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“Lei non sa chi sono io”

L’AutomobileUn secolo di evoluzione legislativa, sociale, culturale

prefazione di Altero Matteoli

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L’automobile e la sua storia. Una storia che coinvolge l’Auto-mobile Club d’Italia, le cui origini possono essere fatte risalire al1898 e che da allora promuove la mobilità e la sicurezza del cit-tadino.

Oltre un milione di soci, per un ente pubblico a base associa-tiva divenuto patrimonio indissolubile di tutti gli italiani. E cheha, con gli italiani, la stessa passione e lo stesso mito di sempre:quello dell’automobile.

Sino alla fine degli anni 60 l’automobilista denunciava la man-canza di infrastrutture e poco pensava all’inquinamento atmosfe-rico ed acustico; oggi è necessario invece tentare di risolvere lequestioni connesse all’ambiente ed al traffico, mentre le infra-strutture stanno faticosamente recuperando il gap accumulato inpassato. ACI è andata di pari passo con “questa storia”: dappri-ma si è battuta per affermare il diritto alla mobilità, oggi si battenondimeno per tutelare il diritto ad una mobilità sostenibile.

Per chi come me rappresenta un ente pubblico che ha vissutoin prima fila un’avventura iniziata poco dopo l’Unità d’Italia nonpuò quindi che essere un onore poter presentare un lavoro cheriassume in una parola quello per cui ACI nacque: l’automobile.

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui mi sento in doveredi ringraziare chi ha partecipato alla stesura del libro, con l’auto-revole prefazione del Ministro Matteoli, la Fondazione FilippoCaracciolo, che si distingue per la qualità dei suoi studi e delle suericerche e che sta ripagando appieno le aspettative di qualcheanno fa, quando ACI la costituì.

Enrico GelpiPresidente Automobile Club d’Italia

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PREFAZIONE

L’uomo del XXI secolo vive con e nell’automobile, maforse non la conosce abbastanza bene e non sa quanto que-sta concorra a disegnare il suo mondo.

È un tassello imprescindibile per capire le moderne socie-tà post-industriali, in quanto continua a ridefinire non solo ipaesaggi urbani, ma tutti i territori abitati dagli umani. Dalpunto di vista antropologico l’automobile può aiutarci a leg-gere come va trasformandosi l’uomo, come mutino le sueesigenze e i suoi bisogni e come li soddisfi.

Simbolo di libertà e di emancipazione, l’automobile èandata modificando sempre più radicalmente il nostro stiledi vita, cambiando, oltre le nostre abitudini quotidiane,anche lo spazio che ci circonda.

In questo testo ci è stata data la possibilità di compiere unviaggio per capire l’evoluzione dell’automobile, non solo dalpunto di vista storico e della meccanica ma anche, ed inevi-tabilmente, dal punto di vista normativo.

Vengono, altresì, presi in considerazione temi scottanticome l’inquinamento, perché che l’auto inquini è un dato difatto, ma che oggi l’industria sia più attenta e stia facendo ilpossibile per renderla pulita è un’evidenza: l’emissione zero,forse, non è più un’utopia.

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Questo volume è interessante anche per l’approccio posi-tivo nel riconoscere le grandi possibilità che la scienza offreall’uomo nel suo inevitabile rapporto con la natura.

Altero MatteoliMinistro delle Infrastrutture e dei Trasporti

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INTRODUZIONE

L’automobile si è da subito configurata come una sorta diparadigma dell’evoluzione dell’uomo, al punto da sconvol-gere il modo di vivere e di pensare dell’individuo. Non harappresentato soltanto un mezzo di locomozione ed un pro-dotto della tecnologia capace di rivoluzionare i trasporti ter-restri, ma è stata protagonista della trasformazione sociale,simbolo – allo stesso tempo – di libertà, indipendenza,benessere e progresso. Sin dalle sue origini, l’automobilerispose infatti all’esigenza dell’uomo di trovare – a seguitodella rivoluzione industriale, delle ultime grandi scopertegeografiche ed anche della bramosia di espansione e sopraf-fazione verso “un’altra umanità” – una soluzione alle distan-ze e ai tempi – lunghissimi – necessari per spostamenti dipoche centinaia di chilometri, sino a quel momento operatitramite carrozze e cavalli.In Italia, tuttavia, i primi anni della sua comparsa non sonostati soltanto caratterizzati da un susseguirsi di vittorie scon-tate. Agli inizi, l’automobile si è dovuta infatti scontrare conrealtà preesistenti, più economiche e sicuramente altrettantoinnovative. Su tutte la ferrovia, che divenne, tra il 1880 e il1920, il principale sistema di mobilità collettiva per migliaiadi persone. La ferrovia condensava, inoltre, tutto quanto di

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nuovo apparteneva all’industrializzazione e all’organizzazio-ne economica di stampo capitalista.La nascente civiltà industriale italiana si basava sulle macchi-ne e la locomotiva diventava la “macchina” per eccellenza,capace così di simboleggiare da sola il progresso presso tuttigli strati della popolazione italiana. È opportuno notare, adesempio, che nell’accesissima battaglia politica che contrap-pose capitalisti e forze anticapitaliste vi fosse un accordopressoché totale sui benefici del progresso industriale. L’in-fluenza della ferrovia sugli italiani comportava un’espansionedell’area e delle occasioni di mobilità, inizialmente privilegiodei più abbienti e delle persone istruite e poi gradualmenteestesasi alle altre fasce della popolazione. L’Italia si “accorcia-va” e le ferrovie, almeno negli anni di maggior sviluppo urba-no, iniziavano a scandire i tempi quotidiani della produzioneindustriale, affermando la prima “rivoluzione” della perce-zione spazio temporale collettiva.La sfera di mobilità individuale, invece, cominciò ad ampliar-si con la progressiva diffusione dell’automobile, un mezzo cuile principali caratteristiche – flessibilità d’uso e gestione indi-viduale – ne determinavano il crescente successo a svantaggiodei trasporti marittimi e ferroviari. In quanto oggetto dome-stico e privato, l’automobile entrava di diritto nella sfera indi-viduale, innescando notevoli conseguenze sia a livello micro-sociale che macrosociale.Provando a voler suddividere in tre macrofasi quelle che sonostate le “stagioni dell’automobile” si può senza dubbio affer-mare che nei primi tempi essa ha risposto all’esigenza prima-

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ria dell’uomo di muoversi; successivamente a quella dellaricerca di luoghi ove muoversi contribuendo, con lo sviluppodelle infrastrutture stradali, all’accorciarsi effettivo delledistanze; infine, all’applicazione concreta – rispetto al concet-to di libertà – della più riconosciuta massima secondo la qua-le “la propria libertà termina ove inizia quella degli altri”. Soprattutto negli ultimi trent’anni, l’automobile ha infattinon soltanto modificato la vita quotidiana; con l’avanzaredella “rivoluzione del motore” ha inciso anche sullo spaziofisico mutandolo radicalmente. Lo stesso spazio urbano, inol-tre, è apparso così ridisegnato in funzione della nuova mobi-lità e le modificazioni indotte dall’automobile hanno postoproblemi di libertà altrui del tutto nuovi: ambientali, territo-riali, di salute pubblica e di incidentalità. Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento sonostati dunque, per l’Italia, quelli del primissimo sviluppo e del-la rincorsa nei confronti dei grandi Stati europei, generalmen-te più avanti nel campo delle infrastrutture. Sono anni di for-tissimi investimenti nella rete di comunicazione nazionale, fer-roviaria prima e stradale poi, viste entrambe come indispen-sabili sia allo sviluppo economico sia alla progressiva integra-zione nazionale di comunità e società tra di loro diverse.Nei primi anni del 900 l’Italia sperimentava una forte adesio-ne culturale alle novità tecnologiche e di costume che lamodernizzazione portava con sé. In particolare, attraverso ilmovimento del futurismo, l’automobile sostituiva la locomo-tiva quale simbolo del progresso, e pochi anni dopo, durantel’epoca fascista, diventava sinonimo di potere e gerarchia.

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Mussolini stesso, in numerosi discorsi del tempo e con la suanota magniloquenza, esaltava l’automobile italiana rispetto aquelle straniere e la risonanza europea che stava avendoun’azienda come la FIAT. Allo stesso tempo l’automobilecostringeva il governo fascista a rispondere ad una domandasociale sempre crescente di realizzazioni di nuove infrastrut-ture stradali, sebbene il bilancio statale fosse impegnatoanche a garantire l’ammodernamento delle linee ferroviarie edel materiale rotabile.

Gli anni fra le due Guerre mondiali rappresentano, perciò, ilperiodo nel quale la società italiana registra e si adegua aimutamenti imposti dalla modernizzazione industriale, basatasui mezzi a motore e sul nuovo paradigma energetico delpetrolio. È il periodo nel quale si consolida l’immaginariorelativo all’automobile quale bene individuale e passaportoindispensabile per l’ingresso nella contemporaneità e nel futu-ro. Tuttavia, lo sviluppo economico italiano non permettevaancora la realizzazione di una motorizzazione di massa emolti si limitavano a sognare la propria auto continuando adusare i mezzi per la mobilità pubblica, ovvero treni, e in misu-ra sempre maggiore, autobus.Gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, furonoanni in cui l’Italia dovette fare i “conti” con la crisi socio-eco-nomica, derivata dal particolare momento storico. Si cercòdunque, di investire sull’intero settore industriale, ristruttu-rando i sistemi produttivi e organizzativi del lavoro. Nei pri-mi anni 50, l’automobile ebbe il suo più grande rilancio e la

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sua più diffusa commercializzazione: fu dunque il simbolotangibile che il settore economico aveva ripreso il suo svilup-po. La “società dell’abbondanza” determinò profondi muta-menti nel settore sociale, allineandolo alla realtà dei paesi piùricchi ed industrializzatisi per primi. La comparsa del consu-matore come motore di una perenne crescita economica; laprogressiva perdita dell’importanza dell’individuo come pro-duttore o lavoratore, a vantaggio del suo ruolo di utilizzato-re di beni e servizi; l’accresciuta capacità del sistema econo-mico di produrre o manipolare la domanda di bisogni trami-te un’influenza profonda sui simboli ed i segni dell’immagina-rio individuale e collettivo sono gli aspetti della società deiconsumi che non hanno mancato di riflettersi anche sul setto-re della mobilità.La mobilità individuale si trasformò in stile di vita e l’imma-ginario, nonché la produzione di automobili, si arricchironodi “modelli” in grado di rispondere ai nuovi protagonistisociali: la classe media, i giovani e le donne. Al di là della funzione di trasporto, il possesso di un’auto san-cisce il definitivo approdo nella società del benessere e deiconsumi e la spesa per l’auto, anche quando non soddisfa,rappresenta una priorità per le famiglie italiane. Gli enormiinvestimenti nella rete autostradale e la produzione di utilita-rie rendono possibile la motorizzazione di massa e alla finedegli anni 60 l’Italia imboccò definitivamente un modello disviluppo basato sul trasporto su gomma. Il bisogno di pro-durre più mezzi per aumentare il tasso di mobilità totale del-la società portò ad una ridefinizione della stessa organizzazio-

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ne produttiva dell’industria, ridefinizione conosciuta come“fordismo”. Cambiò, dunque, il concetto di produzione e di conseguenzasi modificarono lo spazio ed il tempo. Con essi cambiaronoanche gli italiani.Vittorio Foa scrisse in proposito: “per molto tempo abbiamopensato negli anni 60 a come ridurre i tempi di lavoro, ma glioperai ci dicevano che dopo cinque giorni di lavoro avevanobisogno di un giorno di riposo, il sabato, per poi potersidivertire la domenica. Questa cosa mi convinse e così vennelasciato libero il sabato… e tutti se ne andavano in macchina.Nasce il weekend, il mito del fine settimana. La macchinarendeva piccolo lo spazio e il tempo […]. L’automobile hacambiato la vita degli uomini e delle donne in modo radicalerendendo più semplice di prima la vita.”Durante i decenni successivi, differenti crisi economiche – tratutte, quella dell’Austerity del 1973 e del 1974 – comporta-rono un calo di vendite nel settore automobilistico. Tuttavia,il mito dell’automobile ha sempre retto a questi contraccolpimomentanei del settore, perché ha saputo rispondere allerichieste di mercato con la sua costante evoluzione tecnologi-ca, continuando ad essere parte determinante dello sviluppodella società nella quale insopprimibile per l’uomo diventasempre di più il diritto alla mobilità. Durante gli anni Novanta prese forza in Italia una critica allamobilità su gomma che introdusse nuovi elementi nel rappor-to tra società e mobilità. L’Italia iniziò ad assumere le carat-teristiche tipiche di una società moderna postindustriale. Si

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iniziò a considerare come acquisito per sempre il benessereeconomico e ad interrogarsi molto sulla direzione da dare almodello di sviluppo in vista delle sue esternalità negative: dal-l’inquinamento ambientale al disagio sociale e ai ritmi di vitastressanti.Si sviluppò, grazie anche al ruolo di indirizzo delle istituzionieuropee, un processo di ripensamento degli squilibri del siste-ma dei trasporti e lo studio di soluzioni che inglobassero inuovi concetti di “sostenibilità ambientale” e di riduzione dirischi per la sicurezza. La sfera della mobilità individuale con-tinuò ad espandersi, perché la motorizzazione privata rimaseil modello di sviluppo centrale e l’auto il mezzo preferito permuoversi. Cambiò, però, il modo di avvalersene con l’intro-duzione, in ragione proprio della lotta all’inquinamentoambientale ed acustico, di regolamentazioni e limitazioni allacircolazione soprattutto in ambito urbano. Cominciò anchela produzione di modelli di auto più sicure. Con i primi anni del XXI secolo, di fronte all’esistenza delleesternalità negative derivanti da un utilizzo troppo massicciodelle automobili, si sviluppò, pertanto, una domanda di sicu-rezza che potesse riflettere sia le preoccupazioni per l’inqui-namento ambientale sia quelle relative all’incidentalità deiveicoli. Veniamo a oggi. La crisi economica mondiale esplosa lo scor-so anno non poteva non provocare pesanti ripercussioni sulmondo dell’automobile e sulla domanda. Com’è noto, perrilanciarla i governi dei più importanti paesi hanno decisointerventi finanziari di sostegno al settore che stanno portan-

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do una boccata d’ossigeno vitale all’economia dell’auto. E’necessario, però, consolidare i risultati raggiunti e dare unquadro di riferimento più duraturo perché l’industria auto-mobilistica rimane il principale volano di sviluppo. In tal senso, è oltremodo significativo che Barack Obama, nel-la sua prima conferenza stampa da Presidente degli Stati Uni-ti d’America, tra le prioritarie linee programmatiche del suogoverno ha rappresentato l’esigenza di salvare il mercato del-l’automobile americano. E che durante il suo discorso inaugu-rale di insediamento a presidente ha affermato: “lo Stato del-l’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo[...]. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifor-nire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche”[...].Per il XXI secolo si preannuncia, dunque, una nuova grandesfida: economica, ambientale e di sostenibilità energetica.Vi si può vedere la ricerca di preservazione di un settore eco-nomico che assicura centinaia di migliaia di posti di lavoroma soprattutto la ricerca del salvataggio di un simbolo – l’au-tomobile – che proprio in America ebbe inizio con il modello“T” di Henry Ford, rappresentativo della motorizzazione dimassa e che ancora oggi, nonostante tutto, rimane protagoni-sta della società moderna.

