrin-gendum, omne strictum laxandum, omne cavum implendum: e in ciò non consi-deravan né età, né complessione, né sesso, né stagione, né consuetudine, né virtù, né veruna altra cosa buona. […] E oltre di ciò è forza scoprir alcuni segreti, gli quali insieme co’ l’altre cose spero vederete distintamente di-chiarati ne la nostra operetta sopra di ciò fatta. Voi intanto non ve ne pi-gliate più briga che vi bisogni, se già non volete come gli apostoli andar predicando questa nuova varietà apparecchiato a sostener per lei il marti-rio, quando egli occorrà.40

A dimostrazione del ruolo primario ricoperto dal Nostro nel

panorama linguistico italiano nell’epoca della questione, è signifi-cativo il numero di lettere dell’epistolario in cui il Tolomei rispon-de a letterati autorevoli che chiesero il suo parere, la sua conferma, le sue idee. Alla stessa dinamica, d’altronde, corrisponde la lettera al Cinuzzi; e così quella sui Dialoghi spirituali al Contile;41 oppure

39. Si riferisce con tutta probabilità alle divergenze di opinioni scaturite dalle

riunioni dell’Accademia della Poesia Nuova. 40. Lettera a Fabio Benvoglienti, senza data, incipit «Il contrasto che dite es-

servi accaduto con messer Trifon Gabbrielli mi fa ricordar di quello antico», ivi, cc. 209r-210r. L’Accademia, infine, fu protagonista di un’ultima trasforma-zione diventando Accademia Vitruviana e occupandosi del De architectura di Vitruvio. Cercò di preparare, a dirla tutta, quella che oggi si chiamerebbe un’edizione critica dell’opera, filologicamente emendata e con la traduzione in toscano. Il Tolomei provò addirittura a chiedere l’appoggio economico del re di Francia Francesco I. Nella lettera del 3 dicembre 1543 indirizzata al sovrano di Francia (TOLOMEI, De le lettere, c. 5r), infatti, quando chiese al sovrano di «spronare» il «bel disegno di questa nobilissima impresa d’Architettura» intra-preso da «huomini dotti» e «spiriti pellegrini», intendeva certamente una spinta non già in senso morale ma concretamente economico. Il progetto era molto ambizioso, ma non trovò mecenate, e tale rimase. Cfr. anche la lettera al conte Agostino de’ Landi del 14 novembre 1542 (ivi, cc. 81r-85r).

41. LUCA CONTILE, Dialoghi spirituali, Roma, Cartolari, 1542. Lettera al Con-tile del 30 giugno 1543, TOLOMEI, De le lettere, cc. 14r-15r.

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quella ad Anton da Colle dove giudica un po’ «aspretta» in confron-to all’originale di Catullo la traduzione toscana che gli è stata invia-ta; e così via.42 Certamente si resta colpiti quando si legge che anche letterati di fama indiscussa come Annibal Caro scrivevano al Tolo-mei per chiedere consigli e opinioni in fatto di grammatica. La let-tera a cui mi riferisco in particolare43 contiene la dissertazione del Tolomei sui titoli eccessivi in voga soprattutto, ma non solo, nel-l’ambiente cortigiano dell’epoca, insieme all’uso conseguente, nato di fatto in quel secolo, della terza persona di cortesia al posto della seconda plurale, proprio perché si incominciava a rivolgersi «alla Si-gnoria Vostra» piuttosto che all’interlocutore effettivo (a cui si sa-rebbe invece normalmente dato del voi e non del lei). Al Caro, a quanto pare, scappò un «Sua Eccellenza» al posto del più sobrio «Sua Signoria» e chiese perciò delucidazioni (e, ironicamente, con-forto) al Nostro. Nella lettera il Tolomei sostiene il suo giudizio pe-rentoriamente negativo su entrambe le consuetudini degli «sciocchi adulatori» del suo tempo con diverse prove e vari esempi, tra cui soprattutto parecchie novelle di Boccaccio, nelle quali anche ad alti dignitari, re e imperatori ci si rivolge sempre e solo con il voi, e senza troppi fronzoli. Non importa molto, in questo caso, delle ra-gioni effettive sostenute dal Tolomei (peraltro talvolta fantasiose) contro lo «spesseggiar» di «questi simili titoli non necessari» o con-tro la terza persona di cortesia, «là dove non s’intende mai se parlan di voi o di uno altro, che sta in India»; piuttosto importa notare che un Annibal Caro chiedeva il parere del Nostro quando doveva risolvere dei dubbi linguistici giacché il dubbio che risolve il Tolo-mei, per sua stessa affermazione, è più grammaticale che retorico.

Primamente io ho avvertito che que’ nostri antichi maestri de la lingua Toscana non usoron questo modo di parlare. Lassiamo star nel verso che sarebbe un vituperar le Muse, ma ne la prosa istessa si vede o che non lo seppero o che saputo lo fuggirono. Onde ne’ le prose di Dante, del Boc-caccio, di Giovan Villani, e degli altri buoni autori non si legge questo

42. Lettera ad Antonio da Colle del 21 luglio 1543, ivi, c. 91r-v. Cfr. in questo

senso anche la lettera a Sempronio Giraldo del 24 maggio 1543 (ivi, cc. 97v-98r), il quale probabilmente era un dilettante di poesia che inviava le proprie prove poetiche al Tolomei per un controllo o una correzione; nella lettera viene rimproverato, ma sempre con garbo, per aver sbagliato la retrogradatio cruciata di una sestina.

43. Lettera ad Annibal Caro del 22 agosto 1543, ivi, cc. 61r-66v.

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infrascamento di Signorie, d’Escellenze e di Maestà ch’hoggi s’usa a tutte l’hore parlando e scrivendo. Ma perché questa parte meglio si manifesti, consideriam (se vi piace) alcuni luoghi del Boccaccio […]. Hor s’un de’ no-stri tempi havesse a porre in iscrittura le parole di tutti i sopradetti esempi [quelli del Boccaccio qui non riportati], la metà, o almeno il terzo si con-sumarebbeno in vostra Signoria, vostra Escellenza, vostra Maestà e vostra santità. Percioché se ben ognun che parla o scrive altrui si dee sforzar d’accomo-darsi a la natura di colui a chi parla volendo persuadere, nondimeno non trattiamo qui hora questo articolo rettoricamente, là dove avvengono mille piegamenti e ripiegamenti secondo che si crede poter muover l’ascoltatore; ma cerchiam porre quasi grammaticalmente una regola universale deter-minata, secondo la quale si convenga e si debba parlare, havendo riguardo a la natura e a la condizion de la lingua. Io talora quando qualcuno scioccamente mi vuol lusingare e mi dice (sia per esempio) «la Signoria vostra mi faccia questa grazia»: prima penso se parla a me, e poi avvedendomi di questo errore gli dico LA SIGNORIA MIA VI RISPONDA, poi ch’ella v’ha a far questa grazia, e non io.44

Il Tolomei fu, dunque, punto di riferimento e mentore per

un’intera generazione negli anni incerti della prima metà del Cin-quecento, quando la lingua italiana era «ancora quasi ne la fanciul-lezza»;45 quando, cioè, il livello di aleatorietà ortografica e gramma-ticale rimaneva piuttosto alto nonostante le Prose del Bembo e no-nostante gli interventi degli altri protagonisti della questione della lingua. La proposta più innovativa, da questo punto di vista, fu il giovanile Polito, pubblicato sotto il falso nome di Adriano Franci.46 Il Polito fu la pronta risposta del Tolomei, insieme alle altre del Mar-telli e del Firenzuola, all’Epistola del Trissino. Estraneo alla questio-ne onomastica, il Polito propose una riforma alfabetica leggermente differente da quella trissiniana ma altrettanto radicale, convergen-do con la proposta trissiniana sulla necessità di eliminare alcune lettere e proponendone di nuove. Il Polito, perciò, a prescindere dalle differenze, dopotutto trascurabili, prendeva seriamente in

44. Sullo stesso argomento dei titoli eccessivi del tempo cfr. anche la lettera a

Giovanfrancesco Bini del 25 settembre 1543, ivi, cc. 89r-90v. 45. Lettera a Felice Figliucci del 13 luglio, senza anno, incipit «Di grazia M.

Felice non mi date tante lode», ivi, cc. 224v-225r. 46. CLAUDIO TOLOMEI, Il Polito, Venezia, Zoppino, 1531. L’opera fu però

innanzitutto pubblicata presso Lodovico Vicentino e Laurentio Perugino nel marzo del 1525 (cfr. SBARAGLI, Claudio Tolomei, pp. 18 e ss.).

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considerazione l’alfabeto proposto dal Trissino e di fatto dimostra-va che il suo autore ne condivideva il presupposto di fondo: «per il Tolomei l’alfabeto nostro aveva bisogno di riforma quanto e più del Trissino».47 La contraddizione tra l’atteggiamento ostile del To-lomei nei confronti del Trissino e la sostanziale continuità di idee dimostrata dal Polito, unita alla volontà del Nostro di mantenere per sé il ruolo di intellettuale più in vista nella questione in alter-nativa al Trissino, come dimostrò il Rajna, fece sì che il Tolomei decidesse di pubblicare il dialogo con il falso nome di Adriano Franci, un senese sotto le cui spoglie per primo il Varchi nell’Erco-lano indicò il Tolomei.48 Già nel Polito il Tolomei mostrò la stessa volontà, poi perpetrata per il resto della sua vita e della sua opera, di semplificare l’alfabeto italiano, ove necessario, e completarlo al-trove, per rendere l’ortografia della nostra lingua il più conforme possibile alla sua fonetica, eliminando perciò le lettere considerate inutili e aggiungendone altre per distinguere pronunce differenti. La h, ad esempio, è lettera che il Tolomei, molto modernamente, anche a grande distanza di tempo dal Polito, avrebbe eliminato del tutto; se non ardì di farlo è perché i tempi non erano ancora ma-turi. Questi i suoi consigli ad Alessandro Citolini per l’uso dell’h:

Lo H si pone per dar polso a quelle due consonanti [C e G] e per farle diventar dure e forti; là dove senza quello H hanno un suono languido e molle. Questo uso, non facendo uno alfabeto del tutto nuovo (sì come io già feci con bei misterii e sottili avvertimenti) non si può levare da lo scriver comune, e così a voi ancora bisogna seguirlo. L’altro è per conservare o notare l’origine latina: che se Humanus si proferiva da latini aspirato, ben-ché hora i Toscani non aspirino in voce Humano, nondimeno vi segnano lo H per mostrar quella origine: e così Huomo, Honore, […]. Di poi la ragione vorrebbe che ’n tutti gli altri casi si levasse lo H, percioché non essendo in voce, non deve essere ancora in iscrittura, la quale è imagin de la voce; e si dovrebbe scrivere ragionevolmente Onore, Onesto, Uomo […]. Ma per non far tanta novità in un tratto, usatevi per hora questo tempera-mento: che dove si trova in principio de la parola ve lo poniate, come Ho-nore, Honesto; ma quando cade in mezzo de la parola non lo poniate mai: e però scriverete Disonore, Disonesto […]. Forse quando saran pubblicati

47. Ibid. 48. Ibid.

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i miei libbri de’ principii de la lingua Toscana, pigliarò ardire di levarlo in tutto; e voi lo prenderete similmente.49

Le convinzioni del Polito, insomma, perdurarono nel tempo fi-

no all’epistolario, il quale, benché raccolto e pubblicato da Fabio Benvoglienti e senza una revisione finale del Tolomei, rispecchia senza dubbio almeno le minime volontà ortografiche del Tolomei. Come mostra lo stesso Benvoglienti nella lettera a Mino Celsi che chiude l’epistolario e ne rende le ragioni di stampa, per raggiungere un compromesso tra gli eccessi ormai di molti anni addietro di que-gli «ωmeghi»50 che fecero tanto scalpore e le immutate convinzioni linguistiche del Tolomei, si scelse di stampare le lettere del Tolo-mei, per quanto possibile, secondo le sue idiosincrasie ortografiche, ma al contempo salvaguardando la sensibilità di ciascun lettore e non compromettendo la scorrevolezza della lettura.

Ho preso cura e fattoci diligenza, Messer Mino, di raccorre alcune lettere di Messer Claudio Tolomei; e parendomi cose degne d’esser vedute e lette da ogniuno,51 mi sono affaticato poi di farle stampare:52 il che non so

49. Lettera del 6 febbraio, senza anno, incipit «Che vi sia piaciuta l’operetta

de’ due SS m’è sommo piacere», TOLOMEI, De le lettere, cc. 121r-122r. 50. Cit. da una lettera di Miguel da Silva, ambasciatore del re di Portogallo e

dedicatario del Polito (oltreché del Cortegiano) al Cardinale Salviati del 3 aprile 1525. Cfr. SBARAGLI, Claudio Tolomei, p. 18. Gli «ωmeghi» disprezzati nella lettera sono in realtà i più famosi trissiniani.

51. Si noti, in questa lettera, la stretta aderenza alle scelte ortografiche del Tolomei, così stretta che si riproducono delle scelte a cui nemmeno il Tolomei resta sempre fedele. Questa in particolare di mettere la i anche dopo gn e non solo dopo gl è spiegata nella lettera ad Alessandro Citolini del 20 luglio 1547, TOLOMEI, De le lettere, cc. 231v-232r.

52. Le affinità tra la prosa del Benvoglienti e quella del Tolomei e la precisione dei riferimenti alle idee linguistiche del Tolomei, se non mettono dubbi addi-rittura sull’autenticità della lettera stessa, quanto meno dimostrano che il so-dalizio fra i due fosse stretto e che le idee esposte dal Benvoglienti siano perciò sicuramente condivise dal Tolomei. Si notino solo, da questo punto di vista, alcune espressioni utilizzate dal Benvoglienti che al lettore dell’epistolario tolo-meiano risultano immediatamente famigliari: la metafora dell’ortica in un campo di fiori (nella lettera del Benvoglienti a c. 233r) come nella lettera al Cinuzzi (a c. 10r), e passim; l’espressione «che più?» (sempre a c. 233r) utilizzata come congiunzione testuale a inizio periodo, come nella lettera a Ippolito de’ Medici del 2 ottobre 1532 a c. 22r in basso, in quella ad Annibal Caro del 22 agosto 1543 a c. 64r sul fondo, in quella a Dionigi Atanagi a c. 224r in alto, e

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CLAUDIO TOLOMEI E LE RAGIONI DEL VOLGARE

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quanto li sia per essere in grado; sapendo io molto bene come egli sia poco vago d’andare in istampa, conoscendolo molto lontano di così fatte ambi-zioni. Di poi il veder queste lettere poco emendate e riviste, e niente rior-dinate da lui, aggravava molto più il rispetto di prima […]. Turbarà forse qualcuno il vederci l’ortografia molto diversa da gli altri, come lo scrivere orazion per zeta, usandosi scriver per t; il distinguere v vocale, u consonante e ⱱ liquido; il far due g, due o, due e, due i, due z, due s […].53 Se fussen fuore i bei libbri di de’ principii di Messer Claudio dove egli mostra l’im-perfezzion di questo alfabeto Toscano non bisognarebbe adesso affaticarsi in provarlo.54 […] Haveva ben Messer Claudio già molt’anni fa ritrovato uno intero e perfetto Alfabeto Toscano tutto di figure nuove, nel qual di-stintamente di voce in voce si rappresentavano tutti gli elementi di questa nostra lingua, in tal guisa che non si poteva pigliar mai una lettera per un’altra, né questo elemento per quello. E più, egli haveva in tal maniera accomodate le forme di ciascuna lettera che per la figura sola si conosceva s’ella era vocale o consonante, se muta o liquida o grassa, se leggera o grave, con ogni altra circostanza che avviene intorno a le lettere.55

Non ci sono dubbi che le scelte e le convinzioni grammaticali

esposte in questa lettera dal Benvoglienti siano condivise anche dal Tolomei, e che anzi siano le sue proprie. Peraltro, proprio grazie al Benvoglienti già altre volte il Tolomei portò in stampa le sue «cose Toscane»,56 sempre apparentemente senza consenso. Non credo che la ritrosia del Tolomei verso «l’ingordigia de gli stampatori»57

passim.

53. Per distinguere, rispettivamente, o aperta e chiusa, e aperta e chiusa, i vo-cale e semivocale, z sorda e sonora e s sorda e sonora. Le differenze sono mi-nime nell’epistolario tra queste lettere, tanto che «questo modo di scrivere non impedirà né ritardarà punto nel leggere: perché qui non sono forme né figure nuove di lettere». La differenza più notevole è sicuramente la distinzione di u vocale e semivocale da u consonante, cioè la v per noi: quest’ultima è invece scritta u, mentre la vocale è scritta v, e la semiconsonante è pur sempre una v ma con un leggero ricciolo finale.

54. Su questo libro «de’ principii della lingua Toscana» – probabilmente una trattazione riordinata e tarda delle idee ortografiche e grammaticali del Tolo-mei – cfr. anche la già citata lettera al Citolini.

55. Lettera di Fabio Benvoglienti a Mino Celsi del 15 settembre 1547, TOLO-

MEI, De le lettere, cc. 233r-234v. 56. Per l’espressione, cfr. la lettera al Grimaldi del 12 maggio 1544. Ivi, cc. 2r-

3r. 57. Ibid.

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MARIO CARLESSI

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sia del tutto artefatta, ma certo non possiamo prenderla intera-mente per buona perché, a sentir lui, egli non avrebbe voluto stam-pare nulla di suo o molto poco. Invece, di fatto, le sue lettere e i suoi trattati circolarono ampiamente e il Tolomei fu molto letto e molto apprezzato.58

58. Cfr. la lettera a Paolo Manuzio del 2 agosto 1544. Ivi, cc. 79v-80v: «Cono-

sco ben ch’io non son venuto a quel sommo grado di filosofia ch’io disprezzi la gloria, anzi sento germogliar in non so che modo dentro a l’anima questo disiderio: e se havesse l’ale gagliarde, volentieri si lassarebbe sospingere a qual-che bel volo. Ma ella conosce se stessa e la debilezza sua. Onde quanto più può si ritiene, dubbitando mentre ella cerca d’acquistar fama di non cadere in qual-che biasmo vituperoso. […] Egli è vero che l’anno passato raccolsi molte lettere le quali compartii in sette libri secondo varie materie ch’elle trattavano; ma non le condussi mai a quella finezza che bisognava, parte impedito da certe occa-sioni, e parte da alcune ragioni sconsigliato. Queste son, credo, quelle lettere che voi mi domandate, le quali, crediate a me, veniranno men disonorate ne le tenebre che ne la luce».

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FRANCESCA FAVARO

LE FORME DELL’ARTE NELLE MISSIVE DI ARETINO A TIZIANO E SU TIZIANO: RIFLESSIONI ED ESEMPI

1. Introduzione: Pietro Aretino a Venezia

Non sorprende la predilezione nutrita per Venezia da Pietro Are-tino, che vi risiedette stabilmente a partire dall’anno 1527: nes-sun’altra città, neppure Roma, pur tanto splendidamente avvolta nei drappeggi della storia resa arte, avrebbe potuto infatti meglio accogliere l’incontenibile temperamento dello scrittore ed epistolo-grafo,1 avvincendolo a sé grazie all’esuberanza della propria – mol-

1. I sei libri di missive, editi fra il 1538 e il 1557 a comporre «una monumen-

tale operazione di self-fashioning», nella quale «l’autorevolezza e la credibilità dello scrivente appaiono strategicamente connesse al numero, alla varietà e al prestigio dei corrispondenti» dimostrano peraltro quanto sia sottile l’abilità di Aretino nell’alternare stoccate, allusioni, complimenti e lodi, silenzi strategici (LUCA D’ONGHIA, Reticenza e negazione nel primo libro delle ‘Lettere’ di Pietro Are-tino, in Latenza. Preterizioni, reticenze e silenzi del testo, Atti del XLIII Convegno Interuniversitario di Bressanone, 9-12 luglio 2015, a cura di Alvaro Barbieri e Elisa Gregori, Padova, Esedra, 2016, pp. 159-168, p. 160). In merito alle lettere di Aretino, cruciali nel definirne la personalità e l’influenza sia presso i con-temporanei sia presso i posteri, si rimanda qui a PAOLO PROCACCIOLI, Intro-duzione a PIETRO ARETINO, Lettere, I, a sua cura, Roma, Salerno, 1997, pp. 9-37. Sul fondamentale contributo dato da Aretino al ‘genere’ epistolografico si rimanda poi a GIULIANO INNAMORATI, Tradizione e invenzione in Pietro Aretino, Messina-Firenze, D’Anna, 1957, pp. 230-236, a GUIDO BALDASSARRI, L’inven-zione dell’epistolario, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, Atti del Convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 settembre-1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre 1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), 2 volumi, Roma, Sa-lerno, 1995, vol. I, pp. 157-178, a PAUL LARIVAILLE, Pietro Aretino fra Rinasci-mento e Manierismo, Roma, Bulzoni 1980, pp. 297-330, e a CHRISTOPHER

CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and his Circle in Venice 1527-1556, Firenze, Olschki, 1985, pp. 125-161. Più in generale, si ricorda che l’opera tutta dello scrittore d’Arezzo, permeata da una forza di carattere e d’espressione talora difficile da accostare e da accettare, determinò, già dopo la sua scomparsa, una divaricazione netta dei giudizi, inclini sì all’elo-gio ma, assai spesso, anche alla denigrazione (cfr. ENRICO MALATO, Gli studi su Pietro Aretino negli ultimi cinquant’anni, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della

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FRANCESCA FAVARO

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teplice – unicità. Protesa sul mare, ibridata con l’Oriente e cosmo-polita sin dalla fondazione, Venezia è al contempo incompatibile con qualsiasi paradigma identitario si discosti dalla sua intrinseca autosufficienza: l’orgoglio per tale autonomia, manifesta anche nel-lo stile di vita particolarissimo che sempre connotò la Serenissima, costituisce altresì la sua più rilevante difesa – un’invisibile, ma ine-spugnabile corazza – culturale.

La fusione tra arte della natura – la morfologia lagunare, conge-gno di delicatissimi equilibri, è già un capolavoro – e arte umana peculiare di Venezia fatalmente sedusse Pietro Aretino, collezioni-sta ed esperto di pittura e di scultura,2 frequentatore e amico di tan-ti fra i maestri attivi, in quegli anni, sotto le insegne di San Marco.

Non sorprende nemmeno, pertanto, che la prosa di Aretino, in tante delle sue lettere, non solo includa considerazioni sulle arti e sugli artisti (e rilievo particolare rivestono le missive riservate a Ti-ziano),3 ma assorba in sé un’intrinseca e peculiare artisticità,4 non solo coincidente con i dettami dell’ars dicendi o con una virtuosi-stica stilizzazione, bensì corrispondente a un autentico modellato verbale, o a una cromatica campitura fatta parole. Scopo delle rifles-sioni che qui si propongono non è pertanto quello di soffermarsi

nascita, vol. II, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 1127-1128 e MARCO FAINI, Per Pietro Aretino. Studi ed edizioni recenti, «Humanistica», IX, 2014, pp. 259-276).

2. Si veda, su tale argomento, MARIO POZZI, Note sulla cultura artistica e sulla poetica di Pietro Aretino, in Lingua e cultura nel Cinquecento, Padova, Liviana, 1975, pp. 23-47. Non si può non rammentare, inoltre, che Aretino stesso di-venne soggetto pittorico (ad esempio di Tiziano); indaga questo particolare tipo d’intreccio fra letteratura e arti visive DANIELA PIETRAGALLA nel saggio Corri-spondenze tra arte e letteratura. Letterati in pittura, pittori in letteratura, «Letteratura e arte», 1, 2003, pp. 173-183.

3. Sul legame fra lo scrittore e l’artista cfr. MINA GREGORI, Tiziano e l’Aretino, in Tiziano e il manierismo europeo, a cura di Rodolfo Pallucchini, Firenze, Ol-schki, 1978, pp. 271-306; in merito ai ritratti di Aretino realizzati da Tiziano si rimanda a FRANCESCO MOZZETTI, Tiziano. Ritratto di Pietro Aretino, Modena, Panini, 1996 (sul ritratto conservato a Palazzo Pitti), e ad ANTONIO GERE-

MICCA, «Per non iscoppiar tacendolo». Pietro Aretino ritratto da Tiziano per Cosimo I De’ Medici (e il confronto con Pierfrancesco Riccio), in Essere uomini di lettere: segretari e politica culturale nel Cinquecento, a cura di Antonio Geremicca ed Hélène Miesse, Firenze, Cesati, 2016, pp. 127-144.

4. Sulla fortissima evidenza visiva anche della parola poetica di Aretino cfr. PAOLO PROCACCIOLI, Dai ‘Modi’ ai ‘Sonetti lussuriosi’. Il ‘capriccio’ dell’immagine e lo scandalo della parola, «Italianistica», XXXVIII, 2009, pp. 219-237.

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LE MISSIVE DI ARETINO A TIZIANO E SU TIZIANO

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su temi già da tempo oggetto di preziose indagini (quali, ad esem-pio, la necessità di una via via più equanime valutazione del contri-buto dato da Aretino epistolografo alla critica d’arte o il riconosci-mento della sua importanza per l’arricchimento del lessico specia-listico della disciplina),5 bensì quello di illustrare, attraverso una ridotta selezione di esempi, l’inveramento (e la trasposizione) dei vari generi d’arte nelle missive dello scrittore. Sembra infatti possi-bile ripartire le pagine sull’arte di Aretino in una classificazione che le ‘riordini’ disponendole per tipo, come avviene in un museo le cui diverse sale accolgano ritrattistica, arazzi, nature morte, pae-saggi, miniature, sculture. Nell’aggirarsi entro la labirintica raccolta museale costituita dalle epistole di Aretino, contro il rischio di un eventuale smarrimento si può seguire un ideale ‘filo d’Arianna’, ef-ficace nel garantire la coerenza del percorso intrapreso: si tratta, come si accennava, della ricerca della verità dell’arte, perseguita e catturata dalla verità di una parola anch’essa artistica. Arte sull’arte, dunque, o, forse meglio, una nuova forma d’arte.

2. Pittura: sacra (e profana)

La prima, importantissima, sala ‘a tema’ che si può riconoscere en-tro le lettere sull’arte di Aretino ospita i dipinti a soggetto sacro. Vi-sto il significato degli episodi raffigurati – nonché, entro un oriz-zonte più mondano, viste le relazioni implicate da tali soggetti e opere con le gerarchie del potere ecclesiastico – lo scrittore deve in-tingere la sua penna in un inchiostro descrittivo-interpretativo ca-pace d’illuminarsi – e di illuminare così la pagina – con un riflesso della luce della verità rivelata.

Nel novembre dell’anno 1537 (il giorno è il nove) Aretino

5. Si segnala, a questo riguardo, la tesi di laurea di RIET BROUWER, Pietro

Aretino nella storiografia artistica recente (dopo il 1957) su Sansovino, Tintoretto e Tiziano, Università di Utrecht, 2005; relatore Prof. Dr. Harald Hendrix. Si ri-manda inoltre al saggio di GERARDA STIMATO, Da Pietro Aretino a Giorgio Va-sari: contagio epistolare come prima palestra di stile, «Italianistica», 2009, 2, pp. 239-250. Infine, si segnala che dal 17 al 19 ottobre dell’anno 2018 si è svolto a Venezia, presso l’isola di San Giorgio Maggiore (Fondazione Giorgio Cini), un importante convegno, Pietro pictore Arretino. Una parola complice per l’arte del Ri-nascimento, articolato in quattro sessioni: A Perugia e a Roma; A Venezia. Aretino scrittore d’arte e sodale di artisti; «Inchiostro per colore»; Aretino e la critica d’arte.

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FRANCESCA FAVARO

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scrive all’amico Tiziano relativamente a un’Annunciazione mandata dal pittore alla moglie di Carlo V, Isabella del Portogallo. Questa lettera, importante poiché ci offre testimonianza di un’opera ora perduta, vale anche a esemplificare i passaggi dell’espressione attra-verso i quali le verità di fede vengono tradotte prima (la successione è meramente cronologica, non equivale a valutazioni di merito) in verità pittorica, grazie alla mediazione di Tiziano, e poi in verità di parola, grazie ad Aretino: l’ultimo passaggio espressivo sembra am-bire a racchiudere in sé, spiegandola e dunque avvalorandola in mi-sura maggiore, la verità pittorica, per avvicinarsi alla verità cristiana ancor più profondamente di quanto la verità della pittura di per sé abbia fatto: [Un] lume folgorante […] esce da i raggi del Paradiso, da cui vengono gli angeli adagiati con diverse attitudini in su le nuvole candide, vive, e lu-centi. Lo Spirito Santo circondato da i lampi de la sua gloria, fa udire il batter de le penne, tanto simiglia la colomba di cui ha preso la forma. L’arco celeste, che attraversa l’aria del paese scoperto da l’albore de l’Au-rora, è piú vero di quel che ci si dimostra doppo la pioggia inver la sera. Ma che dirò io di Gabriele messo divino? Egli empiendo ogni cosa di luce, e rifulgendo ne l’albergo con nuova luce, si inchina sí dolcemente col gesto de la riverenza, che ci sforza a credere che in tal atto si appresentasse inanzi al conspetto di Maria. Egli ha la Maestade celeste nel volto, e le sue guancie tremano ne la tenerezza composta dal latte e dal sangue, che al naturale contrafà l’unione del vostro colorire.6 Cotal testa è girata da la modestia, mentre la gravità gli abbassa soavemente gli occhi; i capegli contesti in anel-li tremolanti acennano tuttavia di cadere da l’ordine loro. La veste sottile di drappo giallo […] par […] scherzi col vento. Né si son vedute ancor ali che aguaglino le sue piume di varietà, né di morbidezza. Il Giglio recatosi

6. Conferma dell’attenzione che Aretino riserva alla mirabile naturalezza delle

carnagioni dipinte da Tiziano viene dal passo di una missiva indirizzata al conte Massimiliano Stampa (da Venezia, il giorno 8 ottobre 1531). Così l’autore esorta il destinatario: «Guardate la morbidezza de i capegli innanellati, e la vaga gioventú del San Giovanni. Guardate le carni sí ben colorite che, ne la fre-schezza loro, simigliano neve sparsa di vermiglio, mossa da i polsi e riscaldata da gli spiriti de la vita». Nell’artificio della preterizione, la verità dell’arte, più autentica della verità di natura, viene subito dopo celebrata in riferimento a stoffe e pellami: «Del cremisi de la veste, e del cerviero de la fodera, non parlo, perché, al paragone, il vero cremisi, e il vero cerviero, son dipinti, et essi son vivi. E l’agnello che egli ha in braccio, ha fatto belare una pecora vedendolo, tanto è naturale» (ARETINO, Lettere, I, p. 82).

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LE MISSIVE DI ARETINO A TIZIANO E SU TIZIANO

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ne la sinistra mano, odora e risplende con inusitato candore. In somma par che la bocca, che formò il saluto che ci fu salute, esprima in note An-geliche «Ave».7

Nel descrivere, colmo d’ammirazione, l’opera dell’amico, Areti-no realizza al contempo una propria opera, trasformando lo spazio breve del foglio nello spazio, ben più vasto, di un metafisico, tra-scendente affresco. La verità cristiana che qui si vuole affermare stilla candore: a unire cielo e terra, nella scena tizianesca, è infatti la radiosità di luce, dilagante dall’alto a lambire e ad avvolgere la terra; sono quasi assenti altri cromatismi, nella diffusa (angelica e angelicata) luminosità: solo Iride disegna il suo profilo sottile a for-mulare, con colori antichi, un annuncio di salvezza nuova. Del suo arco, Aretino afferma la realtà – più autentica di quanto sia la realtà comunicata dall’esperienza sensoria – con parole simili a quelle di cui si avvale poche righe dopo per definire l’atteggiamento dell’an-gelo di fronte alla Vergine o l’accecante bagliore del giglio da lui offerto a Maria. Mentre insegue il pennello di Tiziano e con esso rivaleggia nel distinguere ed evocare le varie accensioni del bianco e dell’oro – emanazione di un Dio sceso sulla terra a farsi guance, palpito d’ali, petalo di fiore – Aretino rivaleggia anche con un’au-torevole tradizione letteraria, il cui vertice è agevole identificare nel canto X del Purgatorio: le terzine dantesche attribuiscono alla mano di Dio, artifex dei bassorilievi che sulla prima cornice della monta-gna declinano tre esempi di umiltà premiata, il «visibile parlare» che fa sì che i personaggi ritratti – sempre l’angelo Gabriele e la Vergine – siano veri oltre ogni umana verità: L’angel che venne in terra col decreto de la molt’anni lagrimata pace, ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, 36 dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace. 39 Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’; perché iv’era imaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; 42

7. Ivi, pp. 316-317.

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FRANCESCA FAVARO

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e avea in atto impressa esta favella ‘Ecce ancilla Deï’, propriamente come figura in cera si suggella. 45 (X, vv. 34-45)8

Più di dieci anni dopo, sempre da Venezia, nel gennaio del 1548 Pietro scrive a Tiziano riguardo a una fra le repliche del busto di Cristo deriso donato dall’artista all’imperatore. La cristiana ve-rità per la quale Aretino deve ora trovare le parole appartiene al momento più terribile della storia del Salvatore, alla Passione che lo espose alle percosse, all’umiliazione e alla beffa dei membri di quell’umanità cui il suo sacrificio sarebbe stato salvifico; analoga-mente al dipinto tizianesco, la prosa di Aretino si aggronda dunque e offusca nelle velature del sangue e nella lividezza delle carni, la cui pesantezza sembra gravare sulla pagina: Di spine è la corona che lo trafigge, et è sangue il sangue che le lor punte gli fanno versare; né altrimenti il flagello può enfiare e far livide le carni, che se l’abbia fatte livide et enfiate il pennello vostro divino ne le immortali membra de la divota imagine. Il dolore in cui si ristringe la di Giesú figura, commove a pentirsi qualunche Cristianamente gli mira le braccia recise da la corda che gli lega le mani; impara a essere umile chi contempla l’atto miserrimo da la canna la quale sostiene in la destra; né ardisce di tenere in sé punto di odio e rancore, colui che scorge la pacifica grazia che in la sembianza dimostra. Talché il luogo u’ dormo non par piú camera signo-rile e mondana, ma tempio sacro e di Dio.9 Veritiero quanto le spine nel ferire e il flagello nel provocare tume-fazioni ed ecchimosi è stato il pennello di Tiziano; altrettanto au-tentico è lo stilo di Aretino che, per ribadire la compenetrazione fra realtà dell’arte e realtà in senso più ampio cui sta contribuendo tramite la missiva, descrive la propria stanza, ricetto per la copia del-l’immagine sacra inviatagli dall’amico, come uno spazio a sua volta sacro. La verità del messaggio cristiano, formulata e sublimata dalla verità dell’arte che la fa divenire figura e colore e da ultimo parola,

8. Si cita la seconda cantica, qui e in seguito, dall’edizione a cura di Anna

Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994. 9. PIETRO ARETINO, Lettere, IV, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno,

2000, pp. 200-201.

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LE MISSIVE DI ARETINO A TIZIANO E SU TIZIANO

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viva nello scambio epistolare, diventa verità liturgica e assolutezza rituale anche entro i confini del privato.

La fitta trama ‘narrativa’ e poetica che, come si è visto, contrad-distingue l’epistolario di Aretino allorché egli si dedichi a opere d’arte d’argomento religioso trova conferma, con equivalenti in-trecci di complessità, laddove il suo tema sia una pittura non sacra, bensì profana; ad esempio, concepita e realizzata a omaggio dei po-tenti.

Emblematica della prosa, trapunta di letterarietà, che Aretino riserva alle raffigurazioni di nobili signori risulta l’epistola spedita da Venezia, in data 7 novembre 1537, a Veronica Gambara. A un incipit che, grazie alla dedica, subito pone il discorso sub specie litte-rarum – Veronica era una nota poetessa – corrisponde infatti un ex-plicit suggellato dal ricorso alle rime: Aretino sigla il suo scritto con un sonetto, celebrativo di Tiziano, in cui lo presenta come un nuovo Apelle.10 Io, donna elegante, vi mando il sonetto che voi m’avete chiesto, e ch’io ho creato con la fantasia, per cagione del pennello di Tiziano. Perché, sí come egli non poteva ritrar Principe piú lodato, cosí io non doveva affaticar l’in-gegno per ritratto meno onorato. Io nel vederlo chiamai in testimonio essa natura, facendole confessare che l’arte s’era conversa in lei propria. E di ciò fa credenza ogni sua ruga, ogni suo pelo, ogni suo segno. E i colori che l’han dipinto non pur dimostrano l’ardir de la carne, ma scoprano la viri-lità de l’animo. E nel lucido de l’armi che egli ha in dosso, si specchia il vermeglio del velluto adattogli dietro per ornamento. Come fan ben l’ef-fetto i pennacchi de la celata, appariti vivamente con le lor reflessioni nel forbito de la corazza di cotanto Duce. Fino a le verghe de i suoi generalati son naturali […]. Chi non diria che i bastoni che gli diè in mano la Chiesa, Vinezia, e Fiorenza non fusser d’ariento? Quanto odio che dee portar la morte al sacro spirito che rende vive le genti che ella uccide! Ben lo co-nobbe la maestà di Cesare, quando in Bologna vedutasi viva ne la pittura se ne maravigliò più che de le vittorie e de i trionfi per cui può sempre andarsene al cielo. Or leggetelo con un altro appresso, poi risolvetivi di

10. Sui componimenti di Pietro Aretino dal tema artistico si veda il contributo

di ROSSEND ARQUÉS, I sonetti dell’arte. Aretino tra Apelle e Pigmalione, «Lettera-tura e arte», 2003, 1, pp. 203-212; osserva Arqués che, agli occhi di Aretino, nel confronto con Apelle Tiziano risulta idealmente vincitore – e artefice di una rifondazione estetica – perché, nuovo Pigmalione, riesce ad animare le psi-cologie dei soggetti ritratti tanto da chiamarli realmente alla vita.

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FRANCESCA FAVARO

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commendare la volontà ch’io ho di celebrar il Duca e la Duchessa d’Ur-bino, e non di lodar lo stile di cosí debili versi.11 Il debito – quantomeno in relazione al tema affrontato – contratto da Aretino con Tiziano è esplicitato sin dalle prime righe della let-tera; quasi però a volersi affrancare da ogni supposta soggezione, lo scrittore non solo dichiara di aver fatto ammettere a madre Natura stessa la propria confluenza nell’opera di Tiziano, ma anche sciori-na tutta l’eccellenza rappresentativa della propria penna: ed ecco allora la congiura di strategie espressive molteplici – figure di posi-zione quali effetti di anafora; fonosimbolismi; ricchezza lessicale; domande retoriche – sgranarsi e sovrapporsi in una tessitura ver-bale fittissima, la cui frangia estrema è appunto il sonetto: Se ’l chiaro Apelle con la man de l’arte Rassemplò d’Alessandro il volto e ’l petto, Non finse già di pellegrin subietto L’alto vigor che l’anima comparte. Ma Tizian, che dal cielo ha maggior parte, Fuor mostra ogni invisibile concetto; Però ’l gran Duca nel dipinto aspetto Scopre le palme entro al suo core sparte. Egli ha il terror fra l’uno e l’altro ciglio, L’animo in gli occhi e l’alterezza in fronte, Nel cui spazio l’onor siede e ’l consiglio. Nel busto armato, e ne le braccia pronte, Arde il valor, che guarda dal periglio Italia, sacra a sue virtuti conte.12 E il valoroso condottiero quasi si materializza: dipinto dalle parole – in prosa e in versi – di Aretino almeno quanto dalle pennellate di Tiziano, occupa il posto che gli si confà, nell’ideale galleria della ritrattistica nobiliare.

11. ARETINO, Lettere, I, pp. 314-315. 12. Ivi, pp. 315-316. Il secondo sonetto cui lo scrittore allude nella lettera a

Veronica Gambara tesse le lodi della duchessa di Urbino, Eleonora, ritratta sempre da Tiziano.

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3. Dall’arte pittorica alla miniatura...

L’accenno a un altro quadro di Tiziano del quale si sono smarrite le tracce compare nella lettera inviata da Aretino il 6 agosto 1542 a Giambattista Torniello, architetto originario di Novara e cittadino veneziano. Dopo essersi soffermato sulle modifiche apportate dal Vecellio a una tavola destinata a Giambattista, Aretino riassume la mirabile ‘esattezza’ della Natività di cui il corrispondente è in attesa con il definirla «piú tosto miniata che dipinta»: Esso [Tiziano] ci ha aggiunto il protettor de la vostra patria [San Gauden-zio] armato, e in cambio de i cherubini, vedrete due angeli di vaghezza ce-leste e di grazia divina. Benché mi duole di non esser lui, intanto che io potessi sodisfarvi ne i fatti, come cerco di compiacervi ne le parole. Che essendo ciò, confessareste, nel ricevere del presepio che aspettate, che fosse piú tosto miniato che dipinto, tanto è perfetto.13

Capace d’individuare anche nelle tele dipinte le peculiarità d’eccellenza tipiche della miniatura, Aretino è altresì in grado di riconoscere i modelli cui si volgono i rappresentanti dell’arte «ch’al-luminar chiamata è in Parisi».14 Nel commentare ad esempio lo stile di Jacopo del Giallo,15 miniatore ispirato, a differenza di molti col-leghi, dalle pitture a olio piuttosto che dalle rifulgenti vetrate delle cattedrali, Aretino sfodera disinvolto sicurezza e competenza termi-nologiche (le sue «lacche di grana e d’ori macinati» rammentano il lessico, anch’esso specifico, tramite il quale Dante ritrae la valletta che ospita in Purgatorio i principi negligenti);16 la sua descrizione,

13. PIETRO ARETINO, Lettere, II, Roma, Salerno, 1998, p. 425. 14. Purgatorio, XI, v. 81. 15. Scarse le notizie su di lui, il cui nome ingenerò inoltre, per un certo tempo,

la sovrapposizione con un omonimo pittore. Fiorentino di origine, attivo fra Roma e il Veneto, viene citato nell’epistolario da Pietro, che gli aveva affidato il compito di miniare la copia delle proprie Stanze per la sirena dedicate all’im-peratrice Isabella; compare inoltre nei Dialogi piacevoli di Nicolò Franco, editi nel 1539: Jacopo vi è detto grande nella miniatura quanto Tiziano lo è nell’arte pittorica (vd. Nicolò Franco, Dialogi piacevoli, a cura di Franco Pignatti, Man-ziana, Vecchiarelli, 2003, p. 295).

16. «Oro e argento fine, cocco e biacca, / indaco, legno lucido e sereno, / fresco smeraldo in l’ora che si fiacca, / da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno / posti, ciascun saria di color vinto, / come dal suo maggiore è vinto il meno» (Purgatorio, VII, vv. 73-78).

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vivida e ben rappresentativa di un soggetto iconografico – squisito per fragilità e apparente inconsistenza – quali possono essere una fragola o le volute che formano il guscio di una lumachina, equivale a un ridottissimo, mirabile quadretto: […] so che i miniatori tengano del disegno de i maestri da le finestre di vetro. E il far loro non è altro che una vaghezza di oltramarini, di verdi azurri, di lacche di grana, e d’ori macinati; studiandosi in una fragola, in una chiocciola, e simili noveluzze. Ma l’opra vostra è tutta disegno, e tutta rilievo; ogni cosa è dolce, sfumata come fusse a olio. Piace a ogniuno il modo con che i bambini posando i piedi sul capo de l’aquile sostengano il breve, ove è di lettre maiuscole il nome de l’Imperadrice, a cui le stanze ho intitolate e mandate.17

L’amorevolezza profusa dall’Onnipotente in ogni piega del creato richiede, perché l’arte cerchi di avvicinarvisi, un’attenzione e una cura pari, se non (ovviamente) nei risultati, almeno nell’in-tento; l’impegno in disegno e colore con cui Jacopo del Giallo ac-compagna le strofe offerte da Aretino alla sovrana esige quindi un ulteriore contraccambio d’inchiostro, come se lo scrittore, impu-gnando una penna finissima, estranea alle sbavature, volesse scam-biare una miniatura per una miniatura: egli promette dunque «in-chiostro per colore e sudore per fatica».

4. …e dalla miniatura agli emblemi

Della miniatura di Jacopo Aretino ammira l’accattivante interse-carsi fra il disegno (aquile e puttini: regalità e tenerezza insieme) e i segni alfabetici inseriti entro un cartiglio a comporre il nome Isa-bella; tale apprezzamento18 conferma l’interesse per i dettagli che gli

17. Jacopo del Giallo aveva eseguito un fregio miniato sulla copia delle stanze

scritte da Aretino per la regina Isabella e a lei spedite in dono. L’epistola (Let-tere, I, 132) reca la data 23 maggio 1537 e venne inviata da Venezia.

18. Va ricordato, tuttavia, che Aretino attribuisce talvolta un’accezione nega-tiva ai termini ‘miniare’ e ‘miniatura’, qualora indichino il gusto del dettaglio fine a sé stesso e l’incapacità di una visione complessiva; così è per esempio in due importanti missive: I, 155 – «attendete a esser scultor di sensi, e non mi-niator di vocaboli» – e V, 345 – alle lettere «bisogna il rilievo de la invenzione, e non la miniatura de l’artifizio».

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fa descrivere, in una missiva risalente al 1545 e destinata alla du-chessa Giulia della Rovere, l’emblema nuziale dal quale vengono uniti, nella promessa di una specchiata fedeltà, le iniziali e i destini dei signori di Urbino, appunto Giulia e Guidobaldo: Quei .GG. felici, che in forma d’impresa cara tra lor inserti dinotano il nome e di Giulia e di Guido Baldo, perpetuamente moglie e marito, non si diseparano punto con l’apparenza da lo affetto con che eglino vi stanno incatenati a l’uno e a l’altro nel core. Onde secondo l’ordine de la legge di Dio, quello significa la fede, e questo il sacramento circa la copula del ma-trimonio; le cui forze miracolose convertono le due persone ne l’essenza d’una carne sola. Talché se mai fu coppia collegata insieme da l’atto del coniugio santo, egli e voi sete quella. E di qui viene che Tiziano ha com-preso il vostro essempio ne le parole del Duca né piú né meno vivo e vero, che vero e vivo in voi stessa si sia. […] Onde ciascun che vi vede dipinta, vi riconosce per tale. In tanto con istupore grande mettesi dubbio in altrui, qual sia maggior cosa, o il fatto del buon pittore in avere saputo sì ben rassemplarvi ne i detti del gran Principe, o quel del gran principe nel caso del sí facile sapervigli dare ad intendere. Ma a che fine dubitare di nessun di loro, essendo voi sempre effigie de la sembianza del signor vostro; e il chiaro artefice tuttavia il medesimo nel dare il fiato de la natura a i colori?19 Ermeneuta esperto di disegni e icone,20 Aretino legge nel reciproco

19. PIETRO ARETINO, Lettere, III, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno,

1999, p. 291. 20. Indaga l’attenzione mostrata da Aretino verso qualunque tipo di immagine

riuscisse rappresentativa (e immediatamente evocativa) della sua personalità – una specie di emblema, quindi, direttamente associato a sé – GIANLUCA GE-

NOVESE nel saggio Il ‘Libro primo’ de le Lettere di Pietro Aretino e una medaglia di Leone Leoni, in Con parola brieve e con figura. Emblemi e imprese fra antico e moderno, a cura di Lina Bolzoni e Silvia Volterrani, Pisa, Edizioni della Normale, 2008, pp. 199-228. La raccolta epistolare, i cui contenuti, accuratamente selezionati, si integrano, rispecchiano e rifrangono nella sagoma dell’autore effigiata su frontespizi, medaglie, grandi tele non solo contribuisce dunque fortemente alla fusione di linguaggio verbale e linguaggio iconico, ma anche costituisce, al mo-mento della stampa del primo volume, un efficace strumento di autopromo-zione (cfr. ivi, pp. 207-209). Da una missiva del maggio 1545 si può avere un’idea di quanto fosse diffusa (e riconoscibile) l’effigie dello scrittore, la cui fama si estendeva sino a imporre nomi a oggetti, animali, canali di Venezia: «come ho detto più volte, ritorno a dire che oltre le medaglie di conio, di getto, in oro, in ariento, in rame, in piombo, e in istucco, io tengo il naturale de la effigie ne le facciate de i palazzi; io l’ho improntata ne le casse de i pettini, ne

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riflesso delle due G la cifra simbolica di un vincolo forte a tal punto che la sposa, Giulia, risulta un’emanazione dell’animo del con-sorte. Una tale identificazione – assoluta – merita solo la mano di Tiziano per venir tradotta in immagini; di queste immagini le pa-role di Aretino sono a propria volta, in un differente codice del-l’espressione, l’unico degno corrispettivo.

5. Nature morte

Estremamente ricche, nel museo verbale costruito da Aretino grazie all’epistolario, sono le sale riservate alle ‘nature morte’. Il tempera-mento estroso, il guizzo della creatività verbale, la tendenza all’am-plificazione virtuosistica anche nell’assaporamento dei piaceri sen-sori – peculiarità, tutte, dello scrittore – si realizzano magnifica-mente quando egli abbia motivo di soffermarsi sulle primizie of-ferte dal regno di Flora o su squisitezze gastronomiche trasferite dalle aie alle cucine. In una sorta di festoso catalogo di erbe aroma-tiche, profumati boccioli, succose frutta e verdure, la missiva inviata a Francesco Marcolini il 3 giugno 1537 riesce a tracciare, in una serie di ‘quadri’ via via più ampi, schizzi svariati di prelibatezze – cestini ricolmi di leccornie, godibilissime fritture –, interni dome-stici ravvivati dall’operosità chiassosa delle fantesche e, tutt’in-torno, un orto-giardino, rigoglioso dal terreno ingemmato di frago-line sino ai rami degli alberi, che pare un vivente inno alla prima-vera: Voi cominciaste con i fiori de gli aranci ad aguzzarmi l’appetito nel condir-gli come le mie fanti condiscano i caccialepri, la pimpinella, il dragone con

gli ornamenti de gli specchi, ne i piatti di maiolica, al par d’Alessandro, di Ce-sare e di Scipio. E più vi affermo, che a Murano alcune sorti di vasi di cristallo si chiamano gli Aretini. E l’Aretina nominasi la razza de gli ubini in memoria d’una che a me Clemente Papa, e io a Federigo Duca diedi. Il rio de l’Aretino è battezzato quel che bagna un de i lati de la casa ch’io abito sul gran Canale» (ivi, pp. 202-203). Sulle contaminazioni tra arti visive e letteratura, si rammenta il contributo di GUIDO ARBIZZONI, Le imprese come ritratto dell’anima, in Tra parola e immagine. Effigi, busti, ritratti nelle forme letterarie. Atti del convegno Mace-rata-Urbino (3-5 aprile 2001), a cura di Luciana Gentilli, Patrizia Oppici, Rita Monacelli, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2003, pp. 33-45.

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altre di piú di cento ragioni erbe, che mi si appresentano in alcune pane-rette e in alcuni canestrelli sí ben tessuti co i giunchi, che è forza ne l’ac-cettar de la mescolanza torvi e le panerette e i canestrelli. Onde la donna vostra ne debbe far tanto romore in non riavergli, quanta festa fanno le mie in torvigli. Io non so dove vi cogliate le varietà de i fiori, de le viole, e de i garofani, che, quando non pur accennano di spuntare fuora de la boc-cia, mi mandate tutti fioriti e tutti odoriferi. Ecco a me i mazzetti de le viole mammole inanzi Aprile; eccomi pieno il grembo di rose a l’ora che non se ne veda una per miracolo. E che dico io de le mandorle tenerine, che mi piacciono come a le femine gravide? A pena le ciriege cominciano a far le gote rosse, che mature me ne fate assaggiare. Ma dove lascio le fragole sparse di grana naturale e di moscado nativo? E i cedriuoli che a pena avevano sputato il fiore? […] Io posso arischiarmi a metter pegno con qualunche volesse dire ch’io non sia stato il primo a vedere i fichi di questo anno, colti nel vostro dilettevole giardino. E cosí sarò a gustar le pere mo-scatelle, le arbicocche, i melloni, le susine, l’uve, e le pesche. Ma dove si rimangano i carcioffi che sí per tempo m’avete portato in tavola? E dove le zucche, che fritte e ne la scodella ho mangiate, quando io arei giurato che non fussero a pena fiorite?21

Più concreta, la missiva destinata nel marzo dell’anno 1552 a Gianiacopo da Roma (forse studente presso l’ateneo di Padova) rin-grazia per il dono di un gallo d’India (festeggiato a dovere dall’au-tore e dai suoi amici, una volta messo in tavola), la cui carne tene-rissima determinerebbe l’impotente invidia di altri volatili (quasi per ciascuno di loro fosse un titolo di vanto l’essere prescelto per la mensa dei gentiluomini!); anche in questo caso, la penna di Are-tino tratteggia una scena di genere, al centro della quale troneggia in trionfo il succulento pollame imbandito, in cui i convitati, emi-nenti politici, uomini di cultura e belle donne, obliano se stessi, rapiti dalle «tre polpe» che il gallo giunto dalla città di Antenore unisce nel suo petto: Del sí bello a vedere, e sí buono a mangiare, gallo d’India che l’umana

21. ARETINO, Lettere, I, pp. 206-207. La sequenza di meraviglie (per gli occhi,

per l’olfatto, per il palato) qui nominate trae ulteriore rilievo dall’artificio delle domande retoriche, che costituiscono inoltre una preterizione. Cfr., su questa lettera, ROBERTO RISSO, Idea, ‘fabrica’, ‘nuova maniera’. Pietro Aretino e la crea-zione del libro di ‘Lettere’, «Critica letteraria», XXXIX, 2011, pp. 38-65, p. 52: frutta e verdura prelibate sono un piacere di gola cui lo scrittore davvero non sa rinunciare.

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gentilezza della di Voi real cortesia costí da Padova mi manda, vi ringrazio tante volte quante penne egli avea nella coda e ne l’ale; e piú anco vera-mente che io de sí onorata vivanda ne ho fatto pasto alla piú bella, alla piú dolce, e a la piú costumata Madonna che abbia Cupido in sua corte. De la Spadara Angela22 è stato convito l’uccello che, se non precede al pavone, gli resta indietro sí poco, che par che vada seco del pari. Lo Imbasciatore di Mantua, Monsignor Torquato Bembo, il Sansovino, e Tiziano, intrate-nendo la divina giovane a tavola, sonno andati godendo de l’animale che ha tre sorti di polpe nel petto. Onde ella et eglino a ogni boccone hanno dato benedizzioni al donatore di sí sfoggiata carne, in bianchezza e nel gu-sto. Sí che ogni pernice e fagiano, ogni tortora e quaglia, e ogni ortolano, se avessero tanto di senno, quanto hanno sapore, s’inghiottirebbero l’un l’altro d’invidia.23

Confidente primo di Aretino rimane tuttavia Tiziano, nelle let-tere al quale lo scrittore affronta con la libertà garantita da una lunga confidenza ogni sorta di argomenti. Non mancano dunque, nelle missive dirette al pittore, accenni a momenti di convivialità già condivisi o da condividere. Singolare, per la sobria misura di malinconia che la soffonde pur nella piacevolezza dell’occasione evocata, è l’epistola, composta nel dicembre del 1547, in cui Are-tino invita l’amico a cena. L’incontro – egli scrive – non solo verrà allietato dalle vivande predisposte, signoreggiate da una coppia di fagiani, e dalla presenza della compagna dello scrittore, Angela Zaf-fetta,24 ma soprattutto varrà a distogliere l’attenzione della vec-chiaia, spia della morte, dai partecipanti al convito: essi, indossata

22. Insieme ad Angela Zaffetta, Angela Sarra, Lucrezia Squarcia, Marina Basa-

donna (e a molte altre…) Angela Spadara rientra nel novero delle cortigiane che Aretino, come attesta proprio il suo epistolario, frequentò dal 1535 al 1554.

23. ARETINO, Lettere, VI, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno, 2002, pp. 109-110.

24. Detta Zaffetta poiché il suo patrigno era uno ‘zaffo’ (una guardia), Angela Dal Moro, nota cortigiana di Venezia, fu legata ad Aretino e ammessa nella sua cerchia. Tiziano, che ne ammirava l’avvenenza, attribuì i suoi lineamenti a molti personaggi dei suoi dipinti. Angela frequentò anche Lorenzo Venier (1510-1550), fratello di Domenico, animatore di un fervente circolo di petrar-chisti. Alla conoscenza di Lorenzo (la cui penna si compiaceva di argomenti satirici od osceni) si lega un terribile episodio della vita di Angela, testimoniato dal poemetto (autore è Venier) Il trentuno della Zaffetta, in cui si descrive la violenza subita dalla donna a opera di decine di uomini di bassa condizione. Al tempo, infatti, nonostante le leggi era invalso il costume, da parte dei loro

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la maschera di una giovanile gaiezza, la inganneranno ed esorcizze-ranno così il rischio di un suo imminente arrivo, stringendosi in un sodalizio fraterno nell’urgenza di apparire lieti, vigorosi, colmi di appetito per la vita: Un paio di fagiani e non so che altro, vi aspettano a cena, insieme con la Signora Angiola Zaffetta e io; si ché venite, a ciò che dandoci continua-mente ispasso, la vecchiaia, spia de la morte, non gli raporti mai che noi siamo vecchi. Imperoché, trasformandola tutti due con la mascara de la gioventú, non è per sí presto acorgersi del carico nostro de gli anni; i quali di maturi che sono tornano acerbi, quando gli atempati vanno vivendo piacevolmente.25

Intuiamo però che, se pure la Morte dovesse venir tratta in er-rore da questa – festosa e lugubre, disperata e disperante – finzione, coloro che ne saranno attori non inganneranno sé stessi. E sulla scena d’interno tracciata da Pietro Aretino, in un angolo, vergato con un inchiostro tanto cupo da confondersi con lo sfondo e dive-nire indistinguibile, leggiamo uno struggente memento mori, e ram-mentiamo allora i dipinti in cui un teschio, abbandonato in un paesaggio bucolico, dichiara: et in Arcadia ego.

6. Per finire, Aretino paesaggista e l’ora di Tiziano

Meritatamente celebre, fra le lettere di Pietro Aretino dedicate all’amico Tiziano, è la missiva – un autentico, spettacolare dipinto, traboccante di sfumature, di ombre e luci descritte con il lessico dell’arte – in cui lo scrittore, immerso, dall’alto del suo balcone sul Canal Grande, nel fulgore di un tramonto conclude invocando l’amico, il cui pennello solo saprebbe rendere giustizia allo spetta-colo. L’attenzione critica tributata a questo passo di riuscitissima

altolocati amanti, di punire così, al fine di umiliarle, le cortigiane che fossero parse meritevoli di un castigo. Offeso a causa del rifiuto oppostogli un giorno dalla donna, il suo amante (Lorenzo stesso?), dissimulato il suo risentimento, l’aveva fatta poi cadere in una vendicativa e degradante trappola: con il pretesto di un’escursione in barca verso Malamocco e Chioggia, la condusse in un luogo isolato e la consegnò alla rapacità di un gruppo di pescatori, barcaioli, facchini. Si pensa che la violenza di gruppo si sia consumata il 3 aprile dell’anno 1531.

25. ARETINO, Lettere, IV, p. 198.

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prosa poetica è stata costante nel tempo; qui ci si limita dunque a riportarne uno stralcio – tale da consacrare Aretino quale inegua-gliabile pittore di paesaggi, con le parole – ricordando però che pro-prio a tale lettera sembra legittimo ricondurre la definizione che del tramonto viene data da autori ben più tardi. In letteratura, il tra-monto diventa infatti, per antonomasia, l’‘ora di Tiziano’: […] appoggiate le braccia in sul piano de la cornice de la finestra, e sopra lui abbandonato il petto, e quasi il resto di tutta la persona, mi diedi a riguardare il mirabile spettacolo che facevano le barche infinite, le quali, piene non men di forestieri che di terrazzani, ricreavano non pure i riguar-danti, ma esso canal grande ricreatore di ciascun che il solca. E subito che forní lo spasso di due gondole, che con altrettanti barcaiuoli famosi fecero a gara nel vogare, trassi molto piacere de la moltitudine che per vedere la rigatta si era fermata nel ponte del Rialto, ne la riva de i Camerlinghi, nella Pescaria, nel Traghetto di Santa Sophia […]. […] rivolgo gli occhi al cielo, il quale da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da cosí vaga pittura di ombre, e di lumi. Onde l’aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non poter esser voi, che vedete, nel raccontarlo io, inprima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgete l’aria ch’io com-presi in alcun luogo pura e viva; in altra parte torbida e smorta. Conside-rate anco la maraviglia ch’io ebbi de i nuvoli composti d’umidità condensa. I quali in la principal veduta, mezzi si stavano vicini a i tetti de gli edificii, e mezzi ne la penultima. Peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pen-dente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostra-vano. I piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i piú lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da i palazzi con il modo, che la discosta il Vecellio nel far de i paesi. Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azurro verde veramente composto da le bizarrie de la natura maestra de i maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: «O Tiziano, dove sete mo’?».26

A confermare quanto il tramonto divenga, nella memoria delle

26. La missiva, risalente al maggio 1544, viene citata dall’edizione a cura di

Paolo Procaccioli, III, pp. 79-80.

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generazioni successive, l’ora di Tiziano, vale un passo tratto dal Fuo-co di Gabriele d’Annunzio: Ancor durava l’ora vesperale che in uno de’ suoi libri egli [Stelio Éffrena, il protagonista] aveva chiamata l’ora di Tiziano27 perché tutte le cose pare-vano risplendere ultimamente di una lor propria luce ricca, come le nude creature di quell’artefice, e quasi illuminare il cielo anzi che riceverne lume.28 Miglior commento alla lettera di Aretino – e maggior riconosci-mento del suo valore – probabilmente non si potrebbe dare.

27. La stessa definizione compare nel Piacere, seppure in riferimento allo splen-

dore irradiato dagli edifici di Roma (cfr. Prose di romanzi, volume I, Milano, Mondadori 19789, p. 197).

28. Si cita dall’edizione a cura di Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1996, p. 7.

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MICHELE COMELLI

RICERCHE IN CORSO SULLE LETTERE

DI GIOVANNI DELLA CASA

Il progetto di un’edizione della corrispondenza di Giovanni Della Casa,1 più volte auspicato, in particolare dopo l’approdo nella Bi-blioteca Apostolica Vaticana dei mss. Ricci-Parracciani (attuali mss. Vat. Lat. 14825-14837), resta ad oggi disatteso, per una serie di mo-tivi che non si possono ascrivere esclusivamente alle ristrettezze in cui versa la ricerca, ma che derivano, in primo luogo, dalla figura di letterato – per certi versi atipica –, che Della Casa incarnò nella prime metà del Cinquecento, e dalle conseguenti implicazioni. Pro-prio da tale peculiarità, su cui gli studi più recenti hanno giusta-mente insistito, è bene dunque partire preliminarmente, ribaden-do alcuni concetti ormai ovvi e però imprescindibili per l’inquadra-mento della questione.2

1. Per un panorama dettagliato e aggiornato sui mss. Ricci-Parracciani e sullo

stato dell’arte della corrispondenza dellacasiana, si veda CLAUDIA BERRA, La corrispondenza di Giovanni Della Casa: stato dell’arte, progetti (e dieci inediti), in Epi-stolari dal Due al Seicento: modelli, questioni ecdotiche, edizioni, cantieri aperti, a cura di Paolo Borsa, Claudia Berra, Michele Comelli e Stefano Martinelli Tempesta, Milano, Università degli Studi, 2018, pp. 419-455; e, della medesima, Giovanni Della Casa, in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, t. III, a cura di Matteo Motolese, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, consulenza paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Salerno editrice, i.c.s.

2. Il riferimento è ai volumi degli atti dei convegni tenutisi a fine anni No-vanta e in occasione del cinquecentenario dell’autore: Per Giovanni Della Casa. Ricerche e contributi, a cura di Gennaro Barbarisi e Claudia Berra, Milano, Ci-salpino, 1997; Giovanni Della Casa. Un seminario per il centenario, a cura di Ame-deo Quondam, Roma, Bulzoni, 2006; e soprattutto Giovanni Della Casa, eccle-siastico e scrittore, Atti del convegno (Firenze-Borgo San Lorenzo, 20-22 novem-bre 2003), a cura di Stefano Carrai, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, che sin dal titolo mette a tema la dialettica tra carriera letteraria e carriera ecclesiastica. Già però gli studi di Lorenzo Campana e di Antonio Santosuosso avevano posto l’accento sulla rilevanza della biografia politica e curiale dell’au-tore, con lavori che restano tutt’oggi insostituibili: LORENZO CAMPANA, Mon-signor Giovanni Della Casa e i suoi tempi, «Studi storici», XVI, 1907, pp. 3-84, 247-269, 349-580; XVII, 1908, pp. 145-282, 381-606; XVIII, 1909, pp. 325-

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Come è noto, Giovanni Della Casa, per lo più conosciuto come autore del Galateo, fu anche uno dei massimi poeti lirici della prima metà del Cinquecento, nonché un abilissimo prosatore e verseggia-tore latino. Ancora, è bene tenere presente che egli non fu solo scrittore di chiara fama ma anche, e forse innanzitutto, un ecclesia-stico profondamente impegnato nella carriera curiale e nella poli-tica contemporanea, e che anzi la letteratura fu per lui piuttosto un impegno privato, condiviso con una cerchia ristretta di amici, tan-t’è che le edizioni delle sue opere furono sostanzialmente postume;3 e il dato non è irrilevante per un uomo vissuto tra 1503 e 1556, tra Firenze, Roma, Bologna e Venezia, e tanto più per un uomo che fu sodale di Bembo, Gualteruzzi e Vettori, personalità fortemente im-plicate col mondo editoriale. Che poi la dimensione letteraria, che aveva riservato alla sfera intima, abbia prevalso nei secoli successivi su quella politica, restituendoci il «paradosso» di un letterato la cui fama fu soprattutto postuma, non deve far dimenticare che il bino-mio ecclesiastico-scrittore resta imprescindibile;4 e in fondo altret-tanto paradossale è lo scarso interesse riservato dalla storiografia a

513; ANTONIO SANTOSUOSSO, The Moderate Inquisitor. Giovanni Della Casa’s Venetian Nunciature, 1544-1549, «Studi veneziani», n.s., II, 1978, pp. 119-210 e, del medesimo, Vita di Giovanni Della Casa, Roma, Bulzoni, 1979. A questi si dovrà infine aggiungere la voce di CLAUDIO MUTINI, Della Casa, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani [d’ora in poi DBI, seguito da volume, anno, pagine], Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, XXXVI, 1988, pp. 699-719.

3. Com’è noto, le opere di Della Casa furono divulgate in due edizioni po-stume cinquecentesche, che hanno posto e ancora pongono – come è normale per le edizioni postume – diversi dubbi critici: GIOVANNI DELLA CASA, Rime et prose, Venezia, Nicolò Bevilacqua, 1558, per le cure del segretario di Della Casa, Erasmo Gemini; GIOVANNI DELLA CASA, Latina Monimenta, Firenze, Giunti, 1564, per le cure di Piero Vettori. Di entrambe le edizioni è oggi dispo-nibile una ristampa anastatica: GIOVANNI DELLA CASA, Rime et prose. Latina monimenta, a cura di Stefano Carrai, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006.

4. Stefano Carrai ha parlato giustamente di «paradosso» per cui la fama lette-raria di Della Casa fu sostanzialmente postuma, non certo perché, vivente l’au-tore, essa non fosse riconosciuta (si può anzi parlare di un’investitura da parte di amici come Bembo, che immediatamente riconobbe la caratura letteraria del giovane amico, o come Varchi, che con la sua lettura del sonetto Alla gelosia lo inseriva, forse anche suo malgrado, nel canone cinquecentesco, o come Vettori, che a lui si rivolgeva come a un interlocutore privilegiato per dubbi filologici),

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una figura centrale nella politica di metà Cinquecento.5 Se dunque il nostro autore riservava alla sfera personale l’eser-

cizio letterario e mai pensò – che si sappia – a un’edizione delle sue opere, è prevedibile che neppure mai pensasse a una raccolta delle sue lettere né a un epistolario; anche in questo caso il dato non è irrilevante, visto il successo che il genere epistolare andava riscuo-tendo proprio in quegli anni. Dunque, come vale un po’ per tutte le opere del Casa, anche le molte lettere, che pure certamente scris-se com’era prassi dell’epoca, sono andate soggette a dispersione e, di conseguenza, una recensio che ambisca ad essere esaustiva si pro-fila ardua, se non scoraggiante.

A ciò si deve aggiungere che, nonostante l’epistolografia sia di-ventata nel corso del Cinquecento un genere letterario sempre più fortunato e autorevole, rari sono i casi di edizioni di lettere dellaca-siane. A fronte di un controllo pur non sistematico, si registrano solo tre lettere latine: due edite da Vettori nei Latina monimenta del 1564, legate a circostanze particolari (una per il cardinalato di Ra-nuccio Farnese e una di risposta a una sollecitazione dell’amico Pie-ro Vettori) e una a Dionisio Lambino (nome italianizzato del noto filologo Denis Lambin), del novembre 1554, pubblicata per la pri-ma volta a Venezia tra le Epistolae clarorum virorum, selectae de quam-plurimis optimae, ad indicandam nostrorum temporum eloquentiam, da Domenico e Giovan Battista Guerra nel 1568.6

bensì perché egli consegnò principalmente alla carriera politica la propria di-mensione pubblica, mentre la sua fama postuma fu soprattutto letteraria (STE-

FANO CARRAI, Introduzione a DELLA CASA, Rime et prose. Latina monimenta, p. IX).

5. Come ho già avuto modo di segnalare altrove (MICHELE COMELLI, Un do-cumento inedito di Giovanni Della Casa in difesa della giurisdizione ecclesiastica a Venezia, «Riforma e Movimenti Religiosi», I, 2017, pp. 225-262), gli studi storici si sono per lo più interessati al ruolo inquisitoriale di Della Casa; un ruolo che, per altro, i recenti contributi hanno in certo qual modo ridimensionato (cfr. ANDREA DEL COL, Il nunzio Giovanni Della Casa e l’Inquisizione a Venezia, in Giovanni Della Casa, ecclesiastico e scrittore, pp. 1-30; e, del medesimo, Della Casa, Giovanni, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da Adriano Prosperi, con la collaborazione di Vincenzo Lavenia e John Tedeschi, 4 voll., Pisa, Edizioni della Normale, 2010, vol. I, pp. 459-460). Sullo scarso interesse riservato dagli studi storici alla figura di Della Casa, si è espressa anche BERRA, La corrispon-denza di Giovanni Della Casa, p. 420.

6. Epistolae clarorum virorum, selectae de quamplurimis optimae, ad indicandam no-

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Come per le opere letterarie di Della Casa, anche per le lettere occorre attendere le edizioni settecentesche curate dall’abate Gio-van Battista Casotti per una prima incursione e sistemazione dei testimoni:7 Casotti pubblicò circa 300 lettere attingendo dagli ar-chivi di varie famiglie fiorentine e, fortunatamente, buona parte del suo lavoro è ancora oggi ricostruibile grazie agli zibaldoni conservati nella Biblioteca Riccardiana di Firenze,8 anche se i fondi, quando non gli interi archivi, si sono nel tempo spostati, smembrati e in certi casi volatilizzati. Tra Otto e Novecento sono poi seguite diver-se e preziose edizioni di altre parti della corrispondenza dellaca-siana, che tuttora riaffiora qua e là, dispersa in archivi e biblioteche italiane ed estere.9 Nonostante l’impegno di molti studiosi, il risul-

strorum temporum eloquentiam. Nunc demum emendatae, auctae, summaque diligen-tia excusae, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1568, cc. 112v-113v. La silloge, che ripropone, ampliandola, quella pubblicata da Paolo Manuzio nel 1556, presenta in realtà una sezione intitolata Epistolae, quae sequuntur, num-quam impressae, a Nobis hic addita sunt, a partire da c. 114v; il che lascia intendere che la nostra epistola, collocata nella sezione precedente a questa aggiunta, fosse già stata pubblicata, ma nella raccolta di Manuzio non appare la lettera di Della Casa, né l’ho trovata in altre edizioni antecedenti al 1568 (neppure in quelle di opere del Lambin, che avrebbe potuto esibire i riconoscimenti del letterato italiano).

7. Sulla figura di Casotti, si può vedere la voce di CLAUDIO MUTINI, Casotti, Giovan Battista, in DBI, XXI, 1978, pp. 426-428; relativamente all’edizione delle opere dellacasiane, cfr. STEFANO PRANDI, Fortuna secentesca del Casa: Mé-nage, gli accademici della Crusca e G.B. Casotti, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXIX, 1992, pp. 400-408; e il già citato BERRA, Giovanni Della Casa. Le edizioni settecentesche curate da Casotti sono: Opere di monsignor Giovanni della Casa. Con una copiosa giunta di scritture non più stampate […], 3 voll., Firenze, Manni, 1707; Opere di monsignor Giovanni Della Casa. Edizione veneta novissima. Con giunte di opere dello stesso Autore […], 5 voll., Venezia, Pasinello, 1728-29; Opere di monsignor Giovanni Della Casa. Dopo l’edizione di Fiorenza del MDCCVII e di Venezia del MDCCXXVIII molto illustrate e di cose inedite accresciute, 6 voll., Napoli, s.e., 1733; Opere di monsignor Giovanni Della Casa. Seconda edizione veneta accresciuta e riordinata […], 3 voll., Venezia, Pasinello, 1752. In particolare, l’edi-zione napoletana (sulla quale si veda MARIA CONSIGLIA NAPOLI, La fortuna editoriale di Giovanni Della Casa a Napoli in età moderna, in Giovanni Della Casa ecclesiastico e scrittore, pp. 109-124) risulta la più completa.

8. Firenze, Biblioteca Riccardiana, mss. 2477, 2479 e 2747. 9. Oltre all’edizione milanese Opere di Monsignor Giovanni Della Casa, Milano,

Società tipografica de’ classici italiani, 1806 (che ripropone, in sostanza, quanto

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tato è ad oggi inevitabilmente parziale e buona parte del lavoro re-sta ancora da fare.

Se, a fronte di tale panorama, pare pressoché impraticabile la strada di un censimento completo, il punto di partenza non posso-no che essere i già menzionati manoscritti Ricci-Parracciani le cui carte, pur essendo ormai accessibili agli studiosi da una cinquanti-na d’anni, restano per gran parte inedite. I mss. ex Ricci-Parraccia-ni, oggi Vat. Lat. 14825-14837, contengono infatti oltre ad alcune

contenuto nelle edizioni settecentesche), all’Ottocento risalgono l’edizione di diverse lettere inedite a Gualteruzzi a opera di Luigi Rezzi (Lettere di Monsig. Giovanni Della Casa Arcivescovo di Benevento a Carlo Gualteruzzi da Fano cavate da un manoscritto originale Barberino e pubblicate la prima volta da Luigi Maria Rezzi, Imola, Tipografia del Seminario, 1824), quella della corrispondenza con Ales-sandro Farnese conservata nell’Archivio di Stato di Parma (AMADIO RON-

CHINI, Lettere d’uomini illustri conservate in Parma nel R. Archivio dello Stato, Parma, Reale tipografia, 1853, pp. 113-282) e di alcune altre lettere (Scritti ine-diti di M. Gio. Della Casa, pubblicati da Giuseppe Cugnoni, bibliotecario chi-giano, Roma, Forzani & C. tipografi del Senato, 1889; cui si aggiungono le scritture dellacasiane, su cui occorrerebbe però qualche accertamento, pubbli-cate da LODOVICO PASSARINI, Alcuni scritti inediti di Monsignor Giovanni Della Casa, «Il Propugnatore», VIII, 1875, parte I, pp. 343-351; parte II, pp. 149-163). Nel Novecento, oltre alle diverse lettere pubblicate parzialmente o integral-mente (nell’Appendice documentaria) da CAMPANA, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi; si vedano PIETRO LONARDO, Quattro lettere inedite di Gio-vanni Della Casa, «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», XI, 1903, pp. 154-157; ETTORE BERNABEI, Per il IV centenario di Mons. Giovanni Della Casa, «Rassegna nazionale», XXXV, 1903, pp. 173-178; fino alle recenti edi-zioni della corrispondenza Della Casa-Gualteruzzi (Corrispondenza Giovanni Della Casa-Carlo Gualteruzzi, a cura di Ornella Moroni, Città del Vaticano, Bi-blioteca Apostolica Vaticana, 1986), della corrispondenza fra Della Casa e An-nibale Rucellai (MICHELE MARI, Le lettere di Giovanni Della Casa ad Annibale Rucellai, in Per Giovanni Della Casa, pp. 372-417), di quella volgare tra Della Casa e Vettori (ELIANA CARRARA, Il carteggio in volgare di Giovanni Della Casa con Piero Vettori, in Giovanni Della Casa ecclesiastico e scrittore, pp. 125-170) e di quella col Querini (CLAUDIA BERRA, Le lettere di Giovanni Della Casa a Girolamo Querini, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, a cura di Claudia Berra e Michele Mari, Milano, Cuem, 2007, pp. 215-257). Tuttora continuano a emergere nuovi ritrovamenti: VANNI BRAMANTI, Una lettera ‘perduta’ di monsignor Della Casa, «Quaderni Veneti», III, 2014, pp. 9-26; i dieci inediti pubblicati da BERRA, La corrispondenza di Giovanni Della Casa, pp. 440-455; MICHELE CO-

MELLI, Una lettera perduta di Giovanni Della Casa a Piero Vettori e la corrispondenza burlesca con Antonio Bernardi della Mirandola, «Rivista Europea di Letteratura Ita-liana», XLIX-L, 2017, pp. 141-161.

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opere letterarie (conservate negli attuali primi due volumi, Vat. Lat. 14825 e 14826) soprattutto lettere, per lo più risalenti agli anni della nunziatura veneziana di Della Casa (settembre 1544-dicembre 1549): l’attuale ms. Vat. Lat. 14827 è un codice miscellaneo che raccoglie diverse tipologie di missive (minute, originali, copie, stralci di lettere) rivolte a vari destinatari e risalenti a un periodo compreso tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Cinquecen-to; i mss. Vat. Lat. 14828-14829 contengono invece un registro di lettere inviate da Della Casa alla Segreteria di Stato pontificia (in particolare, per la maggior parte dei casi, al cardinale Alessandro Farnese, allora segretario di Stato)10 fra l’8 maggio 1546 e il 21 di-cembre 1549, cui si aggiunge, nell’ultima parte del ms. Vat. Lat. 14829, un interessante fascicolo di lettere cifrate o da cifrare e, in qualche caso, decifrate, attinenti sempre alla corrispondenza con il cardinale Alessandro Farnese e, più in generale, con la Segreteria di Stato.11 Il ms. Vat. Lat. 14830 conserva poi la corrispondenza tra il nunzio e i legati del Concilio di Trento, i cardinali Giovanni Ma-ria Ciocchi Del Monte, Marcello Cervini e Reginald Pole (si tratta di copie di registro e originali). I mss. Vat. Lat. 14831-14833 raccol-gono le lettere originali spedite a Venezia dalla Segreteria di Stato romana (dal cardinale Alessandro Farnese, ma in qualche caso dal

10. Non mancano però lettere indirizzate al camerlengo, Guido Ascanio

Sforza di Santa Fiora, che sostituì il cardinale Farnese durante le assenze di quest’ultimo (come nel caso della sua ambasciata a Worms, presso l’impera-tore, nella primavera del 1545, o della spedizione di Germania, alla guida col fratello Ottavio delle truppe pontificie accanto a quelle imperiali contro la Lega di Smalcalda, tra il luglio e il dicembre 1546), a Bernardino Maffei, vescovo di Massa e segretario personale del Farnese, a Ottavio Farnese, al Sacro Collegio cardinalizio, e, in un caso, direttamente a Paolo III.

11. Il fascicolo occupa le cc. 166-216 del ms. Vat. Lat. 14829 ed è di particolare interesse perché conserva anche la cifra (almeno una di quelle utilizzate) e per-mette, soprattutto per le lettere di cui si conserva anche la decifrazione (in molti casi autografa dello stesso Della Casa), oltreché di ricostruire i contenuti dei messaggi, di ricostruire i meccanismi sottesi alla cifratura, una procedura parti-colarmente fortunata a metà Cinquecento per lo scambio di messaggi riservati e compromettenti. Il fascicolo è stato oggetto di studio della tesi di laurea trien-nale di ELISABETTA CATTANEO, La scrittura in cifra di Giovanni Della Casa. Tra-scrizioni dal ms. Vat. Lat. 14829, tesi di laurea triennale in Lettere, relatore prof. Claudia Berra, Università degli Studi di Milano, a.a. 2010/2011. Ma si veda qui di seguito, in Appendice, per un esempio.

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camerlengo o da altre figure della Corte farnesiana) o da Alessan-dro Farnese durante le sue missioni. I mss. Vat. Lat. 14834 e 14835 custodiscono per lo più le lettere originali inviate da Giovanni Bianchetti, agente romano di Della Casa, al suo patrono negli anni della nunziatura e, nell’ultima parte, alcune lettere del 1549 inviate al Casa dal vescovo di Ceneda, Michele della Torre,12 e una lettera del dicembre 1544 di Montemerlo de Montemerli.13 Gli ultimi due volumi, infine, i mss. Vat. Lat. 14836 e 14837, contengono le lette-re originali inviate da Carlo Gualteruzzi a Della Casa negli anni della nunziatura e sono state pubblicate da Ornella Moroni nella sua edizione della corrispondenza Della Casa-Gualteruzzi.

Le carte – come avremo modo di vedere – discendono diretta-mente dall’eredità dell’autore e sono dunque una preziosissima te-stimonianza, oltre che per i problemi critici che hanno posto per le opere letterarie, per la biografia dellacasiana. Custodite gelosamen-te dagli eredi della famiglia Ricci, esse furono consultate da Casotti, da Cugnoni, da Campana (che le ha ampiamente utilizzate per la sua monografia, procurando l’edizione integrale di un centinaio di documenti e citando molte delle lettere qui contenute) e da alcuni altri studiosi (tra cui Giuseppe Prezzolini, Gennaro Barbarisi e Paul Oskar Kristeller); solo però il passaggio dei volumi in Vaticana nel 1968 ha determinato un rilancio degli studi sul Della Casa, in par-ticolare per quanto riguarda le opere letterarie, ma anche sul ver-sante epistolografico con la già citata edizione della corrispondenza Della Casa-Gualteruzzi, con l’edizione della corrispondenza tra Del-la Casa e Rucellai a cura di Michele Mari, e quella della corrispon-denza tra Della Casa e Girolamo Querini a cura di Claudia Berra.14

12. Il Della Torre era diventato vescovo di Ceneda nel 1547, in seguito alla

morte di Marino Grimani e a un lungo contenzioso tra Repubblica di Venezia e Papato sulla successione al soglio vescovile, della quale Della Casa, in quanto nunzio, era stato mediatore. Nel ’49 è nunzio apostolico in Francia. Su Della Torre, si veda la voce di MATTEO SANFILIPPO, Della Torre, Michele, in DBI, XXXVII, 1989, pp. 619-621.

13. Agente dei Farnese; cfr. Correspondance des nonces en France. Vol. 6: Dandino, Della Torre et Trivultio (1546-1551), éditée par Jean Lestocquoy, Rome – Paris, Presses de l’Université Grégorienne – Éditions E. de Boccard, 1966, p. 39, nota 4.

14. Cfr. Corrispondenza Giovanni Della Casa-Carlo Gualteruzzi; MARI, Le lettere di Giovanni Della Casa ad Annibale Rucellai; e BERRA, Le lettere di Giovanni Della Casa a Girolamo Querini.

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Ciononostante, anche l’edizione di quei documenti finalmente ac-cessibili, che allora appariva come una pratica facile da chiudere, è rimasta incompiuta.

Proprio da questa situazione ha preso le mosse il PRIN 2015, Repertorio Epistolare del Cinquecento. Teorie, lingua, pratiche di un genere (Bibbiena, Della Casa, Bernardo e Torquato Tasso, Marino), le cui unità di Siena e di Milano, coordinate rispettivamente da Stefano Carrai e da Claudia Berra, si sono prefissate l’obiettivo di procurare l’edi-zione della corrispondenza tra Della Casa e i Legati del Concilio di Trento contenuta nel ms. Vat. Lat. 14830 (per quanto riguarda l’unità di Siena) e della corrispondenza tra Della Casa e il cardinale Alessandro Farnese, contenuta nei mss. Vat. Lat. 14827-14829 e 14831-14833 (per quanto riguarda l’unità di Milano) e, contestual-mente, di schedare le lettere di queste corrispondenze per la piatta-forma Archilet (www.archilet.it).

Per l’unità di Siena, Monica Marchi si sta dunque attualmente occupando dell’edizione delle poco meno di duecento lettere con-servate nel ms. Vat. Lat. 14830, mentre Irene Tani sta schedando le missive per Archilet.

Per quanto riguarda l’unità di Milano, chi scrive sta lavorando all’edizione della corrispondenza tra Della Casa e il cardinale Ales-sandro Farnese contenuta nei mss. Vaticani Latini 14827-14829 e 14831-14833, mentre la schedatura per il repertorio epistolare Ar-chilet è stata assegnata a laureandi di tesi magistrali all’interno di un Progetto speciale per la didattica già avviato da Claudia Berra nel 2015 e dal titolo Realizzazione sul sito ‘Archilet’ di un database episto-lare delle lettere di Giovanni Della Casa attraverso le tesi di laurea magi-strale.15 Dal 2015 a oggi sono state approntate e discusse diciassette

15. Il progetto di Claudia Berra di riordinare la corrispondenza dellacasiana

contenuta nei mss. della Biblioteca Apostolica Vaticana ai fini di una pubbli-cazione risale in realtà già a qualche anno prima del PRIN 2015, così come il ricorso a progetti didattici destinati a laureandi per iniziare un primo censi-mento, come è il caso delle tesi magistrali discusse da SILVIA RICCIARDI, Indice del ms. Vat. Lat. 14827. Lettere di Giovanni Della Casa, tesi di laurea magistrale in Lettere moderne, relatore prof. Claudia Berra, correlatore prof. Paolo Borsa, Università degli Studi di Milano, a.a. 2011/2012; e da ELISABETTA CATTA-

NEO, Indice del ms. Vat. Lat. 14829. Lettere di Giovanni Della Casa, tesi di laurea magistrale in Lettere moderne, relatore prof. Claudia Berra, correlatore prof. Michele Mari, Università degli Studi di Milano, a.a. 2013/2014. Per un pano-

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tesi di laurea magistrale, che hanno portato alla schedatura della corrispondenza contenuta nei mss. Vat. Lat. 14828, 14829, 14831 e di buona parte delle lettere contenute nel ms. Vat. Lat. 14832 (fi-no a c. 190).16 Si tratta di un lavoro meritorio quanto arduo per gli studenti, che si sono trovati ad affrontare le fatiche della trascrizio-ne di carte quasi mai di agile lettura (per la grafia e lo stato di con-servazione, in particolare degli originali) e soprattutto della compi-lazione di un riassunto/commento su contenuti, fatti, luoghi e per-sonaggi di difficile interpretazione.17

D’altra parte, la stessa edizione della corrispondenza Della Ca-sa-Farnese ha posto qualche problema su cui è opportuno soffer-marsi. Come abbiamo in parte già detto, i mss. Vaticani Latini og-getto della ricerca dell’unità di Milano non conservano propria-mente la corrispondenza tra Giovanni Della Casa e il cardinal Far-nese, ma più precisamente la corrispondenza ufficiale tra il nunzio apostolico e la Segreteria di Stato a Roma, negli anni della nunzia-tura veneziana di Della Casa, all’interno della quale Alessandro Far-nese è il principale corrispondente (in quanto segretario di Stato). Durante le sue assenze i corrispondenti sono però il camerlengo, Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, o altri segretari della Corte farnesiana. Il corpus centrale dei mss. è dunque una corrispondenza d’ufficio, principalmente, ma non esclusivamente, rivolta al Farne-

rama su questi progetti e l’approdo al PRIN, si veda CLAUDIA BERRA, Dal rege-sto dei manoscritti dellacasiani alle schede ‘Archilet’. Qualche appunto, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, Atti del seminario interna-zionale di Bergamo (11-12 dicembre 2014), a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo e Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016, pp. 45-53.

16. Le tesi, intitolate Per la corrispondenza di Giovanni Della Casa, sono state discusse, nell’ordine, da Chiara Settembrino, Alessandro Boggiani, Luigi No-sotti, Beatrice Bosco, Stefano Vegetti, Lucrezia Bassi, Chiara Marelli, Anna Longatti, Rossella Simone, Alice Siragusa, Clara Marzorati, Anna Mantovani, Alessia Turconi, Elisa Bassetti, Alessandro Romanzin, Mattia Sabatini e Luca Mondelli. Marta Chiarelli sta attualmente lavorando alla sua tesi, la cui discus-sione è prevista per dicembre 2019. Al momento, purtroppo, solo una parte delle schede è stata pubblicata online sul sito Archilet, mentre le altre sono in fase di revisione a opera degli studenti laureati.

17. A tal fine, a partire dal gennaio 2017, è stato avviato da Claudia Berra e da me un seminario permanente per i laureandi sulla corrispondenza dellaca-siana, utile a un confronto costante tra gli studenti per affrontare e cercare di risolvere in gruppo, e con i referenti, i problemi che le lettere, la loro trascri-zione e la loro schedatura pongono.

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se. Questa natura composita ha posto immediatamente il dubbio sull’opportunità di integrare tale corrispondenza con quanto con-servato tra le carte farnesiane nell’Archivio di Stato di Parma (ASPr) e in buona parte edito o segnalato da Amadio Ronchini nel-la sua raccolta di Lettere d’uomini illustri:18 l’ASPr conserva infatti ol-tre una settantina di lettere originali inviate da Della Casa ai Far-nese (ad Alessandro soprattutto, ma anche a Ottavio, a Pierluigi Farnese e ad Antonio Elio) negli anni della nunziatura veneziana, che in molti casi sono gli originali delle copie di registro custodite nei mss. Vat. Lat. 14828-14829, e ancora molte minute del cardi-nale Alessandro Farnese delle lettere originali conservate nei mss. Vat. Lat. 14831-14833. Si è pertanto deciso di non limitarsi a col-lazionare originali e copie di registro o originali e minute, ma di integrare nell’edizione anche tutte le altre missive disponibili nel-l’ASPr scambiate tra Della Casa e il Farnese, in quanto utili a chia-rire meglio il quadro di quegli anni e i rapporti tra i due corrispon-denti. È parso anzi opportuno ampliare ulteriormente l’indagine al fine di proporre l’edizione di tutta la corrispondenza ad oggi rin-tracciabile tra Della Casa e il Farnese, integrando quanto contenu-to nei mss. Vat. Lat. e nell’ASPr con quanto già edito o reperibile in altre biblioteche e archivi italiani e stranieri. È stata ovviamente vagliata la possibilità di non circoscrivere l’edizione al solo Alessan-dro Farnese e di includere anche le eventuali ulteriori lettere rin-tracciabili scambiate con gli altri interlocutori presenti nei mss. Vat. Lat. in questione (per esempio, Guido Ascanio Sforza di Santa Fio-ra, Ottavio Farnese o Bernardino Maffei), ma i rischi di una inter-minabile recensio hanno imposto una scelta che, per quanto arbitra-ria e – come tale – discutibile, trova le sue ragioni nel rapporto privilegiato che Della Casa mantenne con il cardinal nipote, il qua-le fu indiscutibilmente il suo principale patrono e interlocutore.

La trascrizione delle missive custodite nei mss. Vat. Lat. 14827-14829 e 14831-14833, condotta e verificata sui manoscritti e so-stanzialmente portata a compimento, è stata pertanto accompagna-ta da una più ampia recensio di altre lettere tra Della Casa e Alessan-dro Farnese, partendo in primo luogo da quanto già edito (e con-frontandolo, laddove possibile, coi manoscritti).19 La recensio non

18. RONCHINI, Lettere d’uomini illustri. 19. Oltre ai già citati RONCHINI, Lettere d’uomini illustri; e CAMPANA, Monsignor

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ha portato alla luce inediti (se non in un caso), anche perché, per esempio, le filze farnesiane di nostro interesse un tempo conservate all’Archivio di Stato di Napoli e consultate a inizio secolo – e in qualche caso parzialmente edite – da Ettore Bernabei e Gottfried Buschbell,20 risultano distrutte, a seguito di un incendio scoppiato durante la seconda guerra mondiale.

Un rinvenimento di particolare interesse è però emerso dalle ricerche condotte sugli archivi privati, a dimostrazione del fatto che la ricerca archivistica, per quanto faticosa e dispendiosa in termini di tempo ed energie, resta ancora oggi una miniera preziosa, spesso inesplorata. La consultazione dei cataloghi e delle schede della So-printendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana (condotta con la consulenza del dott. Luca Faldi) ha infatti portato alla risco-perta dell’Archivio Ricci (oggi Ricci Parracciani Foschi Nembrini), a Casole d’Elsa, presso la Suvera; l’Archivio della famiglia Ricci, al quale originariamente pertenevano i mss. ora alla Vaticana, per di-verse ragioni, era uscito dal circuito degli studi in seguito alle com-plesse vicende e dislocazioni degli anni Sessanta-Ottanta, che ave-vano visto la separazione di archivio e biblioteca di famiglia.21 La

Giovanni Della Casa e i suoi tempi; alcune altre lettere sono state edite nell’edi-zione napoletana settecentesca delle Opere; in ANTONIO BOSELLI, Il carteggio del cardinale Alessandro Farnese conservato alla Palatina di Parma, «Archivio storico per le Provincie Parmensi», n.s., XXI, 1921, pp. 99-171; in ANTONIO SANTO-

SUOSSO, Inediti casiani con appunti sulla vita, il pensiero e le opere dello scrittore fiorentino, «La Rassegna della letteratura italiana», LXXIX, 1975, pp. 461-495; in CARRARA, Il carteggio in volgare di Giovanni Della Casa; e in BERRA, La corri-spondenza di Giovanni Della Casa.

20. GOTTFRIED BUSCHBELL, Reformation und Inquisition in Italien: um die Mitte des XVI. Jahrhunderts, Paderborn, Schoningh, 1910; BERNABEI, Per il IV cente-nario di Mons. Giovanni Della Casa.

21. I materiali dell’Archivio erano certamente già separati da quelli della Bi-blioteca ai tempi in cui Campana consultò i manoscritti, tant’è che lo studioso pubblicò la bolla indirizzata da Paolo III al camerlengo per ammettere Della Casa tra i chierici di Camera, indicando appunto di averla tratta dall’Archivio Ricci-Parracciani, t. 6°, p. 12 (CAMPANA, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi, XVIII, p. 346; l’attuale segnatura attribuita dalla Soprintendenza al vo-lume, che riporta sulla costa «Rucellai, della Casa, Maffei e Casini. Onorifici & altro in Pergamene Tom. 6», è F 5.4), ma nessuno studioso si era posto il problema della presenza di altri materiali dellacasiani rimasti alla famiglia Ricci; né l’Archivio è stato utilizzato nel prezioso lavoro di RAFFAELLA MARIA ZAC-

CARIA, Rucellai da Firenze a Roma, in Studi sulla trasmissione archivistica. Secoli XV-

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consultazione dell’Archivio, per la quale si ringraziano i marchesi Ricci, ha riportato alla luce, nel luglio 2018, nuove e importanti carte di Della Casa (bollari, lettere private e una missiva inedita del cardinale Alessandro Farnese risalente agli anni della nunziatura) e della sua famiglia (in particolare, del nipote Annibale Rucellai, fi-gura di interesse politico e letterario), che meritano uno studio più analitico e approfondito; e ancora ha finalmente permesso di chia-rire che le carte dellacasiane non erano finite alla famiglia Ricci perché – come a lungo si è pensato – Della Casa fosse morto presso la dimora dell’amico cardinale Giovanni Ricci, bensì per diretta eredità di Annibale Rucellai, la cui sorella Dionora andò appunto in sposa a un Ricci.22

Anche la semplice conferma della discendenza diretta dei mss. Vat. Lat. 14825-14837 dall’eredità di Della Casa, del resto, non è priva di conseguenze: innanzitutto, se, come pare, si tratta delle carte personali dell’autore,23 si pone l’interrogativo su come, dove, quando e da chi esse furono riordinate. In secondo luogo, il fatto che la maggior parte delle lettere (che sono appunto la parte più cospicua del fondo) risalga agli anni della nunziatura legittima an-che interrogativi sugli intenti di tale conservazione: da un lato è probabile che, con l’incarico di nunzio apostolico, Della Casa ini-ziasse a porsi il problema di preservare la propria corrispondenza,

XVI, Lecce, Conte, 2002, pp. 227-239; né nelle voci recenti del DBI sul cardi-nale Giovanni Ricci (GIGLIOLA FRAGNITO, Ricci, Giovanni, in DBI, LXXXVI, 2016, pp. 246-249) e sui Rucellai (STEFANO TABACCHI, Rucellai, Annibale, in DBI, LXXXIX, 2017, pp. 59-61, e, del medesimo, Rucellai, Orazio, ivi, pp. 82-85).

22. Il 17 maggio 2019, Claudia Berra ha presentato la scoperta in una confe-renza dal titolo Una parte sconosciuta dell’archivio di Giovanni Della Casa, a Roma, presso l’Accademia dell’Arcadia. Una prima panoramica generale sui materiali è ora disponibile in CLAUDIA BERRA – MICHELE COMELLI, Novità dall’archivio di Giovanni Della Casa e Annibale Rucellai, «Atti e memorie dell’Arcadia», 8, 2019, pp. 77-137; nell’Appendice ho pubblicato sei lettere inedite risalenti al 1554 ritrovate nell’Archivio, che forniscono qualche nuovo dettaglio interes-sante su Della Casa e sul nipote Annibale.

23. In realtà, che si trattasse delle carte personali dell’autore è sempre stato un dato assodato per la critica, sia per i contenuti dei documenti sia per la com-pattezza della raccolta, ma la conferma della discendenza diretta dell’eredità è un dato significativo, perché permette di escludere la casualità dell’accorpa-mento e della conservazione delle carte.

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tanto più quella di carattere pubblico e che poteva contenere infor-mazioni rilevanti e scomode; dall’altro lato, è curioso che manchi-no, invece, documenti relativi agli anni successivi, e in particolare agli anni di segretariato sotto Paolo IV.24 Sono interrogativi che re-stano aperti, ma che non si possono trascurare; d’altra parte, gli stessi mss. lasciano credere che, in ogni caso, una parte della corri-spondenza sia andata perduta (manca, per esempio, il registro dei primi due anni di nunziatura). Il ritrovamento, insomma, come è normale, apre nuove questioni sulle quali varrà la pena di indagare.

Tornando all’edizione in corso della corrispondenza Della Ca-sa-Farnese, la recensio ha portato infine a comporre un indice di 703 lettere (con diversi allegati), che coprono all’incirca un periodo che va dalla fine degli anni Trenta del Cinquecento alla fine del 1554. La mole di materiale raccolto e la necessità di un apparato di com-mento utile all’intellegibilità di una corrispondenza fitta di eventi storici, di dettagli e di riferimenti a questioni poco note, mi ha spin-to a organizzare l’edizione in due volumi: un primo volume com-prendente le prime 364 lettere (fino all’agosto 1547) e un secondo volume comprendente le altre ed eventuali appendici.

Nel primo volume è prevista un’Introduzione nella quale si dà conto dello stato delle carte, della recensio e dei criteri di edizione, nonché, in modo sommario, del contesto storico e dei protagonisti della corrispondenza, proprio perché, per la maggior parte, le lette-re riguardano fatti storici, politici e diplomatici non sempre noti e di facile accesso. Per quanto riguarda i criteri di edizione, in accor-do con l’unità di Siena, in ragione della natura ufficiale della mag-gior parte di questa corrispondenza, si è deciso di privilegiare la fruibilità del testo, ma di adottare criteri generalmente conservativi per la grafia; ci si è limitati a sciogliere le abbreviazioni (segnalando però tra quadre lo scioglimento dei titoli onorifici e dei nomi pro-pri, che rappresentano un formulario specifico della pratica episto-lare più rilevante rispetto alla normale abbreviazione tachigrafica), a uniformare all’uso moderno accenti e apostrofi e, soprattutto, a intervenire sulla punteggiatura. La tradizione delle lettere è per lo

24. Forse, come suggerisce Ancel, lo stesso Annibale ebbe interesse a far spa-

rire, negli anni del processo ai Carafa, documenti compromettenti dello zio (RENÉ ANCEL, La secrétairerie pontificale sous Paul IV, «Revue des questions hi-storiques», LXXIX, 1906, pp. 408-470).

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più monotestimoniale e non presenta significativi problemi ecdo-tici; in ogni caso le poche correzioni o informazioni utili sullo stato delle carte sono registrate in un apparato a chiusura di ogni lettera, distinto dalle note di commento linguistico e interpretativo a piè di pagina. Nei pochi casi in cui di una lettera siano sopravvissuti, oltre all’originale, la minuta o la copia, si è sempre privilegiato l’ori-ginale, quale testimonianza effettiva della corrispondenza, mentre le eventuali varianti sono segnalate in apparato. Le missive sono state riordinate cronologicamente e numerate, intrecciando tra lo-ro le lettere di Della Casa con quelle dei corrispondenti (quando le lettere hanno la medesima data – come spesso avviene, visto che l’invio era previsto in genere di sabato, in base alle partenze dei cor-rieri ordinari – viene sempre posta per prima quella di Della Casa), anche se questo non agevola di norma la lettura della corrispon-denza nella sua continuità, dal momento che i tempi di consegna della posta implicavano uno sfasamento di una o due settimane tra la proposta del mittente su un argomento e la risposta del destina-tario. A sopperire a queste difficoltà di lettura delle missive nella loro continuità e soprattutto – come detto – al fitto richiamo a per-sonalità, luoghi ed eventi particolari è delegato il commento nelle note a piè di pagina: si tratta inevitabilmente di un commento mol-to denso che richiama in primo luogo la bibliografia specifica del-lacasiana, ma anche – e specialmente – la bibliografia storica utile alla comprensione degli eventi e dei ruoli dei diversi personaggi chiamati in causa dalle lettere.25 Nel commento si segnalano anche

25. Per limitarsi a qualche riferimento fondamentale per il commento, oltre

alle voci del DBI e del Dizionario storico dell’Inquisizione, si segnalano almeno KENNETH SETTON, The Papacy and the Levant (1204-1571), vol. III, Philadel-phia, The American Philosophical Society, 1984; GAETANO COZZI, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1982; GAETANO COZZI – MICHAEL KNAPTON, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino, UTET, 1986; GAETANO COZZI, Venezia nello scenario europeo (1517-1699), in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, Torino, UTET, 1992, vol. XII, t. 2, pp. 3-200; alcuni volumi delle Nunziature di Venezia (Vol. 2: 9 gennaio 1536-9 giugno 1542, a cura di Franco Gaeta, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1960; Vol. 5: 21 marzo 1550-26 dicembre 1551, a cura di Franco Gaeta, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e con-temporanea, 1967; Vol. 6: 2 gennaio 1552-14 luglio 1554, a cura di Franco Gaeta, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1967) e

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i molti rimandi tra una lettera e l’altra, e si cerca di chiarire al let-tore la sostanza delle questioni giurisdizionali, di frequente com-plesse (questioni beneficiali, processi ordinari e inquisitoriali, que-stioni finanziarie, ecc.).

È d’altra parte inevitabile, a fronte dei molti riferimenti a eventi o persone semplicemente allusi (come è normale in una corrispon-denza confidenziale e strettamente connessa al contesto condiviso tra gli interlocutori), che molte figure, così come molti fatti, nono-stante le ricerche, restino tuttora oscuri. La natura pragmatica della corrispondenza in oggetto si è rivelata del resto un problema ancora più delicato nell’allestimento delle schede per Archilet, dal momen-to che la schedatura implica l’isolamento di ogni singola lettera ri-spetto al flusso della corrispondenza, ragione per cui la scheda, che prevede tra i suoi campi un breve riassunto dei contenuti della mis-siva (che dovrebbe essere un agile e immediato strumento di ricer-ca), rischia frequentemente di diventare più articolata della lettera stessa, a causa dei molti rimandi necessari, almeno finché la corri-spondenza non sarà edita con il relativo commento. Si tratta di una criticità intrinseca al progetto Archilet discussa con i responsabili del database, e che per ora pare difficilmente ovviabile, se non con l’edizione cartacea della corrispondenza, che potrà trasformarsi in un supporto sicuro alle schede.26

Per tornare, infine, al titolo del nostro contributo, è pacifico che una recensio non possa mai dirsi conclusa, tanto più per delle

delle Correspondances des nonces en France (oltre al già citato Vol. 6: Dandino, Della Torre et Trivulzio (1546-1551), il Vol. 3: Capodiferro, Dandino et Guidiccioni (1541-1546), éditée par Jean Lestocquoy, Rome – Paris, Presses de l’Université Grégo-rienne – Editions E. de Boccard, 1963); gli studi sull’Inquisizione di Del Col (ANDREA DEL COL, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali dell’Inquisizione romana nella repubblica di Venezia (1500-1550), «Critica storica», XXV, 1988, pp. 244-294; e, del medesimo, L’Inquisizione romana e il potere poli-tico nella repubblica di Venezia (1540-1560), «Critica storica», XXVIII, 1991, pp. 189-250); la preziosa e ricca nuova edizione de Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di Massimo Firpo e Dario Marcatto, 3 voll. Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2011; oltre a strumenti datati ma indispen-sabili come il terzo volume di GUILELMUS VAN GULIK e KONRAD EUBEL, Hie-rarchia Catholica medii et recentioris aevi, Münster, Libreria Regensbergiana, 1910; o le Relazioni degli ambasciatori veneti al senato pubblicate da Eugenio Al-bèri a metà Ottocento (Firenze, Società Editrice Fiorentina).

26. Della questione si occupa più diffusamente il già citato contributo di BERRA, Dal regesto dei manoscritti dellacasiani.

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corrispondenze che oscillano tra pubblico e privato. Il progetto di un’edizione completa della corrispondenza di Della Casa continua a essere probabilmente impraticabile se non si pensa a un program-ma a lungo termine, che includa figure e competenze diverse (da quelle letterarie a quelle filologiche, a quelle storiche, a quelle ar-chivistiche), e che contempli, in primo luogo, lo sforzo di una ri-cerca tra archivi e biblioteche private. Il contributo però di questa prima sistemazione delle due corrispondenze inedite a cui stanno lavorando le due unità del PRIN appare tutt’altro che irrisorio in particolare per quanto riguarda la biografia27 di un personaggio per molti versi schivo, riservato e impenetrabile, che – come abbiamo detto – mai pensò di consegnare una sua immagine pubblica alla scrittura, e che al contempo ricoprì un ruolo centrale in anni cru-ciali della storia d’Italia e d’Europa. Le due edizioni pertanto po-tranno innanzitutto restituire un’immagine più fedele dell’ecclesia-stico-scrittore, la cui fama è stata a lungo viziata da letture morali-stiche e anacronistiche,28 nonché fornire ulteriori dettagli utili alla comprensione della sua opera letteraria29 e promuovere nuovi spun-ti di ricerca su una personalità che resta tuttora, per molti versi, sfuggente.

APPENDICE

Si riporta qui di seguito, a titolo esemplificativo dei materiali con-tenuti nei mss. Vat. Lat. di cui è in corso l’edizione, una lettera del

27. Dell’opportunità di una nuova biografia del Casa in base alle nuove acqui-

sizioni ha parlato VANNI BRAMANTI, Giovanni Della Casa a Roma (1555-1556), in Dentro il Cinquecento. Per Danilo Romei, a cura di Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2016, pp. 23-47, a p. 24. Proprio da una lettura delle lettere già edite è partito poi Mattia Manzocchi per proporre qualche nuova acquisizione sulla giovinezza dellacasiana (MATTIA MANZOCCHI, Notizie da una rete epistolare (1530-1537). Le lettere giovanili di Della Casa e le corrispondenze di Beccadelli, Gual-teruzzi e Gheri, in Epistolari dal Due al Seicento, pp. 397-418).

28. Retaggio da cui non sono immuni neppure le letture di CAMPANA, Monsi-gnor Giovanni Della Casa e i suoi tempi; di SANTOSUOSSO, The Moderate Inquisitor; del medesimo, Vita di Giovanni Della Casa; e di MUTINI, Della Casa, Giovanni.

29. Penso, per esempio, per limitarmi ai casi più immediatamente attinenti agli anni della nunziatura, all’orazione a Carlo V per la restituzione di Parma e Piacenza e a quella a Venezia per la lega, che trovano nella corrispondenza col cardinal Farnese il loro contesto di riferimento.

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camerlengo, Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, a Giovanni Del-la Casa, del 6 giugno 1545, con i relativi allegati: una copia di un «capitolo» tratto da una lettera inviata da Venezia alla corte di Ro-ma il 22 maggio 1545 (evidentemente da un informatore segreto della corte papale) e un messaggio cifrato, di cui abbiamo la deco-difica autografa di Della Casa e la cifra di riferimento. A parte il primo e l’ultimo capoverso della lettera, editi da Campana,30 i tre testi risultano inediti.

La lettera originale è conservata nel ms. Vat. Lat. 14831, cc. 124-125 (la firma è autografa del camerlengo, ma non è possibile riconoscere la mano del segretario che stila la lettera), e risale al periodo in cui il camerlengo sostituiva il cardinale Alessandro Far-nese, inviato a Worms presso la corte imperiale di Carlo V, per di-scutere la somma che il papa avrebbe dovuto versare per la lotta contro il Turco, ma soprattutto per trattare l’unione tra Impero e Papato contro la Lega di Smalcalda.31 La lettera occupa recto e verso di c. 124, mentre sulla coperta (c. 125v), oltre all’indirizzo del de-stinatario (in parte cancellato dal sigillo di ceralacca ma facilmente ricostruibile per via congetturale da un confronto con le altre mis-sive), troviamo un sommario di mano di Erasmo Gemini scritto sul lato corto della busta ripiegata, utile alla catalogazione e conserva-zione all’interno dei cassettini dello scrittoio, secondo un uso inval-so all’epoca, che caratterizza tutta la nostra corrispondenza.

La «copia di un capitolo di lettere da Venetia delli 22 di maggio ’45» (Allegato 1), secondo quanto indicato nel margine superiore, occupa il recto di c. 126 (una carta singola vergata solo sul recto) e la mano sembrerebbe la medesima che ha stilato la missiva.

Il messaggio cifrato (Allegato 2), invece, occupa il recto di c. 187 del ms. Vat. Lat. 1482932: nel margine alto, a sinistra, una barra o-bliqua («/») conferma che la chiave utilizzata (la cifra) è quella che si conserva a c. 167r del medesimo ms., dove si trovano indicati i

30. Rispettivamente in CAMPANA, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi,

XVIII, pp. 358-359 (doc. 19) e ivi, XVII, p. 157. 31. Alessandro Farnese partì da Roma il 17 aprile e arrivò a Worms un mese

dopo, il 17 maggio 1545; rientrò a Roma l’8 giugno. 32. La c. 188 (bianca sul recto e sul verso) è l’altra metà del bifolio, che riporta

i segni delle piegature, a conferma del fatto che si tratta dell’originale allegato alla lettera.

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seguenti parametri di codifica e decodifica:33

A, b = 9 e, c = 4 i, d = 7 o, f = 3 u, l = 5 n, g = 2 m, p = 8 r, t = 6 s, z, & = 0 nulla = |34 qua = 02 que = 28 qui = 52 che = ˙735 chi = ˙3 non = ˙8

Con la precisazione che: Scrivasi congiunto senza servare l’ortografia nelle aspirate & nelle doppie et la nulla si ponga al fine delle parole 3 o 4 volte per verso abbreviando tra la nulla li nomi consueti, exempli gratia V. S. Rev.ma S. Sta etc. E ancora che «Scrivendosi con questa per differenza dell’altra [scil. cifra] si faccia in capo del foglio questo segno /».

Come è evidente, si tratta di una testimonianza eccezionale del-la crittografia cinquecentesca e, in fondo, il procedimento di codi-fica per sostituzione è piuttosto semplice; ciononostante, solo la presenza della decodifica autografa di Della Casa ci fornisce una conferma dell’intellegibilità del nostro allegato.

Il messaggio cifrato di c. 187r occupa la parte alta della pagina (circa 1/3) e la grafia è particolarmente minuta e fitta, ma piuttosto ordinata (anche se in diversi casi il segno che indica le nulle [|] è evidentemente stato inserito in un secondo momento nell’interli-nea, forse per facilitare la separazione delle parole); non è possibile

33. Per comodità non si riproduce qui graficamente l’impaginazione, ma ci si

limita a indicare la chiave di decodifica. 34. Potrebbe anche trattarsi di un «1». 35. Il punto, qui come nei casi successivi, sarebbe sovrascritto.

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dire se la mano sia la medesima che ha redatto la lettera e l’allegato, anche perché le scritture calligrafiche dei segretari sono spesso simi-li tra loro, tanto più nella scrittura di cifre. Immediatamente sotto il messaggio cifrato si può leggere l’indicazione autografa di Della Casa «Con lettere de 6 di Giugno 1545» e di seguito la decodifica, sempre autografa, del messaggio, in cui alcuni ripensamenti e corre-zioni ci testimoniano le difficoltà, anche per gli interlocutori che condividevano il codice, in fase di decifrazione.

Per quanto riguarda gli argomenti affrontati, nella missiva si tratta di ordinaria amministrazione ma non sempre di facile com-prensione, anche perché mancano per i primi anni di nunziatura le risposte di Della Casa; fondamentale resta, pertanto, mantenere la missiva all’interno del flusso della corrispondenza e, semmai, un confronto con la corrispondenza coeva tra Della Casa e Gualteruz-zi, o ancora con le fonti storiografiche. La lettera si apre su Ludo-vico dell’Arme, figura controversa, agente del re d’Inghilterra che in quei mesi si aggirava liberamente sul territorio veneziano reclu-tando soldati per il regno inglese e, ancora, impedendo l’arrivo a Trento a Reginald Pole:36 il papa – dice lo Sforza – non può ammet-tere una simile connivenza da parte del Dominio veneziano, tanto più dopo gli interventi in proposito del nunzio Della Casa (che evi-dentemente aveva già portato la questione in Collegio a Venezia); la copia del capitolo allegato (Allegato 1) riporta la relazione di una spia della corte papale sul suolo veneziano, che attesta l’imbarazzo degli stessi veneziani di fronte alle libertà del dall’Armi, e anzi pun-zecchia esplicitamente il nunzio, che tollera una simile situazione.37

Il camerlengo chiede poi al destinatario informazioni relativa-mente a quanto è riportato a Roma da Trento, ossia l’arrivo di un tale Gherardo (Gerard Veltwijk), messo imperiale, che dovrà anda-

36. Su Ludovico dall’Armi si veda la voce VANNA ARRIGHI, Dall’Armi, Ludo-

vico, in DBI, XXXII, 1986, pp. 31-34. 37. In realtà, il rapporto di Della Casa con Ludovico dall’Armi non è così

chiaro: se da un lato le lettere di quei mesi confermano le disposizioni da Roma di controllare l’agente del re inglese e di lamentarsi con il governo veneziano, dall’altro la corrispondenza con Gualteruzzi testimonia che il dall’Armi non era inviso al Gualteruzzi e frequentava Lorenzino de’ Medici, con cui Della Casa era – come sappiamo – in buoni rapporti. Lo stesso duca Cosimo rinfac-cerà a suo tempo a Della Casa la protezione a Lorenzino e al dall’Armi. Cfr. la lettera di Gualteruzzi a Della Casa del 7 febbraio 1545, in Corrispondenza Gio-vanni Della Casa-Carlo Gualteruzzi, lettera n. 49, pp. 107-108.

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re a Costantinopoli per trattare la pace con Solimano insieme al-l’ambasciatore francese a Venezia, Jean de Monluc.

Alla lettera viene inoltre allegata una «informatione» del cardi-nale Francesco Pisani, vescovo di Padova, in cui si lamenta – pare di capire – dell’operato del nunzio nei confronti delle scelte del suo vicario generale. Non è facile capire quali siano le cause in questio-ne, dal momento che dell’allegato non restano tracce e che non ab-biamo le risposte di Della Casa; d’altra parte, in alcune lettere pre-cedenti di Alessandro Farnese al nunzio, non mancano richieste di esenzioni a nome del Pisani o di interventi relativi al caso di un membro della famiglia Buccella,38 che si era rivolto direttamente a Della Casa per sfuggire alle pene comminategli dal suffraganeo del Pisani; così come, in lettere immediatamente successive, richieste relative alla riforma del monastero di San Marco a Padova. Non mancano poi, nella corrispondenza Della Casa-Gualteruzzi, allu-sioni a un contenzioso, proprio in quei mesi, tra Girolamo Que-rini, intimo amico di Della Casa e di Bembo, e il Pisani: un conten-zioso nel quale il nunzio aveva difeso e protetto il Querini.39

Il camerlengo, ancora, avvisa che il nuovo ambasciatore veneto a Roma, Giovanni Antonio Venier, da poco subentrato a France-sco Venier, ha avanzato nuovamente richiesta delle decime per il governo veneziano e che il papa ha preso tempo, dicendo che non intende gravare il clero per quell’anno, dal momento che la minac-cia turca non è imminente.

Infine, si informa che il governatore di Ancona scrive a Roma di aver arrestato il frate Girolamo Sciotto su richiesta del nunzio Della Casa e attende disposizioni; da Roma gli è stato risposto di conformarsi alle indicazioni che darà il nunzio.40

38. Nella lettera del Farnese non si precisa il nome del Buccella, ma è plausi-

bile che si tratti di Girolamo, fratello del più noto Niccolò (anch’egli poi con-dannato per eresia nel 1562), che nel gennaio 1544 era stato accusato insieme ad altri giovani di aver preso parte a una assemblea segreta (cfr. lettera del Far-nese a Della Casa, da Roma, 21 marzo 1545, in ms. Vat. Lat. 14831, cc. 93-95). Sui Buccella si veda ALDO STELLA, Intorno al medico padovano Nicolò Buccella anabattista del ’500, «Memorie della Accademia Patavina di SS. LL. AA.», LXXIV, 1961-1962, pp. 3-31.

39. Cfr. Corrispondenza Giovanni Della Casa-Carlo Gualteruzzi, lettera n. 80, pp. 161-162.

40. Poco si sa del processo inquisitoriale di questo frate, fatto arrestare ap-punto da Della Casa; il processo passò poi nelle mani del legato della Marca

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RICERCHE IN CORSO SULLE LETTERE DI DELLA CASA

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Più interessante è però il contenuto del messaggio cifrato (Alle-gato 2). Il messaggio è uno dei pochi (nonché il primo all’interno del fascicolo dei messaggi cifrati) in cui la decodifica autografa di Della Casa occupa la parte immediatamente sottostante della pa-gina. Si presta particolarmente, dunque, ad attestare i procedimenti crittografici fra il nunzio e la corte romana. Nel messaggio il camer-lengo esprime preoccupazione per gli umori veneziani circa l’acco-glienza riservata da Carlo V al cardinale Farnese al suo arrivo a Worms: a Roma si teme (ma le voci vengono da «bon loco») che Venezia possa interpretare negativamente la vicinanza tra Impero e Papato e che l’apertura a Ludovico dall’Armi e al re inglese possa essere una contromossa per rispondere a una eventuale alleanza tra imperatore e papa. Della Casa è dunque chiamato a prestare atten-zione e a raccogliere informazioni in proposito.

Criteri di edizione

Per quanto riguarda la missiva e l’Allegato 1, che non presentano particolari problemi di lettura né dettagli significativi nella mise en page, ci si è limitati a sciogliere le abbreviazioni (solo nel caso di titoli onorifici e di nomi pro-pri le abbreviazioni sono sciolte tra []), a ricondurre all’uso moderno la punteggiatura, gli accenti e gli apostrofi, e a distinguere u da v. Le ricostru-zioni congetturali si pongono tra parentesi graffe ({}).

Per quanto riguarda il messaggio cifrato (Allegato 2), invece, si propone una trascrizione più conservativa, perché permette di chiarire meglio i pro-cessi della crittografia cinquecentesca, e si offre nella Tabella finale un ten-tativo di verifica sul messaggio cifrato della decodifica. Nella trascrizione si rispettano gli ‘a capo’41 del messaggio cifrato (non, invece, della decifra-zione); per quanto riguarda la decifrazione del Della Casa si conservano abbreviazioni, correzioni e punteggiatura, e si indicano tra parentesi unci-nate (<>) le aggiunte interlineari. Anche in questo caso, le ricostruzioni congetturali legate a dubbi di lettura per lo stato materiale della pagina si indicano tra parentesi graffe ({}).

anconitana, e il Casa fu invitato da Roma a mandare al più presto le carte del processo al legato, che trovò però il processo «difettoso». Non abbiamo pur-troppo altre informazioni sull’evolversi dei fatti. Cfr. CAMPANA, Monsignor Gio-vanni Della Casa e i suoi tempi, XVII, pp. 157-158.

41. Non si distingue però nella trascrizione tra nulle («|») inserite nella cifra-tura originaria e nulle inserite in interlinea in un secondo momento.

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MICHELE COMELLI

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LETTERA DAL CAMERLENGO, GUIDO ASCANIO SFORZA DI SANTA FIORA, IN ROMA,

A GIOVANNI DELLA CASA, A VENEZIA, 6 GIUGNO 1545 (ms. Vat. Lat. 14831, cc. 124-125)

[c. 124r] Molto Rever[endo] Mons[igno]r come fratello. Questa pratica di Ludovico delle arme et suoi complici pare a N[ostro] S[igno]re che non sia bene intesa costì, et si maraviglia che, havendo V[ostra] S[ignoria] parlato con quella efficacia che ella ha già scritto in que-sta materia, non si pigli qualche rimedio; et aspettava che in questo suo novo ritorno a Venetia42 la S[ignoria] V[ostra] rinnovasse l’offitio et ne ca-vasse maggiore frutto che non haveva fatto; al che però la esorta attendere al ricevere di questa nel modo che la conoscerà che convenga al grado suo et alla bona intelligentia che è tra quella S[igno]ria et S[ua] S[anti]tà perché, sebene le trame di quei tali sieno forse con poco fondamento, sentendosi nondimeno parlare in quella Città di disegni contra questa S[anta] Sede et contro alla persona di S[ua] S[anti]tà, pare cosa indegna che altri lo com-porti di quella sorte che si fa. Nel quale proposito Su[a] B[eautitudine] ha voluto che si mandi a V[ostra] S[ignoria] copia di un cap[ito]lo di lettera di un nostro confidente di Venetia, che sarà con questa per maggiore incita-mento a fare intorno a questo negocio cosa che si vegga et intenda dall’ef-fetto.43

Da Trento noi intendemmo che era passato un Girardo Fiammengo44 per venire a Venetia, et crediamo che sia quello che, insieme con Monluc, deve andare in Levante a trattare la tregua. Non dubito che tutto sarà stato inteso da V[ostra] S[ignoria] e per le prime ce ne darà ragguaglio.

Il R[everendissi]mo Car[dina]le Pisani45 ha dato la inclusa informa-

42. Probabilmente si riferisce ai frequenti spostamenti che il dall’Armi faceva

tra Venezia e Terraferma, oppure a un ritorno a Venezia dopo essere rientrato alla corte inglese. Non ci sono informazioni precise sugli spostamenti del dall’Armi, ma anche nell’Allegato 1 l’informatore veneziano riferisce che il dall’Armi era rientrato a Venezia la domenica precedente.

43. Dall’inizio fino a qui edita in CAMPANA, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi, XVIII, pp. 358-359.

44. Si tratta di Gerard Veltwijk, inviato imperiale presso il Turco nel 1545 per trattare la pace; con lui partì da Trento anche Jean de Monluc, ambasciatore francese presso la Signoria veneziana, in qualità di rappresentante francese e di mediatore fra Impero asburgico e ottomano, (cfr. SETTON, The Papacy and the Levant, pp. 480-490; BART SEVERI, «Denari in loco delle terre...»: Imperial Envoy Gerard Veltwijk and Habsburg Policy towards the Ottoman Empire, 1545-1547, «Acta orientalia academiae scientiarum Hungaricae», LIV, 2001, pp. 211-256).

45. Francesco Pisani: cfr. GIUSEPPE TREBBI, Pisani, Francesco, in DBI, LXXXIV, 2015, pp. 235-237.

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RICERCHE IN CORSO SULLE LETTERE DI DELLA CASA

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tione, dolendosi come la vedrà. Sarà officio di V[ostra] S[ignoria] o rime-diare alle cause della sua [c. 124v] querela, o rendere conto del fatto, perché si possa rispondere con le ragioni in mano, et giustificare le attioni di V[ostra] S[ignoria], quale in ogni caso ricordarei che volesse lei propria es-sere instrutta di questa causa et guardare che per via indiretta non si impe-disca la giustitia, perché per la parte del vicario di Padova46 si allega aperta-mente certi favori estraordinarij di alcuni di Casa sua in questo negotio.

Lo Imb[asciato]re nuovo47 della Sig[no]ria ha fatto nova instantia per le decime; a che S[ua] S[anti]tà ha risposto il medesimo che fece allo Im-b[asciato]re vecchio,48 prima che partissi, persistendo che la non intende gravare il Clero per questo anno, quando non si vegga più bisogno che tan-to, atteso che li avvisi di Levante, che vengono proprio di Venetia et d'al-tronde, vanno continuando in conformità che il Turco non sia per man-dare armata. Il che sia per informatione della risposta che S[ua] S[anti]tà ha dato in questo caso all’Imb[asciato]re, acciò che, accadendo che ne li sia parlato, risponda in questo medesimo tenore.

Il Gov[ernato]re d’Ancona49 scrive havere ritenuto un frate Jeronimo Sciotto ad instantia di V[ostra] S[ignoria], domandando commissione di qua di quello che ne deve fare. Se li è risposto che esseguisca quel tanto che V[ostra] S[ignoria] li ordinerà50 per avviso. Né mi occorrendo altro, a V[osta] S[ignoria] mi offero.

Da Roma alli VI di Giugno del ’45. Come Fr[ate]llo. Il Car[dina]l Cam[erlengo]

COPERTA [c. 125v]

INDIRIZZO

Al molto R{ever[endo] S[ign]or} come fr[at]ello

46. Giacomo Rota, vicario generale del cardinal Pisani a Padova. Cfr. VAN

GULIK-EUBEL, Hierarchia Catholica, III, p. 340. 47. Giovanni Antonio Venier. 48. Francesco Venier. 49. Al governo di Ancona era stato chiamato, dal 1544, Giovan Angelo de’

Medici, futuro Pio IV (cfr. FLAVIO RURALE, Pio IV, in DBI, LXXXIII, 2015, pp. 808-814), anche se GIULIANO SARACINI, Notitie historiche della città d’An-cona [...], Roma, Nicolò Angelo Tinassi, 1675, p. 360, dice che dal 1542 al 1547 (quando divenne governatore Ranuccio Farnese), il governo fu tenuto da un milanese, protonotario apostolico, detto «il Medichino»; probabilmente Sara-cini sovrapponeva Giovan Angelo con il fratello Giovan Giacomo, detto, ap-punto, il «Medeghino».

50. Da «Il Gov[ernato]re d’Ancona» a qui edita in CAMPANA, Monsignor Gio-vanni Della Casa e i suoi tempi, XVII, p. 157.

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MICHELE COMELLI

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Mons[ignor] l’E{letto di} Benevento Nuntio di {N[ostro]} S[igno]re

In Venetia SOMMARIO

Di Roma de’ VI di Giugno 1545 Dal R[everendissi]mo Camerlingo

Che la pratica di Lod[ovi]co dal arme etc. pare a N[ostro] S[ignore] che non sia bene intesa et si maraviglia che non vi si pigli qualche rimedio etc.; che si manda una copia d’una lettera scritta da Ven[eti]a sopra questa ma-teria etc.

Che s’è inteso che è passato da Trento un Girardo, et si stima che sia quello che ha a ire con Monluc in Const[antinopoli] etc.

Che ’l Card[ina]l Pisani ha dato una infor[mation]e dolendosi etc. Che l’amb[asciat]or novo ha fatto nova instanza per le decime; al che

N[ostro] S[ignore] ha risposto il medesimo che l’altre volte etc. Che ’l Gov[ernato]re d’Anchona ha scrito haver ritenuto un fra

Hier[oni]mo Sciotto etc.

ALLEGATO 1 (ms. Vat. Lat. 14831, c. 126r)

Copia di un capitolo di lettere da Ven[eti]a delli 22 di maggio 45

Quel dalle arme51 giunse qui di ritorno domenica passata, et questa mattina a San Marco, in un circulo dove io ero, vi giunse ancor lui. Qui è anco quel Pini luchese. 3 dì sono, ho inteso che quel Ber[nardi]no di S[an] B[onifacio] è partito di qui; di quel cremonese non ho havuto nova.52 Tutta la Terra sa che cercano con ogni instanza di soldar cap[ita]ni et ne hanno fra tutti da XXV.

Cercano maximamente ribelli et forusciti della chiesa, delli quali molti ben consigliati non hanno voluto accettare partito da loro, come alcun

51. Ludovico dall’Armi. 52. Insieme a Ludovico dall’Armi, a reclutare uomini per il sovrano inglese,

erano il lucchese Filippo Pini, il veronese Bernardo di San Bonifacio, il cremo-nese Angelo Mariano, nonché l’ambasciatore inglese presso la Signoria di Ve-nezia, Edmund Harvel. Cfr. CHRISTOPHER STORRS, Italians in Military Service outside Italy in Early Modern Europe: Britain, in Italiani al servizio straniero in età moderna, a cura di Paola Bianchi, Davide Maffi, Enrico Stumpo, Milano, Fran-coAngeli, 2008, pp. 41-54.

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RICERCHE IN CORSO SULLE LETTERE DI DELLA CASA

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Malatesta et altri de Furli.53 È anco nella terra una grande admiratione, che questi S[igno]ri lascino far queste pratiche di tal gente, ma molto maggiore che S[sua] S[anti]tà non sene sia ancor doluta, et che anco il legato da sé non sene sia risentito, dicendosi publicamente che tutti questi machina-menti di questo Re,54 benché giudicati da tutti levissimi, siano però contra S[ua] S[anti]tà. E si vede che in nessun altro loco hanno ricetto se non in questa città o lochi sudditi, donde ogni volta che fussero cacciati quel Re conoscerebbe quanto lievemente si mantengano questi suoi pensieri, quali intendo che procedano et hanno origine da questo agente qui, perché quel Re, ho saputo, che in questo fatto si è riportato alle relationi che li sono state date d’It[ali]a da persona che non intende le cose della guerra.

ALLEGATO 2 (ms. Vat. Lat. 14829, c. 187r)

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53. Evidentemente, alcuni membri delle celebri famiglie di condottieri dei Ma-latesta e dei da Forlì avevano rifiutato l’ingaggio del dall’Armi.

54. Enrico VIII.

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MICHELE COMELLI

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Con lettere de 6 di Giugno 1545 Sua S.55 vide viene avertita di bono bon loco che la Sig.ria a preso qual-

che suspeto de la andata del Cardinale nostro a lo’ Imper. et de le careze che ha riceuto al giunger suo: il che talvolta potria far pensare <a que> Signori qualcosa che non bisogneria tal che daria dal canto loro con questa s{er}a56 di campi capitani et forusc. con altre pratiche di principi cerchino di contrapesare questa gelosia anchor che per conto di Sua Beat. saria certo tuta57 fuori di proposito non di meno havendo<lo> ???58 come ho detto di bon loco desidera che la S. V. usi diligenza di penetrare li humori et si par maraviglia che essendone cosa alcuna ella non labbia odorata già et sentito se bene scrito se bene crede che la non manca de l’ofitio suo. et così anco V. S. deve stare avertita di intendere le pratiche che queli Signori tengono et con l’imperatore et con altri principi a che V. S. deve atendere con ogni industria in questi tempi masime.

Ven.a che D. diego fu in | collegio59

55. Da intendersi «Sua S[antità]», come dimostra il messaggio cifrato:

«059092|» > «Sua San». 56. L’inchiostro ha forato la carta e la lettura è incerta; la soluzione «sera»

sembra l’unica plausibile in base alla verifica sul messaggio cifrato, ma il senso risulta piuttosto oscuro.

57. Probabilmente da leggersi «tutta», visto che la cifra prevede lo scempia-mento delle doppie.

58. La parola cancellata non è leggibile. 59. Non è chiaro a cosa si debba collegare questo frammento cancellato.

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ELISABETTA OLIVADESE

QUESTIONI CRITICHE E FILOLOGICHE

SU ALCUNE LETTERE DELL’ULTIMO TASSO (GUASTI 1112, 1121, 1151, 1181)

1.

Nel rigoglio manifesto di cui godono, ormai da anni, gli studi di epistolografia cinquecentesca, il fronte più avanzato della ricerca tende ora a riproporre percorsi di approfondimento già annunciati nei volumi fondativi della disciplina:1 e così, mentre progetti di di-verso livello (dai tirocini Archilet alle tesi magistrali, fino alle ricer-che dottorali, post-dottorali e accademiche anche di scala interna-zionale)2 progressivamente concludono la prima fase di recupero

1. Penso anzitutto al saggio propedeutico di MARIO MARTI, L’epistolario come

‘genere’ e un problema editoriale, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 203-208; e al fondamentale vo-lume Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1981; cui segue, tra i più noti atti di convegni La correspondance. Actes du Colloque International (Aix-en-Provence, 4-6 ottobre 1984), a cura di George Ulysse, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1985; e an-cora Metodologia ecdotica dei carteggi, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 23-25 ottobre 1980), a cura di Elio d’Auria, Firenze, Le Monnier, 1989.

2. Dell’impegno dei più giovani studiosi nel progetto Archilet sono prova le relazioni dei collaboratori contenute in questo stesso volume. Tra le ricerche condotte nell’ambito di tesi magistrali credo sia significativo ricordare il gruppo di lavoro che presso l’Università di Roma “Sapienza” si occupa di gettare le basi per una nuova edizione critica e commentata dell’epistolario di Annibal Caro (per cui cfr. EMILIO RUSSO, Funzioni e dinamiche dell’epistolografia nel Cinque-cento, in L’epistolografia di Antico Regime. Convegno internazionale di studi. Vi-terbo, 15-16-17 febbraio 2018, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 73-89, p. 82n). Troppo lungo sarebbe ricordare i numerosi progetti di dottorato e accademici dedicati agli studi epistolografici: gioverà solo sottolineare che il PRIN «Repertorio Epistolare del Cinquecento. Teorie, lingua, pratiche di un genere» rappresenta tanto un nucleo generativo quanto uno stimolo per l’avvio di altri progetti paralleli e comunicanti, che più recen-temente si sono dedicati soprattutto al perfezionamento dell’approdo delle ri-cerche epistolografiche sui supporti digitali, cfr. l’appena citato contributo di

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ELISABETTA OLIVADESE

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dei moltissimi materiali epistolografici conservati, studiosi già più intrinsechi della materia come Paolo Procaccioli puntano l’atten-zione su nuove questioni istitutive, quali il rapporto tra teoria epi-stolografica cinquecentesca e relativa prassi.3

È pur vero che questa materia, costruitasi per «condivisione di esperienze concrete di ricerca» piuttosto che per teoresi applicate, assume come maggiormente valido un approccio di lavoro che rap-porti le diverse esperienze per «contribuire a una formulazione più corretta delle problematiche, e soprattutto condurre a un affina-mento delle metodologie».4 Più valido e dunque più efficiente so-prattutto nella convinzione per cui non solo ogni epistolario, ma

Emilio Russo e, nello stesso volume, gli interventi di Simone Albonico ed En-rico Garavelli nella Tavola rotonda (ivi, pp. 313-330).

3. Cfr. prima PAOLO PROCACCIOLI, La lettera di antico regime: canoni, depositi, letture vecchie e nuove, in Ricerche sulle lettere di Torquato Tasso, a cura di Clizia Carminati ed Emilio Russo, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2016, pp. 7-23; e più recentemente ID., Filologia epistolare del medio Cinquecento. La lettera tra pratica individuale e teorizzazione, in La filologia in Italia nel Rinascimento, a cura di Carlo Caruso ed Emilio Russo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp. 275-291; e ID., Epistolografia tra pratica e teoria, in L’epistolografia di Antico Regime, pp. 9-33. La questione era stata sollevata già da NICOLA LONGO, De epistola colenda. L’arte di «componer lettere» nel Cinquecento, in Le «carte messaggiere», pp. 177-201; recuperata in ID., Letteratura e lettere. Indagine nell’epistolografia cinque-centesca, Roma, Bulzoni, 1999; e da LUIGI MATT, Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con partico-lare riguardo alle lettere di Giambattista Marino), Verona, QuiEdit, 2015.

4. Le citazioni sono tratte da PAOLA MORENO, Lettere e arte, filologia e storia. Il progetto EpistolART, in Scrivere lettere nel Cinquecento. Corrispondenze in prosa e in versi, a cura di Laura Fortini, Giuseppe Izzi e Concetta Ranieri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. 223-231, p. 231; che insieme a EAD., Filologia dei carteggi volgari quattro-cinquecenteschi, in Studi e problemi di critica testuale 1960-2010. Per i 150 anni della Commissione per i testi di lingua, a cura di Emilio Pa-squini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2012, pp. 127-147; a RO-

BERTO VETRUGNO, Una proposta di criteri per l’edizione di carteggi rinascimentali italiani, in Epistolari dal Due al Seicento, a cura di Claudia Berra, Paolo Borsa, Michele Comelli e Stefano Martinelli Tempesta, Milano, Università degli Studi, 2018, pp. 597-610; e ai contributi di PIERRE JODOGNE, Aspetti codicolo-gici dell’edizione dei carteggi, in I moderni ausili all’Ecdotica. Atti del Convegno internazionale (Università di Salerno, 27-31 ottobre 1990), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, pp. 179-191; e più recentemente ID., Il momento della trascrizione nel lavoro ecdotico, in Epistolari dal Due al Seicento, pp. 1-16; co-stituiscono gli esempi più recenti di questo processo di teorizzazione a partire dalla riflessione sulle singole ricerche concrete, secondo una modalità avviata

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ogni lettera all’interno di un epistolario costituisce un caso di stu-dio a sé stante, possedendo «una sua particolare storia editoriale, una sua particolare tradizione, e quindi un suo particolare pro-blema testuale».5 Un proliferare di questioni e quesiti cui forse si deve la difficoltà di fornire la nuova edizione di uno degli epistolari più importanti del secondo Cinquecento, quello di Torquato Tas-so: il fattore di moltiplicazione sarebbe infatti, in questo caso, con-siderevolmente alto, trattandosi di circa 1700 lettere ad oggi leggi-bili per buona parte ancora nell’edizione curata da Cesare Guasti negli anni Cinquanta dell’Ottocento.6 Edizione meritoria, che per la prima volta disponeva in ordine cronologico 1557 lettere, for-nendo in conclusione di ognuno dei cinque volumi delle Notizie storiche e bibliografiche in cui per ogni missiva si indicava la possibile presenza dell’originale, l’editio princeps e ove necessario una breve contestualizzazione bio-bibliografica.7 Eppure il suo superamento, soprattutto a livello critico, è una consapevolezza che si riverbera da tempo a partire dagli studi fondativi di Gianvito Resta, pro-dromi per una nuova edizione critica dell’epistolario tassiano, ma ad oggi ancora privi di una salda prosecuzione.8 L’urgenza della que-stione è dettata tanto dall’avanzamento degli studi epistolografici –

dal già citato volume Metodologia ecdotica dei carteggi.

5. GIANVITO RESTA, Per l’edizione dei carteggi degli scrittori, ivi, pp. 68-80, p. 76. 6. TORQUATO TASSO, Lettere, a cura di Cesare Guasti, 5 voll., Firenze, Le

Monnier, 1852-55 (d’ora in poi Lettere seguito dall’indicazione del volume e del numero progressivo della missiva).

7. Le lettere raccolte nell’edizione sono in realtà 1563 incluse le apocrife. Delle 1557 missive tassiane, un discreto gruppo (Lettere II, 534-599) viene ge-nericamente collocato negli anni della prigionia, attualmente senza una più precisa distribuzione cronologica; mentre il quinto volume si conclude – in-sieme alle apocrife – con una manciata di lettere di data incerta (Lettere V, 1536-1557).

8. Cfr. GIANVITO RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, Firenze, Le Monnier, 1957. Il proseguimento degli studi sull’epistolario tassiano, come testimonia anzitutto il già citato volume Ricerche sulle lettere di Torquato Tasso, non si è co-munque arrestato, e trova il fronte più avanzato (per presentazione dello stato dell’arte e questioni proposte) in un quartetto di contributi firmati da Emilio Russo; cfr. in ordine EMILIO RUSSO, Per l’epistolario del Tasso (1). Appunti su tradizione e questioni critiche, in Scrivere lettere nel Cinquecento, pp. 185-198; ID., Per l’epistolario del Tasso (2). Schede su quattro autografi, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, a cura di Clizia Carminati, Paolo Pro-caccioli, Emilio Russo e Corrado Viola, Verona, Quiedit, 2016, pp. 55-66; ID.,

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anche in termini di strumenti a disposizione –, quanto dalle nuove acquisizioni di materiali e dati nell’ambito delle ricerche tassiane: l’edizione ottocentesca, infatti, che già Angelo Solerti iniziava a e-mendare, andrebbe anzitutto integrata di tutte quelle missive ine-dite raccolte e pubblicate sparsamente, insieme al centinaio di let-tere edite da Solerti nel secondo volume della sua biografia del poeta.9 Si conta così, ad oggi, un totale di 1698 epistole, ognuna con una propria storia testuale e le proprie questioni critiche e filo-logiche.

Dato questo contesto bibliografico ricco e allo stesso tempo complesso, il presente contributo intende proporsi come un’im-mersione concreta nel cantiere dell’epistolario tassiano, per iniziare a sondare quanto delle recenti acquisizioni metodologiche possa già risolvere alcune delle sue questioni e quali problemi invece ne-cessiterebbero ancora di una discussione condivisa. Una disamina delle criticità, più che delle soluzioni, nella speranza che un tale ap-proccio possa iniziare a dipanare la fitta nebbia che circonda e im-mobilizza il progetto della nuova edizione critica.

2.

Una prima domanda riguarda una questione di metodo che po-trebbe apparire inizialmente marginale: considerata la disponibilità delle lettere tassiane nell’edizione ottocentesca e nelle complemen-tari pubblicazioni di inediti, è più opportuno avviare i lavori da una nuova sistemazione critica dei testi, oppure da un loro commento?

La prassi vorrebbe che ogni approccio esegetico, anche la mera esplicazione della lettera del testo, segua la conclusione del lavoro

Per l’epistolario del Tasso (3). Un minutario autografo, in Ricerche sulle lettere di Tor-quato Tasso, pp. 103-125; e infine ID., Per l’epistolario del Tasso (4), in Gli archivi digitali dei Gonzaga e la cultura letteraria in età moderna, a cura di Luca Morlino e Daniela Sogliani, Milano, Skira, 2016, pp. 25-44.

9. Cfr. ANGELO SOLERTI, Appendice alle opere in prosa di Torquato Tasso, Fi-renze, Le Monnier, 1892, pp. 69-105; la considerevole raccolta di missive ine-dite recuperate dallo stesso ID., Vita di Torquato Tasso, 3 voll., Torino-Roma, Loescher, 1895, vol. II, pp. VI-IX (dell’Avvertenza), pp. XI-XII (dell’Aggiunte e correzioni), e pp. 1-70 e 443-47; e il riepilogo sulle pubblicazioni di lettere inedite stilata da GIANVITO RESTA, Lettere inedite di Torquato Tasso, «La Rassegna della letteratura italiana», LXII, 1958, pp. 48-54.

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più puramente filologico, preposto a fornire la lezione oggetto di qualsiasi successivo livello di interpretazione. Il quesito, in questo caso, si insinua a partire dalla constatazione che l’edizione Guasti, certamente non ascrivibile al novero delle edizioni critiche secondo la filologia moderna, si fonda su presupposti ecdotici imprecisi e poco condivisibili, ma comunque non del tutto ricusabili: e difatti, pur nella già annunciata esigenza di una nuova edizione, gli studi tassiani continuano ad avvalersi, con le dovute cautele, del lavoro svolto da Guasti. Diversa, sebbene non definitiva, la situazione cri-tica delle lettere edite successivamente: trattandosi di pochi testi trascritti da originali o da copie manoscritte, l’intervento dell’edi-tore è limitato anche dalla volontà precipua di documentare il ri-trovamento del nuovo materiale. E dunque: manca sì un’edizione critica attualmente approvabile, ma possiamo contare sulla dispo-nibilità dei materiali, a livello sia di pubblicazioni sia di accesso ai testimoni manoscritti e a stampa. Non sarà inopportuno, pertanto, chiedersi se non sia più utile, prima di riavviare un lavoro molto oneroso di recensio e collazioni destinato a precisare e ordinare ma-teriali noti, dare a questi testi ciò che da sempre richiedono ma che ancora non hanno: un commento, appunto. A ben vedere, del re-sto, un primo livello di esegesi di questo tipo ha permesso a Guasti di riorganizzare tutte le numerose lettere tassiane a lui note, con-sentendo una collocazione anche solo approssimativa delle molte prive di data o giunte dalla tradizione senza destinatario: grazie a una prima esegesi dei testi, la messe caotica dell’epistolario tassiano ha cominciato a prendere forma. Il commento sembra dunque con-figurarsi quale strumento ecdotico integrativo, nonostante la bi-bliografia specifica vi dedichi uno spazio ristretto e marginale:10 esso è generalmente considerato il secondo battito del metronomo che scandisce il procedere del lavoro critico, soprattutto quando i ma-teriali, differentemente da quelli tassiani, devono essere in primo luogo recuperati e ordinati.

Rivolgendosi invece agli studi critici che riflettono sul rapporto tra prassi ecdotica ed esegesi nella loro più estesa applicazione alle

10. Della bibliografia qui fornita in nota 4, cfr. soprattutto VETRUGNO, Una

proposta di criteri per l’edizione di carteggi rinascimentali italiani, pp. 609-610, dove si discute brevemente delle soluzioni che i supporti digitali potrebbero dare al «problema spinoso» dell’«annotazione delle lettere».

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opere letterarie, è possibile ricavare alcune osservazioni.11 Anzi-tutto, porsi il problema di un commento alle lettere significa recu-perare la questione della loro letterarietà: se i testi epistolari sono, in prima istanza, dei documenti, che per diversi motivi e con diversi processi hanno successivamente guadagnato il titolo di testi letterari, il commento-come-strumento-ecdotico qui discusso dovrebbe inda-gare il solo valore documentario.12 Lungo questa direttiva, il com-mento risulterebbe però squilibrato verso almeno due direzioni: a) l’attenzione esegetica verterebbe solo su alcuni aspetti del testo

e dovrebbe organizzarsi secondo modalità – anche da un punto di vista strumentale – che consentano l’effettiva relazione tra le missive. Come anticipato da Resta con la sua proposta di un corredo paratestuale comprendente indicazione delle fonti, ta-vole di ragguaglio e una «pertinente ed esaustiva annotazione»,13 l’esigenza di un commento che completi e supporti il lavoro ec-dotico è stata più recentemente sottoposta all’attenzione degli studiosi da Paola Moreno, la quale ben evidenzia il rischio che la funzionalità filologica del commento influisca negativamen-

11. Si pensa anzitutto ai fondamentali volumi Il commento ai testi. Atti del se-

minario di Ascona, 2-9 ottobre 1989, a cura di Ottavio Besomi e Carlo Caruso, Basel-Boston-Berlin, Birkhauser, 1992; a MASSIMO BONAFIN, Su alcune implica-zioni teoriche del commento, «Strumenti critici», XVIII, 2002, fasc. 1, pp. 107-118; a TIZIANA ARVIGO, Il commento: breve approssimazione introduttiva, in Il commento e la letteratura italiana, «Nuova corrente», LI, 2004, pp. 189-199; a Il testo lettera-rio. Istruzioni per l’uso, a cura di Mario Lavagetto, Bari, Laterza, 1996; e ancora a Il commento dei testi letterari (Atti del convegno di studi, Perugia 14-15 aprile 2005), a cura di Sandro Gentili, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006; fino al più recente PIETRO CATALDI, La pratica del commento. Un’introduzione, in La pratica del commento, a cura di Daniela Brogi, Tiziana de Rogatis e Giu-seppe Marrani, Pisa, Pacini, 2015, pp. 5-8.

12. È la prospettiva di studio avanzata da RESTA, Per l’edizione dei carteggi degli scrittori. La questione è stata più recentemente riportata all’attenzione dal già ricordato contributo di RUSSO, Funzioni e dinamiche dell’epistolografia nel Cinque-cento; ma affonda le sue radici in studi precedenti come quelli di LONGO, Let-teratura e lettere; e ancora di MARIA LUISA DOGLIO, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra quattro e seicento, Bologna, Il Mulino, 2000; e di RAFFAELE MORABITO, Lettere e Letteratura, Studi sull’epistolografia volgare in Italia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.

13. Considerata «indispensabile […] per dare immediata e compiuta concre-tezza e dimensione al valore storico-documentario» di un epistolario, cfr. RE-

STA, Per l’edizione dei carteggi degli scrittori, p. 71 e 77.

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te, con l’imporsi delle sue esigenze di ricerca puntuale, sulla conclusione del riassetto testuale più puramente ecdotico: la «soluzione intermedia», che porrebbe in gioco la creazione di indici tramite supporto digitale, necessiterebbe dunque di coor-dinate metodologiche più precise e accuratamente vagliate so-prattutto nella loro applicabilità.14

b) Per quelle lettere la cui quota di letterarietà risulterà prorom-pente rispetto alla funzione informativa, l’affondo esegetico si profilerà scarso e, in un certo senso, annichilerà il loro valore intrinseco di prosa d’arte. Questa criticità si lega al riaffiorare di questioni più o meno risolte: se Mario Marti distingueva tra ‘raccolta di lettere’ ed ‘epistolario’ proprio nel riconoscimento della differente letterarietà dei due prodotti, Resta proponeva di accantonare l’idea di editare separatamente gli ‘epistolari’ au-toriali e realizzare ‘raccolte di lettere’ scientificamente curate, in cui tutte le lettere – indipendentemente dalla selezione o rifaci-mento dell’autore – vengano disposte nel corretto ordine cro-nologico: un’operazione di «restauro» che recupera alla lettera il suo originario valore documentario, relegando la ‘letterarietà’ negli strumenti paratestuali che il filologo metterebbe a dispo-sizione del lettore.15 La disparità di approfondimento esegetico, per queste tipologie epistolari, sarebbe inevitabile nell’applica-zione di un commento-come-strumento-ecdotico, ed è forse una criticità su cui bisognerebbe riflettere più specificamente.

La sovrapposizione di un’esegesi limitata alla sola esplicazione della

14. Cfr. MORENO, Filologia dei carteggi volgari quattro-cinquecenteschi, pp. 141-

142: «Non ancora del tutto risolta è infine la questione del commento alle sin-gole lettere. Le lacune che necessariamente comporta ogni recensio, la presenza in ogni missiva di allusioni da elucidare, la presenza di parole dal significato oscuro o di costrutti sintattici meritevoli di una spiegazione, l’inserimento del singolo documento in un contesto storico e culturale particolarmente ricco e complesso quale quello rinascimentale, sono tutti argomenti a favore di un corredo esegetico puntuale e capillare per ciascuna delle lettere pubblicate, di-rei quasi per ciascun paragrafo di esse. Ma troppo spesso lo sforzo esegetico finisce per rallentare, se non fermare del tutto, il lavoro di edizione […]. La soluzione intermedia, adottata da molti per ovviare all’omissione delle note, è la redazione di dettagliati indici».

15. Cfr. MARTI, L’epistolario come ‘genere’ e un problema editoriale; e RESTA, Per l’edizione dei carteggi degli scrittori, p. 75.

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lettera del testo con la prassi ecdotica non è certo riflessione estra-nea alla critica,16 e anzi: sui «rischi nella dissociazione fra ecdotica e commento ai testi letterari» è già intervenuto Giorgio Inglese che, nel riconoscere la «differenza statutaria, la discontinuità fra i due momenti del lavoro critico», invitava comunque a non «dissimular-la o eluderne le conseguenze», ma a «praticarla consapevolmente».17 Vero è che l’explicatio verborum che i critici letterari identificano con il commento esplicativo non coincide pienamente con l’idea di commento-come-strumento-ecdotico qui proposta.18 Nell’impiego dello stesso termine – quello di commento – risulta uno iato tra l’in-formazione primaria ed esplicativa richiesta nell’applicazione a un testo letterario e quella a un testo anzitutto documentario come le lettere.

Se la funzione del commento è di «decriptare il messaggio», di «rendere comprensibile un testo», allora la domanda da porsi è quali siano le informazioni che il filologo-commentatore di una missiva dovrebbe chiarificare al lettore moderno al fine di «offrire un in-centivo per una lettura attiva e personale del testo, della quale il commento dev’essere sussidio».19 Da explicatio verborum a esplicazione dell’informazione, il primo livello di esegesi di un testo epistolare ne-cessita, nel caso in cui la lettera venga trattata anzitutto come docu-mento, di una propria declinazione rispetto alla già sviluppata teo-ria del commento letterario, dovendo rispondere a una richiesta di leggibilità evidentemente differente.

3.

È probabile che, come per altri luoghi della teorizzazione epistolo-grafica, la pratica possa riassettare tutta questa serie di coordinate

16. Cfr. anzitutto le magistrali riflessioni di CESARE SEGRE, Ritorno alla critica,

Torino, Einaudi, 2001, p. 83. 17. GIORGIO INGLESE, Ecdotica e commento ai testi letterari, in Studi e problemi

di critica testuale 1960-2010, pp. 37-45, p. 45. 18. Cfr. ROMANO LUPERINI, L’interpretazione dei testi letterari: la parte del com-

mento, in Il commento dei testi letterari, pp. 1-8, p. 1. 19. Cfr. per le prime due citazioni, CESARE SEGRE, Per una definizione del com-

mento ai testi, in Il commento ai testi, pp. 3-17, p. 4; e a seguire GIOVANNI POZZI, Fra teoria e pratica strategie per il commento ai testi, ivi, pp. 311-334, p. 314.

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dubbie più velocemente delle riflessioni astratte: fuori dalle defini-zioni, infatti, l’impiego ecdotico del commento trova già i suoi primi risultati positivi, e a riguardo alcuni esempi si possono trarre pro-prio dall’epistolario tassiano. Si consideri la lettera 1181 secondo la numerazione dell’edizione Guasti: la missiva presenta una tradi-zione esclusivamente a stampa, che annovera la princeps secentesca e le successive riedizioni nei due opera omnia tassiani della prima metà del Settecento e a seguire nell’edizione ottocentesca curata da Giovanni Rosini.20 In nessuna di queste stampe la lettera figura con una datazione certa, ma qualche informazione – dunque già vol-gendosi verso un primo livello di esegesi – viene fornita dalla so-scrizione:

LETTERE IV, 1181 A Maurizio Cataneo

In risposta di quello che mi scrive Vostra Signoria voleva dirle, che a’ ritro-vatori o a’ rinovatori de le cose maravigliose non si deono negare le debite lodi, massimamente s’elle sono giovevoli al mondo: laonde né io potrò ne-garle al famosissimo Bragadino; perché, s’io volessi biasimare il ritrovamento de l’oro, o altra simile invenzione, converrebbe ch’io biasimassi per conse-quenza l’uso, il qual è sommamente da me commendato. Così potessi mo-strare intorno a ciò la mia opinione con gli effetti; ma ben ch’io facessi qualche composizione in lode del clarissimo Bragadino, non devrei esser però condannato a le spese ed a la fatica d’un così lungo viaggio; e la sua cortesia potrebbe estendersi sin a Roma, come la vostra sino a Santa Maria Nuova. Ma più desidero dal clarissimo Bragadino; cioè, ch’egli ritrovi la miniera de l’oro e de l’argento ne gl’ingegni, e la discopra a me, che ne

20. Cfr. rispettivamente Lettere del signor Torquato Tasso non più stampate, Bolo-

gna, Bartolomeo Cochi, 1616, pp. 18-19 (d’ora in poi Cochi_1616); Opere di Torquato Tasso colle controversie sopra la Gerusalemme liberata divise in sei tomi, 6 voll., Firenze, S.A.R. Tartini e Franchi, 1724 (d’ora in poi, in riferimento al quinto volume, Firenze_1724), p. 229; Delle Opere di Torquato Tasso con le con-troversie sopra la Gerusalemme Liberata, e con le annotazioni interne di vari Autori, notabilmente in questa impressione accresciute, 12 voll., Venezia, Stefano Monti e N.N. Compagno, 1735-1742 (d’ora in poi Venezia_1732-42, con specificazione del volume), vol. IX, p. 364; e infine Opere di Torquato Tasso colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull’edizione fiorentina, ed illu-strate dal professore Giovanni Rosini, 33 voll., Pisa, Niccolò Capurro, 1821-32 (d’ora in poi Rosini_1825-27, in riferimento ai voll. XIII-XVII contenenti le let-tere tassiane divise in 5 tomi, di cui si darà indicazione del tomo), tomo II, pp. 200-201.

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sono più desideroso che de l’altra mutazione. Eccovi il soggetto de la can-zona. Di Santa Maria Nuova di Roma.21

È noto che Tasso venne ospitato nel monastero romano di

Santa Maria Nuova (oggi monastero delle oblate di Santa Francesca Romana) tra il 10 agosto 1589 e la prima metà di gennaio del 1590, un arco cronologico relativamente ristretto che ha consentito a Guasti di datare la lettera tra quelle dell’autunno-inverno 1589, in-sieme alle altre missive inviate dallo stesso monastero.22 Nella pe-nuria delle testimonianze, però, l’arbitrio dell’editore si riconosce nella collocazione della lettera sul finire di ottobre, cioè tra l’ultima lettera datata al 27 ottobre 1589 (Lettere IV, 1180) e la prima datata del nuovo mese (Lettere IV, 1183, del primo novembre 1589). Se il nuovo editore dell’epistolario tassiano dovesse attenersi esclusiva-mente ai dati della tradizione a stampa, dovrebbe accettare la scelta di Guasti e lasciare la lettera in un’ipotetica fine di ottobre del 1589. Qualora invece optasse per una lettura della missiva esplica-tiva dell’informazione, il testo potrebbe rilevare anche elementi fun-zionali all’obiettivo filologico della corretta datazione. Solerti, nella sua biografia tassiana, commenta liminalmente questa lettera come una risposta «piccata e vivacemente» rivolta da Tasso alle provoca-zioni ironiche del destinatario Maurizio Cataneo, che invitava il poeta a rivolgersi all’alchimista Marco Bragadin23 per soddisfare le sue continue richieste monetarie: eppure in questo modo un dato storico viene eclissato dietro la patina dello scherno, senza possibi-lità di riconoscere che quel «ritrovamento de l’oro» potrebbe offrire una datazione molto più accurata. Marco Bragadin, famoso alchi-mista quasi coetaneo del poeta, dopo un periodo di clandestinità venne accolto trionfalmente a Venezia il 26 novembre 1589, avendo già ricevuto il salvacondotto della Repubblica quasi un mese prima (30 ottobre); nei primi giorni di dicembre presentava alle autorità veneziane la propria ricetta per la produzione dell’oro.24 Seguendo questa cronologia, risulta forse più corretto

21. Lettere IV, 1181 (corsivo mio, qui e nelle prossime citazioni). 22. Sul soggiorno di Tasso presso il monastero romano, cfr. SOLERTI, Vita di

Torquato Tasso, vol. I, pp. 639-648. 23. Cfr. ivi, p. 643. 24. Cfr. HATTO KALLFELZ, Bragadin, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani

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ipotizzare che Tasso potesse far riferimento al «ritrovamento de l’oro» solo dopo essere stato messo al corrente dell’arrivo dell’alchi-mista a Venezia; oppure, molto più economicamente, quando giun-se anche a Roma la notizia della dimostrazione e deposizione della ricetta alchemica presso la Zecca veneziana: ciò significa che una lettera arbitrariamente collocata – per mancanza di informazioni – sul finire dell’ottobre, potrebbe datarsi più precisamente tra la fine di novembre e le prime settimane di dicembre del 1589. L’interro-gazione della lettera del testo opera qui una correzione che affidan-dosi alla sola prassi ecdotica non sarebbe attuabile.

4.

Un discorso simile può farsi per la lettera 1151, scritta da Tasso a Girolamo Catena, nursino entrato a far parte della Sacra Consulta per volere del papa Sisto V nel 1585.25 Anche in questo caso la tra-dizione testuale risulta esclusivamente a stampa, comprendendo le stesse edizioni citate per la missiva precedente.26 Eppure Guasti, contro quanto poteva ricavare da queste fonti, corregge la data della lettera da 22 luglio 1587 in 22 luglio 1589, e nelle Notizie storiche e bibliografiche spiega: «Dal Cochi, a pag. 395 [princeps]; il quale asse-gna a questa lettera l’anno 1587: ma il Serassi (Vita, II, 212, nota 2) tacitamente lo corregge».27 Il riferimento bibliografico rimanda alla seconda edizione accresciuta della biografia tassiana edita dal-l’abate Serassi nel 1790, ma la rettifica era operata già nella prima edizione del 1775: ciò significa che, mentre nella riproposizione acritica della princeps le due stampe settecentesche (1724 e 1735-42) hanno perpetuato un errore emendato solo successivamente, il la-voro di riedizione delle lettere tassiane curato da Rosini nel biennio 1825-1827 pecca in questo caso di negligenza, oltre che di passività. Il dato rilevante però, sulla scia del discorso sopra condotto, risiede nella modalità con cui Serassi interviene a correggere la datazione erronea. Si riporta il brano dalla biografia con la relativa nota citata da Guasti:

[DBI], XIII, 1971, pp. 691-694.

25. Cfr. GIORGIO PATRIZI, Catena Girolamo, in DBI, XXII, 1979, pp. 323-325. 26. La princeps è Cochi_1616, pp. 395; seguono Firenze_1724, pp. 229-230; Ve-

nezia_1735-42, vol. IX, p. 366; e Rosini_1825-27, tomo II, p. 202. 27. Lettere IV, p. 358.

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Nel tempo che Torquato si tratteneva in Firenze, era passato a miglior vita il Pontefice Sisto V, al quale dopo molte diligenze avea appena potuto ba-ciar i piedi una volta (2), ma non mai essere introdotto, come desiderava, ad una privata audienza.

(2) Ciò fu nel mese di Luglio del 1589, secondo che si legge in una sua lettera a Monsig. Catena Oper. Vol. IX. pag. 365 [Venezia_1735-42], ove dice: Bacio la mano al Sign. Card. Alessandrino, le cui raccomandazioni mi po-trebbono giovare col Papa al quale finalmente con molta mia consolazione ho ba-ciato il piede.28

Serassi non segnala in alcun modo l’apporto correttorio, introdu-cendo il brano della lettera 1151 senza accenni alla datazione diffe-rente fornita dall’edizione da cui egli stesso la trae. L’intervento è svolto con la sicurezza di chi, perfettamente a conoscenza dei movi-menti tassiani nel 1587,29 non può accettare la discrasia e, come af-ferma Guasti, «tacitamente» ricolloca la lettera alla sua corretta al-tezza cronologica. Implicitamente, dunque, viene operata quella stessa esplicazione dell’informazione sopra discussa e che anche in que-sto caso si mostra strumento di supporto alla curatela filologica.

5.

Nelle rispettive disamine sulle diverse tipologie di testo epistolare, tanto Paolo Procaccioli quando Roberto Vetrugno stilano una ca-sistica molto ampia: il primo, nella «pluralità di oggetti diversi che sono anche una pluralità di stati di scrittura», individua testi «a va-rio titolo originali (autografi o idiografi che fossero: la minuta, il

28. PIERANTONIO SERASSI, La vita di Torquato Tasso, Roma, Pagliarini, 1775,

p. 446 e ibidem nota 2; si fornisce per completezza anche l’indicazione della seconda edizione: ID., La vita di Torquato Tasso, 2 voll., Bergamo, Locatelli, 1790. La conoscenza puntuale da parte di Guasti della biografia settecentesca è dovuta alla sua curatela con ampliamento per la riedizione ottocentesca, cfr. La vita di Torquato Tasso scritta dall’Abate Pierantonio Serassi. Terza edizione curata e postillata da Cesare Guasti, 2 voll., Firenze, Barbera Bianchi e Comp., 1858 (per il luogo citato cfr. ivi, p. 255).

29. Nel luglio del 1587 Tasso era ancora a Mantova presso la corte del duca Vincenzo I Gonzaga che solo un anno prima lo aveva liberato da Sant’Anna. Inoltre, sul finire del 1588, Tasso ancora lamentava con Giulio Segni gli impe-dimenti per cui non era riuscito fino ad allora a incontrare il papa Sisto V (Lettere IV, 1175).

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testo effettivamente inviato, il testo compreso in un copialettere), e le copie tratte dal testo recapitato al destinatario (la copia coeva ma-noscritta, la copia coeva a stampa, la copia successiva manoscritta o a stampa)»; il secondo schematizza le diverse forme in lettera origi-nale autografa, minuta autografa, originale non autografo, registro (copia non autografa), copia tarda manoscritta o a stampa.30 Buona parte di tutte queste tipologie sono ben rappresentate nella tradi-zione testuale delle lettere tassiane, imponendo un trattamento dif-ferente dei materiali e dunque, come altrove prospettato, la possi-bilità che la nuova edizione critica dell’epistolario mescidi insieme testi dallo statuto e dall’autorialità differenti.31 La conseguente dif-ficoltà sarà di rendere coerente e omogeneo il prodotto finale del lavoro ecdotico: se è indubbio che, nello studio dei singoli casi, una lettera originale autografa non possa condividere i suoi criteri di trascrizione con quelli di una copia tarda o a stampa, la domanda da porsi è quanto sia effettivamente possibile individuare delle coordinate editoriali puntuali ma allo stesso tempo abbastanza am-pie da permettere l’applicabilità a tutte le diverse situazioni; o se la necessità documentaria non intervenga anche in questo caso a im-porre un’aderenza alla realtà molteplice dei testi epistolari, rinun-ciando all’omogeneità in virtù di una riproposizione dell’epistola-rio che non nasconda, insieme alle criticità, la complessità della sua storia.

Con le lettere precedentemente analizzate si è avuta riprova del caso di tradizione testuale più diffuso tra le lettere tassiane, trattan-dosi di missive con testimoni esclusivamente a stampa: l’esigua tra-dizione viene poi ulteriormente ridotta nella constatazione che tanto le edizioni settecentesche quanto l’ottocentesca che precede Guasti operano una riproposizione acritica delle stampe antiche. Ciò significa che, per le lettere 1181 e 1151, l’unico testimone au-

30. Cfr. rispettivamente PROCACCIOLI, Filologia epistolare del medio Cinque-

cento, p. 277; e VETRUGNO, Una proposta di criteri per l’edizione di carteggi rinasci-mentali italiani, p. 606.

31. Cfr. RUSSO, Per l’epistolario del Tasso (3), p. 115: «Si profila così in misura molto sensibile un’edizione a diversi livelli di autorialità, entro la quale si af-fiancheranno testi di sicura finitura tassiana – in taluni, pochi, casi persino con la possibilità di ricostruirne la genesi complessa sulle carte autografe – a testi giunti da edizioni che Tasso non ebbe la possibilità di correggere e rivedere».

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torevole è la princeps secentesca, dovendo considerare le altre descrip-tae.

Vi sono però anche casi più fortunati: la tradizione testuale mi-sta della lettera 1112, ad esempio, si fonda su due manoscritti se-centeschi, di cui è anche possibile – grazie agli studi di Resta – co-noscere la storia, e dunque riconoscerli come testimoni tra loro probabilmente indipendenti: essi sono da una parte il Codice Fal-conieri (Cassaforte 6.15), uno dei più importanti della raccolta tas-siana conservata a Bergamo presso la Biblioteca Civica ‘Angelo Mai’; dall’altra un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), il Vaticano Latino 10977, entrambi appartenenti ai mate-riali dell’erudito ed estimatore tassiano Marcantonio Foppa.32 Della lettera, pubblicata per la prima volta da Rosini, si propone di se-guito il testo secondo l’edizione Guasti con il corredo di un breve apparato delle varianti sostanziali della tradizione manoscritta:33

LETTERE IV, 1112

A Giovan Battista Licino

B = Bergamo, Biblioteca Civica ‘Angelo Mai’, Cassaforte 6.15, c. 5r. V = Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 10977, cc. 78r-v. F = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 223, pp. 137-138.

[1] Io non credeva c’alcun accidente del mondo mi potesse contristare; così duro callo aveva fatto al dolore: ma per l’avviso de la morte di monsignor Cristoforo Tasso io mi sono avveduto, che son più tenero che non pensava; così fieramente m’ha trafitto il cuore e l’anima. [2] Ne la fanciullezza io gli fui non sol parente, ma compagno ed amico cordialissimo; ne l’età matura tanto si strinse l’amicizia, quanto si rallentò il parentado. [3] In questa,

32. Cfr. rispettivamente RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, p. 176 e 174; soprat-

tutto dove, presentando il codice bergamasco, afferma: «Questo ms. si differen-zia dagli altri della collezione Foppa perché è costituito dai fogli contenenti scritture tassiane inviati da varie parti al raccoglitore [Marcantonio Foppa]: un materiale che il Foppa doveva sistemare, segliere e far poi ricopiare (ma molte delle lettere quivi trascritte si trovano nei mss. precedenti [compreso Vat. lat. 10977, n.d.r.], pervenute, però, da altra fonte al raccoglitore».

33. Si è scelto di limitarsi esclusivamente alle varianti sostanziali non solo per la sintesi richiesta da questa sede, ma anche perché si ritiene necessario riser-vare ad altro luogo e approfondimento la discussione delle varianti linguistiche e grafiche di due copie secentesche nella collazione con la lezione Guasti, che a sua volta interviene – con un certo arbitrio – a restaurare un ipotetico uso tassiano a partire dalla sua fonte (che nel caso di questa lettera è la princeps).

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ch’io posso chiamar decrepita, altrettanto per la sua morte, quanto per la mia infermità, m’è mancata l’ultima speranza, e quasi l’ultima àncora. [4] Laonde io veggio la navicella de la mia vita a correr per perduta; e s’ella non affonda tra Scilla e Cariddi, o non rompe ne le sirti affricane, sarà gran misericordia di Nostro Signore. Non più di questa materia, perch’il pianto m’abbonda più de l’inchiostro; benché trovando serrata l’uscita per gli occhi, gocciola sul cuore e su l’altre interiora. [5] Piacemi d’aver inteso che ’l reverendo don Eutichio abbia avuta la copia di que’ libri; la qual mi sarebbe necessarissima, perch’io non son atto a la fatica di ricopiare: ma oltre ciò, Vostra Signoria mi farebbe grazia singola-rissima a mandarmi la copia de l’altre mie composizioni, e particolarmente de’ dialoghi. [6] Si condoglia a mio nome co ’l signor cavaliere, e co ’l signor Ercole de la morte del fratello; e viva ne la grazia del Signore. [7] Di Roma, il Sabato Santo del 1589.

4 vita a correr] vita correr B V F 4 e su l’atre interiora] cassato sul rigo in V 5 don Eutichio] frate Eutichio B; sottolinea e cassa sul rigo frate cor-reggendo a margine con Don V 5 mandarmi la copia] sottolinea e cassa sul rigo la copia correggendo a margine con quella V 7 Sabato Santo 1589] seguito dal poscritto farò il sonetto che Vostra Signoria desidera in loda de le rime del Padre Grillo in B

Se le poche varianti sostanziali individuate garantiscono l’indi-pendenza delle due lezioni, l’attenzione cade sulla fonte utilizzata da Guasti, che evidentemente non coincide con nessuno dei due manoscritti. L’editore, difatti, trae questa lettera dalla princeps otto-centesca curata da Rosini: qui la missiva figura nel quinto tomo, tra quelle trascritte dai così detti Manoscritti Serassi (Biblioteca Na-zionale Centrale di Firenze, Palatini 223-224).34 Appurato che la lezione fornita da Guasti coincide con quella della princeps, l’ori-gine delle varianti dovrebbe risiedere appunto nei Manoscritti Se-rassi, se non fosse che questi sono copia – e dunque descripti – dei

34. Cfr. Rosini_1825-27, tomo V, pp. 127-128. Per i Manoscritti Serassi, cfr.

FRANCESCO PALERMO, I Manoscritti Palatini di Firenze, 3 voll., Firenze, I. e R. Biblioteca Palatina, 1853-1868, vol. I, pp. 411-412; I Codici Palatini della R. Bi-blioteca Nazionale Centrale di Firenze, vol. I., fasc. 1, Roma, Principali Librai, 1885, pp. 297-313, che fornisce una prima descrizione analitica del loro conte-nuto; e più recentemente SOLERTI, Appendice alle opere in prosa, pp. 100-102; e soprattutto RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, pp. 202-203.

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codici foppiani conservati presso la BAV, tra cui appunto il Vat. lat. 10977, come esplicita l’intestazione stessa del manoscritto Pa-latino (F, p. 61): «Dalle Lettere del Signor Torquato Tasso non più stampate, raccolte da Marcantonio Foppa Volume primo Mano-scritto della Libreria Falconieri».35 La collazione non spiega però perché, nella filiazione Vat. lat. 10977> Manoscritti Serassi (Pala-tino 223) > edizione Rosini, le correzioni che il copista del Vat. lat. 10977 apportava alla propria trascrizione non vengano accolte. La soluzione potrebbe forse trovarsi in una postilla a p. 62 di F, dove sul margine sinistro della copia di una lettera non tassiana si legge: «Questa lettera è stata alquanto alterata dal Foppa; onde V. l’altre due copie».36 La trascrizione della lettera 1112 da V in F, dunque, potrebbe non essere avvenuta in modo acritico, determinando l’as-senza in F delle varianti attestate in V.

Nel caso specifico di questa lettera dunque, l’editore dovrà scar-tare del tutto come descriptae la princeps e la Guasti, e dedicarsi alla valutazione dell’affidabilità dei due manoscritti secenteschi, così da poter scegliere la lezione da porre a testo e quali delle varianti discu-tere invece in apparato: un discrimine importante potrebbe essere rappresentato da quel poscritto testimoniato dal solo codice berga-masco.37

6.

A onore del vero, l’appena citata lettera 1134 potrebbe arricchire la sua tradizione testuale con un testimone di particolare rilevanza:

35. Occorre precisare che questa intestazione non compare in V (privo di qual-

siasi nota introduttiva), ma a c. 4r del manoscritto Vat. lat. 10975, primo dei volumi legati alla raccolta di Marcantonio Foppa e cui appartiene anche V (cfr. ivi, p. 171). Il fatto che il copista di F premetta questa intestazione alla trascri-zione di un gruppo di lettere (F, pp. 61-178) che comprende anche missive presenti solo in V porterebbe a pensare che V sia la continuazione della raccolta iniziata in Vat. lat. 10975. Ma è ipotesi qui solo avanzata e del tutto da verifi-care.

36. È la lettera pubblicata con il numero CVIII da SOLERTI, Vita di Torquato Tasso, vol. II, pp. 130-131 e presente in copia in V, c. 10r.

37. Per una prima riflessione a riguardo, cfr. MICHELA FANTACCI, Due lettere tassiane (114, 1112) e il contributo dei codici bergamaschi, in Ricerche sulle lettere di Torquato Tasso, pp. 77-87.

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nei suoi studi, infatti, Resta recuperava l’informazione che l’origi-nale potesse conservarsi ancora presso il principe Filangieri di Na-poli.38 Si tratta di uno dei non rari casi – comuni anche ad altri epi-stolari – in cui gli autografi degli autori più accreditati sono rifluiti in collezioni private, imponendo agli studiosi modalità diverse dalle consuete ricerche d’archivio per tentare il loro recupero.39

Fortunatamente, l’epistolario tassiano può già contare sulla te-stimonianza di alcuni originali, come il nucleo conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro (ms. 429), entro il quale figura quel-lo della lettera 1121, su cui sono ancora visibili i segni della piega-tura e tracce del sigillo. Questa la trascrizione diplomatica corredata di un breve apparato che prospetta i rapporti con la tradizione a stampa:40

LETTERE IV, 1121 Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms. 429, cc. 267r-268v.

R = Rosini_1825-27, tomo V, pp. 266-267 [editio princeps].41 G = Lettere, ed. Guasti, vol. IV, p. 194.

Al M:to mag:co Sig:or mio oss:mo il Sig:or Curtio Arditio

38. Cfr. RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, p. 214. 39. Cfr. l’accenno di MORENO, Filologia dei carteggi volgari quattro-cinquecente-

schi, p.129. 40. La lettera è infatti conservata in copia tarda nei già citati Codice Falconieri

(Cassaforte 6.15, cc. 34v-35r) e Manoscritto Serassi (Palatino 223, pp. 351-352). Per motivi di brevità ed organicità del discorso si rinuncia in questa sede alla collazione con la tradizione manoscritta. Rispetto alla tradizione a stampa, nelle due copie seriori sono già presenti tutte le varianti riportate nel breve apparato, con poche eccezioni: dell’autografo, il codice bergamasco conserva la forma [5] «conterrebbono» e [6] «alcuno», mentre il palatino solo quest’ultima.

41. La lettera è testimoniata anche dai Manoscritti Serassi (vd. nota prece-dente), ma in questo caso il codice palatino non costituisce la fonte della prin-ceps: Rosini, infatti, a p. 260 del tomo V, appone una nota in calce a Lettere 128 indicandola come ultima missiva copiata in F, che nelle carte successive prose-gue con degli indici. Ora, le pp. 336-337 di F sono effettivamente compilate con indici (preceduti dalla copia di Lettere 128), ma il manoscritto prosegue con la trascrizione di altre lettere tassiane da parte di altre mani, tra cui tro-viamo anche Lettere 1121 in esame. Segno dunque che la consistenza e compo-sizione del manoscritto visionato da Rosini erano ben diverse da quelle del manufatto oggi consultabile, e di cui bisognerebbe studiare più attentamente la formazione.

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M:to mag:co Sig:or mio oss:mo [1] Non sò s’io mi ricorderò di rispondere à tutte le parti de la lett:ra di V. S. perche dapoich’io l’hebbi letta la riposi ne la saccoccia. ne sò quel che ne sia avenuto. comincierò adunque di rispondere a le cose, che meglio mi ricordo. [2] il p:mo mio desiderio sarebbe di haver un servitre Giovine. ma non posso fargli le spese. ma havrò qualche scudo da pagarlo. [3] vorrei, che p qualche mese venisse a servirmi e la patienza sarebbe vicendevole. la sua di servire un povero, et infelice Gentilhuomo. la mia di non poterli comandar tutte le cose. e di tolerarle molte. [4] il secondo desid:rio sarebbe come scrissi à V.S. l’uscir di miseria, e di q.ta ma in questo nõ può aiutarmi senza il favor del Gran Duca, o del Sig:or Duca suo, [5] m’aiuti dunque sul p:mo e faccia che qto servitore mi sia trovato in tutti i modi dal Sig:or suo fratello: non dimando, che sappi scrivere, ne alcuna di quelle cose, che conterrebbono il secondo capo. [6] ma s’è lecito di rientrar nel medesmo proponim.to io desidero, ch’alcuno di q:ti principi o mi aiutasse à vincer qta benedetta lite: o mi donasse altretto. di qta materia non si può scrivere senza gran confidenza però mi perdoni s’io ho troppo confidato e mandi l’in-chiusa al Sigor card.le del Mõte. [7] Da Roma. il 3 di Maggio del 1589.

Di V.S. aff.mo ser.re Torq.to Tasso

3 poterli] potergli R G 3 tolerarle] tollerarne R G 4 e di questa] e di questa stanza G 5 sul primo] nel primo R G 5 sappi scrivere] sappia R G 5 conterrebbono] concernerebbono R G 6 alcuno] alcuni R

La scelta di riportare la trascrizione diplomatica si lega a diversi

presupposti. Anzitutto la volontà di restare coerenti con l’intento iniziale di addentrarsi nel vivo del possibile cantiere di lavoro sul-l’epistolario tassiano: una trascrizione interpretativa avrebbe rap-presentato il compromesso per una maggiore leggibilità del testo, ma avrebbe implicitamente proposto dei criteri di trascrizione degli originali tassiani. L’intenzione è invece di mostrare le singole que-stioni concrete che il futuro editore potrebbe trovarsi ad affrontare, e che naturalmente includono la scelta delle modalità con cui ren-dere l’autografia tassiana in un epistolario comprendente testi dal-

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QUESTIONI CRITICHE E FILOLOGICHE SULLE LETTERE DI TASSO

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l’autorialità composita.42 Punto di riferimento imprescindibile sa-ranno certo gli studi sull’uso linguistico e ortografico del poeta svolti da Ezio Raimondi sulla prosa dei Dialoghi.43 D’altro canto, una questione su cui forse andrebbe posta maggiore attenzione è quella della punteggiatura. Concordi che l’oscillazione paragrafe-matica è insita nella scrittura cinquecentesca e che la ricerca di una sistematicità dell’uso tassiano potrebbe risultare in alcuni casi fuor-viante, la scelta dell’ammodernamento è certamente la più auspica-bile, ma non priva di rischi: riallacciandosi al discorso condotto in apertura, la resa moderna della punteggiatura, in quanto operazio-ne che garantisce la leggibilità del testo, fa parte di quel «contratto di mediazione» rappresentato dal commento.44 Anzi: la scelta dei criteri di ammodernamento del sistema paragrafematico è forse il primo concreto atto interpretativo del filologo. E l’individuazione della modalità migliore sarà delicata tanto in presenza di autografi, quanto per le missive dalla tradizione esclusivamente a stampa. Nel-la lettera in esame il peso dell’operazione si rende evidente nelle differenze tra la punteggiatura dell’originale e quella delle ottocen-tesche edizioni di Rosini e Guasti.

Si vorrebbe ora concludere con un’osservazione sulle poche va-rianti presentate nell’abbozzato apparato di questa missiva: la lezio-ne mutila «l’uscir di miseria, e di questa» viene arbitrariamente in-tegrata da Guasti in «l’uscir di miseria, e di questa stanza», giustifi-cando in nota che:

La stampa [Rosini_1825-27] legge: l’uscir di miseria e di questa: ma ec. Poi, il Serassi o chi al Serassi trasmesse la copia di questa lettera, fece la seguente nota: «La parola è abbreviata, e non intendesi. La mansione è senza luogo». Io ho supplito stanza; e credo volesse alludere alla casa del Gonzaga, dove gli sembrava riuscir troppo grave per lo meno a’ cortigiani.45

Posto che l’abbreviazione potrebbe sciogliersi con «quanta», so-

luzione che darebbe senso senza forzare altrimenti il testo, il rilievo

42. Sullo specifico della trascrizione degli epistolari riflette JODOGNE, Il mo-mento della trascrizione nel lavoro ecdotico.

43. TORQUATO TASSO, Dialoghi, a cura di Ezio Raimondi, 3 voll., Firenze, Sansoni,1958, vol. I, pp. 193-305.

44. La calzante definizione è di GIANCARLO MAZZACURATI, Commentare, in Il testo letterario, pp. 287-300, p. 287.

45. Lettere IV, p. 194.

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ELISABETTA OLIVADESE

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risulta interessante perché mostra nel concreto due scelte editoriali che rispondono a due principi differenti: l’operazione svolta da Se-rassi (o chi per lui) e da Rosini è quella di restare aderenti alla let-tera – anche oscura – del testo, fornendo poi le dovute informazio-ni in nota;46 differentemente Guasti porta avanti il principio della leggibilità, corregge l’apparente corruttela e documenta in calce al testo il suo intervento. Probabilmente il futuro editore dell’episto-lario tassiano, attenendosi alle indicazioni della prassi ecdotica mo-derna, tenderà a seguire la prima modalità di trattamento, soprat-tutto in un caso come questo dove si impone l’autorevolezza del-l’originale autografo. Eppure, lungo una riflessione che integra le questioni critiche e filologiche precedentemente discusse, anche da questo esempio sembra possibile rilevare che il confronto con il principio di leggibilità sarà forse il più costante cui la nuova edi-zione dell’epistolario tassiano dovrà rispondere.

46. L’annotazione, così come riportata da Guasti, è infatti leggibile in Ro-

sini_1825-27, tomo V, p. 266.

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FRANCESCO ROSSINI

CORRISPONDENTI STROZZIANI (MAGLIABECHIANO

VIII, 1399): LE LETTERE DI ANGELO GRILLO*

Il clima di rinnovato interesse intorno alle corrispondenze episto-lari di Antico Regime, che ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, un ormai considerevole numero di pubblicazioni e progetti – basti qui ricordare l’esperienza di Archilet –, ha viepiù contribuito a riaf-fermare la rilevanza dei carteggi nell’ambito degli studi sulla storia della letteratura italiana, in virtù del loro essere sovente fonti di in-formazioni altrimenti irreperibili intorno alla biografia e al profilo intellettuale degli autori, nonché sulla gestazione delle opere, la lo-ro fortuna, e sulle relazioni intercorse fra letterati contemporanei.1

Sulla scorta di questi convincimenti, si intende qui appuntare l’attenzione su alcune tessere epistolari legate al letterato fiorentino Giovan Battista Strozzi il Giovane, anche detto il Cieco, vissuto fra

* Nella trascrizione dai manoscritti e dalle stampe antiche si sono adottati

criteri improntati a un sobrio ammodernamento: distinzione u/v; sostituzione di j con i; resa conforme all’uso moderno di accenti e apostrofi; tacito sciogli-mento delle abbreviazioni (la nota tironiana è sciolta in e davanti a consonante, et davanti a vocale); eliminazione dell’h etimologica (e conseguente trasforma-zione secondo l’uso moderno dei digrammi ch, ph, th, rh); sostituzione del nesso latineggiante ti con z; abbassamento delle maiuscole fuorché in nomi propri, personificazioni, antonomasie; adeguamento dell’interpunzione nei casi di di-screpanza dalla modernità. Desidero ringraziare Clizia Carminati, Marco Cor-radini e Roberta Ferro – attenti lettori di queste pagine – verso i quali sono debitore di amichevoli consigli e preziose indicazioni.

1. Tra gli studi nati nell’alveo del progetto Archilet (http://www.archilet.it) si vedano i due ricchi volumi collettanei Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, Atti del seminario internazionale (Bergamo, 11-12 di-cembre 2014), a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016; L’epistolografia di Antico Regime, Atti del convegno internazionale di studi (Viterbo, 15-17 febbraio 2018), a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019; cui andranno aggiunte le Ricerche sulle lettere di Torquato Tasso, a cura di Clizia Carminati ed Emilio Russo, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2016 e la raccolta «Le lettere sono imagini di chi le scrive». Corrispondenze di letterati di Cinque e Seicento, a cura di Roberta Ferro, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2018.

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FRANCESCO ROSSINI

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il 1551 e il 1634. La sua lunga parabola biografica che gli permise di entrare in contatto con diverse generazioni di uomini di lettere, il suo gravitare attorno a poli culturali differenti per collocazione geografica (la corte medicea e le accademie di Firenze, la Milano di Federico Borromeo, la Roma degli Aldobrandini e, più tardi, di papa Urbano VIII), ma anche la sua intensa attività letteraria e di riflessione poetica posero infatti lo Strozzi al centro di una fitta tra-ma di commerci epistolari che si presenta – per la vastità cronolo-gica e geografica, nonché per la statura dei corrispondenti – come un significativo ed emblematico exemplum di quella vivace rete di scambi intellettuali che caratterizzò la res publica litteraria nell’età di Tasso e di Marino.2

2. Intorno a Giovan Battista Strozzi il Giovane si veda il datato ma sempre

utile SILVIO ADRASTO BARBI, Un accademico mecenate e poeta: Giovan Battista Strozzi il Giovane, Firenze, Sansoni, 1900. Tra i contributi più recenti: JAMES

CHATER, Poetry in the Service of Music. The Case of Giovambattista Strozzi the Younger (1551-1634), «The Journal of Musicology», XXIX, 2012, 4, pp. 328-384; LORENZO AMATO, «Nobil desio d’onore». A proposito di alcuni madrigali sul calcio in livrea di Giovan Battista Strozzi il Giovane, in Per Giuliano Tanturli: storia, tradi-zione e critica dei testi, a cura di Isabella Becherucci e Concetta Bianca, Lecce, Pensa Multimedia, 2017, pp. 11-22; FRANCESCO ROSSINI, Giovan Battista Strozzi il Giovane a Roma: l’‘Orazione in biasmo della superbia’ (1611), «Aevum», XCI, 2017, 3, pp. 733-762; ID., «Strozzi, con dubbia palma in te contende / di Pal-lade il saper, di Febo l’arte»: i giovanili madrigali per musica di Giovan Battista Strozzi il Cieco tra poesia e riflessione letteraria, in La letteratura italiana e le arti, Atti del XX congresso nazionale dell’ADI-Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 set-tembre 2016), a cura di Lorenzo Battistini, Vincenzo Caputo, Margherita De Blasi, Giuseppe Andrea Liberti, Pamela Palomba, Valentina Panarella, Roma, Adi Editore, 2018, pp. 1-12, http://www.italianisti.it/AttidiCongresso?pg=cms &ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=103; ANNA SIEKIERA, Strozzi, Giovan Battista (Giambattista) detto il Giovane e il Cieco, in Dizionario Biografico degli Ita-liani [d’ora in poi DBI], Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XCIV, 2019, pp. 408-410; FRANCESCO ROSSINI, Torquato Tasso, Antonio de’ Pazzi e Giovan Battista Strozzi: stanze in lode e in biasimo della donna, in Le forme del comico, Atti del XXI congresso nazionale dell’ADI-Associazione degli Italianisti (Firenze, 6-7 settembre 2017), a cura di Francesca Castellano, Irene Gambacorti, Ilaria Macera e Giulia Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019, pp. 560-572, http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec =14&cms_codcms=1164; di chi scrive è inoltre in preparazione una monogra-fia dedicata all’autore. Si muovono in particolare sul versante linguistico gli studi di ANNA SIEKIERA: «La lingua volgare si può ridurre in regola come la latina et la greca, et altre». Uno scritto grammaticale attribuito a Giovanbattista Strozzi il Gio-vane, «Studi di Grammatica Italiana», XXXIV, 2015, pp. 161-183; Un nuovo

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CORRISPONDENTI STROZZIANI: LETTERE DI ANGELO GRILLO

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Soltanto una parte davvero esigua delle centinaia di missive del Cieco è stata consegnata alle stampe: nel 1592 apparve in appen-dice a una nuova edizione del Canzoniere di Petrarca una lettera a Tommaso Costo del 15 marzo 1586, nella quale il Giovane, nel-l’ambito del dibattito tardocinquecentesco sul poema eroico, si pre-occupava di rimarcare le differenze fra l’Accademia degli Alterati di Firenze – di cui egli era uno dei principali animatori e in seno alla quale convivevano sostenitori del Furioso e della Gerusalemme – e il concittadino cenacolo fieramente filoariostesco dei cruscanti, espri-mendo al contempo il proprio rammarico per Torquato Tasso che mostrava di non comprendere le più moderate posizioni degli Al-terati.3

Un secondo rilevante documento ha visto la luce entro l’Edizio-ne Nazionale delle opere galileiane: si tratta di una lettera del 19

testimone manoscritto delle ‘Osservazioni intorno al parlare, e scrivere toscano’ di Gio-vanbattista Strozzi il Giovane, «Studi secenteschi», LVIII, 2017, pp. 303-306; Le vicende editoriali delle ‘Osservationi intorno al parlare, e scriver toscano’ di Giovanbat-tista Strozzi il Giovane, «Studi secenteschi», LIX, 2018, pp. 313-317.

3. Il Petrarca nuovamente ridotto alla vera lettione. Con un discorso sopra la qualità del suo amore, del sig. Pietro Cresci. E la coronazione fatta in Campidoglio di Roma, et il suo privilegio. Di nuovo vi è aggiunto un discorso del sig. Tomaso Costo; per lo quale si mostra a che fine l’Auttore indirizzasse le sue Rime, e che i suoi Trionfi sieno poema Eroico. Con le Sentenze, e Proverbi, ridotti per Alfabeto, in Venetia, appresso Barezzo Barezzi, 1592, pp. 52-53. Intorno all’Accademia degli Alterati basti il rimando, con bibliografia pregressa, ai recenti HENK VAN VEEN, The Accademia degli Al-terati and Civic Virtue, in The Reach of the Republic of Letters: Literary and Learned Societies in Late Medieval and Early Modern Europe, 2 voll., edited by Arjan van Dixhoorn, Susie Speakman Sutch, Leiden-Boston, Brill, 2008, II, pp. 285-308; DÉBORAH BLOCKER, S’affirmer par le secret: anonymat collectif, institutionnalisa-tion et contre-culture au sein de l’Académie des Alterati, «Littératures classiques», LXXX, 2013, 1, pp. 167-190; EAD., Pro- and anti-Medici? Political Ambivalence and Social Integration in the Accademia degli Alterati (Florence, 1569-c. 1625), in The Italian Academies (1525-1700): networks of culture, innovation and dissent, Actes du colloque international (Royal Holloway University-British Library, 17-18 september 2012), edited by Jane Everson, Denis Reidy and Lisa Sampson, Cambridge-New York, Modern Humanities Research Association-Routledge, 2016, pp. 38-52; ANNA SIEKIERA, Il lavoro paziente dell’Accademia degli Alterati, in La Crusca e i testi. Filologia, lessicografia e collezionismo librario intorno al ‘Vocabolario’ del 1612, Atti del convegno (Ferrara, 26-28 ottobre 2015), a cura di Gino Belloni e Paolo Trovato, Padova, Accademia della Crusca-Libreriauniversitaria.it, 2018, pp. 105-146.

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settembre 1609 con cui Giovan Battista informava Galileo del pro-prio stupore nell’udire le notizie che gli erano giunte circa il «mira-bile effetto del suo desiderabilissimo occhiale».4 A questi due tas-selli si aggiunge quindi una manciata di lettere prefatorie indirizza-te a Curzio Picchena e all’omonimo nipote Giovan Battista Strozzi marchese di Forano, impresse rispettivamente nelle pagine liminari del trattato Della famiglia de’ Medici (1610) e della riedizione curata dal Cieco della Aristotelis Poetica, Petro Victorio interprete pubblicata nel 1617; nonché – fra quanto sinora si è rintracciato – un breve carteggio intrattenuto con il segretario pistoiese Bonifacio Van-nozzi risalente al 1608 e stampato nel 1617 – di recente segnalato da Marzia Giuliani – che comprende due epistole del Cieco in dia-logo con tre responsive del suo interlocutore.5

L’unica moderna edizione di un nucleo di lettere strozziane si deve a Roberta Ferro, la quale ha recentemente pubblicato – corre-dandole di un generoso commento – le cento epistole che compon-gono il corposo scambio epistolare intercorso fra Giovan Battista Strozzi e il cardinale Federico Borromeo in un arco di tempo che si

4. GALILEO GALILEI, Opere, 20 voll., a cura di Antonio Favaro, Firenze, Bar-

bera, 1929-1939, XI, pp. 82-83. Per i rapporti fra il Cieco e Galileo soccorrono MICHELE CAMEROTA, Giovan Battista Strozzi e Galileo: dall’Accademia degli Alte-rati a quella degli Ordinati, in Tintenfass und Teleskop. Galileo Galilei im Schnitt-punkt wissenschaftlicher, literarische und visueller Kulturen im 17. Jahrhundert, Atti del convegno (Villa Vigoni, 2-5 settembre 2012), herausgegeben von Andrea Albrecht, Giovanna Cordibella und Volker Remmert, Berlin-Boston, Mouton de Gruyter, 2014, pp. 167-184 e il già citato ROSSINI, Giovan Battista Strozzi il Giovane a Roma, in particolare pp. 743-752.

5. GIOVAN BATTISTA STROZZI, Della famiglia dei Medici, in Firenze, appresso Bartolomeo Sermartelli e fratelli, 1610; Aristotelis Poetica, Petro Victorio inter-prete, Florentiae, apud Iuntas, 1617. Lo scambio epistolare fra il Giovane e il Vannozzi si legge in Delle lettere miscellanee di Mons. reverendissimo Bonifatio Van-nozzi dottor pistolese e protonotario apostolico volume terzo. All’illustrissimo Luigi Cap-poni card. legato di Bologna, in Bologna, presso Bartolomeo Cochi, 1617, pp. 157-167; la segnalazione è contenuta nel saggio di MARZIA GIULIANI, Da Pistoia a Varsavia (e ritorno). Il viaggio europeo delle ‘Lettere miscellanee’ di Bonifacio Van-nozzi raccolto nel presente volume. Sulla figura del pistoiese si veda altresì, della medesima autrice, Il segretario e l’arte del «particolarizzamento». Bonifacio Vannozzi e le corti di Torino, Roma e Firenze, in Essere uomini di «lettere». Segretari e politica culturale nel Cinquecento, a cura di Antonio Geremicca, Hélène Miesse, Firenze, Franco Cesati, 2016, pp. 189-198.

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CORRISPONDENTI STROZZIANI: LETTERE DI ANGELO GRILLO

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estende dal 1593 al 1625.6 Diversa la situazione sul versante delle missive inviate al Giova-

ne, disseminate in buon numero in edizioni di epistolari di illustri uomini di lettere via via approdate alle stampe nel corso dei secoli: da quelle impresse, ancora vivente l’autore, fra Cinque e Seicento, sino alle più recenti edizioni commentate. Basti qui citare – fra gli esempi più significativi – i nomi di Lionardo Salviati, Filippo Sas-setti, Francesco Patrizi, Battista Guarini, Angelo Grillo, Giovan Battista Marino, Giovanni Ciampoli, Gabriello Chiabrera, nonché del già menzionato Galileo, nei cui epistolari – entro il novero dei destinatari – ricorre, talora a più riprese, il nome di Giovan Battista Strozzi.7

La porzione maggiore dei carteggi del Cieco, tuttavia, ancora giace inedita, per la gran parte conservata nei fondi fiorentini della Biblioteca Nazionale Centrale e dell’Archivio di Stato. Fra i codici delle Carte Strozziane, serie III, dell’Archivio di Stato spiccano, per il buon numero di lettere di e a Giovan Battista che tramandano, il 159, il 168, il 187, ai quali si affiancano i meno ricchi manoscritti

6. ROBERTA FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento. Lettere di Giovan Battista

Strozzi il Giovane e Girolamo Preti, Pisa, ETS, 2018, pp. 11-158. 7. Questi gli epistolari chiamati in causa (si indica, qualora se ne possa di-

sporre, l’edizione più recente e si segnala fra parentesi il numero di missive spedite a Giovan Battista Strozzi): Lettere edite ed inedite del Cav. Lionardo Salviati, prefazione di Pietro Ferrato, Padova, Prosperini, 1875, pp. 108-110, 110-111 (due lettere); FILIPPO SASSETTI, Lettere da vari paesi (1570-1588), a cura di Vanni Bramanti, Milano, Longanesi, 1970, pp. 139-146, 166-183, 204-207, 213-215, 466-474 (dieci lettere); FRANCESCO PATRIZI DA CHERSO, Lettere ed opuscoli ine-diti, edizione critica a cura di Danilo Aguzzi Barbagli, Firenze, Istituto Nazio-nale di Studi sul Rinascimento, 1975, pp. 28-29, 54-56, (due lettere); Lettere del Signor Cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese, in Venetia, appresso Gio. Batti-sta Ciotti Senese, 1593, pp. 128-132, 165, 177-179 (quattro lettere); GIOVAM-

BATTISTA MARINO, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Ei-naudi, 1966, p. 29 e GIORGIO FULCO, Contributi mariniani (studi e documenti inediti). I. Documenti mariniani, «Filologia e critica», XXXV, 2010, 2-3, pp. 376-392, a p. 376 (due lettere); MARZIANO GUGLIELMINETTI, MARIAROSA MA-

SOERO, Lettere e prose inedite (o parzialmente inedite) di Giovanni Ciampoli, «Studi secenteschi», XIX, 1978, pp. 131-237, alle pp. 188-194 (una lettera); GA-

BRIELLO CHIABRERA, Lettere (1585-1638), a cura di Simona Morando, Firenze, Olschki, 2003, pp. 168-171, 278-279, 296-297 (quattro lettere); GALILEI, Opere, X, pp. 82-83 (una lettera).

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FRANCESCO ROSSINI

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79, 102, 105, 118, 137, 147, 150, 165, 166, 186.8 In aggiunta al

8. Si fornisce qui, per ogni codice, un elenco dei corrispondenti strozziani. Manoscritto 159: lettere a Giovan Battista Strozzi di Leonardo Martellini, c. 14; Alfonso Strozzi, cc. 17, 32-44, 52-62, 70-79, 93-99, 108-115; Annibale Strozzi, c. 143; Carlo Strozzi, cc. 15-24, 92; Caterina Strozzi, cc. 126-133; Ce-sare Strozzi, c. 134; Ercole Strozzi, c. 7, 142-145; Giulio Strozzi, cc. 18-144; Lucrezia Strozzi, c. 106; Massimiliano Strozzi, cc. 145-146; Palla Strozzi, cc. 2-10; Pompeo Strozzi, cc. 152-164, 178-184; lettere di Giovan Battista Strozzi ad Alfonso Strozzi, cc. 33-37, 50-59, 63-66; Caterina Turchi Strozzi, c. 127. Mano-scritto 168: lettere a Giovan Battista Strozzi di Antonio degli Albizi, c. 317; Girolamo Bardi, cc. 301-303; Modesto Biliotti, cc. 89-93; Ignazio Danti, cc. 22-25; Lorenzo Giacomini, c. 305; Gian Vincenzo Pinelli, c. 80; Michele Saladini, c. 97; Francesco Sansovino, cc. 309-311; Alessandro di Tommaso Strozzi, cc. 187-190, 236-237; Alessandro Strozzi vescovo d’Andria, cc. 206-215; Antonio Strozzi, c. 145; Antonio Maria Strozzi, cc. 157-160; Cosimo Strozzi, cc. 1-2, 17-20; Federico Strozzi, cc. 164-166; Filippo Strozzi, cc. 196-198; Gabriello Strozzi, cc. 125-132, 315; Giulio Strozzi, cc. 288-290; Iacopo Strozzi, cc. 3-6; Lamberto Strozzi, cc. 73-78, 178; Leone Strozzi, cc. 101-104; Niccolò Strozzi, cc. 191-195; Orazio Strozzi, c. 177; Piero Strozzi, cc. 27-61; 250-261; Roberto Strozzi, cc. 176-181; Tommaso Strozzi, c. 203; Vincenzio Strozzi, cc. 1719; Tovaglia Fau-stina Strozzi, c. 179; Nunzio Tedaldi, cc. 296-297; Francesco de’ Vieri (Verino), cc. 271-273; lettere di Giovan Battista Strozzi a Modesto Biliotti, c. 91; Iacopo Strozzi, c. 109; Piero Strozzi, cc. 113-115, 133. Manoscritto 187: lettere di Gio-van Battista Strozzi ad Antonio Barberini, c. 171; Federico Borromeo, c. 70; card. Ginnasio, c. 171; Ferdinando I de’ Medici, c. 140; Nero del Nero, cc. 155-156; Giovanni Rho, c. 179; Iacopo Soldani, c. 111; lettere a Giovan Batti-sta Strozzi di Accademici Umoristi, c. 141; Accademico Alterato Allegro, c. 15; Scipione Ammirato, c. 121; Bernardino Antinori, cc. 244-245; Accademico Al-terato Assetato, c. 16; Francesco Barberini, cc. 34, 166, 174; Urbano VIII, cc. 5, 11, 12, 13; Ulisse Bentivoglio, c. 160; Francesco Bocchi, cc. 74-77; Francesco Bonciani, cc. 7, 27; Francesco Bracciolini, c. 227; Belisario Bulgarini, c. 37; Virginio Cesarini, cc. 228-230; Giovanni Ciampoli, cc. 222-223; Vincenzo Co-mandi, cc. 71-73; Giovan Battista Doni, c. 221; Orso d’Elci, c. 35; Iacopo Gaddi, c. 78; Raffaello Gualtierotti, c. 219; Giovanni de’ Medici, c. 216; Giro-lamo Menocchi, cc. 36, 48; Cesare Monti, c. 172; Nero del Nero, c. 154; Pietro Simonio da Barga, cc. 94-95; Principe degli Accademici Affidati, c. 180; Anto-nio Querenghi, cc. 181-184; Giovanni Rho, c. 170; Francesco Ronai, c. 220; Antonio Maria del Rosso, cc. 44-45; Francesco Seragoni, cc. 151, 158-159; Ia-copo Soldani, c. 112; Alessandro di Tommaso Strozzi, c. 117; Alessandro Strozzi vescovo d’Andria, cc. 124-125; Carlo Strozzi, c. 118; Federico Strozzi, c. 146; Leone Strozzi, c. 120; Niccolò Strozzi, cc. 122, 126, 188-191; Piero Strozzi, cc. 119, 192-194; Alberto Bolognetti, cc. 147-148; di Francesco Nori, c. 185; Belisario Vinta, c. 113; incerto, cc. 107, 123, 139, 150, 152. Manoscritto 79: lettere a Giovan Battista Strozzi di Gian Vincenzo Pinelli, c. 62; incerto, c. 69. Manoscritto 102: lettere a Giovan Battista Strozzi di Francesco Barberini, c.

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CORRISPONDENTI STROZZIANI: LETTERE DI ANGELO GRILLO

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nutrito manipolo delle Carte Strozziane vanno ricordati almeno gli ulteriori commerci epistolari inediti con don Giovanni de’ Medici e Francesco Bonciani (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Ma-gliabechiano IX, 124), Lorenzo Giacomini (Firenze, Biblioteca Ric-cardiana, Riccardiano 2438 e 2438 bis), Pier Francesco Minozzi (Genova, Biblioteca Universitaria, E.VI.3), Baccio Valori (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Filze Rinuccini, 27), Bellisario Bul-garini (Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, D.VI.7 e D. VI.9), Iacopo Contarini (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Codici latini, XII, 124), Iacopo Gaddi (Firenze, Biblioteca Nazio-nale Centrale, Fondo Nazionale, II.IV.86), Girolamo da Sommaia (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Fondo Nazionale, II.II. 10), Antonio Querenghi (Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 367 inf.), il cardinale Roberto Bellarmino (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Fondo Gesuiti, 17) e Virginio Orsini (Roma, Ar-chivio Storico Capitolino, I-Rasc, I, 103/1, 104/1 e 107/1).9

203; Giovanni Ciampoli, c. 208; Orso d’Elci, cc. 197-198; Tommaso Ximenes, c. 200; Niccolò Strozzi, c. 148; Galeotto Strozzi, c. 149; lettera di Giovan Batti-sta Strozzi a Urbano VIII, c. 199. Manoscritto 105: lettere di Giovan Battista Strozzi a Carlo Strozzi, c. 143; Niccolò Strozzi, c. 345. Manoscritto 118: lettere di Giovan Battista Strozzi a Cosimo Strozzi, cc. 73, 106, 115. Manoscritto 137: lettera di Giovan Battista Strozzi ad Alessandro di Tommaso Strozzi, cc. 19-22. Manoscritto 147: lettere di Giovan Battista Strozzi a Tommaso Strozzi, cc. 37, 40-43; Ferdinando I de’ Medici, c. 192; Alessandro Strozzi, c. 83; lettere a Gio-van Battista Strozzi di Orso d’Elci, c. 193; Piero Strozzi, c. 45; Giovanni Anto-nio Donati, c. 204. Manoscritto 150: lettere a Giovan Battista Strozzi di Lodo-vico Strozzi, c. 223; Alfonso Strozzi, c. 222; lettere di Giovan Battista Strozzi a Carlo Strozzi, cc. 245-246. Manoscritto 165: lettere a Giovan Battista Strozzi di Francesco Barberini, c. 123; Giovanni Ciampoli, c. 109; Curzio Picchena, c. 112; incerto, cc. 174-175; lettere di Giovan Battista Strozzi a Urbano VIII, c. 121; Ludovico Ludovisi, c. 116; incerto, cc. 118, 120. Manoscritto 166: lettere di Giovan Battista Strozzi a incerto, cc. 267-270; Urbano VIII, cc. 499-500; lettera di Alberto Galganetti a Giovan Battista Strozzi, c. 367. Manoscritto 186: lettera di Alessandro Strozzi vescovo d’Andria a Giovan Battista Strozzi, c. 25.

9. Intorno agli scambi di missive con Giovanni de’ Medici si veda DOMENICA

LANDOLFI, Don Giovanni de’ Medici «principe intendentissimo di varie scienze», «Studi secenteschi», XXIX, 1988, pp. 125-162; cenni sopra il carteggio con il duca di Bracciano Virginio Orsini in VALERIO MORUCCI, Poets and musicians in the roman-florentine circle of Virgino Orsini, duke of Bracciano (1572-1615), «Early Music», XLVIII, 2015, pp. 53-61. La lettera a Bellarmino con la responsiva sono visibili nel progetto Monumenta Bellarmini della Pontificia Università Grego-riana all’url: https://gate.unigre.it/mediawiki/index.php/Page:EBC_1613_10

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La fonte forse più interessante per lo studio dei contatti episto-lari strozziani è tuttavia il codice Magliabechiano VIII, 1399 della Nazionale di Firenze: una corposa raccolta di missive inviate al Gio-vane – suddivise per mittente – allestita nel 1677 dall’abate Luigi di Carlo Strozzi, la quale riunisce centinaia di lettere provenienti da decine di diversi corrispondenti, a coprire un arco cronologico che si estende dagli anni Sessanta del Cinquecento fino allo schiu-dersi della quarta decade del secolo XVII. Si tratta di un codice car-taceo proveniente dalla Libreria Strozziana, acquistato, come molti altri, dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo dopo l’estinzione della linea di discendenza maschile degli Strozzi, e quindi passato alla Pubblica Libreria Magliabechiana all’altezza degli anni Ottanta del secolo XVIII.10 Il curatore della silloge epistolare era figlio del celebre erudito e bibliofilo Carlo, cui si deve la costituzione della citata Libreria Strozziana, frutto di un lungo sforzo di raccolta e or-ganizzazione di migliaia di codici latini e italiani, nonché di docu-menti storici e letterari relativi ai secoli XIV-XVII, poi tutti con-fluiti, oltre che nei fondi magliabechiani, nella Biblioteca Medicea Laurenziana e nell’Archivio di Stato di Firenze.11

Nato nel 1632, dopo aver compiuto gli studi presso i Gesuiti e lo Studio pisano, ove fu allievo dell’umanista Valerio Chimentelli, Luigi Strozzi intraprese la carriera ecclesiastica divenendo canonico della Cattedrale di Firenze nel 1670 e successivamente arcidiacono

_01_1321.pdf/1 e https://gate.unigre.it/mediawiki/index.php/Page:EBC_16 13_10_18_1327.pdf/1. Per le cure di chi scrive è in preparazione l’edizione commentata del carteggio fra il Giovane e il letterato senese Bellisario Bulga-rini.

10. Circa le sorti della Libreria Strozziana si faccia riferimento alle pagine pre-fatorie di CESARE GUASTI in Le Carte Strozziane del R. Archivio di Stato in Firenze. Inventario, 2 voll., in Firenze, dalla Tipografia Galileiana, 1884-1891, I, pp. V-XXXIX.

11. Su Carlo Strozzi e sulla sua biblioteca soccorrono: Lettere inedite del senatore Carlo degli Strozzi precedute dalla sua vita scritta dal canonico Salvino Salvini; con un discorso e annotazioni per cura di Gargano Gargani, Firenze, Tipografia G.B. Cam-polmi, 1859; CAROLINE CALLARD, Conservazione e resistenza: la biblioteca di ma-noscritti di Carlo Strozzi, in I luoghi dell’immaginario barocco, Atti del convegno (Siena, 21-23 ottobre 1999), a cura di Lucia Strappini, Napoli, Liguori, 2001, pp. 409-419; EAD., Le Prince et la République. Histoire, pouvoir et société dans la Florence del Médicis au XVIIe siècle, Paris, PUPS, 2007, pp. 287-310.

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del Capitolo a partire del 1683.12 Parallelamente si impegnò sul ver-sante diplomatico: nel 1654, appena ventiduenne, subentrando al-lo zio Niccolò, venne nominato gentiluomo residente del re di Francia presso la corte di Toscana, mantenendo poi l’incarico per più di un trentennio sino al 1689. Una lunga fedeltà alla corona francese testimoniata peraltro dall’orazione in morte della regina consorte Anna d’Asburgo pronunciata nel 1666 dinnanzi al gran-duca di Toscana Ferdinando II e poi stampata quello stesso anno con dedica al sovrano transalpino Luigi XIV.13 Fu inoltre accade-mico della Crusca dal 23 novembre 1651, appellandosi Snidato fi-no al 1596 e quindi Imbianchito, con un ironico adattamento del-l’epiteto accademico all’età ormai avanzata. Ricoprì nell’adunanza le cariche di Massaio, Castaldo e Censore, nonché di Deputato agli studi per la quarta edizione del Vocabolario, poi stampata a Firenze da Domenico Maria Manni in sei volumi dal 1729 al 1738 e dedi-cata a Gian Gastone de’ Medici.

Contribuì significativamente ad arricchire e organizzare la con-sistente biblioteca ricevuta in eredità dal padre, tanto che ancora nel suo testamento del 1694 poteva parlare, non senza una nota d’orgoglio, della «libreria manuscritta messa insieme con molte fa-tiche e spese dal quondam illustrissimo Signor senatore Carlo Strozzi suo padre, et accresciuta et in qualche parte ordinata dal medesimo signor testatore».14 In sintonia con la duratura fortuna del genere biografico nella Firenze granducale – praticato da decen-ni sin dalla metà del Cinquecento e giunto a una compiuta codifi-cazione nella seconda metà del secolo con il Trattato dello scrivere le vite di Torquato Malaspina, amico del Cieco e suo confratello fra gli Alterati – Luigi Strozzi coltivò la memoria storica della propria famiglia redigendo una biografia, apparsa a stampa nel 1701, della

12. Per notizie sopra Luigi di Carlo Strozzi rimane fondamentale il volume di

JEAN AZARD, L’Abbé Luigi Strozzi correspondant artistique de Mazarin, de Colbert, de Louvois et de La Teulière. Contribution à l’étude des relations artistiques entre la France et l’Italie au 18e siècle, Paris, E. Champion, 1924; intorno alla sua attività in seno alla Crusca si veda in particolare il Catalogo degli accademici dalla fonda-zione, a cura di Severina Parodi, Firenze, Accademia della Crusca, 1983, p. 98.

13. Delle lodi d’Anna Maria Maurizia d’Austria regina di Francia, orazione funerale dell’abate Luigi Strozzi, recitata nelle pubbliche essequie al serenissimo Ferdinando II gran duca di Toscana, e dedicata alla Sac. M. del re di Francia e di Navarra Luigi XIV, in Firenze, nella stamperia di S.A.S., 1666.

14. Si cita da AZARD, L’Abbé Luigi Strozzi, p. 6.

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carmelitana Maria Minima di San Filippo, al secolo Camilla Stroz-zi, morta a Firenze in concetto di santità nel 1672.15 Ma soprattutto si dedicò alla stesura delle corpose Vite degl’homini illustri della fami-glia Strozzi – rimaste inedite – entro le quali si conserva anche un profilo biografico di Giovan Battista, più tardi stampato postumo da Salvino Salvini entro i suoi Fasti consolari dell’Accademia Fioren-tina.16 Facendo procedere di conserva l’allestimento della citata sil-loge di missive dirette al Giovane e la ricostruzione della sua bio-grafia, l’abate Strozzi fu, insomma, il primo fra gli studiosi della fi-gura del Cieco.

Venendo a un’analisi del codice Magliabechiano, sul recto del primo dei tre fogli di guardia non numerati in apertura si legge l’in-testazione Lettere originali di letterati scritte a Gio. Batta Strozzi il Cieco. Dell’Abbate Luigi di Carlo Strozzi, accompagnata dalla data 1677. Le due facciate del secondo e il recto del terzo foglio di guardia ripor-tano invece un indice della silloge disposto su due colonne, ove so-no elencati, sulla sinistra, i nomi dei mittenti delle epistole e, sulla destra, le carte corrispondenti. Sulla controguardia di chiusura fi-gurano due posteriori note manoscritte: la prima, di mano anoni-ma e non datata, segnala la presenza di numerazione moderna in alcuni fogli (51bis, 54bis, 191bis, 204bis, 205bis, 217bis, 248bis, 248ter, 338bis) e talune lacune nel codice in corrispondenza delle

15. Vita di suor Maria Minima Strozzi detta di s. Filippo, dell’ordine carmelitano, in

Firenze, nella stamperia di S.A.R., per Pietr Antonio Brigonci, 1701; l’opera venne poi ripubblicata in Firenze, nella stamperia d’Anton Maria Albizzini, all’altezza del 1737. Circa la fioritura del genere biografico nella Firenze gran-ducale si rimanda a: ALESSANDRO MONTEVECCHI, Biografia e storia nel Rinasci-mento italiano, Bologna, Gedit, 2004; VINCENZO CAPUTO, «Ritrarre i lineamenti e i colori dell’animo». Biografie cinquecentesche tra paratesto e novellistica, Milano, Franco Angeli, 2012. Per quanto concerne l’opera del Malaspina si rimanda alla moderna edizione TORQUATO MALASPINA, Dello scrivere le vite, a cura di Vanni Bramanti, Bergamo, Moretti e Vitali, 1991; intorno all’autore si veda RICCARDO BAROTTI, Torquato Malaspina marchese di Suvero e Monti: feudatario, cortigiano e letterato, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2005.

16. Le Vite di Luigi Strozzi sono conservate manoscritte in duplice copia in Firenze, Archivio di Stato, Carte Strozziane, serie III, filza 35 e filza 75; la bio-grafia del Cieco – che si legge rispettivamente alle cc. 126r-131r e 171r-176r – apparve a stampa in Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina di Salvino Salvini con-solo della medesima e rettore generale dello Studio di Firenze. All’altezza reale del sere-nissimo Gio. Gastone gran principe di Toscana, in Firenze, nella stamperia di S.A.R., per Gio. Gaetano Tartini e Santi Franchi, 1717, pp. 246-252.

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cc. 141-166, 310, 405-406, 412-415, 422; la seconda – risalente al 27 novembre 1931 e apposta da Teresa Lodi, al tempo bibliotecaria capo della Nazionale di Firenze – recita: «Rilevo che mancano an-che le cc. 342-343».17 Lo stato del codice non pare mutato da quella data, non essendo più intervenute successive sottrazioni che avreb-bero ulteriormente mutilato la preziosa silloge epistolare allestita dall’abate Strozzi. Ma le mancanze restano, ad ogni modo, tutt’altro che trascurabili: un controllo incrociato fra le carte sottratte e l’in-dice dei mittenti in apertura consente, infatti, di appurare come le lettere mancanti provenissero tutte da corrispondenti più che rag-guardevoli: Maffeo Barberini, Giovan Battista Marino, Galileo Ga-lilei, Gabriello Chiabrera, Francesco Patrizi e Bernardo Tasso. Che si tratti di sottrazioni che talora portarono le missive in questione a confluire in nuove sedi è fatto confermabile, del resto, attraverso il riscontro con il codice Italien 2035 della Bibliothèque Nationale de France, che tramanda tre delle lettere rimosse dalla raccolta fio-rentina, spedite allo Strozzi da Maffeo Barberini il 23 maggio del 1602, da Giovan Battista Marino il 15 febbraio dello stesso anno e da Francesco Patrizi da Cherso il 12 marzo 1581. In corrispondenza di queste missive, infatti, i fogli del manoscritto parigino recano an-cora – in alto a destra, appena al di sotto di quelle posteriori – le antiche numerazioni del canonico Strozzi, coincidenti con le la-cune del faldone originale: c. 141, cc. 159-160, c. 405.18

17. Teresa Lodi (1889-1971), sottobibliotecaria reggente presso la Biblioteca

Nazionale Centrale di Firenze dal 1913, ove diresse la sezione dei manoscritti e rari, venne nominata bibliotecaria capo nel 1926. Dal 1933 al 1954 ricoprì la carica di direttrice della Biblioteca Medicea Laurenziana. Sulla sua figura: Gli archivi della memoria: bibliotecari, filologi e papirologi nei carteggi della Biblioteca Me-dicea Laurenziana. «Con la sua calligrafia che mi ricorda i papiri greci»: la filologia, la guerra, la Crusca nel carteggio di Croce con Pistelli e Teresa Lodi, a cura di Rosario Pintaudi, Stefano Miccolis e Alessandro Savorelli, Firenze, Latini, 1996; Lodi Teresa, in GIORGIO DE GREGORI, SIMONETTA BUTTÒ, Per una storia dei biblio-tecari italiani del XX secolo. Dizionario bio-bibliografico (1900-1990), presentazione di Alberto Petrucciani, Roma, Associazione Italiana Biblioteche, 1999, pp. 111-112; Lodi Teresa, in ENZO BOTTASSO, Dizionario dei bibliotecari e bibliografi ita-liani dal XVI al XX secolo, a cura di Roberto Alciati, Montevarchi, Accademia Valdarnese del Poggio, 2009, pp. 270-271; ANTONIO GIARDULLO, Lodi Teresa, in Dizionario biografico dei soprintendenti bibliografici (1919-1972), Bologna, Bono-nia University Press, 2011, pp. 369-376.

18. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Italien 2035: la lettera di Maffeo Barberini (c. 8r-v) è inedita; quella mariniana (cc. 278r-279r) si legge

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Il corpo del codice, i cui fogli sono numerati da 1 a 433, con-tiene, al netto delle assenze già segnalate, epistole dei seguenti mit-tenti:

Giovanni Ciampoli, cc. 1r-5v; Cesare Baronio, cc. 9r-10r; Federico Borro-meo, cc. 13r-16r; Pietro Accolti, cc. 21r-22r; Lorenzo Giacomini, cc. 24r-48v (ma due missive a cc. 24r-25v e 26r-27r sono a Filippo Sassetti); Niccolò dell’Antella, c. 54r-v; Antonio Possevino, c. 55r; Antonio Querenghi, cc. 57r-120v; Lionardo Salviati, cc. 123r-124v; Francesco Benci, cc. 127r-129r; Luca Alemanni, cc. 133r-134r; Belisario Vinta, c. 135r; Raffaello Gualte-rotti, cc. 137r-138r; Giovanni Antonio Caldoro, cc. 139r-140r; Tarquinio Galluzzi, cc. 167r-168r; Francesco Barberini, c. 169r; Giovanni Berti, cc. 171r-181r; accademici Alterati, cc. 191r-208v; Sebastian Suárez, cc. 211r-212r; Filippo del Migliore, c. 213r; Battista Guarini, c. 215r-v; incerto, cc. 216r-218r; Francesco Buonamici, cc. 220r-230v; Gasparo Murtola, cc. 231r-234r; Piero del Nero, c. 238r; Vincenzio Civitella, c. 240r-v; Francesco Al-bertini, cc. 241r-243v; Cosimo dell’Antella, c. 246r-v; Luigi Alamanni, cc. 247r-248r; Francesco Rovai, cc. 250r-252v; Giovan Battista Vecchietti, cc. 254r-260r; Belisario Bulgarini, cc. 262r-280v; Filippo Sassetti, cc. 286r-312r; Giulio Mazzarino, c. 314r; Gian Vincenzo Pinelli, cc. 316r-319r; Mi-chelangelo Buonarroti il Giovane, cc. 324r-327v; Orazio Spannocchi, c. 330r; Scipione Ammirato, cc. 331r-338r; Tommaso Costo, c. 340r-v; Tom-maso Stigliani, c. 341r; Virginio Cesarini, cc. 347r-348r; Antonio Gallonio, c. 350r; Antonio degli Albizzi, c. 351r-v; Angelo Grillo, cc. 354r-357r; An-drea Alamanni, cc. 362r-363r; Alessandro Borghi, cc. 364r-366v; Agostino Mascardi, c. 370r; Camillo Pellegrino, c. 390r; Giacomo Contarini, cc. 391r-392r; Francesco Bonciani, cc. 396r-402r; Francesco de’ Vieri, c. 408r; Gabriello Chiabrera, cc. 409r-416r; Giugurta Tommasi, c. 417r; Girolamo Menocchi, cc. 419r-420r; Giovan Battista Attendolo, c. 421r-v; Giuseppe Nozzolini, cc. 423r-425r; Francesco Cini, c. 429r; Alessandro Adimari, c.

nella già ricordata edizione MARINO, Lettere, p. 29; all’epistola è accluso il so-netto autografo Solo, e fuor de la turba errante e vile, dedicato al Cieco, apparso in quello stesso 1602 in chiusura della sezione delle Varie entro la prima parte delle Rime del Marino (ora si legge in GIOVAN BATTISTA MARINO, La lira, 3 voll., a cura di Maurizio Slawinski, Torino, Res, 2007, I, p. 239); si vedano al riguardo FRANCESCO PICCO, Due lettere autografe ed un sonetto di G.B. Marino, «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino», L, 1914-1915, pp. 48-54; ROSSINI, Torquato Tasso, Antonio de’ Pazzi e Giovan Battista Strozzi, pp. 571-572. La missiva del Patrizi (c. 296r) è stata pubblicata in PATRIZI DA CHERSO, Lettere ed opuscoli inediti, pp. 28-29.

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430r; Piero Strozzi, c. 433r-v.19 La maggior parte di queste lettere resta ad oggi inedita, mentre

soltanto una porzione minoritaria si può leggere a stampa: si tratta delle già citate missive di Federico Borromeo, Lionardo Salviati, Battista Guarini, Filippo Sassetti e Gabriello Chiabrera, alle quali si devono aggiungere le trascrizioni, talora parziali, di quattro delle ventotto lettere di Antonio Querenghi, nonché la pubblicazione delle epistole – il codice ne trade una per ogni corrispondente – di Tommaso Costo, Tommaso Stigliani, Agostino Mascardi e France-sco de’ Vieri.20

*

Meritevole di approfondimento – sempre entro il novero delle epi-stole approdate ai torchi – è il caso di Angelo Grillo. Le lettere del-

19. Si è tralasciato di rubricare le lettere dei seguenti mittenti poiché non in-

dirizzate a Giovan Battista Strozzi, e dunque erroneamente inserite nella rac-colta: Vincenzo Borghini, c. 346r; Benedetto Buondelmonti, cc. 371r-373r; Ber-nardo Segni, c. 376r-v; Bartolomeo Cavalcanti, c. 377r-v; Niccolò Ardinghelli, cc. 385r-386v.

20. Le missive del Querenghi si leggono in Fasti consolari dell’Accademia Fioren-tina di Salvino Salvini, pp. 255-259; ANGELO SOLERTI, Vita di Torquato Tasso, 3 voll., Torino-Roma, Loescher, 1895, II, pp. 360-361 e ID., Bricciche tassiane, in Miscellanea di studi critici edita in onore di Arturo Graf, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903, pp. 571-582, alle pp. 581-582. La lettera del Costo in GIROLAMO DE MIRANDA, Due lettere inedite di Tomaso Costo, «Esperienze Lette-rarie», XVII, 1992, 4, pp. 41-62, alle pp. 57-60 (ma dello stesso mittente è ap-prodata alle stampe anche una seconda missiva allo Strozzi, non inserita nel Magliabechiano: Lettere del signor Tomaso Costo scritte a diversi, così da parte d’altri, come sua, in varii soggetti, cioè officiose, congratulatorie, di condolimento, come si può vedere nelle due tavole seguenti, l’una di coloro a chi, e l’altra per chi si scrive. Con un discorso pratico nel fine intorno ad alcune condizioni convenienti a un buon segretario, in Venetia, appresso Barezzo Barezzi e compagni, 1602, pp. 253-254). La lettera dello Stigliani in MARIA DOLORES VALENCIA MIRÓN, Dos cartas ineditas de Tommaso Stigliani (contribución al ‘Epistolario’ de Borzelli-Nicolini), in Estudios ro-manicos dedicados al profesor Andres Soria Ortega en el 25o aniversario de la Catedra de literaturas romanicas, 2 voll., recogidos y publicados por Jesus Montoya Mar-tinez, Juan Paredes Nunez, Granada, Universidad de Granada, 1985, II, pp. 649-654, a p. 654. La lettera di Mascardi in ACHILLE NERI, Un mazzetto di cu-riosità. I., «Giornale Ligustico di Archeologia, Storia e Letteratura», XV, 1888, pp. 202-226, a p. 221, poi ristampata in ID., De minimis, Genova, Tipografia del Regio Istituto Sordo-Muti, 1890, p. 174. La lettera del Verino in Fasti con-solari dell’Accademia Fiorentina di Salvino Salvini, p. 245.

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l’abate cassinese, com’è noto, furono più volte impresse fra il 1602 e il 1616 in edizioni via via accresciute, organizzate ora secondo una struttura cronologica ora secondo un criterio contenutistico.21 L’ul-tima di esse – uscita in tre volumi nel 1616 per le cure dell’udinese Pietro Petracci e ordinata secondo quella struttura per «capi» che era stata introdotta a partire dalla giuntina del 1608 e mantenuta nella successiva stampa accresciuta del 1612 – tramanda complessi-vamente otto lettere indirizzate dal benedettino allo Strozzi, delle quali soltanto quattro erano già state incluse nella raccolta sin dalle prime impressioni veneziane del 1602 e del 1603 allestite da Otta-vio Menini e dedicate al cardinale Cinzio Aldobrandini.22 Secondo l’ordinamento tematico dell’edizione definitiva le otto missive ri-sultano suddivise in tal modo: una nella sezione delle «preghiere», una in quella dei «ringraziamenti», due nel novero dei «complimen-ti», una fra le lettere di «scusa», e tre fra quelle di «genere misto». Entro l’orizzonte, invece, della quadripartizione cronologica intro-dotta dal Menini nell’edizione del 1604 – che si articola in quattro

21. Hanno appuntato la propria attenzione sulle Lettere di Angelo Grillo: MA-

RIA CRISTINA FARRO, Un ‘libro di lettere’ da riscoprire: Angelo Grillo e il suo episto-lario, «Esperienze Letterarie», XVIII, 1993, 3, pp. 69-82; MARCO CORRADINI, Cultura e letteratura nell’epistolario di Angelo Grillo, nel suo Genova e il Barocco. Studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 35-121; LUCA CERIOTTI, Schede epistolari per Angelo Grillo, Pio Muzio e Fortunato Olmo, «Benedictina», LXI, 2014, pp. 251-270; MYRIAM

CHIARLA, L’epistolario di Angelo Grillo nel dialogo culturale cinque-secentesco e primi raffronti con le lettere manoscritte, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze let-terarie di età moderna, pp. 321-332. A Myriam Chiarla e Francesco Ferretti si deve una prima parziale schedatura delle lettere del benedettino per l’archivio digitale archilet.it.

22. Lettere del molto rever.do padre abbate D. Angelo Grillo monaco cassinen. Raccolte dall’illust. et eccellentissimo signor Ottavio Menini, in Vinetia, appresso Gio. Batti-sta Ciotti Sanese, all’insegna dell’Aurora, 1602, pp. 403-404, 408, 465-466, 501 [d’ora in avanti GRILLO, Lettere 1602]; il volume del 1603, apparso sempre a Venezia presso Giovan Battista Ciotti, nient’altro è che una nuova identica emissione di quello dell’anno precedente; Delle lettere del reverend.mo padre ab-bate D. Angelo Grillo volume primo, raccolte, sotto capi ordinate, e d’argomenti arric-chite dal sig. Pietro Petracci, in Venetia, per Evangelista Deuchino, 1616, pp. 134-135, 288-289, 633-634, 677, 758, 889-890; Volume secondo, ivi, pp. 322-323; Volume terzo, ivi, pp. 313-314 [d’ora in avanti si cita questa edizione come GRILLO, Lettere 1616, cui si fa seguire il numero del volume]. Sulla figura del Menini si veda il lemma di FRANCO TOMASI, Menini, Ottavio, in DBI, LXXIX, 2009, pp. 511-514.

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libri che coprono altrettante campate temporali fra il 1578 e il 1604 – quattro delle cinque lettere qui stampate (tre in meno rispetto al-l’edizione del 1616) sono collocate nel libro terzo, vale a dire entro l’intervallo temporale che si estende dal 1598 al 1601, mentre un’u-nica missiva risulta inclusa nel libro quarto, che insiste invece sul-l’arco di anni che va dal 1601 al 1604.23 Ad ogni modo, anche in questa stampa dell’epistolario grilliano, che pure fornisce, a diffe-renza delle altre, un approssimativo inquadramento cronologico, le singole lettere si presentano sempre prive di una precisa datazione. Il confronto con gli originali conservati nel codice Magliabechiano risulta pertanto decisivo per sciogliere questo nodo, consentendo di stabilire – seppur limitatamente alle quattro lettere tramandate dal manoscritto – esatte collocazioni temporali.24

Il legame fra Angelo Grillo e il Cieco rimontava allo schiudersi del secolo XVII, ossia allorquando il poeta genovese s’era ormai imposto nel panorama letterario del tempo a seguito dell’uscita del-la prima edizione dei Pietosi affetti nel 1595.25 Nella primavera del

23. Delle lettere del molto R. P. abbate D. Angelo Grillo raccolte dall’eccellentis. sig.

Ottavio Menini et da altri signori accresciute, et diposte per ordine de’ tempi, libri quat-tro, nei quali oltre molte bellissime di varii complementi, et negotii in questa seconda impressione ve n’è aggiunta buona quantità di discorsive, che contengono rara dottrina, et nobilissimi trattati intorno all’uso della lingua, et al modo di eccellentemente scrivere ogni sorte di lettere, conforme al buon gusto di questi tempi, in Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti Senese all’Aurora, 1604, pp. 380, 394, 417, 450, 507-508 [d’ora in avanti GRILLO, Lettere 1604].

24. Si riepilogano qui per chiarezza le quattro lettere grilliane tràdite dal codice fiorentino, che poi saranno singolarmente approfondite nelle pagine seguenti: Venezia, 21 aprile 1612, c. 354r-v; Subiaco, 5 febbraio 1601, c. 355r-v; Subiaco, 6 agosto 1601, c. 356r; Subiaco, 15 agosto 1600, c. 357r.

25. Si faccia riferimento alla recente edizione ANGELO GRILLO, Pietosi affetti, a cura di Myriam Chiarla, Lecce, Argo, 2013. Per la biografia del poeta geno-vese – in aggiunta alla voce di LUIGI MATT, Grillo, Angelo, in DBI, LIX, 2002, pp. 445-448 – resta imprescindibile il volume di ELIO DURANTE, ANNA MAR-

TELLOTTI, Don Angelo Grillo O.S.B. alias Livio Celiano. Poeta per musica del secolo Decimosesto, Firenze, S.P.E.S., 1989. Segnatamente intorno alle posizioni rico-perte dall’autore nelle gerarchie dell’ordine cassinese: LUCA CERIOTTI, Un in-tervento di Angelo Grillo sul tema del governo della congregazione cassinese (1613), «Benedictina», LXIII, 2016, pp. 229-247; ID., Contributo alla cronologia abbaziale dei monasteri cassinesi (1419-1810), Parma, Tipografie Riunite Donati, 2019, ad indicem. Già il Salvini menzionava il Grillo fra «le voci di quel bel coro di lette-rati» i quali si rivolgevano allo Strozzi per pareri e consigli in materia di scrittura e poetica: Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina di Salvino Salvini, p. 252; la

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1600 il benedettino si era portato da Subiaco – ove era abate dei monasteri di Santa Scolastica e del Sacro Speco dall’anno preceden-te – a Parma per il capitolo generale della sua congregazione, inau-gurato il 24 di aprile. Mentre erano in corso i lavori capitolari, Gril-lo ricevette una lettera dal Giovane attraverso la quale il fiorentino gli offriva la propria amicizia e gli inviava alcuni suoi versi in lode di san Benedetto. Rispondendo in quei giorni dalla città emiliana, il cassinese si dimostrava lusingato dalle profferte strozziane, pro-fondendosi al contempo in lodi e ringraziamenti per il componi-mento ricevuto in dono:

Nel torrente de’ negozii capitolari mi è stata resa la lettera di Vostra Signo-ria, piena di leggiadria e di gentilezza; ma nel vero troppo sommessa ri-spetto a chi la manda, et a chi la riceve, portando massime in mano sì chia-ro pegno del suo valore, come sono i bellissimi versi in lode di san Bene-detto. Li quali ho letti e riletti con mio diletto e giovamento, et ammirati come parti di gran padre e d’uno de’ rari ingegni de’ nostri tempi […]. Vostra Signoria mi ha mandato in somma una preziosa gemma legata nel fino oro della sua leggiadrissima lettera, o, per meglio dire, l’anello col qua-le in perpetuo matrimonio di santa amicizia ha voluto sposar seco l’anima mia. Ché tale stimerò io questa sua prima lettera e questi versi e ne terrò quel conto che si deve.26

medesima segnalazione anche in BARBI, Un accademico mecenate e poeta, p. 62.

26. GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 288-289, la lettera è in questa sede rubricata sotto il capo dei «ringraziamenti»; a stampa sin dalla prima edizione dell’episto-lario, era stata inserita nel libro terzo entro l’edizione cronologica del 1604 (GRILLO, Lettere 1604, p. 380). Seguendo un’ipotesi avanzata da Roberta Ferro (FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento, p. 99, nota 130), questi versi del Cieco potrebbero forse essere identificati con le sedici quartine della poesia Alla Com-pagnia di San Benedetto mossa per andar a Roma al santissimo Giubileo (incipit Schiera che vincitrice insegna guida) che si conserva sia, in duplice copia, in Mi-lano, Biblioteca Ambrosiana, R 126 sup., cc. 232r-v e 245r-246v, sia nel codice Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano Latino 8820, c. 36r. Le strofe vennero composte, infatti, proprio in occasione dell’anno giubi-lare e in quello stesso 1600 furono inviate anche a Milano a Federico Borro-meo, il quale, scrivendo all’autore il 28 di aprile, comunicava: «Ho visto il Si-gnor Cammillo Strozzi nipote di V. S. et letti con molto mio gusto i versi com-posti da lei nella venuta della Compagnia di san Benedetto i quali in Roma dagl’intendenti sono stati riconosciuti molto bene per opera degna dell’intel-letto et sapere suo» (FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento, p. 75). Ma si dovrà notare, tuttavia, che in duplice copia nei codici Firenze, Archivio di Stato, Carte Strozziane, serie III, filza 174, c. 179 e Città del Vaticano, Biblioteca

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Quindi il benedettino esprimeva il proprio desiderio di «ripas-sar per Fiorenza» entro pochi giorni di modo da «sodisfar personal-mente – scriveva allo Strozzi – e ringraziarla in spezie che con sì bella testificazione del valore e della cortesia sua le sia piaciuto di farsi incontro al mio desiderio, ch’era già molti anni di darmele a conoscere per servitore et ammiratore delle rare virtù sue».27 La pro-messa sarebbe stata onorata, giacché Grillo fece tappa nella capitale granducale durante il viaggio di ritorno da Parma verso Subiaco, nella tarda primavera: qui ebbe modo, anzitutto, di rinsaldare l’a-micizia fino ad allora soltanto epistolare con il Cieco, il quale era riapprodato in patria dopo i soggiorni romani e milanesi degli anni Novanta ed era ormai divenuto il principale animatore dell’Acca-demia degli Alterati, che dall’anno precedente aveva preso a riu-nirsi nelle stanze del suo palazzo in via de’ Tornabuoni. Ma in quel medesimo frangente Grillo poté anche incontrare Raffaello Gual-terotti, leggere le ottave del suo Polemidoro ancor fresco di stampe e ascoltare un’esecuzione di prova dell’Euridice di Ottavio Rinuccini, che sarebbe stata rappresenta pubblicamente nell’ottobre di quel-l’anno in occasione delle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia.28

Apostolica Vaticana, Vaticano Latino 8854, c. 146 si conserva un sonetto dello Strozzi che reca l’esplicita intitolazione In lode di San Benedetto (incipit Non vien riposo più soave altronde). Andrà infine ricordato che qualche anno prima, all’al-tezza del 1594, nel corso di un soggiorno nella città dei papi, il Giovane aveva recitato un Ragionamento sopra il santo di Norcia dinnanzi alla Compagnia ro-mana dei benedettini: esso si conserva in Firenze, Archivio di Stato, Carte Strozziane, serie III, filza 187, cc. 296r-310r.

27. GRILLO, Lettere 1616, I, p. 289. 28. Si ricavano queste notizie da due successive missive del Grillo. Nella prima,

spedita a Lucca a Nicolò Tucci, si legge: «Sol mi resta dire ch’il suo giudicio et i suoi avvertimenti son mescolati con tanta riserva e con tanto rispetto che po-trian diminuir le grazie ch’io le ne devo, se ben le ne rendo tutte quelle ch’io posso e così delle bellissime ottave del signor Gualterotti; del cui poema e delle cui Muse ho a’ mesi passati fatto un lungo passaggio in Fiorenza col signor Giovan Battista Strozzi, e ’l signor Ottavio Rinuccini, e resta molto lodato» (GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 496-497, si cita da p. 497). La seconda lettera venne invece mandata a Firenze a Ottavio Rinuccini, anche in questo caso dopo il ritorno a Subiaco al termine del soggiorno toscano: «Per uscir di scherzo, mi scriva dello stato suo, de’ suoi studi et in particolare dell’evento di quella sua graziosa pastorale che, sotto la musica del signor Giulio Caccini,

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A Firenze fervevano appunto i preparativi per il regale sposalizio e lo Strozzi invitò l’amico ligure, ormai riapprodato nel Lazio dalla metà di giugno, a prendere parte alle celebrazioni componendo qualche verso per omaggiare la futura regina consorte di Francia. La risposta giunse con una missiva del 15 agosto e fu una risposta negativa: la reggenza dei due monasteri sublacensi, infatti, con un carico di quasi cinquanta monaci, comportava per Grillo non po-chi impegni e responsabilità che lo costringevano a opporre reite-rati dinieghi alle numerose richieste di versi che, come quella stroz-ziana, gli giungevano da più parti.29 Così scriveva al Giovane, la-mentando la scarsità di tempo consacrabile agli otia literaria, l’ina-ridirsi della propria vena poetica e – con ostentata modestia l’ina-deguatezza delle proprie creazioni, troppo umili per i gusti raffinati del suo corrispondente e di tutto il pubblico fiorentino:

Son fatto sterile di un pezzo in qua, signor mio. E, se pur partorisco, i miei non son parti ma sconciature. Questo è perché poco più posso attendere a que’ miei dolci studi: campo incolto non sa produr cose colte. Mandarle sì fatte saria errore, tanto più a Fiorenza e tanto più al signor Strozzi. Solo

portava le nostre orecchie sopra il cielo, con l’ali massime di quelle voci angeli-che» (questa epistola è stata pubblicata modernamente in DURANTE, MARTEL-

LOTTI, Don Angelo Grillo O.S.B., pp. 447-448, donde si cita). Il poema del Gual-terotti venne stampato quello stesso anno: L’universo, overo Il Polemidoro, poema eroico di Raffael Gualterotti, in Firenze, appresso Cosimo Giunti, 1600 (si veda al riguardo SUZANNE MAGNANINI, An early draft of Raffaello Gualterotti’s ‘Il Po-lemidoro’, «Studi secenteschi», XL, 1999, pp. 325-348). Intorno a quell’esecu-zione dell’Euridice del Rinuccini per i reali sponsali nell’ottobre del 1600 ba-stino i rimandi a: SARA MAMONE, Firenze e Parigi: due capitali dello spettacolo per una regina. Maria de’ Medici, Cinisello Balsamo, Silvana, 1988; MARIA ADE-

LAIDE BARTOLI BACHERINI, La prima opera in musica, nel volume a sua cura Per un regale evento. Spettacoli nuziali e opera in musica alla corte dei Medici, Firenze, Centro Di, 2000, pp. 145-192; ANNA MARIA TESTAVERDE, Nuovi documenti sulle scenografie di Ludovico Cigoli per l’‘Euridice’ di Ottavio Rinuccini, «Medioevo e Rinascimento», XVII (nuova serie XIV), 2003, pp. 307-332; GASPARE DE

CARO, ‘Euridice’. Momenti dell’Umanesimo civile fiorentino, Bologna, Ut Orpheus, 2006.

29. La data dell’epistola si desume dall’originale autografo in Firenze, Biblio-teca Nazionale Centrale, Magliabechiano VIII, 1399, c. 357r. «Uno sguardo sommario alle lettere di scusa spettanti a questo periodo sublacense» che con-sente di appurare «l’atteggiamento negativo di Grillo nei confronti di una com-mittenza assai varia» è offerto da DURANTE, MARTELLOTTI, Don Angelo Grillo O.S.B., pp. 184-185.

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se per ricevere forma e coltura. Ma la nobil lima di Vostra Signoria non dee essere impiegata se non in pulir cose d’oro o d’altro prezioso metallo. Questo mio ferraccio andrebbe tutto in limatura e la lima vi si stanche-rebbe.30

Parallelamente, tuttavia, il cassinese domandava al Cieco al-

cune sue prove poetiche affinché, «al chiaro di sì bel lume e alla norma di sì bello essempio», potesse almeno tentare di comporre qualcosa di adeguato alla solenne occasione; e lo Strozzi pronta-mente soddisfece la richiesta dell’amico: in una successiva lettera, spedita il 5 febbraio dell’anno seguente, infatti, Grillo avrebbe rife-rito al fiorentino di aver apprezzato le strofe da lui inviategli, al punto che, immergendosi nella lettura, era stato portato alla deriva dal «nobilissimo fiume – scriveva – de’ suoi bellissimi versi». L’og-getto di quelle lodi era con tutta probabilità la quarta rima Nembo d’erranti spirti insieme accolto: sedici strofe encomiastiche a rima in-crociata – rimaste inedite – che il Giovane scrisse, come esplicitato dalle righe d’intitolazione, «nelle nozze della maestà cristianissima di Francia e Navarra Enrico IIII e Maria de’ Medici».31 Un compo-nimento che celebrava anzitutto la conversione al cattolicesimo di Enrico di Borbone – che, com’è noto, nel 1593 aveva pubblicamen-te abiurato la fede ugonotta per aprirsi la strada verso il trono di Francia – nonché il successivo editto di Nantes (1598), attraverso il quale il sovrano aveva posto fine ai conflitti di religione che per decenni avevano macchiato di «civil sangue» (v. 13) e infiammato con «inestinguibil guerra» (v. 7) «de’ Franchi lo smembrato regno» (v. 8):

Imposto a’ ribellanti sensi il freno d’umiltà cinto e di superna luce nel vatican sentier ch’al Ciel conduce 35 tornò di speme al fido albergo in seno. Ove del Gran Pastore al piè inchinando

30. GRILLO, Lettere 1616, I, p. 758, la missiva è rubricata «sotto il capo di

scusa». 31. Le quartine strozziane si conservano in duplice copia in Firenze, Biblioteca

Nazionale Centrale, Fondo Nazionale, I.I.397, cc. 58r-59v e cc. 69r-70r, di qui le citazioni successive. Un ulteriore esemplare del testo, privo di intestazione, in Milano, Biblioteca Ambrosiana, S 80 sup., cc. 227r-228v.

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gl’occhi a sé volse dell’eterne menti e di dolcezza ingombre l’aure e i venti misero i tuoni e le tempeste in bando.32 40

In seconda battuta l’attenzione si spostava su Maria de’ Medici,

giacché «cotanto piacque il nobil atto umile» (v. 41) di Enrico di Francia «al glorioso eterno Re Celeste» (v. 42), «che d’aggradirlo in segno alto propose» (v. 45), facendo in modo di unire il monarca «in santo nodo» (v. 47) con la figlia di Francesco I di Toscana, «ch’a tutt’altre in merto sovrappose» (v. 48):

Maria de’ toschi lidi onor sovrano con celeste bellezza arde e sfavilla: aura che tempestoso mar tranquilla 55 spira dal suo divin sembiante umano. Felice il guardo che tant’alto attende che splender mira ’l sol nel suo bel viso, e vede Amor ch’in pura luce assiso temprate d’onestà fiammelle accende. 60

Ma in quel de’ raggi incoronato aspetto può sol fisarsi il glorioso Enrico, perché ha valor superno e ’l Ciel amico e beltà pura e d’alta mente oggetto.33

32. Nella vasta bibliografia intorno alla figura di Enrico IV di Francia si se-

gnalano almeno i volumi MICHAEL WOLFE, The conversion of Henry IV: politics, power, and religious belief in early modern France, Cambridge, Harvard University Press, 1993; NICOLA MARY SUTHERLAND, Henry IV of France and the politics of religion (1572-1596), 2 voll., Bristol-Portland, Elm Bank, 2002; VINCENT J. PITTS, Henri IV of France: his reign and age, Baltimore, The Johns Hopkins Uni-versity Press, 2009; «Parigi val bene una messa!». 1610: l’omaggio dei Medici a Enrico IV re di Francia e di Navarra, Catalogo della mostra (Parigi, Musée national du château de Pau, 31 marzo-30 giugno 2010; Firenze, Museo delle Cappelle Me-dicee, 15 luglio-2 novembre 2010), a cura di Monica Bietti, Francesca Fiorelli Malesci e Paul Mironneau, Livorno, Sillabe, 2010.

33. Per Maria de’ Medici bastino i rimandi alla voce di STEFANO TABACCHI, Maria de’ Medici, regina di Francia, in DBI, LXX, 2008, pp. 205-218 e alla più recente monografia dello stesso autore Maria de’ Medici, Roma, Salerno Edi-trice, 2012. Si ricordi inoltre che anni più tardi – nel 1616, dopo la morte di Enrico IV – il Cieco avrebbe composto un’Oratione delle lodi della Sacra Christia-nissima Reale Maestà Maria Medici principessa di Toscana e madre del Re di Francia,

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Nonostante Grillo potesse dunque disporre di questo «bello es-sempio» strozziano – mandatogli come richiesto – le sue promesse rimasero tuttavia disattese, tanto che, nella citata lettera del feb-braio 1601, l’abate ammetteva di aver ormai accantonato l’impresa letteraria, adducendo a pretesto un viaggio a Perugia presso l’anzia-no poeta Cesare Caporali affetto dal mal di pietra:

Bella strada di benevolenza e d’amore mi va tuttavia aprendo e spianando Vostra Signoria con le sue gentilissime lettere. Per questa doverei io venire spesso a ritrovarla et a provocar con voci humane, parole divine e doni celesti, come sono tutti i degnissimi parti della sua mente elevata; ma dal governo domestico e dagli altri stimoli della religione son costretto a tra-viare a mal mio grado: non tanto co’ piedi dell’operazioni intrinseche, quanto co’ passi della persona istessa, sendo da alcuni mesi in qua conti-nuamente in moto. Già per lo nobilissimo fiume de’ suoi bellissimi versi me n’andava io assai felicemente a derivare in quel gran mare di grazie e di meriti della inclita regina Maria, quando da vento contrario di una im-provisa andata a Perugia ne fui subitamente distornato, onde lasciai l’im-presa.34

poi apparsa postuma, l’anno successivo alla scomparsa dell’autore, in una sil-loge curata dal di lui nipote omonimo Giovan Battista Strozzi marchese di Fo-rano: Orazioni et altre prose del signor Giovambatista di Lorenzo Strozzi. All’em.mo e rev.mo sig. card. Barberino, in Roma, nella stampa di Lodovico Grignano, 1635, pp. 1-28. In Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano La-tino 8854, c. 113 è conservato, inoltre, un sonetto strozziano In lode della Prin-cipessa Maria hoggi Regina di Francia (incipit Mirando la più nobil sua fattura); in-fine, nel codice Vaticano Latino 8852 della medesima biblioteca, a c. 301r-v, si legge in duplice copia il madrigale Regina il vago altissimo splendore anch’esso composto dal Cieco In lode di Maria Regina di Francia.

34. GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 889-890, la missiva è rubricata «sotto il capo di misto». La data si ricava, anche in questo caso, dall’originale autografo in Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano VIII, 1399, c. 355r-v. Il motivo della «improvisa andata a Perugia» è chiarito da una coeva epistola di Grillo a Cesare Caporali: «Lasciai Vostra Signoria in Perugia col mal di pietra e me ne partii col mal di cuore. L’edificio della sua vita non ha bisogno di sì fatta qualità di pietre, atte più tosto a fabricar ruine che edificii. Perciò caro mi sarà intendere che questa abbia rimossa o distillata in minuta polvere; potendo anco, se non buttare a terra l’edificio della sua gloria, come che già resti assai bene stabilito e fortificato, almeno allontanarlo da quel segno di perfezione al quale aspira l’eccellente architettura del suo elevato ingegno» (GRILLO, Lettere 1616, I, p. 129). Sull’autore perugino, che sarebbe morto nel dicembre di quello stesso 1601, basti il rimando a CLAUDIO MUTINI, Caporali, Cesare, in DBI, XVIII, 1975, pp. 677-680 e al più recente FILIPPO CIRI, Verso il Seicento:

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D’altro canto raccontava in quelle righe di aver fatto visita, di ritorno dalla trasferta perugina, «alla sepoltura del toscano Virgi-lio», cioè Torquato Tasso, e di aver composto, dietro invito di Mau-rizio Cataneo – passando, notava scherzosamente, «dal talamo» di Maria de’ Medici «al tumulo» del sorrentino – alcuni versi sopra il sepolcro tassiano, che provvedeva a recapitare, come segno d’am-menda, allo Strozzi, nella speranza che questi potesse «ritoccarli con l’immortal sua penna».35 Il poeta ligure – fra i più intimi e devoti amici del sorrentino – era certo di incontrare la complicità del Cie-co, riconoscendo in lui uno fra i rari estimatori dell’autore della Liberata a Firenze, da decenni roccaforte antitassiana. Dopo averlo conosciuto all’altezza del 1590 nella capitale del granducato, Gio-van Battista aveva potuto infatti, negli anni immediatamente suc-cessivi, rinsaldare il legame con il Tasso nella città dei papi, fra l’Ac-cademia dei Pastori della Valle Tiberina e il cenacolo di Cinzio Al-dobrandini, tanto che alla morte dell’insigne poeta nel 1595 il car-dinale di San Giorgio pensò di rivolgersi proprio al fiorentino per la composizione del panegirico funebre in memoria di Torquato.36

Cesare Caporali, in Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, Atti del seminario internazionale di studi (Urbino-Sassocorvaro, 9-11 novembre 2006), a cura di Antonio Corsaro, Harald Hen-drix e Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2007, pp. 213-224.

35. GRILLO, Lettere 1616, I, p. 890. 36. Circa i rapporti fra il Cieco e il sorrentino ci si permette di rinviare a

ROSSINI, Torquato Tasso, Antonio de’ Pazzi e Giovan Battista Strozzi, pp. 563-570; la notizia dell’orazione funerale si desume da una missiva spedita dal padovano Antonio Querenghi allo Strozzi il 28 aprile 1595, che si legge in SOLERTI, Vita di Torquato Tasso, II, pp. 360-361. Sull’Accademia dei Pastori Tiberini, di cui il Tasso fece parte con l’epiteto di Clonico e lo Strozzi con quello di Silvano: LUIGI BERRA, Una pre-Arcadia del Cinquecento sconosciuta: i Pastori Tiberini, «Studi romani», II, 1954, pp. 41-54; MAURO SARNELLI, «Fra i cigni del Tevere» accanto al Tasso: Antonio Decio da Orte, Fabio e Virginio II Orsini (con documenti inediti), in Luca Marenzio e il madrigale romano, Atti del convegno internazionale di studi (Roma, 9-10 Settembre 2005), a cura di Franco Piperno, Roma, Acca-demia Nazionale di Santa Cecilia, 2007, pp. 15-38; GIUSEPPE GERBINO, Music and the Myth of Arcadia in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 341-377. Intorno al soggiorno fiorentino dell’autore della Ge-rusalemme: CARLA MOLINARI, Tasso, i Medici e i fiorentini ingegni, in L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, Catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 21 giugno-20 ottobre 2001), a cura di Elena Fumagalli, Massimiliano Rossi e Riccardo Spinelli, Li-vorno, Sillabe, 2001, pp. 19-31, poi nel suo volume Studi sul Tasso, Firenze,

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CORRISPONDENTI STROZZIANI: LETTERE DI ANGELO GRILLO

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E d’altra parte, nel quadro dei dibattiti intorno al poema eroico che si accesero nell’ultimo ventennio del Cinquecento, il Giovane, pur non divenendo mai un rigido censore del Furioso, espresse a più ri-prese opinioni consonanti con quanto teorizzato nei Discorsi del-l’arte poetica e nei Discorsi del poema eroico del Tasso, dapprima in una Lezione in lode del poema eroico declamata nell’Accademia di Cin-zio Aldobrandini all’altezza del 1594, forse alla presenza dello stesso Torquato, e, più tardi, a Firenze nell’agosto del 1599, in una Lezione dell’unità della favola letta in seno all’Accademia degli Alterati.37 Il componimento grilliano in questione, ad ogni buon conto, è da identificarsi con il sonetto Sei morto o vivo, tu ch’in questo sasso, che – a confermare la cronologia – non venne incluso nel novero degli otto sonetti funebri per il Tasso che Grillo fece stampare fra le Pompe di morte delle sue Rime del 1599, e che invece soltanto suc-cessivamente venne spedito al Cataneo da Subiaco a Roma.38 Esso – quantunque sia stato recentemente pubblicato come testo inedito – si legge invece in calce alla lettera al Cataneo sin dalla prima edi-zione dell’epistolario del cassinese, accompagnato da un’intestazio-

Società Editrice Fiorentina, 2007, pp. 99-136.

37. Entrambi i discorsi strozziani sarebbero stati stampati postumi in Orazioni et altre prose del signor Giovambatista di Lorenzo Strozzi, rispettivamente alle pp. 148-158 e 189-203. La Lezione dell’unità della favola è l’unico scritto della rac-colta ad essere stato ripubblicato modernamente: Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, 4 voll., a cura di Bernard Weinberg, Bari, Laterza, 1970-1975, IV, pp. 333-344. Traccia un quadro degli esiti fiorentini della querelle Tasso-Ario-sto: MICHEL PLAISANCE, I dibattiti intorno ai poemi dell’Ariosto e del Tasso nelle accademie fiorentine: 1582-1586, in L’arme e gli amori. Ariosto, Tasso and Guarini in late Renaissance Florence, 2 voll., Acts of an international conference (Flo-rence, Villa I Tatti, June 27-29, 2001), edited by Massimiliano Rossi and Fio-rella Gioffredi Superbi, Florence, Olschki, 2004, I, pp. 119-134, poi nella sua raccolta L’Accademia e il suo principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici. L’Académie et le prince. Culture et politique à Florence au temps de Côme Ier et de François de Médicis, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 375-392.

38. I sonetti – stampati in Rime del molto reverendo padre D. Angelo Grillo, cioè le Morali et le Pompe di Morte, dedicate all’illustrissimo et reverendissimo Sig. Cardinal S. Giorgio Cintio Aldobrandini, Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti, 1599 – si leggono ora, con introduzione, in L’onorato sasso. Un secolo di versi in morte di Torquato Tasso, a cura di Domenico Chiodo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, pp. 12-16.

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ne che recita inequivocabilmente: «Alla sepoltura del Tasso».39 Dal finale della lettera si apprende che il bresciano Lattanzio

Stella – letterato, fondatore dell’Accademia degli Erranti nella città natale e confratello benedettino di Grillo –, avendo potuto incon-trare e conoscere lo Strozzi, era «rimasto a fatto preso» dalla sua «modestia et umiltà», rimanendo «obligato» al Cieco per la sua «be-nevolenza» e per la sua «grazia».40 Lo Stella si trovava allora presso

39. La recente trascrizione del sonetto in L’onorato sasso, pp. 176-177, ove i

versi – considerati inediti – sono trascritti da London, British Library King’s Mss. 323, c. 203; si segnala un’unica variante al v. 5 che nella versione di Chiodo recita: «Taci o parli qui tu, s’odo io qui basso», mentre nella versione stampata entro l’epistolario: «Taci, o parli qui tu, s’odo io qui lasso». La lettera al Cataneo, con accluso sonetto, si legge in GRILLO, Lettere 1602, p. 495; nell’edizione del 1604, a riprova dell’altezza compositiva, la missiva è impressa sul finire del libro III (1598-1601): GRILLO, Lettere 1604, pp. 445-446. Nella stampa definitiva l’epistola è invece rubricata «sotto ’l capo di presentare»: GRILLO, Lettere 1616, I, p. 701. Circa i rapporti fra l’autore della Gerusalemme e Angelo Grillo si rimanda a MICHELE NOVELLI, Il benedettino Angelo Grillo li-beratore del Tasso, Roma, Istituto Editoriale del Mediterraneo, 1969; GIOVANNI

SPINELLI, Angelo Grillo abate di San Paolo d’Argon, amico e benefattore di Torquato Tasso, «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», LVIII, 1995-1996, pp. 239-247; ALBA COPPOLA, Sul carteggio Torquato Tasso-Angelo Grillo, «Studi Tassiani Sorrentini», X, 2004, pp. 45-56; PAOLO LUPARIA, L’angelo del Tasso, «Italique», XIX, 2016, pp. 189-246.

40. GRILLO, Lettere 1616, I, p. 890. Lattanzio Stella sarebbe divenuto anch’egli abate nel 1624, con prima assegnazione presso il monastero di San Michele Arcangelo a Montescaglioso, in Lucania. Negli anni seguenti diede alle stampe – sempre sotto pseudonimo accademico – una commedia (Il giusto sdegno, Co-media nuova politica, et economica. Dell’Academico Fisso. Composta ad istanza di virtuosissimi; e nobiliss. sig. bramosi di modeste e curiose piacevolezze, con utile e diletto d’ogni gentile e discreto lettore, in Venetia, appresso Marco Ginammi, 1628) e una pastorale (Clarilla, nuovo specchio di modestia, pastorale del Fisso promotore de’ Sig. Accademici Erranti di Brescia. Dedicata a Madama Serenissima Duchessa di Parma e di Piacenza, in Brescia, appresso Antonio Rizzardi, 1637). Per qualche notizia si vedano: Bibliotheca Benedictino Casinensis sive scriptorum Casinensis Congregationis alias S. Justinae Patavinae qui in ea ad haec usque tempora floruerunt Operum, ac gestorum notitiae. Auctore reverendissimo patre D. Mariano Armellini. Pars altera, As-sisii, typis Feliciani et Philippi Campitelli fratrum, 1732, pp. 64-66; Dissertazioni istoriche, scientifiche, erudite recitate da diversi autori in Brescia nell’adunanza lettera-ria del signor conte Giammaria Mazzuchelli, 2 voll., in Brescia, presso Giammaria Rizzardi, 1765, I, pp. 40-44; Biblioteca bresciana opera postuma di Vincenzo Peroni patrizio bresciano, 3 voll., Brescia, per Nicolò Bettoni, 1818, III, pp. 239-241 (disponibile anche nella ristampa anastatica in 3 voll. Bologna, Forni, 1968); CERIOTTI, Contributo alla cronologia abbaziale, p. 471. Intorno all’Accademia

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Grillo a Subiaco, ivi chiamato con la mansione di cellario, spostan-dosi così – notava ironicamente il mittente – dai pascoli della lette-ratura alle aride cure economiche legate all’amministrazione del monastero: «Se ben dall’altro canto l’ho preso io, rimanendosi mio sublacense. È passato da Apollo a Mercurio e dalla poesia all’eco-nomia: così è piaciuto a’ superiori giudicandolo atto ad ogni ono-rata impresa, come riesce mirabilmente».41

Pochi mesi più tardi, nel maggio del 1601, si tenne a Venezia il capitolo generale della congregazione che confermò Grillo al go-verno della badia sublacense, conferendogli inoltre la carica di visi-tatore. La sua prima missione ispettiva, che sarebbe iniziata alla fine dell’estate e che prevedeva la Puglia come tappa iniziale, è l’oggetto di un’ispirata lettera ‘climatica’ spedita allo Strozzi da Subiaco il 6 di agosto. La prospettiva di dover abbandonare le miti temperature dei monti laziali, ove «la state» pare quasi un’«ombra del verno», per approdare «nelle arse pianure della Puglia», presso le quali «il caldo settembrino è mortale», atterriva l’abate che pertanto progettava, per scampare i raggi del sole, di compiere i propri offici cavalcando alla tenue luce della luna e al contempo vagheggiava di «poter ser-bare un po’ di questi frigerii montanari – scriveva all’amico – a que-sto settembre»:

Come se la passa Vostra Signoria in questi caldi, signore Strozzi mio? Fio-renza ordinariamente suole esser stanza fresca, che per ciò le ville da’ si-gnori fiorentini s’abitano più volentieri il verno o l’autunno che la state […]. E noi in queste montagne finora abbiamo sentito di febbraio, ché ’l verno, il quale in sì fatte eminenze siede imperioso come in proprio regno, non se ne parte mai che non ci lasci de’ suoi freddi vestigi. Li quali ci refrigerano ne’ gran caldi come sono i presenti, ché la state è precipitata con tanto maggiore impeto quanto finora par ch’abbia trovato maggior resistenza. Qui, in somma, non sentiamo gran caldo perché, se ben non ci son molte ombre, come che questi monti siano ignudi e sassosi la maggior parte, la state ad ogni modo per se stessa è quasi ombra del verno. Vorrei potermi serbare un po’ di questi refrigerii montanari a questo settembre nelle arse pianure della Puglia, per dove mi converrà cavalcare in principio

degli Erranti: VASCO FRATI, RUGGERO BOSCHI, IDA GIANFRANCESCHI, MAU-

RIZIO MONDINI, FRANCO ROBECCHI, CARLO ZANI, Il Teatro Grande di Brescia. Spazio urbano, forme, istituzioni nella storia di una struttura culturale, 2 voll., Bre-scia, Teatro Grande, 1985-1986, I, pp. 117-168.

41. GRILLO, Lettere 1616, I, p. 890.

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della mia visita di quest’anno. In quelle bande certo il caldo settembrino è mortale, dove nelle altre è veniale. Tanto più sarà quella volta per l’indugio della state. S’il paese non sarà sospetto, io penserò di cavalcare la maggior parte di notte, e che la luna mi serva per un tiepido sole.42

Completa il novero delle missive sublacensi una breve lettera

«di complimenti» nella quale Grillo lodava il secesso suburbano del-lo Strozzi nella cornice della sua villa fiesolana, ove egli poteva de-dicarsi a ozi in verità operosi, giacché tesi al conseguimento – spe-cificava il cassinese – dell’«onor della sua patria», della «gloria del suo nome» e della «felicità dell’anima sua».43

La successiva epistola al Cieco, spedita dalla città papale, è sen-z’altro posteriore all’autunno del 1602, ai tempi cioè in cui en-trambi gli autori parteciparono alla prima raccolta di Rime di Gio-van Battista Marino, impressa a Venezia dallo stampatore Ciotti, nelle vesti di corrispondenti poetici entro la sezione delle Proposte e Risposte.44 A quell’epoca Grillo, per ordine dei superiori, dovette tra-

42. La missiva, inserita nella sezione delle «preghiere», si legge in GRILLO, Let-

tere 1616, I, pp. 134-135. L’originale manoscritto, che consente di fissare la precisa datazione, in Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano VIII, 1399, c. 356r.

43. L’epistola, inserita nella sezione dei «complimenti», si legge in GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 633-634.

44. MARINO, La lira, I, la proposta mariniana Da qual maestro, in quale scola il canto e la risposta grilliana Dove Marin mi porti? E dove tanto a p. 243; la proposta strozziana Assembri forse al nome un picciol mare e la risposta mariniana Strozzi, le rime tue sì dolci e care a p. 268. Per i rapporti fra il Giovane e Marino si rimanda a ROSSINI, Torquato Tasso, Antonio de’ Pazzi e Giovan Battista Strozzi, pp. 571-572. Stando a Borzelli – ANGELO BORZELLI, Il cavalier Giovan Battista Marino (1569-1625). Memoria premiata dall’Accademia Pontaniana, Napoli, Gennaro M. Priore, 1898, p. 67 –, Grillo entrò in contatto con l’autore dell’Adone sin dal 1594 nel corso di un soggiorno a Napoli, quindi il legame si consolidò a Roma intorno al 1602; due anni più tardi l’abate avrebbe espresso il proprio benevolo parere intorno alla raccolta di Rime del 1602, manifestando la propria stima per il napoletano, in una celebre lettera a Giannettino Spinola (GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 508-509; parzialmente trascritta in DURANTE, MARTELLOTTI, Don Angelo Grillo O.S.B., pp. 211-212). Circa i contatti biografici e poetici fra i due letterati: OTTAVIO BESOMI, Ricerche intorno alla ‘Lira’ di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969, pp. 154-185; ANGELO COLOMBO, Una lettera inedita del Ma-rino ad Angelo Grillo, «Rivista di letteratura italiana», V, 1987, 2, pp. 311-318; CORRADINI, Cultura e letteratura nell’epistolario di Angelo Grillo, pp. 58-63; MA-

RINO, La lira, III, pp. 349-350; EMILIO RUSSO, Marino, Roma, Salerno Editrice,

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sferirsi nella badia romana di San Paolo fuori le Mura, presso la quale sarebbe rimasto, seppur malvolentieri, per cinque anni. La mutevolezza del clima, i molti negozi e la frenesia cittadina facevano rimpiangere a Grillo la tranquillità del romitaggio sublacense, tan-t’è che «le lagnanze sulla vita a Roma costituiscono una sorta di mo-tivo ostinato che punteggia l’intero soggiorno al monastero di San Paolo».45 Non fa eccezione la lettera allo Strozzi, nella quale egli scri-veva:

Io son tuttavia in Roma e mi ci tiene una efficace imagine di onesto, per non dire un inviolabil precetto di obedienza. Non mi son cari questi beni che mi può dare e mi può torre la sua fortuna: ad altri aspiro. No ’l vorrei dire, ma a Vostra Signoria dirollo pure: paionmi talora più crudeli i suoi premii che le sue pene.

Nella cornice di questa rassegnata accettazione dei propri do-

veri, consolazione gli giungeva tuttavia, ancora una volta, dalla vici-nanza dell’amico Lattanzio Stella, la cui compagnia – essendo que-sti nel frattempo nuovamente passato da Firenze, recando quindi a Grillo «carissime novelle dello stato» dello Strozzi – era particolar-mente gradita all’abate, che ritrovava in lui «tanta parte di Vostra Signoria – concludeva – che mi parrà quasi di conversar con lei, per rispetto della quale averollo più caro, se può esser più caro quel ch’è stato sempre carissimo».46

Con l’uscita, in quell’anno, della princeps dell’epistolario la fama del poeta cassinese andava consolidandosi definitivamente, dopo che già, del resto, erano approdati ai torchi i frutti migliori della sua produzione: le Rime, le Lagrime, i Pietosi affetti.47 Al con-tempo, la stampa delle lettere rendeva noti al pubblico i legami fra il genovese e lo Strozzi, palesando altresì l’alta considerazione da parte del benedettino per il suo corrispondente. Alla luce di ciò

2008, pp. 60-62; FRANCESCO FERRETTI, Le Muse del Calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettini cassinesi, Bologna, Il Mulino, 2012, ad indicem.

45. DURANTE, MARTELLOTTI, Don Angelo Grillo O.S.B., p. 208. 46. Tutte le citazioni da GRILLO, Lettere 1616, I, p. 677. 47. Per un completo inquadramento dell’opera poetica di Grillo si rinvia al

già menzionato FERRETTI, Le Muse del Calvario. Si vedano inoltre la citata edi-zione dei Pietosi affetti curata da Myriam Chiarla e ANGELO GRILLO, Rime, a cura di Elio Durante e Anna Martellotti, Bari, Palomar, 1994.

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non stupisce che da Milano l’arcivescovo Federico Borromeo – al-lorché Grillo, tra il 1608 e il 1611, risiedeva in area lombarda nel-l’abbazia di San Benedetto in Polirone, nel mantovano, e il porpo-rato forse vagheggiava di annoverarlo nella schiera dei suoi collabo-ratori letterari – si rivolgesse, per avere un autorevole parere sulle opere dell’abate, proprio all’amico fiorentino, con il quale già aveva allacciato solidi rapporti sin dagli anni Novanta, a Roma, presso la congregazione dell’Oratorio di Filippo Neri, conducendolo poi con sé a Milano nel 1595 e facendo di lui uno dei suoi più fedeli consi-glieri in materia di lingua e letteratura toscana. Il 15 ottobre 1611, facendo appello alla riservatezza del destinatario, il cardinale scri-veva:

Io attribuisco tanto al giuditio di Vostra Signoria che desiderando haver cognitione di Don Angelo Grillo Abbate Benedettino quale fa professione di lettere Toscane, vengo con la solita confidenza a pregarla, si compiaccia darmene informatione, e dirmi in che concetto lo tiene di sì fatte lettere. Ch’io lo riceverò con molto piacere per certa occasione che di presente mi si offerisce: e terrò quanto le piacerà di dirmene con la secretezza.48

La risposta dello Strozzi, del successivo 7 novembre, fornisce

un’interessante prospettiva d’osservazione, giacché consente di co-noscere – attraverso un canale indiretto – le genuine opinioni del Cieco intorno all’opera del benedettino, sentendosi il mittente in quella sede autorizzato, dietro invito del suo stesso interlocutore, a pronunciarsi con franchezza in un clima di confidenza e discre-zione. Dopo aver denunciato, in apertura, la propria difficoltà nel formulare un equo giudizio sopra un autore che nelle proprie let-tere l’aveva tanto celebrato, il Giovane manifestava il proprio ap-prezzamento, sostenendo di aver rintracciato nei componimenti del Grillo «inventione e spirito, e varietà», nonché – e soprattutto – «attitudine a scrivere in lingua Toscana eccellentemente»: tutti elementi che gli permettevano di concludere che l’autore «non è huomo ordinario, et che la natura, e l’arte gareggiano di chi di loro debbe havere in lui precedenza». Ma fra le lodi trovava spazio anche

48. FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento, pp. 97-98. Intorno ai rapporti fra il

Cieco e il Borromeo si vedano altresì SILVIA MORGANA, Gli studi di lingua di Federico Borromeo, «Studi linguistici italiani», XIV, 1988, pp. 191-216; ROSSINI, Giovan Battista Strozzi il Giovane a Roma, in particolare pp. 735-737.

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una velata critica, dal momento che il Cieco non mancava di rile-vare una certa tendenza alla scrittura eccessivamente ornata, al pre-ziosismo stilistico, che ai suoi occhi di cultore del classicismo fio-rentino, così come a quelli del giovane allievo Giovanni Ciampoli, parevano derive da rifuggire:

Per tanto prendendo Vostra Signoria Illustrissima a valersene, credo che havendo egli tanto sicura scorta fuggirebbe tutti i pericoli, et particolar-mente quello dal quale al nostro Ciampoli parrebbe che gl’havesse a guar-darsi, cioè del mostrarsi vago de troppo ornamenti, e massimamente nelle prose.49

49. Tutte le citazioni da FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento, pp. 99-101.

Dopo averlo accolto appena quattordicenne nella propria scuola privata fioren-tina, ove venivano educati giovani ricchi di ingegno ma poveri di mezzi, fu pro-prio il Cieco a indirizzare il Ciampoli dapprima allo Studio di Padova, quindi, all’altezza del 1614, dopo averlo spinto a rifiutare le offerte che provenivano dal duca di Urbino Francesco Maria della Rovere e da Cosimo II de’ Medici, ad assicurargli personalmente una rendita di trecento scudi annui perché po-tesse imboccare la più prestigiosa strada della carriera ecclesiastica nella città papale; intorno al mecenatismo dello Strozzi verso il Ciampoli si veda l’ano-nima Vita di Monsig. Giovanni Ciampoli fiorentino, Segretario de’ Brevi segreti di Gregorio XV, ed Urbano VIII Sommi Pontefici stampata in Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del secolo XVII, raccolte dal dottor Giovanni Targioni Tozzetti, 3 voll., Firenze, Giuseppe Bouchard, 1780, II, parte prima, pp. 102-116; DOMENICO CIAMPOLI, Un amico di Galilei: monsi-gnor Giovanni Ciampoli, nei suoi Nuovi studi letterari e bibliografici, Rocca san Ca-sciano, Licinio Cappelli, 1900, pp. 5-170, in particolare pp. 5-10; ANTONIO

FAVARO, Giovanni Ciampoli [1903], in Amici e corrispondenti di Galileo, 3 voll., a cura di Paolo Galuzzi, Firenze, Libreria Editrice Salimbeni, 1983, I, pp. 133-189, in particolare pp. 137-146; cui si dovranno aggiungere le testimonianze contenute in GUGLIELMINETTI, MASOERO, Lettere e prose inedite (o parzialmente inedite) di Giovanni Ciampoli. Sulla figura del discepolo del Cieco bastino i ri-mandi a ERALDO BELLINI, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell’età di Galileo, Padova, Editrice Antenore, 1997, ad indicem; ID., Federico Borromeo, Giovanni Ciampoli e l’Accademia dei Lincei, in Cultura e religione nella Milano del Seicento. Le metamorfosi della tradizione borromaica nel secolo barocco, a cura di An-namaria Cascetta, Danilo Zardin, Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bul-zoni, 1999, pp. 203-234, poi nel suo Stili di pensiero nel Seicento italiano. Galileo, i Lincei, i Barberini, Pisa, ETS, 2009, pp. 67-107; FEDERICA FAVINO, La filosofia naturale di Giovanni Ciampoli, Firenze, Olschki, 2015; EMILIO RUSSO, Per alcune lettere inedite di Ciampoli, in Cum fide amicita. Per Rosanna Alhaique Pettinelli, a cura di Stefano Benedetti, Francesco Lucioli, Pietro Petteruti Pellegrino, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 469-483; SILVIA APOLLONIO, Intorno ad un codice

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Il Cieco, insomma, manifestava in quelle righe una raffinata sensibilità di lettore e, come anche altrove, si ritrovava ad avere una sintonia di gusti letterari con l’amico porporato; per usare le parole di Roberta Ferro, infatti, «la segretezza richiesta dal milanese è letta come anticipo di riserva verso Grillo, la cui fisionomia letteraria, precorritrice delle forme barocche, immediatamente è collocata nel giusto ambito stilistico da Strozzi, sicuro dell’intesa con Borro-meo».50

Nell’aprile di quel 1611, nel frattempo, Grillo era stato eletto per la prima volta presidente della congregazione cassinese e, nel corso della dieta che si tenne in quell’anno a Bologna, in virtù dei propri poteri, si assegnò la reggenza dell’abbazia di San Nicolò del Lido a Venezia, dove si trasferì agli inizi del 1612, con la finalità, principalmente, di seguire da vicino le vicende editoriali delle pro-prie opere.51 A questi stessi anni risale anche l’affiliazione del geno-vese all’Accademia romana degli Umoristi, proprio nel periodo, cioè, in cui lo Strozzi era impegnato, insieme con Battista Guarini, nell’allestimento di una silloge di Rime degli Accademici Umoristi che

inedito di lettere familiari di Giovanni Ciampoli, «Studi secenteschi», LVII, 2016, pp. 269-289; EAD., «L’arte d’Apelle, e Fidia, / e le Dedalee destre / ponno a i Cigni d’Italia esser maestre». L’esempio delle arti figurative nella ‘Poetica sacra’ di Giovanni Ciampoli, in La letteratura italiana e le arti, pp. 1-11, http://www.italianisti.it/ Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=1039.

50. ROBERTA FERRO, «Se le lettere fussero alate come son le parole a detta d’Omero». Giovan Battista Strozzi il Giovane e la cultura letteraria di Federico Borromeo, in Ar-chilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, pp. 373-394, poi ampliato, sotto il titolo Roma-Milano-Firenze: il sodalizio culturale fra Giovan Bat-tista Strozzi il Giovane e Federico Borromeo, in EAD., Carteggi del tardo Rinascimento, pp. 11-40, a p. 16. Per l’interessamento di Borromeo alla produzione del Grillo si veda anche STEFANO PELIZZONI, Federico Borromeo e le note di lettura del periodo romano, «Aevum», LXIX, 1995, 3, pp. 641-664, che a p. 657 segnala la citata missiva del cardinale al Giovane.

51. A seguito della presidenza rivestita nell’anno monastico 1611-1612, Grillo sarebbe stato rieletto a tale officio in altre tre occasioni: nel 1616, nel 1621 e nel 1626. Fra il 1612 e il 1617 furono stampate a Venezia non soltanto le due già ricordate edizioni dell’epistolario (1612 e 1616), ma anche una nuova im-pressione dei Pietosi affetti corredata dal Cristo flagellato, dalle Essequie di Cristo e dalle Lagrime: Pietosi affetti del reverendiss. P.D. Angelo Grillo abbate cassinense, cioè Christo penoso. Lagrime del penitente, in questa ultima impressione accresciute et migliorate dal medesimo autore, in Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti, 1613.

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coinvolgeva autori di prim’ordine come Antonio Querenghi, Otta-vio Rinuccini e Girolamo Preti.52 Entro il periodo veneziano – che si sarebbe prolungato sino al 1617 – si collocano le ultime due mis-sive a Giovan Battista, assenti nelle prime stampe dell’epistolario e incluse nel secondo e nel terzo volume dell’edizione del 1616. La prima di esse – databile puntualmente, grazie all’originale mano-scritto, al 21 aprile 1612 – pare curiosamente istaurare un obliquo dialogo con la citata lettera del Giovane al Borromeo. Come Gio-van Battista, infatti, aveva ravvisato nelle opere di Grillo «attitudine a scrivere in lingua Toscana eccellentemente», così il cassinese in quelle righe additava il corrispondente quale «essempio dello scri-vere bene in lingua toscana»; ma soprattutto – ben consapevole del-l’alta considerazione in cui erano tenuti i giudizi letterari del Cieco, non soltanto dal Borromeo, ma altresì da numerosi esponenti di spicco della res publica litteraria tra Firenze e Roma – l’abate si pro-fondeva in ringraziamenti per le lodi che l’amico aveva tributato alle sue pagine epistolari, procurando non pochi vantaggi alla sua fama letteraria:

52. Intorno all’Accademia degli Umoristi è in corso una ricerca monografica

da parte di MARIA FIAMMETTA IOVINE. Per il momento si faccia riferimento a: PIERA RUSSO, L’Accademia degli Umoristi. Fondazione, strutture, leggi: il primo de-cennio di attività, «Esperienze letterarie», IV, 1979, 4, pp. 47-57; LUISA AVEL-

LINI, Tra «Umoristi» e «Gelati»: l’Accademia romana e la cultura emiliana del primo e del pieno Seicento, «Studi secenteschi», XXIII, 1982, pp. 109-137; LAURA ALE-

MANNO, L’Accademia degli Umoristi, «Roma moderna e contemporanea», III, 1995, 1, pp. 97-120; JEAN-LUC NARDONE, Il manoscritto originale delle ‘Rime’ inedite di Galeotto Oddi, principe dell’Accademia romana degli Umoristi: nuovi ele-menti biografici e presentazione del manoscritto, «Studi secenteschi», XLV, 2004, pp. 29-63; ELENA TAMBURINI, Dietro la scena: comici, cantanti e letterati nell’Ac-cademia romana degli Umoristi, «Studi secenteschi», L, 2009, pp. 89-112; ELISA-

BETTA SELMI, Preti, Guarini, Marino e dintorni: questioni di poesia e storia culturale nelle accademie di primo Seicento, «L’Ellisse», V, 2010, pp. 77-119; JEAN-LUC NAR-

DONE, La miscellanea dell’Accademia degli Umoristi (Ms. San Pantaleo 44) de la Bibliothèque Nationale de Rome: sur les notions d’oeuvre collective et d’oeuvre collectif au XVIIe siècle, in Oeuvre collective et sociabilité du XVe au XVIIe siècle, a cura di Adeline Lionetto, «Cornucopia», XIII, 2018, pp. 1-30, http://cornucopia16. com/wp-content/uploads/2018/11/larticle-de-Jean-Luc-Nardone.pdf. Circa la partecipazione dello Strozzi alle attività del sodalizio romano: ROSSINI, Giovan Battista Strozzi il Giovane a Roma, pp. 740-743; per l’inedito spicilegio di rime soccorre LAURA ALEMANNO, Le «Rime degli Accademici Umoristi», in Letteratura italiana e Utopia II, «FM. Annali del Dipartimento di Italianistica dell’Univer-sità di Roma La Sapienza», III, 1996, pp. 275-290.