Ascanio RozeraSegretario Generale Automobile Club d’Italia

Presidente Fondazione Filippo Caracciolo

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PARTE PRIMA

UN SECOLO DIEVOLUZIONE LEGISLATIVA

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L’ERA DELL’AUTOMOBILE

Era la notte di una torrida giornata d’estate, il 29 luglio del1900, quando il re d’Italia Umberto I, rientrando nella villaReale di Monza, morì per un colpo di pistola sparato dal-l’anarchico Gaetano Bresci1. I cavalli, sferzati continuamen-te dal cocchiere, per portare il re agonizzante a casa, traina-rono quella che per secoli era stata l’unica vettura disponibi-le: la carrozza. Per millenni, infatti, “l’uomo a cavallo” erastato l’archetipo della libertà di movimento, di andare da unluogo all’altro sino a quando, con la fine del XIX secolo, siaprì una nuova epoca, dominata da un inedito mezzo di tra-sporto: l’automobile; da quel momento nulla rimase piùcome prima …

LA NASCITA DELL’AUTOMOBILE. A partire dalla fine dell’800 e durante tutto il 900, dapprimain alcuni paesi europei, successivamente negli Stati Uniti, siiniziarono a sperimentare “veicoli” terrestri che non eranoaltro che evoluzioni di carrozze, ove il cavallo veniva sosti-tuito da un motore a combustione interna2. Tuttavia questotipo di motore creò non pochi problemi. Per metterlo in

1. La leggenda vuole che l’anarchico Bresci volle vendicare in questomodo la repressione dei moti popolari del 1898.2. Da qui l’espressione, utilizzata ancora oggi, di cavalli motore.

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moto infatti bisognava accendere il carbone nel focolare easpettare che l’acqua bollisse nella caldaia; per poi regolarel’afflusso del vapore del cilindro e manovrare un veicolo mol-to complicato. Per non parlare poi della mancanza di un siste-ma frenante efficiente. Infatti il più delle volte questi prototi-pi di vetture si fermavano solo perché finivano contro unmuro. I primi esprimenti di automobile non andarono quindi abuon fine, e fu soltanto quando, nel 1886, Gottlieb Daimler,insieme a Karl Benz, progettarono un nuovo motore, quelloa scoppio, caratterizzato da nuove dinamiche e da un nuovocongegno (il carburatore), che il processo di sviluppo auto-mobilistico ebbe una fase di accelerazione. Detta accelerazio-ne venne completata poi dallo sviluppo del “modello T” diHenry Ford, che, all’inizio del XX secolo, realizzò il sognodella motorizzazione di massa, essendo capace di soddisfarela richiesta di un’intera società. Il sogno di Henry Ford era quello di costruire un’autovettu-ra solida e semplice, ad un prezzo molto basso, da consentir-ne a chiunque l’acquisto. Quell’automobile, tanto pensata,fu appunto il modello “T”, che divenne, proprio perché con-siderata alla portata di tutti, la più conosciuta e famosa chesia stata mai costruita3. In totale furono prodotte 15.007.033 Ford Model “T”; le pri-me costavano 850 dollari USA, contro i 2.000-3.000 dollari

3. www.mirandaautomotive.it.

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delle vetture concorrenti; gli ultimi prototipi, grazie all’aumen-to di efficienza e di volume della produzione, arrivarono acostare meno di 300 dollari USA! Circa 3.000 dollari attuali!E se pensiamo che a quel tempo la paga media di un lavora-tore dipendente era di circa 5,5 dollari al giorno (i dipenden-ti Ford venivano pagati 8 dollari al giorno)4, ci rendiamoconto di quanto fosse conveniente quella vettura.Il modello “T” ottenne l’approvazione di milioni di america-ni, che affettivamente la soprannominarono “Lizzie”(utilitaria).In Italia e nel resto dell’Europa, invece, la diffusione dell’au-tomobile fu molto più lenta, perché gli alti costi di produ-zione utilizzati per soccombere alla scarsa funzionalità del-la meccanica fecero diventare questo veicolo un mezzodestinato da una parte ad una clientela aristocratica e facol-tosa, che poteva permettersi gli alti costi ed era in grado diapprezzarne la qualità (P. Ferrari “L’evoluzione dell’inge-gneria stradale nel corso del XX secolo”) e, dall’altra, ven-ne devoluta principalmente al “trasporto pubblico” che,però, “fece fatica” ad imporsi sul trasporto ferroviario esulle più economiche, confortevoli e rassicuranti carrozzetrainate dai cavalli.Così, fino a dopo la Prima Guerra Mondiale, i costruttori diautomobili non si impegnarono nella standardizzazione enella commercializzazione del prodotto, ma preferirono

4. www.mtfca.com.

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destinare i loro veicoli ad un pubblico d’élite, che li avreb-be utilizzati principalmente nelle gare sportive e lasciati gui-dare a terzi, i c.d. “chauffeur”, esprimendo in tal modo,anche nei trasporti, il divario sociale fra ricchi e poveri5. I primi automobilisti furono, pertanto, oggetto di avversioneda parte della popolazione, furono esposti all’arbitrio deipoliziotti e dovettero altresì guidare con le difficoltà causatedai pedoni, non adeguatamente disciplinati, e dai carrettieri,che si ostinavano ad impedire loro il passaggio.Immaginate quindi cosa abbia provato un tal Gaetano Ros-si, industriale dell’epoca, di Piovene Rocchette (VI), che ebbel’idea di acquistare per primo la prima auto in Italia, trovan-dosi a guidare liberamente a fianco di pedoni o di cavalli ebuoi, che, non abituati ad un “arnese” tanto rumoroso, sispaventavano, facendo andare a finire molte carrozze e car-ri dentro i fossi. E tutto questo in un’Italia rurale, con enor-mi problemi di integrazione sociale, in un periodo in cui ilricordo della spedizione di Garibaldi e dei suoi mille era

5. Per una più approfondita disamina sull’argomento cfr. BOATTI G.,Bolidi:quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Milano,2006; COGOLLI P. e PRISCO G., Polvere e Benzina, 80 di AutomobileClub a Perugia, 2006; CUCCO L., Storia dell’automobile, Torino, 1961;BOSCHI S., Nacque un giorno l’automobile, Bologna, 1963; ANDREO-NI P., Libertà di Andare, Milano, 1999; GIARDIELLO M., SCOTTO F.,AGNENI L., ARIOSTO A., AVERSA A., BOREA F., CILIONE M.;GUERCI A., PAGLIARI E., PASCOTTO L., PENNISI L., Mia Carissimaautomobile, la spesa degli Italiani per l’Automobile, Fondazione FilippoCaracciolo, 2006.

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ancora vivo e dibattuto… nel 1893 insomma!6

Cinque anni più tardi con l’aumentare del numero delle mac-chine, nel 1898, sorse a Torino, l’ACI (Automobile Clubd’Italia), un ente, con la finalità di rappresentare gli automo-bilisti italiani.

VERSO LE PRIME NORME SULLACIRCOLAZIONE STRADALE.Il graduale sviluppo dell’automobile e l’influenza che essaebbe sul costume fece emergere un’importante esigenza perl’unificazione del Paese: bisognava costruire strade, pensa-re ad una segnaletica condivisa da tutti, ma soprattuttoimporre in termini più rigorosi la necessità di una discipli-na della circolazione uniforme per tutto il territorio nazio-nale, come regolamento composto di norme tecniche sem-plici e chiare e come sistemazione giuridica di rapportisempre più numerosi e complessi derivati dalla mobilitàstessa. Per lungo tempo, però, non si ebbe una vera e propria trat-tazione sistematica della materia, limitandosi le autorità pre-costituite a emanare saltuarie disposizioni per regolare la cir-colazione dei veicoli, sino a che i vari rapporti generati daquesti non vennero disciplinati con norme regolamentari

6. Rivista Club Storico Peugeot Italia n. 1 2006 – “Peugeot. Una storiaItaliana” edizione 2000 – Questo signore si trovò ad acquistare un’au-tomobile perché in uno dei suoi tanti viaggi conobbe un francese di nome

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che, però, “fecero fatica” ad imporsi come modello di com-portamento per il cittadino che si adeguò ad esse con nonpoche difficoltà.Le conseguenze sul piano della chiarezza e conseguentemen-te della sicurezza sembrarono presto paradossali perché talinorme a volte vennero comprese nel Regolamento generaledi polizia stradale, altre costituirono un distinto e separatogruppo di disposizioni adottate dai vari comuni.Pertanto capitava, in quegli anni, che in alcune città comequelle della Lombardia nella circolazione stradale si tenevala destra, mentre in altre Regioni si teneva la sinistra: adesempio a Torino le automobili procedevano “a manca” perseguire i tram, che nell’intero Paese apparvero ad imitazionedi quelli inglesi che procedevano, appunto, a mancina. Ma ledifficoltà erano maggiori nelle città in cui, addirittura, siproseguiva in un senso nell’interno dell’abitato (quartiere) ein senso inverso al di fuori. Tali erano le differenziazioni,caratterizzanti le diverse parti della penisola nelle consuetu-dini stradali.Dunque uniformare la disciplina, secondo regole comuni, perla formazione di una coscienza giuridica e psicologica neiriguardi della circolazione, fu compito difficile, in un Paese direcente unificazione come l’Italia.

Armand Peugeot, costruttore di automobili, e fu da lui che nell’invernodel 1893 comprò il modello Peugeot Tipo 3 telaio numero 25 motoreS.G.D.G. numero 124, detta comunemente “Vis a Vis”.

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Per avere un’omogenea legislazione all’interno del territorionazionale si dovette attendere il 19017 quando, il nuovo reVittorio Emanuele III col R. D. 20 gennaio 1901, n. 28 pro-mulgò il “Regolamento per la circolazione delle automobili”. Questo Regolamento non venne accolto con favore, la suaemanazione fu per le Istituzioni occasione di discussioni einterrogazioni parlamentari e per gli industriali del tempo fuun modo per dar vita ad una serie di commenti negativi, per-ché completamente in disappunto. Senza mezzi termini ilRegolamento venne considerato un “aborto legislativo” […]

7. Prima di tale momento storico il testo più remoto era quello del 15novembre 1868: il Regio Decreto n.4697, a firma di Vittorio EmanueleII, che approvò il Regolamento di polizia stradale e per garantire la liber-tà di circolazione e la materiale sicurezza del passaggio. Unificato ilRegno d’Italia, si presentò, infatti, subito la necessità di coordinare levarie disposizioni di legge in materia di strade, vigenti nei singoli Stati neiquali l’Italia era divisa. Dopo un generico richiamo alla legge del 20 mar-zo 1865 sulle opere pubbliche e dopo numerose norme intese alla con-servazione delle strade, venivano le disposizioni relative ai veicoli a tra-zione animale. Un apposito capo del decreto riguardava la circolazionedi locomotive mosse dal vapore o da altra forza fisica sulle strade ordi-narie: vari precetti erano attinenti alla licenza per l’esercizio di trasportocon tali mezzi mentre altri erano relativi alle prime norme di comporta-mento inerenti all’illuminazione, alla velocità nei crocevia, alle soste. Lostesso antico testo prevedeva le penalità per i trasgressori e le norme perl’accertamento delle contravvenzioni, comprese quelle relative all’obla-zione. La legge 22 luglio 1897 n. 318 invece impose una tassa di circo-lazione sui velocipedi e demandò al governo, con l’art. 14, la emanazio-ne di un regolamento per la circolazione dei velocipedi”. In tal senso v.DUNI M., Scritti giuridici sulla circolazione stradale, Piacenza, 1964.

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“non c’è persona di buon senso, che abbia qualche lontananozione di automobilismo, la quale non giudichi questoregolamento un centone di spropositi, tanto dal lato pratico-tecnico quanto dal lato giuridico”8. Infatti il Ministro dei Lavori Pubblici di allora, GerolamoGiusto, si accorse che quello che gli era stato consegnato dalsuo predecessore, Ascanio Branca, era un testo redatto dafunzionari e consulenti che, probabilmente, erano inespertidel nuovo mezzo e quindi incapaci di poter stilare una norma-tiva adatta alle esigenze della civiltà. Da qui anche le protestedel Touring Club Italiano9 e dell’Automobile Club d’Italiapoiché il Regolamento rappresentava la necessità ineluttabiledi un adeguamento ai bisogni che erano scaturiti dall’espe-rienza quotidiana derivante dall’uso del mezzo circolante. Mentre aleggiavano questi malumori, proprio nello stessoperiodo e precisamente il 27 aprile del 1901, fu organizzatala partenza per il primo Giro d’Italia automobilistico, delladurata complessiva di 16 giorni.L’impresa aveva principalmente lo scopo di propagandarel’automobile, invogliando gli italiani ad acquistarla e a ser-virsene.Il traguardo venne raggiunto l’11 maggio. Dei settantadueiscritti, ne erano partiti effettivamente trentadue e ne arriva-rono trenta.

8. Frase di un articolo della rivista “L’Automobile”, 1 marzo 1901.9. Meritevole associazione nata l’8 novembre del 1894 in Milano, con loscopo di favorire in ogni modo lo sviluppo del turismo in Italia.

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Vi era un piccolo regolamento del Giro stabilito dal Comita-to organizzativo che doveva essere seguito da tutti, per esem-pio le macchine dovevano sempre tenere il numero d’ordinedi partenza, ossia non potevano superarsi e dovevano man-tenere una velocità media di circa 30 km. Tutti i partecipan-ti all’atto dell’iscrizione dovevano pagare una tassa chesarebbe servita per il pagamento di rifornimento di olio e dibenzina, per il servizio di acqua per la lavatura, per la rimes-sa e per la custodia delle automobili.Nonostante per tutti e sedici i giorni della manifestazione siscatenarono diluvi, fulmini, acquazzoni, tormente di pioggiae vento e tutti i partecipanti, oltre ad essere immersi nel fan-go, erano costretti quotidianamente ad una ricerca disperatadella benzina, perché mai videro arrivare nei luoghi di tap-pa, mediante il trasporto ferroviario, le taniche, che eranostate menzionate alla partenza, dall’organizzazione, i parte-cipanti trovarono sempre tuttavia il modo di divertirsi. Adogni tappa venivano accolti da una folla che li acclamavacon euforia, da bande musicali, autorità schierate, bandieresu tutti i balconi, mazzi di fiori gettati a profusione. Veniva-no anche invitati a partecipare a banchetti suntuosi, a tavo-le bandite, a spettacoli, a cene di gala. Purtroppo tuttavia, durante la manifestazione, avvenne unincidente, nel quale perse la vita una bambina di undici anni,Armida Montanari, travolta dall’automobile di uno dei con-correnti partecipante al Giro. Il conducente elargì 1000 lirealla famiglia in lutto e 500 lire ai poveri del paese.Tutti glialtri conducenti fecero una colletta per dotare il villaggio di

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un asilo (furono raccolte ben 2000 lire). Ci fu una grandeemozione per l’accaduto e molti rifletterono su ciò che siandava pubblicizzando con quell’evento: un mezzo di tra-sporto causa di disgrazie? E ancora cominciò da qui l’esigen-za di una cultura sulla sicurezza stradale?Però tutto poi riprese “nella normalità” e fino alla fine delgiro non diminuì il tono festoso. Alla chiusura, in uno degliultimi banchetti del Giro d’Italia fu esposto un “artisticoautomobile di croccante”10. Nel frattempo sul finire di maggio, a Bologna, il TouringClub Italiano tenne un Congresso Nazionale e votò affinchéper il Regolamento promulgato da Vittorio Emanuele III,venisse deciso, una volta per tutte, quale fosse la mano datenere sulle strade d’Italia e avanzò la proposta che i veicoli“fossero obbligati a tenere la sinistra all’incontro di altri vei-coli e la destra nell’oltrepassarli”. Chiaramente il modello diriferimento fu quello inglese ma non venne adottato a lungo,infatti, già pochi mesi dopo, il 28 luglio del 1901, venneapprovato con Decreto Regio n. 416 un nuovo Regolamen-to stradale, in sostituzione di quello varato precedentementee definitivamente cassato.La disciplina della circolazione risultava ripartita in tre testinormativi: il regolamento sulla circolazione dei veicoli edegli animali (R.D. 10 marzo 1881 n. 124); il regolamento

10. Donatella Biffignandi, marzo 2001 - Giro d’Italia del 1901.www.museoauto.it. Si ricorda altresì che agli inizi del 1900 la parola au-tomobile era considerata come un sostantivo maschile.

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sulla circolazione dei velocipedi11 ed infine il testo relativoalla disciplina della circolazione delle automobili.La Rivista l’Automobile del 1 ottobre 1901, pubblicò, in duepuntate, il testo integrale del Regolamento: “Quell’abortolegislativo che fu il Regolamento 28 luglio 1901 sulla circo-lazione delle automobili comincia a far parlare di sé. Nellesfere amministrative non sanno raccapezzarsi per rendereattuabile ciò che non è né potrà mai essere logicamenteattuato. Intanto per ora il motorista ossequiente delle leggi èmandato da Erode a Pilato, e può già fare un istruttivo eser-cizio colla sua macchina viaggiando dal Prefetto alla Que-stura, da questa al Sindaco, al genio civile ed a tante altreautorità”12. In tale Regolamento erano, appunto, racchiuse le primedisposizioni inerenti “agli automobili”13 e quindi alle verifi-che tecniche e alle caratteristiche di sicurezza. Era espressa-mente previsto che il “congegno meccanico” dovesse averedispositivi di sicurezza tali da evitare incidenti o esplosioni edovesse addurre il minor possibile incomodo per il pubblico.Ogni veicolo doveva portare sul davanti due fanali, uno aluce verde da collocarsi a sinistra e dietro un fanale a lucerossa. Non mancavano, (seppur notevolmente criticate, per-

11. R.D. 16 dicembre 1897 n. 540. Il Velocipede è secondo l’accezionecomune, il nome attribuito all’antenato dell’odierna bicicletta.12. Donatella Biffignandi, marzo 2001 - Giro d’Italia del 1901 -www.museoauto.it.13. V. nota 12.

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ché giudicate ridicole), le norme relative a “un segnale diavviso speciale a uso esclusivo degli automobilisti” e cioè ilclacson. Non furono ben accette le disposizioni che di fatto introdus-sero la licenza a guidare, ovvero la patente. La tesi deglioppositori a questa norma si basava sull’assunto secondo ilquale lo Stato, in questo modo, si sarebbe fatto dispensato-re di abilità e capacità nel tenere la guida, cosa che in realtà,non poteva essere valutata e constatata con obiettività.Insomma il rilascio della patente avrebbe potuto infondere,ai neoguidatori, una falsa sicurezza, portatrice di guai.Comunque conseguire un particolare documento per la gui-da, divenne obbligatorio a partire dal 1905, fino ad alloraera prevista una licenza costituita da un libretto sul qualedovevano essere annotate le eventuali contravvenzioni. In quell’anno il signor Carlo Carulli, divenne il primo citta-dino di Cremona in grado di guidare un’auto a tutti gli effet-ti. Infatti sostenne l’esame di guida che si concretizzò in unapasseggiata dove lui stesso illustrò all’ingegnere che lo stavaesaminando i particolari tecnici del veicolo a motore. Otten-ne così la licenza di conduttore. Il signor Carulli decise, apartire dal 1910, di costituire la prima attività di serviziopubblico; allora una corsa in città costava lire 1,50 ma per ilunghi viaggi si richiedevano dagli 80 ai 90 centesimi al Km.Il costo della benzina era di 40 centesimi al litro14.

14. La Storia di Carlo Carulli (1880-1943) - www.museoautobile.it.

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Per il trasporto di persone, lo “chauffeur” Carulli utilizzavauna “Gnome”, un’automobile dotata di trasmissione finale acatena della quale lui stesso fu meccanico autodidatta.

MANO DA TENERE NEL REGOLAMENTODEL 1905 E SUCCESSIVI TESTI NORMATIVI.Come è emerso nelle discussioni precedenti, una delle que-stioni più complesse in materia di circolazione stradale fuquella della mano da tenere, che sembrò essere apparente-mente superata con il Regio Decreto 8 gennaio 1905 n. 24denominato “Regolamento di polizia stradale e per garantirela libertà della circolazione e la sicurezza del transito sullestrade pubbliche”. Con tale testo, infatti, venne introdotta lanorma per la quale i veicoli nel procedere sulla strada dove-vano tenere costantemente la destra e solo per oltrepassarnealtri veicoli la sinistra15. Tuttavia alle città che avevano più di25.000 abitanti fu riservata la facoltà di prescrivere che all’in-terno del loro abitato si potesse tenere la sinistra, purchéprovvedessero ad avvisare gli stranieri tramite la segnalazio-ne di appositi cartelli con la scritta “Tenere la sinistra”. Nederivò, com’è facilmente intuibile, una gran confusione.Per il resto il Regolamento del 1905, sostanzialmente, ripro-dusse con qualche modifica le disposizioni relative alla con-servazione delle strade, diede ordine alle norme sulle auto-mobili introducendo l’obbligo della targa anteriore e poste-

15. Così DUNI M., op. cit.

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riore, indicante sia il numero della provincia sia quello d’or-dine progressivo. Quanto alla velocità furono stabiliti i limi-ti massimi di 12 km/h negli abitati (trotto di un cavallo) e di40 km/h in aperta campagna e inoltre non solo ci si sarebbedovuti adeguare alle ulteriori disposizioni eventualmenteemesse dai Comuni, ma lo “chauffeur” avrebbe dovutomoderare la velocità in tratti di strada pericolosi (curve, dos-si, pendenze) “ogni qualvolta vi fosse stato pericolo di acci-denti, o di spavento a persone o ad animali”. Il termine accidente non a caso veniva utilizzato, dal Rego-lamento del 1901.L’etimologia della parola (colpire improvvisamente, veniredall’alto), infatti, indicava la fatalità che, ai tempi, si attri-buiva all’accaduto nel caso in cui l’automobilista, presod’impeto, si spingeva a velocità mai conosciute. Successiva-mente il termine venne sostituito, sia da parte della stampache del linguaggio comune, dalla parola incidente16. Dunque,secondo un’interpretazione, (forse un po’ di ampio respiro),si passò da una visione fatalistica dell’evento ad una visionerazionale, dovuta ad un fatto, un evento che interrompeimprovvisamente il procedere regolare di un’azione a causadell’irregolarità del manto stradale.Dopo appena quattro anni dall’entrata in vigore della nor-mativa del 1905, fu per la prima volta esattamente indicato

16. Il cui significato – dal latino incidere – sta per l’incontro tra linee chesi muovono sullo stesso piano.

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l’oggetto della disciplina e l’autorità amministrativa prepo-sta a questo settore. Invece due importanti elementi, assenti nei testi precedenti,vennero considerati nell’art. 1 del Testo normativo del 1909così specificati: “Tutti i veicoli a trazione meccanicadestinati a circolare senza guida di rotaie sulle strade ordina-rie, sono soggetti alle norme del presente Regolamento esono sottoposti alla vigilanza del Ministero dei Lavori Pub-blici (Ufficio speciale delle ferrovie)17.Risultò più dettagliata ed esauriente la disciplina dell’ammis-sione alla circolazione per ciò che concerne la fase degliaccertamenti tecnici della idoneità dei veicoli e quella delrilascio della carta di circolazione. Venne inoltre introdottala nozione di “destinazione ad uso pubblico” dei veicoli,solo presupposta dai precedenti testi.Dall’esame delle norme sin qui analizzate risulta come lamateria della circolazione stradale sia stata sempre di com-petenza degli organi del potere esecutivo, ne conseguiva, per-ciò, che l’abbondanza di Regolamenti, che modificavanocontinuamente le norme, aggrovigliasse la materia più diquanto non la chiarificasse.

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17. Il Regolamento del 1909 era distinto in cinque titoli: il primo relati-vo alle norme generali sulla circolazione (artt. 1 a 15), il secondo conte-nente le disposizioni relative ai veicoli ad uso privato; il terzo quelle rela-tive ai veicoli in servizio pubblico (artt. 29 a 56); il quarto le norme rela-tive alle contravvenzioni (artt. 57 a 66) ed il quinto disposizioni genera-li e transitorie (artt. 67 e 69). In tal senso DUNI M., op. cit.

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Giustificabile fu, pertanto, la promulgazione della legge 30giugno 1912, n. 739 nella quale furono fissati i principigenerali della disciplina della circolazione dei veicoli a tra-zione meccanica, ossia: i poteri delle autorità amministrati-ve, l’ammissione alla circolazione dei veicoli, l’accertamentodell’idoneità dei conducenti, nonché i casi in cui il relativocertificato per la guida (patente) dovesse essere ritirato e infi-ne taluni precetti di comportamento con la conseguente pro-cedura di accertamento delle contravvenzioni. Tutto ciò alloscopo di richiamare solennemente i cittadini, a garanzia del-la sicurezza e dei diritti di tutti, alla osservanza degli obbli-ghi loro imposti da una prudente circolazione stradale.Data la natura tecnica di molte disposizioni fu previstal’emanazione di un Regolamento, approvato con R.D. 2luglio 1914 n. 811, di attuazione della legge menzionata. In tale testo furono introdotte anche una serie di nuovedisposizioni quali la disciplina del servizio di piazza, le scuo-le per i conducenti e i segnali stradali.

I TENTATIVI DI AGGIRARE LE NORMEDA PARTE DEI “PREPOTENTI DEL POTERE”.L’irruzione del nuovo mezzo intaccò le certezze e destabiliz-zò i ruoli. In particolare l’ostilità tra chi stava al volante e chi eraaddetto a far rispettare le prime norme sulla circolazione eramolto frequente agli inizi del 900, quando ancora non veni-va avvertita la funzione deterrente delle stesse. Tra i molti procedimenti giudiziari relativi al rapporto tra i

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tutori dell’ordine e il guidatore, merita di esserne segnalatouno. Il fatto è riportato in un verbale di contravvenzione del31 ottobre 1911 esteso da Giuseppe Fiorini, brigadiere diPolizia urbana nel Comune di Cesena. Dall’atto si evince chementre il tutore dell’ordine era in servizio vide arrivare unauto che avvisava i passanti con una tromba a diversi suoni,comportamento vietato dall’art. 6 del Regolamento del 29luglio del 1909. Dopo aver intimato al guidatore di non usa-re quel suono, il brigadiere riferì di essere stato aggreditoverbalmente e con disprezzo dall’automobilista con taliparole: “farà i conti con me, sono un deputato e prima dipagare devono demandare l’autorizzazione a procedere”.Subito dopo, il brigadiere raccontò che l’uomo si era allon-tanato continuando a suonare la tromba a forti suoni, conevidente disprezzo nei confronti delle autorità18. Nel corso dell’anno precedente, diversi colleghi del deputatoin questione, erano stati sottoposti a contravvenzioni strada-li per eccesso di velocità e invece di porre mano al portafo-glio e pagare, si erano tutti rifiutati di sottostare all’oblazio-ne prevista dall’articolo 67 del Regolamento di Polizia del1905. Avrebbero dovuto “sborsare” in realtà poche decinedi lire, ma si rifiutavano di farlo perché ritenevano la loroparola più degna di rispetto, di quella dei tutori dell’ordine.Ad esempio nel caso di altro deputato e principe, AlbertoGiovannelli–Chigi, le contravvenzioni accumulate per ecces-

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18. Per un ulteriore approfondimento vedi BOATTI G., op. cit.

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so di velocità, furono due. Anche in questo caso si assistetteal rifiuto dell’oblazione. Ovviamente, il problema non stavaaffatto nelle decine di lire da pagare, ma nel dimostrarequanto un modesto tutore dell’ordine non potesse e nondovesse invadere l’intangibilità di un potente.

LA NASCITA DEI CARTELLI STRADALI.Nella rivista mensile del Touring Club Italiano di allora sileggeva: “Se dall’alto delle Piramidi quaranta secoli di storiaconsigliavano i soldati di Napoleone, dall’alto del suo palo,di ferro o di legno, il cartello consiglierà i turisti che passa-no per la via”.Un ruolo fondamentale per il miglioramento del servizio disegnaletica stradale lo ebbe il Touring Club Italiano. Per faci-litare e garantire un più agevole passaggio o permanenza nel-le singole località ai suoi soci, l’Associazione ebbe anchecome obiettivo quello di curare la manutenzione delle vie dicomunicazione, nonché quello di collocare speciali indicato-ri ai crocicchi delle strade ed in località pericolose19. Fu la prima volta in cui vennero menzionati i segnali strada-li, nei confronti dei quali sin da subito il Touring Club Italia-no mostrò un vivo interesse, tanto è vero che in una dellerelazioni del neoformato Consiglio si leggeva: “una sommaimportante dovrebbe essere appostata in bilancio per dare a

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19. Sul punto è possibile consultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., QuoVadis? Storia della segnaletica stradale, per Auto d’Epoca, 29 settembre2006 in www.museoauto.it.

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questo servizio un certo sviluppo contemporaneamente intutta Italia”.Grazie all’iniziativa di cui il Touring Club Italiano si fecepromotore furono raccolti negli anni fondi da parte di citta-dini privati, amministrazioni comunali e provinciali, delega-zioni consolari dello stesso TCI e da società di vario genere.Un’impresa difficile che dovette fare i conti tra i vari proble-mi, con la morfologia eterogenea del nostro territorio, con lascarsa alfabetizzazione e con il susseguirsi delle due guerremondiali.A tal proposito ricordiamo l’operazione “cartelli indicatori”che, però, ebbe un esito difforme nelle varie regioni d’Italia.Infatti, sui 1219 cartelli collocati durante il 1903, ben 834erano disposti nell’Italia settentrionale, 288 in quella centra-le, 45 nell’Italia meridionale e solo 14 in Sicilia20.Il collocamento di questi cartelli, indicanti il nome dellalocalità, una freccia, un dato chilometrico rappresentò ancheuno strumento pubblicitario per i soci del TCI. La rivista del-l’associazione del maggio del 1903 così scrisse: “Insieme alconsiglio il turista potrà mandare un saluto non solo al TCIma anche al buon socio che si sarà assunta la spesa del car-tello, e il cui nome apparirà sul cartello stesso, come la car-ta da visita di un amico”.L’idea del Touring Club Italiano si rilevò presto vincente eparticolarmente attraente per i nostri vanitosi concittadini di

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20. In tal senso G. BOATTI, op. cit.