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E però, sendo l’acquisto mio, mia anco dee restar l’obligazione, accresciuta massime dal favor ch’ella si è degnata di fare in diversi tempi alle mie let-tere, lodandole in maniera ch’ha potuto l’autorità della sua testimonianza mover cotesti nobili ingegni ad onorarle di lezione e di lode. Il che stimo io tanto quanto l’essere esse approvate da quella città che è madre della lingua e da quegl’ingegni che sono padri de’ suoi ammaestramenti, e mas-sime da quel di Vostra Signoria.53

Né mancava – certo di incontrare il favore del destinatario – di

farsi propugnatore di una linea stilistica moderata, in grado di con-ciliare «i precetti d’una nobile e giudiciosa osservanza» con il «co-mune gusto di questi tempi»; e pertanto lontana, da un lato dagli eccessi retorici di certa prosa barocca, da quello stile «vago de trop-po ornamenti» che proprio il Cieco aveva rimproverato a Grillo scrivendo al Borromeo, ma anche, sull’opposto versante, dalla ste-rile sequela di un’«affettata e mendicata antichità». Un armonico equilibrio che, d’altra parte, trovava compiuta realizzazione proprio nella persona dello Strozzi, «i cui scritti pieni di poetica e filosofica eloquenza – continuava il genovese – potranno sempre valere per regola di bene e prudentemente scrivere». Osservazioni – se si con-sidera che la quasi totalità delle prose strozziane, composte in un periodo compreso fra il 1574 e il 1616, sarebbe stata pubblicata postuma solo nel 1635 – che stanno a testimoniare una stretta con-fidenza fra i due autori, in virtù della quale il benedettino poté pro-babilmente avere via via fra le mani le opere ancora inedite del-l’amico toscano.54

53. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano VIII, 1399, c.

354r-v; GRILLO, Lettere 1616, II, pp. 322-323 (fra le missive di «genere misto»); di qui anche le successive citazioni.

54. All’altezza del 1612 le uniche prose del Cieco uscite a stampa erano l’Ora-zione di Giovan Batista Strozzi a gli accademici Alterati. Intorno alle lodi della serenis-sima Giovanna d’Austria reina nata di Ungheria e di Boemia, e gran duchessa di To-scana, in Firenze, appresso Bartolomeo Sermartelli, 1578; la cronaca Essequie del serenissimo don Francesco Medici gran duca di Toscana. Descritte da Giovambatista Strozzi, in Fiorenza, ne le Case de’ Sermartelli, 1587; nonché il già ricordato trattato sulla famiglia medicea del 1610. Tuttavia, già nel 1574 il Cieco aveva pronunciato presso l’Accademia Fiorentina una Lezione sopra i madrigali (sulla quale si tornerà nelle pagine seguenti); rispettivamente al 1594 e al 1599 risali-vano invece le già menzionate lezioni sul poema eroico e sull’unità della favola; nel 1583, nel lasciare la guida dell’Accademia Fiorentina, aveva declamato un

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Questa missiva appare degna di nota non soltanto sotto i rispet-ti delle professioni di poetica, ma anche per quanto concerne le preziose informazioni intorno ai contatti intellettuali grilliani, alla luce, soprattutto, dei futuri sviluppi della sua parabola biografica. Nelle righe finali, infatti, l’autore ragguagliava l’amico fiorentino circa la visita ricevuta a Venezia dal di lui discepolo Giovanni Ciam-poli, al tempo allievo dello studio patavino e in procinto di spo-starsi nella diocesi di Federico Borromeo, presso il quale, fra Mila-no e Arona, avrebbe sostato per due mesi nella tarda primavera di quell’anno.55 Dopo aver constatato come questo «giovane di pronto e vivace ingegno» già iniziasse «sotto voce a gorgheggiare certi ac-centi poetici con tanta dolcezza che ne promette canto degno de’ veri e nobilissimi cigni di cotesto real fiume», il monaco proseguiva manifestando ammirazione per le doti poetiche del Ciampoli, che confermavano, del resto, i lusinghieri giudizi intorno al proprio al-lievo che Giovan Battista era solito esprimere:

Egli ieri a punto fu a visitarmi qui in San Nicolò del Lido, luogo di mia residenza, col quale ragionammo un pezzo di Vostra Signoria e gli comu-nicai la sua leggiadra lettera in ricompensa di alcune poesie novelle di lui, che con molta grazia mi recitò, lasciandomi certificato che ’l nome col quale piace a Vostra Signoria di chiamarlo è tutto suo merito e giusta mer-cede della sua virtù.56

Ragionamento nel rendere il consolato dell’Accademia Fiorentina, e, in seno al mede-simo consesso, sarebbe intervenuto nel dibattito tardocinquecentesco intorno alla Commedia di Dante con il Discorso se sia bene a’ poeti servirsi delle favole delli antichi del 1588, e quindi ancora nel 1598 avrebbe letto pubblicamente un panegirico in onore del defunto poeta Pietro Angeli da Barga. All’anno che precede la lettera di Grillo risale invece una Lezione in biasmo della superbia reci-tata in seno all’Accademia romana degli Ordinati. Tutte le orazioni citate sa-rebbero state pubblicate postume nella già citata silloge impressa a Roma da Lodovico Grignani nel 1635. Andrà anche ricordato che nel 1583, da istitutore dei giovani principi della casata medicea, il Cieco allestì una grammatica della lingua toscana, anch’essa poi pubblicata decenni più tardi, a Firenze da Pietro Nesti, tra il 1630 e il 1634, con il titolo Osservationi intorno al parlare, e scrivere toscano.

55. Intorno a questi soggiorni del Ciampoli presso il Borromeo nel 1612 si rimanda al già citato BELLINI, Federico Borromeo, Giovanni Ciampoli e l’Accademia dei Lincei.

56. GRILLO, Lettere 1616, II, pp. 322-323.

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Com’è noto, gli anni successivi sarebbero stati caratterizzati da un progressivo avvicinamento di Angelo Grillo agli ambienti del classicismo letterario della corte papale di Urbano VIII. Anzitutto da un punto di vista poetico-stilistico, giacché la produzione lette-raria dell’abate, come ha sottolineato Francesco Ferretti, da moven-ze poetiche segnate dal concettismo barocco virò via via verso «una maniera più austera, sempre metaforica e fiorita, ma incompatibile con la concezione edonistica della poesia proposta dal Marino»; tanto che, dopo essere stato ammirato dall’autore dell’Adone per il suo «stile melico nel quale l’espressione degli affetti si traduce nel-l’uso sistematico di metafore argute», si ritrovò paradossalmente, nell’ultima parte della propria vita, ad essere «venerato in funzione anti-marinista dai poeti delle generazioni più giovani: quelli che si radunano attorno a Maffeo Barberini», i quali vedevano in lui un modello di concettismo disciplinato ed epurato tanto sul piano della funzione retorica, quanto su quello dei contenuti, poiché la sua poesia sacra soddisfaceva l’esigenza, promossa dal circolo barbe-riniano, di sostituzione nei testi letterari degli eventi e dei personag-gi profani con quelli della Scrittura o della tradizione agiografica.57

Ma le progressive convergenze in ambito poetico procedettero di conserva con la costituzione di amicizie e di legami intellettuali, primo fra tutti quello con lo stesso Maffeo Barberini, al quale, ben prima della sua salita al soglio petrino nel 1623, Grillo si era avvi-cinato dallo schiudersi del secolo, dapprima sul piano della corri-

57. Tutte le citazioni da FERRETTI, Le Muse del Calvario, pp. 210-211. Sulla

cultura letteraria della Roma barberiniana si segnalano almeno EZIO RAI-

MONDI, Alla ricerca del classicismo e Paesaggi e rovine nella poesia d’un «virtuoso», entrambi nel suo Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 27-72; MA-

RIO COSTANZO, Critica e poetica del primo Seicento, 3 voll., Roma, Bulzoni, 1969-1971, I e II; BELLINI, Umanisti e Lincei; ID., Stili di pensiero nel Seicento italiano; PIERANTONIO FRARE, Poetiche del Barocco, in I capricci di Proteo. Percorsi e lin-guaggi del Barocco, Atti del convegno (Lecce, 23-26 ottobre 2000), Roma, Sa-lerno Editrice, 2002, pp. 41-70; ERALDO BELLINI, Agostino Mascardi tra ‘ars poe-tica’ e ‘ars historica’, Milano, Vita e Pensiero, 2002; ERMINIA ARDISSINO, Poeti-che sacre tra Cinque e Seicento, in Poesia e retorica del sacro tra Cinque e Seicento, a cura di Erminia Ardissino ed Elisabetta Selmi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp. 367-381; GIOVANNI BAFFETTI, Poesia e poetica sacra nel circolo barberi-niano, in Rime sacre tra Cinquecento e Seicento, a cura di Maria Luisa Doglio e Carlo Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 187-203.

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spondenza epistolare, quindi anche su quello degli effettivi con-tatti, tant’è che già il Von Pastor ricordava che il futuro pontefice, dopo il definitivo approdo nell’Urbe nel 1614, «nelle sue passeg-giate alle ville di Roma prendeva seco sempre dei letterati, quali Antonio Querenghi, Giovanni Ciampoli, Gabriello Chiabrera, Fa-brizio Verospi, Giovan Battista Rinuccini, Paolo Emilio Santori e Angelo Grillo».58

Una graduale attrazione verso l’orbita del classicismo romano, concretizzatasi fra la seconda e la terza decade del secolo XVII, che avrebbe trovato il proprio manifesto compimento nell’edizione dei Pietosi affetti dedicata a Urbano VIII apparsa a Venezia nel 1629.59 La lettera spedita allo Strozzi diciassette anni prima di quella stam-pa documenta precoci contatti fra il cassinese e Giovanni Ciam-poli, che non soltanto sarebbe stato, negli anni a venire, tra i mag-giori interpreti della temperie poetica barberiniana, ma altresì – nelle vesti di Cameriere Segreto e di Segretario dei Brevi – uno de-gli umanisti più influenti dell’entourage del pontefice. Essa dunque, essendo datata 1612, «rappresenta – come ha giustamente notato Myriam Chiarla – un importante precedente rispetto al legame che si consoliderà in seguito con il circolo di papa Barberini», offrendo ulteriore testimonianza del fatto che la dedica del 1629 non fu, quindi, un episodio isolato, quanto piuttosto «il coronamento di un profondo legame intellettuale attivo già da anni, basato su con-tatti personali e proficui scambi poetico-culturali».60

58. LUDWIG VON PASTOR, Storia dei papi nel periodo della Restaurazione cattolica

e della Guerra dei Trent’anni: Gregorio XV (1621-1623) ed Urbano VIII (1623-1644), versione italiana di Pio Cenci, Roma, Desclée, 1961, pp. 227-1000, la citazione da p. 251. Inedite missive databili al 1620 «indirizzate a Monsignor Luigi Lol-lino vescovo di Belluno, in cui Grillo si pone come una sorta di intermediario tra il vescovo bellunese e il cardinal Barberini», che permettono dunque di ag-giungere nuovi tasselli per la ricostruzione dei rapporti fra il genovese e il futuro pontefice, sono state recentemente segnalate in MYRIAM CHIARLA, Introdu-zione, in GRILLO, Pietosi affetti, pp. 9-34, in particolare pp. 19, 33. Ma sui legami fra Grillo e Maffeo Barberini si veda anche FERRETTI, Le Muse del Calvario, pp. 133-136, 357-367.

59. Pietosi affetti del P.D. Angelo Grillo. Dedicati alla santità di N. Sig. Papa Urbano VIII, in Venetia, per Evangelista Deuchino, 1629.

60. CHIARLA, Introduzione, pp. 18-19. Segnala questa missiva, a testimonianza di come, a quei tempi, le prove poetiche del Ciampoli fossero «ancora legate alla maniera strozziana» e dunque aliene dalle successive «sperimentazioni pin-

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L’ultima missiva, spedita da Venezia e rubricata fra le lettere «di genere misto», non è conservata in originale nel codice fiorentino, ma elementi interni consentono comunque di avanzare un’ipotesi di datazione al 1614. Dopo essersi rammaricato per «l’umor pec-cante» degli occhi dell’amico Strozzi (che, tormentato sin dagli anni Ottanta del Cinquecento dall’oftalmia, si preparava, «quando così piaccia – scriveva Grillo – alla volontà d’Iddio», «alla privazione» della vista, che, infatti, gli avrebbe procurato l’appellativo de ‘il Cieco’),61 l’abate spostava l’attenzione sui conseguimenti letterari del confratello cassinese Stefano Perozzi da Camerino, segretario del conterraneo cardinale Giovanni Evangelista Pallotta:

Godomi parimente de’ vertuosi progressi del nostro don Stefano Perozzi,

dariche», FRANCO VAZZOLER, Un’inedita parafrasi pindarica di Giovanni Ciam-poli. Contributo allo studio del pindarismo nel Seicento, in Studi di filologia e letteratura dedicati a Vincenzo Pernicone II-III, Genova, Industrie Grafiche Editoriali Fratelli Pagano, 1975, pp. 259-280, segnatamente p. 261.

61. Il Barbi data il palesarsi della malattia al 1581: «Ai primi del 1581, tornato lo Strozzi allo svago dei viaggi, fu a Bologna, visitò Mantova e Ferrara, ammirò Venezia. Sia per il freddo sia per la troppa solita lettura, gli si ammalarono gli occhi e stette due lunghi anni in forse di perdere la vista» (BARBI, Un accademico mecenate e poeta, p. 35). La dapprima incipiente e quindi effettiva cecità del Giovane provocò evidenti variazioni della sua grafia nel corso dei decenni, co-stringendolo infine ad avvalersi di segretari che lo assistessero nella lettura e nella scrittura: una rapida rassegna delle differenti grafie degli autografi stroz-ziani in ALBERTO MARIA FORTUNA, Giovambattista Strozzi il Cieco. Ottave contro le donne, «Giornale di Bordo», III, 1969, 1, pp. 9-19, in particolare pp. 10-11, nota 3. Già nella citata lettera del 6 agosto 1601 Grillo, venuto a sapere dell’in-fermità dell’amico, si era prodigato per consolarlo con parole amorevoli e pre-murose: «Vostra Signoria di grazia attenda alla sua salute; quello studio la faccia trascurata in tutti gli altri. Io le avrei dato nuova del mio arrivo e d’altri miei accidenti, ma non vo’ affaticarla. La presente leggerà con gli occhi altrui senza obligo di risposta: amor mi risponderà per lei, amor di santa amicizia, che sem-pre me la fa presente. E così certo. Non ricerco mai nella mia memoria, che non mi venga subito Vostra Signoria alle mani, e che volendo poi scrivere non mi venga anco subito alla penna; ma non passo avanti perché, come dico, non vo’ affaticarla. A molti, e massime a gl’infermi, è talora espediente volgersi su l’altro fianco; così faccia Vostra Signoria: si consoli con la varietà de gli agi domestici contra la deformità degl’accidenti strani. Ogni ora ha le sue novità, ogni passo il suo scandalo. Consoliamoci con una santa filosofia da vecchietti. Studiamo, ma con un modo non studioso, cioè tranquillamente, la tranquillità dell’animo, formandoci il porto fra le tempeste» (GRILLO, Lettere 1616, I, pp. 134-135).

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e che sciogliendo la penna e la lingua nelle lodi altrui leghi i cuori e gli animi nelle sue, sì di maniera che ne acquisti onorati encomi; e quale è quello col quale è piaciuto a Vostra Signoria di sublimar tanto la sua ora-zione in lode di cotesta altezza, i cui meriti son però sì grandi per li pregi di natura e di acquisto della sua real persona ch’han potuto peravventura sovra la natura e l’acquisto nel nostro novello oratore produr miracoli d’in-gegno e d’arte e farlo meritare con l’altrui merito.62

L’«orazione in lode di cotesta altezza» alla quale si riferiva l’abate

Grillo dovrà senza dubbio essere identificata con l’Oratio Stephani Perotii Camertis monachi Cassinensis de admirandis gestis quibus serenis-sima archiducissa Austriae magna Hetruriae ducissa peregrinationem suam Lauretanam clariorem reddidit apparsa per i tipi dello stampa-tore camerte Francesco Gioioso, appunto, nel 1614.63 Si tratta di un panegirico in prosa latina che celebra il pellegrinaggio presso il santuario mariano di Loreto – nelle terre marchigiane dell’autore – compiuto dalla granduchessa di Toscana Maria Maddalena d’Au-stria, consorte di Cosimo II de’ Medici, nell’ottobre del 1613 in scioglimento di un voto per la guarigione di una malattia che l’aveva colpita quattro anni prima.64 Il Perozzi – non a caso definito

62. Tutte le citazioni da GRILLO, Lettere 1616, III, pp. 313-314. Esili le notizie

su Stefano Perozzi; in una breve postilla inserita nell’Indice biografico dell’edi-zione delle Opere di Galileo Favaro scriveva: «Di lui sappiamo soltanto che nac-que a Camerino, che giovinetto fu paggio della duchessa di Modena, e poi, abbracciato lo stato ecclesiastico, servì come segretario il card. Evangelista Pal-lotta» (GALILEI, Opere, XX, p. 505). Qualche altra informazione in Bibliotheca Benedictino Casinensis sive scriptorum Casinensis, p. 182; Additiones, et correctiones Bibliothecae Benedictino Casinensis, alias S. Justinae Patavinae primae partis. Tam quae in ipso Opere ad calcem cuiusque Litterae Alphabeti ordine appositae fuerunt, tam quae postèa longè majori numero adornatae sunt. Per D. Marianum Armellini. Accessit Appendix de quibusdam aliorum etiam per Italiam ab eodem reverendissimo Armellini collectis, Fulginei, Typis Pompei Campana Impressoris Episcopalis, 1735, p. 87; Biblioteca volante di Gio. Cinelli Calvoli continuata dal dottor Dionigi Andrea Sancassani, edizione seconda in miglior forma ridotta, e di varie aggiunte ed osservazioni arricchita, 4 voll., in Venezia, presso Giambattista Albrizzi Girolamo, 1734-1747, IV, p. 51.

63. De admirandis gestis quibus serenissima archiducissa Austriae, magna Hetruriae ducissa peregrinationem suam Lauretanam clariorem reddidit. Oratio Stephani Perotii Camertis monachi Cassinensis, Camerini, apud Franciscum Ioiosum, 1614.

64. Informano su questo pellegrinaggio gli studi di ALICE SANGER: Maria Mad-dalena d’Austria’s pilgrimage to Loreto: visuality, liminality and exchange, in Medici women as cultural mediators (1533-1743), edited by Christina Strunck, Cinisello

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«nostro» in quelle righe – era un amico comune dei due letterati. Una missiva che il marchigiano spedì a Galileo Galilei da Came-rino il 7 novembre di quello stesso 1613, dopo un loro incontro fiorentino, testimonia come egli avesse potuto stringere legami non soltanto con l’illustre scienziato, ma anche con Giovan Battista Strozzi. Dopo aver espresso il proprio dispiacere per la forzata lon-tananza dalla capitale granducale, «dove ho lasciato – scriveva – la miglior parte di me stesso, talché hora mi pare d’essere non quel di prima, m’una fantasma», in chiusura di quella lettera il monaco chiedeva a Galileo: «Mi favorisca riverire per mia parte l’Ill.mi SS.ri Filippo Salviati e Gio. Battista Strozzi».65 Il Cieco dovette dunque incontrare quell’anno il benedettino marchigiano, il quale, del re-sto, già si era fatto conoscere come oratore encomiastico pubbli-cando, un paio d’anni prima, un’eulogia latina in lode del giovane Ippolito Aldobrandini Iuniore, pronipote di Clemente VIII, reci-tata nel 1611 presso l’abbazia perugina di San Pietro, a quei tempi ormai divenuta un importante centro di produzione artistica e cul-turale.66 Non stupisce dunque che nel 1614 lo Strozzi decidesse di

Balsamo, Silvana, 2011, pp. 253-265; Art, gender and religious devotion in Grand Ducal Tuscany, Farnham, Ashgate, 2014, pp. 93-110.

65. GALILEI, Opere, XVIII, pp. 415-416. 66. In laudem illustriss. et reverendiss. D.D. Hippoliti Aldobrandini Oratio D. Ste-

phani Perotii Camertis monachi congregationis Cassinensis. Habita ab eodem in Coe-nobio Sancti Petri de Perusio, Camerini, apud Franciscum Ioiosum, 1611; l’Opac del Servizio Bibliotecario Nazionale censisce un’unica copia di questo breve opuscolo, conservata presso la Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma: ringrazio l’istituzione per avermene fornito la riproduzione. Informano sulla storia secentesca dell’abbazia perugina di San Pietro: GIUSTINO FARNESI, L’ab-bazia di S. Pietro di Perugia nel Seicento: centro di studi teologici e scientifici; NADIA

TOGNI, La biblioteca e l’archivio dell’Abbazia di S. Pietro di Perugia nel Seicento, entrambi in Seicento monastico italiano, Atti del X convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Abbazia di S. Maria di Casamari-Abbazia di S. Dome-nico di Sora, 15-18 settembre 2011), a cura di Giovanni Spinelli, Cesena, Badia di S. Maria del Monte, 2015, pp. 139-176, 177-220. Per notizie su Ippolito Aldobrandini il Giovane: Istoria degli scrittori fiorentini la quale abbraccia intorno a due mila Autori, che negli ultimi cinque Secoli hanno illustrato co i loro Scritti quella Nazione, in qualunque Materia, ed in qualunque Lingua, e Disciplina; opera postuma del p. Giulio Negri, in Ferrara, per Bernardino Pomatelli Stampatore Vescovale, 1722, pp. 338; RENATO LEFEVRE, Il patrimonio romano degli Aldobrandini nel ’600, «Archivio della Società romana di Storia Patria», LXXXII, 1959, pp. 1-24, ID., Gli ultimi Aldobrandini di Clemente VIII, «Studi romani», XIV, 1966, pp. 17-38; ISABELLA SALVAGNI, Il Destino manifesto. Gli Aldobrandini di Clemente VIII e

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offrire la propria benedizione alla nuova fatica letteraria del Perozzi – «di sublimar tanto la sua orazione», per usare le parole di Grillo – tanto che il breve volumetto presenta in apertura una lettera de-dicatoria indirizzata proprio al Cieco da Perozzo Perozzi, fratello dell’autore, recante la data «Camerini idibus ianuarii MDCXIV».67 Queste pagine prefatorie confermano anzitutto l’incontro avve-nuto l’anno precedente fra il Giovane e il Perozzi in Firenze:

Quantum e tua facilitate, vel officii, vel gratiae derivaveris in Stephanum fratrem meum ante proximos hosce menses Florentiae commorantem vir omnium humanissime Strotia, doctissimeque; et ipse frater libenter in omni sermone commemorat; et ego, qui diligentius fortasse, quam ille per-pendere consueverim talium momenta rerum, animo facile consequor quantum nobis inesse possit ad extimationem nominis in tua qua facili-tate, qua felicitate momentum; et ne mentiar, nostrum benevolentiae tuae fructum ad lucrum immortalitatis et ad summam nostrae nobilitatis ap-pono.68

In secondo luogo esse ci informano che il testo del monaco ca-

merte venne inviato al Cieco ancor prima delle stampe, affinché l’orazione potesse ricevere l’approvazione da chi era ormai divenu-to da decenni un umanista di fiducia della casata medicea, a sua volta già impegnatosi, peraltro, in occasione del matrimonio con Cosimo de’ Medici nel 1608, nella glorificazione letteraria della

la Minerva, Roma, Campisano, 2017.

67. Qualche informazione intorno a Perozzo Perozzi, anch’egli letterato, cava-liere di Santo Stefano che per primo trasferì la propria famiglia dalla natia Ca-merino a Recanati, si rintraccia in Memorie istoriche della città di Recanati nella Marca d’Ancona, date in luce dal padre Diego Calcagni della Compagnia di Giesù, e presentate all’illustrissimo magistrato d’essa città, in Messina, nella stamparia di D. Vittorino Maffei, 1711, pp. 234, 280; CLEMENTE BENEDETTUCCI, Biblioteca recanatese, Recanati, Tipografia Rinaldo Simboli, 1884, p. 115; GINO GUAR-

NIERI, L’ordine di Santo Stefano nella sua organizzazione interna. Elenchi di Cavalieri appartenuti all’Ordine con riferimenti cronologici di patria, di titolo, di vestiazione d’abito (1562-1859), Pisa, Giardini, 1966, p. 165; BRUNO CASINI, I cavalieri degli stati italiani membri del Sacro militare ordine di S. Stefano papa e martire, 2 voll., Pisa, ETS, 1998-2001, I, pp. 293-294.

68. Sapientissimo D. Io. Baptistae Strotiae Perotius de Perotiis eques Sancti Stephani F.P., in De admirandis gestis quibus serenissima archiducissa Austriae, pp. non nu-merate.

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granduchessa Maria Maddalena e, più in generale, nella celebra-zione della famiglia granducale con il già citato trattato Della fami-glia dei Medici, apparso a stampa soltanto quattro anni prima del panegirico perozziano:

Eam laudationem ad Te mittimus antequam publicis consignatam litteris Serenissimae Dominae redderemus; ad Te litterarum elegantiarumque om-nium expolitione limatum; ad Te communis Dominae summa praeter cae-teros gratia florentem; ad Te Musarum et immortalitatis Antistitem, ut commendatione tui nominis et amplitudine dignitatis, ac deductionis tuae non tam mei fratris existimationem a doctorum reprehensionibus vindica-remus, quam un eius ingenii benevolentiaeque cursum erga Serenissimam Dominam immortalibus eius laudibus, quasi faucibus incitatum ex hisce carceribus effunderemus ad gloriam.69

69. Ivi, pp. non numerate. Nel 1608 lo Strozzi partecipò ai festeggiamenti per

gli sponsali di Cosimo e Maria Maddalena componendo l’intermedio quarto (La nave di Amerigo Vespucci) a corredo della favola pastorale Il Giudizio di Paride di Michelangelo Buonarroti il Giovane rappresentata nella serata del 25 otto-bre all’interno del teatro mediceo degli Uffizi; si veda al riguardo MARIA AL-

BERTI, Amerigo nell’Olimpo. ‘La nave di Amerigo Vespucci’, intermezzo di G.B. Strozzi per il ‘Giudizio di Paride’ di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1608), in Renais-sance then and now: danza, musica e teatro per un nuovo Rinascimento, Atti del con-vegno (Firenze, 7-9 maggio 2013), a cura di Stefano Ugo Baldassarri, Pisa, ETS, 2014, pp. 33-47. Per la medesima occasione nuziale il Cieco stese altresì ventisei madrigali per una Mascherata de’ venti andata in scena in piazza Santa Croce nell’ottobre del 1608: gli inediti testi poetici sono raccolti in un elegante volu-metto recante sulla sovraccoperta gli stemmi granducali e aperto da una lettera di dedica dell’autore a Maria Maddalena (Firenze, Biblioteca Nazionale Cen-trale, Magliabechiano VII, 325, la dedicatoria non datata a c. 2r-v); i versi sono tutti dedicati ai venti zefiro e austro, in quest’ultimo caso con un omaggio pa-ronomastico di sapore petrarchesco alla patria della granduchessa: un’espe-diente – questo dell’elegante allusione al nome o alla casata della destinataria tramite un calembour – tipico di molta madrigalistica cinquecentesca da Giovan Battista Strozzi il Vecchio a Torquato Tasso (per cui si vedano TOBIAS LEUKER, Giochi onomastici nelle ‘Rime’ del Tasso, «Giornale storico della letteratura ita-liana», CLXXXIX, 2012, pp. 530-561; LORENZO AMATO, Il madrigale di Giovan Battista Strozzi il Vecchio: dalle serie manoscritte al ‘canzoniere’ a stampa, «Medioevo e Rinascimento», XXIX, 2015, pp. 181-214; JACOPO GALAVOTTI, Interpretatio nominis e giochi onomastici nei lirici veneziani del secondo Cinquecento, in, Nomina sunt...?: l’onomastica tra ermeneutica, storia della lingua e comparatistica, Atti delle giornate di studio (Venezia 3-4 marzo 2016), a cura di Maria Pia Arpioni, Arianna Ceschin e Gaia Tomazzoli, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari-Digital pu-blishing, 2016, pp. 131-145). Quello stesso anno il Cieco scrisse anche l’ode

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Maestro del Ciampoli, corrispondente di Virginio Cesarini, in-timo amico di Gabriello Chiabrera e, soprattutto, dello stesso Maf-feo Barberini – sin da quando il futuro papa era stato affiliato appe-na ventenne all’Accademia degli Alterati di Firenze –, il Cieco do-vette senz’altro svolgere, agli inizi del secolo XVII, un’importante funzione di raccordo fra Angelo Grillo e gli ambienti barberiniani, concorrendo, insieme ad altri, al progressivo mutamento della col-locazione poetica e culturale dell’abate cassinese. Ma l’influenza certo fu reciproca: anche il Giovane, infatti, non rimase sordo al processo di riconnotazione in senso devozionale e penitenziale im-presso dal benedettino nei Pietosi affetti alla forma metrica del ma-drigale, genere d’elezione di entrambi gli autori.70 Nella sua giova-nile Lezione sopra i madrigali – la prima organica trattazione rinasci-mentale intorno al metro madrigalesco, pronunciata all’altezza del 1574 in seno all’Accademia Fiorentina – preoccupandosi di delimi-

latina Si genus augustum regali ab origine ducis dedicata al principe Cosimo II de’ Medici, stampata nelle pagine liminari del Tractatus de brachio regio, sive De li-bera, ampla, et absoluta potestate iudicis supremi in prosequendo, iudicando et exe-quendo. Auct. D. Hortensio Cavalcano I.V.D. Fivizanense. Opus sane multo quam antea magis locupletatum, cui nuper ab eodem auctore addita est pars sexta de aequitate et rigore, cum notabilissimis 125 fragmentis, nec non cum theorica, et practica de testi-bus recens multis additionibus exornata. Accessit index triplex, et materiarum compen-dium, Venetiis, apud Bernardum Iuntam, Io. Bapt. Ciot. et socios, 1608 (il componimento è invece assente nella prima edizione del trattato del Cavalcani apparsa a Mantova nel 1604 per lo stampatore Francesco Osanna).

70. Su questo aspetto resta utile GIULIA RABONI, Il madrigalista genovese Livio Celiano e il benedettino Angelo Grillo. In margine a una recente monografia, «Studi secenteschi», XXXII, 1991, pp. 137-188. Tra i più recenti contributi intorno alla poesia sacra del Grillo: FRANCESCO FERRETTI, L’ingegnoso penitente. Angelo Grillo e i Salmi penitenziali, in La Bibbia in poesia. Volgarizzamenti dei Salmi e poesia religiosa in età moderna, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Rosanna Morace, Pietro Petteruti Pellegrino e Ugo Vignuzzi, «Studi (e testi) italiani», XXXV, 2015, pp. 151-168; MYRIAM CHIARLA, «Son talhor con le Muse, et spesso co’ Padri antichi». Intrecci biblici, patristici e devozionali nei ‘Pietosi affetti’ di Angelo Grillo, in Benedettini in Europa. Cultura e committenze, restauri e nuove funzioni, a cura di Sonia Cavicchioli e Vincenzo Vandelli, Modena, Franco Cosimo Panini, 2017, pp. 17-27; contestualizza le rime sacre del genovese nel quadro della lirica de-vozionale secentesca il contributo di SIMONA MORANDO, MYRIAM CHIARLA, La Bibbia nella prima lirica barocca, da Torquato Tasso ad Angelo Grillo, in La Bibbia nella letteratura italiana, 6 voll., opera diretta da Pietro Gibellini, Brescia, Mor-celliana, 2009-2017, VI Dalla controriforma all’età napoleonica, a cura di Tiziana Piras e Maria Belponer, pp. 55-76.

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tare il campo tematico di questo genere metrico, lo Strozzi, dopo a-ver escluso gli «avvenimenti infelici» e quelli luttuosi, i motivi epici e quelli encomiastici, individuava nei contenuti pastorali ed amo-rosi le «materie che proporzionate sono alla picciolezza» del madri-gale: «Avrà ben luogo il carolar delle ninfe, il cantar degl’uccelli, e il trionfar de i prati; e generalmente i fatti d’amore ne presteranno accommodata materia, toltine però le morti e gli sventurati acci-denti, che troppo son degni di lagrime».71

Alla luce di questa prospettiva non stupisce che nelle pagine della Lezione la declinazione spirituale della forma madrigalesca ap-parisse assente da tutto il giro d’orizzonte. Anzi il Cieco, a quel-l’epoca, si preoccupava di espungere decisamente dal novero dei soggetti poetabili in metro madrigalesco contenuti eccessivamente elevati, segnati da una certa gravitas di matrice dellacasiana e per-tanto inadatti alla leggiadra «piccolezza» del madrigale. Eppure un trentennio più tardi il punto di vista strozziano appariva radical-mente mutato: nel 1606 il Cieco partecipò infatti alla raccolta Rime spirituali di diversi autori in lode del serafico Padre S. Francesco e del Sacro Monte della Verna, raccolte da Fra Silvestro da Poppi de’ Minori Osser-vanti componendo quindici madrigali sacri a commento del ciclo di affreschi raffigurante le Storie di san Francesco dipinto dal pittore

71. Lezione sopra i madrigali, recitata nell’Accademia Fiorentina, in Orazioni et altre

prose del signor Giovambatista di Lorenzo Strozzi, pp. 159-188, le citazioni da pp. 165, 174. Appuntano la propria attenzione sulla codificazione cinquecentesca della forma madrigalesca: MARCO ARIANI, Giovanni Battista Strozzi, il manieri-smo e il madrigale del ’500, in GIOVAN BATTISTA STROZZI IL VECCHIO, Madrigali inediti, a cura di Marco Ariani, Urbino, Argalia, 1975, pp. XLVII-XCVII; GIU-

SEPPE FANELLI, Introduzione, in FILIPPO MASSINI, Il madrigale, a cura di Giu-seppe Fanelli, Urbino, Argalia, 1986, pp. 5-29; ANTONIO DANIELE, Teoria e prassi del madrigale libero nel Cinquecento (con alcune note sui madrigali musicati da Andrea Gabrieli), in Andrea Gabrieli e il suo tempo, Atti del convegno internazio-nale (Venezia, 16-18 settembre 1985), a cura di Francesco Degrada, Firenze, Olschki, 1987, pp. 75-169, poi in ANTONIO DANIELE, Linguaggi e metri del Cin-quecento, Rovito, Marra, 1994, pp. 159-245; STEFANO LA VIA, Madrigale e rap-porto fra poesia e musica nella critica letteraria del Cinquecento, «Studi musicali», XIX, 1990, 1, pp. 33-70; SALVATORE RITROVATO, «Senza alcun dubbio il madri-gale è poema…», nel suo volume Studi sul madrigale cinquecentesco, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 11-29. Sempre utile, per un inquadramento del genere ma-drigalistico in età rinascimentale e barocca, ALESSANDRO MARTINI, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, «Lettere italiane», XXXIII, 1981, pp. 529-548.

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veronese Iacopo Ligozzi all’interno del Chiostro Grande della chie-sa di San Salvatore in Ognissanti a Firenze.72 E ancora nel corso dei decenni successivi sarebbe tornato a impiegare il metro madrigale-sco per cantare il santo d’Assisi, pubblicando nel 1628 il componi-mento Gelido monte Alverno e l’anno seguente Nel tuo corporeo velo, entrambi intorno all’episodio delle stimmate sul monte della Ver-na.73 Un deciso slittamento dal madrigale amoroso e profano verso

72. La raccolta fu pubblicata a Firenze presso lo stampatore Volcmar Timan

nel 1606, i componimenti strozziani alle pp. 53v-58r. Si sono soffermati su que-sta antologia: MARIA LUISA DOGLIO, Immagini di san Francesco nella letteratura del Seicento, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXV, 1989, pp. 423-443, poi in San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dal Rinascimento al Romanticismo, Atti del convegno nazionale (Assisi, 18 maggio 1989), a cura di Silvio Pasquazi, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 179-198, e infine all’interno del volume dell’autrice Scrivere di sacro. Forme di letteratura religiosa dal Duecento al Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 43-64; GIORGIO FORNI, Florilegi fiorentini del primo Seicento in lode di san Francesco, in Rime sacre tra Cinquecento e Seicento, pp. 141-185; ARMANDO MAGGI, Francesco d’Assisi e le stimmate alla luce del Barocco. ‘Sette canzoni di sette famosi autori’ (1606) e ‘Rime spirituali di diversi autori’ (1606) raccolte da F. Silvestro da Poppi minore osservante, «Studi secenteschi», XLIX, 2008, pp. 78-130. I madrigali strozziani si possono ora leggere in LUCILLA CONIGLIELLO, Addenda alla decorazione del chiostro fran-cescano di Ognissanti, in Jacopo Ligozzi. Le vedute del Sacro Monte della Verna, i dipinti di Poppi e Bibbiena, a cura di Lucilla Conigliello, Poppi, Edizione della Biblioteca Comunale Rilliana, 1992, pp. 188-192. Per il ciclo di affreschi si vedano anche MINA BACCI, Jacopo Ligozzi e la sua posizione nella pittura fiorentina, «Proporzioni», IV, 1963, pp. 46-84; SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINO, Francescanesimo e pittura riformata in Italia centrale, in L’immagine di San Francesco nella Controriforma, a cura di Simonetta Prosperi Valenti Rodino e Claudio Stri-nati, Roma, Quasar, 1982, pp. 63-72; ANNA MARIA AMONACI, Per una ricostru-zione della storia del primo chiostro del convento di San Salvatore di Ognissanti di Fi-renze, «Archivum franciscanum historicum», LXXXII, 1989, pp. 42-104; Il chio-stro di Ognissanti a Firenze. Restauro e restituzione degli affreschi del ciclo francescano, a cura dell’Ufficio restauri della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Firenze e Pistoia, Firenze, Centro Di, 1989.

73. I due testi vennero impressi rispettivamente nelle pagine liminari non nu-merate dei volumi Monte Serafico della Verna, nel quale N. Sig. Giesù Cristo im-presse le sacre stimmate nel virginal corpo del serafico P. S. Francesco. Descritto dal R.P.F. Salvatore Vitale sacerdote, predicatore della Regolare Osservanza de’ Frati Mi-nori della santa provincia di Sardigna, in Firenze, appresso Zanobi Pignoni, 1628 e D.O.M Teatro serafico delle stimmate di Christo, impresse nel santo, immaculato e virginal corpo del glorioso padre San Francesco. Per il rever. P. fra Salvatore Vitale, sacerdote, teologo, e predicatore della Regolare Osservanza e della religiosa provincia di Sardigna, in Firenze, per Zanobi Pignoni, 1629. Il codice Città del Vaticano,

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quello sacro-devozionale che, alla luce dei contatti fra i due autori, certo si dovrà spiegare anche a partire dal modello poetico grilliano; l’impiego di questo metro lirico a commento di un ciclo francesca-no, infatti, «rientra oramai – per usare le parole di Massimiliano Rossi – in quel generale processo di risignificazione che questa for-ma metrica conosce alla fine del Cinquecento e di cui il benedet-tino Angelo Grillo aveva offerto con i Pietosi affetti del 1595 l’esem-pio più fortunato».74

E del resto, non pochi paiono i punti di contatto fra i compo-nimenti francescani dello Strozzi e i Pietosi affetti. Si noti soltanto, per citare uno fra gli esempi di maggior evidenza, che, sul versante tematico, il culto delle piaghe di Cristo – uno fra i motivi dominan-ti dei madrigali sacri del genovese – trova una sua perfetta declina-zione agiografica nelle stimmate di Francesco d’Assisi, descritte dallo Strozzi, peraltro, attraverso il ricorso alla topica metafora gril-liana basata sulla trasfigurazione delle piaghe in stelle:

Nel tuo corporeo velo di cinque stelle eccelsa luce apparve: e perché eternamente adorni il Cielo non come quella de’ tre re disparve; suo puro ardente zelo 5 ovunque surge, ovunque il sol discende l’alme per sollevarti in alto accende.75

Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano Latino 8852, cc. 467v-468r conserva ulteriori componimenti strozziani d’ispirazione francescana rimasti inediti; si tratta di quattro madrigali – Spense empiamente ingordo umido gelo (presente an-che nel Vaticano Latino 8859, c. 31r), Felice pargoletto, Avea furor bollente e Beni-gna voce impera – raccolti sotto l’intestazione S. Francesco risuscita un fanciullo affogato.

74. MASSIMILIANO ROSSI, Pietosi affetti e arte grafica nei madrigali dipinti per le storie francescane di Ognissanti, «Mitteilungen des kunsthistorischen Institutes in Florenz», LVII, 2015, 2, pp. 177-189, la citazione da p. 184. Si veda al riguardo, del medesimo autore, anche il precedente Per l’unità delle arti visive. La poetica ‘figurativa’ di Giovambattista Strozzi il Giovane, «I Tatti Studies», VI, 1995, pp. 169-213.

75. D.O.M Teatro serafico delle stimmate di Christo, pp. lim. non num. Insiste sul culto delle piaghe nella poesia di Grillo, nel quadro di una «generale tendenza alla rappresentazione plastica della passione di Cristo» nei Pietosi affetti, RA-

BONI, Il madrigalista genovese Livio Celiano, pp. 152-160. Alle pp. 169-170, in-vece, sono raccolti esempi dai madrigali sacri del benedettino riguardanti «la

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Nati entrambi nella sesta decade del Cinquecento, entrambi formatisi sui modelli del classicismo rinascimentale, ambedue poi entrati in contatto con i massimi poeti del loro tempo – Torquato Tasso e Giovan Battista Marino –, il fiorentino e il genovese si ritro-varono infine, ormai anziani, accomunati dalla protezione del me-cenatismo di Urbano VIII, che dal 1624 aveva richiamato a Roma anche il Cieco, garantendogli una lauta prebenda e dandogli allog-gio nei palazzi vaticani.76 Due parabole il cui procedere in parallelo è icasticamente rappresentato dall’accostamento dei due letterati – nello stesso anno, il 1620 – da un lato nella celeberrima lettera pre-fatoria della Sampogna indirizzata a Claudio Achillini, nelle pagine della quale venivano inseriti dal Marino entro la schiera dei propri autorevoli estimatori – «simulacri della immortalità tra’ vivi […], i quali possono, o parlando o scrivendo, recare altrui onore o diso-nore» – che egli passava in rassegna per conferire legittimazione alla propria opera;77 e dall’altro nel novero dei dedicatari della raccolta dei Poëmata di Maffeo Barberini, ove, nell’ode Curis solutum ruris in otio, venivano celebrate le virtù dell’animo dello Strozzi, distaccato dagli effimeri beni terreni e tutto proteso verso quelli celesti, e al contempo, negli esametri Demulcent animos, sacro quae carmina plec-tro, composti «in pios affectus Angeli Grilli Abbatis», venivano tes-sute le lodi dello stile sacro del benedettino, le cui rime, simili a cori angelici, erano considerate tanto mirabili da scacciare gli af-fanni mondani e convertire il cuore dei lettori.78

metafora più utilizzata per le piaghe, quella delle stelle». Si noti in particolare che anche l’evocazione da parte dello Strozzi della cometa dei Magi è coerente con la poetica del monaco genovese, nei cui versi devozionali spesso «la fun-zione monitoria della metafora si esplicita nell’immagine piaghe=comete».

76. Intorno a questo soggiorno romano del Cieco: ROSSINI, Giovan Battista Strozzi il Giovane a Roma, pp. 738-740.

77. Si cita dalla moderna edizione GIOVAN BATTISTA MARINO, La sampogna, a cura di Vania De Maldé, Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1993, pp. 23-60, a pp. 34-35.

78. Le due poesie vennero incluse nella raccolta sin dalla prima edizione pari-gina coeva alla Sampogna mariniana: Ill.mi et Rev.mi Maffaei S.R.E. Card Barberini S.D.N. signaturae iustitiae praefecti Poemata, Lutetiae Parisiorum, apud Anto-nium Stephanum, typographum regium, 1620, a pp. 59-61, 70. I versi per Gril-lo – sui quali si veda FERRETTI, Le Muse del Calvario, pp. 362-364 – sarebbero stati ristampati nelle pagine liminari della già ricordata edizione dei Pietosi af-fetti del 1629. Maffeo Barberini dedicò al Cieco anche il sonetto Gareggiando

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FRANCESCO ROSSINI

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Queste coeve menzioni rivelano con chiarezza come i due uomi-ni di lettere seppero attraversare la stagione tardorinascimentale e barocca accomunati da una certa indipendenza di giudizio che li mantenne, nel quadro degli schieramenti letterari del tempo, sem-pre immuni dalla fossilizzazione su rigide posizioni partigiane. Le loro esperienze, pertanto, costringono a utilizzare con cautela le tra-dizionali categorie storiografiche di manierismo, barocco, classici-smo, marinismo, anti-marinismo; e in questa prospettiva le lettere missive si rivelano gli strumenti forse più efficaci per una lucida in-dagine documentaria in grado di svelare il complesso ordito della storia letteraria che trascende le rigide suddivisioni talora elaborate in sede teorica. Esse consentono infatti – come s’è cercato di mette-re in luce attraverso gli esempi trascelti – di lumeggiare le reali vi-cende intellettuali e biografiche degli uomini di lettere d’Antico Re-gime, apprezzandone i margini sfumati e la complessità refrattaria a facili schematizzazioni; e dunque, in questa prospettiva, permetto-no di lasciarsi definitivamente alle spalle quel modello euristico che – per usare le parole di Eraldo Bellini – «dai classicisti d’Arcadia ai romantici e quindi alla tradizione risorgimentale, ci ha educati a ve-dere lungo i secoli della letteratura nazionale nette contrapposizio-ni, continui crepacci e fratture profonde, contorni nitidi e ta-glienti».79

tra lor natura e arte, incluso fra le sue Poesie toscane (ora si legge in FRANCESCO

BRACCIOLINI, L’elettione di Urbano papa VIII. MAFFEO BARBERINI, Poesie to-scane. HIERONYMUS KAPSBERGER, Poematia et carmina, a cura di Luana Salva-rani, Trento, La Finestra, 2006, p. 45); mentre il Cieco indirizzò all’ecclesiastico alcune delle sue epistole metriche in endecasillabi sciolti che si conservano presso l’Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, serie III, filza 166 e, in duplice copia con correzioni autografe, alla Newberry Library di Chicago, MS 6A 11, XVII e XVIII: Negl’anni andati m’allegrai dell’alba, scritta nel 1606 per la creazione a cardinale, Ecco di stelle incoronato un sole e Quando la vaga Flora il suo bel volto, entrambe per l’elezione papale del 1623; in MS 6A 11, XVIII, cc. 354r-359v si legge altresì una canzone dedicata a Urbano: Del Libano odoroso.

79. ERALDO BELLINI, Due lettere sulla peste del 1630. Mascardi, Achillini, Man-zoni, «Aevum», LXXXVII, 2013, 3, pp. 875-917, la citazione dalle pp. 877-878.

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MARZIA GIULIANI

DA PISTOIA A VARSAVIA (E RITORNO).

IL VIAGGIO EUROPEO DELLE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

Già noti ai censimenti pionieristici dell’epistolografia cinque-sei-centesca,1 ma non ancora letti nella loro complessità, i tre volumi Delle lettere miscellanee del pistoiese Bonifacio Vannozzi meritano oggi di essere valorizzati entro il programma di ricerca Archilet.

L’analisi che qui si presenta non si concentra sull’aspetto retorico-formale di questi testi, scritti e raccolti da un segretario ad uso di altri segretari, ma su quello documentario, nel tentativo di mettere in luce il valore storico dell’opera, ad oggi misconosciuto.2 Risco-perta come fonte di prima mano, la trilogia vannozziana consente di ricostruire la biografia del suo autore, di cui Giano Nicio Eritreo incastonò un prestigioso ritratto nella sua Pinacotheca altera ima-ginum nel cuore del Seicento,3 e permette di individuare nuovi cir-cuiti culturali, e insieme diplomatici, entro la composita geografia politica dell’Italia di primo Seicento, che Bonifacio esperì in prima persona con una apertura al più ampio contesto europeo. Scriveva

1. Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice

dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 128-129; JEANNINE BASSO, Le genre épistolaire en langue italienne (1532-1662). Répertoire chronologique et analytique, 2 voll., Roma-Nancy, Bulzoni, 1990, pp. 399-401.

2. Metodi, temi e obiettivi della ricerca sull’epistolografia secentesca sono enu-cleati da CLIZIA CARMINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di Antico Regime, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 91-118.

3. GIOVANNI VITTORIO ROSSI, Pinacotheca altera imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, qui, auctore superstite, diem suum obierunt, Coloniae Ubio-rum, apud Iodocum Kalcovium, 1645, p. 193. Sulla biografia di Vannozzi, nato a Pistoia nel 1549 circa e morto a Roma nel 1621, mi permetto il rinvio al mio Il segretario e l’«arte del particolarizzamento». Bonifacio Vannozzi e le corti di Torino, Roma e Firenze, in Essere uomini di «lettere». Segretari e politica culturale nel Cinque-cento, a cura di Antonio Geremicca, Hélène Miesse, Firenze, Cesati, 2016, pp. 189-199.

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MARZIA GIULIANI

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di lui Giulio Segni, curatore del terzo volume delle Lettere miscella-nee:

L’autore è di nascita toscana, di dipendenza dalla serenissima casa Medici, di valore sperimentato nella corte romana, dov’egli è vissuto appresso gran-dissimi e principalissimi personaggi moltissimi anni, negotiatore e segreta-rio; e non pure in Roma, in Fiorenza e in Savoia, e per l’Italia, ma in Spa-gna, Polonia e presso genti straniere, prencipi e regi, s’è trovato in maneggi di santa Chiesa.4

Questo percorso, durante il quale Bonifacio sperimentò sul

campo l’arte della segreteria, trovò il suo riflesso nello specchio del-le Lettere miscellanee, nelle quali l’autobiografia e la riflessione teo-rica si saldarono secondo una stratificazione complessa, di non fa-cile decifrazione. Ne è segno la stessa vicenda editoriale dei tre libri che, per quanto unitari nel loro complesso, furono pubblicati, nel-l’arco di un decennio, in tre contesti molto diversi fra loro: la Sere-nissima Repubblica di Venezia, alle soglie dell’Interdetto (1606); la Roma di papa Paolo V Borghese (1608) e la Bologna pontificia del legato fiorentino Luigi Capponi (1617). Per ragioni di chiarezza espositiva, si è perciò scelto di presentare ciascun volume nella pro-pria singolarità, secondo l’ordine di pubblicazione, mettendo in ri-lievo la specificità dei contesti e, insieme, i motivi di continuità che

4. Delle lettere miscellanee di mons. reverendissimo Bonifatio Vannozzi, dottor pisto-

lese e protonotario apostolico. Volume Terzo. All’illustrissimo et reverendissimo sig. il sig. Luigi Capponi card. Legato di Bologna, In Bologna, presso Bartolomeo Cochi, 1617, c. *2v. Giulio Segni fu un infaticabile promotore editoriale, la cui attività meriterebbe una compiuta messa a fuoco. Si ricordi qui che egli aveva pro-mosso a Bologna una raccolta encomiastica in onore di Camillo Paleotti nel 1597 e poi, all’aprirsi del secolo, il prestigioso Tempio dedicato al cardinale Cin-zio Aldobrandini: SILVIA APOLLONIO, Indagini preliminari sulla figura di Roberto Titi: notizie e spunti letterari dalle missive di Malatesta Porta (1601-1606), in «Le lettere sono imagini di chi le scrive». Corrispondenze di letterati di Cinque e Seicento, a cura di Roberta Ferro, Sarnico, Archilet, 2018, pp. 163-220; LUISELLA GIA-

CHINO, Tra celebrazione e mito. Il «Tempio» per Cinzio Aldobrandini, nel suo «Al carbon vivo del desio di gloria». Retorica e poesia celebrativa nel Cinquecento, Alessan-dria, Edizioni dell’Orso, 2008, pp. 139-156. Alle sue premure si deve l’impor-tante edizione delle lettere di Tasso, raccolte da Antonio Costantini: Lettere del signor Torquato Tasso non più stampate, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1616. Una prima presentazione di questa raccolta in GIANVITO RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 117-144. Su questa edizione tassiana voluta da Segni si rimanda all’ultimo paragrafo di questo lavoro.

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legarono fra loro i tre libri. Merita attenzione, in via preliminare, anche la diversa struttura

dei tre volumi, di cui si darà conto con esempi concreti nelle pagine seguenti. Nel primo Vannozzi si presenta nella veste di autore delle lettere pubblicate con il corredo di una tavola di tutti i destinatari. Non è sempre chiara la distinzione fra le missive scritte per proprio conto e quelle redatte a nome dei suoi diversi signori, sebbene, co-me vedremo, siano inserite in questo primo volume, così come nei due successivi, sezioni esplicitamente contenenti testi redatti in qualità di segretario.

Nel secondo e nel terzo libro l’autore indossa anche i panni del curatore e seleziona, oltre alle lettere da lui scritte, anche testi sot-toscritti da altri. La loro tipologia è varia. Si hanno anzitutto re-sponsive di o a Vannozzi, che permettono di ricostruire brani di corrispondenze a due o più voci. Si hanno lettere dedicatorie di o-pere manoscritte e a stampa indirizzate a Vannozzi con le sue repli-che di cortesia. E si hanno infine lettere di altri che non riguardano direttamente il segretario pistoiese, ma sono da lui scelte e pubbli-cate per il loro valore esemplare e sono spesso accompagnate da brevi note esplicative indirizzate ai lettori. Il terzo volume, inoltre, è corredato da una tavola divisa in tre parti: «Delle lettere scritte da monsignor Vannozzi ad altri»; «Delle lettere scritte da diversi a monsignor Vannozzi et ad altri»; «Delle materie spezzate».

Venezia 1606: i rapporti con l’Accademia Veneta

Il primo volume delle miscellanee, che segnò l’esordio letterario di Vannozzi, fu edito a Venezia nel 1606 per i tipi di Giovanni Battista Ciotti5. Si tratta di un luogo eccentrico rispetto alla biografia del-l’autore, che non ebbe a soggiornare in città (se non brevemente di ritorno da Varsavia) e non vi intrattenne relazioni documentate di lavoro. Si giustifica però alla luce di una forte prossimità culturale,

5. Delle lettere miscellanee del sig Bonifatio Vannozzi J. C. pistolese et protonotario

apostolico. All’illustrissima et preclarissima Academia Veneta. Nelle quali sono lettere di complimento, di congratulatione, di condoglienze, d’avvisi et d’ogni altro genere. In-sieme con le lettere di attioni importantissime nella legatione di monsignor illustrissimo Caetano, legato a latere di Nostro Signore in Polonia, con privilegio. In Venetia, ap-presso Gio. Battista Ciotti Sanese all’Aurora, 1606.

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che trovò il suo polo di attrazione nell’Accademia Veneta, cui Van-nozzi dedicava il suo primo libro di lettere.

Nel sodalizio, nato nel 1593 per iniziativa di un gruppo di in-tellettuali, letterati e scienziati, che ambivano a riproporre, ormai a fine secolo, i fasti della gloriosa Accademia della Fama, 6 egli con-tava diversi amici, che figurano fra i corrispondenti delle Lettere mi-scellanee, primo fra tutti il medico e filosofo Giovan Pietro Airoldi Marcellini.7 Per i suoi buoni uffici Bonifacio otteneva nel 1602 l’ascrizione al sodalizio, che le lettere documentano con esattezza. Il 10 ottobre Lucio Scarano, segretario dell’accademia, trasmetteva la comunicazione ufficiale a Vannozzi,8 che l’indomani ringraziava lui e l’amico Marcellini.9 La nomina veniva a suggellare un’amicizia intellettuale che si era cementata nel tempo, come dimostrano le pagine del dialogo Scenophylax, ambientato da Scarano nella tipo-grafia di Giovanni Battista Ciotti, tipografo di fiducia dell’accade-

6. LINA BOLZONI, La stanza della memoria: modelli letterari e iconografici nell’età

della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3-25. Partecipavano all’accademia esponenti delle diverse arti liberali, i pittori Tintoretto, padre e figlio, lo scul-tore Alessandro Vittoria, e il poeta e letterato Battista Guarini.

7. Originario di Mandello, sulle sponde del Lario, aveva studiato medicina a Padova e si era affermato a Venezia: FILIPPO PICINELLI, Ateneo dei letterati mila-nesi, Milano, Francesco Vigone, 1670, p. 456.

8. La lettera di Scarano figura fra i paratesti: Lettere miscellanee, I, c. A8v. Van-nozzi ringraziava ivi, I, p. 346. Lucio Scarano, medico come il Marcellini, diede alle stampe diverse orazioni latine pronunciate in seno all’Accademia Veneta. Se ne legge l’elenco in: EMMANUELE ANTONIO CICOGNA, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia, Merlo, 1847, p. 33, pp. 565-566. La sua opera di maggior impegno fu un dialogo, dedicato all’uso della versificazione nella scrittura di tragedie e commedie: LUCIO SCARANO, Scenophylax. Dialogus in quo Tragaediis et Comaediis antiquuus carminum usus restituitur, recentiorum quorundam iniuria in-terceptus, Venezia, Giovanni Battista Ciotti, 1601. A Scarano era attribuita l’in-venzione di un «micromega» da GIOVANNI PAOLO GALLUCCI, Della fabrica et uso di diversi stromenti di Astronomia et Cosmografia, ove si vede la somma della Teo-rica et Pratica di queste due nobilissime scienze, Venezia, Ruberto Meietti, 1598, p. 223.

9. Scriveva a Marcellini: «un huomo oscuro et da niente come son io non sarebbe mai stato nominato non che ammesso in un consorzio illustrissimo com’è quello dell’Accademia Veneta, se qualcheduno non si fosse messo a far prova del suo ingegno lodandomi» (Lettere miscellanee, I, p. 218). Gli chiedeva poi lumi circa l’accademia in rapporto alla precedente accademia di Federico Badoaro: ivi, p. 215, senza data, da Pistoia.

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mia. Qui Marcellini, che del dialogo era uno degli interlocutori in-sieme a Fabio Paolini, ricordava le antiche conversazioni intercorse tra lui e Vannozzi sulla sponda comasca del Lario10. Bonifacio non poteva che ringraziare i suoi amici per questo «ritratto», che il 18 gennaio 1602 mostrava idealmente per lettera a un altro dei suoi corrispondenti veneti, il diplomatico Baldassar Guagnino di Ve-rona11.

In questa stessa lettera egli annunciava l’avvio della sua attività di scrittura. Già dalla tarda primavera del 1598, dopo due decenni di alacre attività, si era ritirato nella sua Pistoia e aveva scelto per sé la vocazione religiosa fino all’ordinazione sacerdotale. Nella solitu-dine oziosa delle estati in villa, lontano dalle urgenze delle corti, si era accinto a riordinare le sue idee e le sue carte. Scriveva a Gua-gnino: In questi miei otii fuggo l’otio con andar mettendo insieme alcune delle mie faticuzze i cui freggi et ornamenti saranno i nomi et cognomi intarsia-tivi dentro di miei amici più cari et più cordiali, et occorrendomi far men-tione di personaggi et potentati supremi, parlo sempre con molta honore-volezza de cotesta Serenissima Repubblica, riverita et ammirata da me co-me un moderno miracolo, avvegna ch’io non habbia per fine pure imagi-nato il divulgare sì fatte inettie12.

Il proposito di non pubblicare cedeva presto alle pressioni di Marcellini e nel giro di due anni il manoscritto del primo volume era offerto da Vannozzi ai sodali dell’Accademia Veneta13. Non è

10. Scarano, Scenophylax, pp. 39-41. Conobbe Vannozzi forse all’epoca della

comune servitù presso casa Sfondrati, per la quale cfr. infra. 11. Lettere miscellanee, I, p. 158. 12. Ivi, p. 159. 13. Ivi, p. 110, a Marcellini, senza data. A chiusura del volume, p. 660, si ha

la lettera del 20 ottobre del 1604 con la quale Vannozzi recapitava il testo all’ac-cademia. E alla stessa data era sottoscritta la dedicatoria dell’opera. La messa a punto del manoscritto era stata preceduta da un lavoro di copiatura, la cui realizzazione, prevista inizialmente nell’arco di due mesi, si era prolungata per ben due anni. Spiegava infatti allo stampatore Ciotti: «vedutomi così ben ho-norato da quella illustrissima academia pensai di farle offerta del primo volume delle mie lettere et mi diedi subito a farne far la copia che per mille accidenti non è finita et non siamo più là che a ventidue quinternetti di cinque fogli l’uno. [...] Spero che basteranno due mesi a ridurla a perfettione» (Ivi, I, p. 586, senza data).

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oggi identificabile questo codice, né l’originale, censito nell’inven-tario dell’archivio privato dell’autore, che si conserva nella Biblio-teca Fabroniana di Pistoia in uno stato di quasi totale integrità, ec-cezion fatta per le lettere.14

Stando alle dichiarazioni introduttive del volume a stampa, l’o-pera raccoglieva una selezione delle lettere che l’autore aveva scritto per sé o per conto d’altri fra il 1573 e il 1604 e si presentava come il primo di una trilogia.15 Il carattere miscellaneo, che dava il titolo alla collezione, rimarcava la varietà del criterio distributivo delle let-tere, che prescindeva dalla moderna organizzazione per ‘capi’ e op-tava, almeno teoricamente, per un più tradizionale ordine cronolo-gico, che era però spesso disatteso e, soprattutto, risultava compro-messo nella sua intellegibilità in quanto era omessa la data di molte missive.

La raccolta si apriva sul biennio 1573-1574, che vide Bonifacio rettore dello studio di Pisa, dove si era laureato in utroque iure: una carriera promettente, stroncata però dalla morte del duca Cosi-mo.16 Le lettere successive, datate al 1582, testimoniano l’avvio del quasi decennale servizio di Vannozzi a Napoli come segretario di Orazio di Lannoy, potente principe di Sulmona,17 che egli accompa-

14. Il fondo non è mai stato oggetto di studio; inventariato da Mazzatinti,

senza però l’attribuzione a Vannozzi, è presentato in: ANNA AGOSTINI, La Fa-broniana di Pistoia. Storia di una biblioteca e del suo fondatore, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011, pp. 173-174. Il fondo comprende gli attuali mss. 206-217, 219-234, con il ms 235 che rappresenta l’inventario antico dei codici. Ivi, ad indicem, sono registrati due volumi di lettere: «tomo 12 lettere diverse di mon-signor Vannozzi. Tomo 13 Lettere et alcune annotationi del medesimo». Il tomo 13 è indicato come mancante.

15. «Il volume si può dire di lettere miscellanee perché non si sono ordinate né per materie, né per caratteri, né per capi, essendosi havuto risguardo più al tempo, che alle cose, se bene anco il tempo, non s’è osservato sempre. Non occorre dire il perché, ma il disordine, non è senza ordine. Tutte queste lettere sono scritte dall’anno 1573 fino al corrente 1604 per abbracciar tutto questo spatio della vita dell’autore col cenno di qualche cosetta operata da lui in esso, come nel leggerle si vede a un dipresso. Il secondo volume sarà anch’esso della medesima fatta miscellaneo, vario et multiplice. Il terzo volume sarà di negotii et di materie di stato non senza il tarsiamento di qualche varia lettione» (Lettere miscellanee, I, c. B2r).

16. Ivi, pp. 1-3. 17. Ivi, pp. 4-7. Sui Lannoy è utile MARIA ANNA NOTO, Élites transnazionali:

gli Acquasparta di Caserta nell’Europa asburgica (sec. XVI-XVII), Milano, Franco

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gnò nel 1585 in una missione diplomatica in Spagna per ottenere da Filippo II il Toson d’oro per il granduca Francesco I Medici.18 Il triennio successivo, dal 1585 al 1587, fu trascorso da Vannozzi a Torino nell’entourage del barone Paolo Sfondrati, ambasciatore alla corte sabauda per conto di Filippo II.19 Le missive datate si concen-trano nel 1587, sono indirizzate soprattutto al figlio di Sfondrati, l’abate Paolo Emilio, poi cardinale, e riguardano il riposiziona-mento della famiglia all’indomani della morte improvvisa del ba-rone nell’aprile di quell’anno.20

Nel prosieguo del volume le lettere abbracciano senza soluzione di continuità il periodo intercorso tra il ritorno a Sulmona/Vena-fro, alle dipendenze dei Lannoy, fra il 1588 e il 1590, e il già ricor-dato ritiro nell’ozio pistoiese dal 1598 al 1602, ma non è agevole contestualizzare le conversazioni epistolari perché molte lettere so-no prive degli elementi paratestuali e non appare sempre rispettato l’ordinamento cronologico.21 Si ricostruiscono però alcuni signifi-cativi scambi culturali che trovarono il loro centro gravitazionale nell’ambito delle accademie. A Napoli Vannozzi conobbe un ormai anziano Telesio e fu assiduo dei fratelli Della Porta e di Giulio Cor-tese con la sua Accademia degli Svegliati;22 a Torino fondò, per vo-lere dello stesso duca Carlo Emanuele I, l’Accademia degli Inco-

Angeli, 2018.

18. Lettere miscellanee, I, pp. 7-8. 19. Ho ricostruito il profilo del barone nel mio Il barone Sfondrati tra Milano,

Torino e Madrid. Diplomazia e affari di famiglia, in Lombardia ed Europa. Incroci di storia e cultura, a cura di Danilo Zardin, Milano, Vita e Pensiero, 2014, pp. 169-188.

20. Lettere miscellanee, I, pp. 15-20. Mi permetto il rinvio al mio Le origini devote dell’Umiltà torinese. I gesuiti, la corte sabauda e l’assistenza al femminile, in L’Umiltà e le rose. Storia di una compagnia femminile a Torino tra età moderna e contemporanea, a cura di Anna Cantaluppi e Blythe Alice Raviola, Firenze, Olschki, 2017, pp. 167-190, alle pp. 175-180.

21. Sono scritte per conto dei principi di Sulmona: Lettere miscellanee, I, pp. 25-29.

22. Sulle relazioni con il mondo culturale napoletano si vedano: MARIA SI-

MONA PEZZICA, Una galleria di intellettuali nel poema inedito di Giulio Cortese, «La rassegna della letteratura italiana», VIII, 1984, pp. 117-145; GIORGIO FULCO, Per il ‘museo’ dei fratelli Della Porta, nel suo La «meravigliosa» passione. Studi sul barocco tra letteratura e arte, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 251-325.

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gniti e nella Repubblica Serenissima fu ascritto, come abbiamo vi-sto, nella Accademia Veneta.23 Una pluralità di relazioni e apparte-nenze, grazie alle quali Vannozzi approfondì i suoi interessi verso la nuova scienza non meno di quelli letterari e/o storico politici.

Nel primo volume delle Miscellaneee si distinguono infine due sezioni relative ai due importanti incarichi romani rivestiti dal se-gretario pistoiese nell’ultimo decennio del Cinquecento. La prima raccoglie una selezione della corrispondenza che Vannozzi gestì du-rante i dieci mesi (dicembre 1590/ottobre 1591) del brevissimo pontificato di Gregorio XIV Sfondrati, in quanto segretario del car-dinal nipote, ovvero l’abate Paolo che aveva nel frattempo ricevuto il titolo cardinalizio di Santa Cecilia. 24 La seconda sezione riguarda l’incarico di segreteria assolto nel biennio 1596-98 al seguito del le-gato pontificio Enrico Caetani, inviato in terra polacca da papa Cle-mente VIII per preparare una lega in funzione antiturca, che a-vrebbe dovuto unire in un fronte comune i principali potentati del-l’Europa orientale, il principe di Transilvania Sigismondo Bathory, Massimiliano d’Asburgo figlio e il re polacco Sigismondo III Vasa.25

23. Ho analizzato la corrispondenza vannozziana in relazione all’Accademia

torinese degli Incogniti nel mio La Grande Galleria nel contesto dell’Italia spagnola (1580-1610 ca). Paralleli sabaudo-ambrosiani, in La Grande Galleria. Visione del mondo e sistemi del sapere nell’età di Carlo Emanuele I, a cura di Franca Varallo e Maurizio Vivarelli, Roma, Carocci, 2019, pp. 131-167. Ancora da indagare i rapporti con i sodali della senese Accademia dei Filomati: Lettere miscellanee, I, p. 534, ad Agostino Bardi; ivi, p. 599, a Celso Cittadini (Cfr. GIANFRANCO

FORMICHETTI, Cittadini, Celso, in DBI, XXVI, 1982, pp. 71-75). Ibidem lodava «le spiritosissime poesie del signor Gismondo Santi, ne Filomati lo Spaparato».

24. Ivi, pp. 254-303, p. 254: «nel pontificato della santa e veneranda memoria di Gregorio XIV». Vannozzi rivestì l’incarico dal marzo del 1591 fino alla morte del pontefice e poi rimase a servizio di casa Sfondrati come conclavista del car-dinale di Santa Cecilia per l’elezione di papa Innocenzo IX.

25. Le lettere, di carattere diplomatico, erano annunciate da una «Avvertenza», che segna uno stacco anche grafico nel volume: ivi, p. 347. Stando all’inventa-rio dell’archivio Vannozzi, il tomo 8 comprendeva «le lettere diverse di mons. Vannozzi nella legatione dell’illustrissimo cardinale Caetano», ma il codice è oggi mancante. Su questa legazione: JAN WLASDYSLAW WOŚ, Istruzione al car-dinale Enrico Caetani per la sua missione in Polonia negli anni 1596-1597, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», Serie III, 6, 1976, pp. 929-953. Ancora utile, soprattutto per lo scavo delle fonti prima-rie, è il lavoro di SEBASTIANO CIAMPI, Bibliografia critica delle antiche e reciproche corrispondenze politiche, ecclesiastiche, scientifiche, letterarie, artistiche dell’Italia colla Russia, colla Polonia ed altre parti settentrionali il tutto raccolto ed illustrato con brevi

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All’interno di questa sezione ottenevano particolare risalto le let-tere che annunciavano prima «l’entrata in Cracovia [..] alli 7 di giu-gno in domenica 1596» e poi quella «in Varsavia il 24 settembre», nonché i resoconti «dell’andata del Vannozzi due volte al gran can-celliere di Polonia d’ordine dell’illustrissimo» .26

A questa imponente e suggestiva apertura europea, che non è possibile qui seguire nel suo svilupparsi di tappa in tappa, rispon-deva, nella chiusa del volume, una nuova focalizzazione sul ritiro pistoiese e sulle relazioni amicali ivi intrattenute con diversi espo-nenti delle famiglie cittadine più in vista: Sozzifanti, Panciatichi, Riccardi, Baldinotti. Alcune lettere si distendono in forma di brevi trattati nei quali Vannozzi riveste il ruolo di maestro e istitutore dei giovani nobili pistoiesi soprattutto per quanto attiene all’ufficio di segreteria e dello scrivere lettere. Meriterebbe di essere approfon-dito il giudizio negativo espresso sul trattato Del segretario di Tasso e sul primo volume delle sue lettere nella corrispondenza con i gio-vani Fabio Taviani e Bartolomeo Sozzifanti.27

Fra la data di consegna del manoscritto delle Miscellanee all’Ac-cademia Veneta, il 10 ottobre 1604, e l’uscita del volume nel 1606 si ebbero due anni di attesa, documentata, nei suoi timori e nelle sue perplessità, dal secondo volume delle lettere, del tutto analogo, per contenuti e struttura, al primo, ma ben diverso per il suo con-testo di appartenenza: non più la Serenissima, ma Roma, non più l’Accademia Veneta, ma la corte papale. Un passaggio netto, da va-lutare alla luce della biografia di Vannozzi, che nel 1604 rientrava a Roma, e delle contemporanee vicende storiche, segnate dalla ten-sione crescente tra la Serenissima e lo Stato della Chiesa per il con-flitto dell’Interdetto nel biennio 1606-1607.

Roma 1608: l’arcicorte del mondo

Pur pubblicato nel 1608, ormai all’indomani della risoluzione di-plomatica di questo scontro giurisdizionale, il secondo volume del-la trilogia segnava una scelta di campo precisa e prudente, perché si poneva sotto l’egida della protezione papale con la dedica rivolta

cenni biografici degli autori meno conosciuti, Firenze, Leopoldo Allegrini e Gio-vanni Mazzoni, 1834, pp. 102-121.

26. Lettere miscellanee, I, p. 373; 402; 500. 27. Ivi, pp. 117-118, pp. 625-626, senza data.

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a Giovanni Battista Vittori, nipote di Paolo V Borghese, intransi-gente difensore delle prerogative ecclesiastiche rispetto alle rivendi-cazioni del doge Leonardo Donà. 28

Vannozzi si era schierato fra i primi a difesa della chiesa di Ro-ma, intervenendo nella disputa giurisdizionale, combattuta soprat-tutto a mezzo stampa, con due sue opere di cui si parla ripetuta-mente nel secondo volume delle miscellanee: una «scrittura fatta negli accidenti veneti», composta di getto fra il primo e il due mag-gio 1606,29 e un «Antiapologetico», nel quale sosteneva il parere for-mulato in concistoro dal cardinale Ascanio Colonna e stampato nel 1606, difendendolo dalle critiche di parte avversa.30

Tanta determinazione nello scrivere quanto gli dettava «la co-scienza», pur «senza mordere o sussannare la Repubblica», non im-pedì a Vannozzi di distendere nel tempo le sue relazioni con gli a-mici veneti, i letterati Scarano e Marcellini, elogiati quali «padri et maestri del dire et dello scriver purgatamente», e il senatore Cappel-

28. Delle lettere miscellanee del sig. Bonifatio Vannozzi, dottor pistolese et protonotario

apostolico. Volume secondo. All’ill.mo et rev.mo signore il sig. Giambattista Vittori, nipote della maestà santissima di Nostro Signore papa Paolo Quinto, In Roma, ad instanza di Gio. Paolo Gelli, 1607, appresso Pietro Manelfi.

29. Ivi, pp. 105-106, al cardinale di Camerino da Frascati il 12 maggio 1606. L’opera riceveva l’approvazione del cardinale Bellarmino, che la presentava a Paolo V, auspicandone la pubblicazione, come si evince dallo scambio episto-lare del 3 giugno 1606 con Bartolomeo Bernardi, segretario del cardinale: ivi, pp. 449-450. L’opera non giunse però alle stampe, diversamente dai «quaran-totti nuovi autori» che nei mesi successivi avevano pubblicato «a difesa delle ragioni del papa»: ivi, pp. 549-550, a mons. Lunadoro vescovo da Roma, data-bile al maggio 1607. Si può identificare l’opera con Il trattato «Un prete to-scano a un prete venetiano: scrittura fatta dal Vannozzi ne romori di Venetia» nel codice della British Library, Add ms. 8294, ff. 109-120.

30. Vannozzi lo definisce un «Antiapologetico contro l’Apologia fatta al voto dell’illustrissimo cardinale Colonna»: ivi, p. 549. Lo mandava in lettura il 10 settembre del 1606 a Lelio Guidiccioni (ivi, p. 450) e il 24 novembre ne rice-veva una copia Orazio Lucchesini (ivi, p. 463 e sgg.). Non ancora soddisfatto, Vannozzi attendeva l’uscita dell’ultimo tomo, il dodicesimo, degli Annali di Ba-ronio, che sarebbe stato edito nel 1607, per compilare, con l’ausilio di questa fonte, un’opera davvero esaustiva: ivi, p. 178, lettera a Girolamo Baldinotti. È disponibile online la traduzione volgare dello scritto del cardinale: ASCANIO

COLONNA, Parere contra i vescovi della Repubblica di Venezia, non obediente all’In-terdetto del Santissimo N. S. Pauolo papa V messo in lingua volgare da Girolamo Bon-doni senese, Siena, Salvestro Marchetti, 1606.

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lo31 . Al fiorentino Ottavio Ricasoli Baroni, di stanza a Venezia, Vannozzi si rivolgeva, nel maggio del 1606, per sbloccare la pubbli-cazione delle sue lettere:

Passano quindici mesi ch’io presentai il primo volume delle mie Lettere Miscellanee a cotesti signori dell’Academia Veneta et da essi fu poi data a stampare al Ciotti che sul primo faceva le furie et voleva haverlo impresso et finito in un mese, ma raffreddandosi a poco a poco quell’impeto, et non so perché, ci ha condotti fin hoggi, senza farmene veder pur un foglio.32

A distanza di un mese, egli riceveva il primo sospirato foglio del-

le Miscellanee, rimanendone però sconcertato e per la scarsa qualità della grafica, che per ragioni di mero risparmio affastellava caratteri piccoli e poco leggibili, e per le numerose scorrettezze ortografi-che.33 Le migliorie richieste non dovettero essere apportate, se è ve-ro che il «volume impresso» risultava «mutolo e infermo»,34 ma Van-nozzi si contentò che le «difficoltà ciottiche» fossero superate e che

31. Lettere miscellaneee, II, p. 505, a Marcellini da Roma il 31 marzo 1607.

Vannozzi pubblicava anche una lettera in lode di Scarano, scritta per conto del cardinale Sfondrati da Roma nell’agosto del 1591: ivi, pp. 149-150. A questa lettera accennava ivi, p. 472. Da ultimo pubblicava, indirizzandola all’amico pistoiese Baldinotti, una lettera scritta da Marcellini in lode di Scarano e del senatore Cappello in data 10 dicembre 1606: ivi, pp. 498-503.

32. Ivi, pp. 370-371. A Ottavio Ricasoli Baroni, maggio 1606. 33. Se ne lamentava con Ricasoli: ivi, p. 372, giugno 1606. Spiegava più diffu-

samente i problemi in una lettera a Marcellini «Dello stampare le sue lettere»: ivi, pp. 63-64, senza data, ma riferibile al giugno del 1606 per il confronto con la precedente a Ricasoli.

34. Ivi, p. 453, al padre Laghi da Lugano, il 12 settembre 1607. Nell’inviare all’amico il volume, Vannozzi lasciava intuire che la scarsa qualità dell’opera dipendeva dallo scarso investimento economico da parte dell’editore, che pure si era offerto di pubblicare l’opera a sue spese: «Io non ho speso nel farle stam-pare, prima perché l’Academia Veneta, alla quale le donai, giudicò che fosse ben publicarle, et poi essendo stampator dell’Accademia il Ciotti, a lui parve che dovesse darsene la cura, massime procurandol egli con grandissima istanza. A lui si diede l’originale, sano, ed intero et da lui uscì poi l’impresso, mutilo et infermo». Vannozzi si scusava con padre Laghi per non aver trovato il tempo di correggere di suo pugno gli errori di stampa, come già fatto in alcune copie: «Ve l’harei corrette, come ho fatto ad altri, ma la fatica era grande et il mio agio è poco, trovandomi occupatissimo» (ibidem). Non si conoscono ad oggi esem-plari di queste copie corrette.

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l’opera giungesse al fine in stampa.35 Le lettere andarono incontro ad alcune critiche in merito alla

mescolanza del latino con il volgare, alla lunghezza eccessiva e al-l’impiego di una metafora «troppo dura» per aver «assomigliato la febre all’eclisse solare».36 A queste accuse replicarono gli amici Mar-cellini e Scarano, ma anche i toscani Pierlorenzo Forteguerri e Atto Cellesi, le cui scritture difensive furono pubblicate fra i paratesti introduttivi del secondo volume.37 Al di là delle critiche, Vannozzi si dichiarava lusingato dal successo di pubblico: «il primo volume dà gusto a molti et si smaltisce assai bene crescendo di prezzo et di credito».38

La stampa del secondo volume delle Miscellanee procedette ben più speditamente. Tra febbraio e marzo del 1608 Vannozzi riceveva i primi fogli da Pietro Manelfi, «sollecito nello stampare»,39 e il 10 luglio sottoscriveva l’ultima lettera della raccolta, indirizzata al de-dicatario, Giovambattista Vittori, al cui «Real Palazzo» venivano in-viate le miscellanee.40 La buona riuscita dell’impresa editoriale si doveva alle cure del cavaliere senese Girolamo Lunadoro, che aveva prestato il suo «assiduo e quotidiano aiuto» nel mantenere lo stam-patore «nella sua diligenza» ed aveva introdotto l’autore nelle grazie del potente e munifico mecenate scelto come dedicatario, il nipote di Paolo V, della cui corte egli partecipava.41

Questa raccolta epistolare manteneva una struttura analoga alla precedente, della quale conservava un criterio di ordinamento mi-scellaneo, improntato alla varietà. Rimaneva prevalente una dispo-sizione cronologica delle lettere che cominciavano «di molti anni

35. Ivi, p. 372. A Ricasoli Baroni senza data. 36. Ivi, p. 7: «A chi legge». 37. Ivi, pp. 10-18. Prese le sue difese anche Pietro Andrea Canoniero in una

lettera a Iacopo Panciatichi, senza data: ivi, pp. 489-493. 38. Ivi, pp. 7-8. Le copie del volume scarseggiavano fra Siena e Firenze già fra

gennaio e febbraio del 1607, come si evince dallo scambio con Aliprando Lu-nadoro ivi, pp. 451-452.

39. Ivi, p. 624, a Girolamo Lunadoro da Pistoia. La lettera è databile al marzo del 1608, all’indomani del rientro di Vannozzi da Roma a Pistoia: cfr. ivi, p. 623.

40. Ivi, p. 627. 41. Ivi, p. 624. Per un profilo biografico: FILIPPO CRUCITTI, Lunadoro, Giro-

lamo, in DBI, LXVI, 2007, pp. 554-557.

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addietro» per venire poi «di mano in mano fin al dì d’hoggi».42 La «compilatione» iniziale risaliva almeno al 1602 e già nel 1604 Van-nozzi andava «mettendo insieme il secondo volume di lettere in su l’andar delle prime», di cui inviava il manoscritto allo stampatore Ciotti.43

La complementarietà fra i primi due volumi è evidente, soprat-tutto per quanto attiene il nucleo più antico delle lettere «raccolte e messe insieme» nell’edizione del 1608. Vi si ritrovano corrispon-denti e temi già noti. Si approfondiscono le relazioni intessute nel pur breve, ma intenso, soggiorno alla corte dei Savoia e quelle di-stese nel tempo del lungo servizio alle dipendenze dei Lannoy, fra Napoli, Sulmona e Venafro; si riconoscono infine gli amici toscani, con i quali erano intessute nell’ozio pistoiese più articolate conver-sazioni in materia di segreteria e di scrittura epistolare e letteraria. In analogia con il primo volume, si distinguono due sezioni speci-fiche che riconducono all’esperienza romana di segretario del car-dinale nipote Paolo Emilio Sfondrati: «cento lettere» scritte a suo nome «nel pontificato del glorioso pontefice suo zio, Gregorio XIV» e «più lettere per la morte di papa Gregorio XIV».44

Inframmezzati alle lettere, personali o di servizio, si trovano nel secondo volume scritti e carteggi di altri autori/segretari a vario ti-tolo legati all’attività dell’autore. Si possono leggere due testi di de-dica indirizzati dal toscano Fidelissimi a Vannozzi,45 ma anche tre

42. Dichiarava l’autore «a chi legge»: «Anco in questo volume non habbiamo

tenuto conto del tempo, perché non è necessario et non si sono etiandio sem-pre unite et continuate tutte le lettere contenenti un medesimo genere o carat-terismo di scrivere, perché né anco questo importa molto et la varietà ci diletta. Le lettere cominciano molti anni addietro et vengon di mano in mano fin al dì d’hoggi, come facemmo appunto nell’altre del primo volume» (Lettere miscel-lanee, II, c. A4r).

43. Lettere miscellanee, I, p. 586. In una lettera databile al 1602, l’autore an-nunciava: «Sono d’intorno alla compilatione del secondo volume delle mie let-tere, raccolte et messe insieme non con la limitatura né cultura da finir di con-tentarsene, ma tali che potranno esser lette da’ miei benevoli, massime che in me non fu mai tentatione né ambitione alcuna di doverle esporre agli occhi et al giuditio del pubblico» (ivi, I, pp. 516-517).

44. Ivi, p. 125; p. 165. 45. Ivi, II, pp. 297-299. Le opere che Fidelissimi dedicava a Vannozzi erano

una «raccolta di poesie latine et volgari nella morte di due cavallieri pistolesi il sig. Pietro Montemagni et il sig. Bati Rospigliosi» e un trattato «De senum sa-nitate tuenda».

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lettere ufficiali del cardinale Silvio Antoniano durante l’episcopato di Gregorio XIV e diversi materiali relativi alla legazione polacca del cardinale Caetano.46 I lavori altrui, segnalati anche graficamente con l’adozione di un diverso carattere di stampa, sono spesso in-quadrati da brevi note iniziali o finali di commento che ne mettono in evidenza l’interesse, relativo ai contenuti dei testi proposti o alla loro forma epistolare.

Rispetto a questo nucleo più antico, il secondo volume si arric-chiva delle corrispondenze epistolari successive al 1604 che docu-mentavano il rientro di Vannozzi a Roma per un quadriennio, sino al febbraio del 1608. A ricompensa del lavoro svolto nella legazione polacca, Vannozzi aveva ricevuto nell’ottobre del 1604 la nomina a protonotario apostolico e nel dicembre dello stesso anno era stato richiesto nella segreteria di Cinzio Passeri Aldobrandini, cardinale di San Giorgio, nipote del papa, che gestiva con il fratello Pietro la Segreteria di Stato, occupandosi specificamente della gestione degli affari di Germania, Polonia e Italia.47 Vannozzi tornava così ad oc-cuparsi delle delicate vicende dell’Europa centro-orientale, metten-do a frutto la sua esperienza passata, come attestano le 52 lettere scritte nel corso del 1605 per conto del cardinale in merito alla rivolta ungherese guidata dal «Boscai», István Bocskai. Erano pub-blicate nel secondo volume delle miscellanee insieme a numerose altre di segreteria, divise per occasioni d’uso.48

Questo servizio presso il cardinale di San Giorgio permise a Vannozzi di stringere proficue relazioni amicali e intellettuali con nomi illustri della corte aldobrandina che ai suoi occhi appariva co-

46. Ivi, pp. 313-318; 320-326. 47. Vannozzi ringraziava il cardinale che lo aveva voluto «appresso di sé», al

«suo servitio» con una lettera da Pistoia, il 30 dicembre del 1604 cui Aldobran-dini rispondeva il 14 gennaio 1605: ivi, pp. 184-185. Due lettere non datate di ringraziamento al cardinale anche ivi, I, pp. 308-309. Sul cardinale: ELENA FA-

SANO GUARINI, Aldobrandini (Passeri), Cinzio, in DBI, II, 1960, pp. 102-107; della medesima, Aldobrandini, Pietro, in DBI, II, 1960, pp. 107-112.

48. Vannozzi numerava 120 lettere scritte per Cinzio Aldobrandini, cardinale di San Giorgio e di queste le prime 52 riguardavano le cose d’Ungheria: Lettere miscellanee, II, pp. 185-245, 185-213. Seguivano altre due sezioni: «sei lettere responsive per le buone feste» (ivi, pp. 246-248); «Ventiquattro lettere rispon-sive a diversi nella morte di papa Clemente VIII» (ivi, pp. 248-257). Ibidem si legge: «qui finiscono le lettere dell’illustrissimo di San Giorgio».

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LE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

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me una «pubblica accademia» e un «seminario di virtuosi».49 Fra loro figurano corrispondenti delle Miscellanee il casalese Angelo In-gegneri,50 Piero da Nores, di cui Vannozzi ammirava molto anche il padre Giasone,51 nonché Alessandro Borghi, già vescovo di San Sepolcro, e l’abate Lanfranco Margotti, segretario del cardinale di San Giorgio sin dal 1596.52 La sua raccomandazione era stata deter-minante nella nomina di Vannozzi a protonotario apostolico.53

Nel breve giro di un anno però il segretario pistoiese lasciava il suo incarico, complice la delusione per la morte improvvisa di Cle-mente VIII, nel quale doveva aver riposto le sue speranze.54 Pur con-tinuando ad affiancare il cardinale di San Giorgio per tutto il 1605,

49. Ivi, II, p. 62. All’amico pistoiese Pierlorenzo Forteguerri scriveva di vedersi

«accarezzato, honorato et trattato con quella benignità che è tanto propria di questo principe purpurato, la cui tavola è una pubblica accademia, la cui casa è un seminario di virtuosi, la cui persona è fregiata et ricamata d’ogni virtù et d’ogni bontà». Già in Lettere miscellanee, I, p. 105, Vannozzi ricordava la «pleiade di cappati e di finissimi virtuosi» che erano commensali del cardinale e citava Giovanni Battista Raimondi, «huomo di tanta letteratura, di tanta dot-trina, di così esquisita notitia di scienze, et di lingue». Una sua lettera a Rai-mondi ivi, pp. 186-187. Su Raimondi: MARIO CASARI, Raimondi, Giovanni Bat-tista, in DBI, LXXXVI, 2016, pp. 221-224.

50. Vannozzi pubblicava e commentava con Angelo Ingegneri uno scambio epistolare fra Paolo Giovio e mons. Conversini: Lettere miscellanee, II, pp. 303-310. Lo aveva ricevuto da un erede di Conversini, primicerio della cattedrale di Pistoia, al quale scriveva il 28 dicembre 1596: Lettere miscellanee, I, p. 247. Un’altra missiva non datata a Ingegneri ivi, I, p. 306. Su Ingegneri è disponibile ora GUIDO BALDASSARRI, Angelo Ingegneri. Itinerari di un ‘uomo di lettere’, Vi-cenza, Accademica Olimpica, 2013.

51. Lo si evince dall’unica lettera edita, nella quale Vannozzi ricorda anche il comune servizio presso il cardinale Sfondrati: Lettere miscellanee, II, p. 175. Pa-dre e figlio de Nores furono in rapporto con Francesco Patrizi, ammirato da Vannozzi, che lo ebbe fra i suoi corrispondenti: ivi, I, p. 115, 309. Sui de Nores si veda: ANGEL NICOLAOU-KONNARI, Francesco Patrizi’s Cypriot connections and Giason and Pietro de Nores, in Cyprus and the Renaissance (1450-1650), edited by Benjamin Arbel, Evelien Chayes, Harald Hendrix, Turnhout, Brepols, 2012, pp. 157-204.

52. Per Margotti si veda: MARCO MAIORINO, Margotti, Lanfranco, in DBI, LXX, 2008, pp. 180-183. Per la corrispondenza con Vannozzi cfr. infra.

53. A novembre del 1604 Vannozzi scriveva a Margotti una lettera «Di congra-tulatione e di rendimento di grazie per il breve apostolico di protonotario» (Let-tere miscellanee, III, pp. 291-292).

54. Scriveva a mons. Caccia vescovo di Pistoia: «Se papa Clemente sopravvi-

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all’inizio del 1606 egli cedette il suo posto a un giovane promet-tente, Scipione Pasquali, e si ritirò a vita privata, pur mantenendo rapporti stretti con la corte pontificia di Paolo V Borghese.55

Li garantiva anzitutto Lanfranco Margotti, confermato alla se-greteria di stato dal papa neoeletto.56 Ai suoi buoni uffici Vannozzi si appellava per la stampa del secondo volume delle lettere, quando, nel settembre del 1606, gli inviava il primo, appena edito. Lo stimolo dell’honore è grandissimo, et havendol io avventurato nel per-metter la publicatione del primiero volume, vorrei guardarmene nel divul-gare il secondo. Ma nol so, et nol posso fare senza l’aiuto d’huomo che del pari ama e sappia. Aiutimi, pertanto, et giovimi la Signoria Vostra Reveren-dissima, che passandomi per tanto suo, non può non haver cara la reputa-tion mia.57

Non conosciamo la responsiva di Margotti, ma dovette essere positiva, se il suo segretario, Girolamo Lunadoro, seguì personal-mente, come abbiamo visto, l’iter editoriale delle miscellanee. Negli stessi giorni di settembre, seguendo una accorta strategia autopro-mozionale, Vannozzi ricercò e ottenne anche il sostegno di altri in-signi segretari/letterati della corte pontificia, a lui legati da un rap-porto di stima reciproca: Alessandro Borghi, vicario di Paolo V;58 Antonio Querenghi, cameriere segreto di Paolo V e ancor prima precettore del di lui nipote Giovan Battista Vittori;59 Giulio Cesare

veva ancora qualche mese era facil cosa che Vossignoria Reverendissima ve-desse un suo gran servitore occupato in curia in qualche honorato esercitio. Ma la mala ventura di cotesta mia patria o la mia propria disgratia o piuttosto il mio merito è tale che tre Papi mi son morti quasi prima che haverli veduti»: Lettere miscellanee, II, p. 64, da Roma senza data.

55. Ivi, p. 103, lettera a Girolamo Baldinotti da Roma, non datata. 56. Sui segretari alla corte di Paolo V con un bilancio bibliografico: ANTONIO

MENNITI IPPOLITO, Paolo V e la Curia, in Religiosa Archiviorum custodia. IV cen-tenario dell’Archivio Segreto Vaticano (1612-2012), Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2015, pp. 87-98.

57. Lettere miscellanee, II, p. 483, da Roma, settembre 1606. 58. Ivi, pp. 482-483. Altra corrispondenza ivi, pp. 29 e 358. 59. Ivi, p. 484. Vannozzi si congratulava per la nomina a cameriere del papa

ivi, p. 111. Nel primo volume si ha una lettera, non datata, indirizzata da Pistoia a Padova, «emporio grandissimo di virtù e de’ virtuosi»: ivi, I, p. 559. Per la biografia intellettuale di Querenghi: UBERTO MOTTA, Antonio Querenghi (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Milano, Vita e

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LE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

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Bagnoli, segretario del principe di Venafro Michele Peretti, e Por-firio Feliciani, allora segretario del cardinale Silvestro Aldobrandi-ni e prossimo ad entrare nella cancelleria papale.60 Inviando a cia-scuno il primo volume, fresco di stampa, il segretario pistoiese pro-spettava l’uscita del successivo, per il quale chiedeva lumi e pareri. A dicembre dello stesso anno Tiberio Gambaruti, già segretario di Vittori, aveva il privilegio di scorrere «il secondo volume prima che fosse consegnato allo stampatore per imprimerlo» e ne ringraziava Vannozzi: «dalla lettura di esso», diceva, «ho appreso più che dalle proprie mie fatiche e studio fatti per molti anni continui in questo esercitio».61

In tutti questi personaggi riconosciamo quei «signori segretari dela corte romana, arcicorte del mondo», cui Vannozzi indirizzava le sue Miscellanee, subito dopo la dedica encomiastica a Vittori.62 L’autore finalizzava l’esercizio della scrittura epistolare, il «saper scrivere», alla «professione della segreteria», di cui aveva fatto preci-pua esperienza entro le strutture di governo della corte pontificia di Roma, da quella di Gregorio XIV a quella di Paolo V, che dive-niva per lui la corte per eccellenza, l’arcicorte dell’esercizio di que-sta professione.63 Vi riconosceva professionisti eccellenti, quali Por-firio Feliciani, «arcigrammateo» della segreteria, ed era a sua volta

Pensiero, 1997.

60. Lettere miscellanee, II, pp. 480-481, p. 486. Per i due letterati si rimanda a: NICOLA DE BLASI, Bagnoli, Giulio Cesare, in DBI, V, 1963, p. 264; FRANCO

PIGNATTI, Feliciani, Porfirio, in DBI, XLVI, 1996, pp. 79-82. Per un approfon-dimento: CLIZIA CARMINATI, «Doverà astenersi da versi satirici». Una lettera di Porfirio Feliciani al Marino, «Schede Umanistiche», XXIX, 2015, pp. 73-84.

61. Lettere miscellanee, II, p. 503. La lettera era datata al 27 dicembre 1607. Su Gambaruti: DARIO BUSOLINI, Gambaruti, Tiberio, in DBI, LII, 1999, pp. 86-87.

62. Il testo di dedica era datato al novembre 1607. Vi si legge: «Molti delle Signorie Vostre stimati et honorati da me, con affetto singolarissimo hanno inteso, in voce, il disegno, che ho havuto, nella pubblicatione di queste mie lettere; et havendolo approvato, udendolo io, debbo sperare, che lo conferme-ranno, anco, mentre non sento»: Lettere miscellanee, II, p. 9. Fra i segretari cor-rispondenti di Vannozzi si annovera anche Lelio Guidiccioni.

63. «Anzi è la Corte di Roma, la nuova Roma ‘tridentina’, con tutte le sue istanze di disciplinamento e di organizzazione omogenea dei sudditi/fedeli, è la nuova Roma barocca, con il suo recuperato primato culturale, a costituirsi in centro modellizzante per la professione del segretario e la forma dell’episto-lografia: questa Roma “arcicorte”»: AMEDEO QUONDAM, Varianti di Proteo: l’Accademico, il Segretario, in Il segno barocco. Testo e metafora di una civiltà, a cura

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esaltato sino al grado di «primo segretario d’Europa» riconosciuto-gli dal principe di Venafro per il tramite di Bagnoli.64

Sarebbe interessante, come pista futura di approfondimento, comprendere in che misura l’opera di Vannozzi sia stata di modello per gli epistolari di questi importanti segretari, da quello di Lan-franco Margotti, a cui arrise un notevole successo editoriale, a quel-lo di Feliciani, che nella sua imponenza si conserva oggi inedito, nonostante i tentativi e i progetti secenteschi per arrivare a una sua pubblicazione, almeno parziale.65 Per ora possiamo qui solo osser-vare che l’arcicorte accolse con favore le Miscellanee e il secondo volume conobbe una ristampa nel 1614 per i tipi di Giacomo Ma-scardi.66 Questa operazione editoriale trasformava la raccolta episto-lare proprio in un manuale rivolto ai segretari, un Teatro di segrete-ria, come recita il titolo. Il contenuto, per quanto identico all’edi-zione del 1608, era arricchito di due paratesti intesi a facilitarne e adattarne la fruizione ad uso dei segretari: sin dal frontespizio si an-nunciavano «due tavole, una delli capi e l’altra delle materie più necessarie».

Interessante, nella sua polisemia, la metafora del Teatro che da-va il titolo alla ristampa. Richiamava da una parte alle ambiziose rappresentazioni mnemotecniche del sapere, che erano una delle a-spirazioni degli uomini del Rinascimento;67 dall’altra si prestava a rappresentare il gioco delle apparenze cortigiane di cui Vannozzi stesso era stato vittima, come confidava ad un amico:

di Gigliola Nocera, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 163-192, p. 190.

64. Lettere miscellanee, II, p. 480, 487. 65. Per la rilevanza di Margotti e Feliciani nel panorama dell’epistolografia

secentesca rimando a CARMINATI, La lettera del Seicento, pp. 96-99. 66. Teatro di segreteria copioso di varie sorti di lettere scielte in materie così publiche

come private, utili a segretarii de prencipi, legati, nuntij et altri personaggi. Del Sig. Bonifatio Vannozzi protonotario apostolico. Con due tavole, una delli capi e l’altra delle materie più necessarie, In Roma, appresso Giacomo Mascardi, 1614.

67. Al «signor Matteo Rossi» Vannozzi proponeva la lettura di due opere di Teodoro Zwinger, il Theatrum vitae humanae, che «è una biblioteca di molti vo-lumi», e la Morum philosophia poetica, «tutta poetica, cavata da poeti greci e latini, sotto i suoi capi, con un metodo maraviglioso»: Lettere miscellanee, III, p. 732. Erano i capisaldi della cultura enciclopedica cui si era ispirato, fra gli altri, il progetto del Theatrum omnium disciplinarum promosso dal duca Emanuele Fili-berto: cfr. FRANCA VARALLO, Libri, natura e immagini: il mondo ri-creato della Grande Galleria. Studi e prospettive, in La Grande Galleria, pp. 169-194.

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Comparvi anch’io una volta in cotesto arciteatro, et vi rappresentai la mia scena, vidi in altrui et provai in me stesso le metamorfosi di quella proto-corte, et quantunque vi sia chi compassionandomi si dolga per me di quel-lo che poteva essere et non fu, io per tutto ciò non me ne rammarico pun-to, anzi ringratio humilmente l’architetto di quell’apparato ch’io chiamo comico et non come fanno altri tragico.68

Non fu Roma l’unica corte a deludere Vannozzi. Un’altra co-cente delusione lo attendeva nella ‘sua’ Firenze all’aprirsi del secon-do decennio del Seicento, come si evince dall’ultimo volume della trilogia epistolare, al quale conviene ora guardare.

Bologna 1617: i rapporti con il Granducato di Toscana

Per il tramite del pistoiese Iacopo Panciatichi, vicario di Bologna, il primo volume delle Miscellanee giunse nella città felsinea entro l’ottobre del 1606, recando con sé anche l’annuncio del secondo di imminente pubblicazione, e trovò il favore del già menzionato Giulio Segni.69 Docente allo studio cittadino, egli si fece portavoce del gradimento espresso pure dai bolognesi Ascanio Persio, «lettor pubblico delle lettere greche in questo studio», e Melchiorre Zop-pio, «filosofo e dottor pubblico», ed omaggiò il suo interlocutore dei frutti della propria attività di promotore editoriale: «ho dato in mano a monsignor vicario con due epigrammatiche il Tempio in honore del signor cardinale Cinthio Aldobrandino, mio padrone, et insieme la Medea del sig. Zoppio».70

L’interesse di Segni e del collega Zoppio si appuntava in parti-colare sui «Discorsi politici» di Vannozzi.71 Si trattava di quei «tre buoni volumi di Regole miscellanee et d’Avvertimenti politici et morali», che il pistoiese, mentre ancora attendeva al manoscritto delle Miscellanee, aveva «medesimamente all’ordine» sin dal 1602.72

68. Lettere miscellanee, I, p. 88, a Rodolfo Marchetti. 69. Ivi, II, pp. 608-609, Vannozzi da Roma a Giulio Segni, ottobre 1607. 70. Ivi, pp. 609-610, Segni da Bologna a Vannozzi, 10 novembre 1607. 71. Ibidem. Il 17 novembre 1607 Vannozzi scriveva a Melchiorre Zoppio, che

rispondeva il successivo 24 novembre: ivi, pp. 609-610. 72. Ivi, I, p. 586. È la lettera a Ciotti, databile al 1602. Annunciava similmente

ad Alessandro Borghi: «Sono anco arrivato a serrare il secondo volume dei miei Avvertimenti politici, morali et christiani, molti in numero et spero non deb-bano parer pochi etiam in pondere» (ivi, p. 517).

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Diversamente dalle lettere, però, questi materiali rimanevano ma-noscritti, e fu solo grazie alla volontà di Giulio Segni e alle premure di Zoppio che videro la luce a Bologna rispettivamente nel 1609, 1610 e 1613.73

A coronare la trilogia degli Avvertimenti fu pubblicato a Bologna anche il terzo ed ultimo volume delle Miscellanee nel 1617. Van-nozzi proponeva quest’ultima impresa editoriale a Segni, che l’ac-cettava di buon grado nella primavera del 1615. Mi ritirerò la vicina state in villa aiutandomi Dio e in quell’ozio […] vedrò di mettere insieme tante delle mie lettere, da compilarne il terzo volume, che se ne verrà poi in poter di Vostra Signoria, acciò essa e l’eccellentissimo signor Zoppio lo cimentino e ne faccian quel che parrà non all’amor che mi portano […], ma alla finezza del lor giudizio, che non erra.74

Le ‘tante’ lettere riguardavano anzitutto il suo ultimo servizio a corte, che lo riconduceva a Firenze, da buon suddito del Grandu-cato di Toscana. Fra il settembre il dicembre del 1609 Cristina di Lorena, rimasta da poco vedova del granduca Ferdinando I, aveva scelto un ormai anziano Vannozzi, che per la seconda volta si era ritirato a vita privata nella sua Pistoia, quale segretario per suo figlio Francesco, avviato, secondo i piani strategici della famiglia, alla car-riera curiale.75 Per questo Vannozzi fu anche incaricato di seguire

73. I tre volumi, che, come le lettere, venivano a comporre una trilogia, usci-

rono dalla stamperia di Giovanni Rossi. Il primo volume fu dedicato al cardi-nale legato di Bologna Benedetto Giustiniani: BONIFACIO VANNOZZI, Della supellettile degli avvertimenti politici, morali et christiani, I, Bologna, Eredi di Gio-vanni Rossi, 1609. Il secondo era indirizzato a Firenze, al principe Francesco Medici, ed era corredato da «una tavola copiosissima di tutte le cose più notabil ridotte sotto le loro materie»: BONIFACIO VANNOZZI, Della supellettile degli av-vertimenti politici, morali et christiani, II, Bologna, eredi di Giovanni Rossi, 1610. Il terzo, anch’esso corredato dalla tavola delle materie, fu indirizzato a Roma, al cardinal Montalto: BONIFACIO VANNOZZI, Della supellettile degli avvertimenti politici, morali et christiani, III, Bologna, eredi di Giovanni Rossi, 1613.

74. Lettere miscellanee, III, pp. 664-665, p. 665. Segni rispondeva affermativa-mente da Bologna il primo maggio 1615: ivi, pp. 669-671.

75. Si possono seguire le varie fasi della presa di servizio a corte. L’8 settembre Belisario Vinta, primo segretario del granduca, convocava a corte Vannozzi (ivi, pp. 545-546), che vi si recava il 3 di ottobre: «Hieri venni qui, chiamato da queste Altezze serenissime, per servire a questo prencipe, che dovrà esser cardi-nale, piacendo a Dio»: ivi, p. 417. Rientrato a Pistoia con una lettera di licenza,

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l’educazione religiosa del giovane, affiancandone il precettore, il marchese Massimiliano Gonzaga. Il pistoiese si premurò di costi-tuire una biblioteca ad hoc, procacciando libri e consigli per il tra-mite del commercio epistolare, e provvedendo lui stesso a tradurre o sunteggiare quanto indispensabile per l’allievo.76 Un incarico coinvolgente, nel quale si progettò addirittura la traduzione dei do-dici tomi degli Annali di Baronio, da affidarsi ciascuno a un e-sperto.77

Ancora una volta però si verificò un subitaneo ribaltamento di prospettiva e sul finire del 1610 il segretario pistoiese fu spedito a Roma a negoziare con il papa Paolo V «nel particolare» del principe Francesco, che, con l’appoggio della madre e del granduca suo fra-tello, Cosimo II, rinunciava alla carriera cardinalizia in favore del fratello minore Carlo e sceglieva per sé la strada delle armi.78 La ne-goziazione ebbe esito positivo per le parti coinvolte, ma non per il segretario.79 Al suo rientro da Roma Vannozzi lasciò Firenze per fare ritorno a Pistoia, dove attese ben quattro anni la licenza defi-nitiva dall’incarico di corte, che non gli fruttò alcuna ricompensa e lasciò adito a dubbi e maldicenze, non credendo in molti ai motivi di salute addotti a giustificazione dell’allontanamento.80

il pistoiese riceveva la lettera d’incarico il 3 dicembre (ivi, p. 547) e si trasferiva a Firenze, prendendo alloggio in Palazzo Pitti (ivi, p. 548).

76. Vannozzi fece arrivare in Firenze libri della sua biblioteca personale e potè accedere ai materiali manoscritti della «Guardarobba» ducale; a fine servizio si dovette provvedere, fra il novembre e il dicembre del 1614, alla reciproca resti-tuzione dei libri e delle carte: ivi, pp. 581-588.

77. Ivi, p. 485. A più riprese, come si è visto, Vannozzi manifestò un interesse vivissimo verso gli Annali di Baronio.

78. Ivi, p. 98. Le lettere relative a questa missione sono ivi, pp. 98-146. 79. All’indomani della negoziazione romana, il suo posto di segretario fu affi-

dato a Giovanni Francesco Guidi e a lui fu prospettato il passaggio al servizio presso Carlo, come lo informava Guidi stesso il 10 febbraio 1610: ivi, pp. 130-131. Stando alle lettere, però, non è accertabile questo cambio di servizio.

80. Il 3 febbraio 1614 Andrea Cioli informava dell’ottenimento della licenza Vannozzi, che, nel ringraziare, avanzava la velata, e inascoltata, richiesta di un incarico ecclesiastico: ivi, pp. 140-141. A proposito della licenza egli confidava a Virginio Orsini: «duo anni e più ho combattuto ma con lettere e con amba-sciate per dispor loro Altezze a sgravarmi del peso personale di quella servitù ch’io ambirei se havessi forze conformi all’animo» (ivi, pp. 142-143). A propo-sito delle maldicenze si veda lo scambio epistolare con il marchese Malaspina, referendario di Paolo V: ivi, pp. 699-704.

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Un desiderio di riscatto è visibile dietro il grande risalto asse-gnato nel terzo volume alle lettere relative al servizio alla corte fio-rentina nel quadriennio 1610-1614. Lettere scritte per conto di Francesco e dei suoi fratelli, lettere dichiarate autografe dei grandu-chi e corrispondenze intrattenute con gli altri segretari e ministri di corte, primi fra tutti Belisario Vinta e Andrea Cioli, sono disposte a comporre il racconto di un segmento importante e controverso della biografia vannozziana e insieme si offrono al lettore quali mo-delli esemplari per le pratiche di segreteria.81

A questi stessi anni pertiene la pubblicazione degli Avvertimenti, cui sono dedicate diverse epistole, che non compongono una sezio-ne omogenea, ma, secondo il criterio della varietà, sono inframmez-zate fra le lettere di segreteria. Ricomponendo i diversi tasselli, si evince che non fu facile ottenere l’imprimatur per la stampa e si do-vette venire a patti con le osservazioni dei revisori, che Vannozzi ac-colse come «precetti», senza cercare mediazioni, come avrebbe vo-luto Zoppio, né tanto meno opporre resistenza.82 Servendosi della raccolta epistolare per promuovere le proprie opere, come già fatto nei volumi precedenti, egli pubblicò nel terzo volume la difesa di

81. Ad esse si aggiungevano, come già nei due primi volumi, corrispondenze

datate ai suoi incarichi precedenti, che andavano a costituire anche delle se-zioni specifiche. Una, per esempio, comprendeva «alcune poche lettere di ne-gotti per l’illustrissimo Cintio cardinale di San Giorgio, mentre durò nella sua legatione d’Avignone, sotto il pontificato di papa Paolo Quinto»: ivi, pp. 785-838.

82. In una lettera del settembre 1608 Vannozzi chiariva a Zoppio: «nella revi-sione fatta di qualche mio studio, e fatica, non mi son dato a tenzonar co’ revisori, ma subito ho ceduto loro, e detto Ita fiat» (ivi, pp. 154-156, p. 155). Rispondeva il filosofo bolognese il 24 ottobre 1608: «fui in appuntamento con monsignor Panciatichi, perché il libro si dia in mano de revisori e si faccia conto di ricevere in luogo di precetti le loro osservationi, come Vostra Signoria Reverendissima mostra desiderare, perché non si tardi la impressione» (ivi, pp. 410-411, p. 410). Ad aprile del 1609, quando il manoscritto del primo volume era già in stamperia, Vannozzi chiedeva a Giulio Segni di poter aggiungere «duo quinternetti d’avvertenze cristiane, acciò corrisponda il testo al titolo, ch’è d’av-vertimenti non solo politici e morali, ma cristiani ancora; et invero mi son in-gegnato di provar quivi, che si dà, e v’è e si trova una politica cristiana» (ivi, pp. 251-252). Vannozzi non rinunciava però a pubblicare nelle sue Miscellanee le «difese fatte e risposte date da lui in materia degli Avvertimenti della Supellet-tile», sottoscritte da Zoppio a novembre del 1608: ivi, pp. 483-487.

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qualche amico illustre, scelta fra «l’Iliade di lettere» ricevute.83 Questo atteggiamento di prudente ossequio alle istituzioni della

censura romana è ravvisabile in tutte le opere di Vannozzi, appa-rentemente monolitiche nell’asseverare i dettami della Controrifor-ma, eppure, a una lettura attenta, molto più mosse e problematiche nelle loro linee di ricerca e approfondimento. È emblematico il ca-so di Galileo: a una aperta censura, articolata nelle miscellanee in due lettere in forma di trattato breve, corrispondeva una viva curio-sità per i diversi tipi di cannocchiali esistenti e per quello galileiano in particolare, ricevuto in dono dal principe Francesco e custodito gelosamente nella dimora pistoiese.84

Come si evince da alcuni dei nomi sin qui ricordati, fu intendi-mento precipuo di Vannozzi ‘serbare’, nell’ultimo volume della tri-logia, «il luogo ad alcuni vertuosi, letterati et assai benemeriti».85 Possiamo qui dare conto solo brevemente della trama di rapporti che questi omaggi mettono in evidenza, descrivendo una geografia di scambi culturali che collegava Pistoia ai principali centri della vi-ta politica e culturale d’Italia e d’Europa all’altezza del secondo de-cennio del Seicento.

Fra i segretari della corte pontificia, che tanta parte avevano a-vuto nel secondo libro, risalta il nome di Tiberio Gambaruti, di ori-gine alessandrina, ma di stanza a Roma, che fra il 1610 e il 1612 volle condividere la scrittura dei suoi Discorsi et osservazioni politiche

83. A Sebastiano Forteguerri, che esprimeva preoccupazione per le critiche

mosse agli Avvertimenti, Vannozzi rispondeva con orgoglio: «Gli videro e gli ap-provarono e dirò anco commendarono gl’illustrissimi Santiquattro, che fu poi papa, e mi comandò ch’io gli pubblicassi. Li signori cardinali Giustiniano, Per-rona, Visconte, Camerino, Bufalo, Sangiorgio, con altri prelati e persone di lettere, come si può vedere ne preludii di tutti tre i volumi, oltre a una Iliade di lettere ch’io conservo, di persone giudiziose, honorate, e da bene, che me ne danno il lor giudizio, senza passione, e fuori d’adulatione» (ivi, pp. 470-472). Seguivano le difese di Pietro Andrea Canoniero, del Marcellini e di Giovanni Gualtieri, vescovo di Borgo San Sepolcro: ivi, pp. 472-477. A queste si aggiun-gevano il parere di Tiberio Gambaruti, inviato da Roma il 12 febbraio 1612, e quello di Celso Cittadini, sottoscritto da Siena il 6 luglio 1610, in ivi, pp. 477-483.

84. Mi permetto il rinvio al mio Il segretario e l’arte del «particolarizzamento», pp. 195-196.

85. Lettere miscellanee, II, p. 7.

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con l’autore degli Avvertimenti.86 Più numerosi figurano i toscani, complice il recente servizio alla corte granducale. Il fiorentino Gio-van Battista Strozzi, conosciuto in realtà sin dal tempo del rettorato di Pisa, era richiesto nel 1608 di una sua opinione sullo «scriver let-tere», nonché di alcune sue opere di argomento storico-politico.87 Nello stesso anno il senese Celso Cittadini discuteva con Vannozzi del trattato del «Segretario di stato» a cui stava attendendo e due anni più tardi si rendeva disponibile a partecipare all’impresa della traduzione degli Annali baroniani.88 Con un altro senese, Belisario

86. Il 22 ottobre 1610 Gambaruti da Roma prometteva a Vannozzi: «mi ri-

serbo allora di mostrarle alcune fatiche, le quali saranno più conferenti al suo genio e saranno della stessa specie, se non così perfette, che sarei arrogante di presumerlo, de suoi Avvertimenti politici» (ivi, p. 254). Bonifacio apprezzò l’opera al punto da farsi promotore presso Giulio Segni di questo «moderno libro delle considerationi politiche» (ivi, p. 932, lettera non datata), andato in stampa nel 1612: TIBERIO GAMBARUTI, Discorsi et osservationi politiche, Roma, Bartolomeo Zannetti, 1612. Vannozzi apprezzò anche una tragedia inviatagli da Gambaruti (Lettere miscellanee, III, p. 283, lettera non datata da Pistoia a Roma). Doveva trattarsi de La regina di Teano, edita a Roma presso Zannetti nel 1609.

87. Lo scambio epistolare fra Vannozzi e Strozzi in Lettere miscellanee, III, pp. 157-167. Il pistoiese inviava in lettura le sue Miscellanee a colui che appellava «viva biblioteca di belle e pulite lettere», che «s’adopera indefessamente a far crescer su de vertuosi per servizio di sua Altezza serenissima come potranno, e sapranno far assai presto, li signori Ciampoli e Bamberini» (ivi, p. 158). La let-tera non è datata, ma la risposta di ringraziamento di Strozzi risale al 16 ottobre 1608 (ivi, p. 162). In una missiva successiva Vannozzi chiedeva di poter avere in lettura l’orazione al doge di Venezia scritta, ma non ancora pubblicata da Strozzi, e il trattato De brachio regio, che Strozzi inviava il 20 gennaio 1608 (ivi, p. 167). Entrambi i testi riconducevano ai problemi giurisdizionali legati all’In-terdetto. Si identifica il trattato, per il quale Strozzi aveva composto dei versi laudativi, nell’opera di ORTENSIO CAVALCANI, De brachio regio, Venezia, Ciotti, 1608. L’opera era citata anche nel carteggio Strozzi-Borromeo studiato da ROBERTA FERRO, Carteggi del tardo Rinascimento. Lettere di Giovan Battista Strozzi il Giovane e Girolamo Preti, Pisa, Edizioni ETS, 2018, pp. 82-83. Su Strozzi si veda il lavoro di Francesco Rossini in questo stesso volume.

88. Da Siena il 18 gennaio 1608 Celso Cittadini dichiarava di ispirarsi alle opere di Vannozzi per il suo «Segretario di stato», che, scriveva, «ho sotto il torcolo» (ivi, p. 643), sebbene non si conoscano ad oggi edizioni di questo testo. Vannozzi rispondeva da Pistoia il 30 gennaio del 1609 inviando il secondo volume delle Miscellanee e chiedendo di poter vedere il trattato, che «m’ha messo un prurito che bisogna cavarmelo»: ivi, pp. 354-355, e ancora da Pistoia il 25 marzo 1609, p. 489. Sul progetto degli Annali: ivi, p. 481.

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LE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

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Bulgarini, Vannozzi allacciava infine un rapporto epistolare nella primavera del 1609, facendosi forte della comune ascrizione all’Ac-cademia Veneta.89

Nuove relazioni furono intessute anche a Bologna, divenuta più vicina grazie a Giulio Segni e al vicario Panciatichi. L’amico e disce-polo Francesco Forteguerri per primo portò gli omaggi di Vannozzi a Cesare Rinaldi, che nel giugno del 1615 esprimeva per lettera il suo ringraziamento, iniziando uno scambio di cortesie epistolari con il segretario pistoiese.90 Con altrettanta cortesia l’anno succes-sivo si avviava un nuovo carteggio in direzione, questa volta, di Pe-rugia. Il corrispondente era Scipione Tolomei e a lui Vannozzi non mancava di esprimere il proprio cordoglio per la recente scomparsa di Marc’Antonio Bonciari.91 Erano entrambi, Tolomei e Bonciari, sodali dell’Accademia degli Insensati, cui Vannozzi era legato da quando, nel 1603, si era recato nella città umbra a visitare la splen-dida biblioteca di Prospero Podiani92.

Un’ultima direttrice geografica merita di essere sottolineata e

89. Ivi, pp. 331-333, lettera del 4 marzo 1609 inviata da Pistoia a Siena. Van-

nozzi dichiarava il suo appoggio a Bulgarini nella controversia che lo opponeva a Mazzoni. Su Bulgarini è in corso di stampa in questa stessa collana lo studio monografico di Davide Zambelli con la pubblicazione del carteggio con Ro-berto Titi.

90. Nelle Lettere miscellanee, III, pp. 649-650, si legge la lettera di Cesare Ri-naldi a Francesco Forteguerri del 16 giugno 1615. Il bolognese aveva parole di caldo elogio per gli Avvertimenti vannozziani: «Io non ho libri più familiari di quelle maravagliose Supellettili d’Avvertimenti Politici, le quali io chiamo un Mondo ben ordinato, e il buon ordine è un principio di sollevamento alla vera gloria». Per lo scambio di cortesie che ne seguiva: ivi, pp. 650-654. Interessante l’accenno di Rinaldi alla sua collezione d’arte: «Il signor Francesco Forteguerri è liberale, quando promette, e prodigo, quando eseguisce. Io aspettava da lui un presente o di pittura, o di scoltura, per ornamento del mio Museo, et egli m’ha procurato il dono dell’altrui grazia» (ivi, p. 651, Rinaldi a Vannozzi da Bologna, 10 luglio 1615). Per il carteggio di Cesare Rinaldi si rimanda al lavoro di Federica Chiesa in questo stesso volume.

91. Lettere miscellanee, III, p. 596-598, non datata, ma post 1616. 92. Ivi, II, p. 548. Vannozzi purtroppo non aveva trovato Podiani e aveva per-

ciò lasciato una lettera per lui al «bidello dello studio» nel settembre del 1603. Sugli Insensati si veda ora l’accurato lavoro di LORENZO SACCHINI, Identità, lettere e virtù. Le lezioni accademiche degli Insensati di Perugia (1561-1608), Bologna, I Libri di Emil, 2017.

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muove in direzione di Genova, dove si incontrano le figure di Pie-tro Andrea Canoniero e Angelo Grillo. Il primo è noto soprattutto agli storici della filosofia e della politica come teorico del tacitismo e della ragion di stato vicino alle posizioni di Campanella.93 Non si possono qui sondare i suoi rapporti con Vannozzi, che emergono dalle lettere, se non per osservare come il segretario pistoiese so-stenne la carriera di segretario di Canoniero fra il 1608 e il 1609 e fu tra i lettori, quinterno per quinterno, dei suoi commentari a Ta-cito.94 In cambio il filosofo genovese presentò l’opera di Vannozzi ad Ericio Puteano, che formulò parole di lode, pubblicate con or-goglio nelle Miscellanee.95 Le lettere e gli Avvertimenti guadagnavano così fama europea e si aprivano a quel mondo d’Oltralpe che Van-nozzi aveva già conosciuto – e ammirato – nella sua estensione nord orientale ai tempi della legazione polacca.

Dell’altro genovese, l’abate Angelo Grillo, le miscellanee svela-no un frammento biografico prezioso, avvicinando il suo nome a quello di Tasso.96 Si tratta della breve sosta di due giorni a Bologna

93. Ne approfondisce da ultimo il profilo biografico e intellettuale SILVANA

D’ALESSIO, Per un principe «medico pubblico». Il percorso di Pietro Andrea Canoniero, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2014.

94. Vannozzi raccomandò Canoniero presso il cardinale Benedetto Giusti-niani legato di Bologna: Lettere miscellanee, III, p. 211, da Pistoia aprile 1608; pp. 212-213 senza data; pp. 214-214, da Pistoia marzo 1613; pp. 216-219, da Pistoia, marzo 1613. Il commentario tacitiano da lui letto (ivi, pp. 504-506, senza data) si può identificare in: PIETRO ANDREA CANONIERO, Quaestiones ac discursus in duos primos libros C. Cornelii Taciti, Roma, Ziletti, 1609. Sulle difese delle opere di Vannozzi sostenute da Canoniero cfr. supra. Una prima analisi dei rapporti fra i due autori con riferimento agli Avvertimenti in SILVANA

D’ALESSIO, «Che i rimedi non dovrebbono esser più aspri dei mali». La medicina dopo Machiavelli, «Laboratoire Italien. Politique et societé», 6, 2006, pp. 179-200.

95. Lettere miscellanee, III, pp. 149-150, da Lovanio a Canoniero nel 1615. Se-guiva la responsiva di Vannozzi a Canoniero, ivi, pp. 151-152. Sul rapporto dello studioso fiammingo con l’Italia si veda ROBERTA FERRO, Federico Borro-meo ed Ericio Puteano. Cultura e letteratura a Milano ai primi del Seicento, Roma, Bulzoni, 2007.

96. Sulla figura di Grillo, con relativa bibliografia, si veda: MYRIAM CHIARLA, L’epistolario di Angelo Grillo nel dialogo culturale cinque-seicentesco e primi raffronti con le lettere manoscritte, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Cor-rado Viola, Verona, Edizioni QuiEdit, 2016, pp. 321-332, e il saggio di Fran-cesco Rossini in questo stesso volume. Per il Tasso epistolografo: Ricerche sulle lettere di Torquato Tasso, a cura di Clizia Carminati ed Emilio Russo, Sarnico,

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LE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

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nell’aprile del 1615 cui accenna il già ricordato Giulio Segni in una sua lettera a Vannozzi del successivo primo maggio. 97 Una sosta bre-ve ma significativa, nella quale Grillo ricevette la visita di Segni ed ebbe modo di conoscere due progetti epistolari allora in fieri. Il pri-mo era quello di Vannozzi, perché l’editore bolognese portava con sé la lettera appena ricevuta dall’amico pistoiese, che annunciava il prossimo allestimento del terzo tomo della trilogia epistolare.98 L’occasione era propizia per rinnovare uno scambio di cortesie fra l’abate genovese e il segretario pistoiese, che si conoscevano almeno dal 1607, quando Grillo aveva inviato a Vannozzi un suo volume di lettere, ricevendo in cambio calorosi apprezzamenti. 99

Il secondo era addirittura «un gran volume di lettere del Tasso, non più date in luce», che Segni stava stampando proprio allora, come annunciava nella stessa lettera all’amico Bonifacio.100 Si trat-tava dell’importante edizione postuma che sarebbe uscita l’anno

Edizioni di Archilet, 2016 e in questo stesso volume il saggio di Elisabetta Oli-vadese.

97. Lettere miscellanee, III, pp. 669-671. 98. Cfr. supra, nota 74. 99. La corrispondenza fra Grillo e Vannozzi si legge in Lettere miscellanee, II,

pp. 354-357. Non è chiaro a quale edizione delle Lettere di Grillo si faccia rife-rimento: si tratta con buona probabilità di quella del 1604, ultima uscita prima di quella del 1608 che è posteriore alla lettera di Vannozzi. Si trattò però di un invio tardivo, poiché nella lettera Vannozzi si rammarica di non averla potuta prendere a modello per il suo primo volume di lettere, a stampa nel 1606. Grillo ripubblicava la sua responsiva a Vannozzi in: ANGELO GRILLO, Lettere, Venezia, Ciotti, 1608, p. 407. Nel 1615, poi, ai complimenti di Grillo, riportati da Segni, il pistoiese rispondeva in Lettere miscellanee, III, pp. 671-673, p. 671, senza data. Per elogiare Grillo Vannozzi faceva sfoggio di tutta la sua erudizione e della conoscenza dell’opera del bolognese Ulisse Aldrovandi: «Grillo tale che, benché il vostro eruditissimo Ulisse Aldrovandi, signor Segni mio, come del restante parli così bene ancora de grilli, egli non arrivò mai a trovarn’uno simile a questo, riverito da noi, et ammirato da tutta Italia. Questo è un grillo da far parer corbi i cigni et altro, che que’ silvestri che Valde musici sunt et ob acutum molliter stridorem, conciliando somno a delicatis hominibus desiderantur: come dice l’istesso vostro prenominato Aldrovandi, che per leggere, quant’egli ha dettato, bisogna sudarvi ben bene». Meriterebbe di essere approfondito il rapporto fra i due autori, soprattutto se si considera che entrambi pubblicarono i loro primi volumi di lettere presso Ciotti, rimanendo ugualmente delusi dall’imperizia dello stampatore, e soprattutto che entrambi adottarono per queste loro rac-colte un ordinamento cronologico.

100. Ivi, III, p. 670. Questa lettera era citata già in CESARE GUASTI, Le lettere

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successivo a Bologna presso Bartolomeo Cochi grazie al lavoro di Antonio Costantini, intrinseco amico del poeta ferrarese, che ne a-veva raccolto la gran parte delle lettere. 101

Seppur non dichiarato in modo esplicito, è altamente probabi-le, e molto suggestivo, che Segni, nel corso della sua visita, abbia messo a parte di questa sua stampa il poeta genovese, già intimo a-mico del poeta e fra i principali custodi delle sue lettere. Ed è signi-ficativo che fra gli amici del Tasso Segni abbia inteso includere an-che sé stesso ricordando a Bonifacio: «questo autore è stato mio a-mico vent’anni continui et ha favorito molte volte con la sua pre-senza il mio tugurio».102 Una attestazione importante, che non com-pare nella dedicatoria delle Lettere non più stampate, dove Segni rita-gliava per sé un ruolo più defilato, enfatizzando piuttosto «l’intrin-sichezza» con Tasso di Antonio Costantini.

Nell’accogliere la notizia dell’ormai imminente pubblicazione, Vannozzi non nascondeva la preoccupazione per il confronto ine-vitabile: «se comparirà in scena il gran volume delle lettere del gran Tasso, che non tasseggia, potran battere stendardo tutte l’altre, e le mie primieramente».103 Stabiliva perciò subito il criterio distintivo della sua opera: «io ho scritto, non per apparir da più de gl’altri, ma per dar un tal saggio del desiderio mio innato, di secondar i buoni, e giovare a meno intendenti».104 Del volume tassiano, uscito alle stampe, egli apprezzava il valore di testimonianza di un percorso u-mano nel quale trovava rispecchiate e amplificate le difficoltà da lui stesso incontrate nel vivere a corte. Scriveva a Segni:

Lettere, fatiche e testimonii, e contrassegni della vertù del loro autore, non superata giamai dalla sua nemica fortuna: che veramente nel teatro di que-sto libro si vede aperto uno spedale et un lazzaretto d’un disgratiatissimo vertuoso, non senza nota o biasmo di qualche prencipe, più ambitioso, che caritativo; e più dato a strapazzar la vertù, che a premiarla, od honorarla. […] Povero Tasso: per i mali trattamenti di corte, infermatosi; per l’infer-mità, e necessità arrivato fino a dar nello scemo e nel pazzo. Grandissima

di Torquato Tasso disposte in ordine di tempo, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1852, p. XXVI.

101. Un ruolo che lo stesso Segni gli riconosceva nella dedicatoria da lui indi-rizzata al duca Gonzaga: TASSO, Lettere non più stampate, p. A3r.

102. Lettere miscellanee, III, p. 670. 103. Ivi, p. 471. 104. Ivi, p. 472.

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LE ‘LETTERE MISCELLANEE’ DI BONIFACIO VANNOZZI

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carità gli ha usato Vostra Signoria, che havendolo amato in vita, l’honora dopo morte.105

Nessuna osservazione, invece, circa gli aspetti formali della rac-

colta, che sentiva distante dalla sua ricerca di modelli utili alla for-mazione delle giovani generazioni di segretari e ministri di corte. Commovente, in questo senso, la chiusa della trilogia con la dedica «alla nobilissima gioventù pistolese, seguace de buoni e de’ belli stu-dii, e da riuscir bene in ogni onorata professione» con l’elenco no-minale di ciascun giovane.106

105. Ivi, pp. 840-842, p. 841, non datata. 106. Ivi, pp. 948-951.

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FEDERICA CHIESA

PER UN PRIMO INQUADRAMENTO

DELLE LETTERE DI CESARE RINALDI

Il presente lavoro si propone di offrire un primo quadro interpre-tativo del ricco epistolario allestito da Cesare Rinaldi nel primo ventennio del Seicento. La scelta di lettere posta in appendice ha lo scopo di mettere in luce alcuni degli aspetti più interessanti di questa raccolta e di far emergere gli eterogenei interessi culturali del suo autore.

Cesare Rinaldi (1559-1636)1 fu un personaggio di primo piano all’interno del vivace ambiente culturale bolognese a cavallo tra Cinque e Seicento. Egli non fu solo uno dei primi e più arditi pre-cursori del nuovo gusto poetico, ma anche un appassionato del-l’arte in tutte le sue forme, dalla pittura alla scultura, dalla musica al teatro, e fu in contatto con alcuni dei più rilevanti personaggi della sua epoca (si ricordino, a titolo rappresentativo, i nomi di Giovan Battista Marino, Girolamo Preti e Ridolfo Campeggi).

Le tre edizioni del suo epistolario2 offrono un interessante spac-cato non solo della vita culturale dell’epoca, ma anche delle forme che il libro di lettere andava progressivamente assumendo: l’ordine cronologico a ritroso, l’esplicito rifiuto della struttura ‘per capi’, la scelta di lettere dal taglio decisamente familiare rendono que-st’opera un esempio originale e innovativo rispetto alla tradizione

1. Per un profilo biografico si rimanda alla monografia di SALVATORE RITRO-

VATO, ‘Per te non di te canto’: i madrigali di Cesare Rinaldi, Manziana, Vecchiarelli, 2005 e dello stesso Rinaldi, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani [DBI], LXXXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2016, pp. 568-571.

2. Lettere di Cesare Rinaldi il Neghittoso Academico Spensierato, all’illustrissimo, et reverendiss. sig. il signor cardinal d’Este, Venezia, Baglioni, 1617 (abbreviate in Let-tere 1617); Delle lettere di Cesare Rinaldi, Bologna, Cochi, 1620 (abbreviate in Lettere 1620); Delle lettere di Cesare Rinaldi, Bologna, eredi Cochi, 1624 (abbre-viate in Lettere 1624). Un primo accenno alle lettere di Rinaldi è contenuto in RITROVATO, ‘Per te non di te canto’: i madrigali di Cesare Rinaldi, pp. 95-108: in queste pagine Ritrovato ricostruisce gli ultimi anni di vita e di riflessione poe-tica di Rinaldi, servendosi della testimonianza del suo epistolario.

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FEDERICA CHIESA

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epistolografica tra XVI e XVII secolo. Per meglio inquadrare la no-vità rappresentata da Rinaldi, può essere utile ricordare brevemen-te che, per tutto il Cinquecento, alla base del successo del libro di lettere erano stati alcuni elementi che avevano contribuito a ren-derlo un genere chiaramente identificabile e un prodotto editoriale di largo successo. Si pensi anche solo al fatto che essi furono pubbli-cati per l’esemplarità delle relazioni di cui erano testimoni e dello stile con cui erano scritte le lettere. Soprattutto a partire dalla metà del secolo, con la crescente importanza dei segretari, i libri di lette-re, molto spesso divisi per ‘capi’, erano affiancati da veri e propri formulari, che avevano lo scopo di fornire esempi su cui modellare le lettere, in particolare quelle di negozio.3 Già a partire da Aretino, tuttavia, il libro di lettere assume i connotati di un’opera d’autore, non solo per lo stile e i legami personali, ma anche perché vi si di-scute di letteratura, di poetica e della pubblicazione delle proprie opere.

Grazie agli ormai numerosi e approfonditi studi sull’epistolo-grafia cinquecentesca, non è dunque difficile intuire come gli ele-menti sopra citati rendano Rinaldi un caso interessante e curioso rispetto alla tradizione che lo precede. Più complesso è invece ca-pire come quest’opera si innesti in un panorama secentesco che an-dava rapidamente mutando intenti e forme. Ferma restando la vo-lontà di dare lustro alla propria rete di corrispondenti e quella di rendere la raccolta di lettere una vera e propria opera letteraria in cui offrire un preciso ritratto di sé, va notato come, lungo il Seicen-to, nasca e si consolidi la lettera di argomento erudito. Rinaldi non è certo uno dei rappresentanti di questo nuovo genere di missiva, ma è interessante notare come l’argomento degli scambi librari e

3. Sui modelli epistolari si rimanda a AMEDEO QUONDAM, Dal «formulario»

al «formulario»: cento anni di «libri di lettere», nella miscellanea Le «carte messag-giere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura dello stesso, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 13-156. Per più recenti approfondimenti si rimanda alla miscellanea Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna. Atti del seminario internazionale di Bergamo, 11-12 dicembre 2014, a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo e Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016 e a PAOLO PROCACCIOLI, Fi-lologia epistolare del medio Cinquecento. La lettera tra pratica individuale e teorizza-zione, in La filologia in Italia nel Rinascimento, a cura di Carlo Caruso ed Emilio Russo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp. 275-291, oltre che al volume citato infra a nota 4.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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quello dei suoi interessi collezionistici, presenti in un buon numero di sue lettere, siano sintomatici di un interesse specifico che andrà poi a consolidarsi verso la metà del secolo e oltre.4

Le lettere di Rinaldi vengono stampate per la prima volta a Ve-nezia, presso Baglioni, nel 1617:

LETTERE | DI | CESARE RINALDI | IL NEGHITTOSO ACADE-MICO | Spensierato, | ALL’ILLUSTRISSIMO, | ET REVERENDISS. SIG. | IL SIGNOR CARDINAL D’ESTE. | Con Privilegio, et Licenza de’ Superiori. | [marca tipografica: aquila nera a due teste] | In Venetia, M. DCXVII. | Appresso Tomaso Baglioni.

4°, a6, A-R8; cc. N1 e N2 segnate per errore O1 e O2, la segnatura dei fascicoli salta da N a P. [12], 256 p. Romano tondo, corsivo. Impronta: goro a.8. t-d' pece (3) 1617 (R).

a1r] frontespizio. a1v] bianca. a2r] «ALL’ILLUSTRIS.MO | E REVERENDISS.MO SIGN. | IL SIG. CARDINAL D’ESTE. | Patrone Colendissimo.» Termina a c. a2v: «[…] Di Bologna il dì 25. d’Ottobre 1616. | Di Vostra Signoria Illustrissima, & Reverendis. | Humilis. e Devotis. Seruitore | Cesare Rinaldi.» a3r] «L’AVTORE | A CHI LEGGE.» a3v] «Errori occorsi nella stampa.» a4r] «Al Signor Tomaso Baglioni | à Venetia.» a4v] «Al Sig. Conte Gio. Giorgio Trissino à Venetia.» a5r] «TAVOLA | DELLE PERSONE | Nominate nell’Opera.» Termina a c. a6r. a6v] bianca. A1r] «DELLE | LETTERE | DI CESARE RINALDI.» Termina a c. R8r: «IL FINE.»

[Esemplare impiegato: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl.3.2.336]

Si tratta di un volume in quarto che riporta nel frontespizio i dati editoriali e una marca raffigurante un’aquila a due teste. Nelle

4. Per una panoramica sulla lettera nel XVII secolo si veda CLIZIA CARMI-

NATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di antico regime. Atti del convegno internazionale di studi. Viterbo, 15-16-17 febbraio 2018, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 91-118.

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pagine non numerate si leggono la dedicatoria al cardinale Alessan-dro d’Este, una lettera a Tomaso Baglioni, in cui Rinaldi spiega il motivo per cui ha scelto di stampare il suo volume presso di lui, e una a Gian Giorgio Trissino;5 queste due lettere saranno poi inse-rite all’interno del corpus dell’epistolario nella ristampa del volume nel 1620.6 Segue una breve avvertenza dell’autore, in cui si segnala che in tre lettere7 è stato tolto in ciascuna un periodo, ma che lo stampatore si è dimenticato di indicare tale omissione nel testo me-diante gli opportuni segni di interpunzione. Sono poi riportati gli errori di stampa, rimettendo al «giudicio del saggio lettore» gli er-rori di ortografia e punteggiatura, e Girolamo Canini8 viene indica-to come correttore delle bozze. Chiude le pagine non numerate la Tavola delle persone nominate dell’opera: i corrispondenti sono elenca-ti in ordine alfabetico secondo il nome di battesimo, non vengono indicate le lettere di cui è stato censurato in tutto o in parte il de-stinatario9 e all’elenco manca il nome di Vangelista Sartorio.10

Le 387 lettere non superano quasi mai la lunghezza di una pa-gina e di quasi tutte sono indicati destinatario, data, luogo di arrivo e di partenza. Il destinatario è stato eliminato in diversi casi e il mo-tivo è da attribuire al contenuto delle lettere, soprattutto se si tratta di rimproveri o critiche pungenti ai comportamenti degli amici o allo stile.11 Anche il luogo di arrivo non è sempre indicato; tuttavia,

5. Per ovvie ragioni di date non si tratta del Trissino autore dell’Italia liberata

dai Goti (Roma, Dorico,1547), ma probabilmente di un suo omonimo discen-dente.

6. Le due lettere, datate 16 aprile 1616 e 14 settembre 1616, si trovano alle pp. 292-293 di Lettere 1620.

7. Rispettivamente quelle a Bonifacio Vannozzi del 10 luglio 1615 (p. 55), a Francesco Rondinelli del 20 luglio 1615 (pp. 62-63) e a Francesco Forteguerri del 26 agosto 1615 (p. 31).

8. Girolamo Canini (1551-1631), nativo di Anghiari, si trasferì a Venezia una volta entrato nell’ordine dei gesuiti. Si dedicò per tutta la vita ad una intensa attività di traduttore, editore e commentatore, curando, tra le altre, la riedi-zione delle Lettere del signor cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese. Divise sotto capi, da Agostino Michele et in questa ultima impressione accresciute, e corrette con ogni diligenza, Venezia, Ciotti 1615 (GINO BENZONI, Canini, Girolamo, in DBI, XVIII, 1975, pp. 105-108).

9. La censura parziale ha colpito solo un tale Ottavio, a cui è destinata una lettera datata 12 agosto 1614 (Lettere 1617, p. 23).

10. A lui è indirizzata la lettera del 20 marzo 1616 (Lettere 1617, pp. 13-14). 11. Tra i tanti, emblematico è il caso della lettera ad anonimo del 2 agosto

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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nei casi in cui Rinaldi scrive «di casa», si può facilmente dedurre che anche il destinatario si trovasse a Bologna, città in cui Rinaldi ebbe la sua residenza per tutta la vita: nelle lettere indirizzate fuori dalla città, il luogo di arrivo è sempre indicato e come luogo di par-tenza risulta Bologna.

Nel 1620 Rinaldi decide di dare alle stampe una nuova edizione delle sue lettere. L’epistolario viene arricchito e l’opera prende for-ma in due volumi: il primo come ristampa dell’edizione del 1617, il secondo con un’aggiunta di nuove lettere che coprono i tre anni intercorsi tra le due edizioni.

DELLE | LETTERE | DI | CESARE RINALDI | VOLUME PRIMO. | All’Illustris. & Reverendis. Sig. | IL SIGNOR | CARD. D’ESTE. | [silo-grafia di vaso a due manici, contenente fiori] | In Bologna | Presso Barto-lomeo Cochi. M. DC. XX. | Con licenza de’ Superiori. | Ad istanza di Pellegrino Golfarini.

8°, A-AA8. 376, [8] pp. Romano tondo, corsivo. Impronta: n-ua a,o- t-an Dife (3) 1620 (R).

A1r] frontespizio. A1v] bianca. A2r] «ALL’ILLUSTRISS. | ET REVERENDISS. | Signore, il Signor | Car-dinal D’Este, | Padrone Colendissimo». Termina a c. A2v: «Di Bologna il dì 25. d’Ottob. 1616. | Di V. S. Illustris. e Reverendis. | Humilis. e devo-tis. Servit. | Cesare Rinaldi.» A3r] «DELLE | LETTERE | DI CESARE | RINALDI | VOLUME PRIMO.» Termina a c. AA4v: «IL FINE.» AA5r] «Tavola delle persona citate dell’Opera». Termina a c. AA8v. AA8v] imprimatur: «D. Homobonus de Boni Poenit. pro Illustriss. | & Reverendiss. Card. Archiepisc. Bonon. | Imprimatur. | Fr. Gottardus Ca-stoldus pro Reverendiss. | Pat. Inquisit. Bonon.»

DELLE | LETTERE | DI | CESARE RINALDI | VOLUME SECONDO | AL SERENISS. | FERDINANDO | GONZAGA | Duca | di Mantova e | di Monferrato. | et c. | In Bologna ad Istanza di | Pelegrino Golfarini

1615 (Lettere 1617, p. 59): «Le lettere, di ch’io parlo, erano capricciose e scritte nel nostro idioma, ond’io temo che, giudicate da lei non convenienti al decoro della sua persona, voglia col silenzio farmene avveduto. Io non credeva che tra genti domestiche s’avesse a star sempre su la gravità socratica».

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FEDERICA CHIESA

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con licenza de Sup.ri.