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allora che poterono leggere il proprio nome sulle strade.A tal fine ogni mese nelle riviste erano pubblicate “le schededi sottoscrizione per cartelli indicatori” in cui poter inserirele proprie offerte, dieci lire per un cartello la cui collocazio-ne sarebbe stata decisa dal TCI e venti lire per un cartello acollocazione decisa dal donatore.Tra i firmatari illustri vi fu anche il re d’Italia Vittorio Ema-nuele III che mise a disposizione del Touring Club Italianoben 1000 lire, perché venissero utilizzate nel collocamento dicartelli nella provincia di Roma, (così scrisse il Ministro del-la Casa Reale, gen. Ponzio Vaglia).Per diffondere il maggior numero di segnali stradali l’Asso-ciazione decise di fornirli alle pubbliche amministrazioni tra-mite una circolare, con cui spiegò i criteri da seguire nellaloro sistemazione e i dati tecnici per la loro messa in opera.Per esempio venne indicato che i pali dovevano essere “pre-feribilmente di legno di castagno, con altezza di metri quat-tro circa e il diametro da 12 a 15 centimetri. La parte dainfiggersi nel terreno doveva essere abbruciata o, perché vipossa solidamente aderire, si consiglia munire la base conqualche mensoletta e gettarvi sopra, riempiendo la buca, del-la malta grossolana fatta con calce idraulica”. Sempre nellacircolare vennero menzionate le diverse categorie di segnala-zione: i cartelli di direzione, quelli di rallentamento e quellidi pericolo. Occorre ricordare che il Touring Club Italiano non si limitòad ottemperare alle prescrizione della Lega Internazionaledelle Associazioni turistiche, che stabilì la riforma dei cartel-

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li sostituendo alle diciture sino ad allora utilizzate dei segna-li convenzionali, ma decise di aggiungervi la relativa trascri-zione ortografica21.Per cui un cartello, ad esempio, con una freccia ad angoloindicante un difficile tornante era sempre accompagnato dal-la locuzione “svolto pericoloso”, sintomo indubbio di unasocietà legata ad una comunicazione fatta di parole e nonancora matura per un codice di soli simboli e immaginicom’è , invece, l’attuale.

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21. L’opera del TCI proseguì negli anni successivi sino allo scoppio del-la Grande Guerra, senza, però, riuscire ad eliminare le differenze tra levarie zone della Penisola. Grazie alla collaborazione degli Enti provincia-li erano meglio segnalate le strade provinciali, mentre meno quelle nazio-nali e comunali. Per fronteggiare a queste mancanze così come per ovvia-re ai gravi danni causati, successivamente, dalla Seconda Guerra Mon-diale, il Touring ricevette il prezioso apporto dell’ACI con cui formò unUfficio Tecnico Segnalazioni, guidato da una Commissione di quattromembri, in carica per quattro anni durante i quali furono collocati deci-ne di migliaia di cartelli.

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II - I PRIMI CODICI DELLA STRADA

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I PRIMI CODICI DELLA STRADA

IL PRIMO CODICE DELLA STRADA.L’excursus normativo22 descritto nel capitolo precedente por-tò, come suo naturale esito, nel 1923 al regio decreto 31dicembre n. 304323, che fu il primo vero Codice della Stradaa fare la sua comparsa in Italia.Con esso vennero meglio valutate le esigenze del nuovoritrovato della scienza moderna, ritenuto non più come una

22. A seguito del Regolamento del 1914 merita ricordare il solo testolegislativo che si occupò di un settore non specifico della circolazione deiveicoli semoventi senza guida di rotaie, il Regolamento approvato conR.D. 1915 n. 1453, relativo alle ruote dei cerchioni dei veicoli circolan-ti sulle strade ordinarie di uso pubblico, affinché in tutto il Regno venis-se disciplinata in modo uniforme la loro larghezza.23. Il provvedimento legislativo che abrogò espressamente tutte le dispo-sizioni in vigore inerenti alla disciplina della circolazione, salve quellerelative alla circolazione delle ferrovie e delle tramvie, fu un testo orga-nico composto di 94 articoli distinti in sette Titoli: il primo contenentele disposizioni generali sulla circolazione (artt. 1-13); il secondo ledisposizioni relative agli autoveicoli (artt. 30-74) distinto in quattrocapi, rispettivamente relativi alle norme generali, alla circolazione degliautoveicoli, alle norme generali sui conducenti, alle norme speciali pergli autoveicoli; il titolo quarto riguardava i velocipedi (artt. 75-78); ilquinto la responsabilità e le sanzioni (artt. 79-90), il sesto i regolamenticomunali (artt. 91 e 92) ed il settimo le disposizioni circa l’entrata invigore e le disposizioni transitorie (articoli 93 e 94). In tal senso G.BOATTI, op. cit.

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semplice manifestazione di oziosa agiatezza ma, soprattutto,uno strumento di lavoro nel ritmo sempre più frenetico del-la moderna civiltà. Appare evidente che la sistemazione del-le norme, che avevano caratterizzato tutto il periodo prece-dente in un unico testo, giovò alla comprensione ed all’appli-cazione della disciplina.Il testo in esame disciplinò la circolazione dei veicoli e deglianimali sulle strade ed aree di uso pubblico e ad esse equipa-rate, dichiarate per la prima volta “libere”, nel senso che nes-sun pedaggio poteva essere imposto salvo quelli autorizzaticon le cautele e le modalità di cui agli articoli 38 e 40 dellalegge generale sui lavori pubblici del 20 marzo 1865, n. 2248. Nel Codice del 1923 furono inoltre menzionati espressamen-te, ai fini dell’applicazione delle norme ad esse inerenti, i vei-coli a trazione animale, quelli trascinati a braccia, slitte,greggi, velocipedi ed infine la vasta categoria degli autovei-coli che comprendeva le automobili, i motocicli, i compres-sori stradali, le trattrici stradali. Merita inoltre esser segnalato come il testo legislativo tor-nò ad affrontare la ingarbugliata questione della “mano datenere” senza, però, riuscire a dettarne una disciplina ine-quivocabile. Dopo quindici mesi dall’emanazione del nuovo Codice,nella rivista Auto Italiana del 15 marzo 1925, si leggevache “a decorrere dal 1 marzo a Roma è stato attuato ilcambiamento del senso di circolazione da sinistra a destra.Così ora entrando a Milano l’automobilista che avrà gira-to tutta l’Italia tenendo la destra dovrà passare a sinistra.

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Per una volta tanto la capitale morale ha voluto mostrarsiretrograda di fronte alla capitale reale”. Da questo si pote-va dedurre che non si era ancora arrivati alla completaapplicazione del Codice, e questo perché non fu sempliceseguire la normativa. Infatti non fu scritto, come sarebbestato auspicabile: la mano di circolazione per le automobi-li è a destra (disposizione che fu in questo modo prescrittasolo cinque anni più tardi, ai sensi dell’art. 25 del Codicedl 1928), perché la chiarezza della norma, in tal caso, nonavrebbe suscitato difficoltà applicative, ma l’art. 7 disposeche: “Tutti i veicoli, gli animali da tiro, da soma o da sel-la, le mandrie e le greggi circolanti sulle strade ordinariesia negli abitati sia in campagna, debbono portarsi a destraper incrociare ed alla sinistra per oltrepassare, avendo curanelle svolte di mantenere la propria mano. Ogni veicoloche durante la marcia si mantenga nel centro della stradaha l’obbligo di portarsi alla sua destra ogni qualvolta unveicolo che lo segue lo abbia richiamato con segnalazioni”.In pratica regnava sovrana l’anarchia circolatoria; il veico-lo, insieme alle mandrie, poteva stare dove voleva, al cen-tro, a destra o a sinistra, a condizione che si portasse allasua destra in caso di incrocio o se l’automobile che loseguiva gli suonava da dietro24. La situazione che ne disce-

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24. Per una più approfondita disamina sull’argomento è possibile con-sultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., Destra e sinistra per me parison… Quando la legge ti prende la mano, per Auto d’Epoca, 30 aprile2003 in www.museoauto.it

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se, com’è facilmente intuibile, fu di caos totale. Di nuovo,come nel Regolamento del 1905 non si riuscì ad arrivaread una soluzione ottimale. Solamente nelle città, per lapresenza di continui incroci, fu facilmente applicabile lanormativa che prevedeva appunto il senso di circolazionea destra.Iniziarono a fioccare multe anche perché accadde, spesso,che un automobilista venisse multato per essersi permesso difermarsi, senza spegnere il motore, sul lato sinistro dellastrada: comportamento vietato sia ai sensi dell’art. 3: “i vei-coli nelle loro eventuali fermate devono essere collocati sul-la destra in modo da lasciare libero al passaggio la maggiorparte della larghezza stradale”; ma anche ai sensi dell’art. 7:“tutti i veicoli devono portarsi alla sinistra per oltrepassare”,poiché se un veicolo si fermava sul lato sbagliato obbligavai sopraggiungenti a sorpassarlo alla sua destra. Ai malcapi-tati che venivano fermati, spettava il pagamento di 100 liredi multa e per assurdo venivano consigliati dagli agenti diusufruire della marcia indietro, in modo da fermarsi dovevolevano, purché non sostassero sulla sinistra, come vietavail Codice. Che strani o meglio che pericolosi consigli!A complicare lo stato delle cose fu la collocazione del volan-te nelle automobili circolanti in Italia, che fin dall’inizio fu adestra. Per cui ci si trovò da una parte con un Codice cheimponeva, con scarsa chiarezza, la mano a destra, e dall’al-tra con la maggioranza delle vetture che avevano il volante adestra, contravvenendo quindi al principio, oggi naturale,secondo cui il guidatore deve stare seduto dalla parte oppo-

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sta al senso di marcia. Invero, tenendo la destra e con il con-ducente seduto a destra, quest’ultimo si trovava nella stessacondizione del guidatore del veicolo che incrociava, in talmodo i due automobilisti essendo separati dalla larghezzadelle due carrozzerie e non potendo vedere il lato dellarispettiva vettura, potevano creare un pericolo di scontrol’una con l’altra.Il pericolo cresceva quando al fianco del guidatore vi era unaltro passeggero.E i disagi non finirono certo qui.Come si poteva affrontare un sorpasso con la dovuta sicu-rezza in queste condizioni? E gli eventuali passeggeri chedovevano scendere dalla vettura, una volta giunti a destina-zione, come potevano farlo, senza rischiare la vita non tro-vandosi dal lato del marciapiede? Nella rivista Auto italiana il giornalista Aldo Farinelli, scris-se: “il solito, deprecabile snobismo degli anni d’anteguerra,la solita pedissequa ammirazione per i modelli stranieri cifece assumere senz’altro la guida a destra come sulle macchi-ne inglesi, senza che ci accorgessimo che era in diretta edesclusiva relazione colla mano destra. Disgraziatamente, ilpubblico automobilista si abituò talmente alla guida a destrache anche dopo l’emanazione del nuovo Codice si guardòbene dal cambiare opinione. Forse, se la FIAT avesse saputoe potuto applicare la guida a sinistra su tutti i nuovi model-li e le nuove macchine destinate al consumo interno…” Fari-nelli sosteneva anche che “l’innegabilmente alta percentualedi sinistri che affligge l’automobilista italiano nel confronto

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con le nazioni dalla circolazione razionale dipende non tan-to dalle nostre fregole velocistiche… ma principalmente daldoversi portare a sinistra della strada per oltrepassare il vei-colo più lento, avendo la visuale completamente ostruita”. Evi era anche un altro elemento presente nelle strade italianea renderle più pericolose: l’infossamento della strada sui duelati, la cosiddetta “curvatura a schiena d’asino” della sezio-ne stradale.Un problema che si ripercuoteva sulla stabilità dell’automo-bile e quindi sulla sicurezza delle persone, quando si creavauno sbilanciamento dovuto dal peso del conducente sulladestra e dell’eventuale passeggero posteriore, che appuntoper la pendenza, sceglieva di sedersi sempre nella postazionedi destra.Per evitare che sconvenienze di questo tipo continuassero neltempo, non mancò chi sollevò il problema, auspicando comesoluzione la fabbricazione delle automobili con volante asinistra. Ma non fu così semplice come pensarla, riuscire adapplicare questa soluzione! Perché per esempio avrebbe crea-to un grave danno alle case automobiliste che avevano pro-dotto macchine con il volante a destra e agli stessi guidatoriabituati a quella guida.La FIAT, quindi, nel 1927 rispose alle proteste, mettendo sulmercato la 520 a sei cilindri, con la guida a sinistra di serie,risolvendo così l’annosa questione.Certo è che questa non fu la sola novità che riguardò gliautomobilisti, in quegli anni. Ad esempio in Lombardia, giàdal primo aprile del 1925, venne sperimentato il primo

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semaforo, così descritto da un corrispondente dell’epoca:“Lì, nel centro del fatal crocicchio, l’innocente sostegno diuna lampada è divenuto il pilone del sistema circolatorio,l’albero maestro di una incredibile giostra, il fulcro dell’ordi-ne nuovo. Il semaforo campeggia e risplende su quell’anten-na, superbo e misterioso come un oracolo”.Funzionava quotidianamente dalle 15,15 alle 19,15 e si illu-minava con una luce rossa indicante lo stop per le automo-bili e i motocicli; bianca e rossa per il via ai pedoni, e lo stopai veicoli; gialla per il via ai tram; verde per il via alle auto-mobili e ai motocicli. Tuttavia il semaforo, inizialmente, non realizzò la funzioneper cui era stato creato ossia quella della regolamentazionedel traffico, perché il pubblico, non abituato a tali segnala-zioni luminose, non si adeguò ad esse ma, anzi, fu catturatodalla curiosità di ammirarle. E infatti invece di circolare, leautomobili, le carrozze, le biciclette, le motociclette e i rima-nenti veicoli stavano fermi, inchiodati nelle vie creando lun-ghissime code su più file e “strombazzando all’impazzata”per protesta. Anche l’invenzione del semaforo dunque nonpiacque molto agli italiani.Ci fu invece una nuova figura giuridica all’interno del Codi-ce del 1923 che fu particolarmente apprezzata e alla quale gliitaliani non vollero più rinunciare, la conciliazione. “Non siprocede contro chi, essendo stato colto in contravvenzionealle disposizione del presente Decreto, per le quali sia com-minata l’ammenda in misura non superiore nel massimo alire duecento, versi immediatamente la somma di lire venti-

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cinque quando sia conducente di autoveicoli, e di lire diecinegli altri casi, al funzionario od agente che accerta la con-travvenzione. Questi ne rilascia ricevuta, staccandola daapposito bollettario”25 . Tale istituto offrì così al trasgresso-re la possibilità di evitare il procedimento sanzionatoriopenale, con il conseguente pagamento di un’ammenda di lireduecento. È forse la prima rudimentale forma di pagamentoin misura ridotta, istituto che troverà poi una sua compiutaregolamentazione soltanto con la legge di depenalizzazionedel 24 novembre 1981, n. 689.

IL P.R.A.Sin qui sono state esaminate alcune tra le norme che discipli-narono, a partire dal 1923, la circolazione fisica dei veicoli,mostrando particolare attenzione alla regolamentazione deirapporti derivanti dall’utilizzo delle automobili, senza che,però, nulla venisse stabilito dal Codice in merito al profilogiuridico di quest’ultime. Invero per risolvere i conflitti sullaproprietà dei veicoli si ricorreva al Codice Civile del 1865che all’art. 707 prescriveva che per tutti i beni mobili comu-ni valeva il principio “possesso vale titolo”, norma quindiestensibile anche all’automobile.Non esisteva, quindi, un regime giuridico pubblicitario siaperché, in quell’epoca, si dava maggiore rilevanza all’interes-se economico e sociale dei soli beni immobili, sia perché l’au-

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25. Art. 85 del Codice della Strada del 1923.

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toveicolo non si era ancora imposto nella società comesignore quasi assoluto della strada, per cui non riceveva pie-na dignità giuridica. Sussistevano solo i Registri delle “Immatricolazioni” detenu-ti dalle Prefetture nei quali annotare le licenze e i trapassi diproprietà entro 10 giorni, ai sensi del R.D. 2.7.1914 n. 811.Tuttavia non mancavano le lacune perché tali registri nonstabilivano nulla sul piano giuridico (diritto di proprietà,conflitti sulla proprietà ecc.) e quindi risultavano, pratica-mente, inutilizzabili.Per intendersi meglio, chi possedeva un veicolo, ignorandodi ledere un altrui diritto, era considerato legittimo proprie-tario (perché il possesso di buona fede è un acquisto a titolooriginario) a discapito del precedente, che non avrebbe potu-to esercitare l’azione di rivendicazione. Ulteriore conseguenza era quella sul piano della certezza deirapporti giuridici, non garantita, certo, da una pubblicità,quale è il possesso, fine a sé stesso, perché non basato su unatto o su un titolo di cui i terzi potessero prendere conoscen-za. Non vanno neanche sottovalutate le difficoltà scaturentidalla vendita dei veicoli, soprattutto agli inizi, acquistati arate, con la conseguenza che il venditore che fosse stato cre-ditore in tutto o in parte del prezzo, restava proprietario delveicolo sino al completo pagamento dell’importo del bene(c.d. patto di riservato dominio che sussiste attualmente).Necessariamente sorse il problema se attribuire la responsa-bilità per danni dalla circolazione dell’auto al venditore oall’acquirente.

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Per ovviare a tali principali difficoltà di carattere giuridico,ma soprattutto per rispondere all’esigenza economico-politi-ca di diffusione dell’automobile, nacque nel 1927 il PRA,come Registro Generale delle vicende giuridiche dei veicoli(del diritto di proprietà, degli altri diritti reali di godimentosu di essi e dell’ipoteca o privilegio sugli stessi, quindi deidiritti reali di garanzia)26. Non fu un provvedimento di poco conto dato che il fine fusoprattutto quello di creare una mentalità favorevole allapropaganda dell’automobile. In tal modo, infatti, Mussolinivolle dare un segno molto chiaro: recuperare l’industriametalmeccanica italiana rispetto a quelle più produttive deglialtri Paesi europei, così che ne guadagnasse in immagine ilregime stesso e suscitasse, conseguentemente, maggiore con-senso. Il P.R.A. venne istituito con R.D. del 15 marzo 1927, n. 436e fu affidato all’ACI. Con tale scelta, che quindi non fucasuale, i cittadini guidatori diventarono gestori di un servi-zio pubblico del quale erano destinatari. Gli scopi del P.R.A. erano dunque diversi. Innanzitutto contale registro venne garantito un regime pubblicitario su tuttigli atti relativi agli autoveicoli, precedentemente immatrico-lati presso le Prefetture, purché legali, venendo così supera-

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26. È possibile trovar maggiori informazioni sull’argomento consultan-do l’articolo di AZZARITA F., La storia del P.R.A. Pubblico RegistroAutomobilistico in Rivista giuridica della Circolazione e dei Trasporti,Automobile Club d’Italia, 2007.

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to il principio del possesso come titolarità. Venne quindidisciplinato l’istituto dell’ipoteca automobilistica a favoredel venditore, estesa al terzo sovventore, per la parte delprezzo non pagata. In tal modo si ebbe una prima regola-mentazione del credito automobilistico, destinato con ilCodice Civile del 1942 a ricevere una più puntuale discipli-na con l’art. 2810.Merita poi esser ricordato come il P.R.A. servì da base per lariscossione delle tasse automobilistiche e per la distribuzionedelle targhe dei veicoli. È evidente, pertanto, come le finali-tà più rilevanti della creazione di tale sistema pubblicitarioriguardarono la tutela della buona fede e dell’affidamentodei terzi, nel senso che qualora quest’ultimi avessero volutoacquistare o fare credito su di un veicolo, avrebbero trovatogaranzia nella titolarità della proprietà in capo al soggettorisultante dal P.R.A.Per quanto riguarda l’ambito di applicabilità della normati-va del 1927, proprio perché speciale, tale disciplina inizial-mente non cambiò la regola generale del “possesso vale tito-lo” stabilita nell’art. 707 de Codice del 1865 e trovò attua-zione solo per i casi sottratti alla normativa comune. Solopiù tardi, con l’art. 815 del nuovo Codice Civile del 1942venne espressamente abrogata la regola del “possesso valetitolo”, con la specifica invece che “i beni mobili registratisono sottratti alle regole dei beni mobili comuni”.

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BREVI CENNI SULLA RATIO DELLE NORMEDEL CODICE DELLA STRADA DEL 1928.L’evoluzione legislativa, le cui tappe più rilevanti sono statedelineate nei paragrafi precedenti, portò ad un quinquenniodi modifiche27 alle quali seguì la sostituzione del testo nor-mativo in materia di circolazione stradale (Codice del 1923)con altro provvedimento. In base ai poteri conferiti al Governo dalla legge 31 gennaio1926, n. 100 e per la necessità di fondere in un solo testo ecoordinare sia tutte le norme concernenti la polizia che quel-le inerenti le strade, eliminando le molteplici leggi o regola-menti in cui esse erano comprese, fu approvato con R.D. 2dicembre 1928, n. 3179 il nuovo Codice per la tutela dellestrade e per la circolazione28. La maggior parte di questi regolamenti, purtroppo però,

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27. Tra le più rilevanti ricordiamo: il R.D.L. 13 marzo 1927, n. 314 e ilR.D.L. 27 novembre 1927, n. 2445 che dettero una nuova disciplinadella targhe degli autoveicoli determinandone i contrassegni e le carat-teristiche; il R.D.L. 4 settembre 1925, n. 1751 convertito in legge del 18marzo 1926, n. 5652 con cui fu dettata la nuova disciplina delle segna-lazione dei passaggi a livello incustoditi sia di ferrovie che di tramvieextraurbane nell’interesse della incolumità pubblica. 28. Il Codice era ripartito in quattro Titoli: il primo conteneva la mate-ria, che per lungo tempo era stata compresa sotto la denominazione dipolizia stradale, inerente appunto alla tutela delle strade e delle aree diuso pubblico; il secondo conteneva le norme per la circolazione dei vei-coli, degli animali e dei pedoni (per la prima volta la circolazione deipedoni trovava espresse disposizioni di carattere generale, già carente

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aveva ingarbugliato di più la situazione in materia di circo-lazione automobilistica, ostacolando una diffusione del vei-colo a motore che invece procedeva speditamente nel restod’Europa. Il criterio che ispirò la sistemazione della materia della circo-lazione stradale nel nuovo provvedimento fu improntato adaffermare l’unità inscindibile del binomio veicolo-strada,proprio nel momento in cui la strada e i suoi sistemi dicostruzione, in quasi tutto il mondo, si venivano rapidamen-te trasformando, sotto l’influsso dell’automobile.Ma il merito che venne riconosciuto a tale testo fu soprattut-to quello di aver segnato una nuova concezione dei diritti edobblighi dei diversi utenti della strada, non sempre esatta-mente compresi negli anni precedenti, in cui aveva predomi-nato la preoccupazione di difesa prima contro il conducente

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nei precedenti testi normativi i quali si limitavano a rinviare ai regola-menti municipali); il terzo Titolo riguardava gli autoveicoli ed i condu-centi (limitazioni di velovelocità, norme relative alle targhe, all’illumi-nazione, all’incauto affidamento dei veicoli ecc.). Nello stesso titolo erainserita un’importante disposizione con la quale il Ministero dei LavoriPubblici, prima unico organo amministrativo centrale cui era demanda-ta la vigilanza sulla circolazione stradale, venne ad essere sostituito – siapure non completamente – dal Ministero delle Comunicazioni per quan-to riguarda la vigilanza della circolazione dei veicoli ed a questo Mini-stero venne trasferito l’Ispettorato generale delle Ferrovie, tramvie edautomobili, prima inquadrato nell’organizzazione del Ministero deiLavori Pubblici. Infine il titolo quarto conteneva le sanzioni e le relati-ve norme di procedura.

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di veicoli in genere, dopo con particolare accanimento con-tro l’automobilista.A tal proposito ricordiamo che soprattutto in età giolittianadominava una concezione che poteva essere così generica-mente sintetizzata: “ogni cosa semovente era consideratapericolosa socialmente e politicamente”. E questa diffidenzafu tradotta, in concreti provvedimenti: per esempio, Giolittiannunciò il raddoppio della tassa della circolazione quandogià i proprietari di automobili, presunti ricchi, erano grava-ti, all’atto di acquisto, dalla cosiddetta “tassa di lusso”. Il Codice del 1928, diversamente, rappresentò sotto questoaspetto una svolta, segno del cambiamento dei tempi, ed evi-denziò un’apertura verso tale mezzo che si affermava sempredi più, in relazione alle esigenze per cui esso era stato costrui-to e con la consacrazione del diritto del conducente di servir-si della strada.Così pure, d’altra parte, la difesa ad ogni costo del pedone odegli altri veicoli in genere era un non senso perché nonpotevano essergli riconosciuti soltanto diritti ma anche dove-ri, imponendo a loro di provvedere, per quanto possibile,alla rispettiva incolumità.Per meglio chiarire il concetto, si riportano proprio due artico-li del Codice in cui si rileva quali situazioni giuridiche soggetti-ve, nel primo un diritto, e nel secondo un obbligo furono acarico del pedone. In particolare l’art. 30, al primo comma,così disponeva: “È vietato percorrere con veicoli od animali datiro, da soma e da sella le parti della strada riservate ai pedo-ni”; mentre l’art. 32 prescriveva: “l’obbligo di fermarsi a richie-

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sta degli agenti incombe ai pedoni, perché il precetto legislati-vo si rivolge a chiunque circola sulle vie ed aree pubbliche”.A tal proposito un giurista, analizzando qualche anno piùtardi l’argomento, scrisse che “la strada è un bene di dirittopubblico e in tanto ogni utente ha diritto di servirsene, inquanto il suo uso si manifesti e si contenga nei limiti fattipalesi dalla destinazione della stessa.Il pedone non può dire al carrettiere, come il carrettiere nonpuò dire all’automobilista: “la strada appartiene a me, nellostesso modo che a te”. Ognuno deve invece armonizzare ilproprio diritto con quello del più voluminoso o del più velo-ce, giacché la pubblica amministrazione ha destinato la stra-da anche per questi e, ragionevolmente, con proporzionecorrispondente alle diverse esigenze, fra le quali, preminen-te, l’elemento della velocità”29. In poche parole sopraggiunti i mezzi più veloci, prescindentidalle sole forze fisiche dell’uomo, si dovette tener conto deidiversi bisogni ed esigenze dei vari utenti30 della strada e fu

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29. PERETTI-GRIVA, Responsabilità civili attinenti alla circolazione deiveicoli, in Rassegna Giuridica della Circolazione stradale - Anno I-1938.30. Sempre l’art. 30 sopraindicato in merito alle Limitazioni speciali ditransito dopo aver vietato al primo comma di percorrere con veicoli odanimali da tiro, da soma e da sella le parti della strada riservate ai pedo-ni, al secondo comma specificava: “è fatta eccezione per i carrozzini odaltri veicoli spinti a mano, e destinati esclusivamente al trasporto di bam-bini, di invalidi o di infermi, nonché per i velocipedi condotti a mano”;è una delle norme che specificano l’attenzione riposta dal Legislatore ver-so gli utenti della strada, indistintamente considerati.

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appunto di tale necessità che si preoccupò il legislatore nellostudiare ed emanare il Codice del 192831.

LA VELOCITÀ: SOTTO L’IMPERODELLE VECCHIE LEGGI E DEL CODICE DEL 1928.Prima dell’unificazione delle norme sulla circolazione lavelocità dei veicoli era regolata da varie disposizioni. Il primo Regolamento del 1901 inerente alle automobili,anzi ai “veicoli semoventi senza guida di rotaie”, stabilì chela velocità non superasse i 25 chilometri all’ora in apertacampagna e “quella di un cavallo al trotto” circa 15 chilo-metri all’ora, nei centri abitati. Per di più, lo “chauffeur”avrebbe dovuto, oltre che ottemperare alle ulteriori disposi-zioni eventualmente emesse dai Comuni, moderare la veloci-tà nei tratti di strada pericolosi (curve, dossi) e ogni qualvol-ta potesse esservi pericolo per persone o animali. La velocità salì progressivamente a 40 chilometri all’ora nel-

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31. Merita segnalare alcune tra le norme del Codice che meglio rispec-chiano le consuetudini stradali del tempo; per citarne una sono curiose lefattispecie descritte dall’art. 29 ove alla voce Segnali disponevano che pri-ma di sorpassare ovvero prima di incrociare nei punti malagevoli, in pros-simità delle biforcazioni e dei crocevia e ogni qualvolta la strada non fos-se libera o visibile per un tratto sufficiente, i conducenti erano tenuti arichiamare l’attenzione degli altri conducenti e dei pedoni, facendo usodei segnali regolamentari o colla voce. Mentre quando un veicolo rallen-tava la sua velocità o doveva fermarsi, ovvero cambiare direzione o stra-da, il conducente era tenuto a far segno a coloro che lo seguivano, con lamano o con apposito dispositivo meccanico.