8°, †8, A-R8. [16], 259, [13] p. Romano tondo, corsivo. Impronta: n-e- S.t, a-ur chli (3) 1620 (A).

†1r] frontespizio calcografico: stemma dei Gonzaga con quattro aquile e corona imperiale, sorretto da due putti; altri due putti tengono in mano rispettivamente un foglio e uno stilo e un foglio. †1v] bianca. †2r] «AL SERENISS. | FERDINANDO | GONZAGA | DVCA DI MAN-TOVA, | E DI MONFERRATO | ETC.» Termina a c. †3r: «Di Bologna il dì 15 settem- | bre M. DC. XX. | Di V. A. Sereniss. | Humiliss. e devo-tissimo | Servitore | Cesare Rinaldi.» †3v] «DEL SIG. CO. GIO. BATTISTA | Mamiani all’Autore.» †4r] «DEL SIG. CO. RIDOLFO | Campeggi all’Autore.» †4v] «DEL SIG. BERNARDINO | Mariscotti all’Autore.» †5r] «DEL SIG. CESARE ABELLI | All’Autore.» †5v] «DEL SIG. TOBIA TOBIOLI | In lode dell’Autore.» †6r] «INCERTI AVCTORIS.» †6v] imprimatur: «LITERAS materna lingua à | Do. Caesare Rinaldi, pa-tritio | Bononiensi, conscriptas, maturè | consideravi, & cum in eis, nil Chri- | stianae Fidei sanctionibus, vel bo- | nis moribus repugnans depre-hen- | derim; quinimò cum eas familia- | ri, ac brevi stylo, & iucundis sali- | bus, atque leporibus12 exaratas vide- | rim, ad commune artis scribenti | studiosorum commodum, vt typis | mandentur libens concessi. | In quorum fidem, &c. D. Homobonus de Bonis Poeniten- | tiarius, pro Illus-triss. & Reveren- | diss. Card. Archiep.» †7r] imprimatur: «ET perlibenter, & non sine ma- | xima aliqua animi propensio- | ne, praesentes has Litteras familia- | res, vulgari quidem, sed perpolito, | atque elegāti; graui, sed facili idio- | mate scriptas, ac fabricatas ab Illu- | stri Domino Caesare Rinaldo percu- | curri, ac diligentius vidi; & quia | animaduerti illas satis communi ho | minum vsui, atque vtilitati accom- | modatas, vitiorum detestatrices, | virtutum commendatrices, ac bono- | rum morum, quasi regulas quan- | dam apertas, ac certas, ideò illas | Typis dari posse, & consului, & li- | citum libentius impertiui. | Imprimatur | Ego Frat. Hieronymus Onuphrius | Romanus, Sacrae The-ologiae Do-[†7v]ctor Collegiatus Bononiae, atque | ibidem Lector publi-cus, ac Sacrae | Congregationis Consultor, pro Re- | uerendissimo Patre Magistro Paulo | de Garrexio Inquisit. Bononiae.» | [calcografia: volto

12. Le considerazioni di stile esulano dagli ambiti di questo lavoro, tuttavia la

notazione dell’inquisitore è molto interessante nel quadro del primo Seicento.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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scolpito nella pietra dalla cui bocca escono rami carichi di frutti]. †8r-v] bianca. A1r] «DELLE LETTERE | DI CESARE RINALDI | VOLUME SE-CONDO.» R1r] «Al Sig. Tobia Tobioli.» R1v] «Alla Signora Celia, Comica Confidente, | à Modona.» R2r] «Alla medesima, alla Mirandola.» «IL FINE.» R2v] bianca. R3r] «TAVOLA | DELLE PERSONE | nomiuate [sic] nell’Opera.» Ter-mina a c. R7r. R7v] marca tipografica: Bellona, dea della guerra, tiene con mano destra una lancia e con la sinistra uno scudo; dietro il capo, un nastro con la scritta: Humile non per paura. Cornice con nastro e la scritta: Et gaudet Bel-lona libellis. Indicazioni tipografiche: «IN BOLOGNA | Presso Bartolomeo Cochi 1620. | Con licenza de’ Superiori.» R8r-v] bianca.

[Esemplare impiegato: Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Epist. 741 – 1/2]

Il primo volume di questa edizione non si differenzia molto dal-

la precedente. Rinaldi sceglie di ristampare l’epistolario a Bologna, presso Bartolomeo Cochi, elimina l’avvertenza ai lettori e l’errata corrige, mentre la Tavola delle persone viene spostata in coda al vo-lume, dove compare anche l’imprimatur di Omobono Buoni (De Bonis) e Gottardo Castoldi.

Il secondo volume si apre con un elegante frontespizio su cui campeggia lo stemma dei Gonzaga sorretto da due putti: l’opera è dedicata al duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga. Alla lettera de-dicatoria seguono cinque sonetti in lode di Rinaldi scritti da Gio-van Battista Mamiani, Ridolfo Campeggi, Bernardino Mariscotti, Cesare Abelli e Tobia Tobioli,13 un epigramma latino di «incerti auctoris»14 e l’imprimatur di Omobono Buoni e Girolamo Onofri. Alla fine del volume si trovano la Tavola delle persone e nel colophon la marca editoriale. L’aggiunta si compone di 278 lettere, organizza-te secondo la medesima struttura della prima edizione.

Nel 1624 il secondo volume fu oggetto di una nuova emissione

13. Si tratta rispettivamente dei sonetti Tranquillator de’ più squamosi Dorsi, Col

Pennello immortal la prisca Etate, S’a tesser rime armoniose impieghi, Pur d’Hippocrene a le bell’onde, e vive, Cesare allhor, che di nemica Morte.

14. Rinaldus irretitus inter carminum.

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FEDERICA CHIESA

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con un’aggiunta di 48 lettere.

DELLE | LETTERE | DI | CESARE RINALDI | VOLUME SECONDO | AL SERENISS. | FERDINANDO | GONZAGA | Duca | di Mantova e | di Monferrato. | et c. | In Bologna ad Istanza di | Pelegrino Golfarini con licenza de Sup. ri.

8°, †8, A-V8; c. V2 erroneamente indicata V3. [16], 259, [13] p. Romano tondo, corsivo. Impronta: n-e- S.t, a-ur chli (3) 1624 (A).

Come ed. 1620 da c. †1r a c. Q8v. Ricomposizione del fascicolo R: R1r] «Alla Signora Celia, Comica Confidente, | à Modona.» R1v-R2r] «Alla medesima, alla Mirandola.» «Al Sig. Tobia Tobioli.» R2v] «Il fine del Secondo Volume | delle Lettere | del Sig. Cesare Rinaldi.» R3r] «Nuoua Aggiunta. | AL SECONDO VOLUME | DELLE LETTERE | DEL SIG. CESARE RINALDI.» Termina a c. V2r: «IL FINE». V2v] bianca. V3r] «TAVOLA | DELLE PERSONE | nominate nell’Opera.» Termina a c. V7r: «Il Fine della Tavola». V7v] marca tipografica: come ed. 1620 a c. R7v. Indicazioni tipografiche: «IN BOLOGNA, | Per gli Heredi del Cochi 1624. | Con licenza de’ Su-periori.» V8r-v] bianche.

[Esemplare impiegato: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv.L.2238.2] La struttura risulta invariata e il secondo volume è riprodotto

fedelmente, probabilmente impiegando gli stessi fascicoli, rimasti invenduti, dell’edizione 1620.15 Il fascicolo R è stato ricomposto modificando l’ordine delle tre lettere che chiudevano la raccolta: le due lettere indirizzate a Celia Comica Confidente16 sono state po-ste prima di quella a Tobia Tobioli.17 L’indice dei corrispondenti è

15. Tale considerazione giustificherebbe la completa assenza di correzioni agli

errori dell’edizione 1620. 16. Si tratta dell’attrice Maria Malloni (1559-?). Attrice della commedia

dell’arte, entrò a far parte della compagnia dei Confidenti nel 1618-1619. Le sue capacità le varranno lodi da parte di letterati e poeti, tra i quali Marino (TERESA MEGALE, Malloni, Maria, in DBI, LXVIII, 2007, pp. 237-238).

17. Si tratta delle lettere a Celia Comica Confidente, 24 novembre (senza anno) e 12 giugno 1619 (Lettere 1620, pp. 258 e 259), e a Tobia Tobioli, 4 settembre 1620 (Lettere 1620, p. 257). Nella nuova emissione del 1624 esse si

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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stato aggiornato con i rimandi alle lettere aggiunte, ma la posizione delle due lettere a Celia e Tobia Tobioli non è stata riveduta. Le 48 nuove lettere coprono l’arco temporale di quattro anni che separa le due edizioni; la metà esatta risulta essere scritta nel 1622 e undici sono prive di qualunque coordinata cronologica.

Il cospicuo numero di lettere che Rinaldi inserì e aggiunse in ciascuna delle tre edizioni del suo epistolario sono disposte con un ordine cronologico a ritroso quasi perfetto,18 e coprono l’arco di tempo che va dal periodo più vicino alla data della stampa indietro fino al 1609. L’ordinamento a ritroso è sicuramente una delle ca-ratteristiche più atipiche e peculiari dell’epistolario rinaldiano; a questo va aggiunto il fatto che la data è quasi sempre indicata in calce alla lettera e che essa viene taciuta solo in pochi casi,19 in con-trotendenza con la lunga tradizione cinquecentesca per la quale la presenza della data non era per nulla scontata: essa poteva essere completa, parziale o del tutto assente, perché non aveva, inizial-mente, alcuna rilevanza, proprio per le ragioni di esemplarità ricor-date all’inizio. La presenza della data, comunque, inserisce la lettera in una catena, una storia cronologicamente ordinata che si dissolve quando questa coordinata viene a mancare.20 A causa della discon-tinuità nel rispettare rigidamente l’ordinamento a ritroso, il vinco-

trovano rispettivamente alle pp. 257, 258 e 258-259.

18. Una scelta simile era stata fatta più di mezzo secolo prima da PAOLO MA-

NUZIO, Tre libri di lettere volgari, Venezia, Manuzio, 1556, ma non ci sono dati che facciano supporre che Rinaldi avesse familiarità con quest’opera, le cui ra-gioni sono comunque lontane dalle sue (in merito cfr. LODOVICA BRAIDA, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e «buon volgare», Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 160-181).

19. L’incidenza di questi casi è davvero minima (dodici in un epistolario che conta in totale 713 lettere), ma sono sicuramente curiosi il criterio e la posi-zione delle date assenti: la prima è la lettera a Ercole Pepoli, presente solo nella prima edizione (Lettere 1617, pp. 102-107), le altre undici si trovano tutte nell’aggiunta all’ultima edizione e quattro di queste portano la dicitura «dedi-catoria ad un amico». Per la lettera a Pepoli si rimanda alla scelta di lettere in appendice, lettera n. 13. Per le altre undici, sulla base del particolare ordine cronologico scelto da Rinaldi e rispettato nelle due precedenti edizioni, si può ipotizzare una datazione compresa tra 1620 e 1624.

20. Per un approfondimento della questione si rimanda a PAOLO PROCAC-

CIOLI, Il tempo della lettera. Aretino e le sue date: vere o false, presenti, assenti, pre-sunte, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, pp. 29-44.

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lo narrativo dell’epistolario di Rinaldi diventa meno uniforme e più difficile da cogliere. Alcuni rimescolamenti all’interno dei vo-lumi rendono la cronologia incostante e frammentaria, ma tale di-scontinuità risponde, in qualche caso, all’esigenza di raggruppare alcune lettere secondo nuclei tematici legati a eventi o richieste par-ticolari, come nel caso delle missive che trattano della morte del fratello Giulio, di quelle inviate ai membri della legazione del Gran-duca di Toscana a Vienna, o di quelle che riguardano gli acquisti per il suo museo. Sono pochi i casi di date sbagliate e rimaneggia-menti da parte dell’autore non sono del tutto da escludere.21 A tal proposito, Salvatore Ritrovato sospetta lo «schiacciamento crono-logico» (ossia il cambiamento delle date) di alcune lettere, risalenti a quello che viene definito il «travagliato decennio della crisi poe-tica», e avanza l’ipotesi che Rinaldi, riflettendo attraverso le lettere su quanto pubblicato fino a quel momento, volesse ridefinire la sua vicenda letteraria, distinguendola in due periodi: «uno di ricerca at-tiva, quando egli è ‘attore’ della ricerca, e quello del suo disimpe-gno, allorché è diventato semplice e appartato spettatore delle nuo-ve correnti».22 E in effetti, osservando le date delle lettere in cui Ri-naldi annuncia il suo proposito di rinunciare alla poesia, si nota co-me egli parli del suo «giuramento» soprattutto intorno al biennio 1611-1613 e poi vi faccia solo sporadici accenni.

Ulteriore novità rispetto alla tradizione precedente è il conte-nuto dichiaratamente familiare e privato delle lettere, la cui dispo-sizione si sottrae all’organizzazione per ‘capi’ che aveva contribuito al successo dei formulari per i segretari. Tuttavia, al di là di questa considerazione più generale, ciò che rende davvero interessante questa raccolta è il dettaglio con cui viene descritto il processo di

21. È il caso, per esempio, della lettera a Giovan Battista Marino del 29 no-

vembre 1611 (Lettere 1624, vol. 2, pp. 361-362) o dell’oscillazione della data della lettera a Roberto Fontana del 12 febbraio 1609 (Lettere 1617, pp. 172-174) per le quali cfr. infra nota 22.

22. RITROVATO, ‘Per te non di te canto’: i madrigali di Cesare Rinaldi, pp. 101-103. A supporto di tale considerazione si segnalano nuovamente le lettere a Ercole Pepoli e a Roberto Fontana che andrebbero collocate nel primo decen-nio del Seicento, uniche fuori dall’arco di tempo (1611-1624) coperto da tutte le altre lettere; sintomatica in tal senso è l’oscillazione della data della seconda lettera in esame, che passa da 12 febbraio 1609 a 16 febbraio 1613 dalla prima alla seconda edizione, forse con l’intento di uniformarla alla cronologia che domina nel resto del volume.

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pubblicazione dell’epistolario stesso: una metanarrazione che corre lungo tutta la raccolta e che ricostruisce, in una ventina di lettere, le tappe salienti dal primo progetto del libro alla sua stampa. Non si hanno notizie sul momento a cui risale la prima idea di un vo-lume di lettere, tuttavia già nel 1612 il poeta affida a Giulio Segni una parte dell’opera perché la corregga, sottolineando la sua natura di volume di lettere famigliari:

Mi persuade Vostra Signoria a porre alle stampe un mio volume di lettere famigliari. […] Io le pongo nelle mani una parte del suddetto volume e la faccio mio correttore, se ben mi rendo sicuro la correzione non poter esser altro che una condannagione a perpetuo silenzio.23

Nel luglio 1613 il lavoro è ancora in corso e Rinaldi non è in

grado di prevedere quando verrà portato a termine;24 egli spera nel-l’autunno, ma a dicembre la situazione non è cambiata e Rinaldi riferisce a Bartolomeo Belloni il progetto di recarsi a Venezia dopo Pasqua per provvedere alla stampa.25 Nelle lettere trovano spazio anche risposte alle critiche dei lettori e commenti sulle sue scelte linguistiche:

[È] difficile compiacer a gl’ingegni pellegrini, parte de’ quali già mi rimpro-vera che tutte le mie lettere sono dirette a genti private, come se la bellezza d’una composizione consistesse nel superficiale ornamento d’un nome re-gio. E mi converrà nel principio dell’opera avvertire i lettori, acciò che que-gli elevati spiriti, i quali non leggerebbono componimenti dirizzati fuor ch’ad eroi, non perdano il tempo a rivoltar le mie carte. Ho però sempre scritto a cavalieri principali, a persone virtuose, a cari amici, ch’a me sono in vece di prencipi.26

Vostra Signoria m’esorta all’edizione del mio volume, se ben quest’ufficio mi ripugna all’essermi amico, persuadermi ch’io parli in publico con lin-gua macchiata di lombardesimi e piena di mille imperfezioni? Mi convien prima purgarla ben bene e poi mi ridurrò sotto la censura delle stampe.27

23. A Giulio Segni, 26 Giugno 1612 (Lettere 1617, p. 199). 24. A Erodio Scarella, 24 luglio 1613 (Lettere 1617, p. 157). 25. A Bartolomeo Belloni, 4 dicembre 1613 (Lettere 1617, pp. 144-145). 26. A Ottavio Scarlattini, 10 febbraio 1614 (Lettere 1617, p. 131). 27. A Ottavio Rossi, 10 febbraio 1615 (Lettere 1617, pp. 82-83).

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Il 1615 è l’anno in cui avviene la scelta dello stampatore. A feb-braio viene riferita a Rinaldi l’offerta del bresciano Bartolomeo Fontana di pubblicare il volume presso di lui, tuttavia la proposta viene declinata perché Rinaldi ha già preso l’impegno a Venezia con Tomaso Baglioni.28 In contrasto con questa risoluzione è la let-tera di agosto a Pietro Passi, con la quale egli viene coinvolto nella correzione del volume; in questa occasione Rinaldi afferma di voler rifiutare la proposta del Passi di ricorrere a Baglioni, perché per co-modità preferisce far stampare il volume a Bologna.29 A meno di non supporre un momentaneo cambio di idea da parte di Rinaldi, è possibile che si debba diffidare della data; forse, all’inizio del pro-getto, mentre stava valutando le possibilità di stampa, Rinaldi aveva pensato a una soluzione più pratica, ma nel 1615, quando ormai il volume è in avanzato stato di realizzazione, non vi è ragione di du-bitare della scelta dello stampatore. L’ipotesi è appoggiata dalla let-tera che Rinaldi invia a Passi a novembre, nella quale conferma la sua scelta:

Quanto alle stampe, prometto l’opera al Baglioni. So che egli stima l’onore e questo mi basta, per quante offerte egli potesse farmi e di buona carta, e di buon carattere, e di buona correzione.30

Ulteriore conferma viene dalla lettera inviata allo stesso Ba-

glioni, in cui Rinaldi comunica che la scelta è ricaduta su di lui, so-prattutto grazie alla raccomandazione fatta da Passi.31 Sempre scri-vendo a quest’ultimo, Rinaldi giustifica anche il ritardo della stam-pa, riferendo che sta trascrivendo di persona il volume

per non sottoporlo alla volontaria insufficienza de’ copisti, i quali, nel co-piare gli scritti altrui, imparano in tante occhiate tanti periodi, e nel resto usano la loro capricciosa ortografia, adulterando le copie e disonorando gli originali.32

28. A Erodio Scarella, 6 febbraio 1615 (Lettere 1617, p. 82). 29. A Pietro Passi, 20 agosto 1615 (Lettere 1617, p. 124). 30. A Pietro Passi 28 novembre 1615 (Lettere 1617, p. 44). 31. A Tomaso Baglioni, 16 aprile 1616 (Lettere 1617, c. A4r). 32. A Pietro Passi, 28 novembre 1615 (Lettere 1617, p. 44). La preoccupazione

di Rinaldi per i compositori è testimonianza di un problema che afflisse il pro-cesso di stampa fin dai suoi albori e che continuava a preoccupare gli autori che decidevano di stampare le proprie opere.

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A questo punto il volume è ormai completo, ma verrà stampato solo nel 1617. Nel corso del 1616 Rinaldi decide di dedicare la sua opera al cardinale Alessandro d’Este33 e già accarezza l’idea di im-bastire un secondo volume di lettere, non appena avrà avuto la cer-tezza che il primo è stato ben accolto.34

Mentre è in corso la preparazione della seconda edizione, che vedrà la luce nel 1620, Rinaldi si trova nuovamente a dover rispon-dere a chi lamenta l’assenza di lettere di «negozio» nella sua opera:

Io non ho pratica in corte, non ho da trattar cause né per me, né per altri, non ho maneggi di casa, né disturbi di villa, sì ch’io non applico me stesso fuor ch’a miei studi. E quando scrivo a gli amici, mancandomi altra occa-sione, sto su le piacevolezze e su complimenti.35

Questa affermazione non solo ribadisce ancora una volta e con maggiore forza il fatto che Rinaldi abbia costruito un volume di lettere familiari, ma racchiude anche in poche righe i contenuti del suo epistolario: gli «studi», le «piacevolezze» e i «complimenti», vale a dire le riflessioni poetiche, gli scambi librari, gli interessi culturali, la ricerca di nuovi pezzi per il suo museo e la cura dei rapporti con gli amici.

Con i suoi conoscenti Rinaldi scambia molti libri: spesso si trat-ta di novità editoriali, ma gli amici non mancano di inviargli lavori inediti per conoscere la sua opinione e chiedere correzioni, anche per conto di terzi che, venuti a conoscenza della sua fama, deside-rano il suo parere. Egli è generoso di lodi, ma non trattiene le criti-che quando gli viene sottoposto qualcosa che non incontra il suo gusto.36 In questo modo Rinaldi ebbe dunque l’occasione di leggere in anteprima, o appena uscite dal torchio, le opere di alcuni dei più rilevanti autori del tempo. Tra le tante apprezzò la raccolta di sonet-

33. A Giuseppe Fontanelli, 1 giugno 1616 (Lettere 1617, pp. 116-117). 34. A Vangelista Sartorio, 20 marzo 1616 (Lettere 1617, pp. 16-17). 35. Ad anonimo, 10 gennaio 1618 (Lettere 1620, vol. 2, p. 233). 36. A Giuliano Bezzi, 21 marzo 1618 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 44-45): «Che

sventura è la mia; trovansi in Bologna tanti pellegrini ingegni, co’ quali sareb-bono i meriti miei tenebre in paragon di Sole, e pur me solo ha costui eletto per correttore delle sue mostruose mormorazioni. Egli ha stile satirico, la mal-dicenza è vizio, e per la porta del vizio si crede il misero di salire alla gloria». Nonostante il gustoso ritratto poetico offerto da Rinaldi, non è possibile risa-lire all’identità di questo personaggio.

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ti Siringa di cento calami inviata da Alessandro Calderoni,37 il poema eroico di Ridolfo Campeggi Le lagrime di Maria Vergine,38 la tradu-zione castigliana dell’idillio La Salmace di Girolamo Preti39 e La Ga-leria di Giovan Battista Marino.40

Oltre a essere espressione di un interesse librario vivo e attuale, le lettere diventano in diverse occasioni spazio privilegiato per la ri-flessione poetica: le opinioni di Rinaldi sulla poesia e sulla decisio-ne di rinunciarvi sono al centro di numerose missive. Le lettere chiariscono i capisaldi della sua poetica, che mette al centro l’amore come «vero soggetto del poeta lirico», benché egli ne abbia sempre ottenuto «travagli senza ristoro e fatiche senza guiderdone».41 Ri-naldi fa risalire il suo desiderio di diventare poeta all’ambiente na-turale del Monte dell’Oro, descritto come un vero e proprio locus amoenus che perde i suoi contorni di realtà per diventare il luogo ideale in cui la poesia prende forma e sostanza.42 L’autore ritiene comunque che la sua esperienza come poeta sia finita, tanto da af-fermare che l’abbia addirittura «rovinato». Le pagine dell’epistola-rio non illuminano sulle reali motivazioni di tale rinuncia, ma da esse traspare la sofferenza che gli ha portato l’esperienza poetica e il fermo proposito di mantenere fede al suo voto, al punto da ren-dere le lettere il luogo più adatto in cui fare pubblico annuncio del-

37. ALESSANDRO CALDERONI, Siringa di cento calami, Firenze, Donato-Giunti,

1615. Cfr. la lettera allo stesso, 29 settembre 1615 (Lettere 1617, p. 48). 38. RIDOLFO CAMPEGGI, Le lagrime di Maria Vergine, Bologna, Bonomi, 1617.

Cfr. la lettera allo stesso, 9 febbraio 1618 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 43-44), infra n. 39.

39. La Salmace ydilio del senor Geronimo Preti, traducido de italiano en castellano por el senor don Pedro Especial de Rossel, Milano, Bidelo, 1619. La prima edizione dell’opera italiana risale a un decennio prima (La Salmace, Bologna, eredi di Rossi, 1608). Cfr. la lettera a Filippo Ghisilieri, 4 aprile 1620 (Lettere 1620, vol. 2, p. 64), infra n. 42.

40. GIOVAN BATTISTA MARINO, La Galeria, Venezia, Ciotti, 1619-1620. Cfr. la lettera al Signor Carlo, 6 febbraio 1620 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 99-100) in cui riferisce che Lodovico Malvezzi gli ha fatto dono del libro, infra n. 45.

41. A Marco Antonio Vaccari, 31 luglio 1614 (Lettere 1617, pp. 112-113). Cfr. infra, lettera n. 21.

42. A Prospero Castelli, 17 luglio 1611 (Lettere 1617, p. 240). Cfr. infra, lettera n. 30. Riguardo al Monte dell’Oro come luogo poetico cfr. RITROVATO, «Per te non di te canto»: i madrigali di Cesare Rinaldi, pp. 145-148.

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la sua decisione.43 A questo punto può essere interessante una os-servazione riguardo alla presenza volatile dei componimenti poetici all’interno dell’epistolario. Infatti, se nella prima edizione del 1617 le composizioni che Rinaldi scambia con gli amici o con personalità illustri sono allegate alle lettere,44 ben diversa è la situazione nelle due edizioni successive. Quando il volume viene ristampato nel 1620, le poesie vengono del tutto eliminate e nel secondo volume non ne compaiono di nuove, mentre nell’aggiunta del 1624 è pre-sente il madrigale Morivan l’herbe, e i fiori, allegato ad una lettera priva di destinatario, in cui Rinaldi dichiara di concedersi una de-roga dal suo proposito per comporre una poesia di argomento reli-gioso, terreno ben diverso dalle «poesie profane» oggetto del giura-mento.45

Dopo la poesia, l’altro grande interesse di Rinaldi fu il suo mu-seo privato, in cui raccoglieva non solo pitture, ma anche «animali esotici, e vivi, e morti»46 e oggetti rari: un collezionismo eclettico non insolito per quel periodo e che attirava moltissimi visitatori, desiderosi di ammirare la sua raccolta di curiosità.47 La ricca biblio-

43. A Marco Antonio Morandi, 20 ottobre 1619 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 16-

17): «Ho giurato in publico di non far più versi. Io dico in publico perché, nel publicato volume delle mie lettere, apparisce la confessione del giuramento. Ora, se Vostra Signoria l’ha letto, perché ingannar sé stessa col darsi a credere ch’io abbia giurato per scherzo?»).

44. Si tratta delle poesie Imposto silenzio (canzone, pp. 35-38), Non è si bello il verde in Faggio, o in Pino (ottave, p. 70), Nel midollo d’un Faggio (canzone, pp. 103-106), Oh, s’havesse il mio stil voci di fiamma (canzone, pp. 139-140), In quest’argen-tea nube (canzone, pp. 172-174), O tu, c’hai verde donne (madrigale, p. 196), Da la piaggia felice (madrigale, p. 204), Io parlerò à voi Donne spietate, e belle (madri-gale, p. 207), Non è il Novembre la stagion de’ fiori (sonetto, pp. 213-214), Pria c’offrirti corone e d’ostri, e d’ori (madrigale, p. 239), e l’intermezzo Io son tarda, io son cieca (p. 107).

45. Lettera priva di destinatario e di data (Lettere 1624, pp. 287-288). Cfr. infra, lettera n. 67.

46. Teatro d’huomini letterati aperto dall’abbate Girolamo Ghilini academico inco-gnito all’illustrissimo signor il signor. Gio. Francesco Loredano, Venezia, Guerigli, 1647, p. 58.

47. «Più gente viene alle mie stanze per curiosità di vedere, che per vaghezza di mirar le mie pitture. So ben che non viene alcuno per vedere me, o per discorrer meco». A Pierantonio Campana, lettera priva di data (Lettere 1624, pp. 306-307), cfr. infra lettera n. 68. Per un approfondimento sul collezionismo

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teca era parte integrante del museo, ma, più che descriverne il con-tenuto, Rinaldi si lamenta dei continui furti di cui era vittima, con-cludendo però con un certo spirito che la causa della sparizione dei volumi migliori dalla sua biblioteca è da imputare al fatto che con le sue pubblicazioni ha riempito il mondo di libri cattivi.48

La passione per l’arte figurativa, di cui rendeva testimonianza concreta il suo museo, lo portò a intrecciare stretti rapporti con l’ambiente artistico bolognese: capita che egli lodi e critichi dipinti di sua proprietà o visti nelle botteghe dei pittori bolognesi e in casa di amici. In particolare, oltre a partecipare in gioventù ai raduni dei Carracci,49 Rinaldi ebbe stretti rapporti con Giovanni Valesio e Guido Reni,50 intervenendo con consigli e suggerimenti sulla com-posizione dei dipinti. Del primo critica il momento in cui era stata

cfr. CRISTINA DE BENEDICTIS, Per la storia del collezionismo italiano, Firenze, Ponte alle Grazie, 1988, ADALGISA LUGLI, Naturalia et Mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d’Europa, Milano, Mazzotta, 1990, e GIU-

SEPPE OLMI, Arte e natura nel Cinquecento bolognese. Ulisse Aldrovandi e la raffigu-razione della natura, in Le Arti a Bologna e in Emilia dal XVI al XVII secolo. Atti del XXIV Congresso Internazionale di Storia dell’Arte, Bologna, CLUEB, 1982, pp. 151-171.

48. «Certi amici, rubandomi oggi un libro e dimani un altro, hanno disfatta una gran parte del mio museo. Io, invece di formarne querela, ho giudicato convenirmisi per giustizia un tal castigo, ch’altri mi rubino i libri buoni perché di cattivi io riempio il mondo». Cfr. lettera a Giovanni Agostino Bargellini, 27 febbraio 1619 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 12-13).

49. Con loro Rinaldi ebbe un saldo rapporto di amicizia, tanto che Agostino Carracci realizzò per lui il ritratto inciso nel frontespizio di una sua raccolta poetica (Delle rime di Cesare Rinaldi bolognese parte terza, Bologna, Benacci, 1590). Per il funerale dello stesso Agostino, Rinaldi compose invece il sonetto Pittura, e poesia suore, e compagne (confluito nella raccolta Il funerale d’Agostin Carraccio, Bologna, Benacci, 1603, p. 44).

50. La principale fonte di notizie sui rapporti tra Rinaldi e i pittori bolognesi resta CARLO CESARE MALVASIA, Felsina Pittrice: vite de’ pittori bolognesi, Bolo-gna, Guidi all’Ancora, 1841. Attualmente è in pubblicazione negli Stati Uniti un’edizione moderna in più volumi: MALVASIA, Felsina pittrice. Lives of the Bo-lognese painters, a cura di Elizabeth Cropper e Lorenzo Pericolo, Turnhout, Bre-pols, 2012. Tuttavia finora è stata pubblicata solo la vita di Guido Reni (MAL-

VASIA, Felsina Pittrice. Volume IX: Life of Guido Reni, a cura di Elizabeth Cropper e Lorenzo Pericolo, Turnhout, Brepols, 2019). I luoghi della Felsina pittrice in cui sono descritti i rapporti di Rinaldi con l’ambiente artistico bolognese sono segnalati da OTTAVIO BESOMI, Cesare Rinaldi e l’ambiente bolognese, in Ricerche intorno alla ‘Lira’ di G.B. Marino, Padova, Antenore, 1969, p. 88. In particolare:

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catturata l’immagine di una Lucrezia: Rinaldi aveva proposto che venisse colto l’istante in cui la donna stava per togliersi la vita, ma sembra che il pittore avesse deciso di dipingerla come se ella avesse solo intenzione di suicidarsi.51 Loda poi la verosimiglianza di una Cleopatra, ritratta sul punto di farsi mordere dall’aspide: il serpente sembra vivo ed egli teme che si risvegli ed esca dal dipinto per mor-derlo, al punto da annunciare spiritosamente che sarebbe sempre andato in giro con un antidoto in tasca.52 A Guido Reni rimprove-ra il «diadema» posto sulla testa di un San Floriano e chiede che sia tolto, ritenendo che tolga «rilievo» alla pittura.53 In diverse occasio-ni fece anche da mediatore tra gli amici pittori e i possibili commit-tenti. Per conto di un signore pavese, chiese a Valesio di intagliare in rame un disegno fatto dal committente stesso, suggerendo però alcuni cambiamenti nella disposizione delle figure per migliorarne la composizione,54 mentre a nome di Reni contratta il prezzo di un’opera, contestando l’offerta di 60 scudi fatta dal corrispondente anonimo e chiedendo non meno di 100 zecchini.55

Rinaldi aveva anche una profonda conoscenza del panorama musicale della sua epoca, senza contare che moltissimi dei suoi ma-drigali vennero intonati ed entrarono a pieno titolo nel repertorio dei musicisti coevi.56 Come testimoniato anche dai suoi biografi, egli amava partecipare alle rappresentazioni teatrali e ai concerti, ai quali era abitualmente invitato presso l’Accademia degli Irrigati. Le sue conoscenze in campo musicale si esprimono in gusti molto pre-cisi al punto che in un’occasione fece esplicita richiesta di evitare le composizioni di Tommaso Pecci.57

Ludovico e Agostino Carracci, I, 84, 312, 336, 344; Domenico degli Ambrogi, I, 386; Guido Reni, II, 31, 45, 61; Gianluigi Valesio, II, 98-99.

51. A Giovanni Capponi, 3 gennaio 1614 (Lettere 1617, p. 134), infra n. 18. 52. A Giovanni Valesio, 4 ottobre 1613, (Lettere 1617, pp. 147-148), infra n.

21. 53. A Guido Reni, 26 aprile 1613 (Lettere 1617, p. 160), infra n. 22. 54. «Preparisi ella in tanto al peregrino lavoro, né si parta dalla prescritta

norma caso che non valesse torcer un poco più a banda sinistra il Pegaso, che raspa con l’unghia il monte, per esser troppo vicino a Pallade». Cfr. lettera a Giovanni Valesio 17 agosto 1611 (Lettere 1617, pp. 229-230), infra n. 28.

55. Ad anonimo, 6 aprile 1620 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 87-88), infra n. 44. 56. Una ricca lista dei madrigali di Rinaldi posti in musica è presente in RI-

TROVATO, «Per te non di te canto»: i madrigali di Cesare Rinaldi, pp. 129-144. 57. «Ma, di grazia, patteggi con il nostro Signor Lorenzo Righetti che non ci

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Accanto alle numerose notizie che ci consegnano un vivido ri-tratto della vita culturale e artistica bolognese dell’epoca, ciò che trova maggiore spazio all’interno dell’epistolario sono i rapporti personali che Rinaldi intrattiene con un grande numero di corri-spondenti, tra i quali si ritrovano alcuni dei personaggi più noti della letteratura e della pittura di quel periodo.

Il nome che spicca è quello di Giovan Battista Marino. A lui è indirizzata direttamente una sola lettera58 nella quale Rinaldi con-ferma di aver ricevuto una missiva dal poeta e rifiuta di fornirgli la copia o l’originale di un dipinto raffigurante Arianna. Marino com-pare però anche in altre lettere, prime fra tutte le due da cui si evince che Giovanni Paolo Caissotti59 aveva comunicato a Rinaldi la notizia dell’imminente liberazione di Marino dalla prigionia to-rinese e poi quella del suo effettivo rilascio. Quanto all’opera mari-niana, Rinaldi riferisce di aver letto La Galeria60 e di attendere con trepidazione la stampa dell’Adone.61 Pare, inoltre, che circolasse un volume di poesie boscherecce, falsamente attribuite a Marino, che

ponga avanti i madrigali del Pecci: cibo troppo gagliardo a stomaco troppo de-bole. Ciò dico per me, che non vorrei, in cambio di procurarmi diletto, procac-ciarmi vergogna». Cfr. la lettera a Francesco Maria Vitali, 20 maggio 1615 (Let-tere 1617, p. 71), infra n. 9.

58. La lettera è datata 29 novembre 1611 (Lettere 1617, p. 248), tuttavia la sua datazione è contestabile (cfr. infra lettera n. 34). Marino cita Rinaldi nel suo epistolario almeno quattro volte: fa il suo nome a Lodovico Carracci, perché gli anticipi il denaro necessario al pagamento di un dipinto; ad Andrea Bar-bazza chiede che Rinaldi solleciti un quadro, sempre al Carracci, e in un’altra lettera gli manda i suoi saluti; infine paragona i versi di Rinaldi con quelli di un poeta criticato da Stigliani per i traslati, a suo dire, troppo arditi (Cfr. GIO-

VAMBATTISTA MARINO, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Ei-naudi, 1966, nn. 41, 56, 144, Attribuite 4).

59. A Giovanni Paolo Caissotti, 14 dicembre 1611 e 19 luglio 1612 (Lettere 1617, pp. 193 e 217), infra n. 24 e n. 26. Marino fu incarcerato a Torino nel 1611, accusato di aver diffuso componimenti ingiuriosi contro il duca di Sa-voia. La vicenda, complicata dall’aggiunta di altri numerosi documenti com-promettenti, si concluse con la scarcerazione di Marino nel 1612, grazie all’in-tervento dell’ambasciatore inglese Henry Wotton. Per un approfondimento dettagliato sulla questione si rimanda a CLIZIA CARMINATI, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 92-124.

60. Cfr. lettera al signor Carlo, 6 febbraio 1620 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 99-100), infra n. 45.

61. L’Adone, poema del cavalier Marino, Parigi, Oliviero di Varano, 1623. Cfr. la lettera a Pierantonio Campana (Lettere 1624, pp. 306-307), infra n. 68.

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Rinaldi ammette di voler leggere.62 Oltre a Marino, nelle lettere trovano spazio altri personaggi del-

l’epoca, legati a vario titolo a Rinaldi. Sappiamo che per almeno due volte egli assistette alla rappresentazione del Tancredi63 di Ri-dolfo Campeggi, una volta presso l’Accademia dei Gelati64 e un’al-tra presso l’abitazione di Melchiorre Zoppio.65 Sempre dello stesso autore,66 assistette alla messa in scena del Filarmindo67 e dell’Andro-meda.68 L’amicizia con Campeggi è confermata da due sonetti in lode di Rinaldi pubblicati in apertura delle Rime del 161969 e del secondo volume delle Lettere del 1620.70

Rinaldi aveva inoltre avuto occasione di conoscere Torquato Tasso durante uno dei suoi soggiorni a Bologna, presso la casa di Giulio Segni.71 Insieme a lui viaggiava Antonio Costantini, con il quale Rinaldi mantenne i contatti e a cui sollecita anche la pubbli-cazione delle lettere che Tasso inviò a Segni e a Costantini stesso,72 a conferma dell’esemplarità dell’epistolografia tassiana per Rinaldi e per gli altri autori del primo quarto del Seicento. Interessanti so-no anche le lettere che Rinaldi invia a Tommaso Stigliani e a Ga-sparo Murtola, i quali, di lì a pochi anni, lo faranno oggetto della loro critica alla poesia marinista.73

62. A Lorenzo Badoaro, 29 maggio 1622 (Lettere 1624, pp. 271-272), cfr. infra

n. 64. 63. Il Tancredi tragedia dell’illustriss. sig. conte Ridolfo Campeggi nell’Academia de’

Gelati il Rugginoso, Bologna, Cochi, 1614. 64. A Lodovico Scapinelli, 4 febbraio 1615 (Lettere 1617, p. 83). 65. A Roberto Poggiolini, 19 gennaio 1615 (Lettere 1617, p. 86). 66. A Ridolfo Campeggi, 19 febbraio 1615 (Lettere 1617, p. 29). 67. Filarmindo favola pastorale del Rugginoso Gelato il conte Ridolfo Campeggi, Bo-

logna, eredi Rossi, 1605. 68. Andromeda tragedia del co. Ridolfo Campeggi. Da recitarsi in musica, Bologna,

Cochi, 1610. 69. Rime del Sig. Cesare Rinaldi, in questa terza impressione dal medesimo autore

riviste, e ricorrette, Bologna, Cochi, 1619. 70. Si tratta rispettivamente dei sonetti Vinse barbare genti, ed à l’Impero (con-

fluito poi in Delle poesie del signor conte Ridolfo Campeggi, Venezia, Faber, 1620, p. 98) e Col Pennello immortal la prisca Etate (Lettere 1620, II, c. †4r).

71. Ad Antonio Costantini, 3 settembre 1615 (Lettere 1617, p. 53), cfr. infra lettera n. 6.

72. Al medesimo, 29 giugno 1611 (Lettere 1617, p. 243), cfr. infra lettera n. 31. 73. A Tommaso Stigliani, 20 settembre 1617 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 230-

231) e a Gasparo Murtola, 2 marzo 1618 (Lettere 1620, vol. 2, pp. 190-191), cfr.

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Al di là dei contatti con gli illustri personaggi appena citati, la ragion d’essere della raccolta resta quella di mantenere e rinnovare i legami di amicizia e di servizio; non sorprende quindi che tutte le lettere contengano tracce più o meno evidenti di una rete di con-tatti ampia e varia, di cui però si riesce a cogliere solo un ritratto appena accennato, che rende difficoltoso comprenderne la reale estensione. Un primo aiuto in questa direzione è stata la schedatura dell’intero corpus delle lettere, pubblicato ora sulla piattaforma Ar-chilet. Questo approccio ha permesso di mettere Rinaldi in recipro-ca relazione con i suoi corrispondenti e con i rispettivi epistolari, nonché con la rete culturale, artistica e letteraria di cui era parte.

NOTA AI TESTI

La trascrizione del testo è avvenuta dalle edizioni sopra descritte. Gli interventi sul testo sono volti a un generale ammodernamento della grafia e della punteggiatura. In particolare sono stati effettuati i seguenti interven-ti: distinzione u/v, trasformazione di j in i (ad es. operarij>operarii), resa con-forme all’uso moderno di accenti e apostrofi (ad es. à>a; hò>ho, mà>ma), scioglimento di tutte le abbreviazioni (la nota tironiana è sciolta in e da-vanti a consonante e in et davanti a vocale), eliminazione dell’h etimologica (honore>onore) e trasformazione del nesso ch in c (ad es. Christo>Cristo), tra-sformazione del nesso ti o tti+vocale in z (ad es. inventione>invenzione), con-servazione delle geminazioni e delle scempiature diverse dall’uso moderno (ad es. mezo), abbassamento delle maiuscole tranne che in nomi propri, personificazioni e antonomasie, ammodernamento dell’interpunzione con conseguente aggiunta della maiuscola dopo il punto fermo; il discorso di-retto, quando presente, è introdotto con due punti e virgolette caporali («»); i titoli delle opere sono stati resi in corsivo.

Dal confronto delle prime due edizioni non sono emerse vistose diffe-renze testuali: gli unici interventi sono correttivi, laddove furono indivi-duati minimi errori di stampa sfuggiti alla errata corrige del 1617.

Per quanto riguarda l’ordinamento di questa antologia, si è preferito rispettare quello con cui le lettere compaiono nell’epistolario, per non al-terare la particolare struttura che Rinaldi decise di dare alla sua opera. Di conseguenza si è rispettato anche l’ordine di edizione, partendo dalle let-tere edite nel 1617, per poi inserire quelle delle edizioni del 1620 e del 1624. Qualora il testo o i dati cronotopici delle lettere fossero stati modi-

infra n. 60 e n. 52.

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ficati tra la prima e la seconda edizione, trattandosi principalmente di in-terventi correttivi, ne è stato tenuto conto dando indicazione in nota della redazione precedente; ugualmente si è proceduto agli aggiustamenti del testo secondo l’errata corrige. Sono stati invece mantenuti i testi poetici eli-minati nel 1620.

L’epistolario di Rinaldi è estremamente vario per quanto riguarda con-tenuti e corrispondenti. I criteri che hanno guidato la scelta delle lettere hanno tenuto conto di questa complessità. Dal punto di vista contenutisti-co, si è deciso di privilegiare le lettere che trattano di poetica, arte figura-tiva, teatro e musica: tutti ambiti a cui Rinaldi era interessato e di cui aveva una conoscenza approfondita. Riguardo ai corrispondenti, la scelta è rica-duta su tutte le lettere indirizzate a personaggi di rilievo nel panorama ar-tistico e letterario dell’epoca, privilegiando quelle il cui contenuto fosse di un certo interesse ed escludendo i semplici scambi di saluti.

DALLE LETTERE 1617

1 Al signor Girolamo Preti a Roma.

Le Rime di Vostra Signoria, stampate ultimamente in Venezia,1 superano l’invidia, ma non la mia credenza perché, quali mi si mostrano in effetto, tali mi si scopersero nell’imaginativa: dolci, leggiadre, spiritose e di candi-dissimo stile e di nobilissimi traslati. In loro esaltazione varrammi il dire ch’io le ho sentito lodare da chi non lodò mai cosa alcuna fuor che se medesmo. Quindi argomenti Vostra Signoria il valore della sua Musa, poich’ella ha potuto rimover da quel superbissimo Narciso l’invecchiato costume del proprio compiacimento. Il veder costui cangiato dall’esser di prima basta per tutti gli encomii dell’universo. Resta ch’ella sappia come la sua lettera, scritta al signor Segni,2 è capitata, come il Dottore Scapinelli

1.Idilli, e rime del sig. Girolamo Preti. All’illustriss. sig. il signor d. Ascanio Pio di

Savoia, Venezia, Ciotti, 1616. 2. Giulio Segni. Di lui non si conoscono le date di nascita e di morte, ma si

ipotizza che fosse di origine modenese. Intraprese da giovane la carriera eccle-siastica e si dedicò allo studio e alla produzione di versi latini. Aprì una scuola e nel 1584 ottenne dal Senato di Bologna la pubblica lettura di Grammatica, che gli venne tolta per un breve periodo quando l’Inquisizione gli mosse alcune accuse. Grazie all’intercessione di Gian Angelo Papio, nel 1583 riuscì ad incon-trare Torquato Tasso, che tanto ammirava, mentre questi si trovava a S. Anna e con lui strinse una salda amicizia. Segni si occupò anche della stampa delle Lettere del Sig. Torquato Tasso non più stampate, Bologna, Cochi, 1616 (GIO-

VANNI FANTUZZI, Notizie degli scrittori Bolognesi, Bologna, stamperia di San Tommaso d’Aquino, 1781-1794, vol. 8, pp. 378-381). Cfr. lettera n. 5 e i saggi

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ha ricevuto l’inchiusa3 e com’io sento un’estrema consolazione vedendo continuamente nella persona di Vostra Signoria avvantaggiarsi il merito, et avanzarsi la gloria. Di Bologna il dì 19 di febraro 1616.

2

Al signor conte Ridolfo Campeggi.4 Alcuni gentiluomini forestieri, innamorati del valore di Vostra Signoria Illustrissima, sapendo che fra pochi giorni ha da recitarsi il suo Tancredi,5 ricorrono a me per introduzione. Et io, dalla solita benignità di lei fatto sicuro, con l’esempio del Filarmindo e dell’Andromeda, 6 mi prometto il pas-saporto per tutti. Intendo che si rappresentano nuovi intermedii, annessi di tal maniera al soggetto della tragedia, che paiono anelli di quella gran

di Marzia Giuliani e Elisabetta Olivadese in questo volume.

3. Lodovico Scapinelli (1590 ca.-1634). Mancando ancora la corrispondente voce del DBI, si rimanda a GIROLAMO TIRABOSCHI, Biblioteca modenese o Noti-zie della vita e delle opere degli scrittori natii degli stati del serenessimo signor duca di Modena [...], Modena, Società Tipografica, 1781-1786, vol. 5, pp. 49-63. Si de-dicò fin da giovane agli studi e ben presto entrò nelle grazie di Alfonso III d’Este che si adoperò per aiutare lo Scapinelli nella sua carriera. Nel 1609 si laureò in filosofia a Bologna e lì ottenne la cattedra di eloquenza che coprì fino al 1618. Insegnò tre anni a Modena prima di ottenere la cattedra a Pisa e tornò a Bologna nel 1628, dove insegnò fino alla morte.

4. Ridolfo Campeggi (1565-1624). Nato a Bologna da nobile famiglia, fu uomo di vasta cultura letteraria; nella sua città fu membro dell’Accademia dei Gelati e degli Incogniti di Venezia. La sua produzione fu ampia e toccò tutti i generi letterari più in voga della sua epoca. Nelle lettere di Rinaldi vengono ricordate diverse sue opere (CLAUDIO MUTINI, Campeggi, Ridolfo, in DBI, XVII, 1974, pp. 470-472).

5. Il Tancredi tragedia dell’illustriss. sig. conte Ridolfo Campeggi nell’Academia de’ Gelati il Rugginoso, Bologna, Cochi, 1614. Per una riflessione sulla tragedia e i rimandi boccacciani si veda GRAZIA DISTASO, ‘Il Tancredi’ di Ridolfo Campeggi, in ‘Non di tesori eredità’: studi di letteratura italiana offerti ad Alberto Granese, a cura di Rosa Giulio, Napoli, Guida, 2015, vol. 1, pp. 329-343. Riguardo alla sua rappresentazione cfr. MARINA CALORE, Accademie e teatro. ‘Il Tancredi’ di Ridolfo Campeggi a palazzo Zoppio nel 1615, «Strenna storica bolognese», XXXII, 1982, pp. 85-97.

6. Filarmindo favola pastorale del Rugginoso Gelato il conte Ridolfo Campeggi, Bo-logna, eredi Rossi, 1605; Andromeda tragedia del co. Ridolfo Campeggi. Da recitarsi in musica, Bologna, Cochi, 1610. Per un approfondimento cfr. KENICHI TA-

KAHASHI, Le prime edizioni e rappresentazioni del ‘Filarmindo’ di Ridolfo Campeggi e il ruolo di Giovanni Luigi Valesio, «L’Archiginnasio: bollettino della Biblioteca comunale di Bologna», XCVI, 2001, pp. 43-79; ALESSANDRA ORIGGI, Die ‘An-dromeda’ von Ridolfo Campeggi und die Rolle der Tragödie in der Frühphase der Oper, «Germanisch-Romanische Monatsschrift», LXIV, 2014, pp. 289-309.

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catena: l’Ira, l’Odio, la Vendetta, l’Omicidio e, col Pentimento, l’Ostina-zione:7 forme orribili per loro stesse, ma dilettevoli a’ riguardanti e che per l’autore saranno machine di gloria. M’imagino ancora splendidissima la scena e superbissimi gli apparati, perché, da lei e dall’Illustrissima sua Aca-demia,8 tre cose non possono star disgiunte: l’ingegno nel comporre, la magnificenza nello spendere, e la cortesia nel favorire gentilissima radu-nanza che fa grazie e non sosterrebbe d’esserne ringraziata. Di casa il dì 19 di febraro 1615.

3 Al signor Dottore Lodovico Scapinelli a Modona.

L’attendere a gli studii in questa così formidabile stagione è un arrischiare la propria salute. E mal si consiglia chi col tempo non si consiglia. Io vorrei che Vostra Signoria Eccellentissima risparmiasse sé stessa a sé stessa et a gli amici che la bramano perpetuamente felice. La descrizione ch’ella mi fa di quelle graziose ville su ’l modonese non potrebbe esser né più vaga, né più dilettevole. Ma i gusti son diversi, e ’l mio diletto è starmene di continuo nella Città. Verrò non dimeno a Formigine, prima che ’l Sole esca di Ver-gine, e verrò possessore di molte ricchezze, perché, s’ella manda al signor Segni l’Oceano9 del signor Calderoni,10 so ben io ch’egli in così maraviglio-so mare mi lascierà raccoglier perle et arricchire. Ma io son ricco mentre mi conservo la grazia di Vostra Signoria Eccellentissima e ricco mentre mi mantengo la sanità. Di Bologna il dì 10 d’agosto 1615.

7. Il testo di questi intermezzi non è presente né nella princeps (Bologna,

Cochi, 1614) né nell’edizione successiva (Venezia, Polo, 1620). Pur tuttavia CALORE, Accademie e teatro. ‘Il Tancredi’ di Ridolfo Campeggi a palazzo Zoppio nel 1615, p. 94, riportando quanto afferma PAOLO ANTONIO AMBROSI, Relatione de gli apparati del Tancredi, tragedia dell’illustriss. sig. co. Ridolfo Campeggi; fatta rap-presentare da gli Academici Gelati in Bologna il giorno 28 Maggio 1615, Bologna, eredi di Rossi, 1615, riferisce che in questa occasione gli intermezzi vennero rappresentati.

8. Accademia dei Gelati di Bologna di cui Campeggi era membro. Di notevole importanza è proprio la sua attività come scrittore di opere teatrali all’interno di questo consesso, per il quale cfr. MARINA CALORE, La biblioteca drammatica degli Accademici Gelati di Bologna: saggio storico bibliografico, «Atti della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna, Classe di scienze morali, Rendiconti», LXXXVII, 1992-1993, pp. 62-82.

9. È probabile che l’opera non sia mai stata stampata. 10. Alessandro Calderoni (1560 ca.-1618). Notaio faentino, la sua produzione

letteraria, improntata soprattutto alla poesia d’occasione, si estende tra il 1589 e il 1615, anno in cui venne pubblicata la Siringa dei cento calami. Tra i suoi corrispondenti, oltre a Rinaldi, vi furono anche Giulio Segni e Roberto Titi (CLAUDIO MUTINI, Calderoni, Alessandro, in DBI, XVI, 1973, pp. 615-616).

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4 Al signor Girolamo Magagnati11 a Venezia.

Accetto da Vostra Signoria il poema sopra il verno,12 non solo per leggerlo di verno, ma d’ogni tempo come descrizione piena di mille fioretti poetici che fanno vergogna a qual si voglia Primavera. Io ho in odio il freddo per-ché mi nuoce e Vostra Signoria gli dà tante lodi che me lo fa bramare eterno. Gran forza dell’eloquenza. Sto per dire ch’io m’indurrei ad assag-giare il veleno, se il veleno da così pellegrino ingegno mi fosse lodato; né solo è Vostra Signoria unica nel favellare, ma prodiga nel favorire. Io mi ricorderò sempre quando in Venezia con tanta prontezza mi s’offerse, che le sue offerte valsero più de gli altrui doni, et ora co’ doni vince l’offerte e m’arricchisco d’un volume d’oro, ch’oltre al pacificarmi col mio nemico mi dà segno com’io m’avanzo nella grazia di chi s’avanza nella gloria. Di Bologna il dì 14 di genaro 1612.

5 Al signor Fabrizio Mainardi a Castel Bolognese.

Per mantenimento del mondo niuna cosa era più necessaria che gli avver-timenti politici13 di Monsignor Vannozzi.14 Il signor Giulio Segni li ha po-sti in luce e, parendoli di non aver bastevolmente operato a beneficio com-mune, invitato da nuova cortesia a nuove dimostrazioni, tra molte lettere ch’egli conservava del maggior Tasso, e tra molte ottenute da varii Prencipi, ha stampato a pro de’ virtuosi una raccolta di perpetua memoria.15 Senza

11. Girolamo Magagnati (1565-1619 ca.). Fu letterato, poeta umoristico e ve-

traio veneziano, noto soprattutto per la sua corrispondenza con Galilei e per le biografie burlesche dei re di Roma, progetto però non concluso (EMANUELA

BUFACCHI, Magagnati, Girolamo, in DBI, LXVII, 2006, pp. 281-282). Un’edi-zione delle sue lettere è stata curata da LAURA SALVETTI FIRPO, Lettere a diversi del signor Girolamo Magagnati, Firenze, Leo S. Olschki, 2006.

12. GIROLAMO MAGAGNATI, La Vernata, Venezia, Bertolotti, 1612. 13. Si tratta dell’opera in tre volumi Della supellettile degli avvertimenti politici,

morali, et christiani del sig. Bonifatio Vannozzi, Bologna, eredi Rossi, 1609-1613. Giulio Segni curò la pubblicazione dell’opera.

14. Bonifacio Vannozzi (1553ca.-1621). Per una sua breve biografia si rimanda alla raccolta Memorie del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia, presso la segreteria del R. Istituto, tipografia di Giuseppe Antonelli, 1872, vol. 17, pp. 110-112. Il nome di Vannozzi è ricorrente all’interno dell’epistolario di Rinaldi e per il suo carteggio si rimanda al lavoro di Marzia Giuliani in questo stesso volume.

15. Si fa qui riferimento alla già citata raccolta Lettere del signor Torquato Tasso non più stampate, Bologna, Cochi, 1616. Le lettere furono raccolte da Antonio Costantini e il volume fu pubblicato a cura di Giulio Segni. In merito a questa edizione cfr. GIANVITO RESTA, Studi sulle lettere del Tasso, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 117-144.

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il Tasso il volume non si faceva, e senza il Segni il volume non si vedeva. Or a quale di due siano più dovuti i letterati, lascio ad altri la considera-zione venendo a quel che più m’importa, che è d’inviarne a Vostra Signo-ria una copia, e fossero tutte così degnamente e con tanta sodisfazione di-spensate. Di Bologna il dì 29 genaro 1616.

6 Al signor Antonio Costantini a Mantova.

Io mi reputo a singolar favore l’avermi Vostra Signoria participato le sue venture, delle quali mi rallegro ma non mi meraviglio, perché l’uomo vir-tuoso è padrone della fortuna. Non è questo, signor Costantini mio, il primo giorno della nostra amicizia, che da quel tempo ch’ella, insieme al famoso Tasso, albergò in casa del nostro signor Giulio Segni,16 io la co-nobbi di presenza e la giudicai meritevole d’ogni onore. Ringrazi dunque se stessa, e da se stessa attenda sempre cose maggiori, che le presenti gran-dezze son principio di pagamento e non intera soddisfazione de’ suoi cre-diti, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 3 di settembre 1615.

7 Al medesimo.

Torrei di patto a prendere i due terzi della mia facoltà quando avessi anche a perder seco la memoria de’ miei travagli. Io accenno a Vostra Signoria lo stato in ch’io mi trovo acciò ch’ella sappia che, per rallegrarmi con lei, mi conviene far trapasso dall’una all’altra estremità. Ella non ha nemici in-terni, nelle sue azioni fu sempre fortunata, et ora, per colmo e per mante-nimento delle sue venture, se le aggiunge lo sposalizio della signora Otta-via, sua figlia, tanto altamente collocata, che ben m’è noto quale sia il si-gnor conte di Quaranta, suo genero, la copia delle ricchezze, la nobiltà del sangue e la virtù dell’animo. Ci resta per ultima consolazione di Vostra Si-gnoria il veder la fecondità della prole, ch’io le auguro con tutto il cuore degna del padre e degna dell’avo. Di Bologna il dì 16 di settembre 1615.

8 Al signor Giovan Battista Manzini.17

16. Secondo ANGELO SOLERTI, Vita di Torquato Tasso, Roma, Loescher, 1895,

vol. I, pp. 675-676, Tasso soggiornò presso Giulio Segni nel marzo del 1591. 17. In Lettere 1617: ‘Marzini’. Correggo sulla base di Lettere 1620. Giovanni

Battista Manzini (1565-1619). Studiò diritto a Roma e a Bologna, poi Cam-peggi lo introdusse alla corte sabauda, ma vi rimase poco: fu costretto a lasciare Torino dopo essere stato coinvolto in un duello. Tornato a Bologna, si dedicò agli studi letterari ed entrò al servizio della famiglia Malvezzi. La sua opera let-teraria gli fece guadagnare una notevole fama e intrattenne rapporti epistolari con diversi personaggi illustri della sua epoca (LUIGI MATT, Manzini, Giovan

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Nella prudenza de’ padri consiste la gloria de’ figli. Vostra Signoria, da se stessa inchina all’acquisto delle scienze, aggiunti al proprio genio i paterni avvertimenti, cresce il desiderio della virtù, quasi fiamma che s’aggrandisce per fiamma. Fino ad ora io non so quali siano i suoi studii più favoriti, ma tutti sono lodevoli, bench’io non lodi molto la poesia, i meriti della quale rimetto alla considerazione del suo giudicio, l’utilità che se ne riceve e l’o-nore che se ne riporta. La poesia sarebbe buona, se non escludesse i pen-sieri migliori; ma i migliori pensieri sono così congionti all’animo di Vostra Signoria ch’indi non potrà separarlo già mai né la forza poetica, né sforzo di qual si voglia altra professione. Così avessi anch’io per esercizio del mio ingegno eletta la parte più giovevole, come per compiacimento del senso ho scelta la più dilettevole, che non vivrei al presente discaro a me mede-simo, inutile a’ padroni, et a gli amici infruttuoso. Di casa il dì 13 di mag-gio 1615.

9 Al signor Francesco Maria Vitali.

Niuna cosa mi ricrea più della musica e, perché ogni giorno ho bisogno di ricreazione, anche ogni giorno vorrei trovarmi nell’Academia nostra de gl’Irrigati, tra quei nobili concerti musicali. Ma il continuo godimento di quegli ozii virtuosi, che sarebbe per me una spezie di felicità, m’è invidiato dalla mia fortuna, la quale non mi riserba a contentezze che durino; anzi pur troppo le pare d’esser avvantaggiosa nel favorirmi, mentre mi concede ch’io capiti quattro o sei volte l’anno al desiderato albergo, non come aca-demico, ma come straniero. Giovedì sarà valido il mio privilegio e potrò, con buona licenza delle mie occupazioni, sodisfare al proprio genio e com-piacere a Vostra Signoria che sì cortesemente m’invita. Ma di grazia pat-teggi col nostro signor Lorenzo Righetti che non ci ponga avanti i madrigali del Pecci:18 cibo troppo gagliardo a stomaco troppo debole. Ciò dico per me, che non vorrei, in cambio di procurarmi diletto, procacciarmi vergo-gna. Di casa il dì 20 di maggio 1615.

10 Al signor Giacomo Cicognini19 a Fiorenza.

Battista, in DBI, LXIX, 2007, pp. 273-276).

18. Tommaso Pecci (1576 ca.-1604). Compositore di origine senese, pubblicò diversi libri di canzonette e madrigali, tratti, tra gli altri, da composizioni di Marino e Guarini (GREGORIO MOPPI, Pecci, Tommaso: questa voce del DBI, del 2015, si trova solo online al sito www.treccani.it).

19. Iacopo Cicognini (1577-1633). Studiò legge a Roma e, dopo essere stato al servizio di diversi prelati, iniziò l’attività di notaio a Firenze nel 1606. Scrisse diverse opere d’occasione e celebrative, in particolare commedie e drammi, e si dedicò poi ad un’intensa attività teatrale (MAGDA VIGILANTE, Cicognini, Jacopo,

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La festa nelle nozze de gli Eccellentissimi Prencipi, Don Michele Peretti e Donna Anna Maria Cesi,20 viene così ben solennizata dal signor Romolo Paradiso in prosa e dal signor Giacomo Cicognini21 in versi che ’l mondo ne terrà perpetua memoria. Io non lodo gli autori perché la lode è nel-l’opere e l’opere sono in luce. Ben debbo ringraziarli del dono che me n’han fatto. E, se ben pare ch’io trascuri questo ufficio, non lo trascuro, ma lo trasporto per accompagnare il ringraziamento con una dimanda, e la dimanda con una preghiera, la quale sarà che la grazia concedutami da due virtuosi tanto celebri non sia in un istesso tempo principio e fine de’ lor favori. Di Bologna il dì 2 d’aprile 1615.

11

Al signor dottore Lodovico Scapinelli a Modona. Siamo nel Carnevale, gli amici mi sforzano a mascherarmi in varie guise, e le mutazione sproporzionate mi nuocono alla salute. Se Vostra Signoria fosse qui, io consumo il tempo ne’ vani piaceri, che lo spenderei nell’ac-quisto della virtù. Parlo della virtù che s’impara da’ suoi dotti ragiona-menti. Vorrei ancora ch’ella fosse qui per udire il Tancredi22 del signor conte Ridolfo Campeggi, che nell’Academia de gli’illustrissimi Gelati ha da recitarsi in breve.23 E vorrei ch’ella si fosse trovata presente alla partenza del clarissimo Corrari, il quale, fatto novello sposo,24 affettuosamente la saluta, né già con minore affetto la saluta il clarissimo Bernardi.25 Io non m’aggiungo per terzo a tale ufficio perché il pormi in dozena tra cavalieri tanto principali m’acquisterebbe il nome di poco avveduto. Di Bologna il dì 4 febraro 1615.

in DBI, XXV, 1981, pp. 431-433).

20. Michele Peretti Damasceni sposò in seconde nozze Anna Maria Cesi il 13 novembre 1613 (cfr. GIAMPIERO BRUNELLI, Peretti Damasceni, Michele, in DBI, LXXXII, 2015, pp. 347-349).

21. Cicognini scrisse per le nozze Peretti-Cesi un breve poemetto, musicato per l’occasione, intitolato Amor pudico, Viterbo, Discepolo, 1614; in appendice fu stampata una lettera di Paradiso in cui viene descritta nel dettaglio la festa di nozze dei suddetti; chiude l’opera un sonetto di Iacopo Cicognini indirizzato a Paradiso, intitolato Se giri il guardo in un dolce, e severo.

22. Di quest’opera e di una sua rappresentazione si parla nella lettera a Ridolfo Campeggi, 19 febbraio 1615 (cfr. lettera n. 2).

23. Per le notizie sulla sua rappresentazione in casa di Melchiorre Zoppio si è già rinviato a CALORE, La biblioteca drammatica degli Accademici Gelati di Bolo-gna: saggio storico bibliografico, pp. 69-70.

24. Vincenzo Corrari sposò Giulia Gritti nel 1615. 25. Si tratta forse di Andrea Bernardi, al quale Rinaldi invia diverse lettere.

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FEDERICA CHIESA

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12 Al signor Lodovico Malvezzi.26

Mi dispiace che Vostra Signoria Illustrissima non sia stata presente ad una scrittura che giovedì fu letta nelle mie stanze, composta in dialogo con va-lide ragioni, e con una bella mischianza di gravi sentenze e di piacevoli arguzie, oltre la straordinaria magnificenza dello stile. Il mandar altri ad invitarla mi pareva atto di mala creanza, e ’l venir io stesso m’era interdetto. Ma si rileggerà ben tosto, et io emenderò il passato difetto con l’esser primo a procurar il favore della sua presenza. E so ch’ella da tal lezione ne trarrà piacere et utile. Dico di più, ch’ella ha conoscenza e pratica dell’autore, gentiluomo litterato e ripieno d’ogni modestia, se non quanto in osservar la persona di lei ardisce concorrer meco, che in ciò bramo compagnia, ma non patisco uguaglianza. Di casa il dì 11 d’ottobre 1614.

13

Al signor conte Ercole Pepoli a Ferara. Per le nozze di Vostra Signoria Illustrissima27 ho formata un’impresa e, sopra l’impresa, fabricata una canzone, e, nella canzone, stretti gli amori di lei, dell’Illustrissima sua consorte.28 Un pastorello nella corteccia d’un fag-gio incide una palma, sotto cui intagliata stende la pelle del leon Nemeo.

26. Ludovico Malvezzi (inizio XVII sec. – 1636). Nipote di Virgilio Malvezzi,

ebbe una vita piuttosto avventurosa a causa del suo carattere rissoso, che gli costò il bando da diverse città. Prese parte alla vita intellettuale di Bologna come membro dell’Accademia della Notte e la sua prima raccolta poetica vide la luce nel 1634 (I delirii della solitudine genii poetici del marchese Lodovico Malvezzi, Bologna, Monti-Zenero, 1634: CLIZIA CARMINATI, Malvezzi, Ludovico, in DBI, LXVIII, 2007, pp. 326-327).

27. Ercole Pepoli sposò Vittoria Cybo nel 1607. La notizia è riportata da POM-

PEO SCIPIONE DOLFI, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna con le loro insegne, e nel fine i cimieri. Centuria prima, con un breve discorso della medesima citta di Pom-peo Scipione Dolfi, Bologna, Ferroni, 1670, p. 603. Per questa occasione venne pubblicata la raccolta Nelle nozze del co. Ercole Pepoli et d. Vittoria Cibo, Bologna, eredi Rossi, 1609, alla quale partecipò anche Rinaldi con i componimenti alle-gati alla lettera. Nell’edizione del 1620 la lettera e le poesie vennero del tutto eliminate.

28. Per una ricostruzione della vicenda editoriale della raccolta di epitalami e un commento puntuale a questi versi di Rinaldi cfr. DANIELLE BOILLET, Il testo e l’immagine: a proposito del doppio contributo di Giovanni Luigi Valesio a raccolte per nozze (1607-1622), Line@editoriale [En ligne], n. 003 - 2011, Varia, mis à jour le: 12/05/2017, URL: http://revues.univ-tlse2.fr/pum/lineaeditoriale/index. php?id=749.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Indi, per dar vita al bel lavoro, avviticchia al nobile tronco il presente motto:

Viver non può senza Vittoria Alcide. Alle voci della sudetta pianta imparano a favellar gli arbori circonvicini, le pietre e l’acque: ogni cosa è piena di canto, perch’ogni cosa è piena di giu-bilo, e tutto esprime l’inchiusa canzone. Non s’acqueta però il mio deside-rio nell’angustia d’un solo componimento,29 ch’io le preparo nuova lode per innalzarmi a nuova grazia, e riverentemente le bacio le mani. Di Bolo-gna.30

NELLE NOZZE DE GLI ILLUSTRISSIMI Signori il cont’Ercole Pepoli, e

Donna Vittoria Cibò.

L’impresa.

Nel midollo d’un faggio un ramoscel di palma inciso avea, e la spoglia nemea Tirinto il saggio; archeggia il motto, e ’l bel troncon divide: «Viver non può senza Vittoria Alcide».

O pastorel sagace, onde spiasti tu le brame altrui? o de’ presagi tui scultor verace! di favellar per te l’arbor si gloria: «Alcide non può star senza Vittoria».

Con palpebre di luce stupido guarda il sol l’impresse note, né le fervide rote in giro adduce; chi è costui, che sculta opra sì bella, con la lingua de gli arbori favella?

Quanti armoniza fuore l’animata selvetta aliti ardenti, tanti amoreggia accenti, e l’erba e ’l fiore e l’acqua d’ogni rio tremola e chiara da l’arbore, che canta, il canto impara.

29. Rinaldi infatti invia con la lettera due componimenti: la canzone di cui

descrive l’invenzione, e un dialogo in musica (qui infra). 30. In virtù di quanto detto nella nota 27, la lettera è da collocare verosimil-

mente tra il 1607 e il 1609. Questa missiva è l’unica a essere del tutto omessa dalla seconda edizione. Per un approfondimento della questione cfr. infra let-tera n. 23, nota 45.

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FEDERICA CHIESA

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Già canore e fugaci d’argentata carriera ergonsi l’onde a imprimer ne le sponde e voci, e baci, e mentre a gli orli s’alza il bel cristallo, su gli orli ingigantisce il bel corallo.

Ogni stridola canna, fatta Eco a’ versi del cantor fronzuto, piove dal suono acuto incendio e manna, e, sciolta il verde crin, seco s’adira, gode s’altri ama, e s’ella odiò sospira.

Ma mentre ella vaneggia, la musical corteccia i sassi molce, e con aura più dolce Euro gorgheggia: nero cantor de gl’Indi in Oriente, tace forse Favonio in Occidente?

Cantano i zefiretti la catenata coppia e gli aurei nodi; fulmini son le lodi, e fiamme i detti; e chi non erge al ciel su l’auree piume d’ALCIDE il nome, e di VITTORIA il nume?

Il melato ussignuolo lieto al suon de l’arborea sirena scorda l’antica pena, il cibo, il volo, e, lascivito al canto, il canto affretta: diasi ALCIDE a VITTORIA, e che s’aspetta?

O con che dolci, e forti nodi si stringe a quel musico stelo, a quel musico cielo il dio de gli orti; e Sileno che fa? veglio felice, arde al suon de l’armonica radice.

Tra sé dubbio ragiona quel ridicol ministro di Lieo s’egli è un faggio o un Orfeo che canta e suona: ah s’egli è un faggio, e come suona e canta? s’egli è un Orfeo, chi l’ha converso in pianta?

No, no, stolto Sileno, cadde su l’Ebro Orfeo lacero e tronco, questo amabile tronco ha un’arpa in seno: ma chi l’accorda in sì piacevol tuono?

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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I’ non veggio le sfere, e n’odo il suono.

Fe’ spicciar da una pietra Pegaso l’acque, e un musico arboscello, quasi mago novello, i sensi impetra; gl’impetra no, gl’inebria sì, che dico? Paradiso de’ cori è il tronco amico.

Bella, frondosa sede, arco del riso, e pianta de gli onori, arbore de gli amori e della fede, son forse aure d’Apollo i carmi tuoi? Ha Meandro in te forse i cigni suoi?

O pur con gioghi d’oro in te s’alza Parnaso, e dentro chiuse di sé forman le Muse orbe canoro? So ben ch’altri dirà: folle pensiero, come cape una pianta un monte intero?

Può ben capir un monte là dove cape un ciel; VITTORIA ha mille nel crine astri e faville, e ’l sole in fronte; ERCOLE è un ciel di luci alte e serene, e ’l citaredo tronco ambi contiene.

Così non mai lo schiante, né mai turbi il suo stil dolce, amoroso o vapor tortuoso, o turbo errante. Ma qual tem’io rigida face, o nembo? Non può il ciel fulminar, chi l’ha nel grembo.

DIALOGO IN MUSICA Nell’istesse nozze.

Fama, Vittoria, Alcide, Amore.

Fama: Io son tarda, io son cieca, io non ho per me stessa occhi, né piume, sola da te mi viene, generosa VITTORIA, il volo, il lume.

Vittoria: No, no, Fama, in virtù d’aure serene, in virtù di due soli, in virtù del mio ALCIDE occhiuta voli.

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Alcide: Taci, Vittoria, taci, io so ben quale sia il tuo pregio, il tuo onore; non altronde ha la Fama i raggi e l’ale.

Amore: Che favellate, o bella coppia amante? per me, che son Amore, s’alza la Fama splendida e volante; egli è ben ver, ch’ogn’or mi stringo a voi, o miei congionti eroi; e che già mai divide da me VITTORIA, e da VITTORIA ALCIDE?

14

Al signor dottore Lodovico Scapinelli a Modena. Io non ho parte nelle scritture di questi virtuosi,31 né tampoco son parziale nel trarne giudicio, perché tutti mi sono egualmente amici. Ho ben caro di leggerle per vedere l’acutezza de gl’ingegni, la sodezza delle ragioni, e la varietà de gli stili. Ma temo di qualche sinistro avvenimento, perché niuno vuol cedere e gli animi sono alterati. Vostra Signoria Eccellentissima mi promette le considerazioni del Piacentino,32 io son bramoso di novità e la prego, non che me le mandi, ma sì bene che me le porti per goder, in un istesso tempo, e della sua conversazione, e de gli altrui componimenti. Gli avisi ch’ella mi dà nel fine della sua lettera mi piacerebbono se, come sono motivi di guerra, così fossero incentivi di pace. Ma può ben anche Vostra Signoria con la bellezza de’ suoi ragionamenti fare che mi dilettino le cose formidabili, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 7 settembre 1614.33

15 Al signor Marco Antonio Vaccari a Modona.

L’amore è cosa ottima, bench’io n’avessi sempre travagli senza ristoro e fa-tiche senza guiderdone. Vostra Signoria ama persona meritevole e n’ha cor-rispondenza, i suoi desiderii sono onesti e n’avrà lode. Perché se il vero a-more è il vero soggetto del Poeta Lirico, aggiunto alla sua naturale inclina-zione un aiuto sopranaturale, farà Vostra Signoria miracoli in Poesia. Io

31. Si riferisce forse all’Accademia dei Gelati. Rinaldi non fece mai parte di

tale consesso, ma fu molto vicino a questo ambiente. Sui rapporti di Rinaldi con questa accademia cfr. BESOMI, Cesare Rinaldi e l’ambiente bolognese, pp. 87-107.

32 Il termine «considerazioni» è piuttosto vago; forse, anche tenendo conto del fatto che Scapinelli fosse dottore in legge, potrebbe trattarsi di una delle Summe del giurista medievale conosciuto appunto come Piacentino (1130 ca.-1182 ca.: EMANUELE CONTE, Piacentino, in DBI, LXXXIII, 2015, pp. 12-15).

33. In Lettere 1617: 7 settembre 1714.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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non rispondo a gli altri particolari ch’ella mi scrive, perché, dove si tratta d’amore, non vi si richiede mischianza d’altre materie. Ami Vostra Signo-ria allegramente, purché, per soverchio amare, non si dimentichi farmi gra-zia delle sue lettere, et a nuovo studio della sua conversazione. Di Bologna il dì ultimo di luglio 1614.

16 Al signor dottore Lodovico Scapinelli a Modona.

Agl’Illustrissimi Prencipi di Bresani et al signor dottore Capponi34 esposi l’ambasciata di Vostra Signoria Eccellentissima. Gli uni, sommamente rin-graziandola, degnamente l’esaltano, e l’altro confessa i meriti di lei aver tal credito con lui, che sarà loro perpetuamente obligato. M’incresce che lo Schedoni35 sia morto, pittore famosissimo, e che nell’opere non morrà già mai. Così avess’io procurato d’abbellirne il mio museo. Ma se per abbelli-mento delle mie stanze mi mancano le pitture dello Schedoni, già non mi mancheranno per ornamento dell’animo i saggi ricordi dell’Eccellentissi-mo Scapinelli: dissegni che vincono ogni dissegno, e colori che superano ogni colore. Io me gli procaccierò con ogni sollecitudine, imparando dalla prima a non far la seconda perdita, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 19 genaro 1616.

17 Al signor Girolamo Magagnati a Venezia.

Si può dir che Vostra Signoria in questo tempo di maschere abbia masche-rato la sua Musa con abiti giocosi, e per seguir l’uso della stagione, e per apportar diletto con la novità, che in altra occasione mi sarebbe parso mol-to strano il trapassar dalla poesia lirica a gli scherzi, alle facezie. Ma Vostra Signoria è prudente e, s’ella chiede consiglio, lo chiede per modestia e non

34. Giovanni Capponi (1586-1628). Ebbe un’educazione tradizionale, basata

sugli studi letterari e su qualche nozione di medicina e astrologia. La sua abilità come poeta lo mise presto in contatto con alcuni dei personaggi più rilevanti della sua epoca, tra cui Guarini e Marino. Con quest’ultimo strinse un saldo legame quando lo difese dalle critiche mosse da Ferrante Carli al sonetto Obe-lischi pomposi all’ossa alzaro, posto all’inizio del poema di Raffaele Rabbia su S. Maria Egiziaca (Maria Egittiaca, Bologna, Benacci, 1618). Pare che Capponi conoscesse Rinaldi perché entrambi frequentavano l’Accademia degli Instabili, fondata dallo zio Pellegrino a Bologna (CLAUDIO MUTINI, Capponi, Giovanni, in DBI, XIX, 1976, pp. 55-57). Per una panoramica sul suo pensiero filosofico e politico cfr. GIAN LUIGI BETTI, Giovanni Capponi: filosofo, astrologo e politico del Seicento, «Studi secenteschi», XXXVII, 1986, pp. 29-54.

35. Il pittore Bartolomeo Schedoni era morto il 23 dicembre 1615.

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per bisogno, e dona mentre dimanda. Ho ricevuto il libro,36 il quale, con-siderato nel suo genere, certo è gustevole. Quanto poi al passar più avanti in tal materia, approverei il suo pensiero se il carnevale durasse tutto l’an-no. Sarà però Vostra Signoria sempre lodata e, con aggiunger fatiche a fa-tiche, aggiungerà meriti a meriti. Di Bologna il dì 27 di genaro 1614.

18 Al signor dottore Giovanni Capponi.

Il sonetto di Vostra Signoria Eccellentissima sopra l’eccellentissimo Aldro-vandi37 nel principio m’ha invaghito e nel fine m’ha cattivato. Non voglio per questo lodarglielo, perché poco stimerebbe la lode d’un solo componi-mento chi n’ha fatto le centinaia e tutti perfetti: ma passiamo dalla poesia alla pittura. Quando Vostra Signoria se n’andrà per suo diporto alla scuola del nostro signor Valesio, facciasi mostrar la mia Lucrezia ch’armata di fer-ro e fornita di mal talento sta per uccidersi. Caro padrone, con quella ma-no che dottamente scrive pietosamente la soccorra, che non mi sarebbe di gusto vedermela innanzi morta o sanguinosa. Ben dovrei dolermi del pit-tore a cui, s’io dissi che la pingesse in atto di volersi ferire, non dissi che la formasse tale che potesse ferirsi. Ma egli ha superato l’arte, dandole spirito e moto, forse per dar campo a Vostra Signoria d’usar un atto caritativo, o di privar quell’infelice dell’armi, prima che si sveni, o di guarirla dopo che si sarà svenata. Medico eccellente non meno che glorioso poeta. Di casa il dì 3 di genaro 1614.

19

Al signor Giovanni Valesio.

36. GIROLAMO MAGAGNATI, Le vite di Romulo e di Numa Pompilio primi re di

Roma, Venezia, Pinelli, 1614. Questa biografia burlesca fu inviata a Rinaldi con una lettera di Magagnati stesso ora contenuta nella raccolta curata da SALVETTI

FIRPO, Lettere a diverse del signor Girolamo Magagnati, pp. 39-40: «Tra i diporti del Carnevale interponga Vostra Signoria la lettura dell’opera faceta, ch’io le invio, e per colmarmi insieme d’obligo la suplico con ogni affetto a dirmi con quel candore, che ricerca la mia fede, e che si conviene alla sua virtù, s’io debbo continuare lo scrivere anco la vita de gli altri cinque primi Re». Il giudizio dato da Rinaldi riguardo al completamento del lavoro non è del tutto positivo e dovuto alla sua insofferenza nei confronti di ciò che genera il riso, già espressa altrove, per es. nella lettera a Giuliano Bezzi di cui alla nota 36.

37. Ulisse Aldrovandi (1522-1605). Si dedicò precocemente allo studio della matematica e delle lettere, e ottenne una laurea dottorale in filosofia e medi-cina, per poi dedicarsi all’insegnamento. Alla sua morte donò alla città di Bo-logna il suo museo e la sua vasta collezione di libri e disegni (GIUSEPPE MON-

TALENTI, Aldrovandi, Ulisse, in DBI, II, 1960, pp. 118-124).

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Lucrezia e Cleopatra38 sono ambedue pitture di Vostra Signoria, ma qual di loro prevaglia varie sono le opinioni, perché varii sono gl’interessi. La violata romana, che dalla cortesia del facitore è stata costituita per orna-mento delle mie stanze, più mi sta nel cuore. Nella mesta egizia ammiro l’arte e la considero come cosa bella, ma come destinata ad altri non la de-sidero. Questa, avvelenata dall’aspide, ci offre una fiera cecità d’amore, e quella, trapassata dal ferro, ci rappresenta un’estrema gelosia d’onore. Così potess’io onorar Vostra Signoria con un encomio che la rendesse gloriosa, com’ella favorisce il mio museo con un presente che lo fa riguardevole: ma concedale il Signor Iddio longa e felice vita, che longa e celebre fama non può mancarle. Di Bologna il dì 20 di genaro 1614.

20

Al signor Guid’Ubaldo Benamati39 a Parma. Mi piace sommamente che Vostra Signoria abbia formato un bel giardino di rime,40 ma non approvo il pensiero di trappiantarvi erbe nocive e fiori di cattivo odore, come sarebbono i miei componimenti. Io le desidero ogni bene. Non voglia, per quanto ha cara la perpetuità de’ suoi scritti, far così sproporzionata mischianza, acciò che ’l mondo non giudichi lei elettore appassionato e me versificatore ignorante, e ch’abbia l’ignoranza accompa-gnata con la superbia: parlerei in cotal guisa quand’io potessi componer versi, ma non posso per giuramento autentico. In somma è per me finita la poesia, così non foss’ella mai cominciata, se non quanto mi fu mezana alla grazia di Vostra Signoria. Di Bologna il dì 12 di settembre 1613.

38. Ad oggi i due dipinti in questione risultano non identificati o irreperibili,

cfr. KENICHI TAKAHASHI, Giovanni Luigi Valesio: ritratto de l’instabile academico incaminato, Bologna, CLUEB, 2007, p. 129. In questa stessa sede (p. 154) sono pubblicate, senza commento, anche la presente missiva e altre due inserite in questa antologia (nn. 21 e 28).

39. Guidubaldo Benamati (fine XVI sec.-1653). Si applicò fin da ragazzo alla poesia e fu in rapporti con Aprosio, Achillini, Preti, Stigliani e anche con Ma-rino, che stimava molto senza però essere ricambiato. La sua produzione lette-raria fu prolifica, ma spesso criticata. Rimase al servizio dei Farnese come poeta di corte fino al 1630, per poi ritirarsi a Gubbio (NICOLA DE BLASI, Benamati, Guidubaldo, in DBI, VIII, 1966, pp. 168-169).

40. Non è chiaro a quale raccolta di rime si riferisca. L’abbondante produzione poetica di Benamati fu riunita per la prima volta nella raccolta Del canzoniero di Guid’Ubaldo Benamati. Le tre parti, Venezia, Dei, 1616. Con questa lettera pro-babilmente Benamati sta chiedendo dei componimenti per il paratesto che, come si evince dalle parole di Rinaldi, non vennero mai scritti: nel canzoniere non ve ne è traccia. Benamati comunque inserì un sonetto in lode di Rinaldi: Crin d’or, gote di rose occhio stellante (p. 268).

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FEDERICA CHIESA

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21 Al signor Giovanni Valesio.

Dalla frequenza delle mie visite conoscerà Vostra Signoria quanto mi piac-ciono le sue pitture. Io vengo per veder la bellissima Cleopatra, e pur sem-pre ch’io la miro, sempre temo che quel pestifero serpente ch’ella tiene nella sinistra mano non mi s’avventi. E temo ch’ella, vedendosi interrotto il fiero proponimento di darsi morte, meco s’adiri. Io vengo, dico, per ve-derla, né posso astenermi da ingordamente desiderarla. Non ardisco dir l’originale, che è di padrone illustrissimo, 41 a cui debbo ogni riverenza, ma sì bene una copia, ch’abbia perfezione dalle mani di Vostra Signoria a cui debbo ogni lode. Le mando la tela per maggior espressiva del mio desiderio e, per levarmi la continua suspicione che quel maledetto animale non m’of-fenda, di continuo porterò meco qualche antidoto contro il veleno. Così potess’io schermirmi dalle lingue de’ maldicenti, aspidi più crudeli del-l’aspide chelidonia, e le bacio la mano. Di casa il dì 4 d’ottobre 1613.

22 Al signor Guido Reni.42

Se Vostra Signoria adoprò il pennello per favorirmi, è ben dovere ch’ado-pri ancor io la penna per ringraziarla, e che accompagni col ringraziamento la lode, non quella che spetta al suo valore, il quale, a tutti palese, da tutti è lodato, ma quella che conviene al dono ch’ella m’ha fatto, et a cui io solo son dovuto. La ringrazio dunque et esalto in lei la virtù della magnificenza, della qual tanto mi prometto che, quand’io non credessi per nuova impor-tunità scapitalar di credito, la pregherei di nuova grazia. Io son entrato in opinione che ’l diadema sopra il glorioso martire San Floriano tolga parte del rilievo alla pittura, e stimo beneficio dell’opera il levarlo, bastando la

41. MALVASIA, Felsina pittrice, vol. 2, p. 98, citando la missiva in lode di Vale-

sio, in questo punto scrive una nota tra parentesi, informandoci sull’identità del «padrone illustrissimo»: «Era questi il Card. Barberini, Legato allora di Bo-logna, al quale ne fé dono, accompagnandola con i due sonetti che si vedono stampati nelle sue rime». Maffeo Barberini (poi papa Urbano VIII) fu legato pontificio a Bologna tra il 1611 e il 1614. I due componimenti si trovano nella raccolta GIOVANNI LUIGI VALESIO, La Cicala, Roma, Mascardi, 1622, pp. 36-37. Sul destino di questa Cleopatra, TAKAHASHI, Giovanni Luigi Valesio: ritratto de l’instabile academico incaminato, p. 50, afferma: «l’inventario della famiglia Barberini ci fa sapere che vennero lasciate in casa senza nemmeno aver prepa-rato le cornici la Cleopatra donata dal nostro pittore e anche un’altra sua opera, rappresentante la testa di Davide».

42. Al noto artista furono dedicate le raccolte Lodi al signor Guido Reni (Bolo-gna, Tebaldini, 1632), a cui partecipò anche Rinaldi con la canzone Pingi, buon Guido, pingi (pp. 9-11), e Il trionfo del pennello raccolta d’alcune compositioni nate a gloria d’un ratto d’Helena di Guido (Bologna, Tebaldini, 1633).

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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palma per espressiva del nostro desiderio: ma queste son leggerezze da non trattarne co’ pari suoi, e spesse volte il giudicio viene ingannato dall’inte-resse. Scusimi Vostra Signoria e, per correttivo del mio difetto, non neghi i suoi avvertimenti. Di casa il dì 26 d’aprile 1613.

23 Al signor Roberto Fontana a Modona.

Mi dice Vostra Signoria che volentieri avrebbe veduto quella nuvola che, nelle nozze del signor marchese Riario,43 apparve nel fine del convito. Vor-rei esser un gran vento per portargliela innanzi, o un gran pittore per colo-rirgliela in carte. Al tocco delle ventidue ore, mentr’erano a tavola e cavalie-ri e dame, con la clausura delle finestre si fece notte, con l’accensione di molti lumi si fece giorno. Comparve all’ora, nel fianco sinistro della sala, l’inargentata machina che, lievemente tonando, in due parti eguali si divise e scoperse a gli occhi de’ convitati le sue bellezze interne. Un cielo amman-tato di minutissime stelle, entro cui stavano in troni d’oro assisi quattro fa-volosi dei. Tenevan questi tra le mani arciviolate lire e tiorbate cetre, can-tando con vicendevoli note gl’inchiusi versi in onore de gl’illustrissimi spo-si. Dopo il canto e dopo una pioggia di variati fiori, si riunì la nube.44 Ma

43. Ferdinando Riario sposò Laura Pepoli nel 1608. La notizia delle nozze è

fornita da DOLFI, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, p. 653. In occasione delle nozze fu stampata la raccolta Nelle nozze de gl’illustrissimi signori il sig.r Ferdi-nando Riario et la sig.ra Laura Pepoli, Bologna, eredi di Rossi, 1608, a cui Rinaldi partecipò con la canzone allegata alla lettera. Nell’edizione del 1620, la canzone non è più presente.

44. CALORE, La biblioteca drammatica degli Accademici Gelati di Bologna: saggio storico bibliografico, p. 66, ritiene che la descrizione fatta da Rinaldi riguardi la rappresentazione dell’Aurora ingannata, favoletta del co. Ridolfo Campeggi. Per gli intermedij del Filarmindo. All’illustrissimo sig. Ferdinando Riario, Bologna, per gli heredi di Gio. Rossi, ad instanza di Gio. Battista Ciotti, 1608. Si tratta degli intermezzi in musica per il Filarmindo, favola pastorale dello stesso Campeggi edita nel 1605 (cfr. lettera n. 2). Gli intermezzi vennero scritti e rappresentati in occasione delle nozze Riario-Pepoli che si celebrarono nel 1608. Sulla scia di Calore, riprendono la notizia anche TAKAHASHI, Le prime edizioni e rappresenta-zioni del ‘Filarmindo’ di Ridolfo Campeggi e il ruolo di Giovanni Luigi Valesio, pp. 43-44, e RITROVATO, ‘Per te non di te canto’: i madrigali di Cesare Rinaldi, p. 101-102, nota 326. Tuttavia, quanto riferito da Rinaldi non ha alcun riscontro con la favola dell’Aurora ingannata. Gli intermezzi raccontano infatti dell’inganno che Aurora mise in atto, con l’aiuto di Venere, nel tentativo di far innamorare di sé Cefalo, e nel libretto non si fa menzione di alcuna nube né di quattro dei assisi in trono. Inoltre, Rinaldi riferisce che gli dei cantarono «gl’inchiusi versi in onore de gl’illustrissimi sposi»: ciò significa che i versi cantati sono quelli allegati alla lettera e che per l’appunto nominano gli sposi «fida coppia real, Ferrando, e Laura». A ciò si aggiunge che gli dei citati dalla canzone di Rinaldi

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FEDERICA CHIESA

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non son io mai per riunirmi a Vostra Signoria perché da lei non sono, né sarò mai, per separarmi. Di Bologna il dì 12 febraro 1609.45

VERSI CANTATI NELLA SUDETTA NUVOLA.

In quest’argentea nube, che gli orli ha di piropo e di zaffiro, per le strade de l’aria lieta de’ vostri onori a voi ne vegno, fida coppia REAL, FERRANDO, e LAURA; Io son Venere bella, Amor è meco, meco è Zefiro e Flora, che non può star Cupido senz’aure dolci, e senza fior Citera. Ma che trovo, o che miro? Miro il mio figlio in voi, in voi trovo me stessa,

sono Venere, Amore, Zefiro e Flora, e solo i primi due compaiono nell’Aurora ingannata. MARINELLA PIGOZZI, Nuptialia: i libretti per nozze della Biblioteca co-munale dell’Archiginnasio di Bologna, Bologna, CLUEB, 2010 (Il Seicento, risorsa disponibile in rete al seguente url: https://clueb.it/wp-content/uploads/ 2013 /09/Il-Seicento.pdf), commentando la stessa lettera di Rinaldi, ritiene invece che quanto viene descritto sia il momento in cui vennero cantati «alcuni com-ponimenti poetici in onore degli sposi, probabilmente quelli scritti per l’occa-sione dagli Accademici Selvaggi». L’Accademia dei Selvaggi partecipò, insieme ai Gelati, alla raccolta per le nozze Riario-Pepoli edita nel 1609 (cfr. DANIELLE

BOILLET, Marino, Rinaldi, Achillini, Campeggi e altri in una raccolta bolognese per nozze (1607), «Studi secenteschi», LV, 2014, pp. 3-6). Quanto raccontato da Rinaldi non ha dunque alcuna corrispondenza con la rappresentazione dell’Au-rora ingannata, avvenuta di sicuro, ma probabilmente in un altro momento della festa.

45. In Lettere 1620: 16 di febraro 1613. Considerando quanto detto sopra riguardo alle nozze che furono celebrate nel 1608, alla pubblicazione della can-zone avvenuta nel 1609, e che la memoria dell’evento sembra essere ancora fresca, la datazione proposta è quella della prima edizione. A ulteriore supporto di questa scelta si consideri che praticamente tutte le lettere della prima edi-zione dell’epistolario hanno una datazione compresa tra 1611 e 1617. Fanno eccezione questa e la lettera a Ercole Pepoli (cfr. lettera n. 13). La lettera a Pe-poli, priva di data ma da collocare verosimilmente tra il 1607 e il 1609, viene del tutto omessa dalla seconda edizione, mentre questa lettera a Fontana subi-sce il cambiamento di data e l’eliminazione della canzone allegata in origine. Omissione e cambiamento di data si possono spiegare con il desiderio di Ri-naldi di uniformare queste due ‘anomalie’ cronologiche con la datazione del resto dell’epistolario che prende avvio dal 1611.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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e la fiorita mia dolce famiglia; e chi non ha di voi Flora nel volto? Zefiro ne le labbra? Amor ne gli occhi? E s’io porto nel seno caratteri di fiamma, e voi portate in fronte caratteri di luce, e dentro al core caratteri d’onor, fiamme d’amore. Dunque se v’arde amor, cantiam d’amore. Sì, sì, cantiam d’amore. Amor è lieta pace, groppo de l’alme lucido e tenace; amor è mar di latte, e di manna e di mel fontana e rivo, occhio de’ cori eternamente vivo. Ma tu fra ’l suono e ’l canto, tu che sei dea de’ fior, semina fiori, spandi il superbo Aiace, getta il folle narciso, spargi il bel fior di croco, il nevoso ligustro, e l’aurea calta; diluvia dal bel grembo la fulminante rosa, che tra la schiera erbosa ha di beltà la palma: idolo d’ogni fiore, e fior d’ogni alma. E tu, placido nume, tu, gentil pargoletto, da l’urna del diletto piove le tue dolcezze. O nozze avventurose, o coppia aurea, felice, farfalletta a le fiamme, anzi fenice; o FERDINANDO, o LAURA, gemme d’onor lucenti, gioie d’amor vivaci; son del vero gioir messaggi i baci.

24 Al signor Giovanni Paolo Caissotti a Roma.

Accetto per nuova la nuova datami da Vostra Signoria della liberazione del Cavalier Marini, perché con la novità dello stile me la fa parer tale. Ma egli stesso, con lettere appartate, dienne i primi avisi e n’accennò il passaggio

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FEDERICA CHIESA

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per Venezia,46 che non può esserne senza doppio scoprimento di valore, né senza doppio acquisto di riputazione. Or paragoni Vostra Signoria l’e-sito del negozio a quel ch’io gliene scrissi una volta e vedrà ch’io percossi il bersaglio, che la virtù, quanto più è oppressa, tanto più tende alla subli-mità.47 Ma non favelliamo con la penna di chi altamente favella con l’o-pere, basti ad ammirarlo che l’ammirazione è una spetie d’esaltazione. Co-me anco al presente, mirando io con maraviglia la perseveranza di Vostra Signoria nel favorirmi, vengo in un certo modo a ringraziarla e, perché dal ringraziamento non si separa la lode, a lodarla di quanto opera a mio be-neficio, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 19 di luglio 1612.

25 Al signor dottore Lodovico Scapinelli a Modona.

Io richiesi Vostra Signoria Eccellentissima d’un madrigale, et ella, che nel favorire è nemica della parsimonia, superata la mia dimanda e vinto il mio desiderio, ha fatto una canzone ove, con mille lumi poetici, rappresenta una bellissima notte.48 L’amico ch’a me ne fece istanza è musico et, inebria-tosi nella lettura di così dolce componimento, gli prepara un abito musi-cale per rimandarlo doppiamente adornato a Vostra Signoria, tanto par-ziale della musica, quanto ammirabile nella poesia. E pur questa in lei è la minima delle sue lodi che in me una volta fu la massima de’ miei pensieri. Se ben ora non ho pensiero che non patteggi star sempre unito con Vostra Signoria a cui, col solito affetto, prego salute. Di Bologna il dì 20 di febraro 1612.

26 Al signor Giovanni Paolo Caissotti a Roma.

Che s’appressi la liberazione del Cavalier Marini non solo è caro a me che sempre gli fui amico, ma caro al mondo che sempre n’è stato amante. Niu-no mai m’indusse a creder che, dove alberga la virtù, abitasse la colpa. Ma tutti giudicai sempre stratagemi d’invidiosi e machine di maligni per rovi-nar chi non poteva essere rovinato. Un ingegno vivace e bramoso di lode, un animo sollevato e nelle azioni glorioso, una persona da sapientissimo

46. Nelle sue lettere Marino non parla mai di un suo passaggio da Venezia

dopo la scarcerazione. Di fatto questo è l’unico luogo in cui si menziona l’in-tenzione da parte di Marino di compiere tale viaggio (EMILIO RUSSO, Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 31, n. 58).

47. La frase si spiega con quanto detto da Rinaldi nella lettera n. 26, che pre-cede temporalmente questa.

48. Gli scritti di Scapinelli, prose e versi, furono pubblicati solo molto più tardi nella raccolta Opere del dottore Lodovico Scapinelli patrizio modonese sopranno-minato Il cieco, Parma, Stamperia Reale, 1801, voll. 2. La canzone a cui Rinaldi fa qui riferimento è L’umida figlia ombrosa (vol. 1, pp. 29-30).

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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prencipe titolata e beneficata si volgerà con detrazioni contro il suo bene-ficante?49 Non è vero e, s’al presente patisce in carcere, il patire gli cagio-nerà ben anche soprabondanza di merito et accrescimento d’onore. Ma, mentr’egli giustifica sé stesso con la sua innocenza, non mortifichi Vostra Signoria me con la sua lontananza e vagliami per intercessione averla fi-nora pazientemente sofferta. Di Bologna il dì 14 di decembre 1611.

27 Al signor Alessandro Scaioli a Reggio.

Da molti autori ha Vostra Signoria raccolto rime e con giudicio fattane scielta, stampandole con magnificenza e dispensandole con decoro.50 L’o-pera è per se stessa atta a difendersi dal tempo, è tanto più durevole quanto ella è invalidata dal nome di dama principalissima51 e dalle composizioni di Vostra Signoria, la qual m’ha finora taciuto d’esser poeta, forse per farmi all’improviso nuovo spettacolo del suo valore. Ebbi anch’io in animo di cantar le lodi di cotesta illustrissima signora, ma lasciai sfumare il pensiero, come ch’io presagissi dover esser celebrata da lingua più tersa e da intel-letto più fecondo. Così è a punto avvenuto et ha Vostra Signoria legitima-mente guadagnatosi quell’applauso con le sue poesie, ch’io avrei sperato indarno con le mie ciancie. La virtù è passaporto all’onore, vivasi lieta che viverà sempre onorata. Di Bologna il dì 7 di decembre 1611.

28 Al signor Giovanni Valesio.

Tale ha buon nome che non ha buone operazioni; in Vostra Signoria si trovano tutte due le parti. Onde, invaghitosene un gentiluomo pavese, ha mandato con molti emblemi un dissegno acciò ch’essa glie lo intagli in rame. Io l’ho assicurato e della prestezza e della diligenza, che del valore egli è sicuro. Non sa però che Vostra Signoria sia pittore anche, e poeta. Uno della non mai a sufficienza lodata Academia Selvaggia.52 Glie lo vuo’

49. Si allude qui all’opinione secondo la quale la causa della carcerazione di

Marino furono alcuni componimenti contro il duca Carlo Emanuele di Savoia, che fino a un certo momento si era opposto all’arresto del poeta, decretato da un processo allestito dall’Inquisizione di Parma a causa di versi osceni a lui attribuiti. La questione, molto complessa, è ricostruita in CARMINATI, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, pp. 3-124.

50. Si allude qui alla raccolta approntata da ALESSANDRO SCAIOLI, Parnaso de poetici ingegni, Parma, Viotti, 1611.

51. L’opera fu dedicata a Isabella Pallavicini Luppi, marchesa di Soragna. 52. L’Accademia dei Selvaggi fu fondata a Bologna, prima del 1606, da Gio-

vanni Capponi, ma della sua attività non si sa molto, cfr. MICHELE MAYLEN-

DER, Storia delle accademie d’Italia, Bologna, Cappelli, 1926-1930, vol. 5, pp. 152-153. Per un profilo artistico e poetico di Valesio cfr. TAKAHASHI, Giovanni Luigi Valesio: ritratto de l’instabile academico incaminato, pp. 31-56.

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FEDERICA CHIESA

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far noto acciò che s’inalzi al merito dell’uno la benevolenza dell’altro. Pre-parisi ella in tanto al peregrino lavoro, né si parta dalla prescritta norma caso che non volesse torcer un poco più a banda sinistra il Pegaso, che raspa con l’unghia il monte, per esser troppo vicino a Pallade, dea che, in-sieme con le Muse, fu sempre favorevole a Vostra Signoria. Di casa il dì 17 d’agosto 1611.

29 Al signor conte Ridolfo Campeggi.

Il mio volume in prosa53, quando non sia dal giudicio di Vostra Signoria Illustrissima approvato, dormirà un perpetuo sonno; ch’io non son di que-sti Narcisi moderni che, invaghiti di se stessi, fuor che di se stessi non pre-stan fede. E quindi viene che per le botteghe de’ librari appariscono tanti mostri: se le mie composizioni non piaceranno, piacerà la mia umiltà e trarrà lode dall’altrui correzione, s’io non posso dal mio poco sapere. I par-ti del mio ingegno son di cattiva nascita, ricorro a lei per legitimarli e per dar loro un retaggio di buona fama. Così feci ancor delle rime, e sallo Vo-stra Signoria Illustrissima, e lo sanno gli Eccellentissimi Zoppio,54 Titi,55 A-chillini,56 et altri alla cui censura mi sottoposi, dal cui consiglio non traviai.

53. Benché l’unica opera in prosa pubblicata da Rinaldi furono le sue lettere,

sembra che qui si riferisca a un volume di componimenti letterari di cui non è rimasta traccia.

54. Melchiorre Zoppio (1550 ca.-1634). Dottore in Filosofia e Medicina, nel 1592 ottenne a Bologna la Lettura di Filosofia Morale. Fu promotore dell’Ac-cademia dei Gelati che aprì in casa sua nel 1588. Su di lui cfr. FANTUZZI, Notizie degli scrittori bolognesi, vol. 8, pp. 303-307.

55. Roberto Titi (1551-1609). Dopo essersi applicato agli studi letterari e le-gali, si laureò in legge nel 1576 a Pisa. Trasferitosi a Firenze, dove ebbe modo di conoscere Pier Vettori, esercitò la professione legale continuando a dedicarsi alle lettere. Frutto degli studi di quegli anni sono i Locorum controversorum libri decem (Firenze, Sermartelli, 1583), che diedero origine a un’aspra polemica con Giuseppe Giusto Scaligero. In quel periodo partecipò anche alla discussione intorno alla Gerusalemme liberata di Tasso. Dopo aver tentato invano di ottenere un posto a Pisa, nel 1597 entrò nello studio bolognese come lettore d’umanità e qui ebbe modo di incontrare Marino. La più ricca fonte di notizie su Titi è FRANCESCO MARIA CEFFINI, Vita di messer Ruberto Titi, inserita nell’articolo VII del «Giornale de’ letterati d’Italia», XXXIII, 1722, pp. 177-222. Tra gli studi più recenti con una ricca bibliografia si ricorda SILVIA APOLLONIO, Indagini preliminari sulla figura di Roberto Titi: notizie e spunti letterari dalle missive di Mala-testa Porta (1601-1606), in ‘Le lettere sono immagini di chi le scrive’. Corrispondenze di letterati di Cinque e Seicento, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2018, pp. 163-219.

56. È interessante quanto si deduce da queste righe e cioè che Achillini sia da annoverare tra gli amici che lessero in anteprima i componimenti di Rinaldi.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Io gliene invio una copia e raccomando all’onor suo l’onor mio. Di Bolo-gna il dì 13 d’agosto 1611.

30 Al signor conte Prospero Castelli 57al Monte dell’Oro.58

Se mai di me nacque buon frutto, si denno le grazie al Monte dell’Oro, prima origine del mio canto; quivi mi fe’ divenir poeta (che forse sarei mu-tolo ancora) la piacevolezza del sito, l’amenità del luogo, l’acque naturali et artificiose che per doppia scala di grotteschi trabocchi se ne van lieve-mente cadendo. Taccio dell’alba, più ch’altrove serena, non parlo del-l’aura, più ch’altrove soave; quivi mi feci amante e quivi m’invita Vostra Signoria Illustrissima a riconoscer i segni dell’antica fiamma. Verrò, ripar-lerò con gli arbori che m’udivano, con gli antri che mi rispondevano. Ma ciò non sarà prima che ’l Sole passi dal Leone alla Vergine, per non accom-pagnar con l’arsura della stagione l’incendio d’amore, caso che nuovo a-more in me si destasse, e per vista del caro Monte, e per la rimembranza de’ passati diletti. Di Bologna il dì 17 di luglio 1611.

31 Al signor Antonio Costantini a Mantova.

Non può nascer in Vostra Signoria pensiero che non abbia del sublime. Lodo il dissegno delle stampe,59 ma non approvo l’elezione ch’ella ha fatto di me per sigillo dell’opera, ch’io sono al presente lontanissimo dalle Muse: da comporre non ho vena, da pregar altri non ho ardire, che ’l tutto già sarebbe eseguito conforme a cenni del nostro amabilissimo Segni. Vostra Signoria mi scusi e, mentre s’occupa in dar vita a morti, non si scordi anche trar dal sepolcro quelle preziose gemme del Tasso ch’ella tiene celate. Dico le lettere scritte al suddetto signor Segni e scritte a lei.60 Il ramarico è com-mune perché il danno è universale e Vostra Signoria col ristorarlo potrà

57. Di lui si trovano scarse notizie. Secondo DOLFI, Cronologia delle famiglie

nobili di Bologna, p. 264, è annoverato tra gli anziani della città, fu membro dei cavalieri di S. Stefano e priore di Bologna.

58. RITROVATO, ‘Per te non di te canto’: i madrigali di Cesare Rinaldi, pp. 79-80, riferisce che, per Rinaldi, il Monte dell’Oro sarebbe un luogo ideale in cui prende forma la sua poesia. Tuttavia sembra che qui Rinaldi usi questo nome per riferirsi semplicemente alla residenza di Castelli, anche se ciò non esclude che il luogo sia strettamente legato alla sua esperienza poetica.

59. Non è chiaro a quale opera Rinaldi si riferisca. Non è stata trovata notizia di pubblicazioni curate dal Costantini a questa altezza cronologica. In ogni caso, stando a quanto viene detto nelle righe successive, Costantini probabil-mente intendeva dedicargli un’edizione di qualche autore ormai morto, oppure voleva componimenti per il paratesto.

60. Tali lettere vennero poi effettivamente stampate (cfr. supra lettera n. 5).

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FEDERICA CHIESA

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aver campo di guadagnarsi ancora lode universale. Di Bologna il dì 29 giu-gno 1611.

32 Al signor Francesco Maria Gualterotti a Fiorenza.

Hammi Vostra Signoria mandato un componimento di grande ingegno per mostrarmi un segno di grand’amore. Il nome del signor suo padre non giunge qui straniero e ’l valore per altra prova è manifesto. Ho letto con piacere il primo canto dell’America,61 bramo il secondo e sospiro il terzo. La lezione è curiosa per la novità del soggetto et ammirabile per l’eccellenza dell’opera. Ringrazio Vostra Signoria che m’ha fatto grazia e prego al sud-detto signor suo padre vita per finir l’incominciato lavoro. Di Bologna il dì 12 di giugno 1611.

33 Al signor cavalier Andrea Barbacci Mangioli62 a Roma.

Non è così valente compositore in poesia che, per aggiunger bello a bello e buono a buono, non bramasse veder i suoi parti arricchiti d’un pomposo abito musicale e massime dal signor Monteverde, il quale oggidì n’ha con sì dolce novità allettati che in ogni scuola e in ogni academia altro non s’ode, come ch’altro non diletti. L’Abelli63 manderà egli stesso le composi-zioni e giostreranno insieme di merito un gran musico e un gran poeta. E ben ha il mondo a ringraziar Vostra Signoria mediatrice a così dilettevole congiungimento, sì come ancor io avrò sempre a ringraziarla, s’ella non vorrà mai separarmi dalla sua grazia. Di Bologna il dì 4 di decembre 1611.

61. Si tratta dell’opera scritta dal padre del corrispondente, RAFFAELLO GUAL-

TEROTTI, L’America, Firenze, Giunti 1611. 62. Andrea Barbazza (1582/1587-1656). Fu tra i protagonisti della vita lettera-

ria di Bologna e iscritto a diverse accademie cittadine, gli capitò spesso di ospi-tare in casa sua Marino, del quale prese le parti nella disputa con Stigliani. Nel 1611 entrò al servizio del cardinale Ferdinando Gonzaga e vi rimase fino al 1614. Dopo un lungo soggiorno a Roma, tornò a Bologna, dove si impegnò nella scrittura di testi scenici per l’Accademia dei Gelati (NICOLA DE BLASI, Barbazza, Andrea, in DBI, VI, 1964, pp. 148-149). Barbazza ebbe anche un im-portante ruolo come amico e corrispondente di Marino, nonché come suo in-termediario con l’ambiente bolognese (cfr. CARMINATI, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura).

63. Cesare Abelli (1604?-1683). Il primo a dare notizie di qualche interesse è

GIOVANNI MARIA MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, Brescia, Bossini, 1753-1763, vol. 1, pp. 23-24, il quale riferisce che Abelli fu membro delle accademie dei Gelati, dei Selvaggi e della Notte. In chiusura della breve biografia riporta un elenco delle sue opere pubblicate.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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34 Al signor cavaliere Giovambattista Marini a Roma.

Ringrazio Vostra Signoria della lettera, scrittami con tanto affetto, e della memoria che tiene di me che infinitamente l’amo et ammiro. Ma già non parerà così a lei, poiché mal mio grado mi convien negare quel ch’io dovrei prontamente concedere. Io conosce le bellezze della mia Arianna64 e ne son però fieramente innamorato et ingelosito e, s’altri abbandonolla su la riva del mare, io già non m’indurrò a lasciarla su la riva del Tevere. La copia non posso, l’originale non voglio, e so ch’io parlo con chi m’intende. Scusimi dunque Vostra Signoria e, perch’io abbia ingannato le sue speran-ze, non inganni ella medesima in creder ch’io non l’ami. Di Bologna il dì 29 di novembre 1611.65

64. Alcuni biografi, a partire da GIROLAMO BRUSONI, Le glorie de gli Incogniti

o vero gli huomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti di Venetia, Venezia, Valvasense, 1647, pp. 101-103, attribuiscono a Rinaldi un dramma dal titolo Arianna. BENEDETTO CROCE, Cesare Rinaldi, in Nuovi saggi sulla letteratura ita-liana del Seicento, Bari, Laterza, 1931, pp. 20-30, facendo riferimento a questa lettera a Marino, interpreta l’Arianna qui citata proprio come il dramma di cui parlano i biografi, ma avanza l’ipotesi che l’opera non fosse mai stata stampata. Al contrario, BESOMI, Cesare Rinaldi e l’ambiente bolognese, p. 88, interpreta tale lettera come il rifiuto di inviare l’Arianna dipinta da Lodovico Carracci. Besomi porta a sostegno della sua tesi i passi della Felsina pittrice (I, p. 344, 352) in cui è citato il dipinto che raffigura Bacco e Arianna e in cui Malvasia riferisce che Marino chiese, attraverso una lettera, di poter avere il quadro. A dare ragione a Besomi contribuiscono le parole di Rinaldi stesso, il quale fa riferimento a una «copia» che non è in grado di fornire e a un «originale» che non vuole mandare: lette in questi termini, le parole di Rinaldi sembrano fare più facil-mente riferimento a un dipinto di cui non può materialmente fornire la copia e di cui non vuole inviare l’originale in suo possesso. A questo si aggiunge che più tardi Marino inserisce nella sua Galeria un madrigale dedicato proprio all’Arianna dipinta da Lodovico Carracci, cioè Del tuo Teseo ti lagni (MARINO, La Galeria, Venezia, Ciotti, 1619-1620, p. 20). Tuttavia ciò non esclude affatto la possibile esistenza di un dramma inedito dal medesimo titolo. Il dipinto in questione è identificato nel dipinto di Bacco e Arianna (1590-1595), oggi al Museo Borgogna di Vercelli.

65. In Lettere 1617: anno assente. Sulla data di questa lettera ci sono diversi dubbi. BESOMI (Cesare Rinaldi e l’ambiente bolognese, p. 88) ritiene che si tratti di un errore di stampa, dato che il soggiorno a Roma di Marino risale agli anni 1600-1606 e nel 1611 egli si trova incarcerato a Torino. La data sarebbe da emendare in 29 novembre 1601. Anche così corretta, la data rimane dubbia, anche perché nel 1601 Marino era appena arrivato a Roma e non aveva ancora contatti con l’ambiente bolognese. Benché si possa essere tentati di dubitare del luogo di arrivo, si dovrebbe fare attenzione: Rinaldi infatti dice di non voler lasciare la sua Arianna «su la riva del Tevere», il che induce a pensare che la

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FEDERICA CHIESA

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35 Al signor Alessandro Scaioli a Reggio.

Ristrinsi le mie sparse rime in un volume66 e poi tra me stesso giurai di non poetar mai più, non perch’io creda in simil genere aver fatto assai, ma perch’io conosco aver fatto nulla. Dunque il chiedermi Vostra Signoria so-netti e madrigali67 altro non è che ricordarmi le mie imperfezioni, quando è scorso il tempo dell’emenda. Le perdono però il tardo avvertimento e, non potendole far parte delle mie poesie, le faccio dono di colui ch’ella approva per buon poeta. Di Bologna il dì 25 di novembre 1611.

36 Al signor Cesare Abelli a Bologna.

Per far presenti le cose passate e per mostrare al mondo gli onori della pa-tria, i prosperi e gl’infelici avvenimenti, s’è Vostra Signoria data a scriver le croniche di Bologna,68 degno successore (benché in diverso idioma) al nobilissimo signor Pompeo Vizani.69 Non vorrei però che, per esser croni-chista, tralasciasse d’esser poeta, ch’un doppio esercizio d’azioni lodevoli è un doppio aggrandimento d’onore, e Vostra Signoria nel commercio delle Muse vale quanto altri valesse mai. Ond’io, non per darle occasione, che occasioni non mancano, ma per ubbidire alla necessità che mi sforza, le chiedo un sonetto in lode del glorioso martire San Lorenzo: il tempo ch’io le costituisco sarà d’un mese, assicurandola che ne’ suoi servigi io non le dimanderò mai tempo, e Dio la prosperi. Di villa il dì 20 di giugno 1616.

DALLE LETTERE 1620

37 Al signor cavaliere Andrea Barbacci Mangioli.

Vostra Signoria cortese et io bisognoso de’ suoi favori saremo ben tosto d’accordo, io nel dimandare et ella nel concedere quant’io dimando. Io non vidi mai cosa più bella della bellissima Cleopatra, ornamento delle sue

destinazione della lettera sia effettivamente Roma.

66. Forse si riferisce qui alle Rime del 1608, ultima raccolta in ordine di tempo prima della data della lettera. Rime del sig. Cesare Rinaldi Bolognese il neghitoso academico spensierato. Con nuoua aggiunta, Venezia, Giunti-Ciotti, 1608.

67. La richiesta di Scaioli è relativa alla sua antologia Parnaso de poetici ingegni, di cui già alla lettera n. 27.

68. MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, pp. 23-24, afferma che lo cronache ri-masero inedite.

69. Vizzani fu autore di cronache cittadine (POMPEO VIZZANI, Diece libri delle historie della sua patria, Bologna, eredi di Rossi, 1596).

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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stanze et opera del signor Guido Reni.70 Costei, per non rimaner prigionie-ra di Cesare, s’uccise, et ora la sola sua immagine vale a render cattiva la mia volontà. Io ne chiedo a Vostra Signoria una copia che non mi sarà men cara di quanti originali io abbia nel mio museo, e dell’istesso autore, e d’altri eccellenti maestri. Conosco certi, così dalle lor pitture ingelositi, che non potrebbon consentire che se ne formasse copia, o se n’abbozzasse linea. La nobiltà di Vostra Signoria non ha tal ripugnanza e la benignità non ammetterebbe la negativa. E, quando pur ella si compiacesse d’esser sola al godimento della magnanima egizia, anteporrei il suo gusto al mio interesse e stimerei grazia la ripulsa, e le bacio la mano. Di casa il dì 29 maggio 1620.

38 Al signor Marco Antonio Morandi a Ravenna.

Ho giurato in publico di non far più versi. Io dico in publico perché nel publicato volume delle mie lettere71 apparisce la confessione del giura-mento. Ora, se Vostra Signoria l’ha letto, perché ingannar se stessa col dar-si a credere ch’io abbia giurato da scherzo? O se tal credenza non tiene, perché offender la coscienza propria col provocarmi ad essere spergiuro? Vostra Signoria può meco quel ch’ella vuole, ma non è il dovere ch’ella voglia quel ch’io non posso. Io m’imagino di vedere una raccolta di rime esquisite72 e stimo un gran beneficio all’opera il non frapporvi mie compo-sizioni, che troppo spiacevole sarebbe la mescolanza dell’aloe col miele. Io non voglio però ch’ella mi ringrazii del fatto giuramento che, quando giu-rai di non poetar mai più, giurai anche d’esser sempre servidore a Vostra Signoria, e i servidori da’ lor padroni aspettan grazie e non ringraziamenti. Di Bologna il dì 20 d’ottobre 1619.

39

70. Di un dipinto raffigurante Cleopatra, di proprietà di Andrea Barbazza,

parla MALVASIA, Felsina pittrice, II, p. 3, ma non sembra che l’opera sia conser-vata. Sulla questione cfr. D. STEPHEN PEPPER, Guido Reni: a complete catalogue of his works with an introductory text, Oxford, Phaidon press, 1984, pp. 255-254). Di una Cleopatra si parla anche altrove, cfr. lettere nn. 19 e 21.

71. Si riferisce qui al volume delle Lettere 1617. 72. Il riferimento è quasi certamente all’antologia poetica che Giacomo Guac-

cimanni stava allestendo con l’aiuto del compatriota Morandi: Raccolta di so-netti d’autori diversi, & eccellenti dell’età nostra, di Giacomo Guaccimani da Ravenna, Ravenna, de’ Paoli-Giovannelli, 1623. Il Morandi stesso compare all’interno della raccolta con ben 18 componimenti e la sua partecipazione è segnalata anche da GIOVAN MARIO CRESCIMBENI, Comentarj di Gio. Mario de’ Crescim-beni custode d’Arcadia intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Roma, de’ Rossi, 1711, vol. 5, p. 263.

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FEDERICA CHIESA

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Al signor conte Ridolfo Campeggi. Dalle lagrime di Maria Vergine, raccolte da Vostra Signoria Illustrissima nel suo poema eroico,73 ho imparato di lagrimare anch’io, e tanto e così dirottamente ho pianto che, s’ella non cessava di piangere, io piangerei an-cora. Prezioso volume, benedetta scala del pianto, per cui s’è Vostra Signo-ria inalzata alla sommità de’ terreni onori et anche agevolata la strada di salire al cielo. Chi piange per Cristo, fabrica per se stesso un tempio d’eter-nità, e chi è compagno di Maria nel dolore, sarà compagno de gli angeli nella gloria. Le forze dell’ingegno ivi degnamente s’impiegano ov’è l’utilità dell’anima, e varrà più a Vostra Signoria l’esser chiamata con titolo di sacro scrittore, che quanto in sua essaltazione potesse dire ben colta lingua, e pur le si convengono e tutte le lodi e tutte le grazie. Quelle, come a poeta ch’ec-cellentissimamente ha scritto, e queste, come a maestro che n’ha insegnato di qual materia si debba scrivere. Di casa il dì 9 di febraro 1618.

40

Al signor conte Pietro Paolo Bissaro74 a Vicenza. Le copie del bellissimo idillio,75 composto da Vostra Signoria, sono state da me dispensate con decoro e lette da questi virtuosi con applauso. Que-sto solo componimento basterà per autenticarle il titolo di buon poeta e l’onore fatto a me di costituirmene dispensiero varrà per testimonio della sua gentilezza: ma s’ella tanto m’onora, concedami anche ciò che per accre-scimento della sua gloria in grazia dimando. Chiedo ch’ella mi favorisca di

73. CAMPEGGI, Le lagrime di Maria Vergine, Bologna, Bonomi, 1617. A questa,

che è con ogni probabilità l’edizione che ebbe in mano Rinaldi, seguì nella primavera dell’anno successivo una seconda edizione (Bologna, Cochi, 1618) ampiamente riveduta e corretta. Spinosa è poi la questione della dedica a Maria de’ Medici, soprattutto a causa della delicata situazione politica francese di quel periodo (la stessa situazione che costrinse anche Marino a un difficile equilibri-smo per quanto riguarda gli aggiustamenti dell’apparato encomiastico dell’Adone). La questione è approfondita da CLIZIA CARMINATI, Affetti e fila-strocche: una lettera inedita di Giovan Battista Marino a Ridolfo Campeggi, «Filologia e Critica», XXXVIII, 2013, pp. 219-238.

74. Pietro Paolo Bissari (1595-1663). Nobile vicentino, studiò legge ma non esercitò mai la professione, limitandosi ad amministrare il patrimonio di fami-glia. Fu letterato prolifico e fin da giovane ascritto a diverse accademie, tra cui l’Accademia Olimpica di Vicenza, la veneziana Accademia degli Incogniti, non-ché quella dei Rifioriti di sua fondazione (GIANNI BALLISTRIERI, Bissari, Pietro Paolo, in DBI, X, 1968, pp. 688-689).

75. Le nozze fatali de’ molto ill.ri sig.ri conti Giacomo Bissaro, & Flaminia Barbarana, idillio del c. Pietro Paolo Bissaro academico olimpico, Vicenza, Grossi, 1619.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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qualche sua composizione legata, come di sonetto o di canzone,76 per mo-strare a certi capricciosi ch’a buon corridore niuna strada è malagevole. Ma mentr’io ragiono seco di poesia, la corrente solennità parla meco del-l’obligo in ch’io son posto. A così care voci, nelle quali all’imperio non si scompagna l’affetto, mi sovviene il debito della consuetudine, sì che, trala-sciando ogni altro negozio, faccio a Vostra Signoria, con una riverenza di buon cuore, un augurio di buone feste, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 24 di decembre 1619.

41

Agli Academici Insipidi.77 Ogni academia per usanza e per maggiore onorevolezza s’elegge un protet-tore. Le Signorie Vostre anch’esse, per non allontanarsi dalla consuetudine e per maggiormente onorar l’onoratissima raunanza loro, si sono dedicate alla protezione dell’Illustrissimo signor Marzio Malvezzi, parzialissimo de’ virtuosi e nella custodia de’ suoi divoti vigilantissimo. L’elezione ch’esse han fatta non poteva farsi migliore e l’utile che son per trarne non può de-siderarsi maggiore. Unite a tal padrone non avranno mai più a temere vento d’invidia che le disunisca, né, difese da tale scudo, strale di maledi-cenza che le saetti. Ora non tardino a dar di piglio a qualche tragica o bo-schereccia composizione, e manifestisi in publica scena che da Insipida pianta non germogliano insipidi frutti, e bacio loro indifferentemente la mano. Di casa il dì 14 di maggio 1620.

42 Al signor Filippo Carlo Ghisilieri78 a Roma.

La Salmace del signor Girolamo Preti, ristampata tante volte e in tante par-ti, comparve l’altr’ieri trapportata dal signor don Pietro Espeial di Rossel

76. Evidentemente la poesia in rima era ritenuta più difficile dell’idillio che

era in versi sciolti. 77. MAYLENDER, Storia delle accademie d’Italia, vol. 3, p. 312, ci informa che di

questa accademia bolognese è noto solo il nome grazie a FRANCESCO SAVERIO

QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1741, vol. 1, p. 59.

78. Su di lui ci sono scarse notizie. DOLFI, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, pp. 363-364, cita due persone con questo nome: uno divenuto sena-tore nel 1550 che nel 1586 assunse l’incarico di ambasciatore presso il papa, e un altro che fu senatore nel 1628. Non è chiaro a quale dei due sia indirizzata la lettera. Come che sia, un sonetto di Ghisilieri è contenuto nelle Poesie di Girolamo Preti al serenissimo signore D. Alfonso d’Este prencipe di Modana, Roma, Facciotti, 1622, p. 267, Già di donna crudele un solo sguardo; Preti risponde nella medesima raccolta con il sonetto Fuggi pur cauto il lusinghiero sguardo (p. 190).

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FEDERICA CHIESA

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in lingua castigliana,79 sì che, al presente vestita all’italiana e travestita alla spagnuola, in ambedue le provincie si mostra con doppio applauso dop-piamente gloriosa. E perché non è convenevole che Vostra Signoria, la qua-le è tanto amica dell’autore e che sempre ha giudicato questo famosissimo idillio per uno dei più leggiadri componimenti dell’età nostra, resti defrau-data di così graziosa traduzione, glie ne mando una copia e le manderei se-co le due scatole ch’ella mi chiede di fiori e di palle muschiate. Ma la gentil pellegrina non ha bisogno d’odori, odorosa per sé medesima e coronata de’ più scelti fiori di Parnaso. Nel seguente spaccio sodisfarò alla dimanda e forse in ricompensa della tardanza raddoppierò il numero delle cose ri-chieste, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 4 d’aprile 1620.

43 Al signor Cesare Abelli.

Malagevole impresa stimo il ridurre un poema epico in un drammatico per la diversità delle regole di queste due sorti di componimenti, e pure agevol-mente ha ridotta Vostra Signoria la Gierusalemme del Tasso in una trage-dia,80 non solo quanto all’azione principale, ma anche quanto a gli episo-dii, o nulla o poco alterando le invenzioni di quel famosissimo poeta. Ma questo non è bastato al valore di Vostra Signoria ch’ella parimenti ha tra-mutata l’Euridice,81 posta in musica dal signor Giulio Romano, nella Giu-ditta, tragicomedia spirituale,82 e in ciò s’è governata con tanto giudicio e con tanta uguaglianza di stile, che quel pomposo abito musicale che serve all’una, serve anche all’altra: ieri fu cantata nelle mie stanze con maraviglia e con lode. Ma le composizioni di Vostra Signoria furono sempre lodevoli e maggiore sarebbe l’aumento della sua gloria quando ella fosse vaga d’ono-rarne le stampe. Che, sì come le cose manoscritte non posson communi-carsi a tutti, così non possono avere un applauso generale, e le bacio la mano. Di casa il dì 10 di giugno 1620.

44 Al signor … a Ferrara.

S’inganna Vostra Signoria credendo di pagare al signor Guido Reni un quadro di più figure grandi sessanta scudi e mi parrebbe d’avvilirlo di con-dizione, s’io facessi così debole offerta. L’invenzione da lei proposta è no-bile, il pittore è d’animo nobilissimo, e ’l negozio va trattato con nobiltà.

79. Il testo in questione è la traduzione castigliana La Salmace ydilio del senor

Geronimo Preti per il quale si rimanda alla nota 39. 80. Abelli trasformò il poema tassiano in una tragedia dal medesimo titolo,

CESARE ABELLI, La Gierusalemme liberata, Bologna, Tebaldini, 1626. 81. GIULIO CACCINI, detto Romano, L’Euridice composta in musica, Firenze,

Marescotti, 1600. 82. Come si evince dal prosieguo della missiva, tale opera rimase manoscritta.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Compiacciasi pure che ’l prezzo sia di cento zecchini e poi anche chiamisi favorita. Egli al presente a’ cenni del Serenissimo di Mantova dipinge la battaglia d’Ercole con l’Idra83 et ha così vivamente espressa con la fierezza dell’uno la mostruosità dell’altra, che porge in un istesso tempo e maravi-glia e spavento. Al lavoro di Sua Altezza succederà quello di Vostra Signo-ria, pur ch’ella non mi prolunghi la commissione, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 6 d’aprile 1620.

45 Al signor Carlo.84

Dimandai in prestito al signor Lodovico Malvezzi la Galeria85 del Marini; egli mi rispose: «Io non presto, se non dono». E con tal protesta cortese-mente la porse; io l’accettai e la mando a Vostra Signoria con la medesima condizione, che sia dono e non prestanza. Abbia anche ne gli altri miei li-bri, ch’ella ha nelle mani, l’istesso privilegio; e, se all’esserne legitimo pa-drone pregiudicasse il mio nome scritto sopra la coperta,86 aggiungavi il ti-tolo d’amico e vedrà il mondo che, se Carlo e Cesare sono amici, i libri che sono di Cesare, sono anche di Carlo. Così fossero anche suoi gli anni miei, o potess’io almeno addosargliene una parte, acciò che tra noi fosse pari l’età, come è pari l’amore, e le bacio la mano. Di Bologna il dì 6 di Febraro 1620.

46 Al signor Lodovico Malvezzi.

Molti libri m’ha donati Vostra Signoria Illustrissima, e molti l’ha rubati un

83. Il quadro per Ferdinando Gonzaga è parte di un ciclo di quattro dipinti,

ordinati dal duca, completati tra il 1617 e il 1621, che comprende la battaglia tra Ercole e l’Ira, Ercole sulla pira, Ercole e Acheloo, Nesso e Deianira, tutti oggi conservati al Louvre (PEPPER, Guido Reni: a complete catalogue of his works, pp. 239-240).

84. Potrebbe trattarsi di Carlo Ferrante Gianfattori, detto Ferrante Carli o ‘il Carlo’ (1578-1641). Dopo aver seguito per diversi anni il cardinale Paolo Emi-lio Sfondrati, ottenne la libertà e si stabilì a Bologna, dove fu uno dei protago-nisti della polemica intorno a Marino: pubblicò in questa circostanza l’opu-scolo Essamina del co. Andrea Dell’Arca intorno alle ragioni del conte Lodovico Te-sauro in difesa d’vn sonetto del cavallier Marino, Bologna, Benacci, 1614. (MAR-

TINO CAPUCCI, Carli, Ferdinando (Ferrante), in DBI, XX, 1977, pp. 150-152). Sul Carli, i suoi rapporti con l’ambiente bolognese e il suo ruolo nelle polemi-che intorno a Marino resta fondamentale il lavoro di CARLO DELCORNO, Un avversario del Marino: Ferrante Carli, «Studi secenteschi», XVI, 1975, pp. 69-155.

85. MARINO, La Galeria, Venezia, Ciotti, 1619-1620, già citata. 86. Interessante, anche per futuri reperimenti nelle biblioteche, il fatto che

Rinaldi avesse l’abitudine di apporre un ex libris sui volumi di sua proprietà.

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FEDERICA CHIESA

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amico, il quale non entra mai nel mio museo senza impoverirlo. Io vo ri-spettoso nel motivargliene perch’egli è persona ben nata, benché al nasci-mento non corrispondano le operazioni. Io narro a Vostra Signoria questo accidente perch’ella sappia che la sua liberalità ha per contrapeso l’altrui indiscretezza, e sappia insieme in quale stato io mi ritrovi, o di perder l’a-mico col procurarmi la restituzione del furto, o di conservarmelo con la perdita di così care gemme, e massime di quelle che sono favori di Vostra Signoria. Ho ricevuto le rime87 da lei inviatemi e, perch’io non posso rin-graziarla personalmente, confido alla penna l’ufficio della lingua, e le bacio con riverenza la mano. Di Bologna il dì 6 di febraro 1620.

47 Al signor Giovan Battista Manzini alla Mirandola.

Io non m’accordo con certi che vogliono il sonetto di Vostra Signoria so-pra la rosa nata di verno esser ad imitazione di quello dell’Achillini.88 Ebbe Antonio da Correggio89 pensiero di ritrarre una Circe e la ritrasse; ebbe Guido Reni l’istesso pensiero e ’l pose in essecuzione.90 Ma se il capriccio di questi eccellenti pittori fu conforme, il ritratto della Maga fu differente, vario il dissegno, vari i colori, e varie l’ombre; sì che non dee nomarsi Gui-do imitatore d’Antonio, ma sì bene essecutore di quanto egli avea conce-puto nell’animo. L’Achillini vide una rosa nel mese di decembre e con poe-tiche invenzioni mirabilmente la descrisse; Vostra Signoria n’ha veduta un’altra nel cuore dell’inverno e con poetici colori vagamente l’ha dipinta; ond’io chiamerei quest’atto più tosto gareggiamento che imitazione.91 Ma

87. È possibile che Rinaldi stia qui ringraziando Malvezzi per la Galeria del

Marino, di cui accusa la ricevuta nella lettera precedente indirizzata al Carlo. 88. Il sonetto di Achillini in questione è individuabile nel sonetto Per fare al

Verno un odorato oltraggio (Poesie di Claudio Achillini dedicate al grande Odoardo Farnese duca di Parma, e di Piacenza, Bologna, Ferroni, 1632, p. 188), mentre quello di Manzini probabilmente non fu stampato.

89. Antonio Allegri, detto il Correggio (1489 ca.-1534). Di un ritratto di Circe non si ha notizia.

90. Nemmeno per Guido Reni è stato possibile trovare il dipinto in questione. 91. La lettera rimanda a due temi molto importanti e dibattuti all’epoca, cioè

quello dell’imitazione e quello dell’accostamento di poesia e pittura. L’accosta-mento di poesia e pittura risuona a partire dall’oraziano ut pictura poesis (Ars poetica, v. 361). Il verso, già a partire dalla metà del XVI secolo, veniva invocato nella trattatistica sull’argomento per sancire lo stretto legame tra quelle che venivano considerate due arti sorelle. Fondamentale sulla questione resta il la-voro di RENSSELAER W. LEE, Ut pictura poesis, Firenze, Sansoni, 1976. Già qui le parole di Rinaldi («con poetici colori vagamente l’ha dipinta») riflettono ap-pieno la stretta vicinanza, quasi una intercambiabilità, di pittura e poesia.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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io so ch’ella mi dirà di ceder la palma a così famoso poeta e vorrà che, quant’io magnifico la sua virtù, altrettanto celebri la sua modestia. Io mi rallegro di vedere in Vostra Signoria il valore congiunto con l’umiltà e con-chiudo con quella bella sentenza:

chi più sa, meno pretende. Di Bologna il dì 24 d’agosto 1619.

48

Al signor Fiorello Fiorelli a Perugia. Per compiacere ad una sola dimanda di Vostra Signoria ho col signor Pa-radiso usati due termini di sconvenienza, l’uno d’investigare e l’altro di pa-lesare i suoi secreti. Nell’anno del mille e seicento sette si risolse questo nobile virtuoso di cantar l’impresa contra Massenzo92 e, con la lettura di

All’interno della sua produzione poetica, tra i tanti esempi di questo accosta-mento, è significativo il sonetto che egli scrisse in occasione del funerale di Agostino Carracci: Pittura, e poesia, suore e compagne (Il funerale d’Agostin Carrac-cio, Bologna, Benacci, 1603, p. 44). Per quanto riguardo la questione dell’imi-tazione, il dibattito ha origini umanistiche e fonda le sue radici nel concetto di imitazione della natura presente in Aristotele. Tuttavia qui la questione non è l’imitazione della natura, ma l’imitazione di un precedente. Il riferimento coevo più immediato lo troviamo nella celebre lettera di Marino ad Achillini, premessa alla Sampogna, nella quale il poeta napoletano affronta in una digres-sione i temi del «tradurre, imitare e rubare» (GIOVAN BATTISTA MARINO, La Sampogna, a cura di Vania De Maldé, Fondazione Pietro Bembo, Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, pp. 23-60). Riguardo all’imitazione degli antichi mae-stri, afferma: «Tutti gli uomini sogliono esser tirati dalla propria inclinazione naturalmente ad imitare; onde l’imaginative feconde et gl’intelletti inventivi, ricevendo in sé a guisa di semi i fantasmi d’una lettura gioconda, entrano in cupidità di partorire il concetto che n’apprendono et vanno subito machi-nando dal simile altre fantasie, et spesso peraventura più belle di quelle che son loro suggerite dalle parole altrui» (p. 47). Da questa idea discende l’atteg-giamento tipicamente cinque-secentesco (e testimoniato da questa lettera) del gareggiamento poetico, che si serve dei precedenti illustri come fonte di mate-riale per un gareggiamento. Sullo stesso tema è la prima parte della lettera di Onorato Claretti (da attribuire però a Marino) premessa nel 1614 alla terza parte delle rime mariniane per la quale cfr. EMILIO RUSSO, Studi su Tasso e Marino, Roma-Padova, Antenore, 2005, pp. 138-184.

92. In IANI NICII ERITHRAEI, Pinacotheca, Colonia, Kalckhoven, 1645, II, pp. 166-168 viene riferito che la morte impedì al Paradiso di pubblicare il poema. Poco dopo viene segnalato un divertente aneddoto, secondo cui, quando Para-diso ottenne il permesso di stampare una sua raccolta di rime, il tipografo si rifiutò di comporre il cognome dell’autore, poiché si trattava di una parola da non pronunciare invano: venne deciso allora di sostituire il nome Paradiso con tre punti.

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FEDERICA CHIESA

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molti libri, impadronitosi dell’istoria, con la tessitura d’un ingegnoso la-voro va cattivando gli animi. Egli me n’ha mostrata una parte e non dirò ch’io ammiri l’ordine, lo stile, o la sentenza, ma dirò solo ch’egli supera l’a-spettazione. Consideri Vostra Signoria, che ha un giudicio tanto perspica-ce, quel che possa in dodici anni aver fatto un ingegno tanto sublime. E mentre ch’ella dà una diligente essamina dell’altrui valore, faccia anche un’ottima risoluzione di comandarmi sempre. Di Bologna il dì 20 d’agosto 1619.

49 Al signor Guido Reni.

Con un desiderio estremo attende il nostro signor Pellegrino Lintrù93 l’i-magine del saettato martire,94 opera di Vostra Signoria. Già l’ornamento è finito, benché non proporzionato a così prezioso lavoro, che ci vorrebbono le cornici massiccie d’oro e non con oro di sottilissima foglia superficial-mente segnate. Io non trovo cosa più maravigliosa della Pittura; ella è un’arte che tutte le arti in sé comprende, un’arte che tanto può quanto vuole; io non dico ch’ella abbia forze uguali alla Natura, ché la Natura crea e la Pittura imita cose create. Con tutto ciò i pittori eccellenti sono così rari imitatori che l’imitazione (se credi a gli occhi) è creazione. Ho veduti, e veggo di continuo nelle mie stanze, quadri di Vostra Signoria di così gran rilievo e così vivamente espressi che, se in tal luogo m’occorresse di trattar un negozio con secretezza, temerei ch’essi lo palesassero. Ma io scrivo a Vo-stra Signoria per sapere in quale termine sia la pittura dell’amico, non per discorrer seco della pittura. S’ella me ne farà grazia, io glie ne renderò gra-zie. Di casa il dì 23 di febraro 1619.

50 Al signor conte Ridolfo Campeggi.

Fra tutti i beni mondani, l’onore ha il principato. Il sonetto di Vostra Si-gnoria Illustrissima in mia lode95 per se stesso m’onora, ma, posto in para-gone de’ miei componimenti, mi toglie il credito. Il libraro, nel ristampar

93. Precedente a questa è la lettera n. 57 (9 gennaio 1619), scritta da Rinaldi

allo stesso Pellegrino Lintrù, nella quale si parla per la prima volta di un’opera da commissionare a Guido Reni.

94. San Sebastiano. Nessuna delle versioni conservate di S. Sebastiano sembra essere quella in oggetto (cfr. PEPPER, Guido Reni: a complete catalogue of his works with an introductory text, pp. 232, 234,272, 288).

95. Si tratta del sonetto Vinse barbare genti, ed a l’Impero posto all’inizio delle Rime del Sig. Cesare Rinaldi, in questa terza impressione dal medesimo autore riviste, e ricorrette, 1619.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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il volume delle mie Rime, l’ha posto in fronte all’opera, a guisa di mal pra-tico scalco,96 ch’alla prima portata forma un apparecchio di cibi preziosi e delicati, alla seconda di vivande insipide e rincrescevoli. S’egli ha malizio-samente operato per ingannar il compratore, io protesto di non aver colpa nell’inganno, anzi la colpa è mia che dovrei esser miglior poeta. Debbo dunque dolermi di me, che nel poetar sono infelice, debbo lodare il li-braro, che ne’ propri interessi è cauto, e debbo ringraziar Vostra Signoria che nel favorirmi è stata cortese. Di Bologna il dì 4 febraro 1619.