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le successive elaborazioni dei Regolamenti sulla circolazionestradale (tra il 1905 e il 1912) per arrivare a 50 Km/h, fuoridei centri abitati, con il Regolamento n. 811 del 1914.Questa situazione rimase immutata finché nel 1928 nongiunse il principio “liberi tutti su tutte le strade, compresequelle all’interno dei centri abitati”.A tal proposito la rivista Auto Italiana scrisse: “l’utile mis-sione civile del fattore velocità è stato compreso dal Regime,che ne ha tollerato indulgentemente eccessi per non compro-metterne i pregi”32. Alla base di questo cambiamento furono addotte sia motiva-zioni politiche che sociologiche. Infatti, in primo luogo, ilregime fascista, instauratosi da pochi anni, ebbe bisogno peraffermarsi di un vasto consenso popolare, che sarebbe statopiù facile conquistare eliminando le restrizioni date dai limi-ti fissi di velocità.Oltre a ciò, le migliorate condizioni stradali e della circo-lazione in genere, tanto nell’interno degli abitati, quantonelle campagne, la diffusione enorme dei mezzi di traspor-to e specialmente dei velocipedi e degli autoveicoli, le esi-genze della rapida vita moderna e la migliorata educazio-ne del pubblico nei riguardi dei diritti e dei doveri inerentialla circolazione, consigliarono di non determinare la velo-cità dei veicoli con criteri rigidi ed uniformi, tranne che per

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32. Sul punto è possibile consultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., FIAT

508 Balilla, per Auto d’Epoca, aprile 2002, in www.museoauto.it

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gli autoveicoli in alcuni speciali casi, previsti dall’art. 65.In particolare la norma dopo avere stabilito, al primo capo-verso, che il conducente doveva essere “completamentepadrone della velocità del suo veicolo”, fissava un limitemassimo di velocità, non superiore ai 60 Km/h, solo per gliautoveicoli di peso superiore a 40 quintali, per le maggioridifficoltà che avrebbe presentato il loro arresto in presenzadi qualsiasi ostacolo, nonché in vista delle più pericoloseconseguenze derivabili in caso di sinistro.Al di fuori di tali eccezioni vigeva la disposizione elastica,ex art. 35, che prescriveva di “regolare” la velocità, cioè dimantenerla entro quei limiti imposti o da circostanze relati-ve al veicolo stesso (tipo, peso, sistema di frenatura) o inbase alle caratteristiche e condizioni delle strade o da altrecircostanze, per natura previamente non determinabili,affinché fosse evitato ogni pericolo per la sicurezza dellepersone e delle cose33. È evidente come la norma menzionata sarebbe stata

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33. Sulla questione velocità è interessante ricordare il principio afferma-to dalla Corte di Cassazione nel 1931: “La legge non ha stabilito limitidi velocità per la circolazione delle automobili; non ha inteso, però, libe-rare i conducenti dall’osservanza delle norme imposte e consigliate dal-la comune prudenza e dai criteri di ovvia e doverosa cautela, a cui i pre-cetti regolamentari sono informati”. In modo particolare, l’articolo 35specificava le condizioni di tempo e di luogo in cui la velocità dovevaessere moderata e cioè: nei tratti di strada a visuale non libera; nei trat-ti di strada in curva; in prossimità dei crocevia e delle biforcazioni; nel-le forti discese; nelle ore notturne; nei casi di nebbia, di foschia o di pol-

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alquanto generica e di massima elasticità, con conseguenterischio di essere destinata ad essere poco osservata, anchee soprattutto per la soggettività della valutazione che gliutenti, gli agenti preposti al traffico e gli stessi giudiciavrebbero fatto della pericolosità punibile, se il legislatorenon avesse identificato, sempre all’art. 35, le situazioni dipericolo più frequenti, più tipiche e vietato, quindi, i com-portamenti atti a determinarle, secondo quanto riportatoin nota.Tale disciplina rimase sostanzialmente invariata nel successi-vo Codice della Strada del 1933 (artt. 36 e 64) e cristallizza-ta per ben ventidue anni, quando, al grave problema del cre-scente numero di incidenti stradali causati prevalentementedalla eccessiva velocità dei veicoli, si rispose con un proget-to di legge tradottosi nel Codice del 1959 con cui fu datafacoltà ai Ministri dei Lavori Pubblici e dei Trasporti di sta-bilire di concerto limitazioni di velocità per tutti i veicoli sudeterminate strade o su tronchi di esse34.

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vere; nei passaggi stretti o ingombranti; nell’attraversamento di nucleiabitati o comunque di tratti di strada fiancheggiati da case. Al penulti-mo capoverso era stabilito che il contravventore alla disposizioni delpresente articolo era punito con l’ammenda da lire venticinque a lirecinquanta.34. Per una approfondita indagine del fenomeno si veda l’articolo diPALAZZI F., Sul limite di velocità-Incidenti stradali, in Rivista giuridi-ca della circolazione e dei trasporti, 1955.

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LINEAMENTI DEL CODICE DELLA STRADADEL 1933 E DISCIPLINA DEL SEGNALAMENTOACUSTICO DEGLI AUTOVEICOLI.Il Codice del 1928 entrato in vigore portò subito con sé ilsegno della caducità. I vivaci dibatti aperti intorno alle nor-me della circolazione stradale da esso introdotte, imposero,dopo appena cinque anni, una sua abrogazione e sostituzio-ne con altro testo che meglio rispettasse i voti delle Assem-blee rappresentative. Fu così che con il R.D. 8 dicembre1933 n. 1740 fu emanato il Codice della Strada che discipli-nò la circolazione per ben ventisei anni35.Si presentò come un utile e notevole perfezionamento deltesto legislativo precedente, in quanto le modificazioni intro-dotte, seppur non del tutto rilevanti, tesero a migliorare ladifesa del nostro patrimonio stradale e a garantire maggioresicurezza e regolarità della circolazione, ogni giorno più inaumento. Tra i meriti riconosciuti a tale provvedimento varicordato che rappresentò il primo assetto organico alladisciplina della patente di guida, inizialmente denominatalicenza a guidare. Venne stabilito che dovessero distinguersitre differenti tipi di abilitazione36 e cioè di 1° grado per chi

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35. Il Codice della Strada del 1933 era suddiviso in quattro titoli relativirispettivamente alla tutela delle strade ed aree di uso pubblico; alla circo-lazione dei veicoli, degli animali e dei pedoni; agli autoveicoli e ai condu-centi; alle disposizioni generali. La stessa sistematica del Codice del 1928.36. Per un maggiore approfondimento sull’ origine ed evoluzione dellapatente di guida si rinvia a SCHINAIA C., Le patenti di guida, in Il

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non esercitava la professione di conducente, di 2° grado perchi esercitava la professione di conducente in servizio priva-to e di 3° grado per chi esercitava la professione di condu-cente in servizio pubblico.Modificazioni furono apportate anche per assicurare,mediante più rigorosi controlli, l’idoneità fisica e tecnica deiconducenti di autoveicoli, e ad evitare poi che ottenesserol’abilitazione persone le quali non dessero garanzia di mora-lità. Venne disposto, inoltre, che non avrebbero potuto otte-nere la patente coloro per i quali ostassero motivi di pubbli-ca sicurezza e coloro che fossero sottoposti al confine di poli-zia. Si individuarono altresì con maggiore precisione le con-danne che rappresentavano un ostacolo all’ammissioneall’esame di idoneità per conducenti di autoveicoli37. Un’importante disposizione diretta ad agevolare i valorosimutilati di guerra fu quella con cui fu data al Ministro dellecomunicazioni facoltà di autorizzare alla guida di autoveico-li persone con imperfezioni fisiche non riguardanti l’udito ela vista, però sotto determinate condizioni. Per permettere, poi, l’adattamento progressivo delle nuovenorme ai prevedibili progressi nel campo tecnico dell’auto-

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nuovo Codice della Strada, 2000.37. Si stabilì che non avrebbero potuto ottenere una nuova patente diidoneità coloro che fossero stati condannati per tre volte alla pena del-l’arresto per contravvenzione alla norme del nuovo regio decreto. Sulpunto si rinvia a JANNITTI-PIROMALLO A., Commento alle leggi sul-la tutela delle strade e sulla circolazione, Napoli, 1937.

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mobilismo, furono attribuite al Ministro delle comunicazio-ni, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, specialifacoltà di determinare le caratteristiche degli apparecchi disegnalazione acustica e visiva degli autoveicoli per attenuareo eliminare, nell’interesse “igienico” delle popolazioni deicentri urbani, i rumori molesti e le luci abbaglianti. A talproposito, infatti, se diamo uno sguardo fugace alle diversedisposizioni legislative succedutesi nel tempo, in tema diapparecchi e segnali acustici degli autoveicoli, notiamo subi-to che, col moltiplicarsi delle macchine e con le velocità sem-pre maggiori da queste raggiunte, aumentò, da un lato, l’im-prescindibile bisogno di segnalarsi acusticamente e, dall’al-tro, la necessità di evitare, specialmente nei centri urbani,ogni eccesso di tali segnalazioni. Nel Codice del 1923, dei due interessi, fondati su esigenze incompetizione tra loro, prevalse la segnalazione acustica.Infatti, apparsa insufficiente la disposizione che prescrivevaagli autoveicoli non di usarla ma solo di essere forniti dellatromba a forte suono, fu sanzionato nell’art. 11, con l’am-menda da lire dieci a cento, l’obbligo per i conducenti dirichiamare l’attenzione dei pedoni facendo uso dei segnaliregolamentari. Diversamente il legislatore del 1928, preso atto dei danniarrecati alla salute dagli eccessi sonori cercò di ridurli perquanto possibile, cosicché tenne conto degli interessi contrap-posti, cercando di mantenerli nel giusto equilibrio con duediverse disposizioni. In particolare all’art. 29 furono indicatialtri casi di obbligo per i conducenti di usare le segnalazioni

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acustiche e precisamente: “prima di sorpassare, ovvero primadi incrociare nei punti malagevoli, in prossimità delle biforca-zioni e dei crocevia ed ogni qualvolta la strada non fosse libe-ra e visibile per un tratto sufficiente, i conducenti erano tenu-ti a richiamare l’attenzione degli altri conducenti e dei pedo-ni, facendo uso dei segnali regolamentari o con la voce”. Alcontempo, per limitare l’inquinamento sonoro, l’art. 60,dopo aver elevato la penalità per chi non avesse adempiuto dimunire il proprio veicolo della tromba a forte suono, proibìai conducenti “di servirsi, senza necessità inerenti alla circo-lazione, nelle città e nei villaggi, delle segnalazioni acustiche”. Arrivando al Regio decreto in esame, del 1933, le normesegnalate furono riprodotte integralmente, pur se con qual-che lieve modificazione che denotò un interesse prevalenteper l’esigenza del silenzio. Negli artt. 30 e 58, infatti, corri-spondenti agli artt. 29 e 60 del decreto del 1928, furonodiminuite le penalità per coloro che omettessero le segnala-zioni acustiche ove fossero prescritte ovvero circolassero conautoveicoli non muniti di apparecchi per tali segnalazioni,mentre fu aumentata la penalità per quelli che, nelle città onei villaggi, si servissero di segnalazioni acustiche senzanecessità inerenti alla circolazione.Ulteriore provvedimento che tutelò particolarmente l’inte-resse sociale “dell’igiene e della salute pubblica” fu il R.D.L.del 3 maggio 1934, n. 1141, con cui fu data facoltà ai comu-ni di emanare disposizioni regolamentari intese a vietarel’uso delle segnalazioni acustiche degli autoveicoli in deter-minate ore notturne.

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Tuttavia tale disposizione risultò poco efficace perché, comefu osservato da autorevole dottrina38, i maggiori fastidi perl’eccesso di rumori nelle grandi città si hanno di giorno e nondi notte, essendo maggiori il numero degli autoveicoli e leesigenze della circolazione.Fu, pertanto, per ovviare a tale lacuna che venne pubblicatoun nuovo decreto legge in data 17 gennaio 1935, n. 423 gra-zie al quale i comuni poterono emanare disposizioni intese avietare od a regolare l’uso di segnalazioni acustiche degliautoveicoli, dei velocipedi e delle tranvie nell’ambito dei cen-tri urbani o soltanto in talune zone e strade di essi, secondole delimitazioni stabilite dalle stessi Enti locali.Tale decreto fu convertito nella legge 3 giugno 1935, n.1151 con l’aggiunta di un articolo inteso a consentire o adimporre ai conducenti il breve uso dei fari abbaglianti perdare avviso del loro approssimarsi, qualora circolasseronelle ore notturne nei centri abitati, dove esistesse divietodi segnalazioni acustiche. Fu in aggiunta prescritto chel’uso dei fari fosse obbligatorio in prossimità degli incroci,delle biforcazioni, delle curve stradali ovvero anche nei sor-passi di altri autoveicoli e che in tutti questi casi la proie-zione della luce dovesse essere effettuata a brevi intermit-tenze.

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38. Alcune informazioni interessanti sull’argomento è possibile reperirlenell’articolo di M. DUNI, Le segnalazioni acustiche degli autoveicoli nel-la evoluzione delle norme legislative e i vari interessi da queste tutelati,in Rassegna giuridica della circolazione stradale, 1940.

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Da quanto è emerso, è evidente come la circolazione silen-ziosa creò sia una situazione di disagio che di disparità pergli automobilisti, non essendo estesa agli altri utenti dellastrada, quali i conducenti dei veicoli a trazione animale o iciclisti.Infatti, si osservò che se anche queste categorie avesserorispettato rigorosamente le leggi in vigore e fossero stateapposte, in molti incroci cittadini, tabelle indicatrici dellaprecedenza tra le diverse strade, la necessità di segnalazio-ni acustiche sarebbero state davvero insignificanti così daevitare ogni eccesso, ossia l’uso di segnali senza necessitàinerenti alla circolazione. Purtroppo non fu così, perché,come ancor oggi spesso accade, le leggi non vennero sem-pre rispettate e quindi la nuova normativa finì per gravaresolo sugli automobilisti che si dovettero ad essa adeguare“accecando” con i segnali luminosi il prossimo più cheassordarlo, con conseguenze inaccettabili sul piano dellasicurezza.

SEGNALAMENTO VISIVO DEI VEICOLIA TRAZIONE ANIMALE.Prima di continuare con l’analisi dell’evoluzione legislativain materia di circolazione stradale, per i curiosi della mate-ria può risultare interessante qualche breve notizia inerentealla disciplina del segnalamento visivo dei veicoli a trazioneanimale.L’attenzione si impone perché fu proprio in merito a talecategoria di veicoli che sorsero diverse questioni interpreta-

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tive sul tenore letterale della norma inerente alla disciplinasummenzionata. Non destò, invece, problemi di alcun genere l’applicazionedella norma corrispondente e relativa agli autoveicoli cheall’art. 59 (r.d. n. 1740 del 1933) stabilì le tipologie e ilnumero di strumenti di segnalamento visivo che dovevanoessere collocati nella parte anteriore e in quella posteriore ditali mezzi a motore. Nel dettaglio venne disposto, nelle ore e nei casi in cui eraobbligatoria l’accensione, che ogni automobile doveva por-tare “nella parte anteriore due fanali a luce bianca ed unonella parte posteriore collocato in maniera da poter illumi-nare a luce bianca la targa di riconoscimento e proiettareall’indietro la luce rossa”.Ormai si era affermato nel settore automobilistico, da più diun decennio, un nuovo sistema di illuminazione che rappre-sentò il proiettore moderno, sostituendosi al precedente mec-canismo rudimentale e disagevole a base di acetilene, funzio-nante per non più di quattro ore, superati le quali occorrevasmontarlo e ripulirlo39.Diversamente, di non facile attuazione, soprattutto per ledifficoltà pratiche riscontrate, fu l’art. 41 ove, per i veicoli atrazione animale, si stabilì che “salve le disposizioni specialiper gli autoveicoli e per i velocipedi, ogni altro veicolo circo-

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39. Per un dettagliato esame sull’evoluzione del segnalamento visivodegli autoveicoli si rimanda all’articolo di BIFFIGNANDI D., Storia deifari, maggio 2007, in www.museoauto.it.

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lante sulle strade pubbliche deve portare , nelle ore e nei casiappresso indicati, uno o più segnali luminosi a luce bianca,visibili nella direzione di marcia ad almeno cento metri didistanza”.La questione interpretativa che allora si pose, sia in dottrinache in giurisprudenza, fu quella relativa all’omessa previsio-ne da parte del Legislatore dell’obbligo di una segnalazionevisiva a tergo di veicoli. In particolare l’inciso “visibili nelladirezione di marcia” si prestava ad oggetto di due possibiliinterpretazioni: i segnali debbono essere visibili solo a chiproviene dal senso opposto e quindi a chi incrocia il veicoloa trazione animale o debbono essere visibili a chi procedenella stessa “direzione di marcia” del veicolo a trazione ani-male, cioè a chi vuole sorpassarlo? La risposta che la dottrina e la giurisprudenza più accredita-te diedero fu quella di limitare la visibilità del veicolo a tra-zione animale solo a chi proveniva dal senso opposto e quin-di a chi incrociava il veicolo.Se ripercorriamo le modifiche intervenute in materia e tra-lasciamo i Regolamenti di polizia stradale approvati conR.D. 15 novembre 1868, n. 4697 e R.D. 10 marzo 1881,n. 124 i quali agli art. 37 e 39 stabilivano: “Nessun carropotrà circolare in tempo di notte senza essere provvisto diun lume acceso” nonché il R.D. 8 gennaio 1905, n. 24 cheriportava fedelmente le disposizione citata, notiamo comeil R.D. 31 dicembre 1923, n. 3043 stabiliva all’art. 21 che:“Salve le disposizioni speciali per gli autoveicoli e per ivelocipedi, ogni altro veicolo circolante sulle strade pub-

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bliche deve portare sul davanti, nelle ore e nei casi appres-so indicati uno o più segnali luminosi visibili nella direzio-ne della marcia ad almeno cento metri di distanza. Se ilsegnale o fanale è unico, deve essere situato sulla sinistradel veicolo”.Mentre era operante tale articolo non si pose, né poteva sor-gere, la questione se il segnale luminoso del veicolodovesse essere visibile anche a chi procedeva nella stessadirezione e posteriormente ad esso perché espressamentedisposto che andava collocato sul davanti del mezzo di tra-sporto. Conseguentemente i segnali stessi mai avrebberopotuto essere visti da chi seguiva il veicolo perché la sagomadello stesso o il suo carico l’avrebbero impedito. Nonostan-te l’attenzione prestata dall’Autorità legislativa alla questio-ne in esame, derivante quindi dalla pericolosità sociale diveicoli a trazione animale senza alcun lume acceso di notte,non si può non rilevare come l’obbligo dell’illuminazioneanteriore rimase sostanzialmente non osservato.Infatti, premesso che per lo stato della tecnica di quei tempisarebbe stato assurdo pretendere che tali veicoli fossero illu-minati con apparecchi elettrici, era necessario che venisseroutilizzati fanali o lampade a candela, ad olio, a petrolio o adacetilene40. Il motivo di tale inadempienza dipendeva, quindi, dalla dif-

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40. Per un approfondimento della disciplina cfr. GUASTADISEGNI N.,Segnalamento visivo dei veicoli a trazione animale, in Rassegna giuridi-ca della circolazione stradale, 1940.

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ficoltà pratica di collocare segnali luminosi sul davanti deiveicoli adibiti al trasporto di merci, perché la fiamma che sisprigionava dalle lampade a candele, di solito usate per l’il-luminazione, avrebbe potuto facilmente comunicarsi allegno del veicolo e alle materie trasportate. Di conseguenzail rischio di incendio, con immaginabili conseguenze perl’incolumità dei soggetti trasportati e dei terzi, sarebbe sta-to equiparabile a quello derivante da un’eventuale sinistrostradale per la mancata osservanza dell’obbligo di illumina-zione.Per tali ragioni i carri vennero attrezzati in modo tale da nonportare più permanentemente sul davanti un segnale lumino-so. A questa esigenza pratica si adeguò il legislatore modifi-cando nel 1928 l’art. 21 del RD. del 1923 sopraindicato eli-minando quindi la dizione “sul davanti”, presente nell’arti-colo sopra citato.Pertanto, come venne sostenuto da autorevole dottrina, seda un lato l’intenzione del Legislatore fu quella di risolvereil problema del segnalamento posteriore dei veicoli a trazio-ne animale, attraverso la collocazione del segnale luminoso(la lanterna) appeso con catenella all’asse del carro, cosicchésarebbe stato visibile sia a chi veniva incontro al veicolo chea chi lo seguiva; dall’altro il problema dell’incolumità pub-blica rimase fondamentalmente irrisolto.Tale impasse non fu però determinata per mancanza di pro-poste legislative risolutrici, ma per gli oggettivi inconvenien-ti tecnici che l’illuminazione dei carri comportò, così chenon si potette adottare un espediente normativo in grado di

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superare una tangibile difficoltà: come porre rimedio all’il-luminazione di tali mezzi di trasporto senza, al contempo,considerare che gli apparecchi utilizzati per alimentarla pos-sano essere essi stessi causa di incendi in eventuali ribalta-menti dei carri?

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DAGLI SCONTRI BELLICI A QUELLI DIALETTICIIN COMMISSIONE: LA LUNGA PROCEDURACHE PORTÒ AL CODICE DEL 1959.Lo sviluppo che il parco delle autovetture circolanti ebbeanche grazie alle condizioni favorevoli create dal regime, inparte già esaminate, ricevette una battuta d’arresto con l’en-trata in guerra dell’Italia durante la II guerra mondiale. Laradiografia del nostro Paese all’esito del conflitto mondialefu quella di una civiltà prevalentemente contadina, che con-tinuava, per lo più, a muoversi tramite mezzi di locomozio-ne animale e che a stento riusciva a permettersi l’acquisto diun’automobile, mentre chi la possedeva aveva serie difficol-tà di circolare a causa della requisizione. Alcuni dati possono essere illuminanti per descrivere neldettaglio la situazione additata, rispetto a quella degli altriPaesi d’Europa: nel 1950, in Italia, circolava un autoveico-lo ogni 81,9 abitanti, contro i 48,7 della Germania Occi-dentale, i 17 della Francia o i 15,2 della Gran Bretagna. Lastasi determinata dal periodo bellico non investì solo ilfenomeno circolatorio nei suoi aspetti economico-commer-ciali, ma determinò una cristallizzazione dell’attività legisla-tiva che rimase ancorata per ben ventisei anni al R.D. n.1740 del 1933. Se si considera la prassi normativa in materia si può osserva-

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re, infatti, che nessun testo di legge, ad eccezione dei primi,regolò per un così lungo arco temporale la circolazione.Questo spiega il perché, superato il periodo tempestoso del-la guerra, fu sollevato il problema, da parte degli studiosi edegli Enti interessati, di un nuovo e più moderno Codice del-la Strada.Del resto non fu solo questa esigenza di modernizzazione astimolare e ad ispirare le tendenze riformatrici, concorrendoa ciò altre due rilevanti motivazioni e cioè, innanzitutto,l’opportunità di sostituire in un unico testo più organico echiaro le congerie di norme che, nel tempo, si erano accumu-late e di conseguenza tradotte in una legislazione complessa,aggrovigliata, disseminata di dubbi per l’interprete e piena diinsidie per coloro che dovettero ottemperare ai suoi precetti;in secondo luogo, la necessità di armonizzare la legislazionevigente con le disposizioni internazionali vincolanti per ilnostro Paese. Venne così costituita, con decreto ministeriale del 29 luglio1947, n. 471, una cospicua e autorevole Commissione distudio per la riforma del Codice del 1933, nella parte relati-va alla disciplina della circolazione, il cui travaglio gestato-rio durò per più di un decennio, tenuto conto del numeroelevato e della complessità delle questioni che si dovetterorisolvere.Il carattere tecnico che spesso attiene alle norme sulla circo-lazione stradale impose, per la loro formulazione, il coinvol-gimento degli organi amministrativi preposti al settore,cosicché il Parlamento ritenne di delegare al Governo il pote-

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re di legiferare in materia, previa precisazione dei criteridirettivi ai quali il testo doveva essere improntato, ai sensidell’art. 76 della Costituzione41. La legge del 4 febbraio 1958, n. 572, che scaturì quindi dadetta delega, indicò, per la realizzazione di un nuovo appara-to normativo organico in materia di circolazione stradale (perun nuovo Codice della Strada insomma), i seguenti criteri:

1) attuazione di una disciplina il più possibile unitaria pertutto il territorio nazionale;2) adozione di tutte le norme idonee ad assicurare una disci-plina della circolazione, della guida dei veicoli di ogni gene-re e della condotta degli animali che fosse adeguata allemoderne esigenze del traffico e alla prevenzione degli inci-denti stradali;3) adeguamento agli accordi internazionali disciplinanti lamateria;4) determinazione delle autorità centrali e periferiche compe-tenti a provvedere nei casi ordinari e di urgenza;5) attuazione del principio del decentramento42 nelle materieche riguardano soltanto situazioni e interessi locali;6) semplificazione dei procedimenti amministrativi, fermarestando la necessità di adeguate garanzie per i cittadini.

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41. “L’esercizio della funzione legislativa se non può essere delegato alGoverno se non con determinazione di principi e criteri direttivi e sol-tanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.42. A tal proposito, v. articolo 118 della Costituzione italiana.

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Fu anche conferita ulteriore facoltà al Governo di prevederenuovi reati in relazione alle novelle norme introdotte e dimodificare le sanzioni penali vigenti, purché non si superas-sero nel massimo per le pene detentive i mesi dodici e per lepene pecuniarie la somma di L. 20.000, importo derogabilenel caso in cui venisse messa in pericolo la sicurezza della cir-colazione, al verificarsi della quale le pene pecuniarie pote-vano raggiungere nel massimo L. 200.0000.La genericità dei criteri in questione fece paventare il rischiodi un’adesione al precetto costituzionale piuttosto formaleche sostanziale.Non mancò chi osservò che sarebbe stato più opportuno, inmerito a questioni di maggiore importanza e delicatezza(come quelle relative alla limitazione di velocità, alla regi-strazione degli autoveicoli, al ritiro delle patenti), determina-re criteri concreti al fine di indirizzare in modo più specificoil Potere Esecutivo. Venne nondimeno rilevato che fra gli ampi e generici criteriposti dalla legge delega, significativo ed interessante è certa-mente quello indicante l’“attuazione di una disciplina dellacircolazione organica e il più possibilmente unitaria per tut-to il territorio nazionale”, con ciò non escludendo, in viaeccezionale, la possibilità dell’adozione di norme differenti,nella disciplina della circolazione, da luogo a luogo. Coeren-temente il criterio andava letto in correlazione con quelloove si imponeva l’attuazione del principio del “decentramen-to amministrativo nelle materie che riguardano soltantosituazioni o interessi locali”.

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Non poche perplessità suscitò d’altronde il criterio che pre-scriveva “l’adeguamento agli accordi internazionali chedisciplinano la materia della circolazione stradale”43.Tali accordi furono essenzialmente costituiti dagli Atti inter-nazionali elaborati a Ginevra il 19 settembre 1949 dallaConferenza delle Nazioni Unite sui trasporti stradali e auto-mobilistici e resi esecutivi in Italia dalla legge del 19 maggio1952, n. 1049.Il problema che conseguentemente sorse fu se il nuovo Codi-ce, approvato dopo una lunga preparazione con decreto pre-sidenziale del 27 ottobre 1958, n. 956, si fosse o meno inte-gralmente adeguato alle norme internazionali in questione.La soluzione a tale quesito, come venne sostenuto dagliesperti della materia, andava ricercata nella funzione esplica-ta dagli Atti di Ginevra, inerenti, solo, alla circolazione inter-nazionale. Del resto è evidente che il Governo non potette rinunciare adisciplinare aspetti trascurati, seppur non ignorati, dalle nor-me internazionali (come ad esempio la materia dell’accerta-mento delle contravvenzioni e la regolamentazione della pre-cedenza fra i veicoli nelle diramazioni). Ciò nonostante, nonmancarono norme del Codice che violarono il criterio diadeguamento posto dal Parlamento, perché incisero sui dirit-

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43. Tra i vari commenti pubblicati sulla redazione del Codice del 1959particolare interesse riveste il contributo degli autori: CONTI, GALIM-BERTI, MIELE, La riforma della vigente legislazione stradale, in Rasse-gna dell’automobilismo dell’ACI, 1957.

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ti e sul comportamento degli utenti della strada in modo piùrestrittivo di quanto non facessero le corrispondenti normeinternazionali. Per citare qualche esempio basti ricordare ledisposizioni in tema di equipaggiamento dei veicoli comel’art. 26 (lett. c) della Convenzione di Ginevra, che prescris-se che tutti i velocipedi fossero muniti posteriormente, perl’illuminazione notturna, di una luce rossa oppure di undispositivo rifrangente, evidenziando, con ciò, la sufficientepresenza di uno dei due dispositivi indicati; e questo a diffe-renza del Codice italiano che sarebbe dovuto entrare in vigo-re il 29 gennaio del 1959, che all’art. 40 (comma primo lett.c) non solo li pretese entrambi, ma esigette, altresì, dei dispo-sitivi a luce riflessa gialla sui pedali.Un altro interessante caso di difformità tra le due fonti diregolamentazione della circolazione stradale, segnalato dagliesperti del settore, fu dato dall’art. 11 della Convenzione,che comandò al conducente del veicolo che venisse sorpassa-to di non aumentare la velocità, in poche parole, limitando-si a vietargli di gareggiare in velocità con il conducente checercava di superarlo, mentre l’art. 106 del nuovo Codice ita-liano impose al conducente del veicolo che veniva sorpassa-to di diminuire la velocità44.

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44. Sui profili di criticità ma anche sui meriti evidenziati del nuovo Co-dice della strada è possibile consultare l’articolo degli autori: CIGOLI-NI, GUERRIERI, PERSEO, MANZINI, L’Avvento del nuovo Codicedella Strada, in Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1958.

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Pertanto, in questi come in altri casi simili, il Codice appar-ve alquanto criticabile per non aver osservato il canone del-l’adeguamento e ugualmente non fu accolto favorevolmenteper aver introdotto norme ritenute infelici.Infatti non mancò chi segnalò il severo trattamento che ilCodice riservò agli automezzi pesanti e che ebbe la sua ratiogiustificatrice nella necessità di adeguare il traffico alle stra-de, data la oggettiva difficoltà di conformare le strade altraffico. In particolare furono adottate una serie di misure restrittive,relativamente a tali mezzi di trasporto, in tema di velocità,sorpassi, distanza di sicurezza, nonché limitazioni al trafficonei giorni festivi. Per ovviare a questi ed altri difetti del Codice il Potere Ese-cutivo interpellò l’Automobile Club d’Italia e il TouringClub Italiano il cui parere fu accolto con dovuta considera-zione, trattandosi di Enti di particolare competenza essendorappresentativi delle categorie maggiormente interessate alprovvedimento. Le modifiche proposte dall’A.C.I. e dal T.C.I. si tradusserorapidamente in un disegno di legge predisposto dai Ministridei Lavori Pubblici e dei Trasporti, presentato alla Cameradei Deputati il 18 dicembre 1958.Di conseguenza la complessità dei lavori di revisione nonconsentì di rispettare, come avevamo precedentementeindicato, i tempi auspicati per l’entrata in vigore del nuo-vo Codice che, dal 29 gennaio 1959 e con due successiveproroghe, venne rimandata al 1° luglio dello stesso

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anno45, stabilendo altresì l’identico termine per l’emana-zione del relativo Regolamento di esecuzione.Singolare e probabilmente rimarchevole è allora immaginarecosa sia accaduto in Parlamento da gennaio a giugno del1959 durante tutto il periodo di revisione necessario alloscopo di rendere più chiare ed omogenee le nuove disposizio-ni dettate dal Codice.“Penso che tutti siamo consapevoli del grossissimo proble-ma – quello della circolazione stradale – che è venuto matu-randosi nel nostro paese.” Così, il 13 gennaio del 1959,l’Onorevole TOGNI Giulio Bruno, iniziò l’intervento incommissione riunite (lavori pubblici - trasporti), come rela-tore per la commissione Trasporti. “Per dimostrare la vasti-tà e la complessità degli aspetti che esso coinvolge, mi baste-rà citare pochissimi dati, molto significativi: nel 1933 circo-

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45. Il nuovo Codice era formato da centoquarantasei articoli (contro icentotrentadue di quello precedente), ripartiti in dieci titoli: “disposizio-ni generali”; “segnalazione stradale”; “veicoli in generale”; “veicoli atrazione animale, slitte e velocipedi”; “veicoli a motore”; “guida dei vei-coli e condotta degli animali”; “disposizioni speciali”; “norme di com-portamento”; “polizia stradale e disposizioni penali”; “disposizioni fina-li”. Il testo normativo non abrogò per intero quello del 1933, di quest’ul-timo rimasero in vigore, secondo quanto previsto dall’art. 145, il TitoloI, concernente la tutela delle strade e delle aree pubbliche, e alcune mate-rie particolari come la disciplina degli autoveicoli in servizio di piazza,con la conseguenza che per le disposizioni summenzionate continuaronoad applicarsi le norme sulle sanzioni penali e sulla relativa procedura sta-bilite dal vecchio Codice.