51 Al signor Francesco Maria Gualterotti a Fiorenza.

Mai non mi piacquero le superfluità e superfluo sarebbe s’io volessi lodare le Rime del signor Raffaele,97 donatemi da Vostra Signoria, che per loro stesse sono lodevoli. Sarebbe anche soverchio, s’io lodassi la cortesia del donatore, da me più volte sperimentata, e che da se stessa è atta a magnifi-car sé stessa: mi si potrebbe rispondere ch’io chiamo soverchie le cose ne-cessarie e che, se l’opera essalta il maestro, fa ben anche bisogno d’affettuo-sa lingua che dia lor le meritate lodi. Loderò dunque le poesie del padre, loderò la liberalità del figlio e, se chi loda i meriti altrui merita lode, sarò sempre alla doppia cagione de’ miei onori doppiamente obligato. Di Bolo-gna il dì 15 di decembre 1619.

52

Al signor Gasparo Murtola98 Governatore di Trieve.

96. Lo scalco era il soprintendente delle cucine, a cui spettava il compito di

provvedere quotidianamente alla mensa del suo signore e di organizzare i ban-chetti.

97. Si tratta probabilmente dell’ultimo volume di Rime di Raffael’ Gualterotti sopra lo illustrissimo & eccellentissimo principe don Francesco Medici, Firenze, Pi-gnoni, 1617.

98. Gasparo Murtola (1570-1625). Fu soprattutto poeta encomiastico e il suo percorso letterario corse parallelo a quello di diversi letterati del tempo, tra cui Marino, Stigliani e Chiabrera. Con Marino ebbe un’accesa rivalità, culminata con un attentato fallito al poeta napoletano. Sul piano letterario lo scontro avvenne attraverso sonetti burleschi raccolti sotto i titoli di Murtoleide e Mari-neide (EMILIO RUSSO, Murtola, Gasparo, in DBI, LXXVII, 2012, pp. 478-481). Il testo della Marineide non fu edito mentre Murtola era in vita, ma venne pub-blicato insieme ai versi che Marino scrisse in risposta ai primi sonetti satirici del Murtola (GIOVAN BATTISTA MARINO, La Murtoleide fischiate del caualier Ma-rino. Con la Marineide risate del Murtola, Francoforte, Beyer, 1626). Anche Ri-naldi cadde vittima dello scontro tra i due: nella Risata XXIII Murtola sostiene che, a sentir parlare Marino, tutti i poeti sono degli «asini ignoranti». I versi

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FEDERICA CHIESA

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Io son ammalato d’un piede, il piede infermo vuole il riposo del letto e chi sta in letto non può conforme a gli oblighi risponder alle cortesi lettere de gli amici. Vostra Signoria con somma prudenza regge la città di Trievi.99 So ben che non le spiacerà che in regger se stesso usi anch’io una forma di buon governo e so ch’ella avrà sempre più cara la mia salute che i miei componimenti. Ma chi vide il valore scompagnato dalla pietà? Io glie ne rendo grazie, Iddio glie ne renda merito. Di Bologna il dì 3 di marzo 1618.

53

Al signor Fiorello Fiorelli a Modona. Trovasi ogni esquisitezza poetica nell’idillio di Vostra Signoria100 e, s’altri si contorce per qualche metafora che gli rassembri troppo ardita, et io tutto concedo alla vivacità del suo ingegno, e tutto condono all’uso de’ componi-menti moderni. Il verso è numeroso e dolce, con tanti fiori per entro spar-si, ch’io gli darei più tosto titolo di Primavera, che nome d’idillio. Oh, s’e-gli già mai perviene alle mani della bella e spietata Lidia, come godrà di mi-rare in tante variate forme la sua bellezza espressa. Non credo però ch’ella goda in vedere accomiatarsi l’Amante che parte da Lidia perché Lidia l’ha partito dalla sua grazia; ma s’ella non fosse stata così crudele, e come a-vrebbe egli dato saggio al mondo d’esser così buon poeta? Contentisi Vo-stra Signoria del ricevuto onore, che dell’amore di questa umanata tigre rimarrà fors’anche un giorno contenta. Di Bologna il dì 26 di febraro 1618.

54 Al signor conte [Pietro] Capra a Vicenza.

Dalla materia che mi vien somministrata mi sforzerò di cavare una forma che non sia disdicevole; ma Vostra Signoria è frettolosa nelle dimande e l’essecuzione non è sempre in mia potestà. Un maestro d’arti mecaniche, mercé della pratica ch’egli ha nel suo mestiere, saprà in quanti giorni può sbrigarsi d’un lavoro; ma i parti dell’ingegno ora sono di furioso, et ora di stentato nascimento; la nuvola non piove sempre e ’l terreno sempre non germoglia; quante volte mi posi in profonda considerazione e, trapassando

della canzone articolano questa asserzione nominando numerosi poeti e ripor-tando i commenti malevoli che Marino avrebbe fatto su di loro, allo scopo di alienargli i colleghi. Nel caso di Rinaldi, egli è descritto senza mezzi termini come un «alocco» (cfr. MARCO CORRADINI, In terra di letteratura. Poesia e poetica di Giovan Battista Marino, Lecce, Argo, 2012, p. 155).

99. Si tratta forse della città di Trevi (Perugia), ma non si hanno notizie di un incarico di Murtola in queste città. Egli fu comunque governatore di Amelia a partire dal 1611 (cfr. CARMINATI, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e cen-sura, p. 97, nota 12).

100. Di questo componimento non si ha notizia.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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di pensiero in pensiero, non eressi machina che subito non rovinasse? Né fiore apersi che subito non languisse? Altre volte ogn’influsso mi fu beni-gno, ogni semenza mi fece frutto. Ora, se il tempo presente fosse per me uno di quei tempi di sterilità, quando Vostra Signoria non si recasse a noia della mia tardanza ne’ suoi servigi, io le rimarrei con doppia obbligazione, e dell’avermi comandato, e dell’avermi compatito. Di Bologna il dì 1 di febraro 1618.

55

Al signor Antonio Costantini. E quale è il più prezioso tesoro ch’abbiano i professori delle belle lettere? Il Tasso. E quale fu il più sincero amico ch’avesse il Tasso? Il Costantini. Dunque, dovendomi esser donata la vera effigie del Tasso,101 altri che ’l Costantini non doveva esser il donatore, e perché in faccia a chi dona non è giusto che si lodino le cose donate, scrivendo al Costantino non dovrei lodare il Tasso, e lodando il Tasso non dovrei scriver al Costantini. Con tutto ciò affettuosamente gli scrivo e, in quell’istesso tempo ch’io essalto la virtù dell’uno, lodo anche il valore e la benignità dell’altro, rimanendo con obligo di profonda riverenza a chi è morto per viver sempre, e di perpetua osservanza a chi è vivo per non morir già mai. Di Bologna il dì 20 di gen-naio 1618.

56 Al Prencipe de gli Academici Insipidi.102

Il nostro signor Ottavio prega d’esser ammesso nell’Academia de gli Insi-pidi. L’affetto ch’egli porta a così gentile raunanza gli basterà per introdu-zione, e ’l desiderio ch’egli ha d’imparare gli servirà per merito. Io lo pro-pongo a Vostra Signoria non perch’essa la preponga a gli altri nella sua grazia, ma perché tra gli altri egli abbia luogo convenevole; glie lo racco-manderei con maggiore efficacia quand’io dubitassi di qualche voto con-trario, ma io me l’imagino accettato prima che pallottato: procuri in tanto Vostra Signoria ch’io sappia la quantità de gli Academici, come so la qua-lità, acciò ch’io possa col numero delle palle favorevoli registrare il numero de gli oblighi miei, e le bacio la mano. Di casa il dì 26 di genaro 1618.

57 Al signor Pellegrino Lintrù.

I due quadri della bella Rebecca, fatti a Vostra Signoria dal signor Lodo-vico Carraccio, tanto più debbono esser da lei pregiati, quanto che in essi

101. Non è chiaro che cosa si intenda per «effigie». Potrebbe trattarsi di un

ritratto di Tasso, così come di una delle sue opere. 102. Per le notizie sull’Accademia degli Insipidi cfr. lettera n. 41.

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FEDERICA CHIESA

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vede scolpito il ritratto del caro padre e del fratello, che Dio gli glorifichi in Cielo come gli ha così buon pennello ravvivati in terra. Taccio le lodi del pittore, perché appariscono nell’opera, e taccio il desiderio ch’ella tiene d’ottenere dal signor Guido Reni nuova istoria103 ch’aggiunga alle sue stan-ze nuova maraviglia: ma perché desiderare senza chiedere? L’acquisto con-siste nella dimanda, conseguirà Vostra Signoria per merito quel ch’io più volte ho conseguito per grazia; e perché ad una lunga operazione non si de’ un tardo principio, cominci ella dalla sua parte, ch’io entro mallevado-re dall’altra, e le bacio la mano. Di casa il dì 9 di gennaio 1619.

58 Al signor Giovanni Battista Andreini104 a Ferrara.

Ebbi sempre più ventura che senno e più lode che merito. Molti nel giudi-cio de’ miei componimenti si sono ingannati; ma quanto più l’altrui lingue m’onorano, tanto più la mia coscienza mi mortifica. Non aspetti Vostra Si-gnoria il sonetto sopra l’arte comica, che pur troppo la Poesia m’ha rovina-to, e non fa per me l’accettar di nuovo i miei nemici in casa. Apersi ben to-sto la porta del cuore a quel dolce saluto ch’ella m’inviò a nome della signo-ra Florinda,105 l’accettai come caparra della sua affezione e glie lo rendo du-plicato, come testimonio della mia osservanza, e le bacio la mano. Di Bo-logna il dì 1 di decembre 1618.

59 Al signor don Gieronimo Giacobbi,

maestro di cappella di San Petronio in Bologna.106

103. Nella lettera n. 49 Rinaldi riferisce a Guido Reni che Lintrù attende

«l’imagine del saettato martire» e può darsi che la richiesta di questo S. Seba-stiano sia stata avanzata qui per la prima volta.

104. Giovan Battista Andreini (1579?-1654). Nel 1594 iniziò la sua carriera di comico nella compagnia dei Gelosi, con il nome di Lelio, per poi fondare una sua compagnia, quella dei Fedeli, che si pose al servizio del duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga. Fu autore di un grande numero di testi scenici (FRANCA

ANGELINI FRAJESE, Andreini, Giovan Battista, in DBI, III, 1961, pp. 133-136). 105. Virginia Ramponi Andreini, detta Florinda (1583-1631ca.). La donna di-

venne attrice di successo dopo il matrimonio, nel 1601, con Giovan Battista Andreini che dedicò alla moglie la tragedia La Florinda, Milano, Bordone, 1606, dalla quale poi prese il nome d’arte (ALICE BRAGATO, Ramponi, Virginia, detta Florinda, in DBI, LXXXVI, 2016, pp. 357-359).

106. Girolamo Giacobbi (1597-1629). Entra da bambino nel gruppo dei chie-rici di S. Petronio a Bologna e qui viene istruito nel canto. Nel 1589 fu ordinato sacerdote e proseguì la carriera musicale in parallelo a quella ecclesiastica. La sua opera spaziò dalla musica sacra al melodramma e le sue composizioni eb-

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Niuna cosa mi diletta più della musica e di questa fu sempre Vostra Signo-ria professore eminentissimo; ond’io, per ricrear l’animo di qualche novi-tà, la prego a vestir d’abito musicale le due composizioni ch’io le mando, tanto ricche d’affetto, quant’io fui sempre povero d’invenzione. Direi che l’autore di così affettuosi componimenti fosse il Serenissimo Ferdinando Gonzaga,107 quand’io non volessi tacerlo per riverenza, o quand’io non cre-dessi d’offender la grandezza d’ottimo Prencipe col publicarlo per ottimo poeta. Contentisi Vostra Signoria, senza ch’altro io le riveli, d’aggiunger gli onori della sua penna a gli onori dell’altrui Musa; la molteplicità de’ versi richiede lo stile recitativo108 e questa è la maniera che mi rapisce; ben-ché in due modi io possa esser da lei rapito, e con la dolcezza del canto, e con la prestezza del favorirmi, e le bacio la mano. Di casa il dì 10 d’agosto 1620.

60 Al signor cavaliere Tomaso Stigliani a Parma.

I venti canti del poema109 di Vostra Signoria sono stati per venti giorni il mio trattenimento; dico per venti giorni perché, tra nobilissima schiera di virtuosi, ogni giorno n’ho letto un canto, accompagnando la lettura con la maraviglia e la maraviglia con le lodi. Ma perché Vostra Signoria desidera, più che ’l piacer della lode, l’utile di qualche avvertimento, io l’avvertisco

bero largo successo. Nel 1604 divenne maestro di cappella a S. Petronio, inca-rico che mantenne per il resto della sua vita. Collaborò con Ridolfo Campeggi musicando, tra gli altri, quattro intermedi per il Filarmindo e l’intera Andromeda. (MARTA ACETO, Giacobbi, Girolamo, in DBI, LIV, 2000, pp. 123-125).

107. Non è dato di sapere quali siano i componimenti scritti da Ferdinando Gonzaga, tuttavia è interessante che questa sua attività poetica si sia svolta con Rinaldi come tramite (e forse anche come correttore).

108. La trattatistica sull’argomento è molto complessa, ma per la vicinanza si ricorda il trattato di GIOVANNI BATTISTA DONI, Trattato della musica scenica, nel vol. II della Lyra Barberina Amphichordos, Firenze, stamperia Imperiale, 1763. L’opera rimase inedita per molto tempo, fino alla stampa settecentesca. Seppur composto negli anni del pontificato barberiniano, il trattato di Doni è un col-lettore di idee e teorie che circolavano ormai da tempo. Per quanto concerne l’affermazione di Rinaldi, il Doni afferma che per stile recitativo si intende una melodia cantata da un solista accompagnato da un solo strumento, in cui le parole del canto devono essere comprensibili e imitare quasi il parlato (vol. 2, pp. 28-30); inoltre, per tutto il trattato si occupa analiticamente dei versi della poesia italiana, analizzandone la lunghezza e la prosodia in relazione alla mu-sica.

109. TOMMASO STIGLIANI, Del mondo nuovo, Piacenza, Bazachi, 1617. La prin-ceps contiene solo il primi venti canti. L’edizione completa con i 14 canti rima-nenti fu pubblicata diversi anni dopo: Il mondo nuovo, Roma, Mascardi, 1628.

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FEDERICA CHIESA

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a non prolongar l’uscita al rimanente dell’opera; acciò che, aggiungendo bello a bello, e buono a buono, resti il Mondo di Vostra Signoria doppia-mente sodisfatto, e Vostra Signoria nel mondo doppiamente gloriosa. Di Bologna il dì 20 di settembre 1617.

61 Al signor Agostino Mascardi110 a Modona.

Lodai in una mia lettera un volume sopra il verno perché l’autore me ne fé dono111 e perch’egli era degno di lode. Ora, cercandolo nel mio museo per darne a Vostra Signoria il desiderato ragguaglio, trovo che m’è stato in-volato; gran cosa di quei che rubano i libri, che non si fanno coscienza del furto e pur ogni buon libro vale un tesoro. Chi m’ha tolto il poema del verno meriterebbe d’esser condennato a sopportar perpetuo verno; ma per-ché Dio gli perdoni, io gli perdono. Quanto a’ versi latini ch’ella m’ha in-viati, dirò che sono conformi all’aspettazione; dirò che ’l suo ingegno è una pianta che produce frutti di gloria e che non sarebbe ingegnoso chi non fosse liberale. Di Bologna il dì 10 di settembre 1619.

DALLE LETTERE 1624

63 Al signor Girolamo Preti a Roma.

Passato l’inverno, finito l’incanto; io era talmente affascinato dal rigore della fredda stagione ch’io non poteva né operare secondo il genio, né so-disfare a padroni conforme al debito, e pure il debito pagato è un credito rifatto. Ringrazio Iddio che, insieme con le stelle migliori, i migliori pen-sieri riprendon forza; questi rinvigoriti m’impongono che per l’innanzi io saluti Vostra Signoria con più frequenti lettere; scriverò più spesso e non sarà lettera senza saluti, né saluto senza riverenza. Mi rallegro intanto della

110. Agostino Mascardi (1590-1640). Entrò nella Compagnia di Gesù nel

1606, ma fu costretto a lasciare l’abito nel 1617, a causa del suo interesse per una sistemazione presso la corte estense. Visse per un lungo periodo a Genova, dove ebbe rapporti con Ansaldo Cebà e Chiabrera, e a Roma. Fu autore di diversi versi latini, dei Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano (Venezia, Pi-nelli, 1627), ma soprattutto Dell’arte historica (Roma, Facciotti, 1636: cfr. ERALDO BELLINI, Mascardi, Agostino, in DBI, LXXI, 2008, pp. 525-532). Ma-scardi ebbe sempre rapporti, talvolta difficili, con l’ambiente letterario bolo-gnese: cfr. ERALDO BELLINI, Agostino Mascardi tra ‘ars poetica’ e ‘ars historica’, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 27-32, 44-47, 227-234; ID., Due lettere sulla peste del 1630. Mascardi Achillini Manzoni, «Aevum», 87, 2013, pp. 875-917.

111. Si parla qui del poema di MAGAGNATI, La Vernata, che fu donata a Ri-naldi con la lettera del 14 gennaio 1612 (Lettere 1617, p. 33), qui lettera n. 4.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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nuova pensione concedutale dal Pontefice in ricompensa delle fatiche, non già della virtù, che la virtù a se stessa è tesoro. La Salmace, l’Oronta112 e gli altri suoi componimenti sono ricchezze inestimabili, che non si mu-tano per accidente e non si perdono per morte: ma dove lascio trasportar-mi? Il vento non entra in luogo onde non possa uscire e, s’io entrassi nelle lodi di Vostra Signoria, non uscirei già mai.113

64

Al padre domenicano Lorenzo Badoaro a Venezia. Io non dimando, ma s’altri m’offre, accetto le cose offerte, e se l’accettare è un atto di mala creanza, e l’offerire è un termine di soverchia cortesia, sì che l’uno eccesso partorisce l’altro. Vostra Signoria molto Reverenda m’ac-cenna esser comparse certe rime boschereccie, falsamente attribuite al Ma-rino,114 e mi dimanda s’io avrei gusto di leggere. E chi non l’avrebbe? Po-vero Cavaliere, la cui poetica stirpe era annullata, se con illegittima prole un adultero non glie l’avesse rifatta: ma da che tempo in qua si costuma di donare i propri figli? Io non posso far presenti di simil sorte, che i parti del mio ingegno muoiono subito nati e i cadaveri si mandano alle sepolture, e non si donano a gli amici: ma non trattiamo di cose morte. Il saluto del signor Ottavio Rossi115 m’ha fatto arrossire, poich’io fui sempre con un pa-drone tanto riguardevole scarso ne gli ufficii della penna; s’io fossi tale nel-la riverenza del cuore, sarei un mostro d’imperfezioni, degno d’esser abor-rito, non che salutato. Del poema N. ho gran vaghezza, quando egli sia stampato e quando si possa leggersi con buona coscienza, in altra guisa il

112. Si tratta del poemetto in ottave L’Oronta di Cipro, contenuta nelle Rime,

Bologna, eredi di Perlasca, 1618. 113. Per questa lettera è difficile formulare una datazione precisa. Tuttavia di-

versi dati permettono forse di collocare la lettera negli anni 1621-1623. Preti entrò al servizio del cardinale Alessandro Ludovisi tra la fine del 1620 e l’inizio del 1621, poco prima che il prelato venisse eletto papa con il nome di Gregorio XV, il 9 febbraio 1621: è dunque probabile che la pensione di cui si parla sia stata concessa dal suo patrono durante il pontificato, prima della di lui morte l’8 luglio 1623. Inoltre la missiva è contenuta nella sezione delle aggiunte delle Lettere 1624 che, come si è detto alla nota 19, vanno tutte probabilmente col-locate tra il 1620 e il 1624.

114. Una raccolta mariniana di questo genere in realtà venne pubblicata in quegli anni: Rime boscherecce del Marino: Sospiri d’Ergasto, Tirsi, Aminta, Dafne, Siringa, Pan, Eclippo, Napoli, Bonino, 1620. Per una breve rassegna bibliografica sulla raccolta cfr. RUSSO, Studi su Tasso e Marino, p. 158, nota 95.

115. Ottavio Rossi (1570-1630). Archeologo, erudito e rimatore, pubblicò nel 1621 una cospicua raccolta epistolare che è oggetto del saggio di Giacomo Mar-zullo in questo stesso volume.

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FEDERICA CHIESA

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rifiuto che non vuo’ torlo all’acque per darlo al fuoco, e le bacio riverente-mente la mano. Di Bologna il dì 29 di maggio 1622.

65 Al Signor Duca di Mantova a Mantova.116

Nel dedicare e nel mandare all’Altezza Vostra Serenissima il secondo vo-lume delle mie Lettere,117 mi consigliai con me medesimo, e so ch’io feci bene. Ora, nell’inviarle una copia del primo,118 accompagnato con la scelta delle mie Rime,119 anche da me stesso prendo consiglio, e so ch’io faccio male. Ma s’io erro come servidore che soverchiamente si dimestica col pa-drone, non erro come padre che teneramente ama i propri parti e che non si compiace di vederli disuniti. L’Altezza Vostra scusi l’affetto, che sarà scu-sato anche il difetto, e con profonda umiltà le bacio la mano. Di Bologna il dì 20 di settembre 1620.120

66 Al medesimo a Mantova.

Fu dedicato prima che principiato il secondo volume delle mie Lettere,121 e ne fu sempre eletta l’Altezza Vostra Serenissima per protettore. Ora lo de-pongo nelle sue mani, non come frutto di merito, che m’acquisti lode, ma come segno di divozione che m’assicuri i suoi favori, e con umilissima ri-verenza me le inchino. Di Bologna il dì 15 di settembre 1620.

67 Al signor … a Venezia.

116. Della lettera, indirizzata a Ferdinando Gonzaga, dedicatario del secondo

volume delle Lettere 1620, è conservato l’autografo presso l’Archivio di Stato di Mantova (ASMn, AG, b. 1172, f. III, cc. 444-445). Questa e altre nove lettere che riguardano Rinaldi (di cui due autografe) sono schedate nell’Archivio corri-spondenza Gonzaga (1563-1630), consultabile online. Dalle schede risulta che Andrea Barbazza fece da mediatore tra il poeta e il duca di Mantova, inoltrando le sue lettere e i libri inviati tra il settembre e il dicembre 1620. Nonostante questa accortezza, pare che i libri andassero smarriti rendendo necessario un secondo invio. Ai ringraziamenti del duca, secondo le parole di Barbazza, Ri-naldi fu «tanto consolato ch’io credo che impazzirà» (ASMn, AG, b. 1172, f. III, cc. 527-528).

117. RINALDI, Lettere 1620, vol. 2, inviato con la lettera al duca di Mantova del 15 settembre 1620 (lettera n. 66).

118. È probabile che si tratti della seconda edizione del primo volume (RI-

NALDI, Lettere 1620, vol. 1) e non di quella precedente (RINALDI, Lettere 1617). 119. Rime del Sig. Cesare Rinaldi, in questa terza impressione dal medesimo autore

riuiste, e ricorrette, 1619. 120. Secondo la scheda di cui alla nota 116, la data di questa lettera nell’auto-

grafo sarebbe 22 settembre 1620. 121. RINALDI, Lettere 1620, vol. 2.

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LE LETTERE DI CESARE RINALDI

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Niuno m’accusi di violato giuramento per aver composto il presente ma-drigale che, quand’io giurai di non far più versi, intesi delle poesie profane e non delle spirituali; troppo sarebbe se, mentr’io bramo che la Beata Ver-gine sia feconda a me delle sue grazie, io fossi sterile a lei delle mie pre-ghiere, o siano in rima, o sieno in prosa: ho poetato per mia divozione, per commune bisogno, e per le care dimande di Vostra Signoria, la quale con assoluta potestà può di me valersi, perché con risoluto affetto me le son dedicato, e le bacio la mano.

Per la processione della Madonna della pioggia

Morivan l’erbe, e i fiori, languiva il piano, e ’l monte, non più rivo era il rivo, o fonte il fonte; una latrante stella122 de la natura impoveria gli onori, ma chi ripresse i fervidi latrati? Tu, tu, Vergine bella, tu di Sirio temprasti i caldi fiati, tu con pioggia feconda rendesti l’erba a l’erba, e l’onda a l’onda.

68 Al signor Pier Antonio Campana a Venezia.

Se io desiderassi denari o robbe, sarei avaro; se onori e dignità, sarei ambi-zioso; se qualche oggetto per dar pasto a gli occhi e gusto al tatto, sarei la-scivo; una sola cosa desidero per passatempo della corrente stagione, l’A-done del Cavalier Marino,123 e l’avremo di corto, se l’autore nelle sue lettere non mentisce. E mi poterebbe risponder Vostra Signoria: «Dunque tu non desideri il N. ch’io ti procuro»; desidero anche questo, ma, s’io ne trattassi in ogni lettera, sarei rincrescevole: bisogna ben conceder alla nave, che par-tì per Lisbona, il tempo del ritorno. Io giuro a Vostra Signoria che più gen-te viene alle mie stanze per curiosità di vedere i miei animali, che per va-ghezza di mirar le mie pitture. So ben che non viene alcuno per veder me, o per discorrer meco, ché i miei discorsi, per la debolezza del mio ingegno, poco son acconci a dilettare, e meno a giovare altrui. Quando però io ra-gionassi delle qualità di Vostra Signoria, supplirebbe in quel caso l’affetto del cuore al difetto della lingua, e parlerei de’ meriti suoi, e parlerei de gli oblighi miei senza esser discaro a chi m’udisse.

122. Cane maggiore, la costellazione cui appartiene Sirio. 123. L’opera venne stampata nella primavera del 1623, ma Marino ne parlava

da anni (cfr. per es. MARINO, Lettere, p. 188): la datazione della lettera resta perciò incerta.

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GIACOMO MARZULLO

LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

Devesi con ogni ragione sopra modo stimare la memoria di Ottavio Rossi nato nella Città di Brescia, il quale, e con le polite Lettere, e con le varie scienze fu celebre al pari di qualunque altro famoso Bresciano. Con la dot-trina hebbe ancora il pregiatissimo ornamento della bontà di vita, e dell’in-nocenza de’ costumi, dalle quali bellissime parti accompagnato, fu a se stes-so, alla patria, e alla sua famiglia di chiarissimo splendore; ne’ più teneri anni dell’adolescenza diedesi di buon cuore alli studi delle ottime disci-pline.1

Così Girolamo Ghilini delineava il primo ritratto di Ottavio Rossi nel suo Teatro d’huomini Letterati. Rossi – erudito, archeologo, stori-co e poeta –, nato probabilmente nel 1570 a Brescia e morto di pe-ste in quella stessa città nel 1630, assume un qualche peso nel pa-norama storico-letterario secentesco sia in virtù delle sue opere pre-valentemente a carattere storico sia per le relazioni significative in-staurate con politici, chierici, letterati ed eruditi di spicco della Re-pubblica del Leone e dell’Italia a cavallo tra il XVI e XVII secolo. Prima di addentrarci nel suo epistolario è necessario tracciare, sep-pur in maniera stringata, la sua biografia, sebbene siano scarse le informazioni biografiche pervenuteci.2 Per quanto concerne la sua

1. Teatro d’huomini letterati aperto dall’abate Girolamo Ghilini e consacrato alla

santità di Nostro Signore Urbano Ottavo, in Milano, per Gio. Battista Cerri et Carlo Ferrandi con privilegio, s.d., pp. 348-349. La data di questa prima edi-zione è incerta, forse risale al 1635, cfr. ANDREA MERLOTTI, Ghilini, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani [DBI], LII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 741-743.

2. Ottavio Rossi non ha trovato luogo, purtroppo, nel Dizionario Biografico degli Italiani. Per informazioni circa la vita di Rossi rimando a ROSARIA ANTO-

NIOLI, La letteratura bresciana del Seicento, in Brescia nella storiografia degli ultimi quarant’anni, a cura di Sergio Onger, Brescia, Morcelliana, 2013, pp. 245-248; SIMONE SIGNAROLI, Lettere diplomatiche e memoria storiografica: da Francesco Bar-baro a Ottavio Rossi, in El patron di tanta alta ventura: Pietro Avogadro tra Pandolfo Malatesta e la dedizione di Brescia a Venezia: atti della giornata di studi, Ateneo di Brescia, 3 giugno 2011, a cura di Simone Signaroli ed Enrico Valseriati, Brescia,

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formazione, sappiamo che apprese il latino da Giovanni Battista Tebaldo Marchiano e il greco da Prospero Martinengo. Compì gli studi in filosofia presso l’università di Padova e nel 1589 preferì ri-nunciare alla cattedra universitaria per dedicarsi a una serie di viag-gi. Nel periodo compreso tra il 1600 e il 1608 decise di spostarsi prima a Napoli e poi a Roma, presso il convento di Sant’Onofrio al Gianicolo, periodo in cui apprezzò le opere di Michelangelo Me-risi, del Cavalier D’Arpino e dei fratelli Carracci. Ritornato a Bre-scia, nel 1608, iniziò a dedicarsi allo studio delle memorie patrie e decise di sposare la nobildonna Vittoria Monselice, originaria di un’abbiente famiglia di Maderno, figlia di Paola Avogadro e nipote di Antonio Maria Avogadro.3 Da questa unione vennero alla luce Giacomo Maria4 e Leonzia Vittoria: il primo fu sacerdote della col-legiata dei S.S. Nazaro e Celso; la seconda entrò a far parte delle agostiniane di S. Croce. Rossi, non meno vicino agli ambienti arti-stici che a quelli delle diverse accademie letterarie che fiorirono in Italia all’inizio del XVII secolo, decise di fondare nel 1619 – in-sieme a Paolo Richiedei e ai fratelli benedettini Silvio e Lattanzio

Travagliato, 2013; ID., La Valle Camonica nella scienza Antiquaria del primo Sei-cento, «Aevum», 86, 2012, pp. 1071-1110, alle pp. 1077-1110 (ove, alle pp. 1077-1078, si ipotizza che la data di nascita possa essere 1578); BARBARA D’AT-

TOMA, Il Seicento, in Mille anni di letteratura bresciana, I, a cura di Pietro Gibellini e Amedeo Luigi Biglione di Viarigi, Brescia, Associazione Amici di Lino Poisa, 2004, pp. 267-271; ANTONIO FAPPANI, Rossi Ottavio, in Enciclopedia bresciana, XV, Brescia, La Voce del Popolo, 1999, pp. 291-293; PAOLO GUERRINI, Uo-mini illustri di casa nostra: Ottavio Rossi, in Figure della storia e della cronaca, XXV, a cura di Paolo Guerrini, Brescia, Edizioni del Moretto, 1986. Per i testi di erudizione sei-settecentesca si vedano: BALDASSARRE ZAMBONI, Memorie in-torno alle pubbliche fabbriche più insigni della città di Brescia, Brescia, Pietro Ve-scovi, 1778, pp. 127-128; LEONARDO COZZANDO, Libraria bresciana nuovamente aperta, Brescia, Maria Rizzardi, 1685, pp. 280-283; GIACOMO FILIPPO TOMA-

SINI, Elogia virorum literis & sapientia illustrium ad vivum expressis imaginibus exor-nata, Padova, Ex typogr. S. Sardi, 1644, pp. 236-241. Altra fonte utile per rica-vare informazioni su Rossi è il Diario di Giambattista Bianchi Ussoli, custodito presso la Biblioteca Civica Queriniana di Brescia, ms. I.VI.29; del diario di Bianchi Ussoli esiste anche il ms. Queriniano K.VI.18.

3. Gli Avogadro o Avogaro furono una delle più importanti famiglie nobiliari bresciane, vd. VITTORIO SPRETI, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. I, Mi-lano, ed. Enciclopedia storico-nobiliare italiana, 1928-1936, p. 454.

4. A proposito di Giacomo Maria Rossi si veda FAPPANI, Jacopo (Giacomo) Rossi, in Enciclopedia bresciana, vol. XV, p. 289.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Stella – l’Accademia degli Erranti.5 Rossi, scrittore assai prolifico, è principalmente ricordato per le

sue opere a carattere storico; esempio ne sono quelle che costitui-scono la ‘trilogia bresciana’: le Memorie Bresciane,6 gli Elogi Historici di Bresciani illustri7 e le monumentali Historie Bresciane in XXXVII libri, opera storiografica iniziata nel 1607 e rimasta incompiuta.8 Tra le altre opere storiche incompiute si ricordano anche i Fatti illustri e pompe eroiche della città di Brescia, perfezionate da Agostino Luzzago, che ottennero l’approvazione dell’inquisitore di Bergamo l’11 gennaio 1636 e dei Riformatori dello Studio di Padova il 1° febbraio dello stesso anno; ma l’opera non fu mai data alle stampe. Tra le opere agiografiche ricordiamo La vita di Santa Giulia e la Sto-ria dei S.S. Martiri Faustino e Giovita. 9 Le glorie de’ Francesi rappresen-tano un chiaro esempio di panegirico barocco con il quale Rossi

5. La prima sede del circolo fu il monastero di S. Faustino Maggiore e il primo

principe fu il conte Martinengo Cesaresco, a lui successe il conte Camillo Ca-prioli che mise casa sua a disposizione degli accademici. Per informazioni circa l’Accademia degli Erranti rimando alla seguente bibliografia: Dissertazione isto-rica delle accademie letterarie bresciane detta da Giambatista Chiaramonti, Brescia, nell’adunanza letteraria di casa Mazzuchelli, 1762, pp. 40-44; MICHELE

MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, vol. II, Bologna, Cappelli, 1927, pp. 305-308.

6. Memorie Bresciane Opera Istorica et simbolica di Ottavio Rossi, in Brescia, per Bartolomeo Fontana, 1616.

7. Elogi Historici di Bresciani Illustri, teatro di Ottavio Rossi, in Brescia, per Bar-tolomeo Fontana, 1620.

8. Delle Historie esistono quattro manoscritti custoditi presso la Biblioteca Ci-vica Queriniana di Brescia: l’autografo Historie bresciane (ms. B.VI.27) e la copia Storie Bresciane dall’originale autografo (ms. D.I.6), che costituiscono la prima re-dazione che arriva fino all’anno 1223; le Istorie Bresciane dalla fondazione della città fino all’anno 1110 (ms. C.I.6) e le Historie bresciane di Ottavio Rossi (ms. G.III.6) costituiscono la seconda redazione, interrotta dalla morte dell’autore, che arriva fino all’anno 1110; inoltre, nella dedicatoria degli Elogi Historici, Rossi fa riferimento a una futura opera storiografica «di gran fatica».

9. La vita di Santa Giulia cartaginese vergine, e martire. Scritta alla Sereniss. Altezza di Madama Christierna di Lorena, Gran Duchessa di Toscana, in Brescia, per il Bozzola, 1605; l’unico esemplare conosciuto è custodito presso la Bibliotheque Société des Bollandistes di Bruxelles; per informazioni più complete sulla Vita di Santa Giulia rimando allo studio di GIANNI BERGAMASCHI, La Vita di santa Giulia di Ottavio Rossi (1605), «Annali Queriniani», X, 2009, pp. 7-62; Historia de’ gloriosissimi santi martiri Faustino et Giovita scritta da Ottavio Rossi. Nella quale si discorre brevemente ancora de gli altri gloriosissimi santi Faustino & Giovita secondi

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esalta il modello del principe cattolico, impersonato dal re francese, che insieme alla Chiesa di Roma fu grande difensore della religio-ne. 10 L’unica raccolta di poesie pubblicata da Rossi sono le Rime, edite per i torchi di Tebaldino nel 1612.11 Soltanto la prima parte venne stampata, mentre una seconda parte non ci è pervenuta. Strutturalmente le Rime sono organizzate per temi: «Amorosi», «Lu-gubri», «Eroici», «Morali» e «Sacri»; un’ultima sezione raccoglie una silloge di sonetti argutissimi scambiati con letterati. Rossi utilizza come modello le Rime12 del Marino edite per la prima volta nel 1602.

L’edizione delle ‘Lettere’

LETTERE | DEL SIG. | OTTAVIO ROSSI | Raccolte da Bartolomeo Fontana | Con gli argomenti, & nella tavola ridotte | sotto à i loro capi | Dedicate all’Illustrissimo & Eccellentiss. Sig.| LIONARDO MOCENIGO | Procurator di S. Marco | [Marca tipografica: fontana zampillante con un piccolo cavallo alato sulla sommità; in una cornice figurata il motto: «Nun-quam siccabitur aestu»] | IN BRESCIA | [Linea, mm. 70] | Per Bartolo-meo Fontana. M DC XXI. | Con Licenza de’ Superiori. *8A-Y8

pp. 360 Segnatura in cifra araba sul margine inferiore delle prime 4 cc. ad eccezione del fasc.* (c. *1 non segnata). Pagine numerate da 1 (c. A1r) a 360 (c. Y7v), ultima carta bianca, omesse nella numerazione le pagine da 177 a 186.13 Impronta: a n-t- 7124 urdi stdi (3) 1621 (R)

martiri di questo nome, e d’altri santi di molte famiglie bresciane, in Brescia, per Bar-tolomeo Fontana, 1624.

10. Le glorie de’ francesi del Signor Ottavio Rossi, nell’accademia degli Erranti, l’Agi-tato, in Brescia e in Bologna, appresso Clemente Ferroni ad instanza di Barto-lomeo Cavalieri & Cesare Ingegnieri, 1630.

11. Rime del Signor Ottavio Rossi, prima Parte, in Brescia, per Francesco Tebal-dino, 1612.

12. Rime di Gio. Battista Marino, amorose, marittime, boscherecce, heroiche, lugubri, morali, sacre, & varie. Parte prima e seconda, in Venetia, presso Gio. Bat. Ciotti, 1602.

13. Si tratta di un banale errore di numerazione, poiché non vi sono interru-zioni di testo: la p. 176 (c. L8v) si conclude con la lettera al conte Alamanno Gambara e la pagina seguente, p. 187 (c. M1r), inizia con la lettera al signor Bernadino Ronco; il richiamo coincide e inoltre l’indice dei destinatari non subisce alterazioni o incoerenze.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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*1r] Frontespizio *1v] Imprimatur: De mandato Reverendissimi patris Inquisito- | ris Brixiae Frater Bonifacius Banzolus Car- | doneſis Lector Ordinis praedicatorum, & | Notarius Apostolicus. | [Linea 67mm] | Adì 4 Novembre 1621 | Gli illustrissimi Signori Zuanne Nani Podestà | & Zuanne Basadonna Capita-nio Rettori di | Brescia visto il presente libro di lettere fa- | miliari hanno concesso che sia impresso. | Agostino Vida Cancell. Pret. *2r] «ALL’ILLVSTRISS. | ET ECCELLENTISS. | SIGNORE | IL SIG. LIONARDO | MOCENIGO | Procurator di S. Marco» Termina a *3v: «[…] Da Brescia a’ 12 Nouembre 1621. | Di V. Eccell.Illlu-stris. | Humilis. Ser. Obligatiss. | Bartolomeo Fontana». *4r-v] «CAPI DELLE LETTERE | che si contengono nel presente Libro». Termina a *4v «[…] Il fine de’ Capi delle Lettere». *5r] «Lettere di diversi Huomini Illustri scritte all’autore». *5v] «INDICE DELLE PERSONE | alle quali sono state scritte le Lettere». Termina a c. *8r […] Il fine dell’Indice. *8v] errata corrige, testo su tre colonne: «Auertimento à quelli che legge-rano le presenti lettere. | Bartolomeo Fontana». A1r] «LETTERE DEL SIG.| OTTAVIO ROSSI | Al padre Don Arnoldo Vuione Fiamengo | à Reggio». R4r] «LETTERE DEDICATORIE |dell’istesso |scritte in nome d’altri». S2v] «LETTERE SCRITTE |da diversi nobilissimi Ingegni | all’Autore». T6v] «AGGIONTA D’ALCVNE | altre Lettere dell’istesso | Autore». X2v] «LETTERE AMOROSE | DELL’ISTESSO AVTORE |scritte a nome d’altri». Y7v] «[…] IL FINE» Y8r-v] bianca È stato possibile riscontrare varianti di stato. A causa dell’espunzione delle due lettere a Desiderio Scaglia e dell’inserimento di una seconda redazione della lettera a Giulio Lana Terzi (su cui si veda infra) sono state modificate le cc. I4r-v e I5r-v, K2r-v e Q4r-v: 1) Per colmare lo spazio lasciato dall’espunzione della prima lettera a Sca-glia, alla c. I4r è stato lasciato un ulteriore spazio bianco alla fine della lettera indirizzata a Francesco Pona, mentre la lettera a Claudio Rosa, pri-ma collocata alla fine della medesima carta, è stata spostata a c. I4v copren-do tutta la superficie del foglio e terminando con un finalino; la lettera a Pietro Buarno è stata spostata da c. I4v a I5r e disposta anch’essa con un finalino. 2) Alla c. K2r-v è stata sostituita la lettera a Giovan Battista (o Giambattista) Gambara con la redazione censurata della lettera a Giulio Lana Terzi; la redazione integrale indirizzata a quest’ultimo compariva e permane a c. D5r-v, risultando dunque la lettera doppia nello stato B; nell’indice dei

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destinatari di entrambi gli stati sono indicate la lettera a Gambara (p. 147) e la redazione non censurata della lettera a Lana Terzi (p. 57).14 3) Per colmare lo spazio lasciato dall’espunzione della seconda lettera a Scaglia, alla c. Q4r-v sono state apportate le seguenti modifiche: la lettera a Giacomo Pagliardo posta a c. Q4r è stata impaginata con un finalino, la-sciando spazio bianco alla fine della pagina; la lettera a Girolamo Marti-nengo a c. Q4v è stata posta alla sommità del foglio e anche quest’ultima termina con un finalino lasciando maggior spazio bianco alla fine del fo-glio. Si segnala che nell’indice dei destinatari degli esemplari espurgati per-mangono ugualmente le due lettere espunte indirizzate a Desiderio Sca-glia.15 Variante A Esemplari conosciuti Biblioteca Civica Queriniana di Brescia 4a.L.VIII.21 e 9a.A.VII.8; Biblio-teca Trivulziana di Milano Triv.L.2093; Biblioteca Ambrosiana di Milano S.N.U.III.80 e N.A.14549; Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna LAN-DONI 0119; Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo SALA LOGGIA P-1-64. Variante B Esemplari conosciuti Biblioteca Civica Queriniana di Brescia 4a.A.VIII.22; Biblioteca Nazionale Centrale di Roma 6.28.G.53 (disponibile online in riproduzione digitale); Biblioteca Civica di Padova M.3416. Altri esemplari I cataloghi online segnalano i seguenti esemplari custoditi in biblioteche italiane ed estere e non direttamente da me esaminati: Biblioteca Marciana di Venezia; Biblioteca della Pia società Istituto don Nicola Mazza don An-tonio Spagnolo di Verona; British Library di Londra; University Library di Cambridge; Newberry Library di Chicago; Wurttembergische Landesbi-bliothek di Stoccarda; Bibliothèque Nationale de France di Parigi.

14. Nell’indice dei destinatari il nome di Giulio Lana Terzi compare come

Vescovo di Volturara. 15. Per un confronto delle missive si vedano le relative schede presenti su Ar-

chilet. 16. Si precisa che questo esemplare non è stato controllato direttamente, ma

la scheda del catalogo online (<https://catalogo.unipd.it/F?func=find-c&ccl _term=IDN=VEAE005400&local_base=SBP01>) della Biblioteca Civica di Pa-dova tra le note riporta: «legatura in pergamena. Sul dorso ms.: Lettere Rossi. Sul contropiatto ant. nota ms: «... lett[ere] furono tutte bruciate dal Card. De-siderio Scaglia, perché in elle egli si fa Bresciano».

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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La raccolta

Le Lettere17 di Rossi, edite da Bartolomeo Fontana nel 1621, si col-locano in una tradizione letteraria – iniziata con la pubblicazione del libro di lettere dell’Aretino18 – già consolidata lungo tutto il Cinquecento19, che trova il suo punto di svolta con Stefano Guazzo, nel 1590, con il suo innovativo epistolario ordinato per capi.20 Il modello di Guazzo fu destinato ad avere un grande successo du-rante il Seicento, basti sfogliare gli epistolari di Bernardino Mar-liani, Annibale Guasco, Angelo Grillo e Giovanni Francesco Pe-randa.21 Non tutti gli autori, comunque, aderirono a questa ten-

17. Lettere del sig. Ottavio Rossi. Raccolte da Bartolomeo Fontana. Con gli argomenti,

& nella tavola ridotte sotto a i loro capi, in Brescia, per Bartolomeo Fontana, 1621. 18. I contributi più importanti sulle lettere di Pietro Aretino si devono a Paolo

Procaccioli che ha curato l’edizione delle Lettere, Roma, Salerno Editrice, 1997-2004; sempre dello stesso autore Aretino e la primogenitura epistolare. Da dato di fatto a opinione, in Scrivere lettere nel Cinquecento. Corrispondenze in prosa e in versi, a cura di Laura Fortini, Giuseppe Izzi, Concetta Ranieri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. 1-16; Il tempo della lettera. Aretino e le sue date: vere o false, presenti, assenti, presunte, in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze lette-rarie di età moderna. Atti del Seminario Internazionale di Bergamo, a cura di Clizia Carminati, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016, pp. 29-44.

19. Fondamentali per lo studio degli epistolari cinque-secenteschi sono i testi di AMEDEO QUONDAM, Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1981; JEANNINE BASSO, Le genre épistolaire en langue italienne (1538-1662). Répertoire chronologique et analytique, 2 vol., Roma-Nancy, Bulzoni-Presses Universitaires de Nancy, 1990; MARIA LUISA DOGLIO, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000; LUIGI MATT, Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con particolare riferimento alle lettere di Giambattista Marino), Roma, Bonacci, 2005; LODOVICA BRAIDA, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e ‘buon volgare’, Roma-Bari, GLF-Laterza, 2009.

20. Lettere del Signor Stefano Guazzo Gentilhuomo di Casale di Monferrato: ordinate sotto i capi seguenti, in Vinegia, presso Barezzo Barezzi, 1590.

21. Lettere del cavaliere Bernardino Marliani mantovano, distinte sotto i capi […], in Venetia, presso la Compagnia Minima, 1601; Lettere del signor Annibale Guasco alessandrino ridotte sotto questi capi […], in Milano, appresso l’herede del q. Paci-fico Pontio, et Gio. Battista Piccaglia compagni, 1601. Il percorso editoriale delle Lettere di Angelo Grillo è piuttosto complesso, articolato in vari volumi,

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denza editoriale. Tra questi costituisce un campione rappresenta-tivo Cesare Rinaldi,22 che ordinò le sue lettere per data a ritroso, partendo da quelle più recenti fino ad arrivare a quelle più remote. Anche le Lettere di Rossi non seguono la tendenza editoriale domi-nante: la dispositio appare casuale, ispirata al criterio della varietas; le lettere, infatti, non sono raggruppate sotto capi. 23 Ciascuna lette-ra è però contrassegnata da un breve sommario apposto subito do-po il destinatario, e a facilitarne la consultazione è la tavola dei capi, grazie alla quale il lettore può scegliere di muoversi nel libro in base all’argomento. Nella tavola dei capi dell’epistolario rossiano si con-tano 356 lettere rubricate sotto 24 capi differenti.24 L’epistolario è

ristampe ed edizioni tra il 1602 e il 1616. La prima edizione suddivisa per capi compare nel 1608: Lettere del molto R. P. Abbate D. Angelo Grillo, in questa terza impressione con nuova raccolta di molt’altre, fatta dal Sig. Pietro Petracci nell’Academia de gli Sventati di Udine detto il Peregrino, Venezia, Bernardo Giunti, Gio. Battista Ciotti e Compagni, 1608. Lettere del signor Gio. Francesco Peranda, segretario fa-mosissimo della corte di Roma. Distinte sotto capi, & con gli argomenti a ciascuna lettera del sig. D. Gio. Francesco Fiorentini, in Venetia, appresso Barezzo Barezzi, 1623.

22. Nelle Lettere di Cesare Rinaldi il Neghittoso Academico Spensierato, all’illustris-simo, et reverendiss. sig. il signor cardinal d’Este, in Venetia, appresso Tomaso Ba-glioni, 1617, Rossi è destinatario di una lettera a p. 82. Su Rinaldi si veda il contributo di Federica Chiesa in questo stesso volume.

23. A breve tutte le lettere di Rossi saranno disponibili su Archilet. Altresì bisogna precisare che dall’analisi del libro è emerso che alcune lettere sono state riportate più di una volta, probabilmente per la trascuratezza dell’autore o per la fretta dello stampatore. Tra queste si segnala una lettera di Rossi inviata a Ettore Martinengo, che nella tavola dei capi è stata rubricata sotto le voci di «ringraziamento» e di «lode», una volta è posta a F1r-v (p. 81) e l’altra a c. O3r-v (p. 223-224); la lettera presenta trascurabili varianti nel testo. Ripetuta anche quella indirizzata a Publio Fontana, che compare a c. H3r-v (p. 117-118) e a c. O2r (p. 221), la prima riportata nella tavola dei capi sotto «scusa» e sotto «rag-guaglio», la seconda solo sotto il capo di «scusa», ma mutata in «lode» nel som-mario della lettera a c. O2r; entrambe le lettere sono presenti nell’indice dei destinatari. Con molta probabilità la lettera a Martinengo e la lettera a Fon-tana, rubricate sotto due distinti capi, volevano, nelle intenzioni di Rossi, of-frire due modelli diversi attraverso la medesima lettera. Diversa l’interpreta-zione della lettera doppia inviata a Giulio Lana Terzi, cfr. infra.

24. Questa la loro sequenza: offerta 7, consolazione 2, consiglio 3, ringrazia-mento 44, complimento 48, lode 22, auguri di buone feste 26, richiesta 12, congratulazione 10, discorso 19, raccomandazione 22, burle 12, querela 9, scusa 23, ragguaglio 38, condoglianza 12, familiare commissione 1, ricogni-zione d’obblighi 3, negozio 7, invito 4, affetti particolari 6, avvertimenti privati

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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così suddiviso: «Lettere dell’autore» (pp. 1-272); «Lettere dedicato-rie dell’istesso scritte in nome d’altri» (pp. 273-285);25 «Lettere scrit-te da diversi nobilissimi ingegni all’autore» (pp. 286-309);26 «Ag-gionta d’alcune altre lettere dell’istesso autore» (pp. 310-333); e in-fine «Lettere amorose dell’istesso autore scritte a nome d’altri» (pp. 334-360). Tutte le lettere sono prive di data e di indicazione del luogo di emissione; è stato invece conservato, quasi sempre, il luogo di arrivo. L’arco temporale delle lettere, così come ricostruibile da elementi interni, copre parte dell’ultimo Cinquecento e tutto il pri-mo ventennio del Seicento fino alla prima fase della Guerra in Val-tellina. I luoghi d’invio riconducono per la maggior parte a Roma – quelle databili nel periodo compreso tra il 1600 e il 1608 – e a Brescia; per una minima parte le lettere vengono spedite da Rivol-tella, da Benaco e da Venezia. I luoghi di destinazione sono diversi, per lo più in Italia settentrionale: troviamo città quali Brescia, Ve-nezia, Verona, Genova, Salò, Mantova, Trento, Treviso, Vicenza, Bologna, Milano, Torino, Bergamo, Reggio Emilia e Parma. Alcu-ne si spingono fino a Roma, Rieti e Napoli.

La censura e le lettere espunte

Scorrendo l’indice dei destinatari dell’epistolario rossiano si riscon-trano due missive indirizzate all’inquisitore e cardinale Desiderio Scaglia,27 ma non tutti gli esemplari le contengono. Zamboni nella

1, risposta a diversi particolari 10, invio di composizioni poetiche 24.

25. Rispettivamente a: Ranuccio Gambara, Bartolomeo Caldinelli, Alessan-dro Fachetti, Donato Mazzoli, Leonora Martinengo, Lattanzio Stella, Lionardo Mocenigo e Girolamo Diviaco a nome di Bartolomeo Fontana; ai canonici della cattedrale di Brescia e a Lodovico Gonzaga a nome di Francesco Turini; a Giulia Martinengo Cesaresca a nome di Antonio Bozzola; a Massimo Alche-rio a nome di Giovan Battista Bozzola.

26. Ricevute da: Angelo Grillo, Guido Casoni, Giovan Battista Leoni, Cesare Rinaldi, Ridolfo Campeggi, Pietro Buarno, Vincenzo Averoldo, Francesco Pona, Marcantonio Quirini, Lattanzio Stella, Baldassare Bonifacio, Lorenzo Pi-gnoria, Andrea Chiocco, Valeriano Castiglione, Francesco Olmo, Cristoforo Ferrari, Camillo Caldamosti e Giulio Cesare Stella.

27. Per un inquadramento generale circa la biografia del cardinale Scaglia ri-mando allo studio di FIORENZA RANGONI GAL, Fra’ Desiderio Scaglia cardinale di Cremona: un collezionista inquisitore nella Roma del Seicento, Gravedona, Nuova Ed. Delta, 2008; ANGELO TURCHINI, Il modello ideale dell’inquisitore: la Pratica

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Libraria riporta: «Aveva il nostro Ottavio Rossi stampato in Brescia […] le sue lettere e siccome in esse ve n’ha a car. 137 diretta al car-dinale Desiderio Scaglia, nella quale seco congratulandosi dell’o-nor conferitogli della sacra porpora fa conoscere, che quegli nato fosse in Brescia, egli, che si faceva chiamar cremonese per poter ascendere sotto l’ombra della Spagna colla ragione di suddito di lei, fece comperare col mezzo del Signor Andrea Martinengo28 tutti gli esemplari, che si trovavano presso al Fontana libraio e tutti li fece abbrucciare».29 La fonte da cui Zamboni trae l’episodio è il diario del cronista Giambattista Bianchi Ussoli il quale registra questo fat-to al 31 marzo 1626,30 cinque anni dopo la pubblicazione dell’epi-stolario e l’elezione al cardinalato di Scaglia stesso. Sia Bianchi sia Zamboni sia Peroni31 parlano di una lettera espunta a p. 137; Luigi

del cardinale D. S., in L’Inquisizione romana: metodologia delle fonti e storia istituzio-nale, a cura di Andrea Del Col e Giovanna Paolin, Trieste-Montereale, Valcel-lina, 2000, pp. 187-198; PAOLO GUERRINI, Desiderio Scaglia e Andrea Archetti i due cardinali bresciani che furono tra i ‘papabili’, in Figure della storia e della cronaca, VII, p. 815; utili per comprendere nella fattispecie i rapporti del cardinale cre-monese con Giovan Battista Marino sono CLIZIA CARMINATI, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008 e EAD., Vita e morte del Cavalier Marino, Bologna, i Libri di Emil, 2011.

28. Forse si tratta di Andrea Martinengo da Padernello (1578-1633) che nel 1596 partecipò al tentativo di conciliazione tra i diversi rami dei Martinengo, ma soprattutto fece parlare di sé, insieme al fratello Girolamo, per le prepo-tenze e violenze di cui fu protagonista, cfr. PAOLO GUERRINI, I conti di Marti-nengo. Studi e ricerche genealogiche, Brescia, Tipolitografia F.lli Geroldi, 1930, p. 281.

29. La libreria di S.E. il N.U. signor Leopardo Martinengo [...], Brescia, Pietro Ve-scovi, 1778, p. 30.

30. Nella nota si legge: «il fatto è raccontato da Giambattista Bianchi nel suo Diario ms. che esiste presso al Nob sig. Luigi Arici [oggi custodito presso la biblioteca Queriniana]. Dice dunque. Adì 31 marzo 1626. Verso la fine di que-sta Quadresima il sig. Andrea Martinengo manda dal Fontana libraro a pigliar tutti i libri delle lettere del sig. Ottavio Rossi, e li fa abbruggiare d’ordine del nostro Cardinale Scaglia, perché in esse ve n’è una scrittagli da esso, dalla quale si può comprendere, che detto Cardinale è Bresciano»: ibidem.

31. A tal proposito Peroni nella Biblioteca Bresciana riporta: «Qui è d’uopo avvertire che di queste lettere sono da pregiarsi quei pochi e rari esemplari nei quali a car. 137 trovasi la lettera al cardinale Desiderio Scaglia. Comparendo in essa bresciano il detto cardinale e amando egli invece farsi chiamar Cremo-nese per poter ascendere sotto l’ombra di Spagna colla ragione di suddito di lei, fece comperare col mezzo di Andrea Martinengo tutti gli esemplari che si

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Francesco Fè d’Ostiani scrive di una lettera espunta a p. 57: si tratta con certezza di un errore.32 In realtà – come già anticipato – le lette-re espunte inviate a Scaglia sono due, un’altra si trova alle pp. 257-258. Per un’analisi delle due missive è bene riportarle integral-mente:

Al Sig. Cardinale Scaglia, a Roma

Di congratulatione

Io non son inferiore ad alcuno di quelli che sentono sincera e affettuosis-sima allegranza dell’elettione di Vostra Signoria Illustrissima al cardinala-to. Non devo perciò né anco essere l’ultimo a congratularmene, ma non con quella prontezza, ch’è anima di servitù non infinita, passare humilissi-mamente (come faccio) questo ufficio con lei. Nostro Signore ha accoppia-to con la perpetuità del valore delle virtù e de’ meriti di Vostra Signoria Illustrissima l’immortalità di questa ottima dispositione per far una ammi-rabile investitura d’oro a questa nostra età di ferro. Professo di aspettare in queste sue ben augurate grandezze una longa serie di successive massime grandezze, che saranno ornamento di tutto ’l mondo, e lumi ancora della mia Historia.33 Dio la conservi conforme a i voti communi di questa Patria, che trovandosi supremamente honorata da lei spera di poter farnele i com-plimenti, con le publiche e private acclamationi. E a me toccarà l’impresa di questo trionfo.34 Sì che potrò (primo d’ogn’altro) goder con eccellente

trovavano presso al Fontana libraio e tutti li fece abbrucciare. Altro volume di lettere è rimasto inedito e si crede smarrito», cfr. VINCENZO PERONI, Biblioteca Bresciana opera postuma, vol. III, Brescia, Nicolò Bettoni, 1818, p. 167.

32. Fè d’Ostiani scrive: «E quando il nostro storico Ottavio Rossi pubblicò le proprie lettere, fra le quale ve n’è una a p. 57 diretta al Cardinale, ove lo si dice nativo assolutamente di Brescia, il Conte Andrea Martinengo fu dallo Scaglia incaricato di comperare dal libraio Fontana tutti gli esemplari che poteva avere e di togliere da quel libro la p. 57 da bruciarsi, come il conte fece rimettendo in giro quelle lettere senza la voluta pagina. Alcuni esemplari però che erano già usciti dalla libreria del Fontana, sfuggirono al rogo di quella pagina. Avviso ai bibliofili». Cfr. LUIGI FÈ D’OSTIANI, Storia tradizione e arte nelle vie di Brescia, Brescia, Immacolata, 1927, pp. 297.

33. Probabilmente, Rossi avrebbe raccontato l’evento nelle Historie Bresciane; o avrebbe anche scritto un’opera encomiastica in proposito; o magari, essendo lo storico ufficiale della città di Brescia, avrebbe inserito tale avvenimento negli Annali di Brescia, che ci restano incompiuti, conservati nella Biblioteca Civica Queriniana di Brescia con il titolo Annali di Brescia dall’anno 1030 al 1532, ms. C.I.3.

34. Allude ai preparativi della festa cittadina che Brescia preparava per cele-

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maniera una gran parte della felicità di Vostra Signoria Illustrissima, alla quale faccio profondissima riverenza.

Al Sig. Cardinale Scalia [sic], a Roma Di ringratiamento

Dalla cortese lettera di Vostra Signoria Illustrissima scritta tutta di suo pu-gno, e da un’altra del Sig. Pietro Buarno ho compitamente inteso la sua generosa dimostratione d’affetto verso de’ miei pensieri. Non bado a rin-gratiarla, per non parere ch’io voglia con parole infruttuose ricever i frutti della sua gratia. L’animo mio conosce le gratie che si convengono a un tan-to merito; ma essendo ugualmente impotente l’espressione, e l’opera della mia servitù, mi conviene riverirle col silentio, e adorarle con la volontà. Se venerò a Roma conoscerà Vostra Signoria Illustrissima quanto ha sempre conosciuto della mia fede, e conoscerà il mondo ch’io non ambisco alle sue fortune se non il giusto, e modestamente il giusto. Sarò intanto teatro di me medesimo, e sarà mio chiuso splendore la confidanza ch’io tengo nella persona di Vostra Signoria Illustrissima alla quale augurando buon viaggio per la sua chiesa di Melfi,35 le bacio humilissimamente la mano.

La prima missiva è databile al gennaio del 1621, in quanto l’11 dello stesso mese Scaglia veniva nominato cardinale da Paolo V e incluso nella Congregazione del Sant’Uffizio. Nonostante Rossi non parli esplicitamente di Scaglia come di un cardinale bresciano, i riferimenti che riconducono alla ‘brescianità’ dell’interessato so-no molteplici. Rossi promette che avrebbe inserito questo avveni-mento nelle Historie Bresciane, oppure registrato l’evento negli An-nali di Brescia una volta compiuti; si fa riferimento alla patria del cardinale («Dio la conservi conforme a i voti communi di questa Patria [Brescia]»); vi è altresì cenno alla festa cittadina organizzata a Brescia per celebrare la porpora cardinalizia, festeggiamento che è testimoniato dal Diario di Bianchi.36

brare la nomina cardinalizia; Rossi molto probabilmente contribuì all’organiz-zazione.

35. Il 17 marzo 1621 Scaglia venne nominato vescovo di Melfi e Rapolla. L’anno successivo, anche con l’obiettivo di sorvegliare la Valtellina, fu traslato alla diocesi di Como, lasciando la diocesi di Melfi a Lazzaro Caffarino. Nel 1625 rinunciò alla diocesi di Como e venne sostituito, anche in questo caso, da Caffarino, mentre la diocesi di Melfi veniva affidata al nipote Deodato Sca-glia: cfr. VINCENZO LAVENIA, Scaglia, Desiderio, in DBI, XCI, 2018, pp. 208–212.

36. Bianchi registra: «11 gennaio 1621. Dalla santità di Papa Paolo V viene

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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La seconda lettera espunta venne scritta da Rossi qualche mese più tardi, nel marzo dello stesso anno, contestualmente alla nomi-na del cardinale cremonese a vescovo di Melfi e Rapolla. Con que-sta missiva, apparentemente innocente, lo storico bresciano ringra-zia il cardinale cremonese per la lettera che gli ha inviato in prece-denza, sopraggiunta insieme a un’altra di un amico comune, Pietro Buarno. Tornando alla figura di Desiderio Scaglia, possiamo intui-re che, sebbene battezzato a Brescia nella chiesa di S. Clemente il 28 settembre 1563 e nato da genitori di umilissime origini cremo-nesi, non volesse essere definito come cittadino bresciano: preferiva essere presentato come «cardinale cremonese». Per Scaglia la que-stione della cittadinanza era un affare molto importante: Cremona lo aveva onorato concedendogli la cittadinanza nel febbraio del 1617, per omaggiarlo in quanto aveva consacrato gran parte della sua vita e della sua carriera alla città stessa, presso la quale aveva ottenuto la carica di commissario generale dell’Inquisizione. Inol-tre proprio nel 1621 il cardinale, per poter ricevere una somma cospicua di danari, mille ducatoni,37 dovette comprovare la sua cit-tadinanza cremonese. Per Scaglia il fatto di essere nato a Brescia non implicava necessariamente la cittadinanza bresciana di diritto; pertanto, con l’appellativo di «cardinale di Cremona» rendeva gra-zie a quella città che gli aveva dato una patria certa, prendendo così le distanze da Venezia e di conseguenza anche da Brescia in quanto suddita di quest’ultima.38 Motivazione legittima appare negare la patria veneziana per chi aveva fondato i propri successi nei territori spagnoli e filospagnoli. Possiamo dunque affermare che le ragioni della censura sono di natura politica: Scaglia seguiva le parti della Spagna, alla quale era soggetto il ducato di Milano che compren-deva anche Cremona; la Repubblica Veneta invece conservava una certa autonomia politica e culturale, rimanendo così indipendente dalla Spagna e da Roma.

creato cardinale […] Desiderio Scaglia, nato in Brescia nella contrada di S. Paolo detta il Paradiso, rimpetto a detta chiesa figliolo di Messere Scaglia Bar-biere e di Madonna Maria di professione pubblica allevatrice. […] Venuto qui in Brescia dopo puochi giorni la nuova si fanno pubbliche allegranze»: ms. Queriniano, Dirosa 68, c. 248v.

37. Cfr. RANGONI GAL, Fra Desiderio Scaglia Cardinale Cremonese, p. 63. 38. Ibidem.

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Un elemento sul quale va posta l’attenzione è la data dell’espun-zione delle lettere dagli esemplari, censurati secondo le fonti a di-stanza di cinque anni dalla pubblicazione del libro: questo potrebbe spiegare perché sia sopravvissuto un cospicuo numero di esemplari non censurati. Per chiarire ulteriormente questa situazione bisogna analizzare le vicende politiche e religiose di quell’anno, o meglio di quell’ultimo periodo, in Italia e in Europa. Scaglia aveva posto fine al suo vescovato comasco il 7 gennaio 1626; fin dall’inizio dell’in-carico il papa, all’epoca Gregorio XV, gli aveva affidato il compito di salvaguardare gli interessi politici e religiosi della Chiesa relativa-mente alla questione della Valtellina,39 territorio che aveva aderito alla riforma zwingliana. La Valtellina era una zona strategicamente importante – poiché rappresentava la più breve via di collegamento tra il Tirolo e lo Stato di Milano, soggetti al dominio spagnolo – e geograficamente contigua al territorio della Repubblica Veneta. La Spagna e la Serenissima non erano le sole a essere interessate alla Valtellina: al di là delle Alpi la Francia non se ne stava di certo ferma a guardare quella zona che costituiva un varco verso l’Italia. Questa situazione tumultuosa ebbe fine con la pace di Monzón: ma le tensioni permasero, e non è un caso che l’espunzione delle lettere coincida con la stipulazione di tale pace, siglata tra Francia e Spagna (atto che appunto poneva, pur provvisoriamente, termine alle osti-lità in Valtellina). Dunque, per il cardinale cremonese, che seguiva le parti della Spagna, era ancora una volta comprensibile voler eclis-sare la sua cittadinanza e far espungere le due lettere dal libro di Rossi: egli doveva adoperarsi per tenere lontano qualunque so-spetto dalla Spagna.

Le missive a Scaglia non sono le uniche espunte dal libro. A c. K2r-v è stata espunta, forse erroneamente, una lettera a Giovan Bat-tista Gambara, sostituita con la lettera a Giulio Lana Terzi, che di

39. Nota come Guerra di Valtellina, fu un conflitto combattuto tra il 1620 e

il 1626 nel contesto della guerra dei Trent’anni, che coinvolse la Spagna di Filippo IV e la lega costituita da Venezia, Carlo Emanuele I di Savoia e la Fran-cia di Luigi XIII. A scatenare la guerra furono i contrasti in Valtellina tra catto-lici e protestanti, questi ultimi favoriti dai Grigioni, che avevano autorità sull’area, vd. CESARE CANTÙ, Il sacro macello di Valtellina, Episodio della riforma religiosa in Italia, Milano, Sonzogno, 1885, pp. 70-87; AGOSTINO BORROMEO, La Valtellina crocevia dell’Europa: politica e religione nell’età della guerra dei trent’anni, Milano, Mondadori, 1998.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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conseguenza compare due volte, sia a c. D5r-v (p. 57-58) sia a c. K2r-v (p. 147-148); in quest’ultima occorrenza il testo presenta omissio-ni e varianti; nella tavola dei capi compare solo la lettera a c. D5r-v sotto la voce «congratulatione». Rossi, con questa lettera databile al 1606, si congratula con Giulio Lana Terzi per la sua nomina a ve-scovo di Volturara. Di seguito un prospetto delle varianti più signi-ficative tra le due versioni della lettera:

A Monsig. Giulio Lana Vescovo di Volturara40

A Roma Di congratulatione

[1] Considerati i molti meriti di Vostra Signoria Reverendissima ella non solo era degna del Vescovato, ma della porpora: perché di bontà e di dot-trina essemplare e innocente può rendersi uguale a’ miglior soggetti della corte. [2] Sarà perciò questa nova dignità principio di meritata grandezza, e non meta o termine prefisso alle sue molte virtù generose, e veramente cristiane. [3] Io perciò mi rallegro con lei in questa occasione con parole brevissime; le quali tuttavia spero che saranno il proemio d’officio ch’havrà da far seco per causa principalissima e riguardevole. Faccia Iddio veri i miei sinceri auspicii, e la mantenga felicissima com’io disidero. [4] Et le faccio divotissima riverenza.41 [1] Considerati i molti meriti di Vostra Signoria Reverendissima ] Considerati i molti meriti di Vostra Signoria Illustrissima a c. K2r. [1] ma della porpora: perché ] ma della … almeno: perché a c. K2r. [1] può ] è per a c. K2r. [2] nova ] nuova a c. K2v. [2] alle sue molte virtù generose ] a suoi molti meriti incolpabili a c. K2v. [3] proemio d’officio ] proemio d’officio maggiore a c. K2v. [3] ch’havrà ] che haverò a c. K2v. [4] Et le faccio divotissima riverenza ] Et le faccio riverenza a c. K2v.

In apparato si sono segnalate le varianti più significative, trala-sciando le variazioni dei segni di punteggiatura. Le varianti più evi-denti si riscontrano al par. [1]: nella lettera a c. K2r è venuto meno il trattamento di Reverendissimo e la parola porpora è stata omessa con i puntini di sospensione: probabilmente per motivi di censura era inopportuno decretare una ‘candidatura’ al cardinalato, la cui

40. Volturara Appula, piccolo comune in provincia di Foggia; la diocesi fu

soppressa nel XIX sec. 41. ROSSI, Lettere, p. 57.

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nomina compete al papa. La prima variante al par. [3] pare sulla stessa linea. Quanto a Giulio Lana Terzi, le fonti circa la sua bio-grafia sono avare, sappiamo che nacque a Brescia nel 1561 e che probabilmente vi morì nel 1607; fu nominato arciprete della catte-drale e vicario episcopale nel 1606, ma durante l’interdetto del 1606 dovette fuggire prima a Mantova e a seguire a Roma dove fu eletto, da papa Paolo V, vescovo di Volturara. L’anno dopo morì;42 la sua morte è altresì testimoniata da una lettera inviata da Rossi a Grisostomo Talenti.43

Come anticipato, il doppione emerge solo negli esemplari dello stato B; negli esemplari dello stato A, nella medesima carta (K2r-v), compare invece la lettera a Giovan Battista Gambara che riporto integralmente:

Al Signor Conte Giovan Battista Gambara

A Venetia Di ringratiamento

Ringratio Vostra Signoria Illustrissima de’ favori ricevuti; e le tengo tant’obligo quant’è il desiderio col quale ho sempre incontrato le occasioni di ricevere le sue gratie. Continuo la mia Historia; ma non so però quando sarà ridotta a quella perfettione ch’io le procuro senza riguardo di alcuna fatica immaginabile. Chi scrive in questi tempi bisogna che stia molto ben avertito di non rompersi negli scogli degli interessi politici. Come sarà compita l’opera, ne manderò subito una dopo a Vostra Signoria Illustris-sima, assicurandomi che ne sarà generosissimo protettore. Et le bacio rive-rentemente la mano.44

Non sono chiari i motivi dell’espunzione di quest’ultima mis-

siva: forse è stata sostituita perché vi è un accenno politico; o forse l’intervento censorio è stato apportato alla carta sbagliata. Si se-gnala che nell’indice dei destinatari di entrambi gli stati permane la segnalazione della lettera a Gambara (p. 147). Su Giovan Battista (o Giambattista) Gambara, anche in questo caso, le informazioni

42. PAOLO GUERRINI, Cronotassi biobibliografica dei Cardinali, Arcivescovi, Ve-

scovi e Abbati regolari di origine bresciana dal secolo IX al tempo presente, «Memorie storiche della diocesi di Brescia», XXV, 1958, p. 33.

43. ROSSI, Lettere, p. 127. 44. Ivi, pp. 147-148.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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pervenuteci sono scarse: sappiamo che fu mecenate, uomo di let-tere, confidente della Repubblica Veneta e del marchese di Bedmar alias Alfonso de la Cueva-Benavides y Mendoza-Carrillo; morì nel 1629.45 Altresì è uno dei dedicatari, insieme a Girolamo Marti-nengo, degli Elogi.

Corrispondenti e temi delle lettere

Uno degli aspetti di maggiore interesse delle lettere di Rossi è senza dubbio la levatura dei corrispondenti; esse infatti testimoniano le relazioni dell’autore con personaggi illustri per un totale di 157 de-stinatari. Tra i corrispondenti più importanti si annoverano lettera-ti: Angelo Grillo, Cesare Rinaldi, Ridolfo Campeggi, Traiano Boc-calini, Baldassare Bonifacio, Valeriano Castiglione, Antonio Beffa Negrini, Guido Casoni, Marcantonio Quirini, Pietro Petracci, Et-tore Martinengo, Francesco Pona, il benedettino di origine belga – scrittore del Lignum vitae – Arnold Wion e Pietro Buarno; eruditi e collezionisti come Lorenzo Pignoria e Desiderio Scaglia; pittori co-me Pietro Marone e Jacopo Palma il Giovane; e podestà della Se-renissima tra i quali Vincenzo Dandolo, Agostino Da Mula e Gio-vanni Da Lezze.

Non tutti i personaggi con i quali l’autore ebbe degli scambi e-pistolari sono però ricavabili dall’indice: le lettere rivelano altri no-mi con i quali Rossi tenne probabilmente delle corrispondenze. Tra questi si ricorda Marcus Welser,46 una delle massime figure dell’epi-grafia europea del XVII secolo, noto anche per una corrispondenza epistolare con Galileo Galilei circa le macchie solari. Il nome del-l’erudito tedesco figura in una lettera indirizzata a padre Arnold Wion, il quale viene sollecitato a scrivere una lettera di raccoman-dazione a Welser per Rossi.47 Altre personalità di spicco con le quali è possibile congetturare degli scambi epistolari sono i celebri pittori

45. FAPPANI, Enciclopedia Bresciana, vol. V, p. 75. 46. Di origini germaniche, discendente da una ricca famiglia di antica nobiltà

tedesca di Augusta. A Mark Welser (1558-1614) si devono l’edizione delle In-scriptiones antiquae Augustae Vindelicorum, Venezia, Aldo Manuzio e Jan Gruytere, 1590; e il monumentale corpus epigrafico dedicato alle Inscriptiones antiquae totius orbis Romani, Heidelberg, Ex officina Commeliniana, 1602-1603; per la biografia dell’erudito tedesco si veda ROBERTA FERRO, La Vita di Marcus Welser Linceo, «L’Ellisse», XI, 2016, pp. 119-134, con bibliografia precedente.

47. Cfr. ROSSI, Lettere, pp. 96-97.

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Pier Maria Bagnadore e Francesco Giugno, nonché l’architetto mi-lanese Lorenzo Binago conosciuto anche con il cognome di Biffi.

Se si confronta l’errata corrige a c. *8v si può notare come all’in-terno dell’epistolario alcuni nomi siano stati mutati. Il caso più sin-golare è rappresentato dal cambiamento del nome del destinatario di una lettera indirizzata in prima battuta a Girolamo Cornaro, poi sostituito con Girolamo Priuli. Altri nomi mutati, presenti nell’er-rata corrige, possono essere considerati comuni errori di stampa; ad esempio il nome Pietro è stato sostituito con il cognome Pona, ma leggendo la missiva di p. 55 si capisce che effettivamente ci si riferisce al poeta veronese Francesco Pona. Questo può essere visto come un ulteriore indice di incuria da parte dell’autore: anche nel-lo stato B i nomi sono rimasti invariati.

Nella grande varietà dell’epistolario alcune lettere ci offrono in-formazioni sulle vicende personali e biografiche dell’autore, come quelle riguardanti la questione che lo vide coinvolto nelle lotte tra le famiglie Avogadro e Martinengo. Sempre legate a tale vicenda so-no le lettere con le quali Rossi chiede un’intercessione ai veneziani Girolamo Priuli, Leonardo Mocenigo e Girolamo Cornaro.48 Cin-que lettere fanno trasparire la sua afflizione per la morte del padre Giacomo Rossi.49 Due lettere descrivono il suo matrimonio con Vit-toria Monselice.50 Altre ci forniscono, invece, utili testimonianze circa gli apparati iconografici di preziosi palazzi della Serenissima che gli furono commissionati dai podestà. Ulteriori lettere testimo-niano le opere incompiute o perdute di Rossi, mentre altre ci infor-mano delle complesse vicende editoriali di alcuni autori a lui con-temporanei. Un ultimo filone interessante è quello relativo all’eru-dizione, attraverso la quale Rossi offre le sue interpretazioni su mar-mi, medaglie e statue. Quanto allo scambio di componimenti e di pareri con poeti e amici, si può affermare che tale abitudine era u-suale per lo storico bresciano; a un numero esiguo di missive sono acclusi dei componimenti, per lo più sonetti, ma non mancano epi-grafi e canzoni. È utile soffermarsi più in dettaglio su alcuni di que-sti contenuti.

48. Si vedano le lettere di «ragguaglio» con le quali Rossi ringrazia i suddetti personaggi per la sua scarcerazione, ivi, pp. 230-232.

49. Si veda la silloge di lettere di «condoglienza», ivi, pp. 234-238. 50. Ivi, pp. 187-188.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Lettere e opere manoscritte di Rossi

È necessario ricordare che all’interno della vasta produzione di Rossi molte opere manoscritte sono andate perdute. Attraverso l’e-pistolario è possibile individuarne alcune: si tratta di opere apolo-getiche, biografiche ed encomiastiche. Una lettera51 di Rossi indi-rizzata ad Accursio Corsini52 testimonia un’opera dedicata a padre Celestino Colleoni da Bergamo.53 Lo storico bresciano con la sua lettera difende Colleoni, in quanto non aveva modo di irritarsi con-tro i bresciani e disse la verità quando narrò le vicende e le guerre della sua città.54 Nella lettera, Rossi sostiene che i bresciani e i ber-gamaschi sono quasi lo stesso popolo in quanto collegati da paren-tele che si sono create a causa delle migrazioni di famiglie – da Ber-gamo a Brescia e viceversa – da più di settecento anni, tesi sostenuta anche nelle Historie Bresciane. Inoltre Rossi elogia ulteriormente Colleoni dicendo che le sue storie furono scritte con un’eloquenza che può essere messa sullo stesso piano di quella dei grandi storio-grafi: dal greco Tucidide ai romani Tito Livio, Quinto Curzio, Sal-lustio Crispo, Cornelio Tacito, al rinascimentale Francesco Guic-ciardini, ai contemporanei Pierre Matthieu e Gerolamo De Franchi Conestagio. Dopo aver encomiato lo scrittore bergamasco, Rossi ci-ta il titolo della sua opera: l’Apologia sopra la storia Patria di padre Celestino da Bergamo; ma del manoscritto si sono perse le tracce.55

51. Ivi, p. 10. 52. Autore bergamasco, la cui opera più nota è Apologetico della caccia. [...] rac-

colto per l’eccellentissimo dottor di leggi Accursio Corsini gentilhuomo di Bergamo, in Bergamo, per Valerio Ventura, 1626.

53. Celestino Colleoni nacque probabilmente a Bergamo nel 1568; dedicò la sua vita agli studi di storia bergamasca, per i quali rimane ancor oggi un impor-tante punto di riferimento, cfr. MARCO PALMA, Colleoni, Celestino, in DBI, XXIII, 1979, pp. 415-416.

54. La rivalità tra Brescia e Bergamo è molto più antica, storicamente può essere fatta risalire a una serie di scontri che si dipanarono lungo tutto il XII secolo.

55. Cfr. FAPPANI, Enciclopedia Bresciana, vol. XV, p. 293. Preciso che Monsi-gnor Fappani riporta il seguente titolo: Apologia contra la storia Patria di padre Celestino da Bergamo; probabilmente si tratta di un errore perché dalla lettura del carteggio si desume che sia un’apologia e non un’accusa fatta allo storico bergamasco; inoltre Fappani scrive: «in questa apologia l’autore prevedeva a difendere la storia di Elia Capriolo in diversi particolari».

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Una lettera56 di Rossi inviata a Giovanni Bellintani57, databile al 1611, allude a un’agiografia citata altresì da Girolamo Ghilini nel suo Teatro di Uomini illustri.58 Nella lettera, Rossi cerca di dare indicazioni su come elaborare il ritratto di padre Mattia Bellintani da Salò,59 al secolo Paolo Bellintani, morto a Brescia nel 1611. I tre simboli citati nella lettera, «Contemplatione, Operatione e Predica-tione», alludono alla biografia che Rossi aveva preparato per com-memorare il cappuccino, intitolata Vita di Fra Matthia Bellintano Capuccino, suddivisa in tre libri, ciascuno dei quali avrebbe portato il titolo delle sopracitate virtù, ma anche in questo caso il mano-scritto non ci è pervenuto.

In più di una lettera60 Rossi fa riferimento a un panegirico sulla città di Verona: lo fa in una inviata ad Andrea Chiocco61 e in un’al-tra che descrive «le eccellenze» di quella città ad Alamanno Gam-bara. Sappiamo inoltre della richiesta da parte dello storico brescia-no di alcuni libri sulla storia di Verona ad Andrea Chiocco, al quale in una lettera chiede l’invio delle Storie di Girolamo Corte;62 molto probabilmente avrebbe utilizzato quest’opera per prendere spunti e informazioni. Inoltre, Verona viene ulteriormente encomiata in una lettera inviata a Battista Lana Terzi.63

56. ROSSI, Lettere, pp. 139-140. 57. Di Giovanni Bellintani non si conoscono i dati anagrafici; è noto princi-

palmente come divulgatore dell’operato dei fratelli. Egli si preoccupò inoltre di raccogliere e pubblicare le opere di Mattia.

58. Vd. GHILINI, Teatro d’huomini letterati, p. 349. 59. Su cui ROBERTO CUVATO, Mattia Bellintani da Salò (1534-1611). Un cap-

puccino tra il pulpito e la strada, Roma, Edizioni Collegio S. Lorenzo da Brindisi, 1999.

60. ROSSI, Lettere, pp. 314-324 e 217-218. 61. Chiocco nacque a Verona nel 1562, fu medico e filosofo; nel 1588 entrò

nell’Accademia dei Filarmonici con l’incarico di commentare pubblicamente il Convito di Platone e l’Etica e le Meteore di Aristotele; Rossi lo visitò spesso con le sue lettere, cfr. CARLO COLOMBERO, Chiocco, Andrea, in DBI, XXV, 1981, pp. 11-12.

62. Historia di Verona del sig. Girolamo Dalla Corte gentilhuomo Veronese, Divisa in due parti, Et in XXII Libri, In Verona, nella stamparia di Girolamo Discepolo, 1592-1594; l’opera fu più volte ristampata e ampliata.

63. ROSSI, Lettere, pp. 217-218.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Un’ultima lettera64 (inviata da Rossi a Francesco Scaino) ci per-mette di chiarire le posizioni dello storico di fronte alla Poetica65 di Castelvetro. Dalle lettere sappiamo che Rossi stava preparando un’opera intitolata Apologia contro il comentario di Lodovico Castelve-tro della poetica d’Aristotele, segnalata da Fappani senza indicare il luogo in cui è conservato il manoscritto.66 Nelle lettere in questio-ne, dopo aver esaudito le richieste di Scaini, il quale gli aveva ri-chiesto dei libri compresa la Poetica, Rossi, scusandosi per non po-tergli mandare quest’ultima, specifica chiaramente le sue posizioni contro il massimo rappresentante dell’aristotelismo letterario cin-quecentesco, invitando il suo interlocutore a non leggere l’opera. Andrea Chiocco in una missiva contenuta nella sezione delle let-tere scritte all’autore, fa presente che negli Elogi manca il ritratto di Vincenzo Maggi67 e altresì mostra la sua curiosità per l’opera che Rossi stava preparando contro il filologo modenese:

Perché le fatiche del clarissimo Maggio sono depresse per le cose de’ suoi descendenti? Certo Vostra Signoria molto Illustre doverebbe somma auto-rità havere di porle alla Luce, perché fu gran Peripatetico. E quanto vederei volontieri le fatiche contra il Castelvetro…68

Maggi non è citato a caso nella missiva, poiché continuò l’opera iniziata da Bartolomeo Lombardi sulla Poetica di Aristotele, nel 1541, e la fece pubblicare con un’altra sua opera dedicata ad Ora-zio, In Aristotelis librum de Poetica communes explanationes: Madii vero in eundem librum propriae annotationes (Venezia, Valgrisi, 1550), de-dicata a Cristoforo Madruzzo. Sull’opera di Rossi citata da Chiocco

64. Ivi, p. 2. 65. Poetica d’Aristotele vulgarizzata, et sposta per Lodovico Castelvetro, in Vienna

d’Austria, per Gaspar Stainhofer, 1570; l’opera fu ristampata a Basilea nel 1576 e a Napoli nel 1616; si veda ALBERTO RONCACCIA, Il metodo critico di Ludovico Castelvetro, Roma, Bulzoni, 2006.

66. Vd. FAPPANI, Enciclopedia bresciana, vol. XV, p. 293. 67. Vincenzo Maggi (1498-1564), filosofo e umanista di origini pompianesi,

insieme a Lombardi aderì all’Accademia degli Infiammati negli anni più vivaci del dibattito sulle lingue latina e volgare; per una prima informazione rimando a ELISABETTA SELMI, Maggi, Vincenzo, in DBI, LXVII, 2006, pp. 365-369; EN-

RICO BISANTI, Vincenzo Maggi, interprete tridentino della Poetica di Aristotele, Bre-scia, Geroldi, 1991.

68. ROSSI, Lettere, p. 299. I puntini di sospensione indicano un’aposiopesi.

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non abbiamo informazioni ulteriori, ma possiamo capire quali fos-sero le sue idee su Castelvetro: «sindico molto austero, e poco altro da lui s’impara fuori che l’impossibilità del perfetto compositore».

Lettere e opere manoscritte dei corrispondenti

Un altro gruppo di lettere ci permette di acquisire notizie e preziosi dettagli sulle opere manoscritte di altri autori che Rossi visitò con le sue lettere. Una missiva69 ci offre informazioni circa un’opera en-comiastica di Antonio Beffa Negrini. Nella lettera, databile alla fi-ne del Cinquecento, Rossi ringrazia Negrini per avergli inviato il «Leon d’Argento della nostra famiglia». L’opera in questione del poeta asolano, rimasta inedita, scritta per elogiare Rossi e la sua fa-miglia, è il Discorso sopra il Leon D’Argento, insegna della famiglia di Ottavio Rossi;70 l’opera è altresì citata da Peroni nella Biblioteca Bre-sciana.71

Altra testimonianza di un’opera che non vide mai la luce e che ebbe una complessa vicenda redazionale è data da un brevissimo carteggio72 tra Rossi e Marcantonio Quirini. Quest’ultimo aveva scritto una lettera allo storico per informarlo della sua Galeria d’Ho-nore, su cui le fonti non sono per nulla generose e non abbiamo in-formazioni ulteriori. Secondo Emmanuele Antonio Cicogna la sud-detta opera non venne mai stampata;73 tuttavia, è citata come pron-ta da quattro anni nella dedicatoria a papa Urbano VIII nel Manua-le de’ Grandi dello stesso Quirini, pubblicato da Giacomo Sarzina a Venezia nel 1627; è inoltre menzionata come pronta in una lettera di Quirini a Traiano Boccalini.74

69. Ivi, p. 51. 70. Si segnala inoltre che alle pagine 109-110 del Castiglione, overo dell’arme di

nobiltà. Dialogo del Signor Pietro Gritio da Iesi [...] nuovamente posto in luce da Anto-nio Beffa Negrini, Mantova, Francesco Osanna, 1586-1587, viene descritta l’arma della Casa Rossa, o Roscia, come una delle cento famiglie illustrissime d’Italia. Il testo ebbe una successiva edizione, con diverso titolo, nel 1606.

71. Cfr. PERONI, Biblioteca Bresciana opera postuma, vol. I, p. 106. 72. Vd. ROSSI, Lettere, pp. 6-7, 93 e 292-293. 73. EMMANUELE ANTONIO CICOGNA, Delle inscrizioni veneziane raccolte ed illu-

strate da Emmanuele Antonio Cicogna, vol. V, Venezia, presso Giuseppe Molinari, 1842, p. 81.

74. Cfr. Traiano Boccalini, a cura di Guido Baldassarri, Roma, Istituto Poligra-fico e Zecca dello Stato, 2006, p. 839.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Una lettera a Ettore Martinengo75 testimonia le posizioni prese dallo storico nei confronti di questo suo concittadino, autore del-l’idillio poetico Adone76 – lodato da Rossi con un madrigale,77 com-ponimento che gli venne usurpato e diffuso sotto altro nome –, di vari sonetti d’occasione e del poema La Vicenziade del quale venne proibita la stampa per ordine dell’Inquisizione.78 Dalle lettere ap-prendiamo che Rossi fece da mediatore tra il poeta e l’inquisitore, Francesco Petrasanta da Rivalta,79 ma senza alcun esito: La Vicen-ziade non avrebbe mai visto la luce. Il suo autore avrebbe trovato la morte pochi anni dopo per mano del fratello, nel gennaio 1617, a Castellaro di Ludriano.

Lettere e arti figurative

Nella grande varietà tematica dell’epistolario di Rossi, di grande in-teresse sono le missive che testimoniano le commissioni che gli fu-rono affidate durante la progettazione di alcuni tra i palazzi più im-portanti delle diverse città della Repubblica di San Marco. Rossi con sensibilità artistica delinea disegni, schizzi, e bozze, che ven-gono tutti descritti in maniera minuziosa e dettagliata. Fra le com-mittenze dirette conosciamo la Sala Pretoria di Verona, sita all’in-terno del Palazzo del Capitano, tra via Arche Scaligere e piazza dei Signori, che gli fu commissionata dal podestà Agostino Da Mula80 nel 1614. Sala rimodellata, ma lasciata priva di decorazioni nel 1574 dal podestà Nicolò Barbarigo, sappiamo che venne fatta de-corare nel 1614 appunto per volere di Agostino Da Mula quasi alla

75. Vd. ROSSI, Lettere, p. 241. 76. Adone, idillio di Ettore Martinengo, dedicato al clarissimo Signor Gio. Minotto,

in Venetia, per Giacomo Violati, 1614. 77. Notizia fornita da una lettera inviata da Rossi a Martinengo: ROSSI, Lettere,

pp. 132-133. 78. Cfr. ZAMBONI, La libreria, p. 69. 79. Francesco Petrasanta da Rivalta (1558 - 1625) è stato un inquisitore dome-

nicano vissuto a Brescia, vd. HERMAN SCHWEDT, Die Anfa nge der Ro mischen Inquisition. Kardina le und Konsultoren 1542 bis 1600, Freiburg, Herder, 2013, p. 201.

80. Nel 1613 Da Mula venne eletto podestà di Verona, una delle sedi più impegnative di tutta la Serenissima, posta in una zona strategica tra le due sponde del Mincio, all’imboccatura della valle che era una delle porte per chi volesse scendere in Italia. Cfr. GAETANO COZZI e LUISA COZZI, Da Mula, Ago-stino, in DBI, XXXII, 1986, pp. 376-381.

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fine del suo mandato podestarile. Pare che vi fossero problemi sulla scelta dei pittori, in quanto gli artisti veronesi a cui Da Mula si era rivolto avevano declinato l’incarico, probabilmente per ragioni di tempo: egli infatti desiderava vedere l’opera compiuta prima della sua partenza da Verona.81 Alla notizia di tale incarico Rossi scrive al podestà di Verona:

Io rendo Gratie infinite a Vostra Eccellenza Illustrissima dei meriti che mi conferisce raccommandandomi l’inventione delle pitture della sua sala. E sì come di questo favore isquisito io ne sento felicissima ambitione così l’animo mio, ch’è la più perfetta parte ch’io posso dedicarle di me stesso, le ne rimane obligatissimo. Procurarò la sodisfattion di Vostra Eccellenza con quella diligenza ch’io potrò maggiore, non mancando di suggerir al pennello del Gandino82 quelle cose che pareran convenienti al pensiero di lei e alla necessità e alla vaghezza della pittura.83

Antonio Gandino, seguendo il complesso programma icono-

grafico di Rossi, eseguì a olio diciotto dipinti incastonati nel soffitto a lacunari e affrescò le quadrature alle pareti con armi e figure alle-goriche;84 la sala fu ulteriormente modificata nel corso degli anni e i disegni originari del Gandino furono ritoccati.

Da Mula aveva inoltre incaricato il letterato Francesco Pola di spiegare il ciclo pittorico in un libretto dalla struttura dialogica: Lo Stolone.85 Tutte le virtù decorate all’interno della sala rappresenta-vano le qualità che ogni podestà della Repubblica doveva incarna-

81. Ibidem. 82. Su Antonio Gandino (1560-1631), artista attivo prevalentemente a Brescia

e a Bergamo, STEFANO FENAROLI, Dizionario degli artisti bresciani, Brescia, Ma-laguzzi, 1877, pp. 152; BRUNO PASSAMANI, Antonio Gandino, in Pittura del Cin-quecento a Brescia, a cura di Mina Gregori et al., Milano, Cariplo, 1986, p. 215.

83. ROSSI, Lettere, p. 149. 84. Si veda ENRICO MARIA GUZZO, La decorazione della sala pretoria: un’impresa

per il bresciano Antonio Gandino e due lettere di Ottavio Rossi, «Civiltà Veronese», n.s., IV, 1991, pp. 43-51.

85. Lo Stolone ovvero della sala pretoria veronese dall’Illustrissimo Sig. Agostino Amu-lio Podestà restaurato, dialogo dell’Eccellentissimo Sig. Francesco Pola, in Verona, ap-presso Bartolomeo Merlo, 1615. Poche le informazioni su Pola: sappiamo che nacque nel 1568, fu giureconsulto veronese, professore di diritto a Padova e membro dell’Accademia dei Filarmonici; la sua opera più famosa fu L’epitafio overo Difesa d’un epitafio. Fatto da Francesco Pola giureconsulto, et notato dall’illustre signor cavaliere Battista Guarini, in Venetia, appresso Nicolò Moretti, 1600; morì

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re, e che a loro volta erano tutte quelle possedute da Agostino Da Mula. Pola, descrivendo le decorazioni della sala, elenca le seguenti virtù: Consiglio, Risoluzione, Erudizione, Religione, Pietà, Zelo, Giustizia, Equità, Rigore, Cortesia, Liberalità, Temperanza, Fatica, Industria, Nobiltà e Buon Evento.86 Sempre dall’epistolario sappia-mo che questa pubblicazione fece nascere uno screzio tra Rossi e Pola, in quanto il letterato veronese non citò lo storico bresciano nell’opera con la quale celebrava le bellezze della suddetta sala. Ros-si, pertanto, con una lettera ironica e pungente scrive a Da Mula:

Io non poteva ricever maggior favore dal Sig. Pola Eccellentissimo, di quel che ha fatto col tacer il mio nome in quel suo Dialogo intitolato lo Stolone, nel quale discopre al mondo la sua invention delle imprese e delle iscrit-tioni che sono dentro a quella sala Pretoria di Verona, dove io per ordine di Vostra Eccellenza Illustrissima inventai e feci dispositione di quelle tan-te figure. In ogni modo egli si è almeno contentato di dire che quella pit-tura è stata una inventione ingegnosa e erudita, difendendomi da Alo-dopo87 che dubita se tale figure sino ben fatte, non essendo l’ordinarie che si vedono nelle moderne iconologie. A me, dico, ha fatto favore, perché non ambisco di acquistarmi nome con opera così breve.88

Pola, intenzionalmente, a conclusione del suo dialogo non

menziona Rossi, e alla richiesta di Alodopo: «ditemi l’autore delle iscritioni tutte che sono in questa sala, se lo sapete», Stolone – alter ego di Pola – risponde: «All’hora che io saprò chi siate voi, e che

forse nel 1616, cfr. Verona illustrata, di Scipione Maffei: con giunte, note e correzioni inedite dell’autore, vol. III, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1825, pp. 413-414.

86. Per comprendere meglio l’apparato iconografico ideato da Rossi si rinvia all’intero Stolone; Pola cita anche due iscrizioni, ormai perdute, attribuibili a Rossi e dedicate a Da Mula: «QUAM SPECTAS AULAM / AUGUSTINUS AMULIUS PRAETOR HOC PICTURAE DECORE / EXORNAVIT / VE-RONENSIBUS SUIS / ANNO MDCXIV / P.F. SYLVESTRO VALERIO V.A. / QUICUM ILLE / CONIUNCTISSIMUS», ivi c. B3r; «SCIN? QUAE VIRTUTES / MAXIMUM FACIANT MAGISTRATUM / LACUNAR IN-DICAT PICTUM / SCIN? QUOS FRUCTUS / MAXIMUS PARIAT / MAG-ISTRATUS / PARIETES INDICANT PICTI / SPECTATO DISCITO FRUITOR», ivi, c. B4v

87. Personaggio forestiero e fittizio con il quale Stolone riflette circa le condi-zioni di degrado del Palazzo del Capitano prima dell’intervento di Da Mula.

88. ROSSI, Lettere, pp. 118-119.

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voi saprete chi sia io, saprete chi sia l’autore delle iscritioni: in que-sto mezo tempo sappiate questo, e vi basti, che voi tanto lui lo co-noscete di vista, quanto egli voi. Andate».89 L’impresa del Gandino, documentata dalle Lettere e dallo Stolone, è andata perduta a causa dei rimaneggiamenti succedutisi nei secoli.

Tra le altre commissioni importanti affidate a Rossi, testimo-niate dalle lettere, vi sono le decorazioni delle sale del Palazzo tren-tino Fugger-Galasso in via Manci (successivamente soprannomi-nato Palazzo del Diavolo da una leggenda citata anche da Goethe nel 1786),90 progetto commissionatogli da Georg Fugger;91 le deco-razioni furono realizzate da Paolo Carneri da Tierno di Mori con la collaborazione del pennello di Pier Maria Bagnadore. Quest’ul-timo inoltre aveva dipinto – forse su indicazioni di Rossi – il ciclo pittorico, attualmente visibile, della vita dei Santi Martiri anau-niesi, all’interno della cappella annessa allo stesso palazzo.92

Un’ultima impresa attribuita allo storico bresciano è la decora-zione delle volte dello scalone del Broletto di Brescia: a testimo-niarlo è una lettera inviata a Giovanni Da Lezze.93 Sede medievale delle signorie regnanti sulla città, il Broletto oggi ospita alcuni uffici comunali e provinciali. Rossi scrive al podestà una lettera databile al 1613 (l’anno dopo Da Lezze si trasferì a Venezia). Sappiamo che per volere del Da Lezze vennero apportate le seguenti modifiche: la sostituzione della scala scoperta sul lato orientale e la costruzione

89. POLA, Stolone, c. F4v. 90. Soprannominato del ‘diavolo’ perché venne edificato in un solo anno nel

1602 (sebbene alcune fonti propendano per il 1581); negli anni quaranta del Seicento il palazzo venne acquistato dalla famiglia Galasso. La leggenda popo-lare vuole che Fugger per ottenere la mano di una donna del posto, Elena Man-druzzo, facesse costruire il palazzo in una sola notte. Per tale impresa si rivolse al Demonio: una volta ottenuto il suo aiuto, in cambio della propria anima, riuscì a realizzare l’impresa in una notte soltanto, vd. ANGELO DE GUBERNA-

TIS, Rivista delle tradizioni popolari italiane, Bologna, Forni, 1893, pp. 509-508. 91. Georg Fugger era un ricco banchiere di origine tedesca (Augsburg) trasfe-

ritosi a Trento; a tal proposito si veda MARTHA SCHAD, Die Frauen des Hauses Fugger von der Lilie, Tübingen, Mohr Siebeck, 1989.

92. Si veda a tal proposito LAURA DAL PRÀ, La Cappella dei santi Martiri in Palazzo Fugger Galasso a Trento: appunti storici ed artistici, in «Studi Trentini di Scienze Storiche», LXII, 1983, pp. 167-296.

93. Su cui GIUSEPPE GULLINO, Da Lezze, Giovanni, in DBI, XXXI, 1985, pp. 755-756.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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di un nuovo scalone coperto a unica rampa costituita da cinquan-taquattro scalini con le volte affrescate da Tommaso Sandrini94 e Francesco Giugno;95 decorazioni ancora oggi visibili, ma in precario stato di conservazione.

Particolarmente importante, all’interno del libro, è una missiva indirizzata a Pietro Marone, databile al 1595-1603, nel periodo ro-mano dell’autore, in cui Rossi scrive:

Se mai vi risolveste di venir in Roma, vi farebbe un gran sollevamento de’ pensieri che patite con tanta smania, perché sareste miracolosamente trat-tenuto dalle opere più eccellenti che si possan desiderar nella profession vostra. […] Intorno a quel che mi pregate a dirvi, qual io stimi esser Pren-cipe de’ Pittori che si ritrovan a questa Corte, non so come sodisfarvi, per-ché non ardirei di sottomettere il Carraccio e Michelangelo da Caravaggio al Cavaglier d’Arpino, ma vi dirò bene, che questi tre formano il Triumvi-rato nella pittura. È vero che ’l più stimato dalla Fortuna è il Cavaliero, perché egli partecipa più che non fan questi due (che son l’uno Bolognese, e l’altro Lombardo) del felicissimo ascendente di Roma. Se venerete vi farò veder molte opere di questi grand’huomini.96

Scrivendo da Roma, Rossi invita Pietro Marone a raggiungerlo per aggiornarsi sulle opere dei principali pittori della città, che defini-sce come ‘triumvirato della pittura’: il cavalier d’Arpino alias Giu-seppe Cesari, Annibale Carracci e Caravaggio. Questa lettera è e-stremamente interessante in quanto testimonia una precocissima e importante attestazione lombarda della fama di Michelangelo Me-risi da Caravaggio97 nei primissimi anni del Seicento.

94. A tal proposito ringrazio Simone Signaroli per avermi segnalato la recente

pubblicazione di FILIPPO PIAZZA, Disegni di Tommaso Sandrini quadraturista bre-sciano del primo Seicento, «Paragone. Arte», 143, 2019, pp. 3-16, cui rimando sia per informazioni più dettagliate circa i lavori di Sandrini e Giugno nel Broletto (p. 9) sia per la vita del Sandrini, con bibliografia precedente.

95. Allievo di Pietro Marone e di Jacopo Palma il Giovane: vd. SONIA BOZZI, Giugno, Francesco, in DBI, LVI, 2001, pp. 704-70. Rossi commemora Giugno con un elogio – presente nell’epistolario, inviato a un destinatario ignoto – nel quale scrive: «Le pitture che sono in Broletto nella nova scala, e nel portico che serve alle due sale del Podestà, e del Capitano, sono quasi le sue prime pitture publiche nella calce»: ROSSI, Lettere, p. 329-331.

96. Ivi, pp. 211-213. 97. Cfr. PAOLO VANOLI, Il libro di lettere di Girolamo Borsieri: arte antica e mo-

derna nella Lombardia di primo Seicento, Milano, Ledizioni, 2017, p. 59.

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Erudizione e antiquaria

Un paragrafo conviene dedicare alle lettere di «discorso» che dimo-strano il vero interesse dell’autore: il culto per l’antico. Gli argo-menti riguardano epigrafi, statue e genealogie di famiglie illustri dell’antica Brixia, di cui Rossi offre le sue interpretazioni. Gli inte-ressi per l’antiquaria, la medaglistica, l’epigrafia, inducono Rossi e i suoi corrispondenti a scambi frequenti di oggetti, oppure di ripro-duzioni degli stessi, che purtroppo non vengono allegate alle mis-sive del libro. Esempio ne sono le lettere a Celestino Colleoni – al quale Rossi spiega l’origine dei cognomi di due liberti incisi in un’i-scrizione antica98 – a Virginio Schelino, e il breve carteggio con Va-leriano Castiglione.

Un campione rappresentativo è costituito da una lettera inviata da Rossi a Schelino nella quale elabora un discorso erudito sul di-segno di un marmo antico che questi gli aveva inviato, e che pur-troppo era arrivato quando le Memorie Bresciane erano già stampate:

Il disegno del Marmo antico che Vostra Signoria mi ha mandato mi è stato caro, ma non è stato a tempo di poterlo inserir con gli altri del mio libro per esser compitamente stampato. Forse averrà ch’un dì si ristampi, e ch’io con tal occasione mi honori della diligenza di Vostra Signoria celebrando questa scoltura, per uno de’ belli intagli ch’io m’habbia veduto, e pieno di notabilisimi sentimenti. Percioché se ben si legge che Ercole uccidesse la velocissima cerva di Menalo, che haveva le corna d’Oro, non si è però visto pittura, o intaglio alcuno (ch’io mi sappia).99

Rossi ricorda infatti che solitamente Ercole veniva ritratto alle pre-se con la sua prima fatica, quella del leone di Nemea, nell’atto im-mediatamente successivo alla morte dell’animale. Secondo quanto scrive Rossi, il semidio è rappresentato con la clava sottobraccio, il capo cinto di stelle e il leone ormai morto perché «l’uomo virtuoso o valoroso quando è gionto al possesso della sua gloria deve ripo-sarsi tra l’ardire e il timore per non metter in forse la sua reputa-tione». Per Rossi, Ercole non è un personaggio mitico qualunque: nelle Memorie egli lo propone come uno dei fondatori della città di Brescia.100

98. ROSSI, Lettere, pp. 29-31. 99. Ivi, p. 31-32. 100. «Nominano alcuni per suo fondatore un certo Brimonio indiano, e altri

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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La figura di Ercole torna come protagonista nel breve carteg-gio101 con Valeriano Castiglione – databile tra il 1618 e il 1620 –, con il quale Rossi esaudisce una richiesta relativa a un’epigrafe – rinvenuta durante la costruzione delle fondamenta di un palazzo – simile a un’altra trattata da Rossi nelle Memorie Bresciane circa «due marmi d’Hercole».102

Altre lettere chiamano in causa il mondo delle antiche genealo-gie bresciane, argomento particolarmente caro a Rossi. Grazie al la-voro che svolgeva nel comune di Brescia, egli poteva avere accesso a documenti e archivi dai quali recuperare informazioni autorevoli ed esaudire le richieste avanzate da amici. Ne sono esempi il breve carteggio con Baldassare Bonifacio e le lettere inviate a Girolamo Soncino e a Bernardino Ronco. Il primo gli chiede il favore, in vir-tù della «congiuntione d’amicitia» che lega suo zio Giovanni Boni-facio103 e Ottavio Rossi, di fargli recapitare un’epitome sulla discen-denza dei Corniani. Rossi, dopo essersi scusato con Bonifacio per l’arrivo tardivo della missiva, nomina nella sua lettera il «particolar ragguaglio della antichissima casa Corniani», con la quale i progeni-

un Trace. Altri dissero, che fu Elitovio, o Ciconio Capitano, e Prencipe di po-poli Germanni, o Galli che si fussero; essendo soliti gli storici di que’ tempi di confonder insieme quelle nationi confederate. Altri dan questo merito a Brenno vincitor di Roma e altri al Re Cigno; altri ad Ercole»: ROSSI, Memorie p. 1; a tal proposito è utile il saggio di SIMONE SIGNAROLI, Il mito di Ercole fondatore nella tradizione erudita bresciana in Ercole il fondatore. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di Marco Bona Castellotti e Antonio Giuliano, Milano, Electa, 2011, pp. 128-137.

101. Vd. ROSSI, Lettere, pp. 58-60 e 303-304. Nella lettera (pp. 303-304), Casti-glione cita altresì una propria «esplicatione» che non fu poi stampata; a tal pro-posito ringrazio Luca Ceriotti per aver controllato l’esemplare delle Prose dell’ab-bate D. Valeriano Castiglione benedettino casinense, et accademico incognito, in To-rino, per Gio. Giacomo Rustis, 1645, custodito presso la biblioteca Reale di Torino. Su Castiglione rinvio naturalmente al saggio dello stesso Ceriotti in questo volume.

102. Si riferisce probabilmente alle epigrafi trattate da Rossi alle pp. 4-6 delle Memorie Bresciane.

103. Giovanni Bonifacio (1547-1635) in realtà era cugino di Baldassare; tra le opere più note si ricordano L’assessore discorso del signor Giovanni Bonifaccio. Al molto illustre, & eccellentiss. sig. Gasparo Cataneo giureconsulto eccellentissimo & as-sessore honoratissimo, in Rovigo, appresso Daniel Bissuccio, 1627; e l’Historia Tri-vigiana, in Trevigi, appresso Domenico Amici, 1591. Vd. GINO BENZONI, Bo-nifacio, Giovanni, in DBI, XII, 1970, pp. 194-197.

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GIACOMO MARZULLO

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tori dello storico «tennero una strettissima parentela». A seguire gli spiega brevemente la discendenza di tale famiglia. Bonifacio, figlio di Paola Corniani, probabilmente aveva richiesto l’epitome per compiacere il cugino Giovan Francesco Corniani104 (omonimo del-l’avo materno di origini bresciane). Secondo Emmanuele Cicogna, Corniani, al fine di ottenere supporto economico per stampare un Memoriale dedicato al Doge – corretto dallo stesso Bonifacio –,105 dovette comprovare la sua discendenza veneta, sostenendo di vivere lì da tre secoli, sebbene i suoi avi fossero bresciani.106

Lo stile

Concludo questa incursione nell’epistolario di Ottavio Rossi con una brevissima ma necessaria osservazione sullo stile epistolare ros-siano, in quanto il suo libro di lettere si configura come un interes-sante modello di prosa concettosa e laconica107 non in linea con lo stile dominante nel primo Seicento nella composizione di lettere.

104. Giovan Francesco Corniani (1582-1646) scrittore, insieme al cugino Bal-

dassare Bonifacio, della Sinodia di Gio. Francesco Corniani, e di Baldassarre Boni-fazio, in Venetia, per Ambrogio Dei, 1612; del Ristretto dell’Areopago di Giovanni Meursio tradotto ed abbreviato da Giovanni Francesco Corniani, Venezia, per Anto-nio Pinelli, 1626, rivolto a Domenico Molino; e di un poema rimasto inedito intitolato La via di Pindo – celebrato con un sonetto da Bonifacio nella raccolta Castore e Polluce. Rime di Baldassarre Bonifaccio, e di Gio. Maria Vanti. Con le di-chiarationi di Gasparo Bonifaccio, in Venetia, appresso Francesco Prati, 1618, p. 46, sonetto LXXXV –, citato da Cicogna nelle Inscrizioni Veneziane, vol. 5, p. 341. Bonifacio aveva dedicato vari componimenti a Giovan Francesco inseren-doli nella Musarum pars prima, Venetiis, apud Ioannem Iacobum Hertium, 1646, pp. 75-95, 218, e 280. Altresì lo cita nella Ludicra Historia, Venetiis, Apud P. Baleonium, 1652, pp. 137-138; le Lettere Poetiche di Baldassare Bonifaccio, per difesa, e dichiaratione della sua Tragedia, in Venetia, Appresso Antonio Pinelli, 1622, contengono due missive indirizzate a Corniani (p. 130 e p. 135). Cico-gna, inoltre, parla di diverse lettere ms. inedite – «assai erudite» – inviate a Giovan Francesco; e di un encomio, sempre a quest’ultimo, contenuto in un’opera inedita di Bonifacio, intitolata Elogi latini degli illustri Rodigini (il ma-noscritto è conservato a Rovigo nella Biblioteca dell’Accademia dei Concordi, ms. Silv. 385): cfr. CICOGNA, Delle Inscrizioni Veneziane Raccolte Ed Illustrate, vol. V, pp. 340-342.

105. Ivi, p. 340. 106. Ibidem. 107. Rimando allo studio di CLIZIA CARMINATI, Alcune considerazioni sulla scrit-

tura laconica nel Seicento, «Aprosiana», n.s., X, 2002, pp. 91-112.

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LA RACCOLTA DI LETTERE DI OTTAVIO ROSSI

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Possiamo considerare Rossi un precursore nel campo dell’epistolo-grafia di questo stile, che raggiungerà il culmine nel trentennio suc-cessivo, con Valeriano Castiglione e soprattutto con Giovan Fran-cesco Loredan.108 La prosa rossiana è costituita da periodi brevi, me-tafore pungenti, a cadenze secche. Egli impiega un linguaggio volu-tamente ‘alto’ facendo assumere alle lettere, anche a quelle appa-rentemente meno rilevanti, come un semplice messaggio di auguri, lo statuto di brani letterari. Rossi, cioè, seppe sfruttare le opportu-nità offerte da un genere come quello epistolare per sperimentare uno stile originale. Quando affronta argomenti per lui importanti – per esempio testi letterari, correzioni e pareri di opere altrui, arte e festività religiose e pubbliche –, si fa più prolisso e attento al con-tenuto.109 Quando invece le lettere rientrano nei generi epistologra-fici canonici, codificati lungo il Cinquecento, egli non si allontana visibilmente dal modello sul piano strutturale, bensì se ne discosta molto dal punto di vista stilistico, cercando di dare una piegatura molto più concettosa alla prosa e andando così ben oltre le formule tradizionali.

A questo proposito, un confronto utile può essere proposto con le Lettere110 del sopra citato Loredan, figura di spicco nel panorama letterario secentesco. L’epistolario di Loredan è ordinato per capi, a differenza di quello di Rossi: esso rubrica ben cinquantadue capi, preceduti dalla prefazione di Henrico Giblet, pseudonimo dello stesso autore. Le lettere di Loredan sono prive di data, mentre sono indicati i luoghi. Il libro dell’accademico Incognito fu infinitamen-

108. A proposito di Castiglione, di Loredan e del panorama epistolografico

italiano del Seicento si veda il recente intervento di CLIZIA CARMINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di Antico Regime, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 91-112; per la vita dell’Incognito si veda la voce della stessa autrice Loredan, Giovan Francesco, in DBI, LXV, 2005, pp. 307-327.

109. Si vedano a tal proposito due lettere di Rossi: una inviata ad Angelo Grillo (pp. 190-202), al quale descrive le «divotioni fatte nel domo di Brescia al San-tissimo Sacramento delle Quarant’hore [e] la settimana santa dell’anno 1615»; e l’altra inviata a monsignor Claudio Rosa (pp. 202-210), cui vengono raccon-tati i festeggiamenti in onore degli ambasciatori Francesco Porcellaga e Giovan Battista Fisogno, tenutisi a Venezia nell’aprile del 1613. Queste missive sono tra le più estese e ricche di descrizioni all’interno del libro.

110. Lettere del sig. Gio. Francesco Loredano. Nobile veneto. Divise in cinquantadue capi, & raccolte da Henrico Giblet, cavalier, in Venetia, appresso li Guerigli, 1653.

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te più fortunato di quello di Rossi: a partire dal 1653 si contano quasi trenta edizioni. Di fatto, esso costituisce uno dei libri più pre-senti nel mercato editoriale italiano del Seicento nel genere episto-lare, insieme alle Lettere di Complimenti semplici di Angelo Gabrieli, che sfiorano le quaranta edizioni a partire dal 1625.111 Alla lettura dell’epistolario di Loredan, la prosa appare altresì ancor più ‘distil-lata’, asciutta e concisa di quella di Rossi. Ma entrambi gli epistolo-grafi hanno in comune la brevitas e lo stile ‘metaforuto’, con l’inten-zione di intrattenere e dilettare il lettore ingaggiandolo in una sfida interpretativa dei brani e chiamandolo a collaborare alla creazione del significato.

111. Lettere di complimenti semplici dell’illustriss. sig. abbate Angelo Gabrielli, gen-

til’huomo venetiano, in Roma, per Gugliemo Facciotti, 1625; cfr. LUIGI MATT, Modelli per l’epistolografia italiana secentesca, «Studi Linguistici Italiani», XLII, 2016, pp. 241-267, a p. 250.

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TRA ERUDIZIONE E COLLEZIONISMO LIBRARIO:

LE LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

Nell’ultimo decennio, l’interesse crescente verso gli studi episto-lari ha posto sotto la lente d’ingrandimento le qualità intrinseche dello strumento lettera, rivelando quanto lo studio delle corrispon-denze ben si presti ad un’indagine di ampio raggio, al crocevia fra differenti discipline. La lettera è diventata non solo un imprescin-dibile strumento d’indagine adatto a ricreare quella fitta trama di corrispondenze che ha animato il Cinquecento e il Seicento, ma altresì si è rivelata un degno mezzo in grado di assolvere al compito di riportare alla luce informazioni di carattere collezionistico, libra-rio e politico-sociale altrimenti dimenticate. Prima di prendere in considerazione il carteggio tra Lorenzo Pignoria1 e Domenico Mo-lin, occorrerà ricordare che, a partire dalla metà del Cinquecento,

1. Sulla biografia di Lorenzo Pignoria cfr. MAURIZIO BUORA, Pignoria, Lo-

renzo, in Dizionario Biografico degli Italiani [da qui in poi DBI], LXXXIII, 2015. Lorenzo Pignoria (1571-1631), segretario del vescovo di Padova, Marco Cor-naro, nel 1602 divenne Canonico di S. Lorenzo nella stessa città, e se non si tiene conto del soggiorno romano, durato solo due anni (1605-1607), non si allontanò mai da Padova. Testimonianza della sua personalità eclettica, che spazia fra diversi campi del sapere, sono le sue pubblicazioni, fra le quali ricor-diamo l’edizione della Mensa Isiaca, rilievo bronzeo con raffigurazioni egizie, appartenuto a Pietro Bembo, con il titolo Vetustissimae tabulae aeneae sacris Aegyptiorum simulachris coelatae accurata explicatio, Venetiis, apud J. Rampazet-tum, 1605. Nel 1613 pubblica il saggio sulla condizione degli schiavi a Roma con il titolo De servis, et eorum apud veteres ministeriis: commentarius in quo familia, tum urbana, tum rustica, ordine producitur et illustratur, Augustae Vindelicorum, Hans Schultes, 1613 [alla quale seguirono le altre edizioni del 1656, 1672-1674, 1694]. Nel 1618 Pignoria si avvicina agli Emblemata dell’Alciato, pubbli-cando un commento intitolato: Emblemata V. CL. Andreae Alciati cum imagini-bus plerisque restitutis ad mentem Auctoris. Adiecta compendiosa explicatione Claudii Minois Divionensis et notulis extemporariis Laurenti Pignori Patavini, Patavii, Tozzi, 1618. Per lo stesso editore, nel 1625, Pignoria dà alle stampe due opere dal sapore storiografico che intendono meglio indagare la storia della città di Pa-dova (Le origini di Padova e L’Antenore). Nel 1615 e nel 1626 vengono pubblicate

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la lettera era divenuta il documento privilegiato per discorrere di

due edizioni delle Immagini de gli dei delli antichi di Vincenzo Cartari, arricchite da un nuovo apparato illustrativo e da un’appendice sugli dei delle Indie orien-tali e occidentali: Le vere e nove immagini de gli dei delli antichi di Vincenzo Cartari Reggiano ridotte da capo a piedi in questa novissima impressione alle loro reali et non più per l’adietro osservate simiglianze […] da Lorenzo Pignoria Padovano aggiontevi le annotazioni […] con le allegorie sopra le imagini di Cesare Malfatti, Padova, Tozzi, 1615; Seconda novissima editione delle Immagini de gli dei delli antichi di Vincenzo Cartari Reggiano, Padova, Tozzi, 1626. Gli interessi di Pignoria per il mondo dell’antiquaria, manifestati ad esempio nella raccolta epigrafica Miscella elogio-rum adclamationum adlocutionum conclamationum epitaphiorum et inscriptionum, Patavii, apud Impr. Camerales, [1626], nel trattatello su due antichità ritrovate a Tournai, in Belgio, e nel saggio sulle celebri testimonianze pittoriche antiche come le Nozze Aldobrandini, Antiquissimae picturae quae Romae visitur typus, a Laurentio Pignorio accurate explicatus, Patavii, Pasquardi, 1630; fanno da contral-tare agli interessi letterari, espressi nel suo trattato sui personaggi storici della Gerusalemme Liberata del Tasso (La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso con la vita di lui; con gli argomenti a ciascun canto di Bartolomeo Barbato con le annotationi di Scipio Gentili, e di Giulio Guastavino, et le Notitie historiche di Lorenzo Pignoria, Padova, Tozzi, 1628). Dopo la memoria scritta a un anno di distanza dalla morte di Pignoria da Giacomo Filippo Tomasini, punto di partenza di tutte le narrazioni biografiche successive (C. Laurentii Pignorii Pat. Canonici Tarusini hi-storici, et philologi eruditissimi Bibliotheca, et Museum. Auctore Iac. Philippo Toma-sino, Venetiis, apud Io. Petrum Pinellum typographum ducalem, 1632), diverse notizie vengono fornite da GIUSEPPE VEDOVA, Biografia degli scrittori padovani, vol. II, Padova, Minerva, 1836, p. 87, da CATERINA VOLPI, Le vecchie e nuove illustrazioni delle Immagini degli Dei Antichi di Vincenzo Cartari (1571-1615), «Sto-ria dell’arte», 74, 1992, pp. 48-80 e, della stessa, Lorenzo Pignoria e i suoi corri-spondenti, «Nouvelles de la République des Lettres», 2, 1992, pp. 71-123; dal contributo di FRANCESCA ZEN BENETTI, Per la biografia di Lorenzo Pignoria, eru-dito padovano, in Viridarium Floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di Maria Chiara Billanovich, Gregorio Cracco, Antonio Rigon, Padova, Antenore, 1984, pp. 323-325; e da un saggio sull’attività di Pi-gnoria come collezionista proposto da CLAUDIO FRANZONI, Dai libri alle cose e ritorno: il ‘Musaeum’ di Lorenzo Pignoria, in Dal libro di natura al teatro del mondo. Studi in onore di Adalgisa Lugli, a cura di Vera Fortunati, Paolo Granata, Bolo-gna, Lupetti, 2011, pp. 33-50. Cfr. inoltre, sulla riedizione delle Immagini di Cartari, il saggio di SONIA MAFFEI, Cartari e gli dèi del mondo. Il trattatello sulle ‘Immagini de gli dei indiani’ di Lorenzo Pignoria, in Cartari e la direzione del mito nel Cinquecento, a cura di Sonia Maffei, Roma, GB editoria, 2013, pp. 61-120; della stessa studiosa si veda Lettere di collezionisti: il caso di Lorenzo Pignoria, in Archilet: per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna. Atti del seminario inter-nazionale di Bergamo 11-12 dicembre 2014, a cura di Clizia Carminati, Paolo Pro-caccioli, Emilio Russo e Corrado Viola, Verona, QuiEdit, 2016, pp. 333-353.

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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argomenti sino a quel momento non propriamente epistolari quali le scienze, le arti, la guerra, il mercato librario e le materie di stato. A ragione, Procaccioli riferisce come il XVI secolo sia stato in grado di consegnare a quello seguente uno «strumento rinnovato» in gra-do di «dialogare col presente e farsi carico delle sue priorità»; uno strumento che, quindi, non sarà solamente confinato al contesto letterario, culturale o autocelebrativo, ma diverrà altresì il mezzo privilegiato anche in campo politico, al punto che per la fase ca-lante del secolo si potrà parlare di «politique par correspondance».2

L’epistolografia secentesca sarà «un genere di transizione» che, dal grande successo editoriale del libro di lettere, porterà alla forma-zione dei grandi carteggi eruditi settecenteschi.3 Infatti, nel Seicen-to si riscontrano sia il declino dei libri di trattatistica epistolare (si-no al 1674, anno in cui venne stampato il trattato del Tesauro)4 sia un rapporto non più diretto fra la fama dell’autore e la conseguente scelta di dare alle stampe l’epistolario, attenuando così quel criterio di esemplarità basilare per tutto il Cinquecento.

Accanto al ricco carteggio di un personaggio chiave nella cul-tura del XVII secolo come Giovan Francesco Loredan,5 principe de-gli Incogniti e perno della cultura veneziana di medio Seicento, esi-stono documenti manoscritti, fondamentali per la comprensione

2. PAOLO PROCACCIOLI, Epistolografia tra pratica e teoria, in L’epistolografia di

Antico Regime, Atti del Convegno Internazionale di Viterbo, 15-17 febbraio 2018, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 9-33, a p. 32.

3. Cfr. CLIZIA CARMINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di Antico Regime, pp. 91-118, a p. 103.

4. Su cui rimando a MARIA LUISA DOGLIO, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 217-223.

5. Molto interessante è il rapporto che lega il Loredan a Giacomo Filippo Tomasini (biografo di Pignoria), ben ritratto nel contributo di GIUSEPPE

TREBBI, Giacomo Filippo Tomasini tra Venezia e l’Istria, in Trieste e l’Istria. Incontri a tema per la diffusione della storia e del patrimonio culturale, a cura di Annalisa Giovannini, Società Istriana di archeologia e storia patria, Trieste, 2017, pp. 291-305. La componente erudita del gruppo capeggiato da Loredan è rappre-sentata anche da Angelico Aprosio, che per certi versi condivide gli interessi di Lorenzo Pignoria: sul tema cfr. GIAN LUIGI BRUZZONE, L’amicizia fra due lette-rati seicenteschi: Gio Francesco Loredano e P. Angelico Aprosio, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CLIII, 1994-1995, pp. 341-375 e LUCA

TOSIN, La formazione della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia attraverso la corri-spondenza di eruditi e bibliofili, «Studi Secenteschi», LV, 2014, pp. 157-181.

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delle relazioni culturali veneziane, che ancora necessitano di studio. È il caso della corrispondenza, conservata nella Biblioteca Mar-

ciana di Venezia, del senatore Domenico Molin,6 al quale peraltro lo stesso Loredan si ispirò nella realizzazione del suo progetto cul-turale.7 I due carteggi, rivelatori di due modi differenti di intendere lo strumento lettera – «concettosa» per Loredan ed «erudita» per Molin (e Pignoria) –, contengono informazioni che non solo rive-lano quanto di fatto i due ambiti si intreccino, ma anche «come le due linee si possano mescolare all’interno dei singoli personaggi in forma di erudizione arguta o volta all’arguzia».8

In questo contesto, maggiormente legato alla lettera erudita, si inserisce di diritto il carteggio Pignoria-Molin, una corrispondenza che non venne pensata per una pubblicazione a stampa, ma che venne realizzata su modelli stilistici che erano stati codificati nel Cinquecento. Tuttavia, il carteggio erudito di Lorenzo Pignoria era già noto a Venezia e nell’Europa di XVIII secolo, come rivela l’o-pera di Jacopo Maria Paitoni Lettere d’uomini illustri che fioriscono nel principio del secolo decimosettimo, assemblata a Venezia nel 1744 pres-so il tipografo Baglioni, la quale comprende la corrispondenza fra Pignoria, Paolo Gualdo e Markus Welser. L’interesse erudito, già evidente negli epistolari di Aprosio e di Antonio Magliabechi9 e sbocciato nel corso del diciottesimo secolo, favorì la riscoperta di Pignoria e del suo carteggio come strumento importante per la ri-costruzione della produzione e dell’ambiente culturale veneto di inizio Seicento.10

6. In assenza di una monografia completa sulla figura di Domenico Molin

rimane fondamentale lo studio condotto da GAETANO COZZI, L’eroica amicizia, nel volume dello stesso autore Venezia Barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia, Il Cardo, 1995, pp. 327-409. Di recente pubbli-cazione sono i contributi di ANTONELLA BARZAZI: La biblioteca di un mecenate: i libri di Domenico Molin, in Amicitiae pignus. Studi storici per Piero del Negro, a cura di Ugo Baldini, Gian Paolo Brizzi, Milano, Unicopli, 2013, pp. 309-323, e Col-lezioni librarie in una capitale d’antico regime, Venezia secoli XVI-XVII, Roma, Edi-zioni di Storia e Letteratura, 2018, in particolare alle pp. 69-97.

7. Cfr. BARZAZI, Collezioni librarie in una capitale d’antico regime, p. 89. 8. CARMINATI, La lettera del Seicento, p. 114. 9. CORRADO VIOLA, Vecchia e nuova erudizione: Muratori e Magliabechi, «Studi

secenteschi», LIII, 2012, pp. 97-115. 10. Cfr. GIUSTO FONTANINI, Bibliotheca dell’eloquenza italiana, con le annota-

zioni del Signor Apostolo Zeno, Venezia, presso i tipi di Giambatista Pasquali,

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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Le 53 lettere conservate nella Biblioteca Marciana di Venezia [Cod. It, XI, 20 (=6789)] rappresentano una fonte importante nella ricostruzione sia delle dinamiche culturali veneziane e dei relativi rapporti con la cultura gallicana d’Oltralpe, sia per una ricerca che, attraverso uno sguardo interdisciplinare, intenda ripercorrere l’evo-luzione delle vie dell’erudizione tardo cinquecentesca. Il carteggio, pensato per una circolazione privata, comprende quei diversi ‘capi’ normati nel Cinquecento e successivamente dal Tesauro:11 dalla let-tera «di ragguaglio», in cui Pignoria informa Molin sulla situazione delle sue opere (in particolare delle Origini); alla lettera «di negozio» in cui l’erudito avvisa il suo mecenate circa la natura dei suoi negozi personali e culturali; dalla lettera «di raccomandazione» alla lettera «esortativa», in cui il canonico padovano chiede al senatore di in-tercedere in favore del nipote Antonio, fino ad arrivare ad una let-tera «di ringraziamento» e «di applauso e congratulazioni», nella quale Pignoria ringrazia Molin per l’aiuto dato al nipote e agli amici eruditi e in cui si complimenta per il generalato in Dalmazia di Francesco Molin, fratello del senatore.

Al contempo, le lettere si distinguono per la pluralità di riferi-menti e per la ricchezza di informazioni, consentendo così al lettore esperto di coltivare terreni non ancora pienamente dissodati. In pieno accordo con il clima culturale che l’esperienza di Gian Vin-cenzo Pinelli aveva lasciato nella Venezia di primo Seicento, Pigno-ria guardava l’oggetto lettera sia come uno strumento per poter rin-saldare amicizie e rapporti di sodalità, sia come tramite ideale per saziare i suoi molteplici interessi, i quali spaziavano dalla numisma-tica alla botanica, dalla critica letteraria alla filologia, dall’iconogra-fia alla poesia.

La corrispondenza fra Pignoria e il senatore Molin, tuttora priva di uno studio critico e di edizione, copre un arco temporale com-preso fra il 1622 e il 1627. Stante l’assenza nel manoscritto di un riordino delle lettere secondo l’ordine cronologico, è possibile ope-rare una prima divisione delle carte in due sezioni tematiche prin-cipali: la prima, compresa fra il 1622 e il 1626, condensa importan-

1753, vol. 2, pp. 133-135; MARCO FOSCARINI, Della letteratura veneziana, Pa-dova, presso la Stamperia del Seminario, 1752, vol. 2, pp. 138-139; e ancora nell’Ottocento con EMMANUELE ANTONIO CICOGNA, Delle iscrizioni veneziane, Venezia, presso i tipi di Giuseppe Piccotti, 1853, vol. 1, pp. 341-342.

11. DOGLIO, L’arte delle lettere, p. 218.

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ANDREA COLOPI

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ti informazioni di interesse librario, con qualche sporadica presen-za di richieste di favori, le quali, per lo più legate alla carriera dei nipoti del canonico, connotano invece quasi interamente la secon-da sezione di lettere, afferenti al periodo compreso fra il 1626 e il 1627. Mancano ulteriori testimonianze della corrispondenza fra i due.

Lo studio di questo carteggio, esempio diretto del rapporto clientelare che legava a doppia mandata i due intellettuali, ci con-sente sia di scoprire come al principio del Seicento il testimone del-la tradizione pinelliana a Venezia venisse raccolto dal senatore Do-menico Molin (definito non a caso dai suoi contemporanei «pro-tettore delle arti»), sia di conoscere la politica culturale promossa dallo stesso – che ormai interpretava il ruolo di mecenate di un ce-nacolo culturale internazionale – la quale puntava principalmente alla riscoperta dei grandi classici latini e greci e alle edizioni critiche di alcuni fra i più grandi storici medievali di origine veneta, quali i padovani Albertino Mussato (1261-1329) e Rolandino da Padova (1200-1276).

Quest’ultimo ambizioso progetto (per venire ora ai contenuti

delle lettere), nato grazie alla collaborazione fra Felice Osio e Lo-renzo Pignoria prevedeva, oltre alla stampa di tutte le opere del Mussato, anche l’aggiunta di altri importanti scrittori quali il già citato Rolandino, il Cortusius e il Monachum Patavinum.12 Tutta-via, come dimostrano alcune lettere inviate da Pignoria al suo me-cenate, fu un progetto lungo e travagliato: in una prima lettera, da-tata 4 giugno 1624, Pignoria avvisava Molin di aver ricevuto notizia dello studio attorno al Mussato da Felice Osio, ricordandogli però che Albertino Barisoni,13 il quale conosceva già l’opera, avrebbe po-tuto soddisfare meglio le sue richieste:

12. Cfr. ZEN BENETTI, Per la biografia di Lorenzo Pignoria, p. 323. In nota la

studiosa riferisce che, in seguito alla ventilata edizione di «rerum Patavinarum scriptores», Pignoria compilò un elenco di storiografi padovani con preziose notizie sulle loro opere. L’elenco è oggi consultabile nella copia redatta dal no-taio Gaspare Graziani, conservata nella Biblioteca Civica di Padova (ms. BP. 16, 1027).

13. Sulla biografia di Barisoni rimando a GIORGIO EMANUELE FERRARI, Ba-risoni, Albertino, in DBI, VI, 1964.

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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LETTERA N. 1614

Il Signor Osio mi disse il pensiero di Vostra Signoria Illustrissima intorno l’edizione dell’Historia del Musato. S’io sono bono per servire in alcuna cosa, † sa se farò volentieri. Tuttavia, mi pare che quella Historia sia in ma-no di Monsignor Barisoni il quale potrà (se vorrà) molto meglio di me travagliarci intorno.

In un’altra lettera, del 29 novembre 1624, Pignoria tornava sul-l’argomento, ricordando a Molin che l’Osio stava lavorando sull’o-pera dello storiografo padovano e che però ancora non lasciava ve-dere le sue fatiche:

LETTERA N. 18

Il Signor Osio travaglia intorno al Musato, ma io non posso vedere le sue fatiche perché esso non ha genio di mostrare, et io ho molto rispetto per chiederne. Il riferimento al lavoro sul Rolandino, peraltro necessario alla rico-struzione delle Origini di Padova, è presente nel carteggio già a par-tire dal 17 luglio 1622, data in cui Pignoria scriveva a Molin:

LETTERA N. 1

Nel Rolandino ho fatto due fogli di annotazioni e sono intorno all’Historia verbale e orale per così dire di questi.15

14. Tutte le lettere che citerò provengono dal ms. Cod. It., XI, 20 (=6789)

della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Il manoscritto non presenta cartulazione. Ho numerato le lettere dopo averle disposte in ordine cronolo-gico nella mia tesi di Laurea Magistrale Collezionismo, erudizione e scambi librari nella Venezia del Seicento: le lettere di Lorenzo Pignoria a Domenico Molin, Università di Bergamo, a.a. 2017-2018.

15. L’opera a cui fa riferimento Pignoria sono i Chronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, pubblicati nel XII secolo da Rolandino da Padova, cfr. MA-

RINO ZABBIA, Rolandino da Padova, in DBI, LXXXVIII, 2017. L’opera viene al-tresì citata dal Pignoria nelle sue Origini di Padova, p. 169. Sull’edizione veneta del Mussato si veda SIMONE SIGNAROLI, L’edizione veneta di Albertino Mussato (1636) e l’erudizione europea di primo Seicento, «Italia medioevale e umanistica», 50, 2009, pp. 313-341. L’opera venne successivamente pubblicata nel 1636 presso i tipi di Pinelli a Venezia: ALBERTINI MUSSATI, Historia Augusta Henrici VII Caesaris et alia quae extant opera, Laurentii Pignorii Spicilegio necnon Felicis Osii et Nicolai Villani castigationibus, collationibus et notis illustrata, Venezia, Pinelli,

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Ancora, a distanza di quattro anni dalla prima lettera, Pignoria tornava a chiedere libri al suo mecenate, questa volta per conto di Albertino Barisoni, affinché anch’egli potesse contribuire allo stu-dio intorno alle opere del Rolandino. La lettera, datata 2 maggio 1626, ritrae il gruppo di eruditi che gravitava attorno al senatore, mostrando non solo l’affiatamento di questi, ma anche il loro si-nergico modus operandi:

LETTERA N. 23

Il Signor Abate Barisoni la supplica a dar ordine al Signor Osio, acciò che gli consegni que’ libri dei quali ha bisogno, e che Vostra Eccellenza mandò già al Signor Abate acciò se ne servisse; et intende di riaverli tutti per potere fornire il Rolandino.16 Io per me stimo che il Signor Osio gl’abbia ritenuti a bastanza. È noto, infatti, che anche il Barisoni stava in quegli anni lavorando ad un’edizione critica dei Chronica di Rolandino: il progetto del-l’abate prevedeva un’edizione corretta e arricchita da sontuose illu-strazioni; un lavoro che tuttavia non verrà ultimato né dal Barisoni né dall’Osio (quest’ultimo morì di peste nel 1631). Abbiamo noti-zia di questo caso editoriale grazie al Muratori che lo menziona nel-l’ottavo tomo dei suoi Rerum Italicarum Scriptores,17 offrendo infor-mazioni biografiche su Felice Osio sino a quel momento sconosciu-te.

Letta in un’ottica di più ampio respiro, che non si limiti al solo interesse filologico, la corrispondenza fra Pignoria e Molin rivela informazioni fondamentali per capire non solo il contesto culturale padovano, ma anche in che modo le opere di Pignoria venissero recepite dagli intellettuali del tempo. Un caso emblematico, che portò l’erudito padovano a doversi difendere dalle dure accuse dei suoi concittadini, fu la pubblicazione delle Origini di Padova, nella loro editio princeps nel 1625 per i tipi di Pietro Paolo Tozzi a Padova. L’imponente opera storiografica di Pignoria, nata grazie alla messa

1636.

16. Sul legame fra Felice Osio e Domenico Molin, cfr. FOSCARINI, Della lette-ratura veneziana, pp. 138-139.

17. LUDOVICO ANTONIO MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, ab anno ae-rae christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, Mediolani, Ex typo-graphia Societatis Palatinae in Regia Curia, 1726, vol. 8, pp. 153-466.

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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in dialogo di testimonianze classiche e medievali, divenne oggetto di accese discussioni in seguito alla scoperta della nascita romana di Giulio Paolo, famoso giureconsulto di III secolo d.C., sino a quel momento ritenuto nativo di Padova. Ad alimentare le controversie, scaturite già in seguito alla pubblicazione delle Origini, fu la compo-sizione, sempre per mano di Pignoria, nello stesso 1625, dell’Atte-statione,18 la quale obbligò l’erudito padovano a difendersi dagli at-tacchi scomposti del frate agostiniano Angelo Portenari, come si in-tuisce chiaramente da due lettere rivolte a Molin.

LETTERA N. 30

Le mando due Epigrammi in risposta al mandatomi, con patto che non si sappia di chi sono, perché bisogna che io serbi i miei rasoi per la cotica di Pilaro e tralasci ogni altra pratica. Fo riverenza a Vostra Eccellenza Illustris-sima bramandole ogni bene. Di Padova il dì 16 Giugno 1626. Nella lettera Pignoria riferisce a Molin di essere pronto a scontrarsi con Pilaro, pseudonimo del frate agostiniano Angelo Portenari, che in risposta all’Attestatione del Pignoria pubblicò nel 1625 l’opera Avviso di Parnaso. Difesa della patavinità di Giulio Paolo Giureconsulto contra le Origini di Padova, presso i tipi di Pietro Paolo Tozzi a Pa-dova.19 Tuttavia, nella lettera del 19 giugno del 1626, Pignoria avvi-sa il senatore di essere sorpreso del fatto che Pilaro stesse scrivendo non contro l’Attestatione, ma contro la Principessa20 (altra opera scrit-ta da Pignoria in difesa dagli attacchi del Portenari) e, per questo motivo, informa il suo mecenate circa il suo piano d’azione contro il frate agostiniano:

LETTERA N. 31

Pilaro scrive contro la Principessa, per quanto mi vien detto, io l’aspettavo contro l’Attestato. Ho però determinato di fare una gagliarda diversione

18. LORENZO PIGNORIA, Attestatione di Giulio Paolo giureconsulto solennizzata

nei Campi Elisij il dì delle none di agosto. L’anno 1625. Riferita fedelmente da Me-nippo filosofo, Padova, per i tipi di Pietro Paolo Tozzi, 1625.

19. FONTANINI, Biblioteca dell’eloquenza italiana, pp. 133-135. 20. LORENZO PIGNORIA, La principessa delle compositioni sfiorata riotta del Sig.

Ludolfo Braunio di Colonia, Venezia, Antonio Pinelli, 1625. Cfr. VEDOVA, Bio-grafia degli scrittori padovani, p. 92.

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con attaccare la Felicità21 e mettere in campo tutti i suoi errori, che non sono pochi, e ho di già incominciato.

In difesa di Pignoria scesero in campo diversi intellettuali suoi amici, quali ad esempio Albertino Barisoni che, ricevuta la notizia della diatriba fra l’amico e il frate agostiniano, si apprestò a com-porre l’opera intitolata Degli Antiventagli d’Ermidoro Filarete Fascio primo,22 in cui sostenne la romanità di Giulio Paolo, e Gian Giro-lamo Bronziero, il quale compose ben tre opuscoli in difesa del-l’amico.23

A distanza di un anno dalla lettera precedente, Pignoria rimane ancora fortemente ancorato alle sue idee, tanto da ribadirle in una missiva inviata a Molin il 13 giugno 1627:

LETTERA N. 35

Sia come si vuole, io non dirò però che Giulio Paolo sia stato dei nostri né certe altre simili cosaccie che vorrebbero che io dicessi; e voglio prima pren-dere a pigione il doglio di Diogene che non mordere l’Ignoranza e non svelare la bugia.24

In questo vivace clima culturale il carteggio fra i due intellettuali rappresenta altresì la prova tangibile della resistenza attuata dal po-

21. Pignoria avvisa Molin che ha intenzione di attaccare, mettendo in luce gli

errori in essa presenti, l’opera che ha reso celebre il Portenari, Della Felicità di Padova, Padova, Paolo Tozzi, 1623.

22. ALBERTINO BARISONI, Degli Antiventagli d’Ermidoro Filarete Fascio primo, Venezia, Antonio Pinelli, 1625. Scritta dal Barisoni sotto lo pseudonimo di Ermidoro Filarete, come riporta GIAMMARIA MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Ita-lia, cioè notizie storiche, e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, Giambattista Bossini, 1758, vol. 2, p. 366.

23. GIAN GIROLAMO BRONZIERO, Relazione de Hifipeto, overo l’Hipernefelo se-condo, Venezia, Antonio Pinelli, 1625; Peagno crivellaore delle Tarise malcontente del libro d’i nascimenti de Pava, de Bonsegnor Pignoria, Venezia, Antonio Pinelli, 1625 e il dialogo Morfeo, e Panteso figliuoli del Sonno, di cui non si conoscono luogo e anno di stampa. Sul tema cfr. FONTANINI, Biblioteca dell’eloquenza ita-liana, p. 134.

24. Pignoria rende chiaro al Senatore che non ha alcuna intenzione di scon-fessare la sua scoperta sulla nascita di Giulio Paolo. Per farlo richiama il filosofo Diogene e il suo Doglio, ovvero una coppa di terracotta in cui era conservato il vino della Verità.

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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lo padovano – rappresentato dal primo attore Pignoria – per rima-nere ancora al centro delle relazioni erudite del tempo. Dalle lettere si intuisce perfettamente quanto fosse forte l’influenza di Molin nel mercato librario di primo Seicento; attraverso un confronto incro-ciato delle corrispondenze è possibile ritessere le trame degli scambi librari nell’Europa di primo XVII secolo e, ancor di più, tentare una prima incursione nella ricchissima biblioteca del senatore.

Le costanti richieste di libri da parte di Pignoria, il quale elenca chiaramente i titoli delle opere a lui necessarie nella stesura dei suoi lavori, ci restituiscono l’immagine di una biblioteca fra le più forni-te del suo tempo, come rivelerà successivamente la relazione di Cor-nelio Frangipane redatta dopo la morte del senatore.25 Si legga a esempio la lettera datata 1 febbraio 1624:

LETTERA N. 3

Per mezzo del Signor Crasso26 le rimando il Flegonte, l’Apollonio, l’Antigone et il Lucano suo, con molta grazia facendole anco riverenza a nome del Signor Sandelli e mia.27

A distanza di pochi mesi (la missiva è datata 21 aprile 1624), Pigno-ria ringrazia il suo mecenate per le continue concessioni di libri e manoscritti:

LETTERA N. 10

Illustrissimo signor mio padron colendissimo. La mia Biblioteca è talmente oggimai accresciuta coi preciosi doni di Vo-stra Signoria Illustrissima, che sarà necessario ch’essa ancora segua la con-dizione di chi n’è padrone e riconosca da lei i suoi maggiori ornamenti sì come io, pur da lei, riconosco l’essere in qualche stima appresso a chi co-nosce letteratura degna di omo.28

25. BARZAZI, La biblioteca di un mecenate: i libri di Domenico Molin, p. 318. 26. Nicolò Crasso (1586-1656). Per la sua biografia rimando a CLAUDIO PO-

VOLO, Crasso, Nicolò, in DBI, XXX, 1984. 27. Gli opuscoli di Flegonte di Tralles, Apollonio Discolo e Antigone sono

inseriti all’interno dell’opera di JOHANNES VAN MEURS, Historiarum mirabilium auctores Graeci. Iohannes Meursius recensuit; et partim notas adiecit, Lugduni Ba-tavorum, apud Abrahamum Elzevirium, 1622. Il «Lucano» identifica probabil-mente un’edizione dei Pharsalia presente nella biblioteca di Molin e prestata in precedenza a Pignoria.

28. Pignoria ringrazia il suo mecenate Molin sostenendo che se la sua biblio-teca è oggimai ricca è solo grazie alla benevolenza del senatore, il quale ne sarà

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Le ne rendo copiosissime grazie, e professo, nella Italia del Cluverio, d’avere ricevuto da Vostra Signoria Illustrissima un dono a me per ogni rispetto gratissimo. Il medesimo dico a proporzione della Venezia dello Strozzi,29 che ho desiderato di vedere molto e molto, e m’ha animato a stampare l’Attila di Giovenco Celio, che sbrigato ch’io mi sia di queste benedette Origini, darò in luce al sicuro con qualche aggionta di cose non disprezzabili.30 Ho veduto la lettera del Signor Meursio, l’Areopago lo ha il

il vero padrone. Interessante notare come, alla morte di Pignoria, per volontà testamentarie, l’intera biblioteca verrà ereditata proprio da Molin. Ad infor-marci di tale passaggio di proprietà è Tomasini nella biografia di Pignoria, C. Laurentii Pignorii Pat. Canonici Tarusini historici, et philologi eruditissimi Bibliotheca, et Museum. Auctore Iac. Philippo Tomasino, pp. 25-30. Inoltre, lo stesso Pignoria ci restituisce un ritratto di Molin come di un uomo perfettamente inserito nelle dinamiche culturali veneziane e transnazionali, ovvero un circuito erudito in-ternazionale in grado di giudicare la qualità di una determinata opera letteraria e libraria, stabilendone di conseguenza sia il successo sia il fallimento.

29. Nella lettera Pignoria ringrazia Molin per il dono di due opere fondamen-tali per i suoi studi antiquari e di interesse geografico (interesse peraltro solo citato dal Tomasini, autore della biografia postuma dell’erudito padovano): la prima opera è l’edizione postuma dell’Italia Antiqua di Filippo Cluverio, edita a Leida presso gli Elzeviri nel 1624; la seconda, invece, è la Venetia edificata. Poema eroico di Giulio Strozzi, edita a Venezia per i tipi di Antonio Pinelli nel 1624, in cui l’autore cerca di spiegare in forma eroica la genesi della città e delle sue conquiste, facendo riferimento anche ad un ricco apparato iconografico.

30. Pignoria avvisa il senatore che le due opere inviategli l’hanno animato a stampare l’Attila di Giovenco Celio Dalmatino (vescovo di Cinque Chiese in Ungheria nel XII secolo) con aggiunte non disprezzabili, ma che il compimento e la stampa dell’opera saranno possibili solo dopo la chiusura del ‘cantiere’ delle Origini. L’opera del Celio, già conosciuta a Venezia a partire dal 1502, come dichiara il Foscarini nella Letteratura veneziana, venne stampata per conto di Girolamo Squarciafico, in fine della sua opera Plutarchi Vitae: nuper quam diligentissime recognitae: quibus tres virorum illustrium vitae aditae fuerunt: et in fine voluminis apositae, Venetiis, per Dominum Pincium, 1502. Tuttavia, il Fosca-rini, in nota, sottolinea come l’opera fosse ritenuta molto rara nel Seicento e di interesse erudito per quel manipolo di dotti che orbitava attorno alla biblio-teca di Molin. Per legittimare quanto sostenuto, Foscarini riporta uno stralcio del Viri illustri Nicolai Claudii Fabricii de Peiresc senatoris aquisextiensis vita (com-posto dal Gassendi): «Quum anxie requisivisset ex Paulo Servita, ex Scaligero, ex Casaubono, ex eruditiis aliis, ecquid novissent de Juventio Celio Calano Dalmata, cujus codicem ms. de Athilae vita Venetiis asportaverat; is ut edere-tur, animum applicuit». Cfr. FOSCARINI, Della letteratura Veneziana, vol. 3, pp. 264-265, n. 4. La Vita di Attila rappresenta per Pignoria una fonte imprescin-dibile per la stesura delle sue Origini (ne è un esempio la citazione di Attila a p. 169 delle stesse), in quanto, come è noto, gli Unni, sotto la guida del loro re,

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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Signor Sandelli.31

La descrizione che traspare nella lettera datata 19 giugno 1626 ci consentirebbe inoltre di indentificare Molin come il perfetto ere-de italiano di Pinelli sia nella creazione di un circolo culturale gra-vitante attorno ad una biblioteca, sia nella promozione di una cul-tura transnazionale e, vedremo poi, legata a doppia mandata con il mondo protestante gallicano e olandese:

LETTERA N. 31

Illustrissimo et Eccellentissimo Signor mio padron colendissimo. Vostra Eccellenza Illustrissima pur troppo fa ogni momento con l’aprirmi i tesori della sua nobilissima libreria, della quale, oramai, io posso dire, per sua benignità, di essere quanto all’uso più padrone di lei, senza che ella mi voglia obbligare di più a non sperare mai di uscire né anco per immagina-zione dei debiti contratti con lei.

Da un orizzonte erudito più esteso della sola area veneta, si scor-gono chiari i contorni di alcuni fra i più importanti eruditi d’Oltral-pe. A spiccare nel manoscritto è in particolare il nome di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, il quale diviene tramite d’eccellenza fra il mondo gallicano parigino (rappresentato dal circolo dei fratelli Du-puy) e il circolo padovano. Ben nota è infatti l’amicizia che legò il francese con Pignoria: un rapporto di stima reciproca che grazie alla protezione del senatore Molin portò i due a discutere di argomenti prettamente antiquari. I due eruditi, come si riscontra in diverse

invasero da Oriente l’Italia, distruggendo tutti i territori veneti e obbligando la popolazione più ricca a ritirarsi sulle isole dove oggi sorge la città di Venezia. Cfr. GIAN GIROLAMO BRONZIERO, Istoria delle origini e condizioni de’ luoghi prin-cipali del Polesine di Rovigo, Venezia, Carlo Pecora, 1748, pp. 25-26. L’impegno relativo al Celio è da collegare ai lavori per l’edizione veneta del Mussato che, come si è detto, occupò l’erudito – coadiuvato da Felice Osio e da Niccolò Villani – dal 1625 al 1630, e che doveva condensare in un’unica poderosa opera tutte le fonti storiche padovane finallora conosciute.

31. In questa parte conclusiva della missiva Pignoria avvisa Molin di aver letto una lettera di Johannes van Meurs e che l’Areopago (Areopagus, sive de Senatu areopagitico, Lugduni Batavorum, apud Godefridum Basson, 1624 del Van Meurs) l’ha ancora Martino Sandelli. Sulla biografia del Sandelli rimando a VEDOVA, Biografia degli scrittori padovani, pp. 209-211.

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lettere che Pignoria invia a Molin, coinvolsero a più riprese il loro mecenate, affinché seguisse anch’egli da vicino le loro discussioni, intervenendo, se necessario, su singole questioni come quella delle misure e dei pesi antichi e moderni, che da tempo interessava l’eru-dito provenzale. Così traspare chiaramente dalla lettera del 30 apri-le 1624, nella quale Pignoria chiede favori a Molin per conto del-l’amico Peiresc:

LETTERA N. 12

Monsieur di Peiresc mi risponde che io gli procuri un peso di zecca, dell’oro, dell’argento, e di robba, se sono diversi tra sé. Vorria ancora un’at-testazione pubblica che quei pesi fossero legitimi; di poi mi domanda le Leggi Nautiche, o Marittime, della Serenissima Repubblica, delle quali però io non ne so altro.32 Altra lettera che rivela l’inclusione di Molin negli affari eruditi di Peiresc e Pignoria è del penultimo giorno di febbraio del 1624, nella quale si avvisa il senatore che il francese, grazie alla collabora-zione dello storico di corte del Re di Francia André Duchesne, è in procinto di riscoprire l’illustre discendenza della casata Molin:

LETTERA N. 5

Monsieur di Peiresch mi scrive in una sua, ricevuta questa mattina, così: «scriverò a Signor du-Chesne per intendere ciò che si potrà avere della di-scendenza dei quei di Casa Molin dopo le Guerre oltramarine, per l’Illu-strissimo Signor Domenico, a cui io vorrei poter ben rendere qualche de-gno effetto della mia servitù e della venerazione che io porto al suo merito e sommo valore». Fo riverenza a Vostra Signoria Illustrissima con tutto l’affetto. 33

32. Famosa è la collezione di Peiresc di pesi e misure antiche, tuttavia, appare

chiaro nella lettera che l’interesse del francese non si concentrava solo sul mondo classico, in particolare romano, bensì lambiva anche il periodo a lui contemporaneo; egli richiedeva campioni di oro e argento delle misure di peso veneziane. Inoltre, Pignoria chiede per conto di Peiresc anche una copia delle leggi nautiche e marittime della Repubblica.

33. Pignoria comunica a Molin che, grazie alla mediazione di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, il quale si è messo in contatto con André Duchesne (storico di corte del Re di Francia), sta lavorando alla realizzazione di un’opera storio-grafica ed encomiastica sulla famiglia del senatore, come riporta anche ANTO-

NELLA BARZAZI, Si quid Gallia afferatur, avide lego. Reti intellettuali, libri e politica

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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La centralità di Molin nelle dinamiche librarie di primo Sei-cento, in un’Europa coinvolta nella sanguinosa Guerra dei Tren-t’anni, si intuisce chiaramente dai continui riferimenti a stampa-tori, soprattutto veneziani e olandesi, come gli Elzeviri di Leida, con i quali il senatore era in contatto.34 Essi furono in grado di far arri-vare i loro libri fino a Venezia senza incappare nella rete della cen-sura libraria, attraverso gli intellettuali che dalle Fiandre si dirige-vano verso la Laguna, quali ad esempio il «signor Vorstio», nomi-nato nella lettera che Pignoria invia a Molin il 4 settembre 1622:

LETTERA N. 2

Ma lasciamo da parte questi rigori, che certo sono in occasione,35 io farò al meglio che saprò, e ne averò a Vostra Signoria Illustrissima obligo quanto merita la sua molta umanità. Aspettarò il Signor Vorstio36 con desiderio

tra Venezia e la Francia nella prima metà del Seicento, in Hétérodoxies croisées. Ca-tholicismes pluriels entre France et Italie, XVIe-XVIIe siècles, a cura di Alain Tallon e Gigliola Fragnito, Publications de l’École française de Rome, Roma, 2015, pp. 374-417. Inoltre, Peiresc informa Pignoria di aver preso contatto con An-dré Duchesne (1584-1640) storico e geografo del Re di Francia. Cfr. MARIE-NICOLAS BOUILLET, ALEXIS CHASSANG, Du Chesne André, in Dictionnaire uni-versel d’histoire et de géographie, Paris, Hachette, 1878, vol. 1, p. 559.

34. Sui legami fra Molin e gli stampatori olandesi: cfr. GAETANO COZZI, Paolo Sarpi e Jan van Meurs, «Bollettino dell’istituto di storia della Società e dello Stato Veneziano», 1, 1959, pp. 179-186, a p. 181.

35. Dal contesto si evince che i «rigori» a cui fa riferimento Pignoria indicano un periodo in cui gli Esecutori erano più rigidi nella concessione delle licenze di lettura. L’erudito aspetta l’arrivo di Adolphus Vorstius e dei libri provenienti dalle Fiandre, realtà culturale protestante e scevra dal controllo dell’Indice.

36. Adolphus Vorstius (1597-1663) fu un medico, un botanico olandese e di-rettore dell’orto botanico dell’Università di Leida, nomina che gli permise di mantenere vivi i contatti con il famoso Orto Botanico dell’Università di Pa-dova; nella stessa città ottenne il dottorato in medicina, cfr. ABRAHAM JACOB

VAN DER AA, Biographisch woordenboek der Nederlanden, bevattende levensbe-schrijvingen van zoodanige personen, die zich op eenigerlei wijze in ons vaderland hebben vermaard gemaakt; voortgezet door K.J.R. van Harderwijk en G.D.J. Schotel, Haar-lem 1852-1878, pp. 359-361. Fra le opere che Pignoria aspetta di ricevere dal Vorstio ve ne è una di DANIEL SOUTERI, Palamedes; sive de tabula lusoria alea, et variis ludis, libri tres. Quorum 1., philologicus; 2., historicus; 3., ethicus; seu moralis, Lugduni Batavorum, ex officina Isaaci Elzeviri, 1622. L’opera del Souteri verrà ripresa da JOHANNES VAN MEURS, Graecia ludibunda, sive De Ludis Graecorum, Accedit Danielis Souteri Palamendes, sive, De Tabula Lusoria, Alea et variis Ludis, libri tres, Lugduni Batavorum, ex officina Isaaci Elzeviri, 1625.

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dei Libri accennati, fra i quali io mi immagino che me † Palamedes.

Il quadro che si viene quindi a delineare riferisce quanto forte fosse il legame con la realtà protestante riformata delle Fiandre, in cui, a differenza di quanto accadeva nel contesto italiano dell’e-poca, il controllo dell’Indice non riuscì a diffondersi in maniera si-stematica. Molin, dal canto suo, svolgeva il preciso ruolo di tramite fra i dotti, diventando un punto cruciale nel commercio librario dell’epoca. A rivelare la centralità della sua posizione nelle dinami-che erudite del tempo è il forte legame che univa alcuni esponenti del suo cenacolo culturale, quali Lorenzo Pignoria e Paolo Gualdo, con diversi personaggi dai tratti sfuggenti e sinora poco indagati come il banchiere tedesco Markus Welser.

Il Welser, amico di Galilei e corrispondente di Gualdo, accolse positivamente le scoperte galileiane a tal punto da promuoverne la diffusione alla corte di Rodolfo II. Fu in particolare la pubblica-zione del Sidereus nuncius, nel 1610, a dividere l’opinione scientifica fra chi (come l’ambiente gesuitico romano) ne condannava il con-tenuto, ritenuto contrario all’ortodossia cattolica, e chi come il Welser, Keplero e il circolo padovano di Gualdo e Pignoria ne so-steneva la veridicità scientifica.37 Proprio il circolo padovano, creato da Pinelli e perpetuato da Molin, svolse un ruolo chiave nella dif-fusione del sapere galileiano, in quanto la corrispondenza fra il Welser, Gualdo e Pignoria, ricordati con solerte cordialità dal tede-sco nelle sue lettere al Galilei, non solo si connotava «per il caldo entusiasmo verso l’opera scientifica del Galilei»,38 difendendo que-st’ultima dai duri attacchi dei gesuiti, ma al contempo rifletteva quell’interesse antiquario, al crocevia fra differenti discipline, che sostanziava le grandi discussioni erudite di primo Seicento nei di-versi circoli culturali nazionali e transnazionali, creando così un’ir-ripetibile rete di scambi di libri, d’informazioni e di oggetti, che trovava nella Venezia di Molin un porto sicuro.

Il passaggio dal secondo al terzo decennio del Seicento segnò definitivamente il rafforzamento dei rapporti fra la realtà culturale francese e Padova, facendo così di Pignoria il primo attore su que-

37. GAETANO COZZI, Galilei, Sarpi e la società veneziana, in Paolo Sarpi tra Vene-

zia e l’Europa, Torino, Einaudi, 1979, pp. 188-191. 38. Ibidem, p. 189.

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LETTERE DI LORENZO PIGNORIA A DOMENICO MOLIN

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sto palcoscenico erudito. Nell’aprile del 1622, lo stesso Pignoria di-chiarava in una lettera indirizzata a Giambattista Gualdo, nipote dell’ormai defunto Paolo, di assumersi in prima persona il compito di proseguire il dialogo con l’area transalpina, divenuto ormai un’a-bitudine.39

Nel corso del primo Seicento, Molin, amico di Sarpi e partecipe dei rapporti di quest’ultimo con i gallicani e i protestanti francesi, fu al centro non solo di fondamentali questioni politiche per la Se-renissima, ma divenne anche cuore pulsante dell’erudizione vene-ziana prima e internazionale poi. Il moltiplicarsi delle sue relazioni con i maggiori rappresentanti della filologia d’oltralpe, dai francesi Casaubon e Saumaise, agli olandesi Heinsius, van Meurs e Voss, lo elessero a principale interlocutore dell’ambiente erudito tradizio-nalmente coinvolto nei rapporti con la vicina Francia. Il passo suc-cessivo operato da Molin fu la realizzazione di una fitta rete mece-natesca che da Venezia si diramava in tutto il Veneto e nella quale Pignoria svolse il ruolo di maestro di cerimonie. Infatti, Pignoria, in virtù del legame clientelare che li univa, chiese a più riprese al senatore libri in prestito, entrature presso studiosi italiani e stranie-ri e la soluzione di controversie giudiziarie di varia natura. Molin, per parte sua, accordava i favori richiesti e seguiva da vicino le con-troversie erudite nelle quali erano coinvolti i suoi sodali, senza tra-lasciare la circolazione dei suoi libri e di missive giuntegli dai corri-spondenti transalpini.

39. BARZAZI, Si quid Gallia afferatur, p. 385. È molto interessante notare come

il dialogo a cui fa riferimento la studiosa, negli anni compresi fra il 1620 e il 1630, interessi numerose personalità di spicco dell’erudizione internazionale. La preponderanza di Peiresc nelle questioni erudite è talmente forte che, al rientro di quest’ultimo in Provenza nel 1623, la sua rete epistolare, tesa dalla Francia verso l’area mediterranea, si intreccia con quella dei fratelli Dupuy, giovani cugini ed eredi spirituali di Jacques-Auguste De Thou, consentendo in questo modo anche agli eruditi italiani di inserirsi in questo prolifico e ricco dedalo epistolare. A sua volta, il carteggio Dupuy, un tempo occasionale e «in-termittente», si infittisce molto rapidamente sotto le nuove spinte dei fratelli Pierre e Jacques, divenendo un importantissimo canale comunicativo fra di-verse aree dell’Europa secentesca: dalla Francia ai maggiori centri culturali olan-desi, Leida in particolar modo, dalla Germania a Roma, la quale, sotto il pon-tificato di Urbano VIII, si conferma come crocevia fondamentale dell’informa-zione erudito-scientifica e delle notizie politiche provenienti da tutte le corti europee e dai fronti di guerra.

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ANDREA COLOPI

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Come ricorda Fumaroli, un ruolo chiave nella Repubblica di fi-ne Cinquecento venne svolto dal già citato Pinelli, il quale fu in grado, per usare le parole d’elogio di Jacques Auguste de Thou, di creare un «magistero letterario universale» nei territori della Sere-nissima Repubblica, Padova in particolare.40 Identificato dallo stu-dioso francese come il moderno Pomponio Attico, sempre lontano dalle lotte politiche del foro, Pinelli, avulso dal contesto politico europeo cinquecentesco, caratterizzato da feroci guerre di religione, fu in grado, come ricordato in precedenza, di instaurare legami con molteplici circoli culturali – espressione diretta della ‘Repubblica delle lettere’ destinati a durare nel tempo e a diventare eredità per alcune grandi personalità erudite di primo Seicento fra cui Dome-nico Molin e Lorenzo Pignoria. Se con Fumaroli si può certamente sostenere che alla morte di Pinelli, nel 1601, la Repubblica lettera-ria si spostò definitivamente verso Nord (in Francia e nelle Fian-dre), anche in virtù della nomina di Nicolas-Claude Fabri de Pei-resc a successore di Pinelli nella guida della Repubblica, nomina citata anche da Gualdo nella Vita di Pinelli,41 tuttavia il carteggio inedito Pignoria-Molin rivela la persistenza dell’influenza veneziana e padovana nelle questioni erudite e nello scambio librario e di idee di inizio XVII secolo.

Appare quindi plausibile che a ereditare il testimone della tra-dizione pinelliana a Venezia fosse il senatore Domenico Molin, il quale sulla scorta dell’esempio di Pinelli, non solo si erse a tramite diretto fra i circoli eruditi d’Oltralpe e quello padovano, ma, al con-tempo, fu in grado di allestire una straordinaria biblioteca, la quale svolse la funzione di ‘palestra del gusto’ in grado di influenzare gli interessi degli intellettuali veneziani ed europei, riattivando così schemi già collaudati circa un trentennio prima dal primo principe della Repubblica. È dunque possibile, analizzando la natura dello scambio epistolare fra Pignoria e Molin, comparare le personali cor-rispondenze attivate da Pinelli e quelle innescate da Pignoria-Mo-lin, poiché, in entrambi i casi, esse sono spesso intrattenute per re-perire sulle diverse piazze europee esemplari di manoscritti e volu-

40. MARC FUMAROLI, La repubblica delle lettere, Milano, Adelphi, 2018, pp.

296-297. 41. Ivi, p. 299. Sulla biografia di Pinelli rimane ancora fondamentale l’opera

di PAOLO GUALDO, Vita Ioannis Vincentii Pinelli, Patricii Genuensis, Augustae Vindelicorum Ad Insigne Pinus, 1607, p. 110.

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mi, e oggi risultano non solo utili per ricostruire le loro imponenti biblioteche, ma anche per ricostruire quei fitti rapporti con figure chiave del mondo erudito del tempo.

Dopo questi brevi (ma significativi) esempi riguardanti la prima parte del carteggio, occorre ricordare l’accondiscendenza di Molin nei confronti sia di Pignoria sia di tutti quegli intellettuali che at-traverso il canonico gli chiedevano favori. Pertanto, nelle pagine se-guenti dedicate alla seconda sezione di lettere si mostrerà breve-mente la natura delle suppliche presentate da Pignoria al suo me-cenate.

L’oggetto delle continue richieste è il futuro del nipote di Pigno-ria, Antonio Talamona, il quale venne presentato a Molin in una lettera datata 20 dicembre 1625, in cui l’erudito padovano chiede espressamente al senatore di «pensare a qualche rimedio» per il gio-vane, affinché egli possa saperlo in mani sicure:

LETTERA N. 22.

Illustrissimo e colendissimo signor mio Padron colendissimo. Ecco innanzi a Vostra Eccellenza Antonio, mio nipote, suo servitore. Io la supplico in grazia a pensare a qualche rimedio acciocché ogni giorno io non abbia a far giuochi di testa ad istanza dell’altrui malignità. Monsignor Querengo, il quale m’ha consigliato a mandarlo costà, mi ha anco ricor-dato il mezzo dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Sebastiano Ve-niero.42 Vostra Eccellenza saprà ella meglio di noi quanto sarà espediente. Io vorrei che esso quanto prima ritornasse, perché questi non sono giorni da stare fuori di casa. […] Ho ricevuto ieri la sua benignissima lettera, la quale mi ha consolato molto e riempito di buona speranza. Piaccia a Dio che i suoi pensieri in mio pro sortiscano buon effetto. Io sto con molto desiderio per intender qualche particolare del signor Abbate e dell’Eccel-lentissimo Bronziero, che intesi li giorni passati non esser stato molto bene. Io mi sento alquanto meglio,43 desiderosissimo di poter senza impe-dimenti e leggere e scrivere qualche cosa. Fo umilissima riverenza a Vostra

42. La lettera venne scritta da Pignoria per presentare il nipote Antonio Tala-

mona a Domenico Molin, al quale l’erudito chiedeva di intercedere nel negozio riguardante l’assegnazione di una cappellania per il giovane. Inoltre, Pignoria, seguendo il consiglio di Flavio Querenghi, non solo presentò il nipote a Molin ma gli ricordò anche la possibilità di ottenere la protezione di Sebastiano Ve-niero, all’epoca capitano e consigliere della Repubblica veneziana. Sul Veniero cfr. CICOGNA, Delle iscrizioni veneziane, vol. IV, p. 448.

43. Il riferimento alla salute riguarda la malattia agli occhi che, nella lettera

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Eccellenza Illustrissima e desidero ogni più compiuta contentezza. Di Padova il dì 20 Dicembre 1625.

Nella lettera datata 6 giugno 1626 Pignoria avvisa il senatore

che la cappellania per la quale concorreva il nipote Antonio non vale la fatica a fronte di una rendita troppo esigua (trenta ducati), e chiede a Molin che il suo patrocinio gli venga serbato per altra occasione:

LETTERA N. 27.

La cappellania con pensione non farà per mio nipote, perché non porta la spesa che un galant’omo s’impegni in Domo per trenta ducati di rendita, e lo spedire bolle a Roma, come saria necessario in questo caso, è in tutto incompatibile con la tenuità della mia poca fortuna. Rendo però grazie infinite alla benignità di Vostra Eccellenza e la prego a serbarmi il suo pa-trocinio ad altra occorrenza. A distanza di quattro giorni Pignoria scrive a Molin di aver ricevuto una sua lettera sullo stesso argomento per mano di Marcantonio Quirini:44

LETTERA N. 28.

Oggi io ho ricevuto una lettera dell’Illustrissimo Signor Marc’Antonio Querini con una inclusa di Vostra Eccellenza Illustrissima aperta indiriz-zata a me. Mi offerisce la Cappellania vacante con trentasei Ducati di pen-sione. Io gl’ho reso grazia e liberatomene. Se a Dio piacerà, mio Nipote rimarrà provisto di altro, con la bona grazia di Vostra Eccellenza la quale io confido che non gli sia mai per mancare. La lettera allegata di Molin conteneva l’offerta della Cappellania vacante con trentasei ducati di pensione; ma Pignoria ancora la re-spinge, confidando che Antonio resterà provvisto in altro modo, sempre grazie alla benevolenza di Molin.

Il carteggio nella sua totalità non solo ci presenta un rapporto clientelare fra i due intellettuali, ma dischiude anche preziosissime

precedente, datata 8 dicembre 1625, ha costretto Pignoria ad un riposo forzato dalla lettura e dalla scrittura. Si intuisce come l’erudito sia ancora convalescente poiché la lettera non è scritta di suo pugno (come quella che la precede).

44. Sulla biografia di Quirini rimando a CICOGNA, Delle iscrizioni veneziane, vol. V., p. 77.

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informazioni legate alle collezioni librarie di inizio Seicento. A tal proposito risulta opportuno richiamare la riflessione promossa da Angela Nuovo, secondo la quale «le fonti essenziali per studiare le formazioni delle biblioteche private rimangono i carteggi, i cosid-detti carteggi eruditi che forse sarebbe il caso di chiamare carteggi bibliografici»:45 scambi epistolari che (come avvenne per Pinelli) an-che per Pignoria non solo sottendono la costruzione della bibliote-ca privata, ma riferiscono anche della fitta trama internazionale di intellettuali che, attraverso acquisti incrociati, spedizioni e control-lo del mercato librario, hanno accresciuto le grandi collezioni euro-pee.

45. ANGELA NUOVO, «Et amicorum»: costruzione e circolazione del sapere nelle bi-

blioteche private del Cinquecento, in Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della congregazione dell’Indice, Atti del Convegno Internazionale, Macerata 30 maggio - 1° giugno 2006, a cura di Rosa Marisa Borraccini e Roberto Rusconi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2006, pp. 107-108.

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LUCA CERIOTTI

DON VALERIANO

E ALCUNE LETTERE DI MINIMA IMPORTANZA

Nel 1642 don Valeriano Castiglione pubblica un centinaio di sue brevi lettere che definisce di ringraziamento e lode.1 Il verbo ‘pub-blica’ è quantomai calzante. I tipi sono quelli piemontesi degli eredi di Giovanni Domenico Tarino, ma è certo a Castiglione che si deve l’iniziativa di mettere in stampa la raccolta. D’altro canto, trattan-dosi di lettere private, il gesto è appunto quello di pubblicarle, di darle in pasto a un pubblico ulteriore rispetto a coloro che in ori-gine ne erano stati i destinatari. Ciò detto, ben poco c’è da aggiun-gere, su questi materiali, a quanto di recente ha scritto Carminati.2 E pure su Castiglione, dopo che Continisio si è fatta carico di revo-care in dubbio la grigia fama di letterato insulso, di eroe negativo della biblioteca di don Ferrante che grava ormai da secoli sull’am-bizioso e ambiguo monaco ambrosiano.3 Prenderò quindi le cose un po’ alla larga, cercando dapprima di apporre qualche punto fer-mo, talvolta anche un punto interrogativo, alla biografia di Casti-glione, specie quella di figlio, seppure sui generis, della congregazio-ne benedettina cassinese. Tornerò poi alle sue lettere date al tor-chio, verificando se con l’ausilio di questi nuovi dati può riuscire utile, su tali missive, un supplemento di considerazione.

Castiglione nasce a Milano il 3 gennaio 1593. Professa i voti re-ligiosi in S. Simpliciano il primo di novembre 1610.4 Placido Pucci-

1. VALERIANO CASTIGLIONE, Lettere di ringratiamento e lode, Torino, Tarino,

1642. 2. CLIZIA CARMINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di antico regime,

a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 91-118, specie alle pp. 103-104 e 114-115.

3. CHIARA CONTINISIO, Valeriano Castiglione, tacitista, neostoico e cortigiano, in Lo scrittoio dell’intellettuale. Il conflitto: itinerari storico-politici, a cura di Giorgio Scichilone e Marta Ferronato, Canterano, Aracne, 2016, pp. 79-96; EAD., Frammenti per la biografia politica di Valeriano Castiglione, con l’inedito ‘Discorso sopra le maldicenze’, «Il pensiero politico», LI, 2018, pp. 69-92.

4. La prima informazione è di origine autobiografica, essendo tràdita da Le glorie de gli Incogniti o vero gli huomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti,

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LUCA CERIOTTI

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nelli, uno che conosceva a fondo il panorama erudito cassinese e sovente si compiaceva di ricordarne amichevolmente le figure, cade dunque in errore quando a metà Seicento, nell’isolato passo in cui accenna all’autore dello Statista regnante, asserisce che questi fu ve-stito nel 1601 dall’abate Pio Camuzio grazie all’intercessione di Graziano Trezzi, anch’egli, di lì a poco, abate.5 Confonde infatti Castiglione con Valeriano Vallassina (Vallasina), accolto appunto nel 1601 e ammesso alla professione il 31 maggio 1602.6 Unicità e inesattezza della menzione sono comunque rilevanti. L’una dimo-stra come, ancor vivo, l’allora storiografo di casa Savoia già fosse ai margini dell’orizzonte di conversazione cassinese. L’altra ci avvisa quanto poco potesse valere il nome Valeriano – impostogli, dall’ap-pena citato abate Trezzi, forse per commemorare proprio il Vallas-sina, che tutto fa pensare morto in età davvero prematura – per uno che non sembra avere avuto profondo anelito alla vita mona-stica, né tantomeno robusta vocazione all’obbedienza.

Per inciso, se è vero che egli asseriva «se a decimo sexto aetatis anno typis concedere scripta coepisse»,7 diremmo adesso all’età di

Venezia, Valvasense, 1647, p. 421. La seconda è confermata anche da ARCAN-

GELO BOSSI, Matricula monachorum Congregationis Casinensis ordinis sancti Bene-dicti, a cura di Leandro Novelli e Giovanni Spinelli, Cesena, Centro Storico Benedettino Italiano, 1983, p. 585.

5. PLACIDO PUCCINELLI, Chronicon insignis monasterii Ss. Petri et Pauli de Gla-xiate Mediolani, Milano, Malatesta, [1655], p. 259. La specificazione in queste righe del governo abbaziale esercitato all’epoca da Camuzio complica la possi-bilità di pensare a un mero lapsus, 1601 per 1610, e apre la strada alla consta-tazione, come si dirà, di uno scambio di persona.

6. Per il giorno della professione, vedi ancora BOSSI, Matricula, p. 585. Val-lassina risulta anch’egli autore di precoci prove poetiche, accolte ad esempio nel paratesto di COSTANTINO NOTARI, Il duello dell’ignoranza e della scienza, Mi-lano, Bordone, Locarno e Lantoni, 1607. Un suo congiunto, professo col nome di Carlo il 16 novembre 1608, fu anch’egli monaco della famiglia di S. Simpliciano.

7. MARIANO ARMELLINI, Bibliotheca Benedectino Casinensis, sive scriptorum Ca-sinensis Congregationis alias Sanctae Iustinae Patavinae, qui in ea ad haec usque tem-pora floruerunt, operum ac gestorum notitiae, II, Assisi, Sgariglia, 1732, p. 202, as-serendo di citare direttamente dalla «epistola ad lectorem» di VALERIANO CA-

STIGLIONE, Panegyris illustrissimo ac reverendissimo domino Sanctae Romanae Eccle-siae cardinali domino Ludovico Ludovisio Gregorii XV pontificis optimi maximi ex fra-tre nepoti augustissimi, Ravenna, De Paoli e Giovannelli, 1621. Non ho control-lato l’informazione. Noto soltanto che FILIPPO ARGELATI, Bibliotheca scriptorum

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quindici anni, cioè insomma nel 1608, sarà sotto il suo nome al secolo, tuttora sconosciuto, che eventualmente se ne rintracceran-no gli esordi letterari carezzati dall’onore della stampa. Per ora dob-biamo restar fermi all’uscita dalle officine tipografiche di pochi ver-si latini omaggiati nel 1617 rispettivamente a Ludovico Pirovano e a Giovanni Battista Cauzzi, nulla di più remoto essendo ancora ve-nuto scopertamente in luce.8

Mediolanensium, Milano, Tipografia Palatina, 1745, I/2, col. 389, la ripete, però rinviando, se ho ben capito, alla premessa L’autore a chi legge posta in apertura di VALERIANO CASTIGLIONE, La rosa, panegirico in congratulatione all’illustrissimo e reverendissimo signore il signor cardinale Alessandro Orsino nuovo legato della Roma-gna, Ravenna, De Paoli e Giovannelli, 1621, pp. 5-7. Il brano, tuttavia, non riconduce a simile asserzione, come nemmeno accade in altra sua prova orato-ria messa in stampa e a questa pressoché gemella, ossia in ID., Panegirico agl’il-lustrissimi et eccellentissimi signori don Gio. Giorgio Aldobrandino prencipe di Meldula e donna Ippolita Ludovisia sposi felicissimi, Ravenna, De Paoli e Giovannelli, 1621.

8. Mi riferisco da un lato alla miscellanea, coordinata da Nicolò Arrigoni, In delatam iuris utriusque perillustri domini Ludovico Pirovano patritio Mediolanensis almi Collegii Borromaei alumno, et in urbis patriae templo maximo canonico ordinario poetici concentus, Pavia, Ardizzoni, 1617, descritta in Edizioni pavesi del Seicento. Il primo trentennio, a cura di Elisa Grignani e Carla Mazzoleni, Milano, Cisal-pino, 2000, pp. 257-258, n. 200 (17/3); dall’altro, all’idillio Trionfo filosofico inserto nella raccolta, sorvegliata da Giovanni Battista Marinoni, Carmina in perillustris domini Ioannis Baptistae Cavucii patrici Cremonensis philosophi renunciati lauream, Pavia, Ardizzoni, 1617, già segnalato da CONTINISIO, Valeriano Casti-glione, pp. 80-81, senza però indicare alcun esemplare di riferimento (se ne tro-vano, comunque, oltre che nella Biblioteca statale e Libreria civica di Cremona, anche a Milano, in Ambrosiana, segn. S.T.E.VIII.10.16, tuttora non perfetta-mente catalogato). In passato, biografi e bibliografi di Castiglione hanno però censito suoi interventi a stampa risalenti anche al 1616, se non prima: cfr. p.e. con ARMELLINI, Bibliotheca Benedectino Casinensis, II, pp. 203-204; ARGELATI, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, I/2, col. 389; GINO BENZONI, Castiglione, Valeriano, in Dizionario biografico degli italiani [DBI], Roma, Istituto della Enci-clopedia italiana, XXII, 1979, pp. 106-114, a p. 107. Interessante, in partico-lare, parrebbero la Clio, fascio di versi in lode di Federico Borromeo associati al datum tipografico Milano, Marco Tullio Paganello, 1616 (parzialmente rife-rito già da FILIPPO PICINELLI, Ateneo dei letterati milanesi, Milano, Vigone, 1670, p. 508) e l’Euterpe, poema dedicato ad Angelo Grillo mentre era presidente della congregazione cassinese, parimenti datato in letteratura Milano, Paga-nello, 1616 (cfr. p.e. con LUCA CERIOTTI, Schede epistolari per Angelo Grillo, Pio Muzio e Fortunato Olmo, «Benedictina», LXI, 2014, pp. 251-270, a p. 255: da recuperare la segnalazione ivi proposta di una lettera s.d. di Girolamo Borsieri a Stefano Moro, ora in Como, Biblioteca Comunale, ms. sup. 2.3.44, pp. 198-

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LUCA CERIOTTI

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Tornando al giovane monaco, un primo documento lo coglie in S. Simpliciano nel maggio 1611, pochi mesi dopo la professio-ne.9 Tengono le redini della comunità di cui è appena entrato a fare parte, oltre al nuovo abate Valeriano Degani, due Orrigoni: Gio-vanni Battista, abate titolare, e Clemente, allora priore, più avanti abate. Altri, Stefano Figini e Graziano Guzzi, saranno in seguito uo-mini di governo e membri influenti della congregazione. Sparuta invece, sembrerebbe, la pattuglia degli eruditi, ove profili notevoli risultano forse soltanto quelli dello stesso Degani e del bresciano Costanzo Salvi.10 Ma è un’immagine effimera, o distorta. Il quadro restituitoci poche stagioni dopo, in due istantanee del 1614 e del 1617, sarà infatti di tutt’altra ricchezza. È bene relegare in nota un

199, ove sono presentati in termini encomiastici e l’operina, e il suo giovane autore). Da notare che Paganello in quel torno di tempo stampava opere di argomento medico di Pietro Maria Castiglione, identificabile, anche per il tra-mite delle Lettere di ringratiamento e lode, pp. 25-26, in un fratello di Valeriano. Pure per questo le citate indicazioni suonano plausibili, e restano importanti, perché aprono all’idea di un monaco già attivo nel circuito intellettuale prima del suo trasferimento a Pavia. Ammetto tuttavia di non averle approfondite ai fini di questo lavoro.

9. Milano, Archivio di Stato, Archivio generale del Fondo di religione, 1651, no-tula dei partecipanti a riunione capitolare del 20 maggio 1611. Per identificare i presenti, sommariamente indicati, come era uso, col solo nome in sacris, ed elencati, come pure era uso e salvo occasionali imprecisioni, in ordine di grado e di anzianità, mi sono avvalso di altra, più completa lista, in Padova, Archivio di Stato, Corporazioni religiose soppresse, Santa Giustina, 422, Conventus Sancti Sim-pliciani de Mediolano 1605, che di ogni membro del conventus riporta anche il luogo e la data di professione. Il documento è utile anche per conoscere l’effet-tiva consistenza numerica della famiglia monastica di S. Simpliciano, trentatré professi più due giovani ancora in probazione, mentre il citato elenco del 1611 (come di norma tutti gli atti consimili, che non censivano gli assenti, dispensati o esclusi dalle assise capitolari, comunque valide, se partecipate da almeno i due terzi di coloro che ne avevano diritto) si ferma a ventiquattro unità.

10. Questa la compagine monastica compresa nella lista, intendendosi, ove non altrimenti specificato, l’origine dei monaci essere Milano: Valeriano De-gani abate (professo nel 1579), Giovanni Battista Orrigoni abate titolare (1570), Clemente Orrigoni priore (1576), Benigno (1572), Aurelio (1575), Giu-seppe (1580), Cornelio (1582), Stefano Figini (1588), Filippo (1578, il più an-ziano di coloro che non erano decani), Eugenio (1590), Costanzo (1591), An-gelo (1593), Basilio (1594), Venanzio da Bubbio (1595), Marco Robbia (1596), Costanzo Salvi da Brescia (1597), Giovanni Battista (1606), Graziano Guzzi (1606), Giuliano Caimi (1608), Carlo Vallassina (1608), Antonio da Nizza (1609), Felice Pairana (1609), Valeriano Castiglione (1610), Clemente (1610).

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LETTERE DI DON VALERIANO

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numero di nomi che poco dice ormai a quattro specialisti, e nulla all’improbabile quinto lettore.11 Il senso però è chiaro. Da un lato l’accostamento di questi tre tasselli ci informa che per molti anni, sino appunto al 1617, un tratto di tempo un po’ più lungo di quan-to di solito avveniva alle buone tempre della congregazione, Casti-glione restò ancorato al monastero di professione. Dall’altro, poi-ché la regola benedettina, declinata secondo il costume cassinese, prevedeva che il primo quinquennio almeno dopo i voti fosse con-sumato nel ritiro dei chiostri conventuali, esso ci restituisce l’am-piezza dei contatti culturali, anzi direi i termini di una forzata con-vivenza culturale, dalla quale a Castiglione sarebbe stato impossibi-le sottrarsi. Le variazioni rispetto al consueto, le nuove occasioni di confronto erano dunque date soprattutto dalle mutationes, dall’an-dare e venire di alcuni confratelli. Milano era città piccola, i confini claustrali non impenetrabili: altri contatti, altre influenze, altre pie-tre di paragone gli furono senz’altro accessibili, specie nel giro degli intellettuali che erano di casa in Ambrosiana. Quelle monastiche,

11. Milano, Archivio di Stato, Archivio generale del Fondo di religione, 1653, ca-

pitolo del 3 giugno 1614: Pietro da Lonato abate (professo nel 1564; ad atte-starlo provenire da Lonato, diocesi di Brescia, è per esempio PLACIDO PUCCI-

NELLI, Nomenclatura omnium abbatum congregationis unitatis S. Iustinae Patavii nunc Casinensis, Milano, Camagno, 1647, p. 34, ma il documento scrive a Lo-nate, essendo Lonate allora e oggi nella diocesi di Milano), Ignazio da Otranto priore (1584), Benigno (1572), Serafino Cantoni (1580), Cornelio (1582), Paolo (1589), Filippo (1578), Urbano (1591), Benedetto Settala (1593), Am-brogio Brivio (1594), Dionigi Taverna (1599), Girolamo da Messina (1601), Giovanni Battista (1606), Graziano Guzzi (1606), Pietro Maria da Modena (1606), Felice da Roma (1607), Carlo Vallassina (1608), Pio da Sant’Oreste (da Roma, 1608), Felice Pairana (1609), Valeriano Castiglione (1610), Clemente (1610). Ritrovo infine in Milano, Archivio di Stato, Archivio generale del Fondo di religione, 1625, capitolo del 7 gennaio 1617: Graziano Trezzi abate (professo nel 1579), Pio Muzio priore (1589), Benigno (1572), Serafino Cantoni (1580), Cornelio (1582), Danesio da Piacenza (1588), Fulgenzio (1592), Paolo (1589), Filippo (1578), Gabriele Crivelli (1592), Benedetto Settala (1593), Ambrogio Brivio (1594), Marco Robbia (1596), Francesco da Como (1604), Alessandro Orioles da Palermo (1604), Giovanni Battista (1606), Alfonso Lampugnani (1606), Pietro Maria da Modena (1606), Pio da Sant’Oreste (da Roma, 1608), Mauro da Asti (1608), Felice Pairana (1609), Tommaso Mannarino da Palermo (1609), Urbano Susinno da Palermo (1610), Valeriano Castiglione (1610), Cle-mente (1610), Serafino Fontana (1614), Ilario Bologna (1616), Paolo Ballada da Pavia (1616), Ludovico Biscotti da Pavia (1616).

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tuttavia, possiamo ritenere fossero allora prevalenti, magari non per scelta, però per oggettiva costrizione.

Dopo la protratta residenza in S. Simpliciano, alcuni indizi con-vergono nel far ritenere Castiglione trasferito in uno dei due mo-nasteri cassinesi – quello intitolato al Santo Spirito e a san Gallo, oppure l’altro, più florido e comodo, dedicato al Santissimo Salva-tore – di Pavia. Dalla città sul Ticino troviamo infatti inviato un paio di sue lettere, purtroppo prive di data cronica, almeno una delle quali, a Benedetto Sossago, può tuttavia essere collocata con ristretto margine di incertezza in questo periodo.12 Tra il 1617 e il 1618, inoltre, Castiglione partecipa a un insieme notevole di mi-scellanee poetiche d’occasione, tutte edite in Pavia, dove anche dà in stampa L’accoglienze del cielo sotto il suo proprio nome.13 Plausi-bilmente nel 1618 infine, ma credo dopo avere già lasciato da qual-che settimana il territorio, egli viene cooptato nel consesso locale degli accademici Affidati.14 Nessuno di questi segnali è di per sé

12. CASTIGLIONE, Lettere di ringratiamento e lode, pp. 83, 93. La prima missiva,

quella appunto a Sossago, reca ringraziamenti per un epigramma celebrativo della laurea in medicina e arti di un fratello di Castiglione, identificabile in Pietro Maria: pur volendo esercitare il massimo della prudenza, non la si può dunque ritenere posteriore al 1618.

13. Cfr. con Edizioni pavesi del Seicento, n. 200 (17/3), 221 (18/7), 225 (18/11, relativa a L’accoglienze del cielo, Pavia, Bartoli, 1618, con licenza di stampa data il primo maggio 1618 e dedicatoria, non di Castiglione, del 4 maggio 1618), 227 (18/13), 228 (18/14), 230 (18/16), 235 (18/21), 236 (18/22), 324 (29/2, mera ristampa tuttavia, o rinfrescatura, dell’ed. di cui alla scheda 18/22). Su L’accoglienze del cielo, «capriccio poetico» vergato per omaggiare la laurea in legge di Annibale Campeggi, vedi anche la scheda, a cura di Mirko Volpi, in ‘Sul Tesin piantàro i tuoi laureti’. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706), Pavia, Cardano, 2002, n. 2.20.

14. Faccio fede, a questo proposito, in particolare su SIRO COMI, Ricerche sto-riche sull’Accademia degli Affidati e sugli altri analoghi stabilimenti di Pavia, Pavia, nella stamperia Cominiana, 1792, pp. 63-65, ove si riporta che l’accademia, «dopo essere stata per alcuni anni incolta», riprese l’attività il 18 novembre 1618 grazie a una cinquantina di «accademici vecchi», ultimo dei quali è anno-verato appunto Castiglione. Fonte precipua di Comi appare Girolamo Bossi nel ms. Pavia, Biblioteca Universitaria, Ticinesi 181 (usualmente citato sotto il titolo di Studio di Pavia), cc. 119r-123r, ove l’ingresso di Castiglione è datato appunto al 1618. Da notare anche che in tutte le sopra richiamate edizioni pavesi Castiglione si qualifica come il Brillante tra gli Animosi di Cremona, e mai come Affidato, segnale, ritengo, che la sua formale aggregazione al sodali-zio pavese fu, rispetto a quelle stampe, successiva (e posteriore anche, per

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probante: una o più lettere si potevano vergare essendo anche sol-tanto di passaggio in un certo luogo; ad un fascicolo poetico, com-posto riunendo i contributi del solito gruppo di conoscenti e amici, si poteva venire chiamati a dare apporto senza alcun bisogno di es-sere sul posto; le accademie, infine, sovente arruolavano letterati noti soltanto per interposta persona o per via di raccomandazione, sfruttando le reti di relazione – come si usa dire oggi, con un tocco di ipocrita eleganza – di quei pochi eruditi che ne costituivano il vero motore. Ma, mettendo a sistema questi pur poco eloquenti da-ti, l’idea di un breve soggiorno pavese di Castiglione appare più so-lida di una mera congettura.15

quanto poi si vedrà, alla sua partenza da Pavia).

15. Per fissare un termine post quem riguardo all’inizio di questa supposta resi-denza, torna forse utile anche una lettera recentemente riportata in luce da ROBERTA FERRO, Tessere di letteratura italiana in epistolari latini lombardi di inizio Seicento: Girolamo Bossi, Aquilino Coppini, Sigismondo Boldoni, «Aevum», XC, 2016, pp. 629-644, alle pp. 631-632. Il documento è tratto da GIROLAMO

BOSSI, Centuria selectarum epistolarum, Pavia, Ardizzoni, 1620, pp. 31-32, e con-siste in un’epistola latina di Bossi a Tommaso Stigliani, data dalla sua personale stanza/museo che, mi sembra di intuire, doveva essere a Milano. Con essa, Bossi saluta novam editionem del Mondo nuovo e chiude con la preghiera, rivolta a Stigliani, di conservare allo scrivente quella benevolenza «quam verbis mihi tuis Valerianus Castillionaeus in suo reditu Parmensi denuntiavit». Senza voler avanzare congetture su quel novam editionem, che può benissimo attagliarsi alla princeps parziale piacentina del 1617 – sui successivi, più o meno attestati e più o meno riusciti tentativi di edizione cfr. comunque ora con CARLA ALOÈ, Go-mitoli letterari del ‘Mondo nuovo’ di Tommaso Stigliani, «Italique. Poésie italienne de la Reinassance», XIX, 2016, pp. 265-297 – è certo comunque che la citata princeps non fu anteriore al marzo 1617. Al 14 marzo data infatti il contratto per la messa in stampa, peraltro con patto di concludere il lavoro entro la fine del maggio prossimo a venire: GIORGIO FIORI, Tommaso Stigliani e Piacenza: un documento inedito, «Bollettino storico piacentino», LXXIII, 1988, pp. 229-233, a p. 232. Il capitolo generale cassinese quell’anno fu celebrato a San Benedetto Po a cominciare dal 22 aprile: supponendo che anche Castiglione vi si fosse recato, la via, non lineare, del ritorno avrebbe potuto condurlo a Parma, ove anche avrebbe incontrato il materano, prima di rientrare a Milano, salutare gli amici, tra i quali Bossi, e raccogliere le sue poche cose in vista di incamminarsi verso la sua nuova destinazione monastica, Pavia. Ma forse mi sbaglio: la lettera di Bossi fu scritta da Pavia, e il mio ragionamento si sgretola dalle radici. Vale comunque la pena di ricordare, quanto allo stretto legame che più o meno in questi anni teneva vicini Bossi e Castiglione, anche una acclamatio che il primo rivolse al secondo, ora in Milano, Biblioteca Ambrosiana, O 235 sup., GIRO-

LAMO BOSSI, Opuscula varia, cc. 23v-24r. Sappiano tutti – intonava qui il pavese

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Per inciso, l’indicazione di Samarini, che Castiglione sarebbe tra i destinatari delle lettere date ai tipografi da Annibale Guasco nel 1601, è in realtà fuorviante.16 Il monaco non entra nella com-pagine degli interlocutori epistolari di Guasco in nessuna delle tre raccolte, e delle quattro edizioni, con cui le corrispondenze del-l’alessandrino furono divulgate. Però è vero che a quella pavese del 1618 Castiglione contribuì con due epigrammi latini e due madri-gali indirizzati agli abati Gregorio e Giovanni Battista Sfondrati.17 E che simili componimenti furono offerti ai medesimi prelati an-che dal suo compagno, in religione come pure nelle stanze ove si tenevano accademie, Girolamo Bordoni. Come osserva Samarini, all’epoca Guasco non era a Pavia, lasciò l’iniziativa e la cura dell’al-lestimento tipografico a Girolamo Bossi.18 Si aggiunga che il volu-me fu stampato, da Giovanni Battista Rossi, «ad istanza di Agostino Bordoni», autore anche della lettera dedicatoria.19 Il cerchio si chiu-de: non ci sono prove di un contatto diretto tra Castiglione e Gua-sco. Peccato: è noto che quest’ultimo ebbe un figlio nell’entourage

nel suo stentoreo latino – quanto Valeriano Castiglione, patrizio milanese e amico come altri pochi, valga perfettamente il suo proprio nome e sia nato sotto un destino di gloria letteraria, del quale fa testo l’idillio da lui composto hetrusco sermone per celebrare la grandezza di alcuni celebri personaggi la cui effigie campeggia nel museo bossiano: il beato Alessandro Sauli, Andrea Al-ciato, san Carlo Borromeo, Ericio Puteano, Francesco Piccolomini, Kaspar Schoppe, Gaspare Trissino (sic), Giacomo Antonio Frigio, Giacomo Meno-chio, Giovanni Battista Costa, Giovanni Battista Marino, Giovanni Battista Sacco, Giovanni Pietro Imberto, Giulio Arese, Giusto Lipsio, Ludovico Settala, Marco Antonio Bonciari, Marco Antonio Maioragio, Marco Antonio Moreto, Paolo Manuzio, Piero Vettori, Filippo Massini, Scipione Borghese (ho riportato la serie di queste reciprocamente tanto eterogenee personalità nell’ordine rigo-rosamente alfabetico, nel senso di allora, scelto da Bossi per elencarle).

16. FRANCESCO SAMARINI, «I torti dell’opera a me fatti». Annibale Guasco e le stampe delle sue lettere, in «Le lettere sono imagini di chi le scrive». Corrispondenze di letterati di Cinque e Seicento, a cura di Roberta Ferro, Sarnico, Edizioni di Archi-let, 2018, pp. 121-156, a p. 137.

17. Lo ravvisa anche SAMARINI, I torti dell’opera, pp. 151-152. 18. Ai dati interni alla raccolta, vagliati in proposito da SAMARINI, I torti

dell’opera, p. 152, si può comunque aggiungere una seconda lettera a Girolamo Bossi – anch’essa in ANNIBALE GUASCO, Lettere, Pavia, Rossi, 1618, p. 216 – che torna ancora sull’argomento della cura editoriale a lui affidata.

19. SAMARINI, I torti dell’opera, p. 150. Anche la dedicatoria è indirizzata ai due Sfondrati, non, come sfugge allo studioso, «a Gregorio Abbati e Giovanni Bat-tista Sfondrati».

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del cardinale Maurizio di Savoia e una figlia, Lavinia, dama di com-pagnia dell’infanta Cristina. Sarebbe stata una spiegazione, ma non lo è, di come Castiglione riuscì a passare dalle brume pavesi alla brumosa corte di Torino.

Nel settembre 1618 Pio Muzio, in viaggio alla volta di Parigi, inviato dal capitolo generale della congregazione in missione diplo-matica alla corte di Luigi XIII con la speranza di sciogliere il nodo della minacciata riduzione in commenda dell’abbazia di S. Onorato di Lérins, si ferma qualche giorno a Pavia e prende alloggio nel mo-nastero del Santo Spirito. Il 14 settembre, annota sul suo diario, «dopo pranzo, saputo che il reverendissimo [Angelo] Grillo era gionto a S. Salvatore – l’altra abbazia cassinese di Pavia – andai a visitarlo, e mi trattenni seco con molto gusto due ore».20 La sintonia con l’allora abate di S. Paolo d’Argon è tale che torna a trovarlo ogni giorno seguente, il 15, il 16 e il 17 settembre, finché il 18 si rimette in strada verso la sua meta d’oltralpe. Piace pensare, ma non ne ho le prove, che sullo sfondo di questi ripetuti incontri si possa intravedere anche Castiglione. Voci diverse, in ogni caso, in-sistono sulla protezione e la prossimità accordate dall’illustre pre-lato ligure al promettente letterato. Girolamo Borsieri, nel com-porre una terna di astri nascenti dell’erudizione milanese cresciuti all’ombra dei chiostri cassinesi, nel 1619, a fianco di Muzio e di Agostino Lampugnani pone infatti il nome di Castiglione – con cui, si è visto, da tempo già era in rapporto – e lo dipinge appunto sotto l’egida di Grillo, «che lo tien seco d’habitatione».21 Molti anni dopo Le glorie de gli Incogniti, che come è noto si snodano per lo più sopra una serie di tracce autobiografiche, ricorderanno i tempi in

20. Il diario della missione è tràdito dal Braidense AF.IX.13, ma ho tratto dalla

trascrizione resane da ERMINIA BOBBIO, L’inedito ‘Viaggio di Francia, 1618’ di Pio Muzio (1574-1649), tesi di laurea, rel. Claudio Scarpati, Milano, Università Cattolica, a.a. 1994-1995, pp. 54-55. Sul rendiconto di Muzio, utile anche BRUNA CONCONI, Il viaggio in Francia di Pio Muzio. Scorci di paesaggio di inizio Seicento tra istanze ideologiche e paradigmi letterari, in La percezione del paesaggio nel Rinascimento, a cura di Ada Myriam Scanu, Bologna, Clueb, 2004, pp. 49-67.

21. GIROLAMO BORSIERI, Il supplimento della nobiltà di Milano, Milano, Bidelli, 1619, p. 44: «Milita nella medesima congregatione [cassinese], benché giovane ancora, don Valeriano Castiglione, che ha molto spirito nella poesia e nelle prose latine, e già ha stampate alcune opere poetiche attribuite alle muse e fatti gli elogi della casa Grilla indotto dal padre don Angiolo Grillo, che lo tien seco d’habitatione».

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cui il monaco ambrosiano «dimorava in Bergamo sotto il governo dell’abbate Grillo, da cui per le sue nobili conditioni veniva singo-larmente amato».22 Riflesso di tale benevolenza furono anche l’ospi-talità accordata da Grillo, nel paratesto della Aggiunta alli Pietosi af-fetti, poesie miste (Venezia, Deuchino, 1620), a un madrigale di Ca-stiglione, che spese qui per il suo mentore il nome di Mecenate,23 nonché l’aggregazione, favorita dal genovese, del nostro all’accade-mia bresciana degli Erranti.24

Dunque, conclusa l’esperienza pavese, Castiglione si sposta di là dall’Adda. Un’attestazione certa della sua presenza in S. Paolo d’Argon risale al 26 settembre 1618.25 La comunità monastica era piuttosto piccola, il monastero isolato in mezzo alla campagna e, tolto ovviamente l’abate Grillo, non molto frequentato dalle anime dotte. Disponeva però nella vicina Bergamo di una «casa citta-dina»:26 questa sì confacente alle esigenze di contatto del letterato

22. Le glorie de gli Incogniti, p. 422. 23. ELIO DURANTE – ANNA MARTELLOTTI, Don Angelo Grillo o.s.b. alias Livio

Celiano poeta per musica del secolo decimosesto, Firenze, S.P.E.S., 1989, p. 275. 24. Ancora Le glorie de gli Incogniti, p. 422. Nel quadro del legame tra Casti-

glione e Grillo, andrebbe considerata pure la dedica dell’Euterpe al ligure nel 1616, a cui già accennavo sopra. Si deve però tenere in conto anche la circo-stanza che allora Grillo rivestiva l’incarico di presidente della congregazione: il fatto che un giovane monaco omaggiasse un proprio scritto al proprio massimo superiore rientrava dunque in una consuetudine che, almeno in parte, toglie all’episodio la capacità di evocare una specifica affezione.

25. Bergamo, Archivio di Stato, Notarile, not. Giovanni Battista Zonca, 5862, capitolo del 26 settembre 1618 per conferimento di procura al cellerario Ago-stino da Venezia. Figurano riuniti: Angelo Grillo da Genova abate (professo nel 1572), Antonio Ciniselli da Milano priore (1593), Simpliciano da Brescia (1568), Serafino da Milano (probabilmente Serafino Cantoni, 1580), Giovanni Battista da Verona (1590), Placido da Parma (1594), Paolo da Genova (1599), Feliciano Taverna da Milano (1602), Angelo da Venezia (1594), Pellegrino da Modena (1600), Prospero Gazzola da Milano (1605), Marco Zerbi da Pavia (1610: BOSSI, Matricula, p. 337 lo registra professo nel 1609, ma il millesimo può essere rettificato per esempio attraverso la matricola Ravenna, Biblioteca Classense, 536, c. 128v), Girolamo Peri da Genova (1610), Giulio Fontana da Parma (1610), Valeriano Castiglione da Milano (1610), Giacinto Cattaneo da Verona (1610).

26. Mutuo l’espressione, che mi pare qui molto confacente, da MARIO SIGI-

SMONDI, San Paolo d’Argon e il suo monastero, San Paolo d’Argon, s.e., 1979, p. 165.

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milanese e, per quanto ci consta, da lui utilizzata a più riprese.27 Ne fa fede anche una porzione della corrispondenza intavolata con Ot-tavio Rossi in questo periodo.28

Delle lettere fatte pubblicare dall’erudito bresciano un altro col-laboratore di Archilet, Giacomo Marzullo, per l’occasione di que-sto volume ha assunto l’impegno dello studio: qui non occorre, al-lora, inoltrarsi nell’analisi. Basterà osservare che, nel tratto in cui dialogano con Castiglione, sfoggiano inizialmente una curiosità in-tellettuale del monaco benedettino per una volta lontana dall’arena del panegirico d’occasione, anzi insinuata sino nei meandri del-l’epigrafia lapidaria, nonché il sostrato di un intreccio di relazioni che, se non millantato, comprendeva persino il bel nome di Ericio Puteano (ossia, in altri e più concreti termini, si era appropriato di un sottoinsieme significativo delle interazioni di cui godeva la vita culturale vissuta in Ambrosiana). Peraltro, le citate lettere testimo-niano un ritorno di Castiglione a Milano, per ora non sappiamo se e quanto duraturo o provvisorio, comunque posteriore alla sua mu-tatio in S. Paolo d’Argon. E infine lambiscono il tema della sua ammissione negli Erranti, che la storiografia usualmente colloca «attorno al 1620».29 Tale letteratura – facendo leva su un passo de Le glorie de gli Incogniti, in cui si legge che egli «fece la prima attione nell’aprirsi dell’accademia»30 – si è presto spinta ad assegnargli un

27. Oltre a quanto indicherò nella nota che segue, vedi anche le Lettere di

ringratiamento e lode, pp. 93-94. 28. OTTAVIO ROSSI, Lettere, Brescia, Fontana, 1621, pp. 303-304 (da Casti-

glione a Rossi, s.d., come ogni altra superstite traccia di questo commercio epi-stolare, ma che pare costituirne l’innesco e, per i suoi riferimenti interni, non può comunque essere datata anteriormente al 1616), 58-60 (da Rossi a Casti-glione, ad Argon, probabile responsiva della precedente), 63-64 (da Rossi, a nome anche degli accademici Erranti, a Castiglione, a Bergamo), 249-252 (da Rossi a Castiglione, ad Argon, posteriore all’ammissione del destinatario negli Erranti), 253-254 (da Rossi a Castiglione, ad Argon, probabile replica, un po’ piccata, alla risposta che il milanese dovette dare alla lettera edita alle pp. 249-252). Più tardo, e direi risalente agli anni venti del Seicento, giudicherei invece un ultimo biglietto, spedito a Rossi da Milano, ora accostabile alle succitate missive per il tramite di CASTIGLIONE, Lettere di ringratiamento e lode, pp. 22-23. Qui, alle pp. 52-53, da considerare pure il foglio di gratitudine sporto agli Er-ranti reagendo alla notizia di essere stato cooptato nel sodalizio, se non altro per il dettaglio di apparire anch’esso inviato da Milano.

29. Così p.e. BENZONI, Castiglione, p. 107. 30. Le glorie de gli Incogniti, p. 422.

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ruolo di assoluto prestigio nel quadro cerimoniale del giorno di i-naugurazione della stessa.31 Sarebbe stato un riconoscimento di no-tevole importanza, ma non accadde, non almeno ai tempi della fon-dazione del consesso. Questo si riuniva già dal 1619, nel monastero dei Ss. Faustino e Giovita, sotto l’egida dell’allora priore Lattanzio Stella e con il favore dell’abate Silvio, fratello di Lattanzio e, all’e-poca, personaggio forse il più in vista di tutto il monachesimo lo-cale. Quando Castiglione vi si accostò, anche facendo perno a più riprese sulla disponibilità a corrispondere di Rossi, si era già dato una precisa struttura istituzionale e un calendario di sedute abba-stanza fitto.32 Il letterato milanese, dunque, potrebbe anche solo aver dato inizio alla giostra degli interventi non della prima, ma di una qualsiasi altra riunione. Oppure, se pretendiamo di conciliare la tradizione storiografica con questi ultimi rilievi, a quella con cui non pochi anni dopo, nel 1626, fu celebrata con i dovuti fasti l’apertura ufficiale del sodalizio.33 Da notare, in ogni caso, che la controparte prevalente di Castiglione in relazione a tale ambiente parrebbe essere stato appunto Rossi, non gli Stella, che pure si muovono sullo sfondo di questo dialogo epistolare, o altri cassinesi all’epoca residenti nelle abbazie bresciane: segno forse di un’attitu-dine a comunicare che già allora si contraeva, in Castiglione, di fronte a quegli interlocutori che, come lui, appartenevano al mon-do monastico benedettino.

Nel settembre del 1624 Castiglione dedica a Pio Muzio l’edi-zione a stampa de Il vino, discorso accademico che ne suggella l’am-missione tra i Filarmonici di Verona.34 Il piccolo allestimento tipo-grafico e lo scarno fascicolo di lettere che vi si può associare da un

31. Così, infatti, già in PICINELLI, Ateneo, p. 508, e ARMELLINI, Bibliotheca

Benedectino Casinensis, II, p. 201. 32. Cfr. p.e. con ROSSI, Lettere, p. 253. 33. Antonio FAPPANI, Enciclopedia bresciana, III, Brescia, La voce del popolo,

1978, s.v. Erranti. 34. VALERIANO CASTIGLIONE, Il vino, Milano, Ferioli, 1624. Presta specifica

attenzione all’operina CHIARA CONTINISIO, «Il duello del vino e dell’amore» in un discorso accademico della prima metà del Seicento, in Il vino: forza rigenerante o spinta verso l’ebrietà?, a cura di Francesco Filotico, Siena, Città del Vino, 2018, pp. 51-79, soffermandosi, alle pp. 58-59, anche sulla dedicatoria a Muzio, segnata in Milano il 20 settembre 1624. Come già in parte ricordato da Continisio, la proposta di accogliere Castiglione tra i Filarmonici fu esaminata dai suoi reg-genti il 15 gennaio 1624 (Atti dell’Accademia Filarmonica di Verona, II, 1605-

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lato testimoniano forse per l’ultima volta l’esistenza di un’armonia, almeno di facciata, con l’abate autore delle Considerationi sopra Cor-nelio Tacito; dall’altro ne comprovano la residenza a Milano, in S. Simpliciano, almeno dal febbraio al settembre, appunto, del 1624, ma, se non vi furono strappi alla regola del meccanismo cassinese delle mutationes, potremmo congetturare per gli interi anni mona-stici 1623-1625. Come si vedrà, un successivo documento episto-lare segnalerà poi la presenza di Castiglione nel monastero ambro-siano ancora verso la metà di settembre 1626.35 Non è dunque del tutto irrealistico pensare che, per tutto questo periodo, egli di nuo-vo vivesse nella città natale.

Per inciso, stando a Carlo Tenivelli, che le rese note, risalireb-bero al 1625-1626 tre lettere di Castiglione al camaldolese Giovan-ni Maria Riccardi.36 Suggerisco di posdatarne almeno due, al 1645-

1634, a cura di Michele Magnabosco e Laura Och, Verona, Accademia Filar-monica di Verona, 2015, p. 577), resa nota agli accademici il 14 febbraio (ivi, p. 579), ballottata ed approvata all’unanimità il 29 febbraio (ivi, p. 582, ove anche è edita una «supplica», cioè una lettera di candidatura sporta da Casti-glione, da S. Simpliciano di Milano, il 13 febbraio 1624). Nella seduta succes-siva, del 21 marzo, «fu letta un’altra lettera del padre Castiglione in ringratia-mento all’accademia», data anch’essa da S. Simpliciano, il 12 marzo (ivi, p. 583, con edizione della missiva). Certamente posteriore, ma non di molto, è un’altra epistola, ancora da Milano, del nostro ai Filarmonici, accompagnatoria del di-scorso Il vino e inserita nelle Lettere di ringratiamento e lode, pp. 51-52. Tracce di corrispondenza con il consesso veronese sono infine documentate all’altezza del marzo 1625 (Atti dell’Accademia Filarmonica, II, p. 609): ritengo possibile associarle all’accompagnatoria sopra citata e alla relativa replica di grazie. Nel frattempo, il 15 aprile 1624, era stato compiuto un ultimo atto formale, l’ac-cettazione da parte del benedettino milanese del provvedimento di ammis-sione, effettuato per l’interposta persona del conte Ferdinando Nogarola (ivi, p. 584).

35. CONTINISIO, Il duello, p. 57 rileva come ancora la dedicatoria di VALE-

RIANO CASTIGLIONE, Panegirico al gran Carlo Emanuele, duca di Savoia, nell’anni-versario sessantesimo sesto della sua nascita, Genova e Torino, Pizzamiglio, 1627, rechi il datum Milano, 10 gennaio 1627. Sapendo il nostro già in S. Pietro di Savigliano nel dicembre 1626, per il tramite di una lettera su cui tornerò tra breve, suppongo che si possa pensare a questa come a una data topica sempli-cemente letteraria.

36. CARLO TENIVELLI, Vita del venerabile padre don Alessandro de’ marchesi di Ceva, in Biografia piemontese, IV/2, Torino, Briolo, 1792, pp. 297-376, alle pp. 366-369. Il destinatario è il medesimo di altra missiva di Castiglione, riportata nelle Lettere di ringratiamento e lode, pp. 44-45.

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1646 probabilmente. La prima, da Torino il 12 luglio [1645?], è accompagnatoria di un epitaffio in memoria di Alessandro Ceva (1538-1612), il fondatore del sacro eremo di Pecetto e promotore della nascita della congregazione camaldolese di Piemonte. As-sieme al componimento, Castiglione dà avviso che nel giro di un paio di giorni manderà anche un capitolo, quello relativo alla se-poltura del venerato romita, di un’opera che sta scrivendo, presu-miamo sulla vicenda storica dell’eremo e con peculiare attenzione alla biografia di Ceva. Chiede, nel caso questi suoi versi in memo-riam dovessero riuscire graditi, di accostarli a un altro epitaffio, in mortem, da lui già inserito tra le pagine che sta per consegnare. Rin-grazia poi per un non meglio specificato dono ricevuto e «dell’av-viso dell’assignazione del serenissimo principe la cui pia memoria – promette – aggiugnerò al capo dell’eremo di Cherasco». Scivo-lando poi su più prosaico argomento, racconta di essere venuto in possesso di «un volume di uno spagnolo commentatore della regola benedettina», Antonio Perez: l’ha fatto rilegare e, dopo avergli dato «una occhiata», intende cederlo. Lo propone pertanto, al prezzo di cinque lire, al proprio interlocutore. Si dice inoltre in attesa, da Lione, di «due tomi in folio disquisitionum monasticarum, pieni di bellezze erudite, e altri commentari sopra la regola» di san Bene-detto. Chiude informando di essere in procinto di dare in tipogra-fia «la prima parte istorica» di qualcosa che al suo corrispondente dev’essere già noto e che pertanto non viene qui nuovamente pre-cisato.

Se sono esatte alcune sparse indicazioni di Tenivelli, lo scritto in corso d’opera che Castiglione inviava di capitolo in capitolo a Riccardi doveva essere intitolato Memorie del sacro eremo camaldolese fondato ne’ monti di Torino ed articolato in ventiquattro capi.37 Quan-to ne resta, o vi si avvicina, parrebbe però dover essere ridotto a un rimaneggiamento settecentesco ascrivibile ad Apollinare Chiomba, non sappiamo quanto aderente all’originale, comunque incentrato

37. TENIVELLI, Vita, p. 362, riconduce esplicitamente a Castiglione l’opera, di

cui aveva dato il titolo per esteso poco sopra, a p. 357. La distribuzione in ven-tiquattro capitoli è segnalata ivi, p. 369. Ampie trascrizioni dal manoscritto di tali «memorie», che la letteratura in argomento asserisce ormai irreperibili, sono rese ivi, pp. 357-358, 359-361, 362, 365, 369-370. Per un ulteriore, e di-vergente cenno al lavoro di Castiglione, vedi anche ivi, p. 341.

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sulla figura di Ceva.38 L’epitaffio alla memoria di quest’ultimo pari-menti sembrerebbe tuttora non chiaramente individuato, quello in morte essendo già stato invece edito più volte.39 Il libro di Antonio Perez di cui Castiglione avrebbe desiderato fare commercio deve senz’altro essere identificato nei Commentaria in regulam beatissimi patris Benedicti monachorum omnium patriarchae (Lione, Prost, 1625). Quello in due volumi che stava aspettando corrisponde al Sanctus Benedictus illustratus sive Disquisitionum monasticarum libri XII di Be-nedictus van Haeften (Anversa, Béllere, 1644). Le altre allusioni comprese nella lettera permangono a me sostanzialmente indecifra-bili.

La seconda missiva, da Torino il 26 giugno [1646?], è parimenti un’accompagnatoria. Si presenta infatti di scorta alle appena ulti-mate «memorie istoriche del sacro eremo», concluse con tanto e inopinato ritardo per avervi dovuto anteporre i doveri tipici di chi «è tenuto di servire a’ grandi», in questo caso la casa ducale dei Sa-voia. Al proprio interlocutore e ai suoi confratelli, Castiglione non

38. Il testo, Compendioso ragguaglio della vita del ven. padre don Alessandro Ceva

eremita camaldolese e fondator spirituale del sacro eremo di Torino scritta dal padre don Valeriano Castiglione abbate cassinese, è ora edito da PAOLO COZZO, Un eremita alla corte dei Savoia. Alessandro Ceva e le origini della congregazione camaldolese di Piemonte, Milano, FrancoAngeli, 2018, pp. 159-201. Due i testimoni cono-sciuti, simili ma non identici: Camaldoli, Archivio storico dell’eremo e mona-stero, San Michele di Murano, 630, cc. 214-253, e Torino, Archivio di Stato, Materie ecclesiastiche, Torino, Eremitani camaldolesi dell’eremo, 1, [APOLLI-

NARE CHIOMBA], Vita del venerabile fondatore il padre don Alessandro de’ marchesi di Ceva, cc. 227-264. Sull’attribuzione a Castiglione della Vita in questi termini ripresa da Chiomba, COZZO, Un eremita, pp. 19-20 e 157-158, pur aderendo alla tradizione storiografica sul tema, preferisce conservare (specie a p. 19) un residuo margine di dubbio, sollevato prevalentemente dalla constatazione che l’opera non risulta menzionata in alcuna delle bibliografie del letterato mila-nese. Infine, per la datazione del testo (o, a suo giudizio, dei testi) prodotti da Castiglione, vedi COZZO, Un eremita, pp. 19, 140, 177. Lo studioso, pp. 138-140, conosce le lettere edite da Tenivelli e ne accoglie la collocazione nel bien-nio 1625-1626, come anche considera gli indizi che ho radunato nella nota precedente. Ciò lo porta a risolvere ipotizzando «che Castiglione abbia scritto su Ceva e sull’eremo in due differenti fasi: dapprima (nel 1626) le Memorie istoriche, delle quali oggi non vi è più traccia; successivamente (nel 1645) il Com-pendioso ragguaglio, giuntoci nelle trascrizioni settecentesche di Chiomba» (ivi, p. 140, nota 68).

39. Almeno in TENIVELLI, Vita, p. 329, come pure in COZZO, Un eremita, p. 174.

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chiede bassa mercede: basterà la ricompensa di una preghiera, af-finché Dio gli «dia spirito di salvar l’anima dopo altre fatiche» che lo «distolgono non solo dal chiostro, ma anche dalle occupazioni spirituali». Saluta – oltre a Riccardi, all’epoca maestro dei novizi – il padre maggiore dell’eremo. Finisce raccomandandosi all’interces-sione spirituale di Ceva, speranzoso che «non si dimenticherà [di lui], suo divoto, nel paradiso».

Problematica invece la terza e ultima lettera, spedita, si legge in Tenivelli, da Torino il 6 settembre 1626. A Riccardi, che lo deve avere sollecitato a procurarsi precise indicazioni in argomento, Ca-stiglione anche in veste di consultore del Santo Ufficio torinese ri-sponde di non avere potuto rivolgersi al locale inquisitore, perché temporaneamente assente. Riferisce però di avere parlato col suo vicario, traendone il parere che un ritratto di Ceva – ritenuto in odore di santità, secondo l’idea di molti, ma non riconosciuto tale, né allora né poi, dall’autorità ecclesiastica – può essere esposto in pubblico qualora si desideri esibire l’effigie del fondatore del sacro eremo, non se si intende mostrarlo in un luogo allestito per la ve-nerazione di quel personaggio «come di beato». Ha inoltre appurato che, applicando «i decreti della santissima inquisizione», può essere concesso che egli sia raffigurato con il «raggio ispirante», cioè come ispirato dalla divina grazia, ma non con quello «espirante», ossia co-me mediatore della stessa, attributo visivo che ormai si suole riser-vare ai santi conclamati. Avvisa ancora che, stando al menzionato vicario, almeno per il momento sarebbe meglio limitare l’affissione di ex voto all’ambito privato delle celle dei monaci, ovvero non ali-mentare indiscriminatamente la devozione popolare. Sul punto, il braccio destro dell’inquisitore avrebbe anche lasciato valutare al-l’arbitrio di Castiglione, unitamente a quello di altro consultore, ma, si capisce, è più prudente attendere il ritorno del presidente del tribunale e riceverne la decisione.

Espletata questa commissione, don Valeriano ritorna al proprio particolare. La responsiva si volge infatti a indirizzare saluti a un don Felice, al quale, racconta Castiglione, «ho stimato meglio non mandare il cartelletto per non avventurarlo». Precisa inoltre: «quando verrà portator sicuro, lo manderò», ricordando anche, a don Felice, «quel di più che lo pregai per ricever vantaggi ad altrui

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beneficio presso Madama reale in tempi sì angusti».40 Come ampiamente nota Cozzo, temi e riferimenti di questa co-

municazione ben si adeguano sia al quadro degli eventi concernen-te l’eremo camaldolese nella seconda metà degli anni venti, sia a quello normativo riguardo al culto degli aspiring saints, mutato in senso restrittivo sin dalle prime fasi del pontificato di Urbano VIII.41 Persino la notizia di un Castiglione già allora consultore del Santo Ufficio torinese torna in qualche modo plausibile, se non altro nella misura in cui il suo pesante coinvolgimento nell’affaire Roero, qualche tempo dopo, risulta più facilmente spiegabile, sotto il profilo istituzionale, proprio se giustificato da un incarico di que-sto tipo. Soltanto il ricorso all’appellativo di Madama reale per in-dicare Cristina di Francia precedentemente agli anni della ducea di Vittorio Amedeo I, prima cioè degli anni trenta, potrebbe suonare, forse, lievemente prematuro. Una pietra d’inciampo, tuttavia, po-trebbe essere costituita dal fatto che, come da questa lettera Casti-glione sembrerebbe essere a Torino il 6 settembre 1626, una sua

40. Quando, definiti gli aspetti tuttora in sospeso, si procederà a schedare in

Archilet anche queste tre brevi lettere, credo sarà utile tenere in conto i se-guenti elementi. Inquisitore di Torino nel 1625-1626 era il domenicano Ca-millo Balliani. Gli subentrò nel 1628 Girolamo Robiolo, cui seguì Francesco Maria Bianchi, in carica dal 1640 al 1658 (vedi p.e. Alessandria, Biblioteca Civica, ms 67, DOMENICO FRANCESCO MUZIO, Tabula chronologica inquisito-rum Italiae, et insularum adiacentium ex ordine praedicatorum, cc. 188v-189r). Vica-rio generale di Balliani era padre Pietro Antonio Ballada (sui cui successi e traversie negli anni qui considerati ragiona anche VINCENZO LAVENIA, «Cauda tu seras pendu». Lotta politica ed esorcismo nel Piemonte di Vittorio Amedeo I (1634), «Studi storici», XXXVII, 1996, pp. 541-591, specie alle pp. 554 e 558); attestati nella carica, per il tramite dei paratesti di volumi per i quali rilasciarono licenza di stampa, trovo inoltre Gaspare Mainardi e Bonifacio Caretti rispettivamente nel 1645 e nel 1650. Fonti analoghe segnalano anche il chierico regolare Ber-nardino Sessio e il cistercense Giovanni Bona (che fu anche corrispondente di Castiglione: sua una lettera al nostro, da Asti il primo aprile 1647, in Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 188 inf., fasc. 16) consultori del Santo Ufficio nel 1650 (Bona già tale quantomeno dal 1642). Madama reale, infine, è ovvia-mente Cristina di Francia (1606-1663), consorte di Vittorio Amedeo I, reg-gente e tutrice dapprima di Francesco Giacinto (1637-1638), poi del futuro Carlo Emanuele II (1638-1650), sino all’uscita di minorità di quest’ultimo.

41. COZZO, Un eremita, pp. 138-139.

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altra del 16 settembre ci giunge invece vergata da Milano, più esat-tamente dal monastero di S. Simpliciano.42

Comunque sia, questo biglietto del 16 settembre merita atten-zione anche perché disvela insorti contrasti con Pio Muzio, abate del cenobio milanese e antico fautore di Castiglione, allertato da voci terze sulle complicazioni che potevano provenire dal fatto che «sotto il suo governo vivesse un servitor confidente di prencipe ne-mico». Castiglione, infatti, da un paio d’anni ormai era sotto stipen-dio di Carlo Emanuele I.43 Riteneva dunque opportuno che la sua residenza monastica fosse quanto prima trasferita dal Milanese in uno dei pochi monasteri della congregazione situati sotto il domi-nio piemontese, anzi in uno in particolare, quello di S. Pietro di Savigliano. Ma, non appena giunto a Savigliano, sul fare dell’in-verno 1626 avrebbe trovato da eccepire anche sul nuovo suo abate, lamentando di essere «mal spesato» da un superiore che, «conten-tandosi, per così dire, d’agli e cipolle, gigli gentilissimi dell’arme di sua casata, fa che ciascuno stenti e provi ciò che vuol dire il vivere sotto il governo d’un vecchio avaro».44

Volutamente sono rimasto nel vago, perché non mi è chiaro se l’abate di cui si tratta fosse Anastasio Molineri da Cavallermaggiore

42. Torino, Archivio di Stato, Materie politiche per rapporto all’interno, Lettere di

particolari, 46. Le quasi trenta lettere di Castiglione comprese in questo mazzo, recentemente schedate per Archilet da Chiara Continisio, già erano state valo-rizzate e riprodotte anastaticamente nella tesi di laurea di MARIA ANGELA FOR-

NACE, Vita e pensiero politico di Valeriano Castiglione, rel. Luigi Firpo, Torino, Università degli Studi, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 1986-1987.

43. Quantomeno da CARLO GIODA, Uno statista del Seicento. Don Valeriano Castiglione, «Nuova antologia», CIV, 1903, pp. 1-19 e 186-201, a p. 9, in poi, la ‘moderna’ letteratura di carattere biografico si mostra concorde nell’indicare Castiglione a servizio della corte piemontese dal 1624. Senza voler revocare in dubbio tale certezza, segnalo comunque una missiva del nostro a Vittorio (Vit-torino) Siri in cui, sotto la data del 12 maggio 1648, egli si ricorda impiegato in tale «fedel servigio» da ventisei anni, dunque, a sua memoria, dal 1622 (Parma, Biblioteca Palatina, Epistolario parmense, 141).

44. La lettera – anch’essa conservata in Torino, Archivio di Stato, Materie po-litiche per rapporto all’interno, Lettere di particolari, 46 – è ora edita in CONTINI-

SIO, Frammenti, pp. 88-89. L’ho qui ripresa variandone la punteggiatura. Data in S. Pietro di Savigliano il 21 dicembre 1626, manca del destinatario. Grazie ad alcuni, comunque vaghi riferimenti interni, avanzerei una proposta di iden-tificazione con l’allora primo segretario dello stato sabaudo Giovanni Tom-maso Pasero.

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oppure Pio Provana da Carignano. Continisio, nel dare edizione della lettera citata, lo identifica nel primo; la scheda di Archilet fa il nome del secondo. Raccolgo le poche informazioni che ho in proposito. Nella primavera del 1625, il capitolo generale della con-gregazione nomina Antonio da Nizza (da Murs) abate di Savigliano. Contestualmente Molineri è designato abate di S. Pietro in Ges-sate, mentre Provana è messo a capo di S. Bartolomeo di Azzano, vicino ad Asti.45 Com’è noto, i superiori cassinesi entrando in capi-tolo deponevano i propri incarichi; tutti gli uffici di governo abba-ziale erano quindi riassegnati prima della fine del capitolo stesso. Formalmente, dunque, un prelato poteva essere sia nominato – cioè di fatto rinominato, o meglio ancora confermato – al vertice della comunità di cui era stato responsabile già nell’anno mona-stico precedente, sia nominato alla guida di un’altra sede. Per que-sto motivo, i dati relativi alla primavera del 1625 non sono in sé indicativi di un inizio, pur costituendo comunque un punto fermo. Infatti, e per esempio, sappiamo che Antonio da Nizza era già stato destinato a Savigliano quantomeno dal 1624.46 Nuove e parziali di-stribuzioni degli incarichi, specie in conseguenza della morte o del-la grave infermità di un qualche abate, potevano poi essere decise anche nell’ambito di una dieta – ossia riunione del presidente e di un sufficiente numero di definitori della congregazione – di norma celebrata a fine anno, e più spesso negli ultimissimi giorni di di-cembre, oppure, in casi eccezionali, persino al di fuori di queste ri-correnze più usuali. Ed è probabile che qualcosa di simile avvenisse, negli anni qui presi in esame, anche in relazione al monastero di Savigliano. Scarni indizi inducono infatti a presumere Antonio da Nizza deceduto, o in ogni caso decaduto dall’incarico, già nella se-conda metà del 1625, forse temporaneamente sostituito da Pro-vana. Plausibilmente dal capitolo generale del 1626, a quest’ultimo sembrerebbe comunque subentrato Molineri, con più sicurezza at-testato almeno dal giugno 1626.47 Gli atti ufficiali del capitolo gene-

45. Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno, 365, Lista capituli ge-

neralis celebrati Parmae die 27 aprilis 1625. Sull’abbaziato milanese di Molineri, vedi anche PUCCINELLI, Chronicon, pp. 264-265.

46. Un’attestazione di questo governo, risalente al 17 agosto 1624, è reperibile in Torino, Materie ecclesiastiche, Abbazie, S. Pietro di Savigliano, 18.2, p. 18.

47. Ivi, pp. 160 e 20 rispettivamente. Si tratta però di una sorgente d’informa-zione di metà Settecento, consistente in un dettagliato inventario dell’archivio

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rale del 1628, infine, riportano nominati – sempre nel senso di cui si è appena detto – Molineri a Savigliano e Provana in S. Bartolo-meo di Azzano.48

In conclusione, sembrerebbe proprio aver ragione Continisio, ossia che il «vecchio avaro» deprecato da Castiglione fosse esatta-mente Molineri, professo nel 1573, per quanto anziano agli occhi di Castiglione potesse apparire anche Provana, professo nel 1593, quasi vent’anni prima che fosse toccato a lui.49 La sardonica allu-sione ai gigli/agli del blasone di famiglia, tuttavia, ben si sarebbe adattata all’antico stemma dei Provana di Carignano conti del Sab-bione, i cui pampini inquartati in certe raffigurazioni riescono dav-vero a far pensare a una parata d’agli o di cipolle. Comunque sia, anche nei confronti di Provana il nostro avrebbe avuto presto da ridire.

Prima che ciò accadesse, l’ennesimo breve testo di don Valeria-no era andato in stampa, sotto il titolo di Sacre pompe saviglianesi nella traslatione de’ santi martiri Benedetto, Giusto e Tadea (Torino, Ba-rella, 1630). Pur comparendo dietro un frontespizio su cui campeg-gia il suo solo nome, l’edizione è in realtà il frutto di molteplici conferimenti. Per farne un libretto, al segmento davvero ascrivibile a Castiglione, che, pur rinforzato da alcuni paratesti, non supera le ventiquattro pagine, si dovette aggiungere un Ragionamento spiri-tuale del cappuccino Francesco Sandigliano, poi un altro di Ercole Biga, poi un corposo fascicolo di versi di numerosi autori, tutti ri-

monastico di S. Pietro di Savigliano, dunque indiretta, e perciò da considerare con atteggiamento di prudenza. Quanto alla cronologia abbaziale dell’insedia-mento piemontese, cfr. anche con FRANCESCO AGOSTINO DALLA CHIESA, Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalium, archiepiscoporum, episcoporum et abbatum Pedemontanae regionis chronologica historia, Torino, Tarini, 1645, p. 236 (che è la fonte di Continisio, Frammenti, p. 89) e ALESSANDRO MORTAROTTI, L’abbazia di S. Pietro in Savigliano, Savigliano, s.e., 1969, p. 40 (il più recente apporto di NICOLAO MARTINO CUNIBERTI, I monasteri del Piemonte. Notizie storiche di circa 1300 monasteri, Chieri, Bigliardi, 1970, p. 295, può invece essere trascurato, in quanto replica la compilazione di Mortarotti, aggiungendovi peraltro qualche refuso).

48. Montecassino, Archivio abbaziale, Regestum praelatorum Casinensium et acta capitulum generalium ab anno MDCXXVIII ad annum MDCLVIII [titolo al piatto: Registrum praelatorum Casinensium], s. segn., cc. 3v-4r.

49. Riporta queste date di professione BOSSI, Matricula, pp. 370, 427.

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conducibili al contesto locale saviglianese. La dedicatoria, a Gio-vanni Tommaso Pasero, com’era da immaginare smaccatamente laudativa nei confronti di Castiglione, qui elogiato quale «soggetto che con gran ragione viene stimato nell’Italia delitia de gli scrittori di questo tempo» e così via, è a firma del Biga, che si dichiara pro-motore e artefice dell’iniziativa editoriale. In essa, l’apporto di Ca-stiglione si riduce in effetti a una relazione, sì accuratamente de-scrittiva, ma in fin dei conti piuttosto asciutta, degli apparati e delle funzioni sacre allestiti per celebrare, domenica 30 settembre 1629, il dono recente di tre corpi santi esumati dalle catacombe romane e traslati – ma forse sarebbe più esatto dire commerciati – nella chiesa di S. Pietro. Poiché il tempio era quello dei benedettini, poi-ché a procurare, pagando, le reliquie era stato l’abate Provana, era doveroso che fosse un/il monaco letterato di stanza nel monastero ad assumersi l’onere e l’onore di tramandare ai posteri i fasti del-l’evento. Lo fece conformandosi ai topoi della devozione popolare, compreso il tocco di un accenno al maltempo come opera del de-monio e al suo volgere al bello grazie al miracoloso intervento di-vino, però, tutto sommato, senza fragorosi scadimenti. Non omise, ma senza esagerare, di complimentarsi con l’assoluto protagonista di giornata, nonché suo diretto superiore, del quale infatti lasciò scritto: «Sarà memorabile la liberalità dell’abbate don Pio Provana, com’è chiaro lo splendore del sangue, accresciuto da’ raggi di varie virtù che lo rendono prelato senza paragone».50 Ne approfittò per mettere in risalto il proprio contributo artistico all’innalzamento degli apparati, riproducendo in stampa tutte o quasi le iscrizioni da lui composte per l’occasione ed aggiungendovi il sovrappiù di qual-che altro verso venutogli sul tema. Ma, comunque sia, per una vol-ta, quasi unica nell’arco di una più o meno cinquantennale vicenda editoriale, riuscì a inserirsi nel solco di quella tradizione letteraria devota che si pretende adatta agli scrittori che abitano i conventi. Per una volta era nel main stream. Non ci restò a lungo, come sap-piamo.

Per il vero, già nel 1627 si erano avuti screzi tra Castiglione e al-cuni suoi confratelli della comunità di Savigliano, dei quali ebbe

50. VALERIANO CASTIGLIONE, Sacre pompe saviglianesi nella traslatione de’ santi

martiri Benedetto, Giusto e Tadea, Torino, Barella, 1630, p. 2.

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modo di lagnarsi anche scrivendo al principe, «attese le querele ful-minate contro l’honor mio – sintetizzava – dagli emoli nella venuta delli padri visitatori [della congregazione] passati per qui», cioè nel monastero di S. Pietro.51 Poi, pubblicato nel 1628 lo Statista regnan-te, erano intervenute difficoltà di natura censoria, provvidenzial-mente rintuzzate grazie alle entrature di cui l’autore godeva in corte.52 Poi, nel 1633, sarebbe scoppiato il noto caso della pasqui-nata contro il patriziato saviglianese; poi, l’anno seguente, quello ancor più noto della falsa possessione di Margherita Roero.53 E, in mezzo a tali vicissitudini, che compresero anche il carcere e che senza dubbio minavano l’immagine di buon religioso a cui ogni monaco avrebbe dovuto tenere, si innestarono anche contrasti spe-cifici con la congregazione cassinese, innescati dall’ambizione di don Valeriano a fregiarsi del titolo di abate.

La questione, per quanto risibile, è controversa in letteratura, al punto che taluno si chiese persino se Castiglione fosse mai stato, oppure no, abate. Giustifica quindi un supplemento di indagine. Per certo, egli non ebbe mai il carico di abate di regime, e nemmeno di priore claustrale. Quanto al mero titolo, alla posizione cioè di abate titolare, gli atti ufficiali della congregazione, per quanto lacu-nosi, segnalano un Valeriano da Milano titolare di S. Maria del Santo Sepolcro delle Campora nell’anno monastico 1628-1629 e in quello immediatamente successivo. Nel capitolo generale del 1630 il medesimo personaggio fu trasferito al titolo di S. Maria di Buggiano – abbazia incorporata, come quella delle Campora, da tempo immemorabile nel monastero di S. Maria di Firenze – ove fu ripetutamente confermato sino al capitolo del 1633.54 Ma è quasi

51. Lettera di Castiglione a Carlo Emanuele I, Savigliano, 24 ottobre 1627,

trascritta da GIODA, Uno statista del Seicento, pp. 196-197. 52. Sintetizzano i pochi ed esili elementi noti sulla vicenda CONTINISIO, Va-

leriano Castiglione, p. 85, ed EAD., Frammenti, pp. 74-75. 53. La più completa ricostruzione dell’affare Roero e del suo significato poli-

tico, che dunque lo ricollega anche ai fatti di Savigliano del 1633, è offerta da LAVENIA, Cauda tu seras pendu, pp. 541-591. Per un’ulteriore sintesi, specifica-mente incentrata sulla posizione di Castiglione in tale contesto, vedi anche CONTINISIO, Frammenti, pp. 76-77.

54. Montecassino, Archivio abbaziale, Regestum praelatorum, cc. 4v (capitolo del 1628), 8r (1629), 12r (1630), 15v (1632), 19v (1633). La fonte riporta poi liste degli abati titolari in corrispondenza dei capitoli del 1635, 1637, 1638, 1639, 1646, 1647, 1648, 1649, 1650, 1651, 1652, 1653, 1654, 1656 e 1658:

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sicuro che il beneficiario di tale riconoscimento fosse il vecchio abate Valeriano Degani, non certo Castiglione, che nel febbraio 1630 era ancora fermo al grado di decano.55 Quanto agli anni che

in nessuna compare più alcun Valeriano da Milano, sia che si trattasse di Ca-stiglione, sia di altro religioso che portasse il medesimo nome in sacris.

55. Milano, Archivio di Stato, Archivio generale del Fondo di religione, 1655 (già 805, prima che nel secondo dopoguerra si procedesse al riordino del fondo), Scritture per l’abbadia del reverendissimo padre don Valeriano di Milano, professo del monastero di S. Simpliciano, historico delle altezze reali di Savoia e cronista della sua congregatione casinense, a stampa. La fonte, da cui ripetutamente preleva, attra-verso la vecchia segnatura, già Gioda, Uno statista del Seicento, pp. 8, 16-19 (an-che citandolo per il tramite della relativa camicia archivistica: «Nota delle vir-tuose fatiche dell’abbate don Valeriano Castiglione professo del monastero di S. Simpliciano e cronista della nostra congregazione cassinese ed altro come da essa»), manca di indicazioni tipografiche; reca tuttavia documenti e stralci di documento il cui più recente è datato 23 luglio 1663. Questa la composizione: p. 1, lettera di Carlo Emanuele I al conte Ludovico San Martino d’Aglié, suo ambasciatore in Roma, Torino, 18 febbraio 1630; pp. 1-2, «periodo di capitu-latione», senza data, ovvero premessa al testo (qui non riportato) di conven-zione tra i monaci nativi piemontesi rappresentati dall’abate Pio Provana da un lato e dall’altro il «padre abbate» Valeriano Castiglione, in merito alla rinuncia di quest’ultimo a esercitare la facoltà concessagli di ascendere al grado di abate di governo dopo avere svolto per soli due anni il carico di priore; p. 2, lettera di Cristina di Francia a monsignor Giovanni Giacomo Panciroli, viceprotettore della congregazione cassinese, Torino, 3 luglio 1641; pp. 2-3, lettera di Cristina di Francia al cardinale Francesco Barberini, protettore della congregazione, To-rino, 2 marzo 1661; p. 3, lettera di Cristina di Francia all’abate Ludovico Balbo da Cervere, presidente della congregazione, Torino, 19 aprile 1662; p. 4, de-creto del presidente Ludovico Balbo da Cervere a nome della dieta della con-gregazione e «pro p.d. Valeriano a Mediolano», Ferrara, 6 maggio 1662; pp. 4-5, breve di Alessandro VII che concede al presidente e capitolo generale della congregazione facoltà di elevare Castiglione al grado di abate titolare in deroga alle costituzioni apostoliche vigenti, Roma, 31 luglio 1662; p. 5, decreto del presidente della congregazione, Anastasio [Galdioli da Vicenza], di nomina di Castiglione ad abate titolare, [Vicenza], 23 luglio 1663; p. 5, stralcio di lettera del presidente della congregazione, Modesto [Santacroce] da Padova a Casti-glione, Subiaco, 31 ottobre 1631, con cui si recepiscono le intenzioni del desti-natario di «applicar l’animo a scrivere gli annali della nostra congregatione»; pp. 5-6, stralcio di lettera del presidente della congregazione, Stefano [Figini] da Milano, a Castiglione, Milano, 6 giugno 1633, ancora relativa ai propositi del destinatario «di scriver gl’annali e doventar [sic] cronista»; p. 6, simulazione di frontespizio: VITA ǁ Del Santissimo Patriarca de’ Monaci ǁ Occidentali ǁ BENEDETTO ANICIO DA NORSIA. ǁ Scritta, e distinta per Anni sessantatré

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seguirono, i documenti capitolari e dietali attualmente reperibili non dicono più nulla. D’altro canto, in alcune opere a stampa Ca-stiglione si presenta abate, né si può pensare che la sua sfacciatag-gine giungesse a millantare un titolo usurpato in tutto e per tutto. Una rassegna che non pretende di essere esaustiva comprende, in questo senso, i frontespizi de Il prencipe bambino (1633), di varie e-dizioni uscite tra il 1642 e il 1645 – quali i complimenti per il ge-netliaco di Cristina di Francia (1642), le lettere a Loredano e quelle di ringratiamento e lode (ancora del 1642), le Pompe torinesi per il ri-torno di Carlo Emanuele II e le Prose (ambedue del 1645) –, di altre risalenti al 1656, compreso anche il Gelone di Lorenzo Scoto, arric-chito dalle allegorie di Castiglione, e infine di allestimenti realizzati dal 1661 in poi. Tento di sovrapporre queste due serie di informa-zioni. Immagino che, sul fare degli anni trenta, Castiglione avesse cercato di raggiungere il titolo abbaziale, sia come punto d’onore, sia per essere dispensato «dal rigor degl’ordini della sua religione».56 In virtù della calda intercessione del duca di Savoia, credo che riu-scisse a ottenere da Urbano VIII un breve che gli concedeva facoltà, in deroga alle costituzioni e pontificie, e della congregazione cassi-nese, di ascendere al grado di abate di governo dopo soli due anni di esercizio effettivo del priorato. Era un vicolo cieco. Da un lato, occorreva comunque farsi eleggere e destinare, dalla congregazione, priore in quello che avrebbe anche potuto essere un remoto e sco-modissimo chiostrino della provincia ligure; poi, superata quella caienna, esercitare effettivamente il carico di abate di governo, che tutto era tranne un sottrarsi al rigore degli ordini della religione. D’altra parte, nella visione dei monaci oriundi della citata provin-cia – alla quale anche i monasteri di Asti e di Savigliano appartene-vano – questa ventilata promozione toglieva spazio alle carriere di altri monaci, che forse vi si erano applicati con più costante dedi-zione. Ovvio che reagissero, facendosi rappresentare da Pio Prova-

dall’Abbate Don Valeriano ǁ Castiglione Milanese, Monaco, Professo del Mo-nastero di S. ǁ Simpliciano di Milano, Cronista della Congregatione ǁ Casi-nense. ǁ OPERA ǁ Mista d’antica Eruditione, di Riti Monastici, di Com- ǁ mentarij su la Regola, di curiosi quesiti, di Elogij sacri, ǁ utile, e dilettevole à Monaci, & a Mo-nache dell’- ǁ Ordine benedettino; p. 6, decreto del capitolo generale con cui si commette ad Amedeo da Savigliano la lettura e il giudizio dell’opera succitata, San Benedetto Po, 15 maggio 1647.

56. Così la già citata lettera di Carlo Emanuele I del 18 febbraio 1630.

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na, che in quanto abate di Savigliano era forse il più interessato a non farsi scalzare dal suo posto, e interagendo con Giovanni Tom-maso Pasero, qui nelle vesti di procuratore, più o meno ufficiale, di Castiglione, riuscissero a trovare un accordo con quest’ultimo, che prevedeva la sua rinuncia ai privilegi concessigli da Urbano VIII.

Passata la tempesta degli anni trenta, che per lui fu, da più parti, vera tempesta, Castiglione tornò alla carica, scontrandosi però con il malanimo dei superiori della congregazione. Per sanare tale av-versione, intervenne personalmente Cristina di Francia, che fece scrivere al viceprotettore dei cassinesi pregandolo di fare in modo che il nostro potesse riappropriarsi, dopo tutte le disgrazie patite, di un po’ di tranquillità di spirito.57 Presumo che non dopo il 1642 ottenesse di decorarsi con l’agognato titolo,58 ma poggiante su un’abbazia non compresa nel quadro di quelle afferenti alla con-gregazione, tant’è che almeno sulle prime preferì qualificarsi con una lievemente criptica espressione: «abbate don Valeriano Casti-glione, milanese, benedettino cassinese»,59 tenendo cioè debitamen-te separato il sostantivo abate dall’aggettivo cassinese. Comunque sia, e per quanto poco significativo possa essere questo dettaglio, anche nelle sue corrispondenze private cominciò a fregiarsi dell’ap-pellativo, se non altro quando sentiva la necessità di sottolineare il proprio prestigio nei confronti di un suo interlocutore.60 Nel 1645

57. Prelevo, parafrasando dal francese con cui si espresse Madama reale, an-

cora dalle Scritture per l’abbadia del reverendissimo padre don Valeriano di Milano, p. 2.

58. Ma cfr. anche con PICCINELLI, Ateneo, p. 508, e conseguentemente AR-

MELLINI, Bibliotheca Benedictino Casinensis, II, p. 201, che invece lo ricordano creato abate titolare da Innocenzo X, dunque non prima del 1644 (e non dopo il 1655).

59. La formula compare p.e. nel frontespizio della princeps di VALERIANO CA-

STIGLIONE, Lettere su l’opere dell’illustrissimo signor Gio. Francesco Loredano nobile veneto, Torino, Niella, 1642.

60. Per esempio, nel dialogo epistolare con Vittorio Siri, Castiglione prende l’abitudine di sottoscriversi abate a partire dal dicembre 1645, quando ormai, per via di certi contenuti antisabaudi del Mercurio e della vigorosa replica che Castiglione decise infine di vergare (cfr. con VALERIANO CASTIGLIONE, Rispo-ste historiche per la Real Casa di Savoia al Mercurio di don Vittorio Siri, ms Torino, Archivio di Stato, Storia della Real Casa, 17), la già amichevole relazione profes-sionale tra i due si era definitivamente incancrenita. Riguardo a tale relazione,

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vagliò anche l’ipotesi di contentarsi della nomina ad abate benedet-to, e tentò di informarsi su costi e procedure presso Vittorio Siri – altra figura, come lui, di monaco ‘eccentrico’ rispetto ai normali percorsi di vita dei religiosi arruolati nella congregazione cassinese –, che di recente aveva fatto lo stesso.61 Essere abate benedetto, per intendersi, valeva ancor meno che abate titolare: era come una ge-nerica onorificenza, che lusingava il presunto merito di un religio-so, ma non poggiava su alcuna abbazia, né autonoma, e nemmeno incorporata oppure soppressa. Era una carezza nell’aria. Ma, d’altro canto, la norma cassinese era apparentemente ferrea: per essere in-nalzati al grado di abate di regime occorreva un pregresso quin-quennio trascorso nell’incarico di priore claustrale; quanto al rico-noscimento di abate titolare, andava ormai soltanto agli ex abati di governo (ed era infatti detto ex regimine) oppure a chi, divenuto troppo anziano per accollarsi ancora impegni di governo, era co-munque stato priore claustrale negli ultimi cinque anni.

A quanto sembra, la questione dell’ineleggibilità di Castiglione al grado di abate titolare si ripropose verso la fine degli anni cin-quanta o nei primi sessanta. Una nuova intercessione di Cristina di Francia nel marzo del 1661 esordiva infatti lamentando come «il y a quelques annees que les superieurs de l’ordre cassinense prive-rent de l’abbaye titulaire l’abbè d. Valerien Castiglion».62 Ma, ap-punto, anche le protezioni del monaco storiografo si rimisero len-tamente in moto, sicché nell’estate 1662 si riuscì a ottenere da Ales-sandro VII un breve che, alla lettera, concedeva al capitolo generale della congregazione di elevare don Valeriano al grado di abate tito-lare anche in assenza dei requisiti sanciti dalle costituzioni aposto-liche e dalla normativa interna cassinese. Quasi fatta, se non che si doveva ancora aspettare il capitolo, indetto per la tarda primavera

da segnalare che essa dovette essere più risalente, anche sotto il profilo episto-lare, di quanto non lascino intendere le lettere ora schedate in Archilet. Una missiva che le precede, di Siri a Castiglione, del 6 giugno 1643, fu infatti par-zialmente trascritta da IRENEO AFFÒ, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, V, Parma, Stamperia reale, 1747, p. 209 (da un originale allora «nell’archivio di S. Simpliciano di Milano»: ivi, p. 236).

61. Lettere di Castiglione a Siri del 20 dicembre 1645 e 16 gennaio 1646, entrambe schedate in Archilet.

62. Lettera di Cristina di Francia del 2 marzo 1661, in Scritture per l’abbadia del reverendissimo padre don Valeriano di Milano, p. 2.

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del 1663, recepire il breve e fare il decreto di nomina abbaziale, emesso – se i documenti a nostra disposizione non sono viziati da lapsus tipografico – solamente il 23 luglio 1663, e con validità a de-correre dal 31 luglio successivo. Non sappiamo se i due fogli di Scritture per l’abbadia del reverendissimo padre don Valeriano di Milano, che sono la principale fonte di questa ricostruzione, furono messi in stampa per dare eco al mondo che una tanto annosa vicenda era finalmente giunta a conclusione, oppure come allegazione in iure in vista di un presumibile ricorso. Stando ai suoi biografi, il 1663 fu però anche l’anno della morte di Castiglione: se pure lo rag-giunse, comunque non poté godere appieno di questo traguardo, che lungo tre decenni aveva tanto pervicacemente perseguito.63

Intanto, per spianare la strada accidentata dei rapporti coi ver-tici della religione, Castiglione aveva anche pensato di proporsi co-me storiografo dell’ordine, ipotizzando la stesura di un’opera che talvolta è ricordata sotto il titolo di Annali cassinesi, ma ebbe infine assai più corto respiro. Per quanto ci è noto, un suo progetto di «applicar l’animo a scrivere gli annali» della congregazione e farsene cronista fu da lui esposto al padre presidente già nell’ottobre 1631, ricevendone in cambio un tiepido favore. Poco più tardi, nel giu-gno 1633, il tema fu discusso nell’ambito di una dieta, il cui esito fu una lettera circolare ufficiale, diretta ai superiori di tutti i mona-steri, che li invitava ad «agiutar questa sua volontà con mandar[gli] tutto quello che potevano» in fatto di trascrizioni di documenti che

63. Possibile, tuttavia, che persino l’anno di morte di Castiglione debba essere

revocato in dubbio. Risalendo alle radici dell’informazione, infatti, sia PICCI-

NELLI, Ateneo, p. 508, sia ARMELLINI, Bibliotheca Benedictino Casinensis, II, p. 201, scrivono semplicemente l’uno che morì «in età settuagenaria», l’altro ri-correndo all’aggettivo septuagenarius, il che non necessariamente significa a set-tant’anni esatti. Anche ARGELATI, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, I/2, col. 388, si adatta a questa generica indicazione, come più tardi avrebbe fatto pure GIODA, Uno statista del Seicento, p. 9. Né vi si era scostata, nel frattempo, la tradizione erudita cassinese (vedi p.e. ARCANGELO BOSSI, Syllabus scriptorum congregationis cassinensis, ms Modena, Biblioteca Estense, α.M.8.18, p. 152, come anche ID., Matricula, p. 585), rispetto alla quale costituisce ingiustificata forzatura il 1663 introdotto come anno esatto da JEAN FRANÇOIS, Bibliotheque générale des écrivains de l’ordre de saint Benoit, I, Bouillon, Soc. Typographique, 1777, p. 184. Non so su quali altre basi, se non questa, si sia dunque consoli-dato in letteratura il 1663 quale data certa, ricorrente a partire quantomeno da BENZONI, Castiglione, p. 110, in poi.

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potessero tornare utili al lavoro.64 Il metodo non era nuovo, di fare leva con un ordine dall’alto sulla rete erudita delle abbazie per farne estrarre materiale dagli archivi. Tantomeno originale era l’ambizio-ne di scrivere una storia della famiglia benedettina, o anche solo di ottenere il riconoscimento formale di storico della congregazione. Un precedente illustre, riguardo a simili dinamiche, per molti versi poteva essere rappresentato da Arnold Wion e dal suo Lignum vitae (1595); un parallelo contemporaneo, ma già avviato da decenni, si poteva rintracciare nella proficua e proteiforme attività di Costan-tino Gaetani, oppure in quella incipiente di Cornelio Margarini. Senza pretese di generalità, cioè senza voler coprire coi loro scritti tutta la secolare vicenda dei monaci neri, già si muovevano in que-sto senso, o si sarebbero presto mossi, numerosi altri letterati cassi-nesi, quali Fortunato Olmo e Placido Puccinelli, per esempio. Co-me suo solito, si direbbe, Castiglione annusava lo spirito dei tempi: ma, piuttosto che in anticipo, partiva con un giorno di ritardo, en-trava in un contesto già affollato.

Forse per questo, forse per la scarsa compatibilità di un incarico di tale portata con quello non meno impegnativo di storiografo di casa Savoia, e certo anche per le traversie che negli anni trenta piombarono improvvise sull’aspirante annalista benedettino, il suo progetto di cronaca religiosa fu presto accantonato. Tornò in essere assai più tardi, in un momento, come si vedrà, in cui in Castiglione si affacciava l’esigenza di rinfrescare la propria immagine tanto nei circoli letterari, quanto negli ambiti della congregazione. Nel 1645 le già descritte missive a Giovanni Maria Riccardi lo ritraggono, nel mentre si dedica anche alla vicenda dei camaldolesi di Piemonte, intento a procacciarsi e compulsare libri e commentari utili per un’opera sul patriarca di Norcia e la sua discendenza. Ancora nel 1645, quando escono le Prose e l’amico Antonio Valzania gliele in-troduce, il presente letterario di Castiglione appare arricchito dal suo essersi accinto ad «assettare gli annali e la vita di san Bene-detto».65 Nel 1647 il lavoro, ridottosi appunto a un’annalistica Vita

64. Scritture per l’abbadia, pp. 5-6. 65. ANTONIO VALZANIA, A chi legge, in VALERIANO CASTIGLIONE, Prose, To-

rino, Rustis, 1645, pp. non num. [cc. §5v-§8v]: «Troppo sarebbe lungo il ridire in quante maniere di scrivere habbia aggiunto ornamento al mondo letterato il maraviglioso ingegno del Castiglione tanto nella latina, quanto nella toscana

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del santissimo patriarca de’ monaci occidentali Benedetto Anicio da Nor-sia, che tuttavia non precludeva l’ipotesi di un’estensione intesa ad abbracciare la progenie del fondatore, è dato per compiuto, adorno peraltro delle parole di elogio di Giovanni Bona e di Luigi Giugla-ris.66 Nel capitolo generale di quell’anno, lo scritto fu sottomesso all’approvazione della congregazione, che diede mandato di esami-narlo al padre lettore Amedeo da Savigliano.67 Tuttavia, e benché Mariano Armellini si mostri possibilista in proposito, forse ingan-nato dall’abitudine di Castiglione di fare allestire preventivamente un frontespizio tipografico dei volumi che avrebbe voluto vedere sotto il torchio, non risulta che l’opera sia mai stata stampata. Il bibliografo settecentesco comunque ne vide e descrisse sommaria-mente il manoscritto, curiosamente asserito «composto l’anno 1630» (curiosamente, si intende, se ancora non si conoscesse l’agi-lità simulativa di Castiglione) e allora, credo, custodito nella biblio-teca di S. Simpliciano. Lo accompagnava un secondo tomo, di-remmo poco più che abbozzato, che proseguiva la trattazione «de rebus monasticis» sino all’anno 680, per poi spostarsi a trattare, ma superficialmente, dei monasteri della congregazione cassinese.68 Pur non disponendo del testo, ne sappiamo abbastanza per giun-gere a una deduzione. Fu un lavoro di anni, che aveva richiesto un certo impegno e si tradusse, non era la prima volta, in una delusio-ne: non migliorò l’immagine dell’autore di fronte ai confratelli della congregazione, non aiutò a farlo accedere all’agognato grado di abate titolare, nemmeno riuscì a conquistarsi il traguardo inter-medio della stampa.

Ora, per chiudere, torniamo finalmente al 1642 e alle Lettere di ringratiamento e lode. Così mi figuro Castiglione in quei momenti:

favella, quando nell’assettare gli annali e la vita di san Benedetto, alla cui san-tissima regola dagli anni più teneri consecrossi per tutti i giorni di sua vita, e quando nel comporre historie secolari, per avvivare la memoria de’ suoi heroi in tutti i secoli».

66. Quanto alle prime, cfr. il già citato documento in Milano, Biblioteca Am-brosiana, F 188 inf., fasc. 16, con ARMELLINI, Bibliotheca Benedectino Casinensis, II, p. 206. Per le seconde, all’elogium poi edito in LUIGI GIUGLARIS, Christus Iesus, hoc est Dei hominis elogia, II, Genova, Guaschi, 1653, pp. 224-225, si acco-sti almeno il relativo biglietto di grazie da Castiglione a Giuglaris, Torino s.d., in CASTIGLIONE, Lettere di ringratiamento e lode, pp. 76-77.

67. Scritture per l’abbadia, p. 6. 68. ARMELLINI, Bibliotheca Benedectino Casinensis, II, pp. 204-205.

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solo, attempato – va ormai verso i cinquanta, che allora erano un’e-tà diversa da quella che pensiamo adesso – ma ancora in cerca di affermazione, oppure di rivalsa. Il terreno dei rapporti con i con-fratelli cassinesi, anziché alveo protettivo, si è fatto da tempo terra bruciata, zona di fratture. La navigazione in corte ha dimostrato le sue acque infide e per di più ha disvelato un paradosso: che per un autore professionista, come egli è ormai da lungo tempo, è in fin dei conti più difficile pubblicare, quando si tratta di opere laboriose ed importanti, rispetto a quanto invece succede ai dilettanti. Del resto, egli è perfettamente consapevole, come lo era gran parte dei letterati del Seicento, che la reputazione artistica non è legata solo, o in special modo, al momento della creazione, e neppure soltanto a quello della stampa, ma ormai è un fatto soprattutto di distribu-zione, di circolazione degli scritti. Dovendo cominciare pressoché da capo, riprende gli strumenti che maneggiava in gioventù: il dia-logo con le accademie, la serrata proposta di operine che in tali am-bienti sappiano destare un barlume di attenzione; e inoltre vi af-fianca l’allestimento di sillogi che possano suscitare l’impressione di stare di fronte a un personaggio di qualche importanza proprio perché in grado di ripubblicare sue carte sciolte già vecchie di anni. In questo senso, don Valeriano sa bene che la macchina organizza-tiva degli Incogniti e il motore immobile di Giovanni Francesco Lo-redano sono il megafono più potente che gli sarebbe potuto capi-tare.

Come il gioco di sponda con il nobile veneto, anche il pro-gramma editoriale è chiaro. Dapprima escono tanto le Lettere su l’o-pere del Loredano (Torino, Niella, 1642) e le Lettere di ringratiamento e lode (Torino, Tarino, 1642). Poi viene la ristampa – «in Torino et in Venetia, ad istanzia dell’Accademia» degli Incogniti, ma in realtà a Venezia, per i tipi del Sarzina69 – delle lettere sul Loredano, nella cornice complessiva dell’edizione delle Opere di quest’ultimo (1643). Poi la proposta delle Prose (1645), che celebra altresì l’in-gresso di Castiglione tra gli Incogniti. Infine, se vogliamo, il mi-nimo trionfo di schierarsi tra le Glorie dell’accademia (1647), foto di gruppo che lo ritrae in mezzo a tanti altri.

69. Per la precisazione del dato editoriale, vedi p.e. CLIZIA CARMINATI, Lore-

dan, Giovan Francesco, in DBI, LXV, 2005, pp. 761-770.

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Quanto alle Lettere su l’opere, Carminati le giudica un «espe-diente pubblicitario architettato dal Loredan con la compiaciuta collaborazione di Castiglione», osservazione impeccabile quando si pensa alla riedizione. Rispetto alla princeps, ho invece la sensazione che don Valeriano si fosse mosso autonomamente, facendo stam-pare la raccolta, poi subito inviandola al suo interlocutore vene-ziano.70 E che questi non ci mise molto a realizzare i reciproci van-taggi che sarebbero derivati da una ripresa di quelle poche pagine, se tirata sotto i torchi di un’officina lagunare e offerta come una sorta di appendice ai testi che elogiava. Del resto, la stessa conver-sazione epistolare tra i due coprotagonisti, che Castiglione – mole-statore compulsivo delle celebrità dell’epoca71 – esibisce avviata nel pieno degli anni trenta, scorrendo le lettere a stampa di Loredano parrebbe cominciata soltanto verso il 1641:72 come se all’intrapren-denza del monaco storiografo sin quasi all’episodio di cui ora si discorre il padrino degli Incogniti non avesse voluto dare molto peso.

Quanto invece alla coerenza complessiva del personale progetto di rilancio di don Valeriano, non costituisce ostacolo il fatto che

70. Così mi sembra che sia possibile intuire specie da GIOVANNI FRANCESCO

LOREDANO, Lettere, nell’ed. Venezia, Guerigli, 1655, a p. 115. 71. Eloquente, a questo proposito, anche una replica un po’ piccata di Ales-

sandro Tassoni a Castiglione, datata 27 gennaio 1624 ed edita dapprima da FIORELLA GELLI, Due lettere inedite di Alessandro Tassoni. Nozze Louis Dreyfus-Levi, Milano, Allegretti, 1906, poi in ALESSANDRO TASSONI, Lettere, a cura di Pietro Puliatti, II, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 150. La missiva è contenuta in una porzione di miscellanea epistolare allestita da Onorato Claretti, ora nel fondo Patetta della Biblioteca Apostolica Vaticana: la descrive in dettaglio CLIZIA

CARMINATI, L’epistolario di Alessandro Tassoni, in Alessandro Tassoni. Poeta, eru-dito, diplomatico nell’Europa dell’età moderna, a cura di Maria Cristina Cabani e Duccio Tongiorgi, Modena, Edizioni Panini, 2017, pp. 47-75, alle pp. 57-65, che pure riesce, alle pp. 71-72, a rettificare in modo convincente la passata identificazione in Castiglione del destinatario di un’altra lettera, che Gelli e Puliatti (in TASSONI, Lettere, II, pp. 9-10) e conseguentemente tutti gli studiosi di Castiglione immaginavano a lui inviata.

72. Cfr. in particolare CASTIGLIONE, Lettere su l’opere, pp. 34-35 (Loredano a Castiglione, Venezia, 8 luglio 1634) con LOREDANO, Lettere, pp. 54-55 (Lore-dano a Castiglione, Venezia, s.d., ma 1641c.). Com’è noto, oltre che in questi due giacimenti un paio di missive a Castiglione compaiono poi anche nella seconda parte delle Lettere di Loredano, nell’ed. Venezia, Guerigli, 1667, alle pp. 43, 61, ma sono certamente posteriori a questi primi spunti.

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ogni sua tappa coinvolgesse un tipografo diverso. In queste vicende, tutto era nelle mani (e a spese) dell’autore; i tipografi si comporta-vano appunto da meri stampatori, non come tipografi-editori. Pe-raltro, gli unici che allora, a Torino, avrebbero potuto muoversi con maggiore intraprendenza erano gli eredi Tarino, che, quando agivano come librai-editori, si rifacevano appunto anche alle botte-ghe di Giovanni Giacomo Rustis e di Giovanni Ambrogio Niella.73 Cambiavano i nomi, ma la sostanza era la stessa.

Dunque, dar fuori lettere. Che a metà Seicento era una strate-gia magari un po’ vecchiotta, però, nel secolo delle invenzioni im-probabili, poteva ancora funzionare, come la straordinaria fortuna della raccolta epistolare dello stesso Loredano avrebbe presto dimo-strato. Del resto, Castiglione ci pensava ormai da tempo, o comun-que ci aveva pensato già vent’anni prima, quando, ad esempio, il successo delle Lettere di Angelo Grillo era ancora caldo, e quando l’allora suo buon amico Girolamo Bossi periodicamente conse-gnava qualche centuria delle sue alle stampe: sicché veniva facile che anche Castiglione, in una delle già citate missive a Ottavio Ros-si, immaginasse di proporne al pubblico esattamente una «prima centuria», di «lettere curiose, overo d’eruditione», in questo caso.74 Riannodando il filo di un’antica fantasia, Castiglione si ripromet-teva ora di darne al lettore cinquecento, da lui scritte «a virtuosi italiani» di tempo in tempo. Come già notato da Carminati, di ciò le missive al Loredano vollero offrirsi come un primo «saggio»;75 le Lettere di ringratiamento e lode come primo fascicolo, sostanzialmente articolato in un paio di capi, di quella che, più o meno quintupli-cata, avrebbe dovuto essere l’opera completa. Avrebbe dovuto: ma, come sovente accadeva al nostro, anche stavolta si fermò all’annun-cio e ai menzionati assaggi.

73. Sui rapporti commerciali tra queste figure minori dell’editoria piemontese

e la più fiorente azienda dei Tarino, basti qui ANDREA MERLOTTI, Librai e stam-patori a Torino alla metà del Seicento, in Seicentina. Tipografi e libri nel Piemonte del Seicento, a cura di Walter Canavesio, Torino, Provincia di Torino, 1999, pp. 69-98, in particolare a p. 85. Riguardo ai Tarino, vedi anche WALTER CANA-

VESIO, Nascita della seicentina. Il caso Tarino, ivi, pp. 221-244. 74. ROSSI, Lettere, p. 303. 75. Entrambe le citazioni sono dalla premessa Al lettore in CASTIGLIONE, Let-

tere su l’opere, p. 5.

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LETTERE DI DON VALERIANO

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Se non è imprudente giudicare un impianto complessivo aven-done di fronte una sua sola parte, credo si possa dire che l’idea di Castiglione su come si dovesse mettere insieme una collezione di lettere era proprio quella che andava per la maggiore già a inizio Seicento, compresa l’attitudine a fare, piuttosto che un’antologia, una mietitura complessiva, da cui espungere soltanto il loglio di quelle missive che varie ragioni d’opportunità davvero sconsiglia-vano di riprodurre. Omise le date croniche, che del resto tendono a degradare l’epistola da forma letteraria a mero documento. Tagliò certe minuzie, lasciandone comunque altre, anche perché altrimen-ti nulla sarebbe rimasto di molte sue carte, che di per sé contene-vano soltanto inezie, e delle quali l’unica cosa che contava e conta era, alla resa dei fatti, soltanto il nome del destinatario. Scelse di includere defunti e viventi. Non seguì un ordine cronologico pre-ciso, anche se, in linea di massima, mise per prime le lettere più giovani. Né riordinò la propria corrispondenza in funzione dello status dei destinatari, sebbene decidesse che i più illustri e potenti, Cristina di Francia e il cardinale Mazzarino, fosse più riguardoso metterli davanti. In apparenza, volle lasciare campo all’astrazione, per dare risalto alla capacità della sua penna di animare la comuni-cazione anche di temi i più banali, invece che costringersi a pun-tualizzare e mettere a contesto le notizie, come anche la semplice serie temporale delle date di invio avrebbe agevolmente consentito. Di là dalle apparenze, in ogni caso, ciò che intendeva dare fu una dimostrazione di sé, attraverso il gioco di specchi dei propri rap-porti e delle proprie appartenenze. Come scrive Carminati, in que-ste lettere, se prese singolarmente, «la funzione comunicativa cede il passo all’esibizione concettosa»;76 ma, guardate nel loro insieme, esse riacquistano una finalità informativa, ancorché foriera di un’informazione manipolata e volutamente distorta: dipingono il quadro degli ‘amici’, indicano il posto nel mondo, e nella repubbli-ca della cultura, dove l’autore pensava di sedere, o meglio desidera-va che gli altri lo vedessero seduto.

Forse è un caso, sotto questo profilo, che sia le lettere a Lore-dano, sia quelle di ringraziamento e lode, sia poi le Prose manchino del visto alla stampa dei revisori della congregazione cassinese: sa-

76. CARMINATI, La lettera del Seicento, p. 104.

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LUCA CERIOTTI

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rebbe stato un atto dovuto, per un monaco che vi apparteneva, ri-chiedere questo specifico imprimatur, ma, come è facile constatare, era pressoché da sempre che Castiglione non vi si sottometteva. Non può essere casuale, tuttavia, che nessuna tra le missive da lui pubblicate appaia rivolta a un interlocutore cassinese, con l’unica eccezione di un unico, datatissimo – forse risalente al 1619 – bi-glietto ad Agostino Lampugnani, posto peraltro proprio per ultimo di tutta la minuta raccoltina. Sorvolando sul particolare che Lam-pugnani per molti versi era un benedettino ‘anomalo’ anche lui, nulla vieta di pensare che, se anche le altre sezioni dell’epistolario di Castiglione fossero andate in stampa, qua e là avremmo forse in-contrato il nome di qualche suo confratello. Il messaggio tuttavia sarebbe rimasto identico e chiaro: perlomeno stando a questa nar-razione a posteriori, a nessuno di loro si era mai sentito in dovere di scrivere per ringraziare o per lodare.

Nel silenzio proprio su questo punto delle Lettere su l’opere dell’il-lustrissimo signor Gio. Francesco Loredano, non posso affermare con certezza che Castiglione ne conoscesse la pur già notissima Vita del cavalier Marino. Ma certamente ne condivideva l’idea di fondo, che un letterato di successo – come aveva mostrato loro il letterato di maggior successo – è quello che tra i suoi pari sa mettersi in luce nelle accademie e nelle corti sa procacciarsi il premio dei potenti. Riguardo al primo aspetto, ove Castiglione già tanto aveva fatto, il suo progetto di rivincita degli anni quaranta portò in dote l’ascri-zione tra gli Incogniti.77 Quanto al secondo, a proposito di patronage e di rendite e di stipendi, le storie finiscono tutte allo stesso modo. Si va avanti per un po’, bene o male, finché si smette di servire.

77. Riepilogo le ammissioni accademiche di Castiglione, secondo quello che

credo sia lo stato attuale delle conoscenze: Animoso di Cremona dal 1617 al-meno; Affidato di Pavia dal 1618; Errante di Brescia dal 1620 circa e non dopo il 1621; Occulto di Brescia non prima del 1621 e non dopo il 1628; Filarmo-nico di Verona dal 29 febbraio 1624; Insensato di Perugia non dopo il 1629; Incognito di Venezia non prima del 1642 e non dopo il 1645. A giudizio di CONTINISIO, Il duello, p. 56, deve invece essere considerato fallito un suo ten-tativo, non anteriore al 1628, di essere cooptato tra gli Umoristi di Roma, in relazione al quale rileva anche una missiva a Giovanni Battista Marinoni com-presa nelle Lettere di ringratiamento e lode, p. 56. La studiosa (Valeriano Casti-glione, p. 80, e Il duello, p. 56), riprendendo un’indicazione non precisamente documentata di BENZONI, Castiglione, p. 107, si dimostra però propensa a rite-nerlo ammesso, in epoca imprecisata, anche tra gli Oziosi di Napoli.

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LETTERE DI DON VALERIANO

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Quando non fu più utile alla corte e non poteva più starne a servi-zio, non gli restò che tornarsene a Milano, a quella vita di monaco che tanti anni prima aveva abbandonato.78

78. Il rientro di Castiglione a Milano, in S. Simpliciano, è indicato nel 1662

ancora da CONTINISIO, Valeriano Castiglione, p. 85. L’ultima sua lettera da To-rino, tra quelle schedate in Archilet, risale al 24 luglio 1660. Lo colloca però a Torino, seppure indirettamente, anche una posteriore missiva, del 6 aprile 1661, di Lorenzo Scoto ad Angelico Aprosio, anch’essa censita in Archilet. Si può osservare, infine, che la relazione sullo stato del monastero di S. Simpli-ciano compilata, il 23 marzo 1650, nel contesto della cosiddetta inchiesta in-nocenziana, poi edita da TOMMASO LECCISOTTI, I due monasteri di Milano alla metà del ’600, «Benedictina», VI, 1954, pp. 123-151, riferisce alla famiglia mo-nastica di tale abbazia anche Castiglione. Dopo avere dato l’elenco dei religiosi residenti, scrive infatti che loro «s’aggiunge don Valeriano Castiglione sacer-dote da Milano, che si trova al servitio dell’Altezza Reale di Savoia [da] circa 25 anni, professo di questo monasterio». La menzione non deve essere presa come segno di presenza nella città ambrosiana, bensì solo come indicazione che Ca-stiglione, dal punto di vista amministrativo, risultava allora vestito, cioè mode-ratamente spesato, a carico dell’insediamento milanese.

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MARIANNA LIGUORI

PER L’EPISTOLARIO DI CARLO DE’ DOTTORI:

PRIMI RILIEVI SULLA TRADIZIONE ESTRAVAGANTE

1.

Come è stato recentemente osservato, il terreno dell’epistolografia del Seicento appare «ben lontano dall’essere stato dissodato», con-statate la mancanza di edizioni moderne dei più significativi car-teggi del secolo e soprattutto le lacune nelle «indagini sull’imponen-te mole di materiale manoscritto» che giace in biblioteche e archivi italiani e stranieri.1 Un contesto bibliografico in cui il caso del let-terato padovano Carlo de’ Dottori (1618-1686) non fa eccezione, mancando per la sua fitta corrispondenza una mappatura e un cen-simento completi e non essendo disponibile un’edizione aggiorna-ta della porzione di epistolario che lui stesso diede alle stampe alla metà del secolo. Lo stato dell’arte sull’argomento, tuttavia, non può ritenersi tra i più deludenti. I diversi biografi del Dottori – mossi da intenti e prospettive assai eterogenei – hanno valorizzato buona parte della documentazione superstite, 2 e lo stesso può dirsi di

1. CLIZIA CARMINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di Antico Regime.

Convegno internazionale di studi (Viterbo, 15-17 febbraio 2018), a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 91-118, a p. 92.

2. Il primo storico dell’opera del Dottori fu l’abate Giuseppe Gennari, autore di una preziosa Memoria intorno la vita e le opere del conte Carlo Dottori letta all’Ac-cademia di Padova il 5 giugno 1792 e poi premessa alla stampa di un’edizione padovana de L’asino (Padova, Pietro Brandolese, 1796). Dalla sua prima, solerte ricognizione dei materiali manoscritti giacenti nei fondi padovani prese le mosse Natale Busetto, il maggiore biografo del Dottori, che nel 1902 ripercor-reva le varie tappe della vita e della produzione dell’autore in una corposa mo-nografia in nove capitoli, seguiti da un’appendice documentaria ricca di mate-riale inedito: NATALE BUSETTO, Carlo de’ Dottori letterato padovano del secolo decimosettimo, Città di Castello, S. Lapi, 1902 (397 pp.). Più di cinquant’anni dopo, Franco Croce intitolava un nuovo studio monografico al Dottori adot-tando una prospettiva in parte diversa da quella di Busetto, che, sebbene in sede prefatoria avesse dichiarato di aver «intrecciato non senza difficoltà al rac-conto della vita varia e complessa l’esame e l’apprezzamento degli scritti» (BU-

SETTO, Carlo de’ Dottori, p. VI), aveva privilegiato nettamente il taglio di ricerca

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MARIANNA LIGUORI

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quanti hanno intitolato studi a singole opere del prolifico letterato, tra i quali si distingue il nome di Antonio Daniele, curatore di una pregevole edizione del poema eroicomico L’asino corredata da una nota bio-bibliografica ricchissima di informazioni di prima mano. 3 La silloge di Lettere famigliari che l’autore pubblicò nel 1658 è og-

storico-biografico rispetto a quello letterario. Croce intendeva invece fornire nella sua ampia monografia una lettura complessiva dell’esperienza «stilistico-sentimentale» del Dottori, preoccupandosi di storicizzare ogni prova artistica del padovano (ravvisando in ciascuna di esse «le tensioni di gusto dell’età ba-rocca») e di costruirne le reciproche connessioni in un sistema il più possibile coerente: FRANCO CROCE, Carlo de’ Dottori, Firenze, La Nuova Italia, 1957, 319 pp. (traggo le citazioni dalla breve prefazione che apre il volume).

3. Nel 1986 Antonio Daniele, già autore di alcuni contributi su specifiche opere del Dottori, licenziava un nuovo volume monografico dedicato ad alcuni aspetti dell’attività del letterato padovano fino ad allora trascurati dalla critica, recuperando anche alcuni testi ignoti: ANTONIO DANIELE, Carlo de’ Dottori. Lingua, cultura e aneddoti, Padova, Antenore, 1986. Lo stesso studioso, cui si deve altresì il prospetto biografico per il DBI (ANTONIO DANIELE, de’ Dottori, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani [DBI], XLI, 1992), pubblicava l’anno successivo un’edizione moderna de L’asino in cui risultano disseminate preziose informazioni documentarie, spesso relative a materiale epistolare inedito (CARLO DE’ DOTTORI, L’asino, a cura di Antonio Daniele, Roma-Bari, Laterza, 1987, 516 pp.). Suggellava questa feconda stagione di studi il convegno, ancora a cura di Daniele, Carlo de’ Dottori e la cultura padovana del Seicento. Atti del con-vegno di studi. Padova, 26-27 novembre 1987 (Padova, Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti, 1990), che vedeva coinvolti studiosi di primo piano nella contestualizzazione delle maggiori prove letterarie dell’autore e ospitava per la prima volta anche un contributo specificatamente dedicato alle Lettere famigliari, a firma di Maria Luisa Doglio (per cui cfr. infra). Dopo lungo silenzio e in occasione del quarto centenario della nascita di Dottori (2018), l’Univer-sità degli Studi di Padova ha riaperto i lavori con un congresso dedicato a pro-blemi filologici e metodologici, in vista dell’allestimento di un’edizione inte-grale delle opere dell’autore: Carlo de’ Dottori nel quarto centenario della nascita (1618-2018). Questioni filologiche e proposte di metodo per la prima edizione degli opera omnia (Padova, 23-24 ottobre 2018). Il presente contributo nasce nell’am-bito di quest’ultima iniziativa, che ha previsto anche una sessione di studi inte-ramente dedicata alla produzione epistolare del Dottori, con l’obiettivo di son-dare i materiali superstiti in prospettiva di un’edizione moderna delle lettere (le ricerche sono state coordinate da Alessandro Metlica ed hanno coinvolto, oltre a chi scrive, Pier Giovanni Adamo e Claudia Marconato, che ringrazio per la feconda collaborazione; sono inoltre grata a Clizia Carminati per i pre-ziosi consigli forniti in sede di discussione conclusiva).

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PER L’EPISTOLARIO DI CARLO DE’ DOTTORI

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getto invece di un contributo di Maria Luisa Doglio, volto a rimar-carne gli elementi di interesse letterario e a definire le modalità con cui Dottori modulò la sua scrittura epistolare per la tipografia;4 in-fine, per alcune missive dirette all’abate Domenico Federici, recu-perate all’inizio degli anni Settanta nella Biblioteca Federiciana di Fano, è disponibile un’edizione moderna, a cura di Giorgio Cer-boni Baiardi.5

Il quadro bibliografico delineato risulta comunque frammenta-rio e discontinuo, segnato da zone interamente in ombra e gradi diversi di approfondimento per i nuclei di missive più noti. Come avvertiva la Doglio nel 1990, augurandosi prossima un’edizione in-tegrale delle lettere, il corpus epistolare si presenta ancora, nel suo insieme, ben «lontano dalla ricomposizione, con frammenti sparsi tra tante biblioteche e archivi».6 Alla luce di tali premesse, il pre-sente contributo fornisce anzitutto una ricognizione aggiornata del-le principali fonti manoscritte e a stampa dell’epistolario di de’ Dot-tori, in direzione di un primo censimento delle lettere in uscita; in secondo luogo, propone un percorso tra i motivi più frequenti nel-la corrispondenza ‘privata’ dell’autore (giacente allo stato mano-scritto in alcuni fondi fiorentini e modenesi), sacrificati nella sele-zione destinata alle stampe ma di notevole interesse biografico-do-cumentario.

Le Lettere famigliari, uscite a Padova nel 1658 per la tipografia Pasquati in due volumi, rappresentano una sezione ristretta del-l’epistolario di Carlo de’ Dottori: quantitativamente, per ovvie ra-gioni di cronologia, ma anche qualitativamente.7 La letterarietà di

4. MARIA LUISA DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’ nell’epistolario di Carlo de’ Dot-

tori. «Idea» e pratica della scrittura epistolare in Carlo de’ Dottori e la cultura padovana del Seicento, pp. 71-88 (poi incluso con diverso titolo nel volume della stessa autrice: MARIA LUISA DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’ di Carlo de’ Dottori, in L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 195-215; da qui si trarranno le citazioni).

5. CARLO DE’ DOTTORI, Lettere a Domenico Federici, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi, Urbino, Argalia, 1971.

6. DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’, p. 209. 7. Lettere famigliari del signor Carlo de’ Dottori, Padova, Giovan Battista Pasquati,

ad istanza di Andrea Baruzzi, 1658, 2 voll., con 52 missive nel primo tomo e 50 nel secondo (a cc. 1-142, con numerazione continua), seguite dalla canzone Ercole di marmo (stampata nelle carte non numerate che chiudono il volume;

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MARIANNA LIGUORI

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questa raccolta risalta nell’analisi proposta dalla Doglio,8 che ne se-gnalava la sistematica soppressione di elementi referenziali – nes-suna delle 102 missive presenta soscrizione, firma, data cronica o topica –, i ripetuti e scoperti richiami ai modelli classici imitati (Ci-cerone, sin dal titolo, ma soprattutto Plinio e Simmaco, individuati come maestri di stile in diversi luoghi della raccolta),9 le dichiara-zioni di poetica situate in posizioni canoniche dei due libri. Si con-sideri inoltre quanto il curatore della raccolta dichiarava in sede conclusiva (facendo naturalmente le veci di Dottori), ovvero che l’autore delle missive desiderava scusarsi con gli autorevoli destina-tari per aver scritto «con semplicità, e tralasciati i titoli per riuscir più netta la frase, e più conforme lo stile degli Auttori che s’è preso

da questa edizione si trarranno le citazioni). Una seconda edizione della rac-colta vide la luce qualche anno dopo a Venezia, con l’aggiunta dell’orazione scritta in morte di Maria Gonzaga, già edita nel 1660 (ancora a Padova, presso Pasquati) e segnalata anche nel frontespizio: Lettere famigliari del conte Carlo di Dottori col Panegirico alla Sereniss. Duchessa di Mantova […], Venezia, Alessandro Zatta, 1664. Le lettere contenute in questa ristampa sono le stesse della princeps: 102 totali, con sequenza e divisione in due libri inalterate, ma con l’espunzione della canzone finale e della dedicatoria a firma di Andrea Baruzzi presenti nell’edizione del 1658. Questa seconda stampa veneziana risulta tuttavia di fat-tura più trascurata, con un formato molto piccolo (143 x 75 mm) e diversi errori di stampa; scompare inoltre anche la numerazione romana che prece-deva le singole missive. L’orazione funebre per la duchessa di Mantova viene annessa al termine del secondo libro con una nuova numerazione di pagine (pp. 1-31) e una lettera di dedica alla figlia Eleonora Gonzaga, sottoscritta Pa-dova, 25 agosto 1660. Una terza stampa delle Lettere famigliari fu allestita po-stuma (nel dominio dell’edizione complessiva delle Opere del Dottori appron-tata a Padova per Pietro Maria Frambotto nel 1695), e con l’aggiunta di una seconda orazione dell’autore composta per la nascita del figlio dell’imperatore Leopoldo I (orazione che Dottori aveva già dato alle stampe presso lo stesso Frambotto nel 1678).

8. DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’, partic. pp. 195-199. 9. Basti qui il rimando a una lettera per padre Ercolani (da identificare in un

Padre Visitatore dei Canonici di San Lorenzo Giustiniani: GENNARI, Memoria, p. XXI) inclusa nel secondo libro (Lettere famigliari, pp. 90-93), in cui Dottori, ringraziando il destinatario per il dono di una stampa delle lettere di Simmaco, esprimeva il proposito di seguirne «con estrema riverenza i vestigi», adattando molte delle sue «forme» nella lingua volgare. Precisava di seguito: «quello ch’io dico di Simmaco, dico pure di Plinio secondo. Egli è stato il primo Maestro, né mi vergogno che sieno vedute molte delle sue cose nelle mie Lettere. Mi vergognerei non conoscerlo, non seguitarlo, ò pure, con invidia alla gloria Ita-liana, mendicar novità da forastieri».

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PER L’EPISTOLARIO DI CARLO DE’ DOTTORI

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ad imitare».10 A ogni modo, a sancire la foggia letteraria della raccol-ta concorre soprattutto l’analisi di ciò che in essa manca. Già Maria Luisa Doglio rilevava che il criterio di selezione adottato per le stampe escludeva quel «rituale di inchini, baciamani, richieste, sup-pliche, celebrazioni, incensamenti che si officia nella corte», offren-do piuttosto i frutti di «un’esperienza intellettuale e stilistica» in un «teatro di lettere» rappresentativo delle diverse occasioni della scrit-tura epistolare (con lettere di accompagnamento, di lode, di racco-mandazione, di condoglianze ecc.).11 Solo due brevi biglietti per Ri-naldo d’Este e tre lettere per Leopoldo de’ Medici, così, trovano spazio nella silloge, laddove le indagini d’archivio assicurano che lo scambio epistolare con i due protettori fu molto fitto già prima del 1658.12

A Padova, dove salvo brevi sortite Carlo de’ Dottori trascorse tutta la sua esistenza, si conservano diversi nuclei manoscritti di lettere in entrata, già parzialmente noti ai primi biografi. Il più con-sistente è l’attuale ms. B. P. 2078 della Biblioteca Civica (i «Mss. Berti» della monografia di Busetto), che raccoglie missive di nume-rosi corrispondenti di de’ Dottori tra i quali spiccano i nomi dell’imperatrice Eleonora Gonzaga, della regina Cristina di Svezia, dei principi Rinaldo d’Este e Leopoldo de’ Medici;13 nei codici 602,

10. Andrea Baruzzi a chi legge, nelle pp. non numerate che chiudono la princeps

delle Lettere famigliari. 11. DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’, pp. 200 e 209. 12. I documenti per Rinaldo d’Este stampati nella raccolta si riducono a una

missiva di ringraziamento per i favori da lui ricevuti e un biglietto di auguri per l’anno nuovo (Lettere famigliari, pp. 34-35 e 96-97). Appena più consistente il binario mediceo, con l’inclusione di una lettera di accompagnamento ad al-cune composizioni spedite (ivi, p. 24) e due missive di raccomandazione e rin-graziamento per la vicenda di un giovane concittadino del Dottori che aveva ottenuto, grazie al principe Leopoldo, una cattedra a Pisa (ivi, pp. 5-6 e p. 37). Sulle fonti manoscritte del carteggio con i due principi cfr. infra.

13. Come già rilevato, nella sua lunga nota bio-bibliografica Antonio Daniele valorizza buona parte del patrimonio manoscritto della Biblioteca Civica di Pa-dova relativo alla biografia e all’attività letteraria del Dottori (e di personaggi del suo entourage), offrendo altresì numerose notizie documentarie sui suoi cor-rispondenti (cfr. DE’ DOTTORI, L’asino, pp. 343-383. Segnalo che il ms. B. P. 2078 contenente lettere a de’ Dottori al tempo degli studi di Daniele era smem-brato in due raccoglitori, B. P. 2078 e B. P. 2167, così citati nella nota). Altri piccoli gruppi di missive dirette al letterato padovano conservati alla Civica sono i fascicoli 109, 537, 2389 della Raccolta Manoscritti Autografi (lettere di

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MARIANNA LIGUORI

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688, 1064 della Biblioteca del Seminario vescovile si registrano allo stesso modo diverse lettere dirette al padovano, tra le quali due au-tografe di Ciro di Pers.14 Distribuite nelle varie destinazioni d’arrivo sono invece le missive che il letterato spedì senza parsimonia a fa-miliari, amici e protettori, tessendo un reticolo di prestigiose rela-zioni che la stampa del 1658 può fotografare solo parzialmente: nel-la Biblioteca Federiciana di Fano si conservano manoscritti 53 do-cumenti epistolari diretti a Domenico Federici, non noti ai biografi primo-novecenteschi del Dottori ma oggi disponibili in edizione moderna;15 nei codici 255 e 291 (ex 268) della Biblioteca Guarne-riana di San Daniele del Friuli (ex «Collez. Fontanini, LXXI e LXXXV» della monografia di Busetto) si trova invece la preziosa corrispondenza, per buona parte autografa, con Ciro di Pers, molto nota alla critica per le questioni di poetica ivi discusse, legate in particolare alla lunga revisione della tragedia di de’ Dottori;16 altri frammenti del carteggio con il friulano sono custoditi infine a U-dine, nella Biblioteca Civica.17

Pietro Basadonna, di Laura Martinozzi duchessa di Modena, di Domenico Fe-derici) e il manoscritto B. P. 168, contenente una missiva in latino di Marsilio Papafava. Nel fascicolo C A 474 della stessa Raccolta di autografi sono inoltre conservate due lettere originali del Dottori dirette all’imperatrice Eleonora.

14. Nel codice 688 (cfr. DE’ DOTTORI, L’asino, p. 406). Sempre presso la Bi-blioteca del Seminario vescovile di Padova, nel manoscritto 668 (molto noto alla critica per contenere la prima redazione dell’Aristodemo), sono inoltre con-servate in copia quattro missive del Dottori per il principe Rinaldo d’Este e due lettere del Segretario estense Girolamo Graziani dirette al Dottori (ivi, p. 399).

15. Cfr. qui nota 4. Un’altra missiva del Dottori per Federici in GIORGIO

RONCONI, Le «ragioni dei Principi» e «l’onorata ambizione del poeta». Domenico Fe-derici corrispondente di Ciro di Pers e di Carlo de’ Dottori, «Atti e Memorie dell’Ac-cademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti», XCIV, 1981-1982, pp. 65-81 e 207-221 (pp. 220-221).

16. Come è noto, i due letterati instaurarono una feconda collaborazione nell’ultimo decennio di vita del più anziano Ciro (Pers, 1599 - Pers, 1663) at-traverso un carteggio molto fitto e già in parte valorizzato dal primo biografo Natale Busetto, che pubblicò 15 importanti inediti (dei quali 5 responsive del Pers) nella sua appendice documentaria (BUSETTO, Carlo de’ Dottori, pp. 289-304). Per un percorso tra le questioni di interesse letterario che emergono dallo scambio epistolare Pers-Dottori rimando alla Introduzione all’edizione moderna della tragedia del letterato friulano: CIRO DI PERS, L’umiltà esaltata ovvero Ester regina, a cura di Lorenzo Carpanè, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, par-tic. pp. 8-19.

17. Nel ms. 463 (ex codice n. 242 della monografia di Busetto), contenente

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La maggior parte del materiale inedito di questo epistolario gia-ce tuttavia in altri tre cospicui fondi manoscritti, tra Modena e Fi-renze. Nella prima sede (Archivio di Stato, Archivio per materie, Busta 18) si conservano una cinquantina di documenti epistolari in un fascicolo composto quasi totalmente da missive autografe del Dottori dirette al cardinale Rinaldo d’Este, fratello del duca di Mo-dena e Reggio Francesco I.18 La corrispondenza con l’estense copre un arco cronologico molto ampio (1649-1675), che coincide con la maturità artistica di de’ Dottori, e risulta ancora in larga parte ine-dita: sommando le missive proposte nell’appendice documentaria di Natale Busetto e quelle considerate per estratti nella Nota critico-filologica all’edizione dell’Asino di Daniele risulta allo stato mano-scritto più del cinquanta per cento di questi materiali.19 A Firenze, nella Biblioteca Nazionale Centrale (Autografi Palatini, III, 44-99), sono invece presenti cinquantacinque lettere spedite da de’ Dottori al principe – e poi anch’egli cardinale – Leopoldo de’ Medici, fra-tello del granduca di Toscana Ferdinando II; altrettanto ampio l’ar-co cronologico di riferimento per i documenti qui conservati, spe-diti in maniera intermittente tra il 1647 e il 1675, e ancora più significativa la porzione di materiale inedito.20 Infine, di capitale interesse risulta un terzo imponente fondo manoscritto, anch’esso a Firenze (Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi, Redi 215): si tratta di un volume contenente più di centottanta missive autografe spedite nell’arco di un trentennio (1653-1684) a Francesco Redi,

lettere di vari al Pers (tra le quali tre autografe del Dottori: cc. 129r-130v e c. 134r-v).

18. Il faldone comprende ben 46 missive di Carlo, quasi tutte indirizzate a Rinaldo (quattro sono spedite al segretario di Stato estense Girolamo Graziani e solo una al duca Francesco I). Vi si trovano inoltre due copie di una lettera del detto Rinaldo al Dottori, e due minute del Graziani.

19. BUSETTO, Carlo de’ Dottori, pp. 270-282; DE’ DOTTORI, L’asino, pp. 385-419. Il fondo modenese conserva dunque la quasi totalità delle missive spedite al principe estense a oggi note; completano il quadro, oltre alle quattro lettere presenti in copia nella Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. nota 14), i due bigliettini a Rinaldo stampati tra le Famigliari (cfr. nota 12), i cui autografi ri-sultano irreperti.

20. Nell’appendice di Busetto compaiono sedici delle cinquantacinque mis-sive per Leopoldo qui conservate (BUSETTO, Carlo de’ Dottori, pp. 256-270), cui vanno sommate le tre incluse nelle Famigliari a stampa (per cui cfr. nota 12). Circa il sessanta per cento di questi documenti risulta dunque tuttora inedito.

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rilegate insieme dallo stesso autorevole destinatario e rimaste finora sconosciute alla bibliografia sul de’ Dottori, persino a quella più re-cente.21 Le lettere qui raccolte forniscono nuove e importantissime notizie – tutte ancora da integrare e valorizzare opportunamente in sede critica – sulla rete di contatti costruita dal padovano nel capo-luogo toscano (il nome di Carlo Dati è una costante in queste carte, e altrettanto frequente quello di Federigo Nomi), sul fecondo scam-bio di materiale letterario tra i due poli, sulle timide prove di scrit-tura in greco di de’ Dottori, di cui mostrava i primi risultati a Redi, e soprattutto sull’impegno dell’autore nel creare e mantenere vivo negli anni un solido mercato fiorentino per le sue opere, promuo-vendo i contatti tra gli stampatori padovani e quelli del capoluogo toscano.22

In queste ultime tre grandi raccolte manoscritte si apprezza il tentativo di ordinamento cronologico dei documenti epistolari, non sempre riuscito a causa della grafia poco decifrabile dell’autore nelle sottoscrizioni, e in particolare nelle datazioni in cifre arabe. Il

21. Una scheda dettagliata del manoscritto è stata compilata recentemente da

Monia Bulleri (con modifiche di Giliola Barbero), ed è disponibile sul database Manus online al seguente indirizzo: https://manus.iccu.sbn.it//opac_Scheda-Scheda.php?ID=151811. Il codice colma il vuoto documentario della corri-spondenza di de’ Dottori con Francesco Redi (Arezzo, 1626 - Pisa, 1697), figura di spicco della società letteraria fiorentina di pieno Seicento nonché noto me-dico della fonderia granducale (GABRIELE BUCCHI, LORELLA MANGANI, Redi, Francesco, in DBI, LXXXVI, 2016). Dello scambio epistolare tra i due letterati erano note in particolare alcune missive dell’aretino, comparse nell’edizione postuma delle sue opere (cfr. FRANCESCO REDI, Opere di Francesco Redi genti-luomo aretino e accademico della Crusca, Milano, Società tipografica de’ Classici Italiani, 1809-1811, 9 voll., in partic. voll. V e VI) e solo pochi documenti a firma di de’ Dottori inclusi tra le Lettere famigliari a stampa (nn. XX, XXI, XXIV, XLI, XXXVII). Ancora nel 1987, infatti, Antonio Daniele si rammaricava del fatto che non fossero «pervenute le lettere responsive del Dottori al Redi, se si fa eccezione per le poche (e brevi) edite dallo stesso Dottori»: DE’ DOTTORI, L’asino, p. 380.

22. Naturalmente in questo fondo risultano numerose anche le missive di in-teresse esclusivamente privato: de’ Dottori teneva l’amico a Firenze costante-mente aggiornato sulle proprie vicende familiari, sul suo stato di salute e sui rapporti parallelamente intrattenuti con il casato estense o con il ramo impe-riale della famiglia Gonzaga; si rivolgeva a lui, inoltre, per favori personali di vario genere (raccomandazioni per sé, familiari e amici, ma soprattutto fre-quenti richieste di medicinali e prodotti provenienti dalla fonderia granducale medicea).

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dato è qui oggetto di attenzione in quanto risulta alla base di un importante fraintendimento negli studi critici relativo alla datazio-ne della princeps delle Lettere famigliari, perdurato fino a tempi re-centissimi: con una missiva del 19 luglio 1658 indirizzata a Leo-poldo de’ Medici, de’ Dottori dava notizia di un «volumetto di let-tere» fatto stampare dagli amici padovani con più «sofferenza che acconsentimento»,23 una pubblicazione di cui informava tre giorni dopo anche Ciro di Pers, con la stessa ostentazione d’umiltà e di-stacco («Ho più permesso che acconsentito lo stampar queste poche lettere, e più obbedito agli amici che al genio»).24 Il fraintendimento della lettura del 1658 in 1652 in entrambi i documenti citati e in altri a essi legati, risalente almeno al biografo Busetto, ha generato tale confusione nella bibliografia critica che si è postulata nel tem-po una vera e propria edizione fantasma delle Lettere famigliari, da-tata 1652 ma mai rinvenuta: ancora nel congresso padovano del 1990, il contributo dedicato alle Famigliari a stampa di de’ Dottori veniva aperto datando erroneamente queste parole dell’autore al 1652, con il conseguente riferimento a un volume spedito al Pers di cui purtroppo «non resta traccia».25

2.

Ciò che emerge con maggiore evidenza da una lettura incrociata delle missive di de’ Dottori conservate manoscritte tra Modena e Firenze è il reiterarsi delle dinamiche con cui egli gestiva i rapporti con i casati estense e mediceo. Con identiche modalità e movenze l’autore si proponeva al cospetto dei principi Rinaldo d’Este e Leo-poldo de’ Medici dapprima consacrando la propria «Musa» alla ri-spettiva famiglia, ovvero allegando composizioni di varia natura e richiedendone sempre il giudizio dell’interlocutore; in un secondo momento, tentando di ottenere dalla fatica letteraria – e dal presti-gio conferito al principe attraverso la dedica di opere a stampa – raccomandazioni, favori, promesse di protezione per sé, familiari e

23. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Autografi Palatini, III, (d’ora in

avanti AF), c. 48r. Nella trascrizione dei brani autografi si adottano criteri con-servativi, con il solo scioglimento delle abbreviazioni e con minimi interventi sull’interpunzione, sull’uso di apostrofi e accenti e sul sistema delle maiuscole.

24. Cito da DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’, p. 195. 25. Ibid.

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amici; infine, esauritasi la fase più vitale dello scambio e dell’impe-gno letterario verso uno dei casati, de’ Dottori ricercava parallela-mente altri committenti cui offrire le proprie scritture.

Tra i nuclei di missive più corposi contenenti richieste di racco-mandazione spedite a Modena e a Firenze spiccano le molte lettere del 1651, rivolte in particolare a Rinaldo, con le quali, insieme al-l’invio dei canti dell’Asino, l’autore richiedeva intercessione in una spiacevole vicenda giudiziaria che lo vedeva coinvolto;26 numerosis-sime altre missive vennero poi indirizzate a Leopoldo de’ Medici e a Francesco Redi nel 1658 (anche qui confuso con 1652 nell’ap-pendice documentaria di Busetto) per richiedere, a tragedia ormai conclusa e intitolata al Medici, che il primogenito Antonfrancesco venisse accolto come paggio nella corte granducale di Firenze (ri-chiesta che tuttavia non andò a buon fine, con grande amarezza dell’autore).27 Si possono individuare, in sostanza, percorsi molto simili nelle reti epistolari cortigiane che de’ Dottori tesseva: abilis-simo nelle delicate manovre di opportunità sul doppio binario e-stense-mediceo, l’autore riuscì a mantenere ottimi i rapporti con entrambe le corti anche a distanza di molti anni dai primi impegni letterari a loro diretti (databili alla fine degli anni Quaranta), tanto che nei fondi qui in esame si susseguono richieste di favori e racco-mandazioni senza soluzione di continuità per l’arco di un trenten-nio, cioè anche nella stagione in cui de’ Dottori aveva riposto le sue ambizioni cortigiane (e indirizzava i suoi sforzi letterari) a Vienna, o quando la sua vena poetica si era ormai esaurita.28

26. Nel maggio del 1651 de’ Dottori venne costretto ai domiciliari per aver

fatto da padrino in un duello padovano; la situazione processuale si fece molto delicata nei mesi successivi, ma ebbe infine esito positivo soprattutto grazie alla mobilitazione di Rinaldo d’Este: BUSETTO, Carlo de’ Dottori, pp. 97-100; CROCE, Carlo de’ Dottori, pp. 139-140; DE’ DOTTORI, L’asino, pp. 392-400.

27. Anni dopo, quando il figlio Antonfrancesco era ormai stabilmente occu-pato presso i Gonzaga, de’ Dottori ricordava ancora l’esito negativo della vi-cenda al Redi, concludendo di essere sempre stato «assai sfortunato appresso codesta Serenissima casa» (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi, Redi 215 [d’ora in avanti AR], c. 190r-v; missiva spedita da Padova a Firenze il 30.03.1663).

28. Ancora nel 1675 l’autore scriveva parallelamente a Leopoldo de’ Medici (che morì lo stesso anno) e alla corte estense (il suo protettore Rinaldo era scomparso tre anni prima) per ottenere una raccomandazione per l’abate Vir-ginio Buzzacherini, suo parente (cfr. AF, c. 98r-v; Modena, Archivio di Stato,

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La prima missiva della sequenza cronologica ricostruibile con questi materiali è indirizzata al principe Leopoldo, con cui inizial-mente i rapporti sembrano essere stati più difficili. Tra le carte di Firenze si conserva infatti copia della missiva, datata 6 giugno 1647, con cui un giovane de’ Dottori si rivolgeva per la prima volta al Medici dedicandogli la stampa padovana delle proprie Ode, e ten-tando di inaugurare una corrispondenza che potesse aprirgli la stra-da di un impiego fiorentino.29 Il Dottori, ritenendosi del tutto sco-nosciuto al principe, lo informava così di averlo scelto «di lontano» quale «Nume tutelare» delle sue composizioni, e di aver maturato il proposito di servire il casato mediceo già da quattro anni (con rife-rimento, sembra, ai quattro anni di lavoro che separano la prima raccolta lirica dell’autore, consegnata ai torchi nel 1643, e questa seconda fresca di stampa).30 A ogni modo, questo primo tentativo di avvicinamento alla corte medicea non sortì gli effetti sperati: da un capitolo in terza rima composto nell’agosto del 1647 si viene a conoscenza del profondo risentimento del letterato padovano se-guito all’atteggiamento indifferente di Leopoldo, che non corri-spose con alcun utile tangibile la dedica del volume.31 Se i rapporti con il Medici poi migliorarono sensibilmente, ciò che emerge dalla sequenza delle testimonianze manoscritte, tuttavia, è che de’ Dot-tori cercò in prima istanza di costruire un ponte con la corte fioren-tina, ma non vi riuscì; ripose poi le sue speranze in quella estense, nella persona del cardinale Rinaldo, che divenne il suo «primo pa-drone»32 (una priorità cronologica riconosciuta e ribadita diverse

Archivio per materie, Busta 18 [d’ora in poi AM], n. 44).

29. La stampa cui si fa riferimento è CARLO DE’ DOTTORI, Le Ode. Prima e Seconda Parte al Serenissimo Principe Leopoldo di Toscana, Padova, Gaspare Crivel-lari, 1647; com’è noto de’ Dottori non si trasferì mai a Firenze, né riuscì a far ammettere a corte suo figlio Antonfrancesco, anche in seguito alla dedica al principe mediceo dell’Aristodemo.

30. CARLO DE’ DOTTORI, Poesie liriche, Padova, Paolo Frambotto, 1643. La data della lettera di dedica stampata in apertura del volume di Ode precede la missiva qui citata (AF, c. 45r) di qualche giorno, recando sottoscrizione 01.06.1647; la circostanza offre allora spunti di riflessione sulla legittimità dell’inclusione delle dedicatorie (o sul problema della loro collocazione) in un’edizione che intenda rispettare la sequenza cronologica del carteggio real-mente spedito.

31. CROCE, Carlo de’ Dottori, pp. 95-96; DANIELE, Carlo de’ Dottori, p. 554. 32. Cfr., tra gli altri, AM, n. 16.

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volte in queste carte) e con il quale il rapporto si strinse così velo-cemente che nella terza lettera della sequenza modenese l’autore appare già pronto a lasciare Padova per raggiungere il nuovo mece-nate a Roma.33

La corrispondenza con i due principi, considerata qui in paral-lelo, offre la possibilità di ricostruire la cronistoria delle due opere più note di de’ Dottori, rispettivamente l’Asino (attraverso il fondo di Rinaldo a Modena) e l’Aristodemo (con quello di Leopoldo a Fi-renze). Non è questa la sede per ripercorrere nel dettaglio le fasi di composizione dei testi, già note alla critica; interessano qui piutto-sto le modalità in cui de’ Dottori gestì il simultaneo carteggio con i due mecenati, mostrandosi sempre accorto a distribuire le sue fa-tiche letterarie o a selezionare le informazioni da fornire a ciascuno secondo ragioni di diplomazia e di opportunità. Dalla lettura incro-ciata dei documenti manoscritti emerge infatti che nei mesi di com-posizione dell’Asino, dedicato a Rinaldo (il primo canto gli venne spedito nel dicembre 1650), l’autore non fece alcuna menzione di questo lavoro – che lo impegnava a tempo pieno – nelle missive al principe Leopoldo, circostanza che non stupisce visti gli esordi dif-ficili cui si è appena fatto cenno; più insolito risulta tuttavia che la prima menzione dell’Asino fatta al Medici risalga addirittura al giu-gno del 1653, ovvero un anno dopo la stampa del poema, quando i rapporti con Leopoldo erano da tempo decollati («Giunse, ma non però di trotto, l’Asino di quel poeta che ad ogni altro può pre-tendere di stare incognito fuori di me», gli scrisse quel mese il prin-cipe, con ironica allusione al ritardo dell’invio).34 Già Antonio Da-niele rifletteva sulle ragioni di un simile indugio, ipotizzando il pos-

33. «Mandovi, conforme le commissioni di Vostra Altezza, venerdì il mio

baule a Venezia, per consignarlo sabbato al corriero»: missiva del 14 dicembre 1649: AM, n. 3. Come è noto, a Roma de’ Dottori incontrò diverse difficoltà (un clima ostile, una lontananza difficoltosa dalla famiglia padovana) che lo costrinsero a interrompere il suo soggiorno dopo appena qualche mese: cfr. DANIELE, Carlo de’ Dottori, p. 554.

34. Cito da DE’ DOTTORI, L’asino, p. 407. Tra le carte fiorentine è conservata la missiva con cui de’ Dottori qualche giorno dopo ringraziò Leopoldo del plauso rivolto all’Asino: «L’autore del Poemetto protesta poi d’aver toccato il segno delle sue speranze; e non darebbe col testimonio che Vostra Altezza fa, l’acquisto che ha fatto sotto gli occhi del serenissimo Leopoldo per quanto ap-plauso potesse ricever dall’Italia tutta» (AF, c. 79r).

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sibile «ritegno dell’autore ad esibire un poema faceto ad un perso-naggio così grave», o il «premeditato disegno di opportunità poli-tica», essendo Rinaldo un filofrancese in quel momento non del tutto gradito ai Medici.35 Accanto a queste motivazioni, il silenzio potrebbe essere attribuito alla discrezione e all’intelligenza diplo-matica e cortigiana del de’ Dottori, che aveva già dedicato a Leo-poldo il volume di Ode e a lui avrebbe intitolato di lì a poco anche la tragedia, di cui infatti, specularmente, non fece alcuna menzione a Rinaldo d’Este per tutto il periodo di composizione. Negli anni della scrittura e della lunga revisione dell’Aristodemo (1654-1657 circa), in cui lo scambio epistolare con Leopoldo de’ Medici risulta intenso e vivacissimo sotto l’aspetto letterario, de’ Dottori non rese mai partecipe il cardinale Rinaldo dei lavori in corso: all’estense al contrario si rivolgeva negli stessi mesi lamentando una musa isteri-lita, e diradando il carteggio con la posa di chi preferiva non appro-fittare del tempo prezioso di un principe.36 La prima menzione della tragedia all’Este si trova così solo in una missiva del 26 luglio 1657, quando ormai – analogamente a quanto era accaduto per l’Asino con Leopoldo – l’Aristodemo era già stampato.37

Un altro aspetto che merita di essere evidenziato nell’analisi di questo doppio binario cortigiano è la risposta radicalmente diffe-rente dei due principi di fronte alle scritture spedite da de’ Dottori, circostanza che spiega in parte il diradarsi della corrispondenza con Rinaldo d’Este, o meglio il suo divenire col tempo puramente di cortesia. L’estense infatti non accolse mai il reiterato invito di de’ Dottori a formulare un parere sui canti dell’Asino man mano spe-diti, sebbene nelle lettere del fondo modenese risultino insistenti le richieste di un giudizio: in una missiva del dicembre 1650 per

35. DE’ DOTTORI, L’asino, p. 406. 36. Le missive spedite a Rinaldo parallelamente alla composizione della trage-

dia risultano spesso ricche di giustificazioni per la frequenza meno assidua della scrittura epistolare: «Io non ho osato prima d’ora comparir dinanzi a Vostra Altezza per non pregiudicar al mondo d’un momento di quel prezioso tempo» (AM, n. 17; lettera del 30.10.1654).

37. AM, n. 25: «Sono alcuni anni che onorato da comandi del signor Principe Leopoldo di Toscana per la Regina di Svezia ebbi a toccare qualche cosa in-torno una Tragedia in nostra lingua, nella quale per prova mi posi ad abboz-zarne qualche scena».

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esempio, con allegato il secondo canto dell’opera, l’autore suppli-cava Rinaldo di esplicitare i suoi «sentimenti» su quelle scritture, poiché riteneva il suo giudizio più importante della «rigorosa critica dei professori».38 Come già rilevato da Daniele, l’Este rispose a que-ste preghiere con elogi convenzionali e generici verso il poemetto e il suo autore, cercando sempre di procrastinare la formulazione di un giudizio più puntuale. L’ultima lettera con cui de’ Dottori ricer-cò un parere da Rinaldo è datata al gennaio del 1652, e si conserva in copia a Padova:39 deluso ancora una volta, e avendo ormai com-posto e spedito sette canti su dieci, l’autore mutò modus operandi e più di tre mesi dopo, nell’aprile dello stesso anno, si rivolse all’Este informandolo che l’opera era ormai conclusa, e aggiungendo che non gli avrebbe inviato il manoscritto essendo ormai «inutile»; gli avrebbe piuttosto spedito direttamente la stampa.40 La replica di Ri-naldo conferma che il padovano lesse bene i segnali del principe, che preferì non farsi carico dell’incombenza di leggere e correggere l’opera e accettò di buon grado la decisione di ricevere solo la stampa finale.41

Diversissimo, come è noto, fu invece l’atteggiamento di Leopol-do nelle fasi di composizione dell’Aristodemo, poiché il Medici non solo si mostrò attento ed entusiasta lettore della tragedia, ma con-tribuì attivamente alla fase di revisione movendo alcune puntuali osservazioni di carattere puristico alla veste linguistica adottata.42 Nel fondo manoscritto della Nazionale di Firenze si conservano le

38. AM, n. 6. 39. DE’ DOTTORI, L’asino, p. 401. 40. AM, n. 14. 41. Il 21 giugno del 1652 l’autore poteva spedire il poemetto fresco di stampa

all’Este: «Ecco finalmente il poema eroicomico, che esce al mondo sotto la pro-tezione di Vostra Altezza, alla quale io consacro e consacrerò sempre il mio povero ingegno […]. Nel resto Vostra Altezza lo troverà molto diverso dal ma-noscritto e spero anche migliorato»: DE’ DOTTORI, L’asino, p. 404. La risposta di Rinaldo giunse il 18 luglio dello stesso anno: «Per la parzialità di longo tempo contratta verso il poema eroicomico di Vostra Signoria, mentre mi è toccato haverlo nelle mani anche quando era in fasce, l’ho ricevuto tanto più volentieri ora ch’ella me lo fa vedere adulto» (ivi, p. 405).

42. «Osservazioni di parole» le definiva lo stesso principe in una missiva spe-dita a de’ Dottori nell’aprile del 1656, in cui addirittura ringraziava il padovano per avergli concesso l’occasione di «studiar qualche libro» al fine di formulare un giudizio competente sulla tragedia a lui dedicata: ivi, p. 361.

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repliche del padovano alle correzioni proposte, interessanti anche per un migliore inquadramento della figura di de’ Dottori cortigia-no. L’autore accolse tutte le osservazioni del principe con grande ostentazione di umiltà, scusandosi a più riprese per le imperfezioni presenti, ma senza mai rinunciare a fornire precise giustificazioni per le scelte che gli venivano criticate: le missive spedite possono leggersi infatti come una sorta di autodifesa erudita di un uomo dal carattere fiero, che non perdeva occasione di legittimare le sue op-zioni linguistiche, spesso ricorrendo a princìpi di auctoritas. Una lettera dell’ottobre del 1656 risulta emblematica dell’atteggiamento assunto nell’accogliere le osservazioni del principe: de’ Dottori si complimentava per la pertinenza e l’appropriatezza dei suggerimen-ti, e ne accoglieva la maggior parte; ma si appellava a Seneca nella riflessione sull’opportunità di legare il coro agli atti attraverso la ri-ma, o giustificava alcune delle scelte stilistiche orientate verso una maggiore mimesi del linguaggio quotidiano sulla scorta di Euri-pide: E perché ho fatte quelle riflessioni, che può fare il mio povero ingegno, e cognizione sugli stessi, sopporterà anche Vostra Altezza che io, confessando i miei errori, mi scusi brevemente in qualche luogo con quegli essempi che m’aveano fatto errare o che in qualche coserella io le chiegga licenza […]. Già parmi d’aver colpito nel principale, quando mi viene dall’altissimo suo giudizio appro-vata la struttura ed economia della Favola, intorno alla quale verte la diffi-coltà maggiore […]. Risponde poi per me sì bene Vostra Signoria all’opposizione che potrebbe farsi a’ Cori, ch’io non ho da replicar punto: e veramente nella maggior parte di quelle di Seneca io veggo osservato che il Coro sia analogo all’Atto. Dico bene all’invito che mi fa di legar gli stessi con rima, ch’io la supplico di dispensarmene, confessando ingenuamente di incontrare una fatica che mi spaventa; e mi permetta il dirle che al certo con la legge della rima io non direi quello che s’è detto con la libertà; e che in nessun luogo è più vario di metro lo stesso Seneca che ne’ cori, dalla quale varietà proviene una certa grazia, che mi piacque e tentai di imitare, lasciando correr la penna […]. Io m’avea bene ingannato nella prima scena, facendo parlar con troppa medio-crità marito e moglie, pensando che tale dovesse esser il ragionamento fra persone di molta confidenza ed in caso di molto affetto, e per questo io ci avea lasciato correr l’intercalare, avendone anche essempio in Euripide.43

43. AF, c. 62r-v, corsivo mio.

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Ciò che più colpisce in questo scambio epistolare, a ogni modo, è l’accortezza e la diligenza con cui il coltissimo Leopoldo de’ Medi-ci – animatore e protettore dell’Accademia della Crusca – si accostò alle scritture manoscritte del padovano, sebbene il suo intervento possa essere ricostruito per lo più indirettamente, essendosi disper-so quel plico ricco di «osservazioni di parole» spedito a Padova nel 1656.44 È opportuno precisare tuttavia che le lettere del principe fiorentino, come era consuetudine nelle corti del tempo, venivano di norma vergate da un segretario: di uno di loro un orgoglioso de’ Dottori si lamentava in una lettera a Francesco Redi dell’aprile 1671, a causa dell’omissione del titolo di conte «nelle soprascritte» delle missive inviate da Firenze.45 Complesso risulta dunque defi-nire il grado di paternità delle scritture epistolari sottoscritte dal Medici, anche alla luce di alcuni elementi di ‘peritesto’ rintraccia-bili nel fondo fiorentino: nella parte superiore di una lettera auto-grafa di de’ Dottori spedita a Firenze nel gennaio 1655 è una breve annotazione di mano del principe, rivolta a qualcuno dei suoi se-gretari, che recita: «rispondere lodare la canzone mandatami e che la tragedia non m’è stata mandata dal cardinale Spada».46 In questo caso, dunque, il principe sembra demandare a terzi l’intera stesura della missiva, un particolare che potrebbe gettare qualche ombra sulla piena ed esclusiva responsabilità delle osservazioni linguisti-che proposte al padovano: mi sembra persuasivo infatti postulare una scrittura a più mani di quelle famose correzioni all’Aristodemo – anche alla luce del fatto che si fecero attendere per mesi –, in un lavoro collettivo in cui furono coinvolti i tanti letterati gravitanti attorno al principe e agli ambienti della Crusca.47

44. DE’ DOTTORI, L’asino, p. 361. 45. AR, c. 257r-v. 46. AF, c. 56r. La canzone cui si fa riferimento è quella intitolata La stella dei

Magi: CARLO DE’ DOTTORI, Le Ode (quarta edizione), Padova, Paolo Fram-botto, 1664, pp. 474-478.

47. A causa della totale dispersione dei materiali risulta complesso individuare le possibili figure segretariali coinvolte nella stesura delle osservazioni spedite dal cardinale. Si potrà rilevare tuttavia che nel carteggio con Redi relativo a quella stagione compare spesso il nome di Desiderio Montemagni (1597-1666), poeta e segretario di Leopoldo de’ Medici, nonché membro dell’Accademia della Crusca con il nome di Timido: cfr. VANNA ARRIGHI, Montemagni, Deside-rio, in DBI, LXXVI, 2012. Con lo pseudonimo di Guernito, anche il letterato Alessandro Segni fu al servizio del cardinale mediceo fin dagli anni Cinquanta,

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Per delineare le modalità con cui de’ Dottori si destreggiava nel-le reti epistolari cortigiane da lui costruite risultano infine interes-santi i molti casi in cui una stessa composizione veniva spedita sia a Modena che a Firenze, poiché ne risultano congiunture che, a una lettura incrociata dei documenti manoscritti, fanno sorridere per la ripetizione di movenze e stilemi epistolari. A partire dal 1652, una volta dedicato l’Asino a Rinaldo d’Este, Leopoldo de’ Medici divenne il committente cui de’ Dottori risultava più interessato, tanto che egli divenne solito spedire le sue nuove composizioni pri-ma al Medici per poi recapitarle solo in un secondo momento an-che al «primo padrone» estense. Particolarmente indicativo risulta il caso di una canzone composta per il neoeletto papa Alessandro VII,48 spedita a Leopoldo il 22 ottobre del 1655 e a Rinaldo la set-timana successiva. Scrivendo a entrambi, de’ Dottori volle sottoli-neare a ciascuno il primato dell’invio, cercando tuttavia, abilmente, di non mentire: a Leopoldo ricordava allora come la canzone ve-nisse mandata, alla stregua di tutte le altre, sempre prima a Firenze che altrove – «nell’uscir al mondo il primo suo viaggio è quel solito di Fiorenza»;49 a Rinaldo d’Este, cui allo stesso modo voleva propa-gandare una qualche priorità, scriveva invece che la canzone veniva recapitata prima a lui che a Roma, al fine di mantenere vivi i con-tatti anche con il casato cui doveva le sue prime fortune: In testimonio della mia riverenza mando a Vostra Altezza una canzone per lo sommo pontefice, acciò riceva il primo onore nelle serenissime sue mani, e s’adorni della grazia che le farà leggendola prima di capitar a Roma.50

3.

A conclusione di questo percorso tra le testimonianze manoscritte

ed ebbe un ruolo fondamentale all’interno della Crusca: ALFONSO MIRTO, Se-gni, Alessandro, ivi, XCI, 2018. Si consideri a ogni modo che Dottori cercò a più riprese a Firenze un parere sulla tragedia dallo stesso Redi (cfr. AR, c. 4r-v), e che a partire da questi primi scambi con l’ambiente culturale fiorentino fu sem-pre più significativa la sua frequentazione di letterati cruscanti quali, oltre a Redi, Antonio Magliabechi e Carlo Dati.

48. Quella stampata in DE’ DOTTORI, Le Ode (quarta edizione), pp. 174-181. 49. AF, c. 59r, corsivo mio. 50. AM, n. 23, corsivo mio.

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è opportuno tornare su alcune considerazioni di Maria Luisa Do-glio relative alla retorica epistolare dell’autore: secondo la studiosa nell’epistolario di Carlo de’ Dottori «scrivere per stampare e scri-vere confidentemente soggiacciono alle stesse regole»,51 un giudizio formulato soprattutto sulla base dell’accostamento delle Lettere fa-migliari a stampa con le missive spedite al funzionario imperiale Do-menico Federici. Come ben emerge dalle note di commento del moderno editore Cerboni Baiardi, infatti, le lettere per Federici ri-sultano spesso impreziosite di citazioni in greco e in latino, di versi di Petrarca, Ariosto, Berni e di diversi altri autori: anche quelle di argomento più familiare e quotidiano (ragguagli di varia natura sul-le proprie occupazioni o sulla propria salute) appaiono così agli oc-chi della Doglio ad «alta caratura letteraria», ovvero riconducibili «al dominio della retorica» anche in assenza di destinazione edito-riale.52 La lettura del corpus di missive manoscritte a oggi noto, e in particolare delle numerose lettere al medico Redi sconosciute alla studiosa, induce in molti casi a stemperare tali conclusioni, che tut-tavia mantengono nel complesso la loro validità: anche nelle lettere private all’amico Francesco Redi o nei biglietti cortigiani ai due principi di argomento circostanziale (ovvero nelle cosiddette mis-sive ‘di negozio’) la retorica è studiata, la sintassi sempre control-lata, non si registra mai confusione nelle sequenze logiche e la gra-fia è di norma elegante e chiara. Non ci si aspetta naturalmente per tutte queste missive, il più delle volte motivate da esigenze e inte-ressi cortigiani, il grado di letterarietà che caratterizza quelle al Fe-derici (letterato anch’egli, tenuto in grande prestigio presso la corte imperiale); tuttavia andrà rilevato che interessanti tessere libresche si scorgono anche nelle lettere dei fondi di Modena e Firenze. In due documenti degli anni Cinquanta, diretti rispettivamente a Ri-naldo d’Este (nel dicembre del 1650) e a Leopoldo de’ Medici (nel maggio del 1656) de’ Dottori faceva ricorso a un repertorio di im-magini letterarie per un tema che si prestava bene a questo tipo di suggestioni, quello della legittimità dell’ozio dei principi. Nella mis-siva all’estense, nota alla critica per essere una sorta di scrittura pro-grammatica dell’Asino, de’ Dottori esordiva chiedendo perdono per

51. DOGLIO, Le ‘Lettere famigliari’, p. 212. 52. Ibid.

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aver posto all’autorevole destinatario disturbi «di niun rilievo» ri-spetto alle sue più importanti occupazioni, ma si giustificava utiliz-zando l’immagine di Giove intento a dipingere «farfalle e parpa-glioni» per distrarsi dalle sue innumerevoli responsabilità: La prego a perdonarmi dell’ardire che nel mio caso è di due sorti. Il primo è di portare alla nobilissima ed operosa mente di Vostra Altezza un impor-tuno disturbo di cose di niun rilievo; il secondo di pormi ad impresa con-seguita da altri e nella quale già è stato tocco il segno. Pe ’l primo siami lecito dire ch’anco il Giove di Luciano dipingeva farfalle e parpaglioni di-vertito con questa piacevolezza dall’assidua cura di governar l’universo e vagliami la bontà e la dolcezza d’animo di Vostra Altezza che tanto volen-tieri si degna di piegar gli occhi su le basse composizioni del suo reveren-tissimo ed obbligatissimo servidore.53 La fonte cui de’ Dottori nella missiva si richiamava esplicitamente, ovvero i Dialoghi di Luciano, risulta in realtà parzialmente errata, poiché il motivo deriva da una delle Intercenali di Leon Battista Al-berti, quella dal titolo Virtus, creduta fino a Ottocento inoltrato una traduzione dal greco al latino di un originale dialogo lucia-neo.54 Lo pseudo Luciano, a ogni modo, potrebbe non essere l’u-nico riferimento per questo brano di de’ Dottori, anche perché nel dialogo in questione il dio Giove è coinvolto solo indirettamente (non figura tra gli interlocutori) e il diversivo della pittura di farfalle è appena evocato: Virtù, lamentando di essere trascurata da Giove e dagli dei nella sua lotta contro la Fortuna, ricorda a Mercurio i loro futili passatempi, quali «far fiorire a tempo le zucche o badare a rendere più variopinte le ali delle farfalle».55 Accanto alla matrice libraria esplicitata nella lettera, allora, si potranno verosimilmente individuare altre tipologie di fonti, dai repertori di motivi letterari, molto diffusi nella produzione editoriale del tempo, fino a sugge-stioni iconografiche, come quella del celebre dipinto di Dosso Dos-si oggi a Cracovia, concluso nel 1524 e con ogni probabilità desti-nato a far parte dell’apparato decorativo della residenza privata di

53. AM, n. 5. 54. Cfr. LEON BATTISTA ALBERTI, Intercenales, a cura di Franco Bacchelli e

Luca D’Ascia, premessa di Alberto Tenenti, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 33-39.

55. «Aut enim deos aiunt vacare, ut in tempore cucurbite florescant aut curare, ut papilionibus ale perpulchre picte adsint»: ivi, p. 37.

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Alfonso I d’Este (e si ricordi che de’ Dottori scrisse questa missiva per Rinaldo d’Este).56 Nel quadro, che a metà Seicento si trovava a Venezia, presso il palazzo del conte Widmann in San Canciano,57 Dossi rielaborò in maniera originalissima i passi dello pseudo Lu-ciano isolando il particolare di Giove intento a dipingere farfalle – immagine prima di allora inedita – e facendone il fulcro della tela, che diveniva così un elogio all’otium particolarmente appropriato per la residenza privata del duca Alfonso I; alla luce dei noti inte-ressi artistici di de’ Dottori58 e delle sue frequenti sortite nel capo-luogo lagunare, e considerando anche che con questa missiva si sta-va proponendo a un principe estense, non escluderei dunque che una tale fonte iconografica possa aver agito per l’elaborazione di un brano analogamente incentrato sulla liceità dell’ozio.

Lo stesso motivo compare poi nella lettera a Leopoldo, declina-to però con una nuova suggestione letteraria.59 Scusandosi anche con il Medici del tempo prezioso sottratto a più importanti occupa-zioni, de’ Dottori gli ricordava che anche Scipione [Emiliano] era solito distrarsi e godere di momenti di solitudine e svago, accanto-nate le preoccupazioni della Repubblica: Forse, Serenissimo Signore, ch’io ho da render conto al suo gran Genio d’averle rubato qualche parte del suo prezioso tempo (che più seriamente dovea impiegarsi) con la impazienza delle mie supplicazioni: ma qualche volta le distrazioni sono pur anche permesse, e questo sarà stato un legere conchas in littore come faceva l’antico Scipione lasciate le cure della Repub-blica. Questa volta per rivendicare la legittimità dei momenti di requie dai negotia pubblici l’autore ricorreva a riferimenti ciceroniani, an-zitutto al secondo libro del De oratore, dove è riportato l’aneddoto di Scipione e Lelio dediti alla raccolta di conchiglie quando lontani

56. Sull’argomento rimando a VINCENZO FARINELLA, Dipingere farfalle. Giove,

Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi, un elogio dell’otium e della pittura per Alfonso I d’Este, Firenze, Polistampa, 2007.

57. Ivi, pp. 30-31. 58. Nei manoscritti padovani si conservano infatti diversi disegni di mano di

de’ Dottori, alcuni molto elaborati: cfr. LUIGI MONTOBBIO, Carlo de’ Dottori disegnatore, in Carlo de’ Dottori e la cultura padovana del Seicento, pp. 241-247.

59. AF, c. 60r-v.

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dalla città;60 nel proemio al terzo libro del De officiis si legge poi un altro elogio alla solitudine proposto attraverso la figura di Scipione, che, secondo la testimonianza raccolta da Cicerone, era solito affer-mare che nei momenti di ozio privato ci si potesse dedicare addirit-tura meglio alla riflessione sulle questioni pubbliche.61

Anche le reti cortigiane dell’epistolario di de’ Dottori dunque, sacrificate nella selezione destinata alle stampe, permettono di in-dividuare sottotesti letterari di notevole interesse, da valorizzare op-portunamente in sede di commento ai testi; per ammissione del padovano, del resto, ogni tipo di scrittura epistolare meritava stu-dio ed elaborazione retorica, potendosi le lettere considerare a tutti gli effetti «testimoni dell’ingegno» di chi le scrive.62

60. De orat., II, 22 e sgg: «Spesso ho sentito dire da mio suocero che Lelio, suo

suocero, era solito villeggiare quasi sempre con Scipione e che essi erano soliti ritornare bambini – nessuno lo crederebbe – quando fuggivano dalla città, come da un carcere, verso la campagna. Non oserei parlare così di tali uomini, ma Scevola è solito narrare che essi avevano l’abitudine di raccogliere conchi-glie e chiocciole marine presso Gaeta e Laurento e di abbandonarsi a ogni svago e divertimento» (cito da MARCO TULLIO CICERONE, De oratore, traduzione e commento a cura di Pietro Li Causi, Rosanna Marino, Marco Formisano, in-troduzione di Elisa Romano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, p. 127).

61. De Off. III, 1: «Scrisse Catone, che ne era stato pressochè coetaneo, che quel Scipione, chiamato per primo l’Africano, era solito dire che mai era meno lontano dalle preoccupazioni politiche di quando se ne stava in riposo, e mai meno in solitudine, di quando se ne stava solo, o Marco. Affermazione mera-vigliosa davvero e degna di una persona saggia e grande; essa testimonia ch’egli e nella vita privata pensava abitualmente agli affari pubblici, e nella solitudine parlava con se stesso, sì da non essere mai senza un’occupazione e frattanto non aveva bisogno di parlare con altri. Così quelle due condizioni, l’ozio e la solitudine, che agli altri appaiono debolezze, lo eccitavano» (cito da MARCO

TULLIO CICERONE, Opere politiche e filosofiche, a cura di Leonardo Ferrero, To-rino, UTET, 1953, p. 454).

62. La definizione, che dà il titolo al presente volume, si trova in una missiva diretta a Giacomo Bonzanini inclusa tra le Lettere famigliari a stampa (n. XXIII, p. 32): «Mi scrivete di non istudiar punto, e me lo scrivete in un modo, che v’accusa d’un’innocente vergogna. Chi nulla studia non iscrive tanto bene. Forse ch’una lettera non è un de’ più sicuri testimoni dell’ingegno e delle sue applicazioni!».

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MARCO BERNUZZI

«TROVANDOMI IN FINIBUS TERRAE».

LETTERE INEDITE DI DONATO CALVI AD ANTONIO MAGLIABECHI

L’invito di Martino Capucci a rivisitare periferie della Repubblica letteraria, al fine di «disegnare un reticolato di relazioni» più che di ricollocare figure minori dell’erudizione secentesca, va accolto in modo particolare per Bergamo.1 A questo proposito, se dagli studi più recenti non si è ridefinita l’immagine della cultura letteraria in una città collocata al confine tra la Lombardia veneta e quella spa-gnola, è stato possibile intravedere nella figura del suo principale animatore, l’agostiniano Donato Calvi, la personalità di uno stu-dioso impegnato nella ricostruzione celebrativa delle tradizioni mu-nicipali secondo la consuetudine della storiografia erudita diffusa nel suo secolo, ma con scelte e con intuizioni che lo distinguono.2

1. La citazione è tratta dalla prefazione a GIOVANNI BIANCHINI, Federigo

Nomi, un letterato del ’600. Profilo e fonti manoscritte, Firenze, Olschki, 1984, p. VIII.

2. Donato Calvi (1613-1678) fu religioso della Congregazione agostiniana di Lombardia. Più volte priore del convento di S. Agostino in Bergamo, percorse una carriera interna al suo Ordine, fino alla carica di vicario generale che tenne dal 1661 al 1664. Nel 1642, con Bonifacio Agliardi e Clemente Rivola, fondò in Bergamo l’accademia degli Eccitati che raccolse le più valide e giovani risorse intellettuali cittadine. Tra gli studi recenti: ANTONELLA ORLANDI, Tra biblio-grafia e teatro: la ‘Scena letteraria’ di Donato Calvi, «Studi secenteschi», XLII, 2002, pp. 241-263; DONATO CALVI, Delle chiese della Diocesi di Bergamo, a cura di Gio-suè Bonetti e Matteo Rabaglio, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2008; Donato Calvi e la cultura letteraria del Seicento a Bergamo, Atti del convegno per il IV centenario della nascita, a cura di Matteo Rabaglio e Giosuè Bonetti, Ber-gamo, Archivio Bergamasco, 2013; MARCO BERNUZZI, Il ‘Diario particolare’ ine-dito di Donato Calvi, «Studi secenteschi», LV, 2014, pp. 305-309; Padre Donato Calvi (1613-1678) fondatore dell’Accademia degli Eccitati, Atti del convegno, a cura di Erminio Gennaro e Maria Mencaroni Zoppetti, «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», LXXVII, 2014, pp. 347-416; ERMINIO

GENNARO, Padre Donato Calvi e l’Accademia degli Eccitati, «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», LXXVIII, 2015, pp. 447-455; MARCO

BERNUZZI, Prospero Alessandro della vicinia di S. Michele, ovvero Padre Donato Calvi

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MARCO BERNUZZI

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Nelle opere maggiori, La scena letteraria degli scrittori bergamaschi e, soprattutto, l’Effemeride sagro profana di Bergamo,3 l’autore ricorre a una gamma vasta e varia di fonti, esplorate da una curiosità pie-namente barocca che presuppone nella fase di ricerca, sostenuta da una viva sensibilità documentaria, un intreccio di contatti con isti-tuzioni e individui. Una rete senza la quale non è pensabile la note-vole biblioteca raccolta negli anni da Calvi nel convento cittadino di S. Agostino in cui era conservata, in base a una selezione consa-pevole e aggiornata, la produzione religiosa, storica e letteraria più rappresentativa del suo tempo.4 La figura che emerge è quella di un erudito che dopo una prima stagione ispirata ai generi correnti del-la letteratura veneziana, si concentrò infine in un lavoro di sistema-zione bibliografica del sapere, in linea con «un enciclopedismo so-lido, embrione delle monumentali iniziative dei primi decenni del secolo successivo».5 Con queste premesse, lo studio della corrispon-denza di Calvi con Antonio Magliabechi può ora mettere in luce

e il suo diario, «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», LXXIX, 2016, pp. 293-312; DONATO CALVI, Diario (1649-1678), a cura di Marco Ber-nuzzi, Bergamo, Sestante, 2016.

3. DONATO CALVI, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi aperta alla curiosità de’ suoi concittadini, Bergamo, Per li figliuoli di Marc’Antonio Rossi, 1664; ID., Effemeride sagro profana di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, sua Diocese e territorio, voll. I e II, Milano, Vigone, 1676; vol. III, Milano, Vigone 1677.

4. Cfr. ACHIM KRÜMMEL, Donato Calvi OSA (1613-nach 1676). ‘Catalogo della propria biblioteca’. Ein frühneuzeitlicher Bibliotekskatalog der Augustinermönche von Bergamo, «Analecta Augustiniana», LVI, 1993, pp. 299-421; RODOLFO VIT-

TORI, La biblioteca di Donato Calvi e GIULIO ORAZIO BRAVI, Le fonti di Donato Calvi per la redazione dell’‘Effemeride’, in Donato Calvi e la cultura letteraria, pp. 95-109; 157-196; CLIZIA CARMINATI, Romanzo storico secentesco?, «Studi secen-teschi», LVIII, 2017, pp. 33-54, alle pp. 41-43.

5. CLIZIA CARMINATI, Donato Calvi e Angelico Aprosio sulla scena letteraria se-centesca, con documenti inediti, «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», LXXVI, 2014, p. 367. Nel saggio la prof. Carminati, che ringrazio di avermi affidato questo contributo e dei preziosi suggerimenti, ha per prima segnalato le lettere di Calvi a Magliabechi che qui si pubblicano in appendice. L’attenzione per l’inedito epistolario calviano si giustifica alla luce sia delle ri-cerche sui corrispondenti di Magliabechi (avviate dall’inventario Lettere e carte Magliabechi. Regesto, a cura di Manuela Doni Garfagnini, Roma, Istituto Storico Italiano per l’età Moderna e Contemporanea, 1988), sia di quelle sulle lettere di Magliabechi, come il censimento, in corso, di Jean Boutier. Le prospettive di queste ricerche sono tracciate nell’introduzione dei curatori agli Atti del con-vegno Antonio Magliabechi nell’Europa dei saperi, a cura di Jean Boutier, Maria

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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sia le opportunità offerte a un letterato di «un angolo estremo d’Ita-lia»6 dal contatto con un mediatore dei saperi come l’intellettuale fiorentino, sia le intenzioni e gli eventuali vantaggi che potevano motivare quest’ultimo a intrattenere contatti con la periferia.

La conoscenza fra l’erudito bergamasco e il Magliabechi fu resa possibile dalla ramificata geografia conventuale della Congregazio-ne agostiniana di Lombardia che a Firenze aveva una sede nel con-vento di S. Iacopo tra i Fossi dove Calvi fu ospitato fra il 5 e l’8 aprile 1655, giorni in cui ebbe modo di visitare per la prima volta la città medicea.7 L’incontro fra i due letterati avvenne però quasi vent’anni dopo, preparato da padre Angelo Finardi (1636-1706), già allievo di Calvi e priore di S. Iacopo dal 1671 al 1674, quindi di S. Agostino a Bergamo nel triennio successivo. Il nome di questo agostiniano è indissolubilmente legato a quello del bibliotecario per il felice anagramma del nome di Magliabechi (is unus bibliotheca magna), che con sicurezza gli va attribuito8 e che rappresenta il più

Pia Paoli, Corrado Viola, Pisa, Edizioni della Normale, 2017, pp. 11-16. Sulla collocazione nel contesto dell’epistolografia secentesca dell’imponente fondo di lettere ricevute dal bibliotecario fiorentino, si vedano i rilievi di CLIZIA CAR-

MINATI, La lettera del Seicento, in L’epistolografia di Antico Regime, Atti del conve-gno, a cura di Paolo Procaccioli, Sarnico, Edizioni di Archilet, 2019, pp. 278-284, in particolare alle pp. 99, 109-110.

6. L’espressione, riferita a Bergamo, è usata da Bartolomeo Finardi, accade-mico Eccitato, in una lettera a Magliabechi del 19 settembre 1674. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale (d’ora in poi: BNCF), Magl. VIII.1167. Le let-tere inedite dei corrispondenti di Magliabechi considerati in questo saggio sa-ranno pubblicate sul sito Archilet.

7. La Congregazione agostiniana di Lombardia si insediò a Firenze nel 1491 acquisendo la chiesa di S. Maria del Popolo presso S. Gallo, per poi trasferirsi nel 1531 a S. Iacopo tra i Fossi. Un agostiniano di S. Iacopo continuò comun-que ad officiare la chiesa della Madonna della Tosse, voluta dalla granduchessa Cristina di Lorena e inaugurata nel 1596 presso la sede primitiva. Bergamo, Archivio Storico Diocesano (d’ora in poi: ASDB), ms. 58, Donato Calvi, Serie dei conventi agostiniani, cc. 29v-30r. Il soggiorno fiorentino del 1655 è ricordato dal priore bergamasco nel suo diario (CALVI, Diario, p. 94).

8. Dubitativamente attribuito a Mabillon (LUIGI PASSERINI, Cenni storico bi-bliografici della R. Biblioteca Nazionale di Firenze, Firenze, Cellini, 1872, p. 8), l’anagramma è di Finardi, come da sua dichiarazione: «Quanto alla letteratura, già con l’anagramma del suo nome latino poi publicato alle stampe dall’erudi-tissimo Gregorio Leti e altri gran letterati, lo confessai una gran biblioteca egli solo: is unus bibliotheca magna». BNCF, Magl. IX.4, 28 febbraio 1685. Cfr. la nota 12 dell’appendice.

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noto campione di una feconda vena di anagrammatista raccolta nel suo Parnassius abortus. L’edizione, avvenuta a Firenze alla fine del suo priorato, rappresenta un genere non solo ampiamente diffuso nel secolo, ma anche specificamente istituzionalizzato nel costume accademico degli Apatisti tra i quali fu ascritto nel 1671.9

Il suo epistolario testimonia un rapporto fiduciale con Maglia-bechi, documentabile per almeno un decennio. Le lettere scritte nell’aprile 1674 da Roma durante il Capitolo generale della Con-gregazione agostiniana trasmettono al corrispondente informazioni riservate sui affari correnti della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti dove Finardi contava sull’appoggio del cardinale Girolamo Casanate cui fu presentato da Enrico Noris, allora Lettore di storia ecclesiastica a Pisa.10 Dopo il 1674 la corrispondenza rivela l’inten-zione di mantenere vivo con Bergamo un canale utile per scambi di reciproci favori. Finardi, ad esempio, chiese a Magliabechi di fa-cilitare il trasferimento a Firenze dell’inquisitore di Padova France-sco Antonio Triveri e di affiancargli come vicario il fratello, frate Francesco Finardi, entrambi francescani. Altre volte domandò un intervento autorevole per sostenere una «causa disperata» del con-vento di S. Agostino dibattuta a Venezia. Magliabechi, a sua volta, senza molto impegnarsi per soccorrere il frate bergamasco, si servì di Finardi, spesso occupato in trasferte veneziane, per inoltrare «fa-gottini» di libri ai corrispondenti padovani e stranieri o per sugge-rire al vicario generale della Congregazione agostiniana il candidato di Cosimo III al priorato di S. Iacopo. 11

9. Parnassius abortus. Hoc est anagrammata, epigrammata, thesium publicarum pa-

rerga, variaque alia in unum compacta atque congesta per fratrem Angelum Finardum, Florentiae, Sub signo Stellae, 1674. Cfr. GIOVANNI POZZI, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, pp. 230-275; ALESSANDRO LAZZERI, Intellettuali e con-senso nella Toscana del Seicento. L’accademia degli Apatisti, Milano, Giuffré, 1983, pp. 14, 96. Una scheda autobiografica di Angelo Finardi è pubblicata in CALVI, Diario, p. LI, n. 156.

10. BNCF, Magl. VIII.651, 11 aprile 1674. Sul Noris si veda infra. Nelle sei lettere romane scritte a Magliabechi tra il 4 aprile e il 5 maggio 1674 escluse dalla edizione di Giovanni Targioni Tozzetti (Clarorum Venetorum ad Antonium Magliabechium nonnullosque alios epistolae, vol. II, Florentiae, Ex Typographia ad Insigne Apollinis, 1746, pp. 213-229) sono frequenti gli accenni a una causa dibattuta nella Congregazione dell’Indice, difficilmente identificabile per le re-ticenze, di cui Finardi segue l’evoluzione.

11. BNCF, Magl. VIII.651, lettere del 10 agosto 1674, 27 luglio 1675, 5 e 12

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Le notizie offerte dall’epistolario di Angelo Finardi, che esplici-tamente si attribuì il merito di aver inaugurato i contatti fra Maglia-bechi e Bergamo,12 incrociate con le annotazioni del diario di Do-nato Calvi, suggeriscono la data dell’incontro a Firenze fra Antonio Magliabechi e il letterato bergamasco che, al ritorno dal Capitolo generale di Roma, si trattenne nella città medicea dalla sera del 25 a tutto il 26 aprile 1674, accolto dal bibliotecario granducale, da Francesco Malaspina e da Averano Seminetti.13 L’evento è dunque storicamente accertabile, per quanto non citato nella prima lettera superstite di Calvi a Magliabechi del 26 agosto 1674, che peraltro ha il tono della prosecuzione di un dialogo epistolare già avviato nei quattro mesi successivi alla visita.

Dopo il trasferimento di Finardi, i legami tra gli agostiniani di Bergamo e Firenze si mantennero grazie al nuovo priore di S. Ia-copo, il bergamasco Giovanni Francesco Benvenuti anch’egli for-matosi al convento della sua città dove, nel 1657, ricevette l’abito religioso dalle mani di Calvi che gli suggerì di dedicare a Gregorio Barbarigo le sue tesi teologiche, difese nel 1664.14 Benvenuti restò a Firenze sino al 1677, quando il Capitolo generale di Bologna lo designò priore a Bergamo dove successe a Finardi. È negli anni del suo incarico fiorentino e nei primi mesi di quello bergamasco che avvenne la corrispondenza di Calvi con Magliabechi della quale spesso si fece tramite. Spettò a lui partecipare a Magliabechi la mor-

settembre 1676, 2 aprile 1680.

12. «Bene spesso facciamo dolcissima commemorazione delle degnissime pre-rogative di Vostra Signoria Illustrissima, né posso di meno consolarmi e glo-riarmi d’esser io stato il primo che a’ Lombardi abbi aperta la preziosa gioia». BNCF, Magl. VIII.651, Lettera a Magliabechi, Bergamo, 30 maggio 1679.

13. CALVI, Diario, pp. 239-240. Calvi soggiornò a Firenze all’andata (31 marzo e 1 aprile) e al ritorno da Roma. La data del 26 aprile è la più plausibile come quella dell’incontro, vista la maggiore prossimità alle lettere che vi accennano: di Angelo Finardi a Magliabechi del 5 maggio 1674 («Rendo umilissime grazie a Vostra Signoria Illustrissima, al Signor Marchese di Suvero e al Signor Ave-rano de gl’onori fatti al Padre Calvi». BNCF, Magl. VIII.651) e dello stesso Calvi ad Angelico Aprosio del 26 maggio 1674 (GIAN LUIGI BRUZZONE, Nicola Campiglia, Donato Calvi e Gio. Tommaso Geronimi, studiosi e bibliofili agostiniani del Seicento, «Analecta Augustiniana», LXVI, 2003, p. 277). Il Malaspina e il Seminetti facevano parte della cerchia di amici del Magliabechi: cfr. MARIA PIA

PAOLI, Antonio Magliabechi e Firenze: il contesto «familiare», in Antonio Magliabechi nell’Europa dei saperi, pp. 38, 51-54.

14. CALVI, Diario, pp. 110, 133.

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te di Calvi, avvenuta il 6 marzo 1678 mentre lo storico, pubblicata da poco la sua Effemeride sagro profana di Bergamo, pensava ad altri progetti, in condizioni di salute precarie, ma non tali da lasciar pre-sagire come imminente la sua scomparsa.15

Percorrendo le lettere di Calvi, in parte dedicate allo scambio di notizie letterarie, appaiono le intenzioni dei corrispondenti. Da Bergamo l’agostiniano, mentre attendeva alla prossima edizione della sua opera di maggior impegno, mantenne attivo con Firenze un importante canale promozionale per i libri in corso d’opera, suoi e, a margine, di altri letterati cittadini in corrispondenza con l’erudito toscano. Da Firenze, a sua volta, Magliabechi tenne con la periferia le fila di un contatto utile per insinuarsi in carriere con-ventuali e in vicende editoriali di città come Venezia o Milano, per diffondere direttamente in provincia, attraverso l’invio mirato di libri, l’eco di dibattiti letterari seguiti dietro le quinte non solo da spettatore, o l’immagine di sé celebrata dai pubblici riconosci-menti.16

La ricerca di un sostegno a Firenze da parte degli autori berga-maschi ricordati nelle lettere di Calvi non ebbe esiti uguali. L’unico

15. Lettera dell’8 marzo 1678, pubblicata in appendice. I due agostiniani che

accompagnarono la corrispondenza di Calvi fecero parte di quel mondo di su-periori claustrali e di ecclesiastici cui Magliabechi ricorse per difendersi dalle accuse infamanti mosse contro di lui e contro Giovanni Cinelli Calvoli in un libello anonimo, attribuito a padre Niccolò Francesco Bertolini da Barga, ma ispirato, e fors’anche composto, dal medico e scrittore fiorentino Giovanni An-drea Moniglia: Io. Cinelli et Antonii Magliabechi vitae, Fori Vibiorum, 1684. Cfr. ANTON FRANCESCO MARMI, Vita di Antonio Magliabechi, a cura di Corrado Viola, Pisa, Edizioni della Normale, 2017, p. 54. Nel 1685 il bibliotecario do-mandò a Benvenuti e Finardi un attestato de vita et moribus in suo favore, infor-mando della diffamazione con una «letterina informativa» che raccomandò ai destinatari di distruggere: cfr. BNCF, Magl. II.IV.546, lettera di Giovanni Fran-cesco Benvenuti, 28 febbraio 1685. A questa stessa data vengono sottoscritte le attestazioni giurate di Angelo Finardi e di Giovanni Francesco Benvenuti, con-servate in BNCF, Magl. IX.41. La scomparsa di Calvi non interruppe la corri-spondenza di Magliabechi con i bergamaschi, che continuò anche dopo il 1698, quando Benvenuti fu trasferito a Roma, promosso procuratore generale della Congregazione agostiniana di Lombardia.

16. Cfr. CORRADO VIOLA, Magliabechi ‘autore’, in Antonio Magliabechi nell’Eu-ropa dei saperi, pp. 163-166. Si vedano in appendice le lettere del 21 aprile e 26 maggio1677.

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ad essere coronato da un successo sostanziale, anche se non imme-diato, fu il tentativo di Nicolò Biffi, teologo, canonista, accademico Eccitato, autore di una traduzione in ottave commentata del De raptu Proserpinae di Claudiano, che vide la luce nel 1684 dopo fati-cose vicende editoriali descritte nelle lettere a Magliabechi.17 Messo in contatto con quest’ultimo dal cugino Angelo Finardi, aprì in contemporanea a Calvi il suo carteggio con Firenze, limitato dap-prima alla ricerca di suggerimenti bibliografici o a insinuanti do-mande di chiarimenti eruditi circa la presunta nascita fiorentina di Claudiano, quindi all’esplicita richiesta di ottenere da Cosimo III l’autorizzazione per la dedica dell’opera. Ottenuta la concessione, pur con reticenze e ritardi di Magliabechi che, evasivo, suggeriva di ricorrere alla mediazione di un nobile cugino fiorentino di Biffi, questi si rivolse a editori di Lione, i più prossimi negli scambi col bibliotecario granducale.18 Posto però davanti all’alternativa tra la-sciare agli stampatori i diritti della dedicatoria (col vantaggio di una stampa gratuita) e una spesa eccessiva, Biffi preferì rivolgersi a edi-tori milanesi sostenendo costi più contenuti per un’edizione meno lussuosa, ma avvantaggiata dal diritto di firma della dedica, che di norma assicurava il recupero della spesa.19

17. Al Biffi, nato a Bergamo nel 1625, è dedicata una scheda biobibliografica

da CALVI, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi. Parte seconda, p. 49. Pubblicò In Claudii Claudiani libros De raptu Proserpinae commentaria, Mediolani, Ex Typo-graphia Ludovici Montiae, 1684. Le sue lettere a Magliabechi sono conservate in BNCF, Magl. VIII.480. Alcune sono edite in Clarorum Venetorum, vol. II, pp. 355-361.

18. Cfr. ALFONSO MIRTO, Stampatori, editori, librai nella seconda metà del Sei-cento, vol. II, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1994, pp. 69-108.

19. Cfr. MARCO PAOLI, La lettera dedicatoria nel Settecento. Autori e mecenati a confronto, in Le carte false. Epistolarità fittizia nel Settecento italiano, a cura di Fabio Forner, Valentina Gallo, Sabina Schwarze, Corrado Viola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 54-55. Dalle lettere inedite comprese fra l’1 giu-gno 1678 e il 25 maggio 1684 (BNCF, Magl. VIII.480) si evince che Magliabe-chi (il quale non si fece trovare in casa in occasione di un viaggio di Biffi a Firenze) avrebbe suggerito come tramite per l’autorizzazione alla dedicatoria il fiorentino Girolamo Biffi, cugino dell’autore e luogotenente di Cosimo III nell’Accademia delle Arti di Disegno (cfr. CAMILLO JACOPO CAVALLUCCI, No-tizie istoriche intorno alla R. Accademia delle Arti del Disegno in Firenze, Firenze, Tipografia del Vocabolario, 1873, pp. 32-33). L’autore bergamasco si mostrò attento alla prassi da tempo osservata nella corte granducale per l’autorizza-zione delle dediche, come descritta da MARCO PAOLI, La dedica. Storia di una

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Nessun esito ebbe invece il tentativo, discreto e sommesso, del-lo stesso Angelo Finardi di trovare in Magliabechi un sostenitore per l’edizione del commento Super librum IV Sententiarum di Egidio Romano. A questo impegno speculativo, stimolato dall’attività sco-lastica di Lettore e teologo della Congregazione agostiniana di Lom-bardia, incoraggiato anche ad alti livelli dall’Ordine degli agostinia-ni conventuali (ma visto con scetticismo da Calvi, più per le pro-spettive di mercato che per le spese di stampa), Finardi si dedicò al-meno dal 1673, fra interruzioni, viaggi e disagi, in tempi di difficile governo del convento di Bergamo, dissestato dalle spese per gravi liti giudiziarie.20 Le lettere a Magliabechi che accennano a questa situazione, talora con richieste accorate di un intervento grandu-cale per «un monastero che è per esser esterminato»,21 suggeriscono con delicatezza anche la difficoltà economica del personale proget-to editoriale, senza mai formulare una domanda di sostegno. Il de-siderio, implicito, ma non raccolto dal destinatario, di un patroci-nio mediceo si intuisce nella dichiarazione, replicata tre volte in dieci anni, di voler destinare l’opera manoscritta, in caso di defini-tiva impossibilità di stampa, «alla libraria del Serenissimo Gran Duca, mio Signore e Principe d’elezione, già che non naturale».22

Venendo a notizie su personaggi esterni all’ambiente accade-mico bergamasco presenti nell’epistolario di Calvi, ricorre, sotto lo pseudonimo di «padre Anicio», la menzione dell’olivetano aretino Cipriano Boselli, il cui destino di accademico Apatista in cerca di affermazione negli ambienti lombardi sembra percorrere il tragitto opposto a quello dei bergamaschi in corrispondenza con Firenze. Si tratta di una vicenda che merita un indugio. I primi contatti do-cumentati del personaggio con Calvi risalgono al 1671 ed hanno

strategia editoriale, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, p. 25.

20. Cfr. lettera di Calvi a Magliabechi del 12 dicembre 1674, in appendice. Le traversie della mancata edizione sono ricostruibili dalle lettere di Finardi ad Angelico Aprosio edite da GIAN LUIGI BRUZZONE, Padre Angelo Finardi e il suo progetto editoriale per il beato Egidio Romano, «Analecta Augustiniana», LXXII, 2009, pp. 389-404.

21. Lettera a Magliabechi, 3 luglio 1675, in Clarorum Venetorum, vol. II, p. 224. 22. Lettera a Magliabechi, 31 gennaio 1678, in Clarorum Venetorum, vol. II, p.

227. Analoghe formule nelle lettere del 21 novembre 1674 e 1 ottobre 1684 (ivi, pp. 222, 228).

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come mediatore Angelo Finardi che aveva informato il monaco to-scano dell’impegno profuso da Calvi a «redimere dall’oblio il nome de’ patrii letterati» nella Scena letteraria degli scrittori bergamaschi. Bo-selli, a suo dire discendente da stirpe originaria di Bergamo, inviò a Calvi, con una nota genealogica, l’indice di oltre venti sue opere rimaste inedite, chiedendogli di citarle in una pubblicazione futura per rendere in qualche modo giustizia della sorte avversa e degli emuli invidiosi.23

La corrispondenza dell’olivetano con Magliabechi dà qualche lume su questa ricerca promozionale. Padre Anicio tra il ’65 e il ’73, costretto ad una desolata «vedovezza di libri» nei monasteri di Arezzo (dove era superiore), di Pistoia e di Volterra, ricorse al bi-bliotecario granducale per il prestito di volumi e per il sollecito di un appoggio a corte dei suoi «giusti interessi». Boselli lamentava con insistenza il livore di avversari che si adoperavano a impedire la sua promozione abbaziale, promessagli da Ferdinando II, dal car-dinale Gian Carlo e da Mattias de’ Medici, e che denigravano pres-so Cosimo III il valore delle sue opere, condannate dalle censure malevole a non vedere la luce. La prospettiva di dover morire «irre-munerato di mitra» era intollerabile per il monaco, convinto di avere più titoli del confratello Secondo Lancellotti, abate e gloria letteraria dell’Ordine.24 L’epistolario non si limita però alle richie-ste, ma si estende anche alla discussione erudita. In questi casi, nel-

23. Bergamo, Biblioteca Civica ‘Angelo Mai’ (d’ora in poi: BCB), ms. R 65 6,

cc. 331-334, Cipriano Boselli a Donato Calvi, Pistoia, 23 settembre 1671. L’estensore allude a due precedenti sue lettere, rimaste senza risposta. Su Ci-priano (al secolo Pier Luigi) Boselli (1605-1684) cfr. GIAMMARIA MAZZU-

CHELLI, Scrittori d’Italia, vol. II, parte II, Brescia, Bossini, 1762, pp. 1828-1829. 24. Le lettere di Cipriano Boselli a Magliabechi sono conservate in BNCF,

Magl. VIII.535. La narrazione delle sfortune editoriali, comprendente l’artico-lato parallelo col Lancellotti, è tracciata dal Boselli stesso (riconoscibile dietro lo pseudonimo prestatogli dal crocifero Giovanni Pietro Boselli, fratello del bolognese conte Girolamo) nella Retroguardia al Cortese lettore in CIPRIANO BO-

SELLI, L’Austria Anicia nella maestà cattolica dell’ibero monarca Carlo II, Milano, Malatesta, 1680, pp. 1058-1061. È incerto se la qualifica abbaziale gli sia stata conferita, pur senza effettiva titolarità, negli ultimi anni di vita, come lasce-rebbe pensare l’espressione dell’abate di S. Vittore ad Corpus di Milano, che qualifica padre Anicio come «Oliveti secundum germen, ubi concionator et abbas renunciatur»: cfr. MICHELANGELO BELFORTI, Chronologia brevis caenobio-rum virorumque illustrium vel commendabilium Congregationis Montis Oliveti, Mi-lano, Agnelli, 1720, p. 32.

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le lettere si coglie accanto al tono di un ossequio misurato e mai adulatorio, la nota di una malcelata supponenza che, almeno dal 1671, dovette contribuire alla cordiale antipatia del bibliotecario granducale per padre Cipriano.25 Realizzatasi nel 1673 la speranza di trasferirsi fuori dalla Toscana per attendere all’edizione dei suoi scritti,26 Boselli visitò Bergamo il 24 dicembre di quell’anno, presu-mibilmente per raccogliere notizie genealogiche. Calvi, forse per li-berarsi dalle istanze del personaggio, avrebbe ricordato l’evento nell’ultimo volume delle Effemeridi, edito nel 1677:

Oggi pur le memorie riporremo del sublime istorico Cipriano Boselli, su-periore Olivetano, già che oggi a punto nel 1673 entrò per la prima volta a rivedere l’antiche mura dell’origine de’ suoi progenitori, Cittadini di Ber-gamo. Chiamasi egli nobile d’Arezzo in Toscana, ma originario di Ber-gamo, per istoriche, accademiche, filosofiche e più recondite et antiche cognizioni eminentissimo. Fu teologo di prencipi, prencipe d’accademie, et oggidí istorico antiquario de gl’Apatisti di Firenze. Scrisse gloriosi vo-lumi particolarmente sopra l’origine e grandezze della monarchia austriaca, che pur in Milano con l’assistenza sua stampando si vanno, et altre opere diverse di sublimi titoli arricchite fino al numero di ventidue, come dall’in-dice a me trasmesso si può raccogliere. Fra ’ quali vedesi la famosa censura contro Tito Livio intitolata Le macchie nel sole, ove per tutti li segni del zodiaco mostrasi Livio falso, ignorante etc. Cosí vive alla gloria, per lasciar a’ posteri ne’ suoi meriti e virtù perpetui oggetti d’ammirazione.27

Sostenuto da «favoritissime» lettere imperiali dirette al presiden-

te del Senato di Milano Bartolomeo Arese e con una provvisione

25. Il dissenso con Magliabechi, relativo alla datazione delle opere e all’auto-

revolezza di Giulio Firmico Materno è illustrato nella fittissima lettera erudita dell’1 dicembre 1671, richiamato il 26 dicembre dello stesso anno, il 24 set-tembre 1674 (BNCF, Magl. VIII.535) e ribadito nella successiva opera a stampa: BOSELLI, L’Austria Anicia, pp. 528-529.

26. Lettera a Magliabechi del 9 gennaio 1673, BNCF, Magl. VIII.535. 27. CALVI, Effemeride sagro profana, vol. III, p. 447. La nota è posta nella rubrica

Soggetti insigni per dignità, lettere et armi, e prosegue con un breve elogio del conte Girolamo Boselli di Bologna, vivente, già ricordato da Calvi nella Scena lettera-ria degli scrittori bergamaschi. Parte seconda, pp. 41-42. L’elogio di padre Anicio cita testualmente diverse espressioni (come «teologo di prencipi, prencipe d’ac-cademie») dell’autopresentazione di Boselli contenuta nella lettera citata alla nota 23, regestata e integralmente leggibile in immagine, con l’indice degli iper-bolici «sublimi titoli», sul sito Archilet.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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annua di mille scudi, padre Anicio aveva da poco ottenuto il per-messo di vivere fuori dalla Toscana nel monastero milanese di S. Vittore, per seguire finalmente la stampa dei suoi libri.28 L’alto pa-trocinio gli sarebbe stato procurato, a suo dire, da Pietro Averara, poeta bergamasco, anche se è più immediato pensare al conte Giro-lamo Boselli di Bologna, noto alla corte di Vienna dove era stato presentato all’imperatrice Eleonora.29 Si inaugurò così un’acciden-tata vicenda editoriale di cui i carteggi danno qualche notizia. Il suo avvio nell’agosto del ’74, agevolato dai buoni uffici di Calvi, suscitò la meraviglia contrariata di Magliabechi il quale nel settembre non nascose in una lettera ad Angelo Finardi il suo disappunto per l’ap-poggio del bergamasco presso il tipografo milanese Vigone, che per-mise l’avvio alla stampa delle «stravaganze» di Boselli.30 L’allusione di Magliabechi è alla prima delle opere che il monaco si accinse a pubblicare a Milano, consistente in una censura di Tito Livio avver-sata dagli ambienti accademici toscani (proprio l’opera nominata nell’Effemeride).31 L’impresa era già stata tentata a Ferrara e anche a Firenze dove l’autore, con l’iniziale consenso granducale, aveva av-viato l’edizione in cinque tomi delle Grandezze reali antiche de gli augustissimi conti monarchi austriaci Absburghesi, di cui il capitolo li-viano doveva far parte. Quest’ultimo progetto, iniziato a spese del

28. Lettera a Magliabechi da Milano, 24 settembre 1674 e altra non datata,

ma per contenuto ascrivibile allo stesso anno (BNCF, Magl. VIII. 535). 29. BOSELLI L’Austria Anicia, p. 793; GIOVANNI FANTUZZI, Notizie degli scrittori

bolognesi, vol. II, Bologna, Stamperia di S. Tommaso d’Aquino, 1782, p. 315. Cfr. nota 27.

30. Calvi a Magliabechi, 26 agosto e 10 ottobre, 12 dicembre 1674, pubblicate in appendice; Magliabechi ad Angelo Finardi, 4 agosto e 22 settembre 1674 (BCB, MMB 734, fasc. 4, cc. 37, 10); Boselli a Magliabechi, Milano, 24 settem-bre 1674, citata.

31. Le macchie nel sole figurano col titolo completo (Le macchie del sole per ciascun segno del zodiaco osservate. Censura contro di Tito Livio prencipe della romana istoria in dodici discorsi ai segni del zodiaco proporzionati distinta) e con l’articola-zione del contenuto nell’Indice delle opere da imprimersi del P. D. Cipriano Boselli in BOSELLI, L’Austria Anicia, pp. 1072-1074. Sono citate come Capitolo di cen-sure contro di Tito Livio nel secondo suo volume ‘Delle grandezze reali antiche degli Augustissimi conti monarchi Absburgici’ inserito che figura nell’indice trasmesso a Calvi nel 1671. In entrambi i casi il sottotitolo dichiara il carattere polemico dello scritto, concepito come risposta di padre Anicio («Orazio sol contro To-scana tutta») ad accademici fiorentini, quali Lodovico Adimari, Mattia Barto-lomei, Vincenzo Glaria e ad altri «virtuosi cavalieri toscani».

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causidico Francesco Cencini (che avrebbe allestito all’uopo una nuova stamperia), sarebbe naufragato per il fallimento del finanzia-tore.32 Sorte migliore non ebbe l’edizione milanese presto interrot-ta, come dichiarò Magliabechi, per l’intervento dei superiori del-l’Ordine olivetano che, tramite Roma, fecero sospendere la stampa.

Padre Cipriano non si diede per vinto e l’anno successivo affidò ai torchi la monumentale Austria Anicia che vide la luce a Milano nel 1680 per i tipi dell’editore Malatesta. Il carattere disorganico del libro, evidenziato anche dalle appendici, dalle correzioni e dalle aggiunte, manifesta come l’autore abbia proceduto per accumulo, stipando nelle oltre mille pagine in folio una farraginosa erudizione volta a individuare nella dinastia asburgica, d’Austria e di Spagna, la discendente della stirpe romana Anicia e a sostenerne un asso-luto primato di gloria e di primogenitura cristiana, distinta e supe-riore rispetto a quella dei sovrani di Francia. L’apparente fatuità della tesi fantasiosa si iscrive, in realtà, nel quadro di un dibattito genealogico ricorrente nel Cinque e Seicento, non certo inattuale nel problema della successione al trono di Spagna, entro il quale emergono progetti di legittimazione storica, dinastica e confessio-nale.33

Gli eruditi milanesi mostrarono presto il loro disagio per il dif-ficile monaco che, come scrisse a Magliabechi il prefetto dell’Am-brosiana Pietro Paolo Bosca, ebbe accese discussioni anche con per-

32. Cfr. BOSELLI, L’Austria Anicia, p. 1059. Resta del progetto l’indice a

stampa de Gli splendori reali dell’augustissimo sole hasburgese, prima che col nome d’‘Orientale’ soggiornasse nell’Austria, disascosi dalle tenebre dell’antichità e publicati alla luce in cinque volumi di recondite antichità germane, franche, romane, greche, Fi-renze, Presso Giovanni Battista Gaij, 1666. La censura a Livio vi è prevista al capitolo VI del secondo volume.

33. Cfr. ROBERTO BIZZOCCHI, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino 1995, pp. 238-247. Un sunto del volume, primo di un’annunciata serie di quattro, è dato dalla Notizia del volume aniciano au-striaco ch’esce alla luce in Milano nel foglio dell’anno presente 1681, pubblicata senza note tipografiche a firma del conte Girolamo Boselli, ma attribuita a Cipriano Boselli da GIOVANNI CINELLI CALVOLI, Della biblioteca volante scanzia quinta, Parma, Dall’Oglio, 1686, pp. 47-48. La tesi, volta a confutare genealogisti che volevano gli Asburgo discendenti da un ramo illegittimo dei Merovingi, mirava a sottrarre al re di Francia l’argomento per rinfacciare «a quel de gl’Iberi ch’ab-bia per gloria dell’origine l’infamia di essere stato da bastardi della sua Casa propagato» (ivi, p. 2).

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sonaggi qualificati come il duca Alexandre de Bournonville, viceré di Catalogna, di passaggio nella città lombarda.34 Stroncature radi-cali all’Austria Anicia e al suo autore si leggono in un anonimo pam-phlet manoscritto dove si compendiano le critiche che circolavano fra gli studiosi ambrosiani. Irrisore degli autori più dotti, Boselli si sarebbe affidato a fonti inattendibili e avrebbe apprezzato esplicita-mente scrittori antiasburgici ed eterodossi, contro le intenzioni di-chiarate. Sostenitore di strane teorie diplomatiche, seguace di agio-grafie favolose, presuntuoso, contumelioso, il «nasutus et maledi-cus» Boselli sarebbe stato in realtà da ritenere un pericoloso «hostis Augustissimae Domus Austriacae» che, eludendo revisori civili ed ecclesiastici, stampò a Milano ciò che gli fu censurato a Firenze. A riprova di una personalità mendace, l’ostentata pretesa derivazione da una nobile famiglia bergamasca che in realtà nulla aveva in co-mune «cum vulgaribus Bosellis sive Busellis Aretinis».35 Questo cli-ma di ostilità che accompagnò la pubblicazione dell’Austria Anicia (e concorse al suo prevedibile insuccesso)36 è avvertibile dalla Retro-guardia al cortese lettore posta a fine dell’opera e dallo Stillato sostan-zioso del sommario de’ quattro libri dell’Austria Anicia del P. D. Cipriano de Conti Boselli, uscito senza data a firma del somasco Girolamo Se-menzi, ma in realtà, come avvertì il Cinelli, opera di padre Anicio.37

Le lettere di Calvi dalle quali traspare la sua presa di distanza da Boselli dopo che Magliabechi ebbe notificato il suo dissenso per

34. Lettera del 3 giugno 1676, pubblicata da ALFONSO MIRTO, Pietro Paolo

Bosca: lettere ad Antonio Magliabechi, «Studi secenteschi», LIV, 2013, pp. 261-333, alle pp. 299-300. Gli attriti si estesero anche a questioni di erudizione storico ecclesiastica ambrosiana. A contrasti «per disammaliare alcuni antiquari milanesi e ulivetani in materie cronologiche ed istoriche» relative alla basilica di S. Vittore accenna BOSELLI, Notizia del volume aniciano, p. 20.

35. Iudicium super libro Cipriani Boselli Aretini, monaci olivetani, edito sub titulo ‘Austria Anicia’ (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S.Q. + II.57, cc. 12-13). La nobiltà dei Boselli di Arezzo sarebbe stata contestata, secondo il pamphlet, dal genealogista aretino Eugenio Gamurrini, accademico Apatista che designò pa-dre Anicio col cognome «Buselli». Cfr. EUGENIO GAMURRINI, Istoria genealo-gica delle famiglie toscane e umbre, vol. I, Firenze, Nella stamperia di Francesco Onofri, 1668, p. 232. Sul Gamurrini si veda la nota 2 dell’appendice.

36. Deducibile dal numero delle copie in giacenza e dal silenzio del pubblico di Toscana cui accennano le lettere di Boselli a Magliabechi del 16 giugno 1682 e 21 aprile 1683 (BNCF, Magl. VIII 535).

37. BOSELLI, L’Austria Anicia, pp. 1059-1066. CINELLI CALVOLI, Della biblio-teca volante scanzia quinta, pp. 50-51.

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l’edizione, proiettano una luce ironica sul ricordo dell’olivetano aretino nei fasti bergamaschi dell’Effemeride. Ironia diffusa in tutte le pieghe della nota (soprattutto nella menzione dei «sublimi titoli» che «arricchiscono» le sue opere e della «famosa censura» a Tito Li-vio) e come tale percepibile dai conoscenti del personaggio, ma di cui l’interessato, concentrato esclusivamente su di un particolare che lo indignò, sembra non essersi accorto. Lo prova la memoria di Calvi che padre Cipriano lasciò nell’Austria Anicia, dove, dopo aver elogiato l’agostiniano per la celebrazione della famiglia Boselli nel Campidoglio de’ guerrieri e nella Scena letteraria, lo rimproverò esclu-sivamente per aver attenuato nelle espressioni dell’Effemeride la cer-tezza della sua nobiltà riservando ai suoi avi il trattamento di «citta-dini» anziché di «nobili» bergamaschi. Torto cui non risparmiò la vendetta di un duro giudizio sull’Effemeride (nonostante vi ricono-scesse celebrati i suoi meriti letterari con parole «che fanno arros-sire da primo la modestia e la semplicità religiosa, e quindi quasi impallidirla») e sull’affidabilità del suo autore, ormai defunto. Scri-ve Boselli, dopo aver riportato per intero le parole di Calvi sopra citate: Or qui il Calvi altrettanto avaro quanto prodigo dimostrossi: ha ristretto in troppo angusto pugno nelle lodi del sangue la mano ch’in ampio palmo di quelle dell’intelletto aveva dilatato. E come delle prodigalità dell’une con lettere missive lo ringraziammo, così dell’avarizia dell’altre dolcemente ci querelammo che n’avesse scarseggiato dove la natura liberale s’è dimo-strata. Non mica perché la gloria mondana prezziamo la quale, in dispo-gliarci delle pompe del secolo, nel vestirci di Cristo nella Religione, ci po-nemmo sotto i piedi, in un fascio di fasce e di fasci, per toccare il cielo, ma perché in chiuder gli occhi a noi stessi, morti al mondo, doviam aprirli per dar un’occhiata a’ nepoti restati nel secolo a’ quali non doviamo, con la toleranza d’un freddo o dubbio detto, pregiudicare. Questo è un moschino che tra le pupille volandone, non era bastevole a farci dibatter palpebra. Ma quando mai qualch’erudito compatriota del Calvi e più della patria affezionato, scorgendo nell’embrione delle sue Effemeridi un caos (che per distinguere le azioni in giorni, che poco rileva, gli anni confondono, che cotanto importa), volesse in Annali ordinarle, al che gli animiamo (che sa-rebbe un dar loro degna forma e luce), sappia come n’abbia a delineare. L’istorico aver deve cognizione de’ soggetti che sotto la sua penna cadono, altrimenti per darne lume di notizia, gli offuscherebbe. Ond’il Calvi, per non esser calvo di sapienza, pareva tenuto a dire che D. Cipriano Boselli

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fosse nobile aretino, per non mostrarsi ignorante di ciò che scriveva. Po-tendolo colà dai Conti di lui parenti e da i suoi medesimi Padri, suoi pae-sani, nostri conoscenti in Toscana, sapere, come lo seppe.38

L’epistolario calviano rivela ora la simmetria di giudizi, anzi, l’u-

so dello stesso termine («caos») anticipato da Calvi per qualificare l’opera del suo postumo censore.39 Difficile smentire l’agostiniano, ma anche ipotizzare che il prolisso genealogista abbia avuto, al di là del puntiglio risentito, gli strumenti per apprezzare nell’Effemeride l’originalità di un libro che consapevolmente rinuncia all’impianto annalistico per offrirsi come una selva artificiale, destinata ad una fruizione piacevole prima che celebrativa, e, soprattutto, orientata da un interesse documentario attento anche alla storia meno illu-stre.40

Magliabechi che nella sua onnivora informazione era tanto elet-tivamente interessato all’erudizione ecclesiastica, quanto compia-ciuto nel diffondere e agitare le passioni delle polemiche,41 inviava a Bergamo pubblicazioni in cui, attraverso gli accenni di Donato Calvi, sono riconoscibili i principali titoli dello scontro letterario fra due teologi un tempo legati da un’amicizia «nodrita con il latte dell’uniformità della dottrina agostiniana».42 I contendenti erano il veronese Enrico Noris, autore della Historia pelagiana (1673) – che gli valse l’ammirazione di Magliabechi, la qualifica di Teologo di Cosimo III e la cattedra pisana di storia ecclesiastica –43 e il france-

38. BOSELLI, L’Austria Anicia, p. 787. 39. Calvi a Magliabechi, 10 ottobre 1676, pubblicata in appendice. 40. Rinvio in proposito a CALVI, Diario, pp. LXXIX-LXXXVIII. 41. MARIO SACCENTI, Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti, Fi-

renze, Olschki, 1966, p. 47, nota 7; ALFONSO MIRTO, Stampatori, editori, librai nella seconda metà del Seicento, vol. I, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1989, p. 95; CORRADO VIOLA, Vecchia e nuova erudizione: Muratori e Magliabechi, «Studi secenteschi», LIV, 2013, p. 110.

42. Breve racconto dell’origine dei dispareri nati tra i Padri Maestri Macedo osservante e Noris agostiniano, Roma, Biblioteca Nazionale, ms. Vittorio Emanuele 838, c. 158r. L’anonima relazione fu elaborata in area veneta per un ignoto destinata-rio romano.

43. Cfr. FRANCESCO BIANCHINI, Vita del cardinale Enrico Noris, in Le vite degli arcadi illustri scritte da diversi autori, vol. I, Roma, De Rossi, 1708, p. 203. Sul personaggio si veda la voce di MARIA PIA DONATO, Noris, Enrico, in Dizionario

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scano portoghese Francisco Macedo, Lettore di morale all’Univer-sità di Padova. I personaggi erano famigliari al bibliotecario fioren-tino che prestava ad entrambi libri utili al duello teologico, pur ispi-rando e agevolando la stampa dei libelli di Noris.44 Al di là delle im-plicazioni emotive e delle presumibili invidie di carriera che la su-scitarono,45 la polemica ha l’interesse di documentare la difficoltà incontrata, fra la condanna delle cinque proposizioni di Giansenio e il pontificato di Benedetto XIV, da una lettura testualmente sicu-ra e dottrinalmente accolta della teologia agostiniana della grazia.46 Nello stesso tempo, rivela il paradosso di uno scontro fra un teolo-go come Macedo che, forse per far dimenticare posizioni gianseniz-zanti sostenute vent’anni prima, accusò di giansenismo un collega come Noris il quale, al pari di lui, dichiarava l’intenzione di inter-pretare Agostino senza aver letto Giansenio.47

Nell’intricata polemica si incrociano circa venti tra lettere, con-futazioni, false palinodie con relative smentite, affidate a pubblica-zioni di estensione variabile, dal foglio volante al piccolo trattato.48

Biografico degli italiani [d’ora in poi: DBI], LXXVIII, Roma, Istituto dell’Enciclo-pedia Italiana, 2013, pp. 743-747.

44. Lettere di Noris a Magliabechi del 14 maggio 1674 e 11 marzo 1677, in Clarorum venetorum ad Antonium Magliabechium nonnullosque alios epistolae, vol. I, Florentiae, Ex typographia ad Insigne Apollinis, 1745, pp. 47, 100-101. Sui rapporti fra Magliabechi e il Noris cfr. PAOLO GOLINELLI, Antonio Magliabechi, Benedetto Bacchini e gli eruditi italiani, in Antonio Magliabechi nell’Europa dei saperi, pp. 318-323. Le lettere di Francisco Macedo a Magliabechi sono conservate in BNCF, Magl. VIII.374.

45. Cfr. Lettera del Noris ad Angelico Aprosio, 14 luglio 1676 in GIAN LUIGI

BRUZZONE, Nove lettere inedite di fra’ Enrico Noris, «Analecta Augustiniana», LXII, 1999, pp. 199-201.

46. Cfr. ERMINIO TROILO, Franciscus a S. Augustino Macedo (Coimbra 1596-Pa-dova 1681), nella miscellanea Relazioni storiche fra l’Italia e il Portogallo. Memorie e documenti, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1940, pp. 256-257; PIETRO

STELLA, Il giansenismo in Italia, vol. I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 59-63; 281-282.

47. Cfr. LUCIEN CEYSSENS, François de Saint Augustin Macedo. Son attitude au début du Jansénisme, «Archivum Franciscanum Historicum», XLIX, 1956, pp. 241-254.

48. I momenti della controversia compaiono nella biografia del teologo vero-nese premessa dai curatori Pietro e Girolamo Ballerini al quarto volume delle sue opere (Henrici Norisii cardinalis vita, in Henrici Norisii Opera omnia, vol. IV, Veronae, Ex Typographia Taumarmaniana, 1732, pp. XX-XXIII) e in GIUSEPPE

BOLLA, Enrico Noris, Bologna, Cappelli, 1931 pp. 93-116. Per la ricostruzione

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I libelli sono quasi tutti pseudonimi, ma riconducibili, a parte qual-che interferenza di altri scrittori, a Macedo e a Noris. Nella pole-mica sono indicativamente distinguibili due fasi. La prima, che oc-cupa gli anni 1674-1676, di carattere prevalentemente storico eru-dito, con divagazioni grammaticali e filologiche, è relativa al presun-to semipelagianesimo di Vincenzo di Lérins e Ilario di Arles. La se-conda, tra il 1676 e il 1677, assume una piega dottrinale e verte sul-le accuse di baianismo e giansenismo mosse alla Historia pelagiana e alle Vindiciae augustiniane di Noris.

Dalle lettere in cui Calvi accusa ricevuta degli «avvisi» da Firenze o, direttamente, delle copie degli opuscoli speditigli da Magliabe-chi, emerge la regolarità con cui quest’ultimo aggiornò il corrispon-dente bergamasco, con un tempismo che Noris preferì differire. Nel marzo del 1677, infatti, uscirono, su istanza di Magliabechi, i Responsa P. Francisci Macedi adversus gerras germanas germanitatum Cornelii Iansenii et Henrici Norissii collecta ab Annibale Riccio, libro con cui Noris, sotto pseudonimo, si difese dalle accuse di gianseni-smo pubblicando brani incriminati delle sue opere in parallelo con altri pienamente consonanti del suo accusatore, Francisco Macedo. L’ironica strategia, già collaudata, era primariamente rivolta a let-tori delle Congregazioni romane cui l’opera era stata inviata fresca di stampa, e solo secondariamente ad un pubblico esterno a questi circuiti, come appare dalla lettera a Magliabechi del 18 marzo 1677 in cui Noris raccomanda di non diffondere copie dei Responsa pri-ma che giungano recensioni da Roma, «tanto più che colà solo ser-vono, mentre nell’Italia a pena sanno il nome di Giansenio».49 La copia per Bergamo, via Ferrara, partì solo dopo il 30 aprile, quando Noris diede a Magliabechi il placet per la spedizione a Calvi.50

Ben prima dunque che si possa parlare di circoli giansenisti ita-liani, troviamo un Magliabechi impegnato ad allargare il pubblico

critica della bibliografia, cfr. ILIDO DE SOUSA RIBEIRO, Fr. Francisco de Santo Agostinho Macedo. Um filòsofo escotista português e um paladino da Restauração, Coimbra, Universidade, 1951, pp. 48-51; 93-97; FERNANDO ROJO MARTÍNEZ, Ensayo bibliográfico de Noris, Bellelli y Berti, «Analecta Augustiniana», XXVI, 1963, pp. 303-307.

49. Clarorum venetorum, vol. I, p. 107. 50. «Ella per il P. Priore di S. Iacopo potrebbe inviare a Ferrara al P. Calvo ed

al Sig. Marchese Bentivogli qualche esemplare delle Germanità. Item al P. Vica-rio Generale». Ivi, p. 116.

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di spettatori a un dibattito teologico che, fuori da ambiti speciali-stici e istituzionali, incontrò nel caso di Calvi, vicario del Sant’Uffi-zio di Bergamo, esaminatore pro sinodale, docente formato nella tradizione scolastica anziché nella ricerca storico positiva, più un curioso perplesso che un partigiano appassionato.51 L’accento quasi indignato con cui Calvi commenta l’ultimo tratto della polemica fra Noris e Macedo,52 spintasi sul terreno minato delle questioni de auxiliis, è coerente con la sua integrazione nella pastorale di vescovi come Gregorio Barbarigo e con la sua cultura teologica di Lettore che aveva attivamente operato in un contesto scolastico cittadino privo della presenza stanziale della Compagnia di Gesù, ma comu-nicante, negli orientamenti pedagogici e dottrinali, con le scuole braidensi di Milano.53

Al di là dei casi di Boselli e di Noris, Calvi non indugia molto su notizie letterarie che non riguardino direttamente o indiretta-mente i personali lavori in corso d’opera o prossimi alla pubblica-zione, suggerendo l’intento di continuare, tramite Magliabechi, la promozione della sua attività, già tentata alcuni anni prima nel car-teggio con Angelico Aprosio.54 Il registro sbrigativo con cui l’agosti-niano accenna alle opere stampate a Milano nel 1675 presso il suo stesso editore da Antonio Lupis non sembra spiegabile solo con l’ormai remoto distacco dai modelli letterari veneziani. Il personag-gio, se non altro per la sua fama, avrebbe potuto offrire a Calvi più di un motivo per trasmettere e Firenze notizie letterarie, dato che Lupis, epigono degli Incogniti, già attivo agente letterario di Gio-vanni Francesco Loredan, elesse Bergamo, città «piccola e solitaria» percepita come periferica rispetto ai suoi orizzonti di affermazione, come residenza stabile degli ultimi produttivi trent’anni della sua vita, intrecciando vaste relazioni col mondo accademico e nobiliare cittadino.55 A spiegazione del distacco, si può evocare, più che una

51. Le reazioni di Calvi alla querelle sono affini a quelle di un altro corrispon-

dente lombardo di Magliabechi come il prefetto dell’Ambrosiana Pietro Paolo Bosca. Cfr. MIRTO, Pietro Paolo Bosca, pp. 290, 295, 299, 304. Piuttosto fredde quelle di Angelico Aprosio: cfr. ALFONSO MIRTO, Giovanni Pindemonte: lettere ad Antonio Magliabechi, «Studi secenteschi», LVI, 2015, pp. 389-390.

52. Lettera del 21 aprile 1677, pubblicata in appendice. 53. Cfr. CALVI, Diario, pp. XLIV-LVII. 54. CARMINATI, Donato Calvi e Angelico Aprosio, pp. 366-367. 55. LUCINDA SPERA, Antonio Lupis (sec. XVIII): un apprendista tra gli Incogniti di

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gelosia municipalistica verso il brillante poligrafo forestiero, la di-stanza dal modello di autore venale con cui Lupis era identificato da letterati locali come Nicolò Biffi, e, soprattutto, la concentrazio-ne di Calvi nei suoi ultimi anni su generi letterari affatto diversi da quelli frequentati da Lupis.56

Le lettere e il diario personale dell’autore documentano come le estreme energie dell’agostiniano fossero riservate alla stampa del-la sua opera di maggiore impegno storiografico, l’Effemeride sagro profana di Bergamo, nel completamento del Diario istorico di Maria Vergine, rimasto inedito, e nella seconda edizione accresciuta del Proprinomio evangelico, già uscito nel 1674.57 La nuova stampa avreb-be visto la luce nel 1677, arricchita in apertura da un encomio di Magliabechi, di cui appare evidente l’intento strategico. Neppure sembra casuale la scelta, operata per la prima volta, di un circuito editoriale veneziano presso gli editori Combi-La Nou, fornitori del bibliotecario granducale.58 Così Magliabechi è menzionato nell’Av-viso al lettore:

In questa seconda impressione poi non ho che di più rappresentarti se non che quivi troverai d’avvantaggio quindeci resoluzioni che non sono nella prima stampa di Milano e come sono con l’altre uniformi et omogenee battendo tutte la medesima strada de’ Sagri Vangeli, così spero ti riusci-ranno d’ugual aggradimento e soddisfazione. Vero è che come pensiero

Venezia, «Romanica Cracoviensia», XII, 2012, p. 268.

56. Emblematico il giudizio di Biffi nella lettera a Magliabechi del 21 aprile 1677: «Non si rendon venali, Signor Antonio mio, quali essi si siano, gl’impie-ghi della mia penna, poiché non son io de’ talenti d’Antonio Lupis che già scrisse l’Historia del Prencipe di Massa [presumibilmente inedita, citata da Lupis ne Il plico, Milano, Vigone, 1675, p. 47], al quale pare che l’opre sue non sian mai pagate abbastanza, e pure, a parer mio, poco vagliano» (Clarorum Veneto-rum, vol. II, p. 358). L’unica menzione elogiativa dello scrittore molfettano, ricordato come storico delle imprese di Francesco Martinengo (ANTONIO LU-

PIS, Il conte Francesco Martinengo nelle guerre della Provenza, Bergamo, Per li fi-gliuoli di Marc’Antonio Rossi, 1668) compare in DONATO CALVI, Campidoglio de’ guerrieri et altri illustri personaggi di Bergamo, Milano, Vigone, 1668, p. 150.

57. DONATO CALVI, Proprinomio evangelico, ovvero evangeliche resoluzioni nelle quali con il fondamento delle Divine Scritture, Santi Padri, sagri espositori e istorici, chiaramente si mostra chi fossero alcuni personaggi et altre celebri singolarità delle quali ne’ Sagri Vangeli si fa menzione senza espressione del nome o qualità loro, Milano, Vigone, 1674. Sul Diario istorico di Maria Vergine si veda la nota 9 in appendice.

58. ALFONSO MIRTO, Librai veneziani: i Combi-La Nou, «La bibliofilia», XCIV (1992), pp. 70-73, 83.

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non avevo di por più mano in questa fatica mia, ma seguitar l’applicazione alle altr’opere che tengo per le stampe allestite. Cosí in mente mai m’era caduto di farvi alcun’aggionta, ma l’impulso amorosamente violento di chi tiene sopr’il mondo letterario singolar predominio, dico dell’eruditissimo e per tutti li numeri virtuosissimo Signor Antonio Magliabechi fiorentino, della Regia Biblioteca del Serenissimo Gran Duca di Toscana Prefetto, hammi così dolcemente persuaso e, con l’autorità che sopra di me tiene, obligato, che ho bisognato lasciar correr l’occhio e la penna a nuove per-quisizioni e dichiarazioni, onde in uno e la stima si conosca che faccio d’un tanto soggetto, et il desiderio tengo di servir l’università de’ virtuosamente curiosi.59

Il Proprinomio, opera, come recita il frontespizio, «non meno di sagre erudizioni che di moltissime curiosità ripiena, ad ogni stato di persone molto utile, a’ professori delle Sagre Carte e predicatori sommamente necessaria», rivela un’intenzione non dissimile da quella di alcuni apocrifi neotestamentari, nati per amplificare pa-role e vicende della vita di Cristo. Nelle settanta «resoluzioni» (salite a 85 nella seconda edizione) l’autore scioglie reticenze su perso-naggi e circostanze o colma ellissi della narrazione evangelica sulla base di una bibliografia che, come avviene nell’Effemeride, è sempre esplicitata, anche se in modo sommario. Modello prossimo del li-bro sono le sei centurie di «intrattenimenti eruditi» edite fra il 1646 e il 1654 nelle Stuore del biblista gesuita Stefano Menochio (1575-1655), con la differenza che, mentre questi allestisce un’imponente selva la quale, in letterale obbedienza a un esclusivo principio di varietà, «non serva altr’ordine che di procedere senza obligazione d’ordine»,60 Calvi allinea le questioni secondo lo svolgersi della narrazione evangelica, dall’infanzia di Cristo alla resurrezione, in un unico volume relativamente agile. L’equilibrio strutturale trova un corrispettivo anche nella scelta delle fonti dove l’elemento agio-grafico criticamente più discutibile non prevarica rispetto a quello

59. DONATO CALVI, Proprinomio evangelico, ovvero evangeliche resoluzioni, Vene-

zia, Combi e La Nou, 1677, c. †4r-v. 60. GIOVANNI STEFANO MENOCHIO, Le stuore, ovvero trattenimenti eruditi […]

tessute di varia erudizione, sacra, morale e profana. Nelle quali si dichiarano molti passi oscuri della Sacra Scrittura e si risolvono varie questioni amene, e si riferiscono riti an-tichi e istorie curiose e profittevoli, Venezia, Baglioni, 16752, c. a3r. Cfr. STEFANIA

PASTORE, Menochio, Giovanni Stefano, in DBI, LXXIII, 2009, pp. 524-527. Il Proprinomio istorico geografico e poetico di Barezzo Barezzi (Venezia, 1643) non suggerisce che il titolo, trattandosi di un repertorio alfabetico.

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patristico e ai più autorevoli commentatori accademici dei Vangeli, in prevalenza di scuola gesuitica: Lorenzo D’Aponte, Sebastião Bar-rados, Juan Maldonado, Alfonso Tostado, Alfonso Salmerón. Il Proprinomio può così giovarsi di un’erudizione solidamente accolta e, nello stesso tempo, proporsi a utenti diversi: l’esegeta cui facilita la ricerca bibliografica, il predicatore per il quale dispone un utile prontuario, il lettore curioso cui offre anche squarci narrativi o des-crittivi.61 Il piacevole esaudimento di una domanda di informazioni singolari, caratteristica pienamente estensibile anche all’Effemeride di Bergamo, è l’intenzione del libro, colta dall’anagramma del nome dell’autore (Pater Donatus Calvius – Suaviter pandis occulta) composto da Angelo Finardi per le pagine liminari della seconda edizione.62 Da qui il successo dell’opera che, oltre ad una stampa bolognese non datata, ma successiva al 1677, conobbe altre cinque edizioni veneziane (1694, 1704, 1717, 1726, 1731), nonché una traduzione in spagnolo, finita nel 1761 nell’Indice dei libri proi-biti.63 Un esito, dunque, al quale non è paragonabile quello delle opere maggiori di Calvi, come la Scena letteraria e la stessa Effeme-ride, frutti di un lungo impegno di ricerca documentaria e di un consistente investimento economico, ma destinati a restare monu-menti ammirati e citati nell’ambito municipale. In questo senso, l’incerto inoltro a Firenze dell’Effemeride (il «viluppo voluminoso» di cui parla l’ultima lettera a Magliabechi) diventa emblema della legittima ambizione, interrotta da una morte inattesa, di sottoporre il lavoro giustamente sentito dall’autore come il principale, a un lettore forse tra i più congeniali.

È azzardato concludere che il successo, in prevalenza postumo, di quest’opera di Calvi sia dovuto al patrocinio di Magliabechi e al felice incontro con circuiti del mercato librario in qualche modo collegati al fiorentino. È però sostenibile che fra Magliabechi e l’ul-timo Calvi esiste un comune terreno che motiva il probabile ap-prezzamento del Proprinomio da parte del primo e il conseguente

61. Si segnala, ad esempio, la descrizione dei Magi e del loro abbigliamento

alle pp. 10-11 della prima edizione, citata. 62. CALVI, Proprinomio evangelico, c. †6v. 63. La traduzione di Juan José Gherzi de la Fuente fu stampata a Siviglia nel

1733 presso Manuel de la Puerta. Cfr. Indice ultimo de los libros prohibidos y mandados expurgar para todos los reynos y señorios del Rey de las Españas Carlos IV, Madrid, Antonio Sancha, 1790, p. 40.

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avvio della seconda edizione. Individuerei questa intesa ideale nella ‘curiosità’, categoria «di forte connotazione barocca, tra erudizione ricercata e bizzarria accademica», che Davide Conrieri segnala come un criterio orientativo ricorrente in Magliabechi lettore64 e che è quasi sistematicamente evocata da Calvi scrittore quando negli av-visi di apertura dichiara il carattere delle sue opere, tutte dedicate a soddisfare questa domanda.65 Lontana dalla sua degenerazione morale derivata da un malessere esistenziale (vana curiositas), accolta nelle letteratura devota e teologica come compossibile con la retti-tudine dei lettori (pia curiositas), la categoria è naturalmente fami-gliare a Calvi anche nelle opere di impegno storiografico destinate a circolare nel suo Ordine di appartenenza e concepite come pro-dotti di un sapere necessariamente frammentario, incompleto, chiaroscurale, ma proprio in questo godibile.66 A conferma di un’af-finità che si può istituire a questo livello, è la notizia conservata tra i saluti finali di una lettera di Giovanni Francesco Benvenuti a Ma-gliabechi, datata 13 maggio 1677:

64. DAVIDE CONRIERI, Magliabechi lettore, in Antonio Magliabechi e l’Europa dei

saperi, pp.138-141. Su questo aspetto barocco di Magliabechi cfr. CLIZIA CAR-

MINATI, Nuove prospettive per Antonio Magliabechi, «Studi secenteschi», LX, 2019, p. 278. Sulla parola Curiositas cfr. la voce (2019) di ALBERTO CEVOLINI per il Lexicon of Modernity, progetto coordinato dalla Pontificia Università Grego-riana, all’url https://gate.unigre.it/mediawiki/index.php/Curiositas, con una prima bibliografia.

65. Cfr. BERNUZZI, Prospero Alessandro della vicinia di S. Michele, pp. 311-312. 66. «Chi cammina nelle tenebre con picciol lume alle mani, più sono gl’oggetti

che perde di vista che quelli con l’occhio riscontra. Tale devo confessarmi io nella narrativa di queste istoriche memorie, mentre per ducento trenta più anni giaciuta la Congregazione nostra fra l’ombre, a me è toccato primiera girne pervestigando i principi, progressi e stato, e ciò con que’ soli puochi lumi m’hanno potuto porgere alcuni manuscritti de’ nostri vecchi Padri, da me, si può dire, cavati dalla polvere. Onde se scarse riusciranno queste notizie, s’ascriva alla debolezza de’ lumi istorici ricevuti, più tosto che a difetto di dili-genza che in me non è stata dozzinale. Ho perciò voluto queste mie poche fati-che intitolar Memorie istoriche, acciò sappi che se nella forma, disposizione, or-dine e perfezione mancheranno delle condizioni dovute ad una Istoria com-pita, non mancheranno a quelle si devono a memorie d’Istoria, ch’altro in so-stanza non sono che frammenti insieme raccolti con qualche ordine disposti, onde ne resti, se non pienamente, almeno bastevolmente sodisfatta la curiosità di chi legge»: DONATO CALVI, Delle memorie istoriche della Congregazione Osser-vante di Lombardia dell’Ordine Eremitano di S. Agostino, Milano, Vigone, 1669, c. †3v.

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M’onori fare umilissima riverenza […] al Signor Dottore Cinelli quale viene ringraziato dal Padre Reverendo Calvi del buon animo c’aveva di dedicar-gli una delle sue ‘Scanzie’, avendone piena una stanza grande.67

Le «scanzie» in questione sono i vari volumi, consistenti in ca-taloghi di opuscoli e fogli volanti – difficilmente reperibili e facil-mente destinati alla dispersione – disposti secondo l’ordine alfabe-tico del nome degli autori in cui si suddivise la Biblioteca volante, pubblicata dal medico fiorentino Giovanni Cinelli Calvoli dal 1677 e continuata da altri dopo la sua morte.68 La promessa della dedica sottende una passione bibliografica condivisa per quelle «operine delle quali con ansietà spesse volte si cerca»,69 care a Cinel-li e Magliabechi e ampiamente valorizzate da Donato Calvi, colle-zionista di avvisi, relazioni, gride, che registrò anche nel catalogo della sua biblioteca e utilizzò come fonti, esplicitamente segnalate, per molte rubriche della sua Effemeride.

Il bilancio finale può dunque registrare più l’incontro fra il gu-sto di un lettore e il tratto finale della carriera di uno scrittore che

67. BNCF, Magl. II.IV.546, da Bologna, 13 maggio 1677. 68. Sul Cinelli (1625-1706) e la Biblioteca volante cfr. GINO BENZONI, Cinelli

Calvoli, Giovanni, in DBI, XXV, 1981, pp. 583-589. Per il progetto, le fonti e le intenzioni della pubblicazione, suggerita da Magliabechi, cfr. GIOVANNI CI-

NELLI CALVOLI, Della biblioteca volante. Scanzia prima, Firenze, Per Antonio Bo-nardi, 1677, pp. 7-10. Il senso delle ultime parole di Benvenuti, formulate in modo alquanto ellittico, è ambiguo. Potrebbero significare che Cinelli, avendo a disposizione molto materiale («piena una stanza grande») per future edizioni della Biblioteca volante, e sottintendendo che le prime «scanzie» erano già dedi-cate (la prima a Enrico Noris, con dedicatoria datata 1 febbraio 1676, la se-conda, uscita nello stesso 1677 e dallo stesso Bonardi, a Francesco Della Fonte), avrebbe comunque avuto occasione di pubblicarne un’altra da dedicare a Calvi. Meno perspicuamente, attribuendo come soggetto all’«avendone» il Calvi, l’espressione è spiegabile non tanto come la testimonianza di una raccolta nel convento bergamasco di S. Agostino di copie della pubblicazione di Cinelli (del cui progetto, peraltro, come traspare dalla lettera del 26 maggio 1677 edita in appendice, sembra che Calvi avesse un’ idea imprecisa), ma come un’allusione al Calvi collezionista di materiali ‘volanti’, analoghi a quelli che la Biblioteca volante si proponeva di catalogare. Titolo di merito, in questo caso, per una dedica futura. Comunque si interpretino, le parole di Benvenuti suonano an-che come un promemoria di Calvi a Cinelli.

69. CINELLI CALVOLI, Della biblioteca volante. Scanzia prima, p. 8. Una rapida citazione del Proprinomio comparirà nella Biblioteca volante. Scanzia XVII, Mo-dena, Soliani, 1715, p. 24.

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il vantaggio concreto derivato per un mondo intellettuale di provin-cia dal contatto con l’influente erudito fiorentino. Questi, ricevuta da Giovanni Francesco Benvenuti la notizia della morte di Calvi, chiese se sarebbe stata stampata l’orazione funebre composta e re-citata da Nicolò Biffi, forse per una menzione nella Biblioteca volan-te, che avrebbe rimediato alla vaga e inevasa promessa fatta da Ci-nelli l’anno prima. Benvenuti, ringraziando per le preghiere di suf-fragio di Magliabechi, rispose – probabilmente rassegnato a una memoria del maestro limitata alla sua città e al suo Ordine – che «si è stimato bene non farla stampare, stante l’essere religioso, e per consequenza umile e povero. Li suoi libri parleranno da sé mede-simi, ad onta del tempo ancora».70

APPENDICE

LETTERE DI DONATO CALVI AD ANTONIO MAGLIABECHI (1674-1677)1

1

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Ne’ favori delle righe di Vostra Signoria Illustrissima riscontro il sommo delle mie consolazioni, onde la supplico non abbandonarmi talora con la grazia de’ suoi caratteri, com’io con l’importunità mia sarò qualche volta a tediarla. Le rendo umilissime grazie delle nuove letterarie, né potrò in ri-cambio altro dirli se non che il Padre Anicio stamperà la sua censura con-tro Tito Livio e già avevo mandato a Roma il frontispicio. Il mio stampator

70. BNCF, Magl. II.IV.546, lettera del 6 aprile 1678. 1. Le lettere sono conservate in BNCF, Magl. VIII.1148, nn. 5-21, cc. 11-36.

Prima della presente trascrizione definitiva, il testo originale è stato assegnato per una esercitazione di tirocinio a Michele Poli dell’Università di Bergamo, autore di molte delle schede Archilet relative ai personaggi qui considerati. Cri-teri di edizione: vengono sciolte le abbreviazioni, comprese quelle delle intesta-zioni, sottoscrizioni, formule di cortesia. La punteggiatura, gli accenti, gli apo-strofi sono normalizzati secondo l’uso corrente, così le maiuscole che vengono tuttavia mantenute nei titoli ecclesiastici, religiosi e civili, nelle intestazioni e nelle sottoscrizioni. Si pongono in corsivo i titoli delle opere citate e le espres-sioni latine. Vengono eliminati i latinismi grafici e gli esiti in -ij. Si manten-gono: la congiunzione con l’eufonica (et) davanti a vocale, l’ellissi del pronome relativo e le altre forme ortografiche. Le congetture o emendazioni sono segna-late in nota.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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Vigoni glielo fa per amor mio stampar senza spesa, e può ringraziarne Dio. Nella revisione ha avuto qualche incontro con un revisore che li contra-stava un discorso in cui discorre de’ Geni, tuttavia il tutto è rimasto sopito non so ben come.2

In Brescia dal Ricciardi il Padre Maestro Paolo Richiedei, domenicano, famoso accademico di cui Vostra Signoria Illustrissima avrà visto li Fiati d’Euterpe, li Essercizi accademici in due tomi etc., fa stampare un libro volu-minoso con titolo Regula tradita a S. Augustino Episcopo et Ecclesiae Doctore sanctimonialibus sui temporis, estratto dalle epistole etc., mi dicono molto dotto et erudito.3

Il Padre Cirillo, capuccino, già mio studente, stampa Iesu Christi patientis amor. Duplex carmen elegum et genethliacum. Ha alle mani altra opera volu-minosa: De mortuorum eleemosinis che pur pensa stampare.4

2. Il motivo della sospensione della stampa è spiegato nella lettera di Maglia-

bechi ad Angelo Finardi del 22 settembre 1674, citata alla nota 30 dell’intro-duzione e pubblicata sul sito Archilet. Il soprannome di «Padre Anicio» attri-buito all’olivetano Cipriano Boselli per le sue ricerche sulla discendenza asbur-gica dalla gens Anicia, pretesa anche per lo stesso S. Benedetto, era noto al tito-lare che lo riteneva meritata antonomasia (cfr. BOSELLI, Notizia del volume ani-ciano, p. 2). Boselli lo accettava di buon grado come segno della sua dedizione alle monarchie asburgiche d’Austria e Spagna e della sua autenticità benedet-tina che invece negava al principale emulo, l’abate cassinese Eugenio Gamur-rini. Questi, compatriota, accademico Apatista e genealogista, viene tratteg-giato da padre Anicio come un benedettino «degenerante» per la sua parzialità verso la monarchia «Capetina» di Francia, nonché accusato di assenteismo ac-cademico, negligenza negli studi teologici, erede di «mal franzese nelle midolle de gl’affetti». Cfr. BOSELLI, L’Austria Anicia, pp. 195-196; BIZZOCCHI, Genealo-gie incredibili, pp. 21-22.

3. Bresciano, appartenente all’Ordine dei Predicatori, Paolo Richiedei esordì nell’accademia degli Incogniti. Pubblicò a Venezia i Fiati d’Euterpe (Sarzina, 1635), a Brescia gli Esercizi academici distinti in problemi morali, politici, filosofici, amorosi (Rizzardi, 1665) e la Regola data dal P. S. Agostino alle monache (Rizzardi, 1675). Amico di Calvi, fu tra i primi accademici Eccitati. VINCENZO PERONI, Biblioteca bresciana, vol. III, Bologna, Forni, 1968 (ristampa anastatica), pp. 108-110; CALVI, Diario, pp. LXIX-LXXI.

4. CIRILLO ROSSI DA BERGAMO Christi patientis et Mariae compatientis amor. Epigrammatum bina centuria, cum duplici carmine elego et genethliaco meditantis ani-mae paenitentis, Carolopoli, apud Thomam Poncelet, 1683 (una prima edizione bresciana del 1681 è segnalata da BERNARDO DA BOLOGNA, Bibliotheca scripto-rum Ordinis Minorum S. Francisci Capuccinorum, Venetiis, Coleti, 1747, p. 69); ID., De morientium eleemosynis, Lugduni, In officina Anissoniana, 1680. Il nome del Rossi, accademico Eccitato, figlio dello stampatore bergamasco Marc’Anto-nio (BARNABA VAERINI, Gli scrittori di Bergamo, vol. I, Bergamo, Antoine, 1788, p. 32; GIAMMARIA MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, vol. II, parte II, Brescia,

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Il Padre Abbate Filippo Picinelli stampa per ultima delle sue fatiche, l’Av-vento e sarà terminato in questo mese, e lo stamperà Francesco Vigone in Milano.5

Penso avrà Vostra Signoria Illustrissima notizia del libro uscito in Mi-lano, stampe del Monza: Petri Pauli Boschi de origine et statu Bibliothechae Ambrosianae 4°.6 Quando non ne fosse provisto, la servirei. Così in questo come in ogn’altra cosa Vostra Signoria Illustrissima mi deve tenere per il minimo, ma per il più ossequente et ardente de’ suoi servitori per preva-lersi della debolezza mia ad ogni cimento. Iterum umilissime grazie per li libri consignati al Padre Priore Benvenuti, qui riverente, fermandomi di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 26 agosto 1674

27

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Nelle righe di Vostra Signoria Illustrissima riscontro ogni più desiderabil apparato di favori, di grazie e di erudizioni, onde con somma avidità le leggo, con inenarrabil profitto le considero e con indicibil soddisfazione ne pasco l’intelletto, rendendone perciò a Vostra Signoria Illustrissima per-petue grazie che con sí prezioso modo trova le forme per rendermi la villa, ove da un mese in qua mi trovo, in eccesso godibile.8 Qui mi essercito

Bossini, 1760, p. 934), è omesso dagli spogli settecenteschi di poeti agiografici del suo Ordine, ma segnalato da GIOVANNI POZZI, La poesia di Agostino Venan-zio Reali, Brescia, Morcelliana, 2008, pp. 9-16.

5. Si tratta delle Fatiche apostoliche intraprese ed esposte in questo duplicato Av-vento, Milano, Vigone, 1674 del lateranense Filippo Picinelli (1604-1678), au-tore del Mondo simbolico, Milano, Tipografia arcivescovile, 1653 e dell’Ateneo dei letterati milanesi, Milano, Vigone, 1670, dove (pp. 192-194) figura una nota autobiografica.

6. De origine et statu bibliothecae Ambrosianae hemidecas, Milano, Monza, 1672, di Pietro Paolo Bosca (il manoscritto legge: bibliotecae). Sul personaggio, già ci-tato nel saggio come corrispondente di Magliabechi, si veda la voce di AR-

MANDO PETRUCCI, Bosca, Pietro Paolo, in DBI, XIII, 1971, pp.165-166. 7. Seconda nell’ordine cronologico, la lettera è posta come ultima del fasci-

colo a c. 34. Ciò per errore di lettura della data, come appare all’intestazione della carpetta: «f. Donato Calvi. Lettere ad Antonio Magliabechi da 26 agosto 1674 a 10 ottobre 1679».

8. L’agostiniano villeggiava a Valtesse, nel territorio di Ponteranica, presso Bergamo. Cfr. CALVI, Diario, p. XXIX.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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intorno al libro della Beata Vergine di cui parlai a Vostra Signoria Illustris-sima, che mi riesce molto bene e sarà anco voluminoso, avendomi il Padre Gorttimbergh nel suo Atlas Marianus dato materie molto copiose.9 A que-sto penso far seguir (vita comite) un altro da me meditato e pian piano pre-parato con il titolo Le meraviglie di Dio ne’ suoi santi, oltre l’imbarazzo ad-dossatomi dall’Eminentissimo Cardinal Protettore della riforma delle no-stre definizioni et il resto dell’istoria della nostra Congregazione e città no-stra.10

La mia Effimeride sagro profana che si stampava in Milano da Francesco Vigone ha dormito un puoco, sí per l’infirmità mia, come aver lo stam-

9. Calvi allude, errando nel trascrivere il nome dell’autore, all’opera del ge-

suita Wilhelm Gumppenberg (1609-1675) che, avvalendosi della collabora-zione di oltre trecento confratelli corrispondenti dei vari continenti, ne curò due edizioni: Atlas Marianus, sive de imaginibus Deiparae per orbem christianum miraculosis, Monachi, Ex officina typographica Ioannis Iæcklini, 1657; Atlas ma-rianus quo Sanctae Dei Genitricis Mariae imaginum miraculosarum origines duodecim historiarum centuriis explicantur, Monachi, Typis Ioannis Iaeckeclini, 1672. Quest’ultima comprende un copiosissimo indice tematico anticipato da Gumppenberg nella Idea Atlantis Mariani, Tridenti, Zanetti, 1655. L’opera cui Calvi attende, rimasta inedita, denominata nelle lettera del 15 marzo 1676 «Istoria di Maria Vergine» è annunciata col titolo, verosimilmente definitivo, di Diario istorico di Maria Vergine nella prima edizione del Proprinomio evangelico (Milano, Vigone, 1674, c. C1v). Il titolo Effemeride mariana, per quanto cal-zante, non è dell’autore, ma dei catalogatori dell’autografo in sei volumi, ane-pigrafo, conservato in BCB, Sala I. D. 7. 18-23 (cfr. CARMINATI, Donato Calvi e Angelico Aprosio, p. 365). Si tratta di un’effemeride in cui si illustrano i prodigi attribuiti alla Vergine avvenuti in vari luoghi di culto per ogni giorno dell’anno. Rimangono materiali di lavoro dell’opera, comprendenti bibliografie, rubriche nominali e geografiche dei santuari e delle immagini sacre relative alle grazie narrate, lettere di corrispondenti (BCB, MMB 815). Il Diario istorico avrebbe dovuto far seguito a due fortunate pubblicazioni mariane di Calvi: Delle gran-dezze della Madonna santissima di Caravaggio, Brescia, Giovanni Giacomo Vigna [1669] e Delle grandezze della Madonna santissima delle Grazie d’Ardesio, Milano, Monza, 1673, più volte ristampate.

10. Non sono sinora note altre testimonianze del primo progetto. I materiali e gli abbozzi per la continuazione della prima parte edita della storia della Con-gregazione (Delle memorie istoriche della Congregazione osservante di Lombardia dell’Ordine eremitano di S. Agostino, Milano, Vigone, 1669) sono stati identificati in tre manoscritti (BCB, Sala I. D. 9. 3; BCB MMB 812; ASDB, ms. 58) da VINCENZO MARCHETTI, ‘Serie dei conventi agostiniani’. Un manoscritto del P. Do-nato Calvi ritrovato, in Società, cultura, luoghi al tempo di Ambrogio Calepio, a cura di Maria Mencaroni Zoppetti e Ermino Gennaro, Bergamo, Edizioni dell’Ate-neo, 2005, pp. 193-205.

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patore avuto altre opere per le mani, e solo di tre si è stampato il primo tomo. Per or mi promette darli dietro e sbrigarla ben presto.

Del Padre Anicio altro non sento. So che in Roma li fu opposto e fu ordinato mandasse tutta quella farragine colà, che la volevano vedere. Ma egli si va aiutando per non mandarla, né so ancora quello li sii riuscito. Anche in Milano comincia a esser scoperto per quello che è.11

Questo nostro Padre Priore Finardi lavora indefessamente intorno all’opere di Egidio Romano non più stampate e pensa farle uscir alla luce. Ho visto il bellissimo epigramma fatto da quel Signor Dottor Nizzardo so-pra l’anagramma del detto Padre Finardi sul nome di Vostra Signoria Illu-strissima, e penso le sarà dal Padre Aprosio stato trasmesso.12 Merita Vostra Signoria Illustrissima che tutte le premure s’impieghino in celebrar i suoi meriti come tutti i letterati la riconoscono per il prencipe loro. E senza adulazione lo dico, perché il suo glorioso nome più per l’Europa risplende che il sole nel mezzo giorno. Me ne consolo sempre più avendo sortito in prode13 soggetto di così gran meriti e qualità.

Il Padre Macedo l’ha attaccata male in pigliarla con il Padre Noris, e son certo che nella risposta li farà vedere quanto più ferisca penna italiana che

11. L’interessato, invocando la testimonianza di Calvi, sostiene che l’edizione

fu interrotta per il «livore di grandi» che «particolarmente con gli istrumenti interessati», avrebbero fatto modificare le convenzioni di stampa in modo per lui troppo svantaggioso (BOSELLI, L’Austria Anicia, p. 1059). A un intervento romano, mosso dai superiori della congregazione olivetana per bloccare la stampa, accenna Magliabechi nella lettera a Finardi del 22 settembre 1674 (cfr. supra, nota 2).

12. Il «nizzardo» è il giurista Pietro Andrea Trincheri, ascritto all’accademia bolognese dei Gelati, compositore di epigrammi e anagrammi sollecitati da An-gelico Aprosio: cfr. BRUZZONE, Nove lettere inedite di fra’ Enrico Noris, p. 118. L’anagramma Is unus bibliotheca magna, correttamente attribuito («doctissimi viri F. P. Angeli Finardi Augustiniani») compare con il relativo epigramma nel volume dello scolopio CARLO DI S. ANTONIO DI PADOVA [CARLO MAZZEI], Musae Anconitanae sive epigrammaton libri IV, Romae, Typis Camerae Apostoli-cae, 1674, p. 229, pubblicazione segnalata a Finardi da Magliabechi (BNCF, Magl. VIII.336, c.10, lettera di Finardi non datata, ma verosimilmente del 1675). La successiva antologia di DOMENICO ANTONIO GANDOLFO, Fiori poe-tici dell’eremo agostiniano, raccolti e illustrati con un saggio della vita di ciascun autore produttore de i medemi, Genova, Franchelli 1682, redita a p. 142 l’anagramma del Finardi, accompagnato da un altro epigramma, ma inserisce entrambi, senza attribuzione, fra i componimenti dell’agostiniano genovese Lodovico della Casa. Finardi e Donato Calvi sono semmai ricordati nell’appendice dell’antologia fra gli scrittori che hanno citato o elogiato Angelico Aprosio. Cfr. MARMI, Vita di Antonio Magliabechi, p. 46.

13. Lettura congetturale: la parola è parzialmente coperta da macchia d’inchio-stro.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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penna spagnuola. Ho scritto a Verona per aver l’opere di detto Padre Ma-cedo per poi aver anco la risposta del Padre Noris a suo tempo.14

Sto con ansietà attendendo i libretti de’ quali Vostra Signoria Illustris-sima m’ha fatto degno, e quando siino a Bologna in S. Biagio in mano del Padre Agostino Maria, presto mi capiteranno. Cotesto Padre Priore15 so mi favorirà, et io, sempre più obligato a Vostra Signoria Illustrissima, fermo la penna e mi conchiudo di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo vero Frate Donato Calvi

Bergamo, 10 ottobre 1674

3

Illustrissimo Signore Signor mio Padrone Colendissimo Si è fermata la penna mia due ordinari per portar nel terzo a Vostra Si-

gnoria Illustrissima, unitamente co’ ringraziamenti dovuti alla somma sua gentilezza per le nuove letterarie recatemi, un felicissimo augurio di gioie, felicità16 e fortune per le vicine sante feste natalizie che, come entrano dop-piamente sante e per la nascita commemorata del Redentore e per esser il principio dell’anno santo, così doppiamente beate e per l’anima e per il corpo glie le supplico dal cielo, onde non abbi a bramar contentezza che non le sii dalle stelle participata.

Il Padre Anicio strepita e fa rumori perché si vede dallo stampatore po-sposto ad Antonio Lupis, noto a Vostra Signoria Illustrissima, che stampa in Milano certe sue lettere con titolo di Plico, e mi scrivono che un giorno della passata settimana uscì di bottega strepitando con queste parole: che «per l’opera sua si dovriano lasciar le prime penne del mondo». E continuò con l’eco «del mondo, del mondo, del mondo» per buon pezzo di strada. Li compositori non ne vogliono fastidio se non la fa ricopiare, essendo il suo libro come l’abito d’Arlicchino tutto di pezze e bucchi.17

14. Si tratta delle Commentationes duae ecclesiasticae polemicae. Altera pro sancto

Vincentio Lirinensi et Sancto Hilario Arleatensi et Monasterio Lirinae. Altera pro Sancto Augustino et Aurelio et Patribus africanis auctore Francisco a Sancto Augustino Macedo, Veronae, Ex typographia nova Rubeana, 1674, e della risposta di No-ris: Adventoria amicissimo et doctissimo Viro P. Francisco Macedo in qua de inscrip-tione libri S. Augustini de Gratia Albine, Piniane et Melania disseritur, Florentiae, Ex typographia sub Signo Stellae, 1674.

15. Giovanni Francesco Benvenuti. 16. Il manoscritto legge: felicetà. 17. All’informazione corrispondono le dichiarazioni di Boselli sulla stampa

avvenuta «tumultuariamente», a ridosso di una stesura «repentina ed improv-

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Attendo da Venezia tutti li nuovi Giornali de’ Letterati Veneti, fatti all’uso di quelli di Roma, ma più copiosi e più curiosi. 18

Mi è finalmente capitata la risposta fatta al Padre Maestro Noris dal Pa-dre Macedo benché con alieno nome, e ne rendo a Vostra Signoria Illu-strissima umilissime grazie. Parmi che non solo molto bene risponda in retundere l’impostura data a S. Ilario et altri servi di Dio, ma che lo tocchi sul vivo mentre lo faccia disconoscente et incivile. Han fatto bene ad im-pedir la replica, perché mi imagino non si finirebbe mai.19

Questo nostro Padre Finardi s’affatica intorno all’opere di Egidio, fatica che non so come sii per riuscirli, non tanto per la spesa della stampa, quanto per l’essito, perché oggidí lo spaccio di simili libri si misura co’ secoli.

Per servir il publico nostro mi son bisognato applicare ad un ristretto istorico della Congregazione nostra che d’anno in anno succintamente tre cose contiene: aquisto de’ conventi, bolle e decreti pontifici e morte d’uo-mini insigni. In 3 mesi l’ho cominciato e finito.20

Non ho che partecipare di letterario a Vostra Signoria Illustrissima, tro-vandomi in finibus terrae. La supplico sotto l’ali della sua benignissima pro-tezione conservarmi, mentre riverentissimo mi fermo di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servitore Frate Donato Calvi

Bergamo, 12 dicembre 1674

visa», elaborata «non con altra biblioteca ed archivi di quei della sua vasta me-moria […] del che pubblici testimoni ne sono i Signori Bibliotecari Ambrosiani, i Regi impressori ed i suoi medesimi fogli, tutti in frammenti di carta, senza ricopiare, tutti martorizzati» che intende lasciare all’Ambrosiana. BOSELLI, L’Austria Anicia, p. 1060.

18. Il Giornale dei letterati veneti fu pubblicato dal 1671. Il Giornale de’ letterati di Roma, diretto da Francesco Nazzari, esordì nel 1668.

19. Calvi allude a: Fratris Archangeli a Parma socii Patris Macedo epistola obvia Adventoriae Patris Noris super questione grammatica, Romae, Typis Nicolai Angeli Tinassii, 1674. In realtà, nonostante l’auspicio di Calvi, la polemica continuò, come emerge dalle lettere successive, in toni anche più accesi.

20. L’inedito Ristretto istorico della Congregazione Agostiniana osservante di Lom-bardia del P. Donato Calvi, Prelato e Definitor perpetuo della medesima Congregazione, di pp.100 numerate, è conservato in BCB, MMB 812. Si tratta di una copia calligrafica in cui è riconoscibile il tratto dell’agostiniano Prospero Baldelli, se-gretario di Calvi. Il manoscritto sembra destinato alla stampa, ma appare inter-rotto all’anno 1467. Ai materiali di lavoro di Calvi appartengono invece gli autografi: Serie dei conventi agostiniani (ASDB, ms. 58) e Soggetti virtuosi della Re-ligione agostiniana (BCB, Sala I. D. 9. 3). Cfr. supra, nota 10.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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4

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Ho letto con ammirazione il nobilissimo elogio del Padre Macedo, di-gnissimo per ogni capo, et a riguardo del soggetto serenissimo21 e della ele-ganza e dell’argutezze che racchiude. Ma per renderlo omnibus numeris com-pito non poteva in conto alcuno tralasciare Vostra Signoria Illustrissima, soggetto per sé medesimo degno che tutte le penne del mondo letterario s’impieghino a celebrarne l’egregie doti e sublimi qualità. Tutto sii detto senza un neo d’adulazione, ma per pura espressione del vero. Quanto poi con ammirazione ho letto l’elogio predetto, altrettanto con mia mortifica-zione e rossore ho letto i gentilissimi caratteri di Vostra Signoria Illustris-sima che con la participazione delle sue grazie, sempre più mi rendono obligato e tenuto. Questo Padre Prior Finardi meco co’ più vivi sentimenti dell’anima la riverisce, e penso supplirà con la propria penna anco a ri-guardo del Signor Gronovio.22

Non abbiam di nuovo che le disperazioni del Padre Anicio che, dopo essersi stampati dal Vigone tre o quattro fogli delle sue censure contro Tito Livio, vedendo la stampa agghiacciata, andò e portò via tutto lo stampato e si condusse allo stampatore di corte per stampare quelle sue faraggini sopra la monarchia di Spagna. Si è cominciato, e perché ciò ha fatto senza la previa revisione de’ superiori, è dato in secca, né so come se la passerà. Vedrà fra puoco un nobilissimo commento latino sopra Claudiano, oltre la traduzione d’esso Claudiano in ottava rima, qui composto dal Signor Biffi, parente pure di cotesti Signori Biffi di Firenze. Il Lupis va stampando insieme agl’avanzi della sua penna, onde ha stampato lo Plico, lettere di capriccio, Li fantasmi dell’ingegno, materie profane, et il Meriggio della Grazia (titolo che spaventa, ma che nell’altezza non passa il solaio), discorsi sagri.23

21. L’allusione è allo scritto di Macedo: Serenissimi Magni Ducis Hetruriae Co-

simi III Elogium, Patavii, Cadorino, 1675. 22. Il filologo olandese Jacob Gronovius (1645-1716), amico di Magliabechi e

professore nel 1674 all’Università di Pisa che presto lasciò per contrasti col mondo accademico cui alludono le lettere di Nikolaes Heinsius in Clarorum Belgarum ad Antonium Magliabechium nonnullosque alios epistolae, vol. I, Floren-tiae, Ex typographia ad Insigne Apollinis, 1745, pp. 184-186. Bibliografia sul personaggio in INGEBORG VAN VUGT, Geografia e storia di una rete epistolare. Contatti e mediazioni nell’epistolario di Magliabechi, in Antonio Magliabechi nell’Eu-ropa dei saperi, pp. 263-264.

23. Il plico di Antonio Lupis, consegrato all’Illustrissimo et Eccellentissimo Signore il Signor Lorenzo Tiepolo, Milano, Vigone, 1675. I destinatari delle lettere di cui il libro è costituito sono in buona parte bergamaschi. Vi compaiono accademici Eccitati come Clemente Aregazzoli, Carlo Francesco Ceresoli, Bartolomeo Fi-nardi, Antonio Guerrini, agostiniani come Angelo Finardi, Giuseppe Pezzoli,

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MARCO BERNUZZI

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Supplico Vostra Signoria Illustrissima, vedendo il nostro Padre Prior Ben-venuti, in mio nome salutarlo, e con profondo ossequio fermo la penna e resto di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Umilissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 24 aprile 1675

5

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Sono secoli che non ho riverito Vostra Signoria Illustrissima, e pur non passano momenti che non mi ricordi il cuore gl’ossequi dovuti al suo sommo merito in tributo dalla mia perpetua devozione. Or ch’il cielo ri-suona le glorie de’ natali di Cristo, eccomi riverente ad inchinarla, por-gendo all’Altissimo voti incessanti perché le siino le felicità e fortune indi-visibili compagne, sí che al terminarsi d’un anno santo succeda per Vostra Signoria Illustrissima un anno fortunato e d’ogni contentezza ripieno.

Mi partecipò cotesto Padre Priore Benvenuti i favori di Vostra Signoria Illustrissima circa24 le controversie fra il Padre Macedo e Padre Noris e parmi che nell’ultima citata in cui si narra il fatto del duello, abbi il primo, o chi ha scritto per lui, molto transcenduto i termini di religiosa modestia, e poteva egualmente bene narrar il fatto non seguito e lasciar le ponture almeno di tutta la religione.25 Supplico Vostra Signoria Illustrissima, es-sendo seguita altra novità in tal parte, farmene la grazia con due righe, che mi sarà di sommo favore.

Aurelio Rossi, Odoardo Sozzi, confratelli di Calvi al quale sono indirizzate due lettere. La dedica ricorda che Lorenzo Tiepolo, protettore di Lupis dopo Gio-vanni Francesco Loredan, era stato capitano di Bergamo dal 1673 al 1674, come conferma CALVI, Diario, pp. 231, 242. Le altre due opere citate, com-prendenti rispettivamente orazioni profane e panegirici sacri, furono pubbli-cate a Milano da Francesco Vigone nello stesso anno: Fantasme dell’ingegno di Antonio Lupis. Consegrate all’Illustrissimo Signore Carlo Vincenzo Giovanelli; Il me-riggio della grazia descritto d’Antonio Lupis (più noto nella ristampa di Bologna, Longhi, 1687).

24. Il manoscritto legge: cerca. 25. L’allusione è alla pubblica sfida letteraria lanciata da Macedo a Noris, cui

questi non partecipò per ordine di Cosimo III. A firma di Juan de Avendaño comparve senza indicazioni tipografiche l’opuscolo Relazione del successo del duello litterario del padre Macedo in Bologna. Cfr. GREGORIO LETI, L’Italia re-gnante, o vero nova descrizione dello stato presente di tutti i principati e repubbliche d’Italia. Parte quarta, Valenza, A spese dell’Autore, 1676, pp. 502-505.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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Il cavalier di Beaziano, nobile di Giustinopoli, è per stampare un’opera di materia araldica (come la dice) nella quali saranno impresse l’armi tutte de’ nobili veneti con loro discorsi genealogici. Così delle città, terre, ca-stelli, giurisdizioni, feudi etc. del veneto dominio. Cosí, di città in città, lo stato, sito, grandezza, popolazione, giurisdizioni di castelli, terre etc., con l’armi della città e famiglie nobili. Così di castelli e luoghi di giurisdizione etc. E parimente, di città in città, l’armi de’ cavaglieri d’ordine o religione che vi si trovano, con imprese, gieroglifici etc. e qualità delle loro famiglie. Opera di gran fatica, ma non so se così presto sarà impressa. Io lo servo per questa nostra di Bergamo e mi fa fretta.26

Dell’Effimeride mia son impressi due volumi, et il terzo spero sarà termi-nato per Pasca. Ho pur l’opera finita di Maria Vergine e, ricopiata sii, la consegno alle censure del mondo.

Qui siamo nelle miserie letterarie. Attenderò da Vostra Signoria Illustris-sima qualche luce che mi ricrei et, unitamente, alcun suo prezioso com-mando, onde nell’essecuzione conosca che vive e viverà eternamente di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Umilissimo Obligatissimo servo

Frate Donato Calvi Bergamo, 17 dicembre 1675

6

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissmo

Il polizino di Vostra Signoria Illustrissima annesso alla lettera del Padre Benvenuti è a me riuscito come uno di que’ polizini favorevoli che si ca-vano ne’ lotti, segnati con la grazia, mentre lo riconosco pur effetto della grazia e benignità di Vostra Signoria Illustrissima che sa tutte le forme tro-vare per obligarmi e rendermi sempre più schiavo della sua somma corte-sia. Stimo sarà capitata alle sue mani altra mia, scritta prima delle sante feste, onde non mi rimane che renderli umilissime grazie delle nuove let-terarie a me in eccesso giunte.

26. L’opera di GIULIO CESARE BEAZIANO, L’araldo veneto, Venezia, Pez-

zana,1680, ben diversa dal progetto descritto da Calvi, si riduce a un trattato generale di materia araldica. Parziale realizzazione dell’ambiziosa enciclopedia potrebbe essere la successiva Fortezza illustrata. Discorso araldico sopra l’armeggio di Brescia, Brescia, Grumi, 1684, segnalata da MAZZUCHELLI, Scrittori d’Italia, vol. II, parte II, p. 571. Semmai il piano dell’opera è applicabile ad altre produ-zioni di araldisti veneti, come il volume di CASIMIR FRESCHO, Dei pregi della nobiltà veneta abbozzati in un giuoco d’arme, Venezia, Poletti, 1686.

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MARCO BERNUZZI

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Tengo Le bellezze di Firenze del Bocchi,27 e se sarà ristampato riuscirà d’universal gradimento perché vi s’aggiungeranno tante altre cose mirabili accresciute a cotesta nobilissima città.

Ho molto goduto nelle letterarie tenzoni de’ Padri Noris e Macedo, ma non credo che il primo vorrà restar di sotto, onde non si risenta, sí dell’ul-tima scrittura dell’Hausen come della relazione del successo del duello, molto ardita per non darli altro titolo.28

Pur con devotissimo ringraziamento obligato a Vostra Signoria Illustris-sima per il prezioso librettino del Signor Cardinale Bona, veramente d’oro e d’una sí celebre penna ben degno.29 La supplico tenermi nel numero de’ suoi più ossequenti e riverenti servitori, non havendo io spirito che conse-gnato non sii al di lei soblime merito et eminenti qualità. E con umil in-chino mi fermo di Vostra Signoria Illustrissima

Umilissimo Devotissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, primo dell’anno 1676 che le supplico dal cielo colmo d’ogni felicità e prosperità.

7

Illustrissimo Signore Signor Pardrone Colendissimo

Arrossisco in comparir sotto gl’occhi di Vostra Signoria Illustrissima e non aver materia letteraria da presentarli, in corrispondenza di tante che la sua benignità mi partecipa. Ma dovrà compatirmi che ella, senza adula-zione, è il nume delle lettere, io riverente ammiratore de’ suoi pregi, onde dovrà contentarsi che da quest’angolo d’Italia l’inchini e li ricordi il mio obligatissimo ossequio.

Lavoro attorno all’Istoria di Maria Vergine che sarà ben presto finita, mentre si è cominciata la stampa del 3° volume delle nostre patrie effime-ridi.

Il Signor Biffi riverisce Vostra Signoria Illustrissima e pur egli è ben pre-sto al termine del suo Claudiano, e lo farà al mondo comparire.

27. FRANCESCO BOCCHI, Le bellezze della città di Fiorenza, Firenze, Sermartelli,

1591. Cfr. infra, nota 41. 28. HENRICUS HAUSEN [FRANCISO MACEDO], Albinus S. Augustini inventus.

Noris castigatus. Augustini doctrina a Celestino I approbata, s.l., s.t., s.d. (ma pub-blicato nell’anno: cfr. DE SOUSA RIBEIRO, Fr. Francisco de Santo Agostinho, p. 94).

29. Testamentum sive praeparatio ad mortem, del cardinale Giovanni Bona (1609-1674), edito postumo a Firenze (Ex typographia sub Signo Navis, 1675) a cura di Giovanni Cinelli.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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Graziose son le letture delle composizioni di cotesti letterari duellanti, et affé, se Macedo batte, il Noris più forte ribatte, e quell’Albino femina a tanti inchiostri vuol perder il bianco e doventar nigrior. Non si sapeva, a pena fosse al mondo stata, se coteste penne non la facevan saltar fuori, or in sembiante di femina, or di maschio.30 Stimo però non vorranno qui fermarsi, e qui riverente mi conchiudo di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 15 marzo 1678

8

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Le grazie di Vostra Signoria Illustrissima, accompagnate co’ preziosi li-

bretti mandatimi, sempre più al sommo della sua benignità mi rendono obligato. Libretti tutti degni, ma dignissimi poi vedendosi in alcuni d’essi il nome glorioso di Vostra Signoria Illustrissima impresso. Io resto nella moltitudine de’ suoi favori sempre più mortificato et in uno bramoso di farli in alcun riscontro conoscere la mia obligatissima devozione.31

Nella notizia de’ nuovi libri impressi e che s’imprimono pasce Vostra Signoria Illustrissima la curiosità mia e la perpetuità de’ miei debiti, onde

30. L’espressione scherzosa non è lineare nella formulazione, ma è chiara-

mente allusiva all’aspetto filologico della controversia Macedo-Noris. Il primo accusava il secondo di confondere Albino, dedicatario con Piniano e Melania del De gratia Christi di Agostino, con Albina, suocera di Piniano. Cfr. HAUSEN [MACEDO] Albinus S. Augustini inventus, p. 3. Il Noris che «più forte ribatte» potebbe alludere alla replica: Thraso aut miles Macedonicus plautino sale perfrictus, opera Annibalis Corradini Veronensis, Artdolfi Noricorum [Verona], Typis Ioan-nis Henrici Schaennerstaedt, [1675]. L’operetta è però di dubbia attribuzione: cfr. ROJO MARTÍNEZ, Ensáyo bibliografico, pp. 304-305; ALFONSO MIRTO, Fran-cesco Sparavieri: lettere ad Antonio Magliabechi, bibliotecario di casa Medici, «Studi secenteschi», LV, 2014, pp. 263-264. Col Thraso si conclude la prima fase della polemica. 31. L’invio di pubblicazioni contenenti i suoi elogi corrisponde alla radicata in-clinazione autopromozionale di Magliabechi, che affiora in modo sistematico nella rete dei suoi rapporti (cfr. CARMINATI, Nuove prospettive per Antonio Ma-gliabechi, pp. 279-280). Calvi proponendosi il «riscontro», che sarà effettivo nella seconda edizione del Proprinomio che si apre con l’elogio di Magliabechi, mostra di coglierla perfettamente. Cfr. infra, lettere del 10 ottobre 1676 e 26 maggio 1677.

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MARCO BERNUZZI

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gliene rendo infinite grazie, supplicandola non abbandonarmi con l’onore di simili notizie a me in sommo gratissime.

Si è stabilita la ristampa del mio Evangelico Proprinomio, avendoli fatta l’aggionta di dodici altre risoluzioni. Impresso, comparirà sotto gl’occhi di Vostra Signoria Illustrissima in tributo della mia osservanza.

Non ho ancor visto l’Aprile de’ Padri Enschenio e Papebrochio. 32 Ben anch’io li ho somministrato qualche cognizione di questi nostri Santi cor-renti in detto mese e sono passate fra noi sopra ciò varie lettere.

Meno ho visto l’opera del Padre Brunone contro il Padre Noris, ma stimo saprà questi ben rispondere come ha saputo alle ponture del Padre

32. Calvi fu messo in contatto coi gesuiti Godefroid Henschen e Daniel van

Papenbroech dall’agiografo bresciano Bernardino Faini: cfr. MARIO BATTI-

STINI, I padri bollandisti Henschenio e Papenbrochio a Milano nel 1662, «Archivio Storico Lombardo», LVIII, 1931, p. 177. Una sola lettera autografa di Calvi ai bollandisti belgi, datata febbraio 1669, è conservata alla Bibliothèque Royale di Bruxelles, Collectanea Bollandiana, ms. 7812, cc. 221-222. L’agostiniano vi trasmette la bibliografia relativa agli atti dei santi bergamaschi, segnalando MARCANTONIO BENAGLIO, De vita et rebus gestis sanctorum Bergomatum commen-tarii quos olim a Marco Antonio Benalio immatura morte sublato imperfectos relictos Ioannes Antonius Guarnerius canonicus expolivit et auxit, Bergamo, Ventura, 1584; FILIPPO FERRARI, Catalogus Sanctorum Italiae in menses duodecim distributus, Mi-lano, Bordoni, 1613; CELESTINO COLLEONI, Historia quadripartita di Bergamo et suo territorio. Parte I, Bergamo, Ventura, 1617; MARIO MUZIO, Historia de’ Santi di Bergomo assai più copiosa di qualunque altra sin qui scritta di loro, Bergamo, Per Comin Ventura, 1610; ID, Vite de’ beati et d’altri per santità di vita venerabili della città di Bergamo, Bergamo, Per Comin Ventura, 1614; Id, Delle reliquie insi-gni e d’altre cose degne di memoria che nelle chiese di Bergamo dentro e fuori si ritrovano, Bergamo, Per Comin Ventura, 1616 (successivamente riuniti nella Sacra histo-ria di Bergamo di Mario Mutio divisa in tre parti, Bergamo, Per Valerio Ventura 1621). L’allegato De Amando comite Ghisalbae è un estratto in latino di quanto Calvi scrisse su S. Amando, morto il 6 aprile, venerato a Ghisalba (Bergamo), nel Campidoglio de’ guerrieri, pp. 27-30. La scheda agiografica di Calvi fu effetti-vamente recepita negli Acta di Aprile, usciti ad Anversa nel 1675, che consulto in edizione settecentesca: Acta Sanctorum Aprilis collecta, digesta, illustrata a Go-defrido Henschenio et Daniele Papebrochio, vol. I, Venetiis, Apud Sebastianum Co-leti et Ioannem Baptistam Albrizzi, 1787, pp. 547-548. I bollandisti citano ed elogiano Calvi, («vir eruditus et libris ad historiam Bergomensem spectantibus clarus»), ma con una nota critica («haec ille, incunctantius a nobis recipienda si pariter indicasset ex quibus auctoribus ac monumentis acceperit singula. Ve-remur enim ne hic dumtaxat proponatur speciosa series novarum coniectura-rum») cui segue l’ipotesi di ricollocare storicamente il santo rispetto alla narra-zione calviana.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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Macedo. Non so se quest’opera sarà sopra punti delle medesime contro-versie, o se altra cosa.33

Il Signor Dottor Biffi riverisce Vostra Signoria Illustrissima. Or è a letto con febre, e dorme intanto il suo Claudiano. Io però non dormo, ché sem-pre veglio nel desiderio di servire Vostra Signoria Illustrissima per farmi eternamente conoscere di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo eterno Frate Donato Calvi

Bergamo, 26 aprile 1676

9

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Se questa volta il Padre Noris la cava netta è un grande uomo. Veggo

nella benignissima di Vostra Signoria Illustrissima le imposture che li ven-gono date e, se sono giustificate, non so come potrà salvare l’Historia pela-giana dalla proibizione. L’ha attaccata male a pigliar briga con quel diavolo portoghese. Quando però rispondesse alcuna cosa, supplico la cortesia di Vostra Signoria Illustrissima farmi degno di qualche notizia, ché, vera-mente, in genere letterario non si può sentire la più bella contesa.

Vorrei pure la grazia di Vostra Signoria Illustrissima mi illuminasse come si potrebbe fare ad avere uno di que’ libri del Cardinal Albici in risposta all’origine dell’Inquisizione nel veneto dominio.34 Costi pure ciò che vuole che nulla m’importa. Basta abbi il lume35 per trovarlo.

Il mio Proprinomio evangelico è di nuovo sotto torchi del Combi in Vene-zia, con aggiunta di 15 resoluzioni e già che in esso faccio menzione e pro-metto anco il Proprinomio apostolico, mi son accinto all’impresa di termi-narlo, sperandone non inferior essito dell’erudizione.36

33. Il Prodromus velitaris adversus Henricum de Noris, auctore Fratre Brunone Neus-

ser, Maguntiae, Sumptibus Joannis Petri Zubrodt, 1676, è in realtà del gesuita Onorato Fabbri. Cfr. DE SOUSA RIBEIRO, Fr. Francisco de Santo Agostinho, p. 93. Con quest’opera gli attacchi a Noris passano dal terreno storico erudito a quello teologico dottrinale sulle questioni de gratia.

34. La Risposta all’istoria della Sacra Inquisizione composta dal Reverendo Padre Paolo servita, o sia discorso dell’origine, forma ed uso dell’ufficio dell’Inquisizione nella città e dominio di Venezia del cardinale Francesco Albizzi uscì anonima e senza note tipografiche. L’autore e il luogo di stampa (Roma) furono notificate da Magliabechi ad Angelo Finardi nella lettera del 4 agosto 1674, citata alla nota 30 del saggio introduttivo e pubblicata sul sito Archilet.

35. Trascrizione congetturale: la parola è solo parzialmente leggibile per una macchia d’inchiostro.

36. Rispetto alla lettera precedente, Calvi, correggendosi, annuncia il numero

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MARCO BERNUZZI

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Riceverà dal Padre Priore Benvenuti un libricciuolo fatto da un nostro virtuoso intitolato Quaresimale poetico.37 In esso leggerà sonetti soblimi, ma molti si veggono precipitati et avevano bisogno di lima.

Un’indisposizione di dolori mi ha fermato a letto alcuni giorni, onde la risposta mia avrà titolo di tarda, e la supplico compatire. È qui stato di passaggio il Cardinal Sigismondo Ghigi che va vedendo varie città.38 E ri-verentissimo mi fermo, sempre unitamente e bramoso de’ suoi caratteri et ambizioso de’ suoi comandi, di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Umilissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 2 giugno 1676

10

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Debitore per più capi mi veggo di Vostra Signoria Illustrissima e per

l’onore delle sue pregiatissime righe e per il regalo delle composizioni tra-smesse. Mi consolano quelle nelle virtuosissime letterarie notizie che si compiace parteciparmi. Mi rallegrano queste in veder il nome di Vostra Signoria Illustrissima sempre più lodato et essaltato. Nella ristampa del mio Proprinomio solo rammento i miei debiti verso il suo sommo merito che è effetto della mia perenne osservanza, onde non mi si deve un minimo ringraziamento, e troppo lubrica è stata la lingua del mio Padre Priore Ben-venuti in comunicarli questa minuzia. Spero in breve veder detta ristampa terminata e subito ne farò volar copie a Vostra Signoria Illustrissima in puro omaggio della mia riverenza.

Veggo le nuove proposizioni del Padre Macedo39 e se il Padre Noris le rimbroccherà farà un bel colpo. E quando il foglio di dette proposizioni

effettivo dei capitoli aggiunti nella nuova edizione del Proprinomio evangelico.

37. Non è identificabile la pubblicazione, certo collocabile in un genere atte-stato di versioni poetiche dei vangeli della quaresima, rappresentato da autori come Michelangelo Golzio (Il quaresimale poetico, Torino, Zappata, 1655), Do-menico Torricella (cfr. ANTONIO JURILLI, Il ‘Quaresimale poetico’ inedito di un tardo secentista pugliese: Domenico Torricella, «La ricerca», I, 1979, pp. 159-199), Pietro Cresci e Giulio Cesare Croce (cfr. SALVATORE USSIA, L’aspro sentiero. Poesia quaresimale di Pietro Cresci e Giulio Cesare Croce, Vercelli, Edizioni Mercu-rio, 2003, pp. 12-13).

38. La visita del cardinal Chigi avvenne il 22 e 23 maggio. CALVI, Diario, p. 252.

39. Calvi riceve notizia delle Propositiones parallelae Michaelis Baii et Henrici de Noris auctore Fratre Ioanne a Guidicciolo minorita observante mantuano, Franco-

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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non sii tanto prolisso e si compiaccia Vostra Signoria Illustrissima farmene la grazia, il nostro Padre Priore lo ricopierà e trattenerà fin che da me sii avisato il come mandarlo.

Et non est finis faciendi plures libros.40 Le lettere di Vostra Signoria Illustris-sima sono biblioteche di nuovi libri, e ben si vede quanto l’occidente trionfi nell’edizione di nuovi volumi in materie eruditissime.

Qui abbiamo il Padre Anicio venuto da Milano in questi mesi di vacanze, e seguita nella stampa del suo chaos della monarchia ispagnuola. Lo dico chaos perché, senza capi, senza postille, senza margini, confonde talmente chi lo legge che si conosce troppo dal Creatore lontano, mentre non trova forma di saperlo distinguere. Del suo Tito Livio non parla più.

Le bellezze di Firenze del medico Cinelli mi persuado siino le stesse con quelle di Francesco Bocchi, ma accresciute conforme lo stato moderno. Sarà libro curiosissimo, come pur tale mi raffiguro il Malmantile del Lippi.41

Qui si stampano le famose rime del conte Albano, dedicate alla Maestà dell’Imperatore.42 Impresse, ne trasmetterò per qualche occasione copia a

furti, Apud Ioannem Petrum Zubordo, 1676, altro foglio pseudonimo di Ma-cedo cui Noris, nell’intento di provare che la dottrina condannata dall’avversa-rio era identica a quella che lo stesso francescano portoghese aveva sostenuto in altre sue opere, rispose, anch’egli sotto pseudonimo, con un centone di ci-tazione macedoniane messe a confronto con le sue: Responsiones P. Francisci Ma-cedi adversus propositiones parallelas Fratris Ioannis a Guidicciolo collectae ab Anni-bale Riccio veneto, Venetiis, Typis Antonii Pezzanae, 1676. Magliabechi aveva ispirato la composizione dell’opuscolo norisiano. Cfr. lettera di Noris a Maglia-bechi, 11 marzo 1677, in Clarorum venetorum, vol. I, p. 100.

40. Citazione da Qoèlet, 12, 12. 41. La nuova edizione delle Bellezze della città di Fiorenza di Francesco Bocchi,

ampliata e curata da Giovanni Cinelli Calvoli (Le bellezze della città di Firenze, Firenze, Gugliantini, 1677) fu denunciata dai detrattori, di cui si è fatto cenno alla nota 15 del saggio introduttivo, come una speculazione ordita da Cinelli e Magliabechi: «Ipsosque mercennaria impellente avaritia, librum condere, imo diu conditum a Francisco Bocchio nuncupatum Le bellezze di Firenze deturpare alter alteri persuasit, vendere, pretiumque simul partiri». Io. Cinelli et Antonii Magliabechi vitae, Fori Vibiorum, 1684, p. 18. Cito da un raro esemplare a stampa del libello, conservato alla Biblioteca Moreniana di Firenze, (Misc. 163.2), il cui risguardo anteriore reca una nota manoscritta che dichara come suo compositore Niccolò Francesco Bertolini da Barga. L’allusione al Malman-tile può riguardare l’annuncio della prima edizione, avvenuta «alla macchia» del Malmantile racquistato. Poema di Perlone Zipoli, In Finaro [Firenze], Nella stam-peria di Gio. Tommaso Rossi, 1676 [1677] . Cfr. CLIZIA CARMINATI, Lippi, Lorenzo, in DBI, LXV, 2005, p. 222.

42. Si tratta della seconda parte delle Rime (Bergamo, Rossi, 1677) di Giovanni Albani (1627-1710), nobile bergamasco e accademico Eccitato. Cfr. VAERINI, Gli scrittori di Bergamo, pp. 52-53.

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MARCO BERNUZZI

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Vostra Signoria Illustrissima che reverente inchino, ricordandomi eterna-mente di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 10 ottobre 1676

11

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Mi portò, dirò, la mala sorte dalla villa alla città la vigilia de’ Santi, poscia

che, da rigori del nuovo non stimato ambiente percosso, con nuova flus-sione negl’occhi or me la passo molto in travaglio. E benché non sii la flussione così fiera qual fu quella di due anni passati, tuttavia m’apporta non solo molestia, ma dolore. E giuro a Vostra Signoria Illustrissima che le compitissime sue righe sono il solo collirio che mi apportano il bramato sollievo, che non tampuoco riempiono di consolazione il cuore, ma le af-flitte pupille confortano.43 Onde, se mi vuol presto sano, la supplico con l’onore de’ suoi caratteri non abbandonarmi.

Nel foglio dell’opere del Padre Barronio leggo il tomo degli Opusculi o diremmo amoeniorum litterarum.44 Gratissimo mi riuscirebbe sapere se in Venezia o altrove si ritroverà, e se saranno detti opuscoli divisi, come pare accenna la diversità delle stampe loro, o se pur in un sol volume sono rac-colti, come mostra il titolo.45

Quando sarà il Proprinomio impresso, sarà mio debito farnela avisato, e mi persuado che prima di Natale si terminerà.

Il Signor Dottor Biffi è dietro a ricopiare il suo Claudiano per darlo su-bito alla luce, e riverisce Vostra Signoria Illustrissima come fa questo no-stro Padre Priore Finardi che è venuto da Venezia con due casse libri colà comperati. Fra quelli in foglio non veggo altro che l’opera compita del Sil-veira,46 il nuovo Bollario,47 Aquila Saxonica figurata, Aquila inter lilia figurata

43. L’agostiniano soffriva di una forma cronica di oftalmia. Cfr. CALVI, Diario,

pp. 213, 236-237, 241; LUPIS, Il plico p. 217. 44. Il manoscritto legge: literarum. 45. Bonaventura Baron (1610-1696), francescano irlandese, nipote di Luca

Wadding, studioso di Scoto, fu attivo a Firenze come storiografo ufficiale di Cosimo III. Gregorio Leti ne segnala due tomi di Opuscula prosa et metro argu-mento etiam varia, editi a Lione nel 1669 e nel 1671. Cfr. LETI, L’Italia regnante, vol. III, pp. 461-464. Così anche GIOVANNI CINELLI CALVOLI, Biblioteca vo-lante. Scanzia seconda, Firenze, Bonardi, 1677, p. 29.

46. Identificabile col carmelitano Ioão Silveira, autore dei Commentaria in tex-tum evangelicum, editi a Lione in cinque volumi da Boissat e Anisson (1645-1659). Un sesto tomo, dello stesso editore, comparve nel 1672.

47. Magnum Bullarium Romanum, ab Urbano VIII usque ad S.D.N. Clementem X.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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etc.48 Del resto più di 200 pezzi piccoli, uniformi come le repubbliche, il Drexelio, la Bibbia in pezzi etc.,49 e fra pochi anni non li potrà più leggere.

Attenderò la grazia de’ fogli accennati con qualche opportunità, e sup-plicandoli dal cielo ogni maggior felicità, con un saluto al nostro Padre Priore Benvenuti, resto di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo eterno Frate Donato Calvi

Bergamo, 15 novembre 1676

12

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Mi sono pervenute le proposizioni parallele del Padre Guidiccioli con le

risposte del Padre Macedo, e giuro a Vostra Signoria Illustrissima che son rimasto non puoco ammirato non sapendo capire come il Padre Macedo prenda a difendere il Noris, nemico suo, e molto più vedendo poi che nell’opuscolo Germanitas dogmatica etc. lo paragona nelle proposizioni a Iansenio. Vostra Signoria Illustrissima che con tanta cortesia mi ha favo-rito della missione de’ predetti primi libri, per li quali li rendo innumera-bili grazie, si contenti anco levarmi questo scrupolo, che mi fa creder nel Macedo qualche ordita trama. Se forsi non fosse tanto suo nemico il Gui-dicciolo quanto il Noris, onde volesse dar addosso all’uno e all’altro.50

Oh quanti cani ha contro sé svegliato cotesto Padre Noris, che da tutte le parti l’addentano, e se salverà la pelle non sarà puoco, e temo assai, se ben non s’aiuta, che l’Historia pelagiana vada ben presto su l’Indice. So però esser tanto spiritoso et intelligente che saprà difendersi. Anche di questi

Opus absolutissimum a RR. PP. Angelo a Lantusca et Ioanne Paulo a Roma Ordinis Minorum Sancti Francisci strictioris observantiae collectum. Tomus quintus, Lugduni, Sumptibus Laurenti Arnaud et Petri Borde, 1673.

48. Si tratta dei due volumi di GIOVANNI PALAZZI, Aquila Saxonica, Venetiis, Apud Ioannem Iacobum Herz, 1673-1674; Aquila inter lilia, Venetiis, Apud Ioannem Iacobum Herz, 1671.

49. Calvi sembra alludere scherzosamente a volumi scritti in carattere molto piccolo, «uniformi come le repubbliche», cioè con impaginazione omogenea, ma l’interpretazione è assai dubbia. Sono ipotizzabili l’Opera in 4 volumi di Jeremias Drexel (Lugduni, Sumptibus Ioannis Antonii Huguetan, 1675) e la Biblia sacra versiculis distincta, Lugduni, Carteron, 1676.

50. I libri pervenuti sono quelli ricordati dalla lettera del 10 ottobre. Il seguito atteso è costituito dalle pseudonime Germanitates dogmatum Cornelii Iansenii epi-scopi Yprensis et Henrici Noris Eremitae Augustiniani, auctore Humberto asceta Car-thusiense, s.l., s.t., s.d., di Francisco Macedo.

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MARCO BERNUZZI

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avisi mi confesso alla benignità di Vostra Signoria Illustrissima somma-mente obligato, a cui pur in fine, ma senza fine, auguro per le prossime sante feste et anni venturi, ogni più desiderabile felicità e fortuna, onde entri et esca dall’anno nuovo da ogni bene accompagnato, e resto di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo eterno Frate Donato Calvi

Bergamo, 10 dicembre 1676 La supplico d’un caro saluto al nostro Padre Prior Benvenuti

13

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Alle gratissime nuove letterarie che Vostra Signoria Illustrissima mi porta corrisponderò questa volta, dopo umilissimi ringraziamenti, con al-cune curiosità di questi paesi, da me forsi toccate in una lettera del51 Padre Benvenuti, ma non espresse. Comparve del passato mese un’aquila ossi-fraga, come la dice l’Aldrovando, sopra uno di questi prominenti monti, et occorse che un tal Santino Oberti, passando con la moglie per detto monte, fu dalla medesima aquila con tal furia assalito che, se non aveva un ferro da potar le viti alla cintura, con cui la ferí nel capo, vi restava atter-rato. Venner però alle prese e si rivoltarono nella neve per buon spazio d’ora, ma finalmente l’aquila fondendo dalla ferita gran quantità di san-gue, cominciò a cedere et aiutato Santino dalla moglie, l’uccise. Era d’ali vastissime, quasi quattro braccia. Io l’ho vista morta, e parlato con l’uomo, e Santino, quando fu assalito, si credette assalito dal demonio. Restò però anch’egli in due parti ferito dal rostro e ugne dell’animale, et ha fatto assai a cavarla netta.

D’avantaggio sono comparsi in un nostro vicino fiume quantità di cigni (cosa insolita e mai più vista ne’nostri paesi), e con l’arcobugio ne fu ucciso uno, e gl’altri alzarono il volo e si portarono altrove. Del resto, freddi estre-missimi, ghiacci perpetui, nevi altissime non mancano.52

Il Padre Inquisitore generale di Brescia Angelo Giuliani, domenicano, soggetto per lettere greche e latine di puochi pari, sapendo la servitù tengo con Vostra Signoria Illustrissima, mi comanda il rintracciar dalla sua cor-tesia se sa in che luogo o forma si potesse ritrovare Cristoforo Brouvverio

51. Del: il significato richiederebbe piuttosto al, ma la lettura del manoscritto

è certa. 52. Le notizie sono riportate anche in CALVI, Diario, pp. 257-258 (al 15 e al

20 dicembre 1675, il che permette di datare precisamente questa lettera, priva dell’indicazione del mese) e in ID, Effemeride sagro profana, vol. III, pp. 415-416; 427.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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sopra Venanzio Fortunato. 53 Di questo favore divotamente la supplico per appagar il desiderio di questo virtuoso.

Il manoscritto trovato dal Signor Maffeis nella Biblioteca Barberiniana riuscirà glorioso anco alla nostra patria, perché è certo la famiglia Maffeis di Roma, Verona etc. esser da Bergamo originaria, e lo stesso Volterrano esser di genitori bergamaschi in Volterra trasportati.54 Se si stamperà, ne procaccierò anch’io uno.

L’opera del Nani riuscirà tanto più gloriosa quanto più compita, né ciò riuscirà se non vi aggiunge la 2a parte in cui si vedrà il resto della guerra di Candia, tanto adulterata dal Brusoni.55 Lo stile però del Sagredo nelle Me-morie ottomane dà più nel genio a’ virtuosi. Ma questo povero Signore, dopo il grand’accidente seguitoli nella creazione del Doge, se ne sta interamente oppresso e depresso, che veramente fu terribile, come Vostra Signoria Illu-strissima deve sapere.56

La ristampa del Proprinomio mio sarà finita dentro questo mese, come il Combi mi scrive. Il Padre Finardi e Signor Dottor Biffi profondamente la riveriscono, e questi attende al ricopiar il suo Claudiano per farlo subito uscir alla luce. La supplico d’un caro saluto al nostro Padre Priore Benve-nuti, mentr’io sarò eternamente di Vostra Signoria Illustrissima

53. Venantij Honorij Clementiani Fortunati Carminum, epistolarum et expositionum

libri XI multis poematis, aliquot etiam librorum membris aucti. Additi, praeter supple-menta, de vita S. Martini libri IV. Omnia recens illustrata notis sacris, historicis et geographicis a R.P. Christophoro Browero Societatis Iesu, Moguntiae, Excudebat Bal-thasarus Lippius, 1603.

54. Il «Signor Maffeis» è identificabile coll’antiquario Paolo Maffei (Volterra, 1653-Roma, 1716), corrispondente di Magliabechi e di Cinelli (cfr. GIOVANNI

CINELLI CALVOLI, Della biblioteca volante. Scanzia seconda, Firenze, Bonardi, 1677, p. 11). Al personaggio, discendente dell’umanista Raffaele Maffei («il Volterrano»), dedica una nota biografica EULISIO MARCARIANO [Saverio Ma-ria Barlettani Attavanti] nelle Notizie istoriche degli Arcadi morti, vol. III, Roma, De Rossi, 1721, pp. 128-131, ripresa da MARCO LUSTRI, Elogio del Cavalier Paolo Alessandro Maffei, nella Raccolta d’elogi d’uomini illustri toscani compilati da vari letterati fiorentini, vol. IV, Lucca, Benedini, 17702, pp. 610-616. Ipotesi ben diverse da quella di Calvi circa l’origine dei Maffei (o Maffeis) si leggono nell’in-troduzione di Scipione Maffei ad ALESSANDRO MAFFEI, Memorie del general Maffei, Verona, Vallarsi, 1737, pp. 17-26.

55. L’Istoria della repubblica Veneta di Giovanni Battista Nani fu edita due anni dopo (Venezia, Combi-La Nou, 1679). L’allusione potrebbe riguardare GIRO-

LAMO BRUSONI, Historia dell’ultima guerra tra Veneziani e Turchi, Venezia, Curti, 1673.

56. GIOVANNI SAGREDO, Memorie istoriche de’ monarchi ottomani, Venezia, Combi-La Nou, 1673. L’elezione a Doge del Sagredo fu annullata nell’agosto del 1676, poco dopo la sua proclamazione, per l’opposizione del popolo. Il fatto è ricordato in CALVI, Diario, p. 255.

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MARCO BERNUZZI

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Umilissimo Devotissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 13 [gennaio] 1677

14

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo Ne’ pregiatissimi e da me stimatissimi caratteri di Vostra Signoria Illu-

strissima veggo l’espressione de’ suoi desideri a favore del Padre Prospero da Bologna,57 e perché a padroni così qualificati non si devono tacere gl’emergenti che occorrono, così con ogni sincerità le rappresenterò lo stato di questo negozio, a fine con risoluta sentenza decida quello che possa fare. Saprà che son due anni e più che ho scritto e rescritto per lo stesso impegno a Venezia a favore del Padre Agostino Maria di Bologna, e come che nulla si possa determinare finché non sii fatto il nuovo superiore o rettore,58 così il trattato mio è rimasto pendente. Al primo aviso mi fece il Padre Benvenuti del desiderio del Padre Prospero nella passata vernata, rimasi mortificatissimo per trovarmi nell’impegno predetto, che ben cono-sco le rare qualità del Padre Prospero. Et or, ne’ caratteri di Vostra Signoria Illustrissima detesto quanto ho oprato, che se sognato mi fossi potesse la sua autorità in ciò ingerirsi, avrei ogn’altro rigettato. Come prontissimo sono al presente, quando si potesse trovar forma di sgravarmi dall’impe-gno. Accennai questa difficoltà anco al Padre Benvenuti, benché non così chiara. In ogni caso, però, è certo che nulla si può promettere finché il rettore eletto non sii, che tal ora vuol li frati a suo modo, e sarà più agevole che v’entri il Padre Prospero che è giovane che l’altro che è vecchio. Di più, i posti son due d’ugual stima e potria essere ivi fosse modo di consolar entrambi. Un altro modo lascio nella penna che sarà il meglio per il Padre Prospero, et io su ’l fatto prometto a Vostra Signoria Illustrissima d’impie-

57. Corrispondente di Magliabechi. Sue lettere in BNCF, Magl.

VIII.S.IV.T.VI. Questa lettera racconta un esempio, non unico, di «servigi» resi a Magliabechi per le assegnazioni di incarichi all’approssimarsi dei Capitoli ge-nerali della Congregazione agostiniana, in questo caso il Capitolo di Ferrara verso cui Calvi partì il 28 aprile 1677 (Diario, p. 260). Nel 1680, a nome di Cosimo III, Magliabechi fece pressione su Angelo Finardi, allora segretario del vicario generale, per il trasferimento del superiore di Città di Castello al prio-rato fiorentino di S. Iacopo tra i Fossi. BNCF, Magl. VIII.651, lettera di Fi-nardi, da Roma, 2 aprile 1680.

58. Come spiega la lettera successiva, si tratta del rettore dell’Ospedale degli Incurabili di Venezia, incarico cui aveva ambito anche Finardi (lettera ad Apro-sio, 2 febbraio 1678 in BRUZZONE, Il Padre Angelo Finardi, p. 403).

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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garmi per l’essecuzione di questo, per cui il Padre Agostino di certo si riti-rerà.59 Mi consegli Vostra Signoria Illustrissima e commandi ciò vuole facci in simil contingenza, che tutto mi dichiaro a’suoi cenni consagrato.

M’atterrisco in udire tanti picchi e repicchi fra il Padre Noris e Macedo e ne resta ormai tutto il cristianesimo scandalizato. Queste guerre civili lacerano le viscere della Chiesa e non vi si pensa. Vi vuol altro che proibi-zioni ordinarie ad estinguer questa fiamma. Sarebbe meglio che la facesser fuori con un pistolese, che almeno si fermerebbe la corrente di tanti livori. Riceverò dal Padre Benvenuti li fogli che non per la materia tanto, ma molto più per il donatore mi saranno graditissimi, rendendoli in carta in-finite grazie, per conservarli nel cuore eterni debiti. 60

Ho rimessa la lettera di Vostra Signoria Illustrissima al Signor Biffi, e riverente mi fermo di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Umilissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 21 aprile 1677

15

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Ebbi in Ferrara dal Padre Priore Benvenuti il pregiatissimo regalo dell’operette inviatemi da Vostra Signoria Illustrissima, tanto più care quanto che uscite da una mano che non sa dispensare se non tesori. Non ebbi agio allora di leggerle, ma tornato in patria le ho fatte legare et ho la curiosità pasciuta, godendo in sommo veder il di lei nome e rammentato e celebrato, come che accompagnato da meriti tali che traon seco la vene-razione d’ogni cuore. Al Signor Dottor Biffi ho consignata la dissertazione apologetica e, con ringraziarla, profondamente la riverisce. Farò lo stesso col Padre Finardi, tornato sii da Venezia. Io pure glie ne rendo umilissime grazie, dolendomi sii l’erario mio così povero che non trovi forma per cor-rispondere a tanta gentilezza.

59. Il manoscritto legge: ritirererà. 60. La reazione di Calvi nasce dagli ultimi aggiornamenti della polemica. Da

una lettera di Nicolò Biffi del 24 marzo 1677 (BNCF, Magl. VIII. 480), sap-piamo che Magliabechi aveva spedito a Calvi la Confutatio palinodiae sub nomine P. Henrici Noris publicatae, di Enrico Noris, uscita senza note tipografiche, ma comunque a Venezia all’inizio del 1677, con finta attribuzione ad Annibale Riccio. La polemica sarebbe poi proseguita con i Responsa P. Francisci Macedi minoritae Lusitani, magistri Conimbricensis, lectoris sui ordinis iubilati adversus gerras Germanas Germanitatum Cornelij Iansenij, et Henrici Noris, collecta ab Annibale Ric-cio Veneto sacrae theologiae baccalaureo, Venetiis, Typis Alezandri Pezzanae, 1677. Cfr. ROJO MARTÍNEZ, Ensayo bibliográfico, p. 306.

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MARCO BERNUZZI

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Del Padre Prospero altro non aggiongo che quello sarà stato scritto dal Padre Benvenuti. Il negozio era a segno e vi capivano ambidue li bolognesi, ma l’esser a gl’Incurabili stato disposto in Rettore, ad instanza di quei Si-gnori Deputati, il Padre Amici, col quale il Padre Prospero ha particolar repugnanza, ha fatto mutar il trattato.

Il Padre Benvenuti partí da Ferrara verso Bologna per ivi attender da Firenze le sue robbe. Al medesimo consignai legato uno de’ ristampati Pro-prinomi evangelici con l’aggionte per Vostra Signoria Illustrissima che dovrà compatire la temerità mia se ho osato introdurvi il suo glorioso nome, in primo e semplice contrasegno della mia osservanza devotissima.

Il nuovo Padre Priore di S. Giacomo è romagnolo, di cui non ho certa cognizione. So però esser bonissimo religioso e ben degno d’esser dalle grazie di Vostra Signoria Illustrissima favorito anco per le novità.61

Il Padre Benvenuti avrebbe gradito restar in Firenze, ma è stato preoccu-pato da brogli et impegni, ma se si fosse prevaluto della protezione di Vo-stra Signoria Illustrissima la superava. 62

Le notizie letterarie trasmessemi mi riescono in sommo care, e sempre più obligato mi rendono alla somma cortesia di Vostra Signoria Illustris-sima, ma sarei pur curioso di sapere se del Signor Cinelli la Biblioteca sarà tutta volante, perché sembra voler dire aver una biblioteca di fogli volanti, et or manda alla luce quelli che sono nella prima scanzia.63 Pur la supplico d’aviso se il Padre Aprosio abbi dato fuori il resto della sua Biblioteca.64 La

61. Novità: lettura congetturale. 62. Le notizie sugli esiti del capitolo di Ferrara sono integrabili con la lettera

di Benvenuti a Magliabechi del 13 maggio 1677 (BNCF, Magl. II.IV.546). Vi si conferma che le cariche non furono distribuite secondo le attese e che tra-mite il nuovo priore di S. Iacopo (padre Egidio Errani da Faenza, «brutto», ma «molto buono, savio e virtuoso») sarebbero stati recapitati a Firenze «un fagot-tino ritrovato con gran fatica a Ferrara e un libro consegnatomi dal Padre Re-verendo Calvi, fatto ristampare in Venezia, come lui le scriverà, e Vostra Signo-ria Illustrissima è nominata, ma non mai con titoli sufficienti al suo merito dovuti».

63. Come si è segnalato nel saggio introduttivo cui si rinvia (supra, nota 68), il passo dichiara che Calvi non aveva un’idea precisa del progetto della Biblioteca volante di Giovanni Cinelli Calvoli, costituita da indici di opuscoli e fogli vo-lanti. La richiesta immediatamente successiva di notizie sulla Biblioteca Apro-siana e l’immagine finale della copia dell’Effemeride da far «volar» a Firenze sug-geriscono che Calvi attendeva l’occasione per una recensione promozionale della sua opera di maggior impegno.

64. Le seconda parte della Biblioteca Aprosiana rimase inedita. La prima era comparsa quattro anni prima: [ANGELICO APROSIO], La Biblioteca Aprosiana. Passatempo autunnale di Cornelio Aspasio Antivigilmi, Bologna, Manolessi, 1673. Le pagine dedicate a Calvi nella seconda parte sono pubblicate da CARMINATI,

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

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mia Effimeride sagro profana di questa patria in 3 grossi volumi è su la fine della stampa. Ne farò volar una copia a Vostra Signoria Illustrissima, men-tre or la penna et il cuore mi ricordano di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Umilissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 26 maggio 1677

16

Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Una flussione negl’occhi cagionata dall’intemperie de’ giorni passati è pur causa che con aliena mano riverisca Vostra Signoria Illustrissima, se pur posso dirla aliena, mentre è quella d’un suo obligatissimo servitore, quale Frate Giovanni Francesco Benvenuti. La supplico compatire la con-tingenza e credere che, quantunque alienata la mano, corre però l’ossequio mio ad inchinarla, et augurarle felicissime le imminenti sante feste con l’apertura d’un anno nuovo che gli sii preludio di molti lustri di prosperità.

Per godere più presto i favori di Vostra Signoria Illustrissima ne’ preziosi libretti che s’è compiacciuta mandarmi, ho fatto scrivere a Ferrara a quel Padre Lettore, a fine li trasmetta a Mantova, che per questa strada presto mi giungeranno. Ne rendo intanto umilissime grazie alla somma benignità di Vostra Signoria Illustrissima che va tracciando tutte le forme per sempre più obligarmi.

Fatte le feste, spero sarà condotta in Bologna la mia istorica Effemeride, e subito ne sarà trasmesso un corpo65 a Vostra Signoria Illustrissima afine in memoria d’un suo devotissimo servitore la conservi. Non s’è potuto prima perché li pessimi tempi hanno impedito tutte le condotte.

Aggiungo pur infinite grazie per le moltiplicate nuove letterarie che si compiace parteciparmi, delle quali si pascono molti di questi virtuosi e ne sperimentano nella lettura sommo aggradimento. Il Signor Dottore Biffi profondamente la riverisce. Così il Padre Lettore Finardi et il scrittore,66 quale, per non moltiplicare lettere, annuncia a Vostra Signoria Illustris-sima un profluvio di felicità nelle prossime santissime feste. E così resto di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo perpetuo Frate Donato Calvi

Bergamo, li 22 settembre 1677

Donato Calvi e Angelico Aprosio, pp. 372-376.

65. Cioè un esemplare. 66. Giovanni Francesco Benvenuti, di cui Calvi si serve come segretario per

questa lettera.

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MARCO BERNUZZI

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Illustrissimo Signore Signor Padrone Colendissimo

Va pigra67 la penna mia in corrisponder alla somma gentilezza di Vostra Signoria Illustrissima, ma l’ossequio dell’interno sempre arde nel desio d’esser conosciuto suo devotissimo e riverentissimo servitore. Gl’avisi let-terari che mi porta sono per me avisi di paradiso, non potendo ricever cosa più grata et al palato mio confacevole, onde gliene rendo sempre più umi-lissime grazie, e sempre più obligato me li confermo.

L’opere di S. Agostino fra tutte l’altre stimo saranno da’ virtuosi aggra-dite et io fra’primi ne farò per questa nostra libreria la compra, argomen-tandone dal titolo una total perfezione et esattissima emendazione.68

M’ha promesso un mercante di portar la mia Effimeride istorica, destinata a Vostra Signoria Illustrissima, fin a Bologna, e di là troverò chi la diriga a Firenze. La supplico compatir la dilazione, cagionata dal non aver pronti gl’incontri, tanto più per riuscire viluppo voluminoso.

Ricopio il Diario istorico di Maria Vergine che sarà anch’egli almeno in due tomi, e spero in questa vernata ridurlo a perfezione per la stampa. Segui-terà il Proprinomio apostolico di cui già tengo la materia amassata. Così cerco non star in ozio, benché conosca di puoco valore le fatiche mie.

Questi Padri Finardi e Benvenuti umilissimamente la riveriscono, e così fa il Signor Dottore Biffi, restando io, con riverentissimo baciamano, di Vostra Signoria Illustrissima

Devotissimo Obligatissimo servo Frate Donato Calvi

Bergamo, 10 novembre 1677

1869

[Giovanni Francesco Benvenuti a Magliabechi]

Illustrissimo Signore Signor Padrone sempre Colendissimo

Con le lagrime agli occhi e pianto al cuore porto aviso a Vostra Signoria Illustrissima qualmente ieri l’altro a 14 ore, doppo gravissima indisposi-zione di 12 giorni, non con coscienza de’ medici, sebbene per l’avanti molto mal composto di sanità, come da lui medesimo avrà inteso, passò a

67. Nel manoscritto: pegra. 68. Probabile allusione all’annunciata edizione maurina dell’Opera omnia di

Agostino, iniziata a Parigi nel 1679. 69. BNCF, Magl. II.IV.546. La morte di Calvi è compianta anche in una let-

tera a Magliabechi di Prospero da Bologna: BNCF, Magl. VIII. S.IV.T.VI, 2 aprile 1678.

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LETTERE INEDITE DI CALVI A MAGLIABECHI

485

miglior vita, munito de’ Santissimi Sacramenti, il Padre nostro Prelato Re-verendo Calvi. Perdita considerabile per il nostro publico, per patroni, veri amici, servitori e figli. Fra quelli Vostra Signoria Illustrissima teneva il primo posto, avendolo lui di proprio pugno scritto sul libro delle memorie che faceva de’ suoi amici,70 onde so che il dolore per simile funesta nuova le passarà l’anima, e tra questi io non cederò ad altri il primo luogo, che perciò inconsolabilmente piango la mia mala sorte che mi ha privato d’un padre tanto benigno, che per tale lo riverivo e lo rispettavo. Supplico perciò Vostra Signoria Illustrissima averlo per raccomandato nelle sue devote ora-zioni, e di far sapere questa nuova al Molto Reverendo Padre Priore di S. Iacopo, acciò non manchi di suffragare quell’anima benedetta e beneme-rita, col raccomandarla anche alle sue devote penitenti, a mio nome, non avendo tempo di scrivergli a dirittura, et al Molto Reverendo Padre Mae-stro Noris che umilmente riverisco.

Io non ho mancato di fargli quell’onore che comporta la nostra povertà, avendo fatto fare un offizio solenne con gran quantità di messe, un cata-falco non ordinario, tutt’illuminato di torcie et un’orazione funebre reci-tata dal virtuosissimo et eruditissimo Signor Dottor Biffi alla presenza de’ primi soggetti di Bergamo. Questi le fanno profondissima riverenza.

Desidero sapere se Vostra Signoria Illustrissima ha avuto l’Effemeride ul-timamente fatta stampare dal Padre defunto, che mi pare mi dicesse aver-gliela mandata e, quando se ne fosse scordato, so io quale sia il mio debito, avendolo Vostra Signoria Illustrissima regalato di que’ quattro libretti isto-rici così bene legati che si conserveranno in questa libraria a perpetua me-moria.

Il Padre Priore Finardi è fuori di Bergamo a predicare. Et io qui cesso, desideroso di servire il merito eccelso di Vostra Signoria Illustrissima a cui faccio profondissimo inchino col sottoscrivermi indelebilmente di Vostra Signoria Illustrissima

Umilissimo Devotissimo Obligatissimo servitore Frate Giovanni Francesco Benvenuti

Bergamo, li 8 marzo 1678

70. La superstite serie Exteri Domini et amici quorum nomina non sunt oblivioni

tradenda (CALVI, Diario, pp. 200-204) attesta l’effettiva consuetudine di Calvi, ma, essendo anteriore al 1671, non registra il nome di Magliabechi.

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INDICE DEI NOMI

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INDICE DEI NOMI

Abelli Cesare, 266-267, 304 e n,

306, 310 e n Accademia degli Affidati (Pavia),

190, 384 e n, 412n Accademia degli Alterati (Firenze),

187-188, 190, 193, 196, 201, 207, 216n, 225

Accademia degli Animosi (Cremo-na), 384n, 412n

Accademia degli Apatisti (Firenze), 440 e n, 444, 446, 449n, 461n

Accademia delle Arti del Disegno (Firenze), 443n

Accademia della Crusca (Firenze), 140n, 187 e n, 193 e n, 195n, 430 e n, 431n

Accademia degli Eccitati (Bergamo), 437n, 439n, 443, 461n, 475n

Accademia degli Erranti (Brescia), 208-209, 327 e n, 328n, 388, 389 e n, 412n

Accademia della Fama vedi Accade-mia Veneta

Accademia dei Filarmonici (Vero-na), 344n, 348n, 390 e n, 391n, 412 n

Accademia dei Filomati (Siena), 238n

Accademia Fiorentina (Firenze), 194 e n, 197n, 199n, 216n, 217n, 225-226

Accademia dei Gelati (Bologna), 279 e n, 282n, 283 e n, 287 e n, 292n, 297-298n, 302n, 304n, 464n

Accademia degli Incogniti (Torino), 237, 238 e n

Accademia degli Incogniti (Vene-zia), 282n, 308n, 355, 359, 379n, 388n, 408-409, 412 e n, 454 e n, 461n

Accademia degli Infiammati (Pado-va), 345n

Accademia degli Insensati (Perugia), 255 e n, 412n

Accademia degli Insipidi (Bologna), 309 e n, 317 e n

Accademia degli Instabili (Bologna), 293n

Accademia degli Intronati (Accade-mia Grande, Siena), 110n

Accademia degli Irrigati (Bologna), 277, 286

Accademia dei Lincei (Roma), 213n, 217-218n

Accademia della Notte (Bologna), 288n, 304n

Accademia degli Occulti (Brescia), 412n

Accademia Olimpica (Vicenza), 308n

Accademia degli Ordinati (Roma), 188n, 217n

Accademia degli Oziosi (Napoli), 412n

Accademia dei Pastori Tiberini (Roma), 206 e n

Accademia dei Rifioriti (Vicenza), 308n

Accademia dei Selvaggi (Bologna), 298n, 301 e n, 304n

Accademia degli Svegliati (Napoli), 237

Accademia degli Sventati (Udine), 332n

Accademia degli Umoristi (Roma), 190, 214-215, 412n

Accademia Veneta o Veneziana (Ve-nezia), 233, 234-235 e n, 238-239, 241 e n, 255

Accademia della Virtù o Vitruviana (Roma, poi Accademia della Poe-sia Nuova), 110 e n, 111, 112n

Accolti Benedetto, 111 e n Accolti Pietro, 196 Aceto Marta, 319n Achillini Claudio, 229-230n, 295n,

298n, 302 e n, 312 e n, 313n Acocella Maria Cristina, 24n Adamo Pier Giovanni, 416n

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INDICE DEI NOMI

490

Adimari Alessandro, 196 Adimari Lodovico, 447n Adriano VI, papa (Adriaan Flo-

renszoon), 61n Affò Ireneo, 404n Agliardi Bonifacio, 437n Agliè Ludovico San Martino d’,

401n Agostini Anna, 236n Agostino Aurelio di Ippona, santo,

452, 461 e n, 465n, 470n, 471n, 484 e n

Agostino Maria da Bologna, 465, 480-481

Agrippa Marco Vipsanio, 101 Aguzzi Barbagli Danilo, 189n Airoldi Marcellini Giovan Pietro,

234-235 e n, 240, 241n, 242, 253n

Alamanni Andrea, 196 Alamanni Luigi, 103, 107, 196 Albani Giovanni, 475 e n Albèri Eugenio, 151n Alberti Leon Battista, 433 e n Alberti Maria, 224n Albertini Francesco, 196 Albina, 471n Albinelli Ludovico, 40n, 59 Albino, 465n, 470n, 471 e n Albizzi Antonio degli, 190n, 196 Albizzi Francesco, 473 e n Albonico Simone, 166n Albrecht Andrea, 188n Alcherio Massimo, 333n Alciati Roberto, 195n Alciati Andrea, 357n, 386n Aldobrandini (Passeri) Cinzio, 198,

206, 207 e n, 232n, 244-245 e n, 249, 252-253n

Aldobrandini Ippolito iunior, 222 e n

Aldobrandini Pietro, 244 e n Aldobrandini Silvestro, 247 Aldrovandi Ulisse, 257n, 276n, 294

e n, 478 Alemanni Luca, 196 Alemanno Laura, 215n Alessandro Magno, 126, 130n

Alessandro VI, papa (Rodrigo Bor-gia), 27

Alessandro VII, papa (Fabio Chigi), 401n, 404, 431

Alhaique Pettinelli Rosanna, 213n, 225n

Alighieri Dante, 108, 111, 113, 123, 127 e n, 217n

Aloè Carla, 385n Alunno Francesco, 23n Amando, santo, 472n Amaseo Romolo, 100n, 104 e n,

105n Amato Lorenzo, 186n, 224n Ambrosi Paolo Antonio, 283n Amici (?), padre, 482 Ammirato Scipione, 190n, 196 Amonaci Anna Maria, 227n Amorotto Domenico (o Bretti), 49,

69-70 e n, 92 Ancel René, 149n Andreini Giovan Battista, 318 e n Andreini Virginia Ramponi (detta

Florinda), 318 e n Angeli da Barga Pietro, 190n, 217n Angelini Frajese Franca, 318n Angelini Pietro Paolo, 35n-37n,

41n, 52n, 61n, 66n, 68n Angelino Vittorio, 35n, 38n, 40n,

69n, 81n Angelo da Lantosca, 477n Angelo da Vallombrosa, 27 Anicio, padre, vedi Boselli Cipriano Antinori Bernardino, 190n Antivigilmi Cornelio Aspasio vedi

Aprosio Angelico Antoine de Vaudémont, duca di Lo-

rena, detto il Buono, 29 Antoniano Silvio, 244 Antonio da Soraggio, 46n, 47 Antonioli Rosaria, 325n Anziani di Lucca, 40 e n, 41, 47, 54-

56, 58, 76n, 77, 78n, 79, 81-82n, 84, 85-86n, 93

Apelle, 125 e n, 126 Apollonio Silvia, 213n, 232n, 302n Aprosio Angelico, 295n, 359n, 360,

413n, 441n, 444n, 452n, 454 e n,

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INDICE DEI NOMI

491

464 e n, 480n, 482 e n, 483 Arbel Benjamin, 245n Arbizzoni Guido, 130n Arcangelo da Colle, giudice di Fiviz-

zano, 74 Arcangelo da Parma, 466n Archetti Andrea, 334n Ardinghelli Niccolò, 197n Ardissino Erminia, 218n Ardizio Curzio, 181 Ardizio Fabio, 182 Aregazzoli Clemente, 467n Arese Bartolomeo, 446 Arese Giulio, 386n Aretino Pietro, 19-21 e n, 23, 24n,

119-135, 262, 269n, 331 e n Argelati Filippo, 380n, 405n Ariani Marco, 16n, 226n Arici Luigi, 334n Ariosto Ludovico, 7, 33-96, 105n,

206-207n, 432 Ariosto Niccolò, 67 n Ariosto Rinaldo, 37 Aristotele, 107 e n, 188 e n, 313n,

344n, 345 e n Armellini Mariano, 208n, 221n,

380n, 390n, 403n, 405n, 407 e n Arpioni Maria Pia, 224n Arqués Rossend, 125n Arrighi Vanna, 155n, 430n Arrigoni Nicolò, 381n Arvigo Tiziana, 170n Asburgo Anna, 193 e n Asburgo Giovanna, 216n Asburgo Maria Maddalena, 221 e n,

224 e n Asburgo Massimiliano, re eletto di

Polonia, 238 Asburgo-Lorena Pietro Leopoldo,

192 Atanagi Dionigi, 26, 111n, 116n Attendolo Giovan Battista, 196 Attila, 368n Aurelio di Cartagine, santo, 465n Avellini Luisa, 215n Avendaño Juan de, 468n Averara Pietro, 447 Averoldo Vincenzo, 333n

Avogadro Antonio Maria, 326 Avogadro Paola, 326 Avogadro Pietro, 325n Azard Jean, 193n Bacchelli Franco, 433n Bacchini Benedetto, 452n Bacci Mina, 227n Badoer (Badoaro) Lorenzo, 279n,

321 Badoer Federico, 22n, 234n Baffetti Giovanni, 218n Baglioni Tomaso, 263-264, 272 e n Bagnadore Pier Maria, 342, 350 Bagnoli Giulio Cesare, 246, 247 e n,

248 Baio Michele, 474n Baja Guarienti Carlo, 49n Balbo di Cervere Ludovico, 401n Baldassarri Guido, 119n, 245n,

346n Baldassarri Stefano Ugo, 224n Baldelli Prospero, 466n Baldini Antonio, 35n Baldini Ugo, 360n Baldinotti Girolamo, 240-241n,

246n Balduccio da Carreggini, 43 Ballada Paolo, 383n Ballada Pietro Antonio, 395n Ballerini Girolamo, 452n Ballerini Pietro, 452n Balliani Camillo, 395n Ballistrieri Gianni, 308n Bamberini Domenico, 254n Banzoli Bonifacio, 329 Barbarana Flaminia, 308n Barbarigo Gregorio, 441, 454 Barbarigo Nicolò, 347 Barbarisi Gennaro, 137n, 143 Barbaro Francesco, 325n Barbarossa (Khair-ad-Din, detto), 17,

30 Barbato Bartolomeo, 358n Barbazza Andrea, 278n, 304 e n,

306, 307n, 322n Barberini Antonio, 190n Barberini Francesco, 190-191n,

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INDICE DEI NOMI

492

196, 205n, 401n Barbero Giliola, 422n Barbi Silvio Adrasto, 186n, 200n,

220n Barbieri Alvaro, 119n Bardi Agostino, 238n Bardi Girolamo, 190n Barezzi Barezzo, 456n Bargellini Giovanni Agostino, 276n Barisoni Albertino, 362 e n, 363-

364, 366 e n, 375 Barlettani Attavanti Saverio Maria

(in Arcadia Eulisio Marcariano), 479n

Baron Bonaventura, 476 e n Barone da Vagli, 89n Baronio Cesare, 196, 240n, 251 e n,

254 Barotti Riccardo, 194n Barrados Sebastião, 457 Bartoli Bacherini Maria Adelaide,

202n Bartolomei Mattia, 447n Baruzzi Andrea, 417-419n Barzazi Antonella, 360n, 367n,

370n, 373n Basadonna Giovanni, 329 Basadonna Marina, 132n Basadonna Pietro, 420n Bassetti Elisa, 145n Bassi Lucrezia, 145n Basso Jeannine, 231n, 331n Bathory Sigismondo, 238 Battistini Lorenzo, 186n Battistini Mario, 472n Beaziano Giulio Cesare, 469 e n Beccadelli Lodovico, 152n Becherucci Isabella, 186n Beffa Negrini Antonio, 341, 346 e n Belforti Michelangelo, 445n Belisario Flavio, 107 Bellarmino Roberto, 191 e n, 240n Bellelli Fulgenzio, 453n Belli Giuseppe, 76n Bellini Eraldo, 213n, 217-218n, 230

e n, 320n Bellintani Giovanni, 344 e n Bellintani Mattia (al secolo Paolo),

344 e n Bellomo Agapito, 101 Belloni Bartolomeo, 271 e n Belloni Gino, 187n Belponer Maria, 225n Bembo Pietro, 93, 97-98 e n, 99,

100n, 103-104 e n, 105n, 106, 114, 138 e n, 156, 357n

Bembo Torquato, 132 Benaglio Marcantonio, 472n Benamati Guidubaldo, 295 e n Benassai (?), 103 Benci Francesco, 196 Benedetti Stefano, 213n Benedetto da Norcia, santo, 200,

201n, 392, 401n, 406, 407 e n, 461n

Benedetto XIV, papa (Prospero Lo-renzo Lambertini), 452

Benedettucci Clemente, 223n Bentivoglio Ippolito, 453n Bentivoglio Ulisse, 190n Benucci Alessandra, 38 Benvenuti Giovan Francesco, 441,

442n, 458, 459n, 460, 462, 465n, 468-469, 474, 477, 478n, 479-481, 482-483 e n, 484-485

Benvoglienti Fabio, 100n, 112n, 116-117 e n

Benzoni Gino, 264n, 353n, 381n, 389n, 405n, 412n, 459n

Bergamaschi Gianni, 327n Bernabei Ettore, 141n, 147 e n Bernardello da Ponteccio, 57, 63 Bernardi Andrea, 287 e n Bernardi Bartolomeo, 240n Bernardi della Mirandola Antonio,

141n Bernardino d’Airasa, 67 Bernardo abate, santo, 27 Bernardo da Bologna, 461 Bernardo Pietro (Bernardino de’

fanciulli), 27 Berni Francesco, 432 Bernuzzi Marco, 437-438n, 458n Berra Claudia, 6n, 137n, 139-142n,

143-144 e n, 145n, 147-148n, 151n, 166n

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INDICE DEI NOMI

493

Berra Luigi, 206n Berruto Gaetano, 106n Berti Giovanni, 196 Bertolini Niccolò Francesco, 442,

475n Bertolo Fabio Massimo, 20n Bertoni Argentini Luisa, 67n Bertoni Giulio, 66n Besomi Ottavio, 170n, 210n, 276n,

292n, 305n Betti Gian Luigi, 293n Bezzi Giuliano, 273n, 294n Bianca Concetta, 186n Bianca di Collalto, 95 Bianchetti Giovanni, 143 Bianchi Francesco Maria, 395n Bianchi Paola, 160n Bianchi Ussoli Giambattista, 326n,

334 e n, 336 e n Bianchini Francesco, 451n Bianchini Giovanni, 437n Bibbiena Bernardo Dovizi da, 144 Bietti Monica, 204n Biffi Girolamo, 443n Biffi Nicolò, 443 e n, 455 e n, 460,

467, 470, 473, 476, 479, 481 e n, 483-485

Biga Ercole, 398-399 Biglione di Viarigi Amedeo Luigi,

326n Biliotti Modesto, 190n Billanovich Maria Chiara, 358n Binago (Biffi) Lorenzo, 342 Bini Giovanfrancesco, 106, 114n Binni Walter, 34n, 94 e n Biondo Michelangelo, 24 e n Bisanti Enrico, 345n Biscotti Ludovico, 383n Bissari Giacomo, 308n Bissari Pietro Paolo, 308 e n, 309 Bizzocchi Roberto, 448n, 461n Blado Antonio, 14 e n, 17 Blocker Déborah, 187n Bobbio Erminia, 387n Boccaccio Giovanni, 29, 98n, 113-

114 Boccalini Traiano, 341, 346 e n Boccella Ambrogio, 84n

Bocchi Francesco, 190n, 470 e n, 475 e n

Bocskai István, 244 Boggiani Alessandro, 145n Boillet Danielle, 288n, 298n Bolla Giuseppe, 452n Bologna Ilario, 383n Bolognetti Alberto, 190n Bolzoni Lina, 129n, 234n Bona Castellotti Marco, 353n Bona Giovanni, 395n, 407, 470 e n Bonafin Massimo, 170n Bonamico Lazaro, 104 e n Bonardi Antonio, 459n Bonciani Francesco, 190n, 191, 196 Bonciari Marco Antonio, 255, 386n Bondoni Girolamo, 240n Bonelli Michele (detto il cardinale

Alessandrino), 176 Bonetti Giosuè, 437n Bonifacio Baldassare, 333n, 341,

353-354 e n Bonifacio Gaspare, 354n Bonifacio Giovanni, 353 e n Bonzanini Giacomo, 435n Bordoni Agostino, 386 Bordoni Girolamo, 386 Borghese Scipione, 386n Borghi Alessandro, 196, 245-246,

249n Borghini Vincenzo, 197n Borgia Lucrezia, 36 Borraccini Rosa Marisa, 377n Borromeo Agostino, 338n Borromeo Carlo, 386n Borromeo Federico, 186, 188,

190n, 196-197, 200n, 212 e n, 213n, 214 e n, 215-216, 217 e n, 254n, 256n, 381n

Borsa Paolo, 137n, 144n, 166n Borsieri Girolamo, 351n, 381n, 387

e n Borzelli Angelo, 197n, 210n Bosatello, detto il Cornacchia, 72-73 Bosca Pietro Paolo, 448, 449n,

454n, 462 e n Boschi Ruggero, 209n Bosco Beatrice, 145n

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INDICE DEI NOMI

494

Boselli Antonio, 147n Boselli Cipriano (al secolo Pier

Luigi), 444-449 e n, 450, 451n, 454, 460, 461n, 464-465 e n, 466n, 467, 475

Boselli Giovanni Pietro, 445n Boselli Girolamo, 445-446n, 447,

448n Bossi Arcangelo, 380n, 388n, 398n,

405n Bossi Girolamo, 384-385n, 386 e n,

410 Bottasso Enzo, 195n Bouillet Marie-Nicolas, 371n Bournonville Alexandre de, 449 Boutier Jean, 438n Bozzi Sonia, 351n Bozzola Antonio, 333n Bozzola Giovan Battista, 333n Bracciolini Francesco, 190n, 230n Bragadin Marco, 173, 174 e n, 175 Bragato Alice, 318n Braida Lodovica, 100n, 269n, 331n Bramanti Vanni, 141n, 152n, 189n,

194n Bravi Giulio Orazio, 438n Bresani, principi di (?), 293 Brignole Sale Anton Giulio, 198n Brivio Ambrogio, 383n Brizzi Gian Paolo, 360n Brocardo Antonio, 103 Brogi Daniela, 170n Bronziero Giovan Girolamo, 366 e

n, 369n, 375 Brouwer Christoph, 478, 479n Brouwer Riet, 121n Brunelli Giampiero, 287n Brusoni Girolamo, 305n, 479 e n Bruto Marco Giunio, 100n Bruzzone Gian Luigi, 359n, 441n,

444n, 452n, 464n, 480n Buarno Pietro, 329, 333n, 336-337,

341 Buccella Girolamo, 156 e n Buccella Niccolò, 156n Bucchi Gabriele, 422n Bufacchi Emanuela, 284n Bulgarelli Tullio, 15n

Bulgarini Bellisario, 190n, 191, 192n, 196, 254-255, 255n

Bulleri Monia, 422n Buonamici Francesco, 196 Buonarroti Michelangelo il Gio-

vane, 196, 224n Buondelmonti Benedetto, 197n Buonviso Vincenzo, 105 e n Buora Maurizio, 357n Buschbell Gottfried, 147 e n Busetto Natale, 415n, 419, 420-421

e n, 423, 424 e n Busolini Dario, 247n Buttò Simonetta, 195n Buzzacherini Virginio, 424n Cabani Maria Cristina, 35n, 409n Caccia Alessandro del, 245n Caccini Giulio, 201n, 310 e n Caetani Enrico, 13n, 233n, 238 e n,

244 Caffarino Lazzaro, 336n Caimo Giuliano, 382n Cairns Christopher, 119n Caissotti Giovan Paolo, 278 e n,

299-301 Calcagni Diego, 223n Caldamosti Camillo, 333n Calderoni Alessandro, 274 e n, 283

e n Caldinelli Bartolomeo, 333n Caldoro Giovanni Antonio, 196 Calepio Ambrogio, 463n Callard Caroline, 192n Calore Marina, 282-283n, 287n,

297n Calvi Donato, 7, 437-485 Calvo Francesco, 21 Camerota Michele, 188n Campana Lorenzo, 137n, 141n,

143, 146-147n, 152n, 153 e n, 157-159n

Campana Pierantonio, 275n, 278n, 323

Campanella Tommaso, 256 Campeggi Annibale, 384n Campeggi Ridolfo, 261, 266-267,

274 e n, 279 e n, 282 e n, 283n,

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INDICE DEI NOMI

495

285n, 287 e n, 297-298n, 302, 308 e n, 314-315, 319n, 333n, 341

Campeggiani Ida, 94 e n, 95-96n Campiglia Nicola, 441n Campori Cesare, 70n Camuzio Pio, 380 e n Canavesio Walter, 410n Canini d’Anghiari Girolamo, 264

e n Canoniero Pietro Andrea, 242n,

253n, 256 e n Cantaluppi Anna, 237n Cantello Gian Giacomo, 49 Cantoni Serafino, 383n, 388n Cantù Cesare, 338n Capello da Sillicagnana, 48 Caporali Cesare, 205 e n, 206n Cappelli Antonio, 35n Cappello Girolamo, 240, 241 e n Capponi Giovanni, 277n, 293 e n,

294, 301n Capponi Luigi, 188, 232 e n Capponi Pellegrino, 293n Capra Pietro, 316-317 Caprioli Camillo, 327n Capriolo Elia, 343n Capucci Martino, 311n, 437 Caputo Vincenzo, 186n, 194n Caravaggio (Michelangelo Merisi),

326, 351 Carducci Giosue, 111 Caretti Bonifacio, 395n Caretti Lanfranco, 91n Carli Ferrante (Carlo ferrante Gian-

fattori), 274n (?), 278n (?), 293n, 311 (?), 311n, 312n (?)

Carlo da S. Antonio di Padova, vedi Mazzei Carlo

Carlo IV di Borbone, re di Spagna, 457n

Carlo V d’Asburgo, imperatore e re di Spagna, 11 e n, 17, 29, 66, 102 e n, 122, 142n, 152n, 153, 157, 162

Carminati Clizia, 9n, 145n, 166-167n, 185n, 231n, 247-248n, 256n, 262-263n, 278n, 288n,

301n, 304n, 308n, 316n, 331n, 334n, 354-355n, 358-360n, 379 e n, 408n, 409 e n, 410, 411 e n, 415-416n, 438-439n, 458n, 463n, 471n, 475n, 482n

Carneri da Tierno di Mori Paolo, 350

Caro Annibal, 110, 113 e n, 116n, 165n

Carpané Lorenzo, 420n Carracci Agostino, 276 e n, 277n,

313n, 326 Carracci Annibale, 276, 326, 351 Carracci Ludovico, 276, 277-278n,

305n, 317, 326 Carrai Stefano, 137-139n, 144 Carrara Eliana, 141n, 147n Cartari Vincenzo, 358n Caruso Carlo, 166n, 170n, 262n Casaia Francesco, 41n Casanate Girolamo, 440 Casari Mario, 245n Casaubon Isaac, 368n, 373 Cascetta Annamaria, 213n Casini Bruno, 223n Casini, famiglia, 147n Casoni Guido, 333n, 341 Casotti Giovan Battista, 140 e n,

143 Cassio Longino Gaio, 100n Castellani Pollidori Ornella, 97n,

99n Castellano Francesca, 186n Castelli Prospero, 274n, 303 e n Castelvetro Ludovico, 345 e n, 346 Castiglione Baldassarre, 98 e n Castiglione Pietro Maria, 382n,

384n Castiglione Valeriano, 6, 333n, 341,

352, 353 e n, 355 e n, 379-413 Castoldi Gottardo, 265, 267 Catalano Michele, 37-38n, 40n,

65n, 72n, 90n Cataldi Pietro, 170n Cataneo Gasparo, 353n Cataneo Maurizio, 173, 174, 206,

207, 208n Catena Girolamo, 175 e n, 176

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INDICE DEI NOMI

496

Cato da Castagneto, 70 Cato Ludovico, 68n Catone Marco Porcio, 435n Cattaneo Cesare, 66n Cattaneo Elisabetta, 142n, 144n Cattaneo Giacinto, 388n Catullo Gaio Valerio, 107, 113 Cauzzi Giovanni Battista, 381 Cavalcani Ortensio, 225n, 254n Cavalcanti Bartolomeo, 197n Cavalieri Bartolomeo, 76n Cavallucci Camillo Jacopo, 443n Cavicchioli Sonia, 225n Cebà Ansaldo, 198n, 320n Ceffini Francesco Maria, 302n Celestino I, papa, 470n Celia vedi Malloni Maria Cellesi Atto, 242 Celsi Mino, 116, 117n Cenci Pio, 219n Cencini Francesco, 448 Cento Alfredo, 15n, 17n Cerboni Baiardi Giorgio, 417 e n,

432 Ceresoli Carlo Francesco, 467n Ceriotti Luca, 198-199n, 208n,

353n, 381n Cerruti Massimo, 106n Cervini Marcello, 142, 144 Cesano Gabriele, 98n Cesare Gaio Giulio, 130n Cesari Giuseppe (Cavalier d’Ar-

pino), 326, 351 Cesarini Virginio, 190n, 196, 225 Ceschin Arianna, 224n Cesi Anna Maria, 287 e n Ceva Alessandro, 392 Cevolini Alberto, 458n Ceyssens Lucien, 452n Chassang Alexis, 371n Chater James, 186n Chayes Evelien, 245n Chiabrera Gabriello, 189 e n, 195-

197, 219, 225, 315n, 320n Chiappini Luciano, 36n Chiaramonti Giambattista, 327n Chiarelli Marta, 145n Chiarla Myriam, 198-199n, 211n,

219 e n, 225n, 256n Chiavacci Leonardi Anna Maria,

124n Chiesa Federica, 255n, 332n Chigi Sigismondo, 474 e n Chimentelli Valerio, 192 Chiocco Andrea, 333n, 344 e n,

345 Chiodo Domenico, 207-208n Chiomba Apollinare, 392, 393n Ciampi Sebastiano, 238n Ciampoli Domenico, 213n Ciampoli Giovanni, 189 e n, 190-

191n, 196, 213 e n, 214n, 217 e n, 219 e n, 220n, 225, 254n

Ciaralli Antonio, 137n Cicerone Marco Tullio, 101, 104,

435 e n Cicogna Emmanuele Antonio,

234n, 346 e n, 354 e n, 361n, 375-376n

Cicognini Iacopo, 286-287 e n Cigoli Ludovico, 202n Cinelli Calvoli Giovanni, 221n,

442n, 448n, 449 e n, 459 e n, 460, 470n, 475 e n, 476n, 479n, 482 e n

Cini Francesco, 196 Ciniselli Antonio, 388n Cinuzzi Marcantonio, 107 e n, 109,

112, 116n Ciocchi Del Monte Giovanni Ma-

ria, cardinale poi papa Giulio III, 142, 144

Cioli Andrea, 251n, 252 Ciotti Giovan Battista, 233-234,

235n, 241 e n, 243, 249n, 257n Ciri Filippo, 205n Citolini Alessandro, 111n, 115,

116-117n Cittadini Celso, 238n, 253n, 254

e n Civitella Vincenzo, 196 Claretti Onorato, 313n, 409n Claudiano Claudio, 107, 443, 467,

470, 473, 476, 479 Clausewitz Karl von, 41 e n Clemente VII, papa (Giulio Zanobi

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INDICE DEI NOMI

497

di Giuliano de’ Medici), 30, 71, 102 e n, 104 e n, 130n

Clemente VIII, papa (Ippolito Aldo-brandini), 222 e n, 238, 244n, 245 e n

Clemente X, papa (Emilio Bonaven-tura Altieri), 476n

Cluverio Filippo (Phillip Clüver), 368 e n

Cochi Bartolomeo, 175, 265, 267 Coiaio Bastiano, 42 e n, 44 e n, 45n,

47, 50 Colleoni Celestino, 343 e n, 352,

472n Colombero Carlo, 344n Colombo Angelo, 210n Colombo Cristoforo, 28 Colonna Ascanio, 240 e n Comandi Vincenzo, 190n Combi Sebastiano il Giovane, 455 e

n, 473, 479 Comelli Michele, 137n, 139n,

141n, 144, 148n, 166n Comi Siro, 384n Conconi Bruna, 387n Conestagio Girolamo De Franchi,

343 Conigliello Lucilla, 227n Coniglio Giuseppe, 11n Conrieri Davide, 458 e n Contarini Gaspare, 30 Contarini Iacopo (Giacomo), 191,

196 Conte Emanuele, 292n Contile Luca, 110, 112 e n Continisio Chiara, 379 e n, 390-

391n, 396n, 397-398, 400n, 412-413n

Conversini Benedetto, 245n Coppola Alba, 208n Cordibella Giovanna, 188n Cornaro (Corner) Girolamo, 342 Cornaro (Corner) Marco II, vescovo

di Padova, 357n Corniani Giovan Francesco iunior,

354 e n Corniani Giovan Francesco senior,

354

Corniani Paola, 354 Corradini Annibale, 471n Corradini Marco, 185n, 198n,

210n, 316n Corrari (Correr) Vincenzo, 287 e n Correggio (Antonio Allegri), 312

e n Corsali Andrea, 28 Corsaro Antonio, 206n Corsetto da Vagli, 89n Corsini Accursio, 343 e n Cortese Giulio, 237 e n Cortusius Guilelmus, 362 Costa da Ponteccio (banda di), 48-

49 Costa Giovanni Battista, 386n Costantini Antonio, 232n, 258, 279

e n, 284n, 285, 303 e n, 317 Costantini Ottavia, 285 Costanzo Mario, 218n Costo Tommaso, 187 e n, 196, 197

e n Cozzando Leonardo, 326n Cozzi Gaetano, 150n, 347n, 360n,

371-372n Cozzi Luisa, 347n Cozzo Paolo, 393n, 395n Cracco Gregorio, 358n Crasso Nicolò, 367 e n Cresci Pietro, 187n, 474n Crescimbeni Giovan Mario, 307n Crimi Giuseppe, 16n Cristina di Lorena, 250-251, 327n Cristina di Svezia, 419, 427n Cristina Maria di Borbone, 395 e n,

401n, 402, 403-404 e n, 411 Crivelli Gabriele, 383n Croce Benedetto, 33 e n, 195n,

305n Croce Franco, 415-416n, 424-425n Croce Giulio Cesare, 474n Cropper Elizabeth, 276n Crucitti Filippo, 242n Cugnoni Giuseppe, 141n, 143 Cuniberti Nicolao Martino, 398n Curzio Rufo Quinto, 343 Cuvato Roberto, 344n Cybo Vittoria, 288 e n, 289-292

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INDICE DEI NOMI

498

D’Alessio Sylvana, 256n D’Annunzio Gabriele, 135 e n D’Aponte Lorenzo, 457 D’Ascia Luca, 433n D’Attoma Barbara, 326n D’Auria Elio, 165n D’Onghia Luca, 119n Da Colle Anton, 113 e n Da Lezze Giovanni, 341, 350 e n Da Mula (Amulio) Agostino, 341,

347-349 e n Da Roma Gianiacopo, 131 Da Silva Miguel, 98n, 116n Dal Prà Laura, 350n Dall’Armi Ludovico, 155 e n, 157,

158 e n, 160 e n, 161n Dalla Chiesa Francesco Agostino,

398n Dalla Corte Girolamo, 344 e n Dandolo Vincenzo, 341 Daniele Antonio, 226n, 416 e n,

419n, 421, 422n, 425n, 426 e n, 428

Danti Ignazio, 190n Dati Carlo, 422, 431n Dazzi Pietro, 105n De Benedictis Cristina, 276n De Blasi Margherita, 186n De Blasi Nicola, 247n, 295n, 304n De Bonis Omobono, 265-267 De Caro Gaspare, 69n, 202n, De Gregori Giorgio, 195n De Gubernatis Angelo, 350n De la Cueva-Benavides y Mendoza-

Carrillo Alfonso (duca di Bed-mar), 341

De la Puerta Manuel, 457n De Maldé Vania, 229n, 313n De Miranda Girolamo, 197n De Nores Giason, 245 e n De Nores Pietro, 245 e n De Rogatis Teresa, 170n De Sanctis Francesco, 35n De Sousa Ribeiro Ilido, 453n, 470n,

473n De Stefani Carlo, 35n De Thou Jacques-Auguste, 373n,

374

De Vicariis Paolo, 265-266 De’ Benci Bencio, capitano di

Barga, 52 De’ Dottori Antonfrancesco, 424 e

n, 425n De’ Dottori Carlo, 7, 415-435 De’ Landi Agostino, 112n Decio Antonio, 206n Degani Valeriano, 382 e n, 401 Degli Ambrogi Domenico, 277n Degrada Francesco, 226n Del Bufalo Cancellieri Innocenzo,

253n Del Col Andrea, 139n, 151n, 334n Del Giallo Jacopo, 127-128 e n Del Migliore Filippo, 196 Del Monte Francesco Maria Bour-

bon, 182 Del Negro Piero, 360n Del Nero Nero, 190n Del Nero Pietro, 196 Del Rosso Antonio Maria, 190n Delcorno Carlo, 218n, 311n Dell’Antella Cosimo, 196 Dell’Antella Niccolò, 196 Della Casa Giovanni, 7, 137-164 Della Casa Lodovico, 464n Della Fonte Francesco, 459n Della Porta Ferrante, 237 e n Della Porta Giovan Battista, 237 e n Della Porta Giovan Vincenzo, 237

e n Della Rovere Francesco Maria I, 36,

126 Della Rovere Francesco Maria II,

182, 213n Della Rovere Giulia, 129-130 Della Rovere Guidobaldo, 129 Della Torre Michele, 143 e n Demino Morgante, 73 e n, 74 Diogene, 366n Distaso Grazia, 282n Diviaco Girolamo, 333n Dixhoorn Arjan van, 187n Doglio Maria Luisa, 170n, 218n,

227n, 331n, 359n, 361n, 416-419 e n, 423n, 432 e n

Dolce Lodovico, 19, 21n, 25

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INDICE DEI NOMI

499

Dolfi Pompeo Scipione, 288n, 297n, 303n, 309n

Domenico da Pescia, 28 Donà Leonardo, 240 Donatello da Sommacolonia, 47, 53 Donati Giovanni Antonio, 191n Donato Maria Pia, 451n Doni Garfagnini Manuela, 438n Doni Giovan Battista, 190n, 319n Doria Andrea, 67 Dossi Dosso, 433, 434 e n Drexel Jeremias, 477 e n Duchesne André, 370 e n, 371n Duns Scoto Giovanni, 476n Dupuy Jacques, 369, 373n Dupuy Pierre, 369, 373n Durante Elio, 199n, 202n, 210-

211n, 388n Egidio Romano, 444 e n, 464, 466 Eleonora d’Austria (Eleonora Gon-

zaga), imperatrice, 447 Elio Antonio, 146 Elzevier, stampatori, 371 Enrico (Arrigo) VII di Lussem-

burgo, 363n Enrico III di Borbone, re di Francia,

203 Enrico IV di Borbone, re di Francia,

201, 203, 204 e n Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra,

157, 160n, 161 e n Ercolani (?), padre visitatore dei Ca-

nonici di San Lorenzo Giusti-niani, 418n

Eritreo Giano Nicio vedi Rossi Gio-van Vittorio

Errani Egidio, 482n Especial de Rossel Pedro, 274n, 309 Este Alessandro d’, 263-265, 273 Este Alfonso I d’ (detto l’Artigliere),

29, 36, 37 e n, 38, 40n, 41, 43, 44 e n, 47 e n, 49, 50, 52 e n, 55 e n, 56, 58n, 59-68 e n, 70-71 e n, 72, 73 e n, 79, 83, 85 e n, 87, 89, 92-93, 434 e n

Este Alfonso III d’, 282n, 309n Este Borso, 36 e n

Este Ercole d’ (di San Martino), 68n Este Ercole I d’, 67 Este Francesco I d’, 421 e n Este Ippolito d’, 38, 67 e n Este Niccolò III d’, 36 Este Rinaldo d’, 419 e n, 420n, 421

e n, 423, 424 e n, 425-426, 427-428 e n, 431-434

Eubel Konrad, 151n, 159n Euripide, 429 Evangelista dal Sillico, 45n Everson Jane, 187n Fabbri Onorato, 473 Fachetti Alessandro, 333n Fadrique Enriquez, marchese di Ta-

rifa, 29 Faini Bernardino, 472n Faini Marco, 120n Faldi Luca, 147 Fanelli Giuseppe, 226n Fantacci Michela, 180n Fantini Girolamo, 30 Fantuzzi Giovanni, 281n, 302n,

447n Fappani Antonio, 326n, 341n,

343n, 345 e n, 390n Farinella Vincenzo, 434n Farnese Alessandro (1520-1589),

141n, 142 e n, 143-146, 147n, 149, 152n, 153 e n, 156 e n, 157, 162

Farnese Odoardo, 312n Farnese Ottavio, 142n, 146 Farnese Pierluigi, 14, 17, 146 Farnese Ranuccio, 139, 159n Farnesi Giustino, 222n Farro Maria Cristina, 198n Fatini Giuseppe, 33 e n, 35n Faustino, santo, 327 e n Fausto da Longiano Sebastiano,

19n Favaro Antonio, 188n, 213n, 221n Favino Federica, 213n Fè d’Ostiani Francesco, 335 e n Federici Domenico, 417 e n, 420 e

n, 432 Federico III d’Asburgo, imperatore,

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INDICE DEI NOMI

500

36 Feliciani Porfirio, 247-248 e n Fenaroli Stefano, 348n Ferrari Cristoforo, 333n Ferrari Filippo, 472n Ferrari Giorgio Emanuele, 362n Ferrato Pietro, 189n Ferrero Leonardo, 435n Ferretti Francesco, 198n, 211n, 218

e n, 219n, 225n, 229n Ferro Roberta, 6n, 185n, 188,

189n, 200n, 212-213n, 214 e n, 232n, 256n, 341n, 385-386n

Ferronato Marta, 379n Ferroni Giulio, 95 e n Fidelissimi Giambattista, 243 e n Figini Stefano, 382 e n, 401n Figliucci Felice, 114n Filangieri Gaetano, 181 Filippi Acconcio, 72 Filippo II d’Asburgo, re di Spagna,

237 Filippo IV d’Asburgo, re di Spagna,

338n Filotico Francesco, 390n Finardi Angelo, 439-441 e n, 442n,

443, 444 e n, 445, 447 e n, 457, 461n, 464 e n, 466, 467 e n, 473n, 476, 479, 480n, 481, 483-485

Finardi Bartolomeo, 439n, 467n Finardi Francesco, 440 Fiorelli Fiorello, 313-314, 316 Fiorelli Malesci Francesca, 204n Fiorentini Giovan Francesco, 332n Fiori Giorgio, 385n Firenzuola Angelo, 98-99, 103 e n,

114 Firmico Materno Giulio, 446n Firpo Luigi, 396n Firpo Massimo, 151n Fisogno Giovan Battista, 355n Floriano, santo, 277, 296 Fontana Bartolomeo, 272, 328,

329, 331 e n, 333n, 334 e n, 335n Fontana Giulio, 388n Fontana Publio, 332n Fontana Roberto, 270n, 297, 298n

Fontana Serafino, 383n Fontanelli Giuseppe, 273n Fontanini Giusto, 360n, 365-366n Foppa Marcantonio, 178 e n, 180

e n Formichetti Gianfranco, 238n Formisano Marco, 435n Fornace Angela Maria, 396n Forner Fabio, 443n Forni Giorgio, 227n Forteguerri Francesco, 255 e n,

264n Forteguerri Pierlorenzo, 242, 245n,

253n Fortini Laura, 166n, 331n Fortuna Alberto Maria, 220n Fortunati Vera, 358n Foscarini Marco, 361n, 364n, 368n Fragnito Gigliola, 148n, 371n Frambotto Pietro Maria, 418n Francesco d’Assisi, santo, 226,

227n, 228 e n Francesco I di Valois, re di Francia,

17, 41, 66, 76, 102n, 112n Franci Adriano (pseud. di Claudio

Tolomei), 114 e n, 115 Franco Niccolò, 19, 21, 23, 127n François Jean, 405n Frangipane Cornelio, 367 Franzoni Claudio, 358n Frare Pierantonio, 218n Frari Angelo Antonio, 81n Frati Vasco, 209n Frescho Casimir, 469 Frigio Giacomo Antonio, 386n Fugger Georg, 350 e n Fulco Giorgio, 189n, 237n Fumagalli Elena, 206n Fumaroli Marc, 374 e n Fusai Giuseppe, 35n, 88n Gabriele Trifon, 112n Gabrieli Andrea, 226n Gabrieli Angelo, 356 e n Gaddi Iacopo, 190n, 191 Gaeta Franco, 150n Gaetani (Caetani) Costantino, 406 Gaetano Tizzone, 29

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INDICE DEI NOMI

501

Galavotti Jacopo, 224n Galdioli Anastasio, 401n Galeno, 112 Galganetti Alberto, 191n Galilei Galileo, 188-189 e n, 195,

213n, 221n, 222 e n, 253, 284n, 341, 372 e n

Gallo Valentina, 443n Gallonio Antonio, 196 Gallucci Giovan Paolo, 234n Galluzzi Tarquinio, 196 Galuzzi Paolo, 213n Gambacorti Irene, 186n Gambara Alamanno, 328n, 344 Gambara Giovan Battista, 329-330,

338, 340 Gambara Ranuccio, 333n Gambara Veronica, 125, 126n Gambaruti Tiberio, 247 e n, 253 e

n, 254n Gamurrini Eugenio, 449, 461n Gandino Antonio, 348 e n, 350 Gandolfi Sebastiano, 14, 15-16n, 17

e n, 18 Gandolfo Domenico Antonio,

464n Garavelli Enrico, 166n Gardane Antonio, 21 Gargano Gargani, 192n Gaudenzio, santo, 127 Gazzola Prospero, 388n Gelli Fiorella, 409n Gemini Erasmo, 138n, 153 Genese, 51-52 Gennari Giuseppe, 415n Gennaro Erminio, 437n, 463n Genovese Gianluca, 129n Gentili Sandro, 170n Gentili Scipione, 358n Gentilli Luciana, 130n Gerbino Giuseppe, 206n Geremicca Antonio, 120n, 188n,

231n Geronimi Giovanni Tommaso,

441n Gesù di Nazaret, Cristo, 105, 124,

214n, 227n, 228 e n, 308, 450, 456, 461n, 468

Gheri Cosimo, 152n Gherzi de la Fuente Juan José, 457n Ghilini Girolamo, 275n, 325 e n,

344 e n Ghisilieri Filippo Carlo, 274n, 309

e n, 310 Giachino Luisella, 232n Giacobbi Girolamo, 318-319 e n Giacomini Lorenzo, 190n, 191, 196 Giacomo di Passino, 44 e n Gianfranceschi Ida, 209n Giansenio (Cornelis Otto Jansen),

452-453, 477 e n, 481n Giardullo Antonio, 195n Gibellini Pietro, 225n, 326n Gioda Carlo, 396n, 400-401n, 405n Gioffredi Superbi Fiorella, 207n Giolito de’ Ferrari Gabriel, 21, 99 Giovanelli Carlo Vincenzo, 468n Giovanni Battista, santo, 122n Giovanni III Aviz, re di Portogallo,

116n Giovanni Paolo da Roma, 477n Giovannini Annalisa, 359n Giovenco Celio Calano, 368 e n,

369n Giovio Paolo, 245n Giovita, santo, 327 e n Giraldo Sempronio, 113n Girolamo da Ferrara vedi Savona-

rola Girolamo Girolamo Sofronio Eusebio, santo,

27 Giroldi Eutichio, 179 Giuglaris (Iuglaris) Luigi, 407 e n Giugno Francesco, 342, 351 e n Giulia, santa, 327 e n Giuliani Angelo, 478 Giuliani Marzia, 188 e n, 231n, 237-

238n, 253n, 282n, 284n Giuliano Antonio, 353n Giuliano da Mulassana, 47 Giuliano dal Sillico, 48 Giulio II, papa (Giuliano Della Ro-

vere), 28, 36, 37n Giulio Paolo, 365-366 e n Giulio Rosa, 282n Giuseppe I d’Asburgo, imperatore,

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INDICE DEI NOMI

502

418n Giustiniani Benedetto, 250n, 253n,

256n Giustiniani Lorenzo, santo, 418n Glaria Vincenzo, 447n Goethe Johann Wolfgang von, 350 Golfarini Pellegrino, 265, 268 Golinelli Paolo, 452n Göllner Carl, 11n, 17n, 27 Golzio Michelangelo, 474n Gonzaga Eleonora, duchessa di Ur-

bino, 126 e n Gonzaga Federigo II, 130n Gonzaga Ferdinando I, cardinale poi

duca di Mantova, 258n, 265-268, 304n, 311 e n, 319 e n, 322 e n

Gonzaga Lodovico (XVII sec.), 333n Gonzaga Ludovico (XVI sec.), 38 Gonzaga Maria, 418n Gonzaga Massimiliano, 251 Gonzaga Scipione, 183 Gonzaga Vincenzo I, 176n, 318n Gonzaga-Nevers Eleonora Madda-

lena, 418n, 419, 420n Graf Arturo, 197n Granata Paolo, 358n Granduccio Achille, 43n Granese Alberto, 282n Graziani Gaspare, 362n Graziani Girolamo, 420-421n Gregori Elisa, 119n Gregori Mina, 120n, 348n Gregorio XIV, papa (Nicolò Sfon-

drati), 238 e n, 243-244, 247 Gregorio XV, papa (Alessandro Lu-

dovisi), 213n, 219n, 265-266, 321 e n, 338

Grignani Elisa, 381n Grillo Angelo, 7, 179, 185-230, 256-

257 e n, 258, 331 e n, 332-333n, 341, 355n, 381n, 387-388 e n, 410

Grimaldi Giovambattista, 101, 102 e n, 117n

Grimani Marino, 143n Gritti Giulia, 287n Grizi Pietro, 346n Gronovius Jacob, 467 e n

Guaccimanni Giacomo, 307n Guagnino Baldassar, 235 Gualdo Giovan Battista, 373 Gualdo Paolo, 360, 372-373, 374

e n Gualterotti Francesco Maria, 304 e

n, 315 Gualterotti Raffaello, 190n, 196,

201 e n, 202n, 315 e n Gualteruzzi Carlo, 138, 141n, 143 e

n, 152n, 155 e n, 156 Gualtieri Giovanni, 253n Guarini Battista, 189 e n, 196-197,

206-207n, 214, 215n, 234n, 264n, 286n, 293n, 348n

Guarneri Giovanni Antonio, 472-473n

Guarnieri Gino, 223n Guasco Annibale, 331 e n, 386 e n Guasco Lavinia, 387 Guastavini Giulio, 358n Guasti Cesare, 167 e n, 169, 173-

175, 176 e n, 177, 178 e n, 179-181, 183, 184 e n, 192n, 257n

Guazzo Stefano, 331 e n Guerra Domenico, 139 Guerra Giovan Battista, 139 Guerrini Antonio, 467n Guerrini Paolo, 326n, 334n, 340n Guglielminetti Marziano, 189n,

213n, 278n Guicciardini Francesco, 49 e n, 69n,

70n, 343 Guicciardini Niccolò, commissario

di Fivizzano, 56 Guidi Giovan Francesco, 251n Guidicciolo Giovanni, 474n, 477 Guidiccioni Giovanni, 103, 105 e n Guidiccioni Lelio, 240n, 247n Guidone Francesco, 50 Gullino Giuseppe, 350n Gumppenberg Wilhelm, 463 e n Guzzi Graziano, 382 e n, 383n Guzzo Enrico Maria, 348n Harvel Edmund, 160n Hausen Henricus, 470 e n, 471n Heinsius Daniel, 373

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INDICE DEI NOMI

503

Heinsius Nikolaes, 467n Hendrix Harald, 121n, 206n, 245n Henschen Godefroid, 472 Ilario di Arles, santo, 453, 465n,

466 Imberto Giovanni Pietro, 386n Ingegneri Angelo, 245 e n Inglese Giorgio, 172 e n Innamorati Giuliano, 119n Innocenzo IX, papa (Antonio Fac-

chinetti), 238n, 253n Innocenzo X, papa (Giovanni Batti-

sta Pamphili), 403n Iob dal Sillico, 45 e n, 46n Iovine Maria Fiammetta, 215n Isabella del Portogallo (Isabella

d’Aviz), imperatrice, 122, 128 e n Izzi Giuseppe, 166n, 331n Jodogne Pierre, 166n, 183n Jossa Stefano, 95 e n Jurilli Antonio, 474 n Kallfelz Hatto, 174n Kapsberger Hieronymus, 230n Kepler Johannes, 372 Knapton Michael, 150n Kristeller Paul Oskar, 143 Krümmel Achim, 438n La Nou Giovanni, 455 e n La Via Stefano, 226n Laghi Francesco, 241n Lambin Denis, 139, 140n Lampugnani Agostino, 387, 412 Lampugnani Alfonso, 383n Lana Terzi Battista, 344 Lana Terzi Giulio, 329, 330 e n,

332n, 338-340 Lancellotti Secondo, 445 e n Landolfi Domenica, 191n Lannoy Orazio di, 236-237 e n Larivaille Paul, 119n Lavagetto Mario, 170n Lavenia Vincenzo, 139n, 336n,

395n, 400n Lazzeri Alessandro, 440n

Leccisotti Tommaso, 413n Lee Rensselaer Wright, 312n Lefevre Renato, 222n Lelio Sapiente Gaio, 434, 435n Leone X, papa (Giovanni di Lo-

renzo de’ Medici), 28-29, 36, 69, 71

Leoni Giovan Battista, 333n Leoni Leone, 129n Leopoldo I d’Asburgo, imperatore,

418n Lestocquoy Jean, 151n Leti Gregorio, 439n, 468n, 476n Leuker Tobias, 224n Li Causi Pietro, 435n Liberti Andrea Giuseppe, 186n Licino Giovan Battista, 178 Ligozzi Iacopo, 227 e n Lintrù Pellegrino, 314 e n, 317, 318

e n Lionetto Adeline, 215n Lippi Lorenzo (sotto lo pseud. Perlone

Zipoli), 475 e n Lipsius Iustus (Giusto Lipsio), 386n Livio Tito, 343, 446-447 e n, 448n,

450, 460, 467, 475 Lodi Teresa, 195 e n Lollino Luigi, 219n Lombardi Bartolomeo, 345 e n Lonardo Pietro, 141n Longatti Anna, 145n Longo Nicola, 166n, 170n Loredan Giovan Francesco, 275n,

355 e n, 356, 359 e n, 360, 402, 408, 409 e n, 410-412, 454, 468n

Lorena, duca di vedi Antoine de Vaudémont, duca di Lorena, detto il Buono

Lorenzini Niva, 135n Lorenzo, maestro, 27 Lorenzo, santo, 306 Lucano Marco Anneo, 367 e n Lucchesini Orazio, 240n Luciano, 433-434 Lucioli Francesco, 213n Lucrezio Caro Tito, 451n Ludovisi Ludovico, 191n Lugli Adalgisa, 276n, 358n

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INDICE DEI NOMI

504

Luigi XIII di Borbone, re di Francia, 338n, 387

Luigi XIV di Borbone, re di Francia, 193 e n

Lunadoro Aliprando, 242n Lunadoro Girolamo, 242 e n, 246 Lunadoro Simone, 240n Luparia Paolo, 208n Luperini Romano, 172n Lupis Antonio, 454-455 e n, 465,

467 e n, 468n, 476n Lustri Marco, 479n Luzzago Agostino, 327 Mabillon Jean, 439n Macedo Francisco, 451n, 452-453 e

n, 454, 464, 465-467 e n, 468n, 470-471e n, 473 e n, 474, 475n, 477 e n, 481 e n

Macera Ilaria, 186n Machiavelli Niccolò, 92 e n, 98 e n,

103n, 256n Maddalena Giovanni, 51, 52 e n,

57n Maddalena Piero, 51, 52 e n, 57n Madruzzo Cristoforo, 345 Maffei Alessandro, 479n Maffei Bernardino, 30, 142n, 146 Maffei Emilia, 30 Maffei Italia, 30 Maffei Paolo Alessandro, 479 e n Maffei Raffaele, detto il Volterrano,

479 e n Maffei Scipione, 349n, 479n Maffei Sonia, 358n Maffei, famiglia, 147n Maffi Davide, 160n Magagnati Girolamo, 284 e n, 293,

294n, 320n Maggi Armando, 227n Maggi Vincenzo, 345 e n Magliabechi Antonio, 7, 360 e n,

431n, 437-485 Magnabosco Michele, 391n Magnanini Suzanne, 202n Magnano Battistino, 44 e n, 63 Magnano Pierino, 42, 45n, 72 Mainardi Fabrizio, 284

Mainardi Gaspare, 395n Maioragio Marco Antonio, 386n Maiorino Marco, 245n Malaguzzi Sigismondo, 38-39 Malaspina di Mulazzo Giovan Batti-

sta, 251n Malaspina Francesco, 441 e n Malaspina Tommaso, signore di Vil-

lafranca di Lunigiana, 95 Malaspina Torquato, 193, 194n Malatesta Marc’Antonio Pandolfio,

448 Malatesta Pandolfo, 325n Malato Enrico, 119n Maldonado Juan, 457 Malerbi (Malermi) Nicolò, 27 Malfatti Cesare, 358n Malloni Maria (detta Celia), 267,

268 e n, 269 Malvasia Carlo Cesare, 276n, 296n,

305n, 307n Malvezzi Lodovico, 274n, 288 e n,

311, 312 e n Malvezzi Marzio, 309 Malvezzi Virgilio, 288n Mamiani Giovan Battista, 266-267 Mamone Sara, 202n Mandruzzo Elena, 350n Manelfi Pietro, 242 Mangani Lorella, 422n Mannarino Tommaso, 383n Manni Domenico Maria, 193 Mantovani Anna, 145n Manuel I Aviz, re di Portogallo, 28 Manuzio Aldo (il Vecchio), 34 Manuzio Paolo, 21-23, 25, 100n,

118n, 140n, 269n, 386n Manzini Giovan Battista, 285 e n,

312 e n, 313 Manzocchi Mattia, 152n Manzoni Alessandro, 230n Marcatto Dario, 151n Marchetti Alessandro, 451n Marchetti Vincenzo, 463n Marchetti Rodolfo, 249n Marchi Monica, 144 Marcolini Francesco, 19-21, 130 Marconato Claudia, 416n

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INDICE DEI NOMI

505

Marcozzi Luca, 16n Marelli Chiara, 145n Marenzio Luca, 206n Marescotti Bernardino, 266-267 Margarini Cornelio, 406 Margotti Lanfranco, 245 e n, 246,

248 e n Margutte da Camporgiano (o Cam-

poreggiano), 44 e n Mari Michele, 141n, 143 e n, 144n Maria Egiziaca, santa, 293n Maria Vergine, madre di Cristo, 77,

122-123, 274 e n, 308 e n, 323, 455 e n, 461n, 463 e n, 469-470, 484

Mariano Angelo, 160 e n Marini Paolo, 39n Marino Giovan Battista, 144, 166n,

186, 189 e n, 195, 196n, 210 e n, 215n, 218, 229 e n, 247n, 261, 268n, 270n, 274 e n, 276n, 278 e n, 279, 286n, 293n, 295n, 298n, 299, 300 e n, 301-302n, 304n, 305 e n, 308n, 311 e n, 312-313n, 315-316n, 321 e n, 323 e n, 328 e n, 331n, 334n, 386n, 412

Marino Rosanna, 435n Marinoni Giovanni Battista, 381n,

412n Marliani Bernardino, 331 e n Marmi Anton Francesco, 442n,

464n Marone Pietro, 341, 351 e n Marrani Giuseppe, 170n Martelli Ludovico, 98-99, 107, 114 Martellini Leonardo, 190n Martellotti Anna, 199n, 202n, 210-

211n, 388n Marti Mario, 165n, 171 e n Martinelli Tempesta Stefano, 137n,

166n Martinengo Andrea, 334 e n, 335n Martinengo Bartolomeo, 28 Martinengo Cesaresca Giulia, 333n Martinengo Cesaresco Camillo,

327n Martinengo Ettore, 332n, 341, 347

e n

Martinengo Francesco, 455n Martinengo Girolamo, 330, 334n,

341 Martinengo Leonora, 333n Martinengo Leopardo, 334n Martinengo Prospero, 326 Martini Alessandro, 226n Martino da Vergemoli, 47 Martinozzi Laura, 420n Marzorati Clara, 145n Marzullo Giacomo, 321n, 389 Mascardi Agostino, 196, 197 e n,

218n, 230n, 320 e n Mascardi Giacomo, 248 Masoero Mariarosa, 189n, 213n Massenzio Marco Aurelio Valerio,

313 Massimo Eleonora (marchesa

Ricci), 148 Massini Filippo, 226n, 386n Matheo, prete, 46n Matt Luigi, 166n, 199n, 285n,

331n, 356n Matthieu Pierre, 343 Maylender Michele, 301n, 309n,

327n Mazzacurati Giancarlo, 183n Mazzarino Giulio Raimondo, 193n,

196, 411 Mazzatinti Giuseppe, 236n Mazzei Carlo, 464n Mazzoleni Carla, 381n Mazzoli Donato, 333n Mazzoni Jacopo, 255n Mazzuchelli Gian Maria, 208n,

304n, 306n, 366n, 445n, 461n, 469n

Medici Carlo de’, 251 e n Medici Cosimo I de’, 120n, 155n,

207n, 236 Medici Cosimo II de’, 213n, 221,

223, 224-225n, 251, 253, 270 Medici Cosimo III de’, 440, 443 e n,

451, 467-468n, 476n, 480n Medici Ferdinando I de’, 182, 190-

191n, 250, 254n Medici Ferdinando II de’, 193 e n,

421, 445

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INDICE DEI NOMI

506

Medici Francesco di Ferdinando I de’, 250 e n, 251-253, 315n

Medici Francesco I de’, 204, 207n, 216n, 237

Medici Gian Gastone de’, 193, 194n

Medici Giovan Angelo de’ (governa-tore di Ancona, poi papa Pio IV), 156 e n, 157n, 159 e n, 160

Medici Giovan Carlo de’, 445 Medici Giovan Giacomo de’, 159n Medici Giovanni de’, 190n, 191 e n Medici Giovanni de’, detto dalle

Bande Nere, Gran Diavolo o Gio-vannino, 71-74

Medici Giuliano di Lorenzo de’, duca di Nemours, 28

Medici Ippolito de’, 107, 110 e n, 116n

Medici Leopoldo de’, 419 e n, 421 e n, 422-423, 424-428 e n, 429, 430 e n, 431-432, 434

Medici Lorenzino de’, 155n Medici Lorenzo de’, detto il Magni-

fico, 71 Medici Maria de’, 201, 202n, 203,

204 e n, 205 e n, 206, 308n Medici Mattias de’, 445 Megale Teresa, 268n Melania, 465n, 471n Ménage Gilles, 140n Mencaroni Zoppetti Maria, 437n,

463n Menini Ottavio, 198 e n, 199n Menniti Ippolito Antonio, 246n Menocchi Girolamo, 190n, 196 Menochio Giacomo, 386n Menochio Stefano, 456 e n Merlotti Andrea, 325n, 410n Mesino da Forno, 50 Metlica Alessandro, 416n Meurs Johannes van (Meursius,

Meursio), 354n, 367n, 368, 369n, 371n, 373

Miccolis Stefano, 195n Michele Agostino, 264n Micotto Giovanni, 42 Micotto Tomaso, podestà di Trassi-

lico, 41-42, 43 e n Miesse Hélène, 120n, 188n, 231n Miniatore Bartolomeo, 24 e n Minois (Mignault) Claude, 357n Minotto Giovanni, 347n Minozzi Pier Francesco, 191 Mironneau Paul, 204n Mirto Alfonso, 431n, 443n, 449n,

451n, 454-455n, 471n Mocenigo Leonardo, 328-329,

333n, 342 Molin Domenico, 354n, 357-377 Molin Francesco, 361 Molinari Carla, 206n Molineri Anastasio, 396, 397 e n,

398 Molza Francesco Maria, 103 Monacelli Rita, 130n Monachum Patavinum, 362 Mondelli Luca, 145n Mondini Maurizio, 209n Moniglia Giovanni Andrea, 442n Monluc Jean de, 156, 158 e n, 160 Monselice Vittoria, 326, 342 Montalenti Giuseppe, 294n Montalto, cardinale (Alessandro

Damasceni Peretti), 250n Montemagni Desiderio, 430n Montemagni Pietro, 243n Montemerli Montemerlo de, 143

e n Montevecchi Alessandro, 194n Monteverdi Claudio, 304 Monti Cesare, 190n Montobbio Luigi, 434n Montoya Martínez Jesús, 197n Monza Ludovico, 462 Moppi Gregorio, 286n Morabito Raffaele, 170n Morace Rosanna, 225n Morandi Marco Antonio, 275n,

307 e n Morando Simona, 189n, 225n Moreno Paola, 166n, 170, 171n Morgana Silvia, 212n Morlino Luca, 168n Moro dal Sillico (banda di, fratelli

di), 44 e n, 47-48, 49 e n, 50, 63-

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INDICE DEI NOMI

507

64, 94 Moro Stefano, 381n Morone Giovanni, 151n Moroni Ornella, 141n, 143 e n Mortarotti Alessandro, 398n Morucci Valerio, 191n Motolese Matteo, 137n Motta Uberto, 246n Mozzetti Francesco, 120n Muratori Ludovico Antonio, 360n,

364n, 451n Muret Marc-Antoine (Marco Anto-

nio Mureto o Moreto), 386n Murtola Gasparo, 196, 279 e n, 315-

316 e n Mussato Albertino, 362, 363 e n Mutini Claudio, 138n, 140n, 152n,

205n, 282-283n Muzio Domenico Francesco, 395n Muzio Mario, 472n Muzio Pio, 198n, 383n, 387, 390,

396 Nani Giovan Battista, 479 e n Nani Giovanni, 329 Napoli Maria Consiglia, 140n Nardone Jean-Luc, 215n Nazzari Francesco, 466n Negri Giulio, 222n Neri Achille, 197n Neri Filippo, 212 Nesi Giuliano, 85n Neusser Brunone, 472, 473n Nicolau-Konnari Angel, 245n Nicolini Fausto, 197n Nicolò da Ponteccio, 64, 65n, 72-73 Niella Giovanni Ambrogio, 410 Nocera Gigliola, 248n Nogarola Ferdinando, 391n Nomi Federigo, 422, 437n Nori Francesco, 190n Noris Enrico, 440, 451-453 e n,

454, 459n, 464, 465-466 e n, 468 e n, 470-471 e n, 472, 473-474 e n, 475n, 477 e n, 481-482 e n, 485

Nosotti Luigi, 145n Notari Costantino, 380n

Noto Maria Anna, 236n Novelli Leandro, 380n Novelli Michele, 208n Nozzolini Giuseppe, 196 Núñez Juan Paredes, 197n Nuovo Angela, 377 e n Oberti Santino, 478 Obizo (o Opizo) Remo, 43n, 55, 61,

68n Och Laura, 391n Oddi Galeotto, 215n Olivadese Elisabetta, 257n, 282n Olmi Giuseppe, 276n Olmo Fortunato, 198n, 406 Olmo Francesco, 333n Onger Sergio, 325n Onofri Girolamo, 266-267 Oppici Patrizia, 130n Orazio Flacco Quinto, 91, 312n,

345 Origgi, Alessandra, 282n Orioles Alessandro, 383n Orlandi Antonella, 437n Orrigoni Clemente, 382 e n Orrigoni Giovanni Battista, 382 e n Orsini Fabio, 206n Orsini Virginio, 191 e n, 206n,

251n Osio Felice, 362, 363-364 e n, 369n Otto di Pratica, 51, 52n, 54, 57, 84n Paganello Marco Tullio, 381-382n Pagliardo Giacomo, 330 Pairana Felice, 382n, 383n Paitoni Jacopo Maria, 360 Palazzi Giovanni, 477n Paleotti Camillo, 232n Palermo Francesco, 179n Pallavicini Luppi Isabella, 301 e n Pallotta Giovanni Evangelista 220,

221n Pallucchini Rodolfo, 120n Palma il Giovane Jacopo, 341, 351n Palma Marco, 343n Palomba Pamela, 186n Panarella Valentina, 186n Panciatichi Jacopo, 242n, 249,

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INDICE DEI NOMI

508

252n, 255 Panciroli Giovanni Giacomo, 401n Pandolfini Lorenzo, 53 Pannocchieschi d’Elci Orso Nic-

colò, 190-191n Paolaccio da Barga, 53 Paoli Marco, 443n Paoli Maria Pia, 439n, 441n Paolin Giovanna, 334n Paolini Fabio, 235 Paolo III, papa (Alessandro Far-

nese), 30, 142n, 157-161, 162 e n Paolo IV, papa (Gian Pietro Carafa),

149 e n Paolo V, papa (Camillo Borghese),

232, 240 e n, 242, 246 e n, 247, 251-252n, 335, 336 e n, 340

Papafava Marsilio, 420n Papio Giovan Angelo, 281n Paradiso Romolo, 287 e n, 313 e n,

314 Parodi Severina, 193n Pasero Giovanni Tommaso, 396n,

399, 403 Pasquali Scipione, 246 Pasquati Giovan Battista, 417 e n Pasquazi Silvio, 227n Pasquini Emilio, 166n Passamani Bruno, 348n Passarini Lodovico, 141n Passerini Luigi, 439n Passi Pietro, 272 e n Pastore Stefania, 456n Patrizi da Cherso Francesco, 189 e

n, 195, 196n, 245n Patrizi Giorgio, 175n Pazzi Alessandro de’, 98n Pazzi Antonio de’, 186n, 196n,

206n, 210n Pecci Tommaso, 277, 278n, 286 e n Peiresc Nicolas-Claude Fabri de,

368n, 369, 370 e n, 371n, 373n, 374

Pelizzoni Stefano, 214n Pellegrini Marco, 76n, 102n Pellegrino Camillo, 196 Pellegrino dal Sillico (figli di), 47 e

n, 59n

Pepoli Ercole, 269-270n, 288 e n, 289-292, 298n

Pepoli Laura, 297-298 e n, 299 Pepper David Jonathan Stephen,

307n, 311n, 314n Peranda Giovan Francesco, 13 e n,

331, 332n Peretti Damasceni Michele, 247-

248, 287 e n Perez Antonio , 392-393 Peri Girolamo , 388n Pericolo Lorenzo, 276n Pernicone Vincenzo, 220n Peroni Vincenzo, 208n, 334-335n,

346 e n, 461n Perozzi Perozzo, 223 e n Perozzi Stefano, 220, 221 e n, 222n,

223 Perron Jacques Davy du, 253n Pers Ciro di, 420 e n, 421n, 423 Persio Ascanio, 249 Petracci Pietro, 198 e n, 332n, 341 Petrarca Francesco, 13, 26, 108, 110

e n, 111, 187 e n, 432 Petrasanta da Rivalta Francesco,

347 e n Petrucci Armando, 462n Petrucciani Alberto, 195n Petteruti Pellegrino Pietro, 213n,

225n Pezzica Maria Simona, 237n Pezzoli Giuseppe, 467n Piacentino, 292 e n Piazza Filippo, 351n Picchena Curzio, 188, 191n Picco Francesco, 196n Piccolomini Francesco, 386n Picinelli Filippo, 234n, 381n, 390n,

403n, 405n, 462 e n Pico della Mirandola Maddalena,

27 Pierbenedetti Mariano, 240n, 253n Pierrotto Luca, 79-80 Pietragalla Daniela, 120n Pigna Giovan Battista, 66n Pignatti Franco, 127n, 247n Pignoria Lorenzo, 7, 333n, 341,

357-377

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INDICE DEI NOMI

509

Pigozzi Marinella, 298n Pindemonte Giovanni, 454n Pinelli Antonio, 368n Pinelli Giovan Pietro, 363n Pinelli Giovan Vincenzo, 190n,

196, 361-362, 369, 372, 374 e n, 377

Pini Filippo, 160 e n Piniano, 465, 471n Pintaudi Rosario, 195n Pio di Savoia Ascanio, 281n Piperno Franco, 206n Piras Tiziana, 225n Pirovano Ludovico, 381 Pisani Francesco, 156, 158 e n, 160 Pistelli Ermenegildo, 195n Pistoia Ercole, 76n Pitts Vincent Joseph, 204n Plaisance Michel, 207n Platone, 344n Plinio Cecilio Secondo Gaio (il Gio-

vane), 418 Plutarco, 101, 368n Podiani Prospero, 255 e n Poggiolini Roberto, 279n Pola Francesco, 348-349 e n, 350n Pole Reginald, 142, 144, 155 Poli Michele, 460n Pomponio Attico Tito, 374 Pona Francesco, 329, 333n, 341-

342 Ponticelli Frediano, 41 e n, 47 Poppi Silvestro da, 226, 227n Porcellaga Francesco, 355n Porta Malatesta, 232n, 302n Portenari Angelo, 365, 366n Possevino Antonio, 196 Povolo Claudio, 367n Pozzi Giovanni, 172n, 440n, 462n Pozzi Mario, 97n, 120n Prandi Stefano, 140n Preti Girolamo, 189n, 215 e n,

254n, 261, 274 e n, 281 e n, 295n, 309 e n, 310n, 320, 321 e n

Prezzolini Giuseppe, 143 Priuli Alvise, 103 Priuli Girolamo, 342 Procaccioli Paolo, 5-6 e n, 9n, 15n,

17n, 19n, 21n, 119-120n, 124n, 129n, 132n, 134n, 137n, 145n, 152n, 165n, 166 e n, 167n, 176, 177n, 185n, 206n, 231n, 256n, 262-263n, 269n, 331n, 355n, 358n, 359 e n, 379n, 415n, 439n

Properzio Sesto Aurelio, 111 Prosperi Adriano, 139n Prosperi Valenti Rodinò Simonetta,

227n Prospero da Bologna, 480, 482,

484n Provana Pio, 397-399, 401n, 402 Puccinelli Placido, 379, 380n, 383n,

397n, 406 Puliatti Pietro, 409n Puteano Ericio (Erycius Puteanus),

256 e n, 386n, 389 Quadrio Francesco Saverio, 309n Quaranta (?), conte di, 285 Quazza Romolo, 37n Querenghi Antonio, 190n, 191,

196, 197 e n, 206n, 215, 219, 246 e n

Querenghi Flavio, 375 e n Querini Girolamo, 141n, 143 e n,

156 Quirini Marcantonio, 333n, 341,

346, 376 e n Quondam Amedeo, 24n, 137n,

165n, 231n, 247n, 262n, 331n Rabaglio Matteo, 437n Rabbia Raffaele, 293n Raboni Giulia, 225n, 228n Raffaele da Carrara, capitano di

Camporgiano, 43 Raimondi Ezio, 183 e n, 218n Raimondi Giovan Battista, 245n Rajna Pio, 103n, 115 Rangoni Gal Fiorenza, 333n, 337n Ranieri Concetta, 166n, 331n Raviola Blythe Alice, 237n Reali Agostino Venanzio, 462n Redi Francesco, 421, 422 e n, 424 e

n, 430 e n, 431n, 432 Reidy Denis, 187n

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INDICE DEI NOMI

510

Remmert Volker, 188n Reni Guido, 276-277 e n, 296 e n,

307 e n, 310, 311n, 312 e n, 314 e n, 318 e n

Resta Gianvito, 167 e n, 168n, 170-171 e n, 178 e n, 179n, 181 e n, 232n, 284n

Rezzi Luigi Maria, 141n Rho Giovanni, 190n Riario Ferdinando, 297-298 e n,

299 Ricasoli Baroni Ottavio, 241-242

e n Riccardi Giovanni Maria, 391-392,

394, 406 Ricci Giovanni, 148 e n Ricci Parracciani Bergamini Gio-

vanni Gustavo, 148 Ricciardi Silvia, 144n Riccio Annibale, 453, 475n, 481n Riccio Pierfrancesco, 120n Richiedei Paolo, 326, 461 e n Righetti Lorenzo, 277n, 286 Rigon Antonio, 358n Rinaldi Cesare, 6-7, 255 e n, 261-

323, 332 e n, 333n, 341 Rinaldi Giulio, 270 Rinuccini Giovan Battista, 219 Rinuccini Ottavio, 201 e n, 202n,

215 Risso Roberto, 131n Ritrovato Salvatore, 226n, 261n,

270 e n, 274n, 277n, 297n, 303n Rivola Clemente, 437n Rizzardi, stampatori, 461 Robbia Marco , 383n Robecchi Franco, 209n Robiolo Girolamo, 395n Rodolfo II d’Asburgo, imperatore,

372 Roero (Roera) Margherita, 395, 400 Rojo Martínez Fernando, 453n,

471n, 481n Rolandino da Padova, 362, 363 e n,

364 Romano Elisa, 435n Romanzin Alessandro, 145n Romei Danilo, 152n

Ronai Francesco, 190n Roncaccia Alberto, 345n Ronchini Amadio, 141n, 146 e n Ronco Bernardino, 328n, 353 Ronconi Giorgio, 420n Rondinelli Francesco, 264n Rosa Claudio, 329, 355n Rosini Giovanni, 173 e n, 175, 179-

180, 181n, 183-184 Rospigliosi Giovan Battista detto

Bati, 243n Rossello Leonardo Bernardo, 84n Rossi Aurelio, 468n Rossi Cirillo, 461 e n Rossi Giacomo Maria, 326 e n Rossi Giacomo, 342 Rossi Giovan Vittorio (Giano Nicio

Eritreo), 231 e n, 313n Rossi Giovanni Battista, 386 Rossi Giovanni, 250n Rossi Leonzia Vittoria, 326 Rossi Marc’Antonio, 461n Rossi Massimiliano, 206-207n, 228

e n Rossi Matteo, 248n Rossi Ottavio, 6-7, 271n, 321 e n,

325-356, 389-390 e n, 410 e n Rossi Pino de’, 29 Rossini Francesco, 186n, 188n,

196n, 206n, 210n, 212n, 215n, 229n, 254n, 256n

Rota Giacomo, 159 e n Rovai Francesco, 196 Rozzo Ugo, 10n Rucellai (o Auricellario) Niccolò, ca-

pitano di Pietrasanta, 56 e n, 87-89 e n

Rucellai Annibale, 141n, 143 e n, 148 e n, 149n

Rucellai Dionora, 148 Rucellai famiglia, 147n Rucellai Orazio, 148n Ruscelli Girolamo, 23 e n, 25 Rusconi Roberto, 377n Russo Emilio, 9n, 137n, 145n, 165-

167n, 170n, 177n, 185n, 210n, 213n, 256n, 262n, 300n, 313n, 315n, 321n, 331n, 358n

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INDICE DEI NOMI

511

Russo Piera, 215n Rustis Giovanni Giacomo, 410 Sabatini Mattia, 145n Saccenti Mario, 451n Sacchini Lorenzo, 255n Sacco Giovanni Battista, 386n Sagredo Giovanni, 479 e n Saladini Michele, 190n Sallustio Crispo Gaio, 343 Salmerón Alfonso, 457 Salvagni Isabella, 222n Salvarani Luana, 230n Salvetti Firpo Laura, 284n, 294n Salvi Costanzo, 382 e n Salviati Filippo, 222 Salviati Giovanni, 116n Salviati Lionardo, 101n, 189 e n,

196-197 Salvini Salvino, 192n, 194 e n,

197n, 199n Samarini Francesco, 386 e n Sampson Lisa, 187n San Bonifacio Bernardo di, 160 e n San Donnino, conti di (Maria Giu-

lia, Carlo, Giovanni), 47n, 51 e n, 57 e n

Sancassani Dionigi Andrea, 221n Sandelli Martino, 367, 369 e n Sandigliano Francesco, 398 Sandrini Tommaso, 351 e n Sanfilippo Matteo, 143n Sanger Alice, 221n Sansovino Francesco, 23, 190n Sansovino Jacopo (Jacopo Tatti),

121n, 132 Santacroce Modesto, 401n Santi Anton, 109n Santi Gismondo, 238n Santori Paolo Emilio, 219 Santosuosso Antonio, 137-138n,

147n, 152n Santucci Santuccio, 55 Sapegno Natalino, 67n Saracini Giuliano, 159n Sarnelli Mauro, 206n Sarpi Paolo, 368n, 371-372n, 373,

473n

Sarra Angela, 132n Sartorio Vangelista, 264, 273n Sarzina Giacomo, 346, 408 Sassetti Filippo, 189 e n, 196-197 Sauli Alessandro, 386n Saumaise Claude (Claudius Salma-

sius), 373 Savoia Carlo Emanuele I di, 237,

278n, 301n, 338n, 396, 400-402n Savoia Carlo Emanuele II di, 395n,

402 Savoia Emanuele Filiberto di, 248n Savoia Francesco Giacinto di, 395n Savoia Maurizio di, 387 Savoia Vittorio Amedeo I di, 395 Savoia, casa, 380, 393, 406 Savonarola Girolamo, 27-28 Savorelli Alessandro, 195n Sbaragli Luigi, 100n, 104n, 110n,

114n, 116n Scaglia Deodato, 336n Scaglia Desiderio, 329, 330 e n, 333-

337 e n, 338, 341 Scaino Francesco, 345 Scaioli Alessandro, 301 e n, 306 e n Scaligero Giuseppe Giusto, 302n,

368n Scanu Ada Myriam, 387n Scapinelli Lodovico, 279n, 281,

282n, 283, 287, 292 e n, 293, 300 e n

Scarano Lucio, 234 e n, 235n, 240, 241n, 242

Scarella Erodio, 271-272n Scarlattini Ottavio, 271n Scarpati Claudio, 387n Scevola Quinto Muzio (l’Augure),

435n Schad Martha, 350n Schedoni Bartolomeo, 293 e n Schelino Virginio, 352 Schoppe Kaspar, 386n Schwarze Sabina, 443n Schwedt Herman, 347n Scichilone Giorgio, 379n Sciotto Girolamo, 156 e n, 159-160 Scipione Africano Publio Cornelio,

130n, 435n

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INDICE DEI NOMI

512

Scipione Emiliano Publio Cornelio, 434, 435 e n

Scoto Lorenzo, 402, 413n Sebastiano, santo, 314 e n, 318n Segni Alessandro, 430n Segni Bernardo, 197n Segni Giulio, 7, 176n, 232 e n, 249

e n, 250, 252n, 254n, 255, 257-258 e n, 271 e n, 279, 281 e n, 283-285 e n, 303

Segre Cesare, 90 e n, 91n, 94 e n, 172n

Selmi Elisabetta, 215n, 218n, 345n Semenzi Girolamo, 449 Seminetti Averano, 441 e n Seneca Lucio Anneo (il Giovane),

429 Seragoni Francesco, 190n Serassi Pierantonio, 175, 176 e n,

179-180, 181n, 183-184 Sessi Tebaldo, 70n Sessio Bernardino, 395n Settala Benedetto, 383n Settala Ludovico, 386n Settembrini Chiara, 145n Setton Kenneth, 150n, 158n Severi Bart, 158n Severoli Leonardo, 24n Sfondrati Giovanni Battista, 386 e n Sfondrati Gregorio, 386 e n Sfondrati Paolo Emilio, 237, 238 e

n, 241n, 243, 245n, 311n Sfondrati Paolo, 237 e n Sforza di Santa Fiora Guido Asca-

nio, 142n, 145-146, 153, 155, 157-160

Sforza Francesco II, 30 Sforza Giovanni, 59n, 86n, 90 e n Siekiera Anna, 186-187n Sigismondi Mario, 388n Signaroli Simone, 325-353n, 363n Silveira Ioão, 476 e n Simmaco Quinto Aurelio, 418 e n Simone Rossella, 145n Siragusa Alice, 145n Siri Vittorio (Vittorino), 396n,

403n, 404 Sisto V, papa (Felice Peretti), 175-

176 Slawinski Maurizio, 196n Soardino, 72 Sogliani Daniela, 168n Soldani Iacopo, 190n Solerti Angelo, 168 e n, 174 e n,

179-180n, 197n, 206n, 285n Solimano il Magnifico, 156, 158n,

159 Sommaia Girolamo da, 191 Soncino Girolamo, 353 Soranzo Vittore, 104n Sorboli Giovan Maria, capitano

della Ragione (o di Giustizia) di Castelnuovo, 43, 62, 78 e n

Soria Ortega Andrés, 197n Sossago Benedetto, 384 e n Souter Daniel, 371n Sozzi Odoardo, 468n Sozzifanti Bartolomeo, 239 Spada Bernardino, 430 Spadara Angela, 132 e n Spaggiari Angelo, 91 e n Spannocchi Orazio, 196 Sparavieri Francesco, 471n Speakman Sutch Susie, 187n Spera Lucinda, 454n Speroni Sperone, 104 Spinelli Giovanni, 208n, 222n,

380n Spinelli Riccardo, 206n Spinola Giannettino, 210n Spreti Vittorio, 326n Squarcia Lucrezia, 132n Squarciafico Girolamo, 368n Stampa Massimiliano, 122n Stella Aldo, 156n Stella Angelo, 34 e n, 69 e n, 70n,

86n, 90n, 93 e n Stella Giulio Cesare, 333n Stella Lattanzio, 208 e n, 211, 326-

327, 333n, 390 Stella Pietro, 452n Stella Silvio, 326-327, 390 Stewart John, duca di Albany (d’Al-

bania), 76 Stigliani Tommaso, 196, 197 e n,

278n, 279 e n, 295n, 304n, 315n,

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INDICE DEI NOMI

513

319 e n, 320, 385n Stimato Gerarda, 121n Storrs Christopher, 160n Strappini Lucia, 192n Strinati Claudio, 227n Strozzi Alessandro, 190n, 191n Strozzi Alfonso, 190n, 191n Strozzi Annibale, 190n Strozzi Antonio, 190n Strozzi Camilla, 194 e n Strozzi Camillo, 200n Strozzi Carlo, 190-191n, 192 e n,

193 Strozzi Caterina, 190n Strozzi Cesare, 190n Strozzi Cosimo, 190n, 191n Strozzi Ercole, 190n Strozzi Federico, 190n Strozzi Filippo, 190n Strozzi Gabriello, 190n Strozzi Galeotto, 191n Strozzi Giovan Battista il Giovane,

7, 185-230, 254 e n Strozzi Giovan Battista il Vecchio,

224n, 226n Strozzi Giovan Battista marchese di

Forano, 205n Strozzi Giulio, 190n, 368 e n Strozzi Iacopo, 190n Strozzi Lamberto, 190n Strozzi Leone, 190n Strozzi Lodovico, 191n Strozzi Lucrezia, 190n Strozzi Luigi, 192, 193-194 e n Strozzi Massimiliano, 190n Strozzi Niccolò, 190-191n, 193 Strozzi Orazio, 190n Strozzi Palla, 190n Strozzi Pietro, 190-191n, 197 Strozzi Pompeo, 190n Strozzi Roberto, 190n Strozzi Tommaso, 190-191n Strozzi Tovaglia Faustina, 190n Strozzi Vincenzio, 190n Strunck Christina, 221n Stumpo Enrico, 160n Suárez Sebastian, 196 Susinno Urbano, 383n

Sutherland Nicola Mary, 204n Tabacchi Stefano, 148n, 204n Tacito Publio Cornelio, 256 e n,

343 Takahashi Kenichi, 282n, 295n-

297n, 301n Talamona Antonio, 361, 375 e n,

376 Talenti Grisostomo, 340 Tallon Alain, 371n Tamburini Elena, 215n Tani Irene, 144 Tanturli Giuliano, 186n Targioni Tozzetti Giovanni, 213n,

440n Tarife, Marchese di vedi Fadrique

Enriquez, marchese di Tarife Tarino (eredi), stampatori, 410 Tarino Giovanni Domenico, 379 Tasso Bernardo, 108, 144, 195 Tasso Cristoforo, 178 Tasso Ercole, 179 Tasso Ettore, 179 Tasso Torquato, 144, 165-184,

185n, 186-187 e n, 196-197n, 206-208 e n, 210n, 224-225n, 229, 239, 256 e n, 257-258, 279, 281n, 284-285 e n, 302n, 303, 310, 317 e n, 321n, 358n

Tassoni Alessandro, 409n Taul Aurelio, 17n Taverna Dionigi, 383n Taverna Feliciano, 388n Taviani Fabio, 239 Tebaldeo Antonio, 27 Tebaldo Marchiano Giovan Batti-

sta, 326 Tedaldi Nunzio, 190n Tedeschi John, 139n Telesio Bernardino, 237 Tellini Giulia, 186n Tenenti Alberto, 433n Tenivelli Carlo, 391-392 e n, 393n,

394 Tesauro Emanuele, 359, 361 Tesauro Lodovico, 311n Testaverde Anna Maria, 202n

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INDICE DEI NOMI

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Tibullo Albio, 111 Tiepolo Lorenzo, 467-468n Tintoretto (Domenico Robusti),

234n Tintoretto (Jacopo Robusti), 121n,

234n Tiraboschi Girolamo, 282n Titi Roberto, 232n, 255n, 283n,

302 e n Tito, notaro, 69 Tobioli Tobia, 266-267, 268 e n,

269 Todeschino, comandante, 73-74 Togni Nadia, 222n Togno (Antonio) dell’Isola Santa,

43 Tolomei Claudio, 97-118 Tolomei Scipione, 255 Tomasi Franco, 198n Tomasini Giacomo Filippo, 326n,

358-359n, 368n Tomazzoli Gaia, 224n Tommasi Giugurta, 196 Tongiorgi Duccio, 409n Torniello Giambattista, 127 Torricella Domenico, 474n Tosin Luca, 359n Tostado Alfonso, 457 Totti, bandito, 59n Tozzi Pietro Paolo, 364-365 Travi Ernesto, 104n Trebbi Giuseppe, 158n, 359n Trezzi Graziano, 380, 383n Trincheri Pietro Andrea, 464 e n Trissino Gaspare, 386n Trissino Gian Giorgio, 97-98 e n,

99, 103, 107 e n, 114-115 Trissino Giovan Giorgio (XVII

sec.), 263, 264 e n Triveri Francesco Antonio, 440 Troilo Erminio, 452n Trovato Paolo, 98n, 103n, 187n Tucci Nicolò, 201n Tucidide, 343 Turchi Strozzi Caterina, 190n Turchini Angelo, 333n Turconi Alessia, 145n Turini Francesco, 333n

Ulivo da Ponteccio, 64, 65n, 72-73 Ulysse George, 165n Urbano VIII, papa (Maffeo Vin-

cenzo Barberini), 186, 190-191n, 195 e n, 213n, 218, 219 e n, 225, 229 e n, 230n, 296 e n, 325n, 346, 373n, 395, 402-403, 476n

Ussia Salvatore, 474n Vaccari Marco Antonio, 274n, 292 Vaccaro Sofia Emerenziana, 14 n Vaerini Barnaba, 461n, 475n Valencia Mirón Maria Dolores,

197n Valesio Giovan Luigi, 276, 277n,

282n, 288n, 294, 295-296 e n, 297n, 301 e n

Vallassina (Valassina) Carlo, 380n, 382-383n

Vallassina (Valassina) Valeriano, 380 e n

Valori Baccio, 191 Valseriati Enrico, 325n Valzania Antonio, 406 e n Van der Aa Abraham Jacob, 371n Van Gulik Guilelmus, 151n, 159n Van Haeften Benedictus, 393 Van Papenbroech Daniel, 472 Van Vugt Ingeborg, 467n Vandelli Vincenzo, 225n Vannozzi Bonifacio, 7, 188 e n, 231-

259, 264n, 284 e n Vanoli Paolo, 351n Vanti Giovanni Maria, 354n Varallo Franca, 238n, 248n Varchi Benedetto, 115, 138n Varrone Marco Terenzio, 101 Vasa Sigismondo III (Zygmunt

Wasa, re di Polonia), 238 Vasari Giorgio, 121n Vazzoler Franco, 220n Vecchietti Giovan Battista, 196 Vecellio Tiziano, 119-135 Vedova Giuseppe, 358n, 365n,

369n Veen Henk van, 187n Vegetti Stefano, 145n

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INDICE DEI NOMI

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Veltwijk Gerard, 155, 158 e n, 160 Venanzio Fortunato, 479 e n Venier Domenico, 22n, 132n Venier Francesco, 156, 159 e n Venier Giovanni Antonio, 156, 159

e n, 160 Venier Lorenzo, 132-133n Venier Sebastiano, 375 e n Verospi Fabrizio, 219 Vespucci Amerigo, 28, 224n Vetrugno Roberto, 166n, 169n,

176, 177n Vettori Pietro, 138 e n, 139, 141n,

188 e n, 302n, 386n Vida Agostino, 329 Vieri Francesco de’, 190n, 196, 197

e n Vigilante Magda, 286n Vignuzzi Ugo, 225n Vigone Francesco, 447, 461-463,

467, 468n Villa Augustino, 88n Villani Giovanni, 113 Villani Niccolò, 363n, 369n Vincenzo di Lérins, santo, 453,

465n Vinta Belisario, 190n, 196, 250n,

252 Viola Corrado, 9n, 145n, 167n,

185n, 256n, 262n, 331n, 358n, 360n, 439n, 442-443n, 451n

Virgilio da Castagneto, 48, 70n Virgilio Marone Publio, 107 Visconte Alfonso, 253n Vitale Maurizio, 105n Vitale Salvatore, 227n Vitali Francesco Maria, 278n, 286 Vitruvio Pollione Marco,112n Vittori Giovan Battista, 240 e n,

242, 246-247 Vittori Rodolfo, 438n Vittoria Alessandro, 234n

Vivarelli Maurizio, 238n Vizzani Pompeo, 306 e n Volpi Caterina, 358n Volpi Mirko, 384n Volterrani Silvia, 129n Von Pastor Ludwig, 219 e n Vorstius Adolphus, 371 e n Voss Gerhard Johannes, 373 Wadding Luca, 476n Weinberg Bernard, 207n Welser Marcus, 341 e n, 360, 372 Widmann Lodovico, 434 Wion Arnold, 329, 341, 406 Wolfe Michael, 204n Wós Jan Wladyslaw, 238n Wotton Henry, 278n Ximenes Tommaso, 191n Zabbia Marino, 363n Zaccaria Raffaella Maria, 147n Zaffetta Angela (Angela Dal Moro),

132-133 e n Zambelli Davide, 255n Zamboni Baldassarre, 326n, 333-

334, 347n Zamoyski Jan, 239 Zani Carlo, 209n Zanotto Bertolino, 53 Zardin Danilo, 213n, 237n Zen Benetti Francesca, 358n, 362n Zeno Apostolo, 360n Zerbi Marco, 388n Ziliolo Giovanni, 61 Zipoli Perlone (pseud. di Lorenzo

Lippi), 475 Zoppio Melchiorre, 249 e n, 250,

252 e n, 279, 287n, 302 e n Zoroastro, 101 e n Zuccho Gimignano, 61n Zwinger Theodor, 248n

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