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lavano 218 mila autovetture, che si ridussero a 149 mila nel1946 e passarono poi a un milione e 237 mila nel 1957. Gliautocarri passarono dai 71 mila del 1933 ai 135 mila del1946 e infine ai 392 mila del 1957. […] Se teniamo presentialcune minime, ma particolarmente significative, considera-zioni statistiche sugli incidenti della circolazione, ci rendia-mo conto di come sia estremamente preoccupante il fenome-no. Nel 1934 gli incidenti furono 43.258, di cui 2.993 mor-tali e 39 mila con feriti; nel 1957 si è saliti a 188 mila inci-denti, di cui 6.936 mortali e 148 mila feriti. […] Mi correl’obbligo di sintetizzare ancora, almeno, l’andamento deltrasporto di merci su strada: nel 1938 furono 5 miliardi ditonnellate-chilometro; nel 1947 furono 7 miliardi; nel 1957si è saliti a 33 miliardi! Sono, questi indici, il segno e la con-seguenza dell’estrema vitalità del nostro paese nel suo svilup-po, ma fanno anche diventare sempre più serio il problemadella circolazione. […] Occorre tener presenti le finalitàprincipali che, a unanime giudizio, credo, anche dei colleghipresenti, debbono reggere le norme in materia.La prima finalità è quella della sicurezza della circolazione edella tutela della vita umana. Abbiamo visto di quali graviconseguenze sono carichi per tutto il popolo italiano queidati statistici di cui ho dato lettura.La seconda finalità è quella della chiarezza del diritto. Per-ché il cittadino deve sapere come ha da comportarsi e deveessere chiaro il carico sia penale sia patrimoniale [...] che siriflette sul cittadino stesso.Infine, non ultima e non meno fondamentale, è l’esigenza

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economica e tecnica dell’automobilismo e dell’autotraspor-to, come strumenti e condizioni essenziali e vitali per il pro-gresso del paese. Ed è superfluo che dinanzi alle commissio-ni dei trasporti e dei lavori pubblici io stia a dire che cosal’automobilismo e l’autotrasporto presenta per il paese. [...]L’incertezza derivante da una eventuale proroga dell’entratain vigore del decreto presidenziale [...] provocherebbe la peg-giore delle situazioni [...] soprattutto per la completa parali-si in cui cadrebbero molti settori produttivi legati alla moto-rizzazione, [...] i quali [...] si troverebbero di fronte [...]all’impossibilità di adeguate decisioni nei loro programmi diprogettazione e di produzione. [...] Noi abbiamo il dovere dioperare, anche con sacrificio personale, per la tempestivaredazione delle norme di legge migliori e definitive”46. Da queste poche righe emerge tutta la preoccupazione chetaluni deputati riversarono sulla problematicità della circo-lazione stradale e sull’esigenza di porre rimedio, quanto pri-ma, ad una sì grave vacatio legis. Tuttavia, nelle sedute suc-cessive, emersero nuovi spunti, che fecero in larga partericonsiderare da molti onorevoli le loro iniziali posizioni47 eche quindi determinarono rinvii, di mesi, all’emazione e

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46. Intervento dell’Onorevole Giulio Bruno TOGNI, durante la sedutadelle commissioni riunite della Camera dei Deputati Lavori pubblici eTrasporti, di martedì 13 gennaio 1959.47. Larga parte dei deputati, agli inizi di gennaio 1959, pensava infattiche fosse ancora possibile l’entrata in vigore del nuovo Codice della Stra-da in data 29 gennaio 1959.

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all’entrata in vigore di un nuovo Codice della Strada, che inultima istanza entro in vigore il 15 giugno 1959.“Ci troviamo oggi di fronte a questa situazione. Il 29 gen-naio prossimo venturo dovrebbe entrare in vigore il nuovoCodice della Strada; ma, così come è redatto, non è possi-bile che entri in vigore. Entrerebbe in vigore una legge cheil Governo ufficialmente ritiene che ha bisogno di emenda-menti, [...] di tutta una serie di emendamenti, che con lode-vole saggezza i relatori [...] hanno riconosciuto, d’accordocon il Governo, che debbano essere apportati al provvedi-mento”. Durante la seduta delle commissioni riunite lavo-ri pubblici e trasporti di martedì 20 gennaio 1959, l’Ono-revole COLITTO si espresse in questi termini. Gli Onore-voli Pietro AMENDOLA, Giovanni LOMBARDI e GiulioBruno TOGNI, tra gli altri, concordarono così di votareuna prima proroga di 45 giorni di entrata in vigore delCodice48. Invero, questi rinvii di mesi non determinarono un perfettoaccordo con quelle che erano le norme previste dalla Con-venzione di Ginevra, ed anzi solo alcune delle norme discor-danti rispetto a quelle previste da detta Convenzione furonorettificate per adeguarsi ad essa, come, ad esempio, il giàcitato art. 106, secondo il quale il conducente che veniva sor-passato non era più tenuto a “diminuire la velocità” ma a

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48. Nella seduta del 20 gennaio 1959 venne deciso a maggioranza di 76voti favorevoli contro 1 contrario di accettare la proroga, di entrata invigore del Codice, fino al 15 marzo.

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“non accelerare”49. Per rendere, poi, più gradevole l’attua-zione di alcune delle nuove disposizioni, altri ritocchi siritennero necessari, per quanto riguarda il problema del-l’ipotetico divieto di sorpasso fra mezzi pesanti50. Occorre a questo punto segnalare che un indubbio meritoriconosciuto al testo in esame fu quello di aver soddisfatto,almeno in parte, la sentita necessità di una semplificazioneamministrativa. In particolare nell’art. 145 vennero esplicita-mente abrogati, oltre a quasi tutte le disposizioni del vecchioCodice, 23 provvedimenti legislativi di varia epoca, nonchétutti i regolamenti comunali per la circolazione dei velocipe-di, dei veicoli, degli animali e dei pedoni (emanati in applica-zione degli art. 52 e 128 del Codice del 1933). La sottrazio-ne del potere di emanare norme generali ed estratte ai Comu-ni e alle autorità amministrative centrali, con l’esclusiva riser-va di poter adottare soltanto provvedimenti concreti di disci-plina del traffico, rappresentò in tal modo una peculiarecaratteristica delle nuove disposizioni introdotte dal Codice.Per quanto evidenziato, seppur nelle sue linee generali, nonpoterono che essere positivi i commenti degli esperti sul nuo-vo assetto della materia della circolazione stradale, tanto chefu detto che tale opera legislativa costituì un “progressorispetto al Codice precedente e si presentò tra i più aggiorna-ti in confronto a quelli vigenti negli Stati europei e segnò una

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49. All’art.11 della Convenzione di Ginevra sussiste infatti l’obbligo delsorpassando di “ne pas accélérer son allure”.50. Vedi, per approfondimento, paragrafo 2.1.1, infra.

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tappa importante per la realizzazione dell’unità internazio-nale della legislazione sulla circolazione stradale”51. Ciò nonostante, dopo un lungo lavoro di revisione primadell’entrata in vigore, il testo del 1959 non trovò una rapidaapplicazione pratica in quanto dovette scontrarsi da un latocon la scarsa educazione stradale degli automobilisti e deglialtri utenti, come i pedoni, dall’altro con l’inefficiente ecarente rete viaria del nostro Paese che, in quegli anni, risul-tava decisamente inidonea a rispondere alle esigenze semprecrescenti del traffico motorizzato.

LA VELOCITÀ DEI VEICOLI E IL SORPASSO.Da quanto precedentemente esposto è emerso che la disci-plina della velocità, nel lungo e aggrovigliato avvicendarsidelle norme sulla circolazione stradale, è stata oggetto diparticolare attenzione da parte del Legislatore, giacché essarappresenta, se non l’unica, di certo la concausa costantedella gravità degli incidenti stradali.Pertanto, il problema che riguardo ad essa sempre si pose fuquello di dettare norme che salvaguardassero due interessi

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51. Così si espresse nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudizia-rio del 1960 il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, il dr.Francesco Cigolini, il quale a parte l’autorità ricoperta, fu uno dei piùeminenti esperti della disciplina giuridica della circolazione. Per la lettu-ra integrale della dissertazione indicata è possibile consultare l’articolo diCIGOLINI, BERLIRI, LA PORTA, Le Modifiche del Codice Stradale, ilRegolamento di esecuzione: introduzione e problemi di origine tecnica inRassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1959.

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difficilmente armonizzabili: la tutela della motorizzazione ela garanzia dell’incolumità pubblica. Abbiamo detto che il vecchio Codice si occupava dellavelocità negli artt. 64 e 36, articolo che aveva subito alcu-ne aggiunte in forza della legge n. 877 del 1954. La normanon prescriveva nulla di nuovo circa l’obbligo generico, pertutti i conducenti, di regolare la velocità in modo che, tenu-to conto del tipo del veicolo, non costituisse pericolo perl’incolumità pubblica e causa di intralcio per la circolazio-ne, nonché riguardo quello più specifico di procedere avelocità “particolarmente moderata” in presenza dellecaratteristiche e condizioni delle strade che ostruissero lapiena visibilità del manto stradale. La disposizione indica-ta risultava, invece, integrata nella parte in cui prevedeval’obbligo per gli autoveicoli a solo o con rimorchio, aventipeso complessivo a pieno carico superiore ai quintali 100,di non superare la velocità di 70 km/h, se destinati al tra-sporto di persone, o di 60 km/h, se destinati al trasporto dicose, valendo lo stesso limite massimo anche per gli auto-carri adoperati per il trasporto di persone, eccedenti il pesopredetto. Veniva altresì prevista la facoltà, riservata alMinistero per i lavori pubblici nonché agli Enti cui incom-beva la manutenzione delle strade, di stabilire il limite mas-simo di velocità per tutti i veicoli su determinate strade otronchi di esse. Il principio informatore che caratterizzò le norme del Codi-ce del 1959 e di quelle correlative del Regolamento era enun-ciato dall’art. 101 secondo il quale tutti “gli utenti della stra-

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da debbono comportarsi in modo da non costituire pericolood intralcio per la circolazione”. Si trattava di una normaprogrammatica priva, dunque, di sanzione, che il più dellevolte trovava tutela in sanzioni penali o civili applicabili inseguito ad incidenti stradali derivati dall’inosservanza dellapredetta norma. Invero, il precetto in questione servì da sup-porto per l’esatta identificazione della colpa civile e penaleconnessa agli incidenti stradali.È noto che i principi generali della colpa civile e penale sidesumono dagli art. 2043, 2050, e 2054 Cod. Civ. e art. 43del Cod. Pen., tuttavia se è di facile accertamento la colpascaturita da una specifica norma di comportamento previstadal Codice stradale, diversamente accade nei casi in cui lastessa trova la sua causa nel comportamento negligente,imprudente o imperito dell’utente della strada. Quid iuris intali casi?Fu agevole, allora, per gli operatori del diritto ricorrere alprincipio sancito dal suddetto art. 101, considerato comevalida guida per integrare le norme relative alla colpa civilee penale sopraindicate, in quanto venne dagli stessi definitocome un tipo generico di colpa stradale la “condotta di coluiche avesse abusato della strada in modo da costituire perico-lo o intralcio per la circolazione altrui”52.

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52. Per una puntuale analisi dell’art. 101 del Codice del ‘59 si rinviaall’art. di GENTILE, LA PORTA, Le norme di comportamento in Rivi-sta dell’automobilismo dell’ACI, 1959.

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Se l’art. 101 assurse a principio generale della velocità, gliart. 102 e 103 del C.d.S. ne dettarono la disciplina. Il primoricalcò l’art. 36 del Codice del 1933, con in aggiunta l’ob-bligo secondo il quale “i conducenti non devono gareggiarein velocità” ma, come fu correttamente osservato, non sitrattò di un’aggiunta sostanziale, essendo intuibile che taledivieto discende, prima ancora che da una specifica normadi legge, dalla comune prudenza. Il secondo stabilì i limitiassoluti e chilometrici di velocità, il principale dei quali con-sistette nel divieto di circolare nei centri abitati ad una velo-cità superiore ai 50 km/h, salvo facoltà di deroghe predispo-ste dall’ente proprietario della strada (Comune, Stato, oProvincia).Venne inoltre previsto che fuori dei centri abitati i medesimiEnti avessero potuto stabilire un diverso limite massimo edeventualmente anche limiti minimi di velocità, mentre alcu-ni veicoli per la loro destinazione, peso, e per mole, avrebbe-ro dovuto essere sottoposti ai limiti permanenti di velocità53.

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53. Tali limiti erano: 60 km/h fuori dei centri abitati per gli autoveicoli efiloveicoli di peso complessivo superiore agli 80 quintali, se non destinati altrasporto di persone e per gli autocarri adibiti a tale trasporto, anche seeccedenti quel peso; dei 70 km/h fuori dei centri abitati per gli autoveicoli efiloveicoli superiori a peso di cui sopra, se adibiti al trasporto di persone;dei 40 km/h fuori dei centri abitati e dei 30 Km/h nei centri abitati, per gliautoveicoli e motoveicoli con carico pericoloso, dei 40 km/h per i ciclomo-tori, carrelli e macchine agricole fuori dei centri abitati e di 30 Km/h nei cen-tri abitati, allorché queste ultime fossero munite di pneumatici o di sistemiequivalenti, mentre nel caso contrario sussisteva il limite fisso di 15 km/h.

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Va precisato che sia i limiti assoluti che quelli permanenti divelocità disposti dalla norma per ultima esaminata nondispensavano il conducente dall’obbligo di ottemperare aicriteri prudenziali, di cui all’art. 102, variabili secondo i luo-ghi e le circostanze.Un’ultima considerazione occorre fare circa il trattamentosanzionatorio, alquanto severo contenuto nell’art. 103 deltesto del 27 ottobre del 1958, n. 950 che comminava semprela pena congiunta (arresto e ammenda) quando venivanosuperati i limiti massimi di velocità, con la conseguente esi-genza che venne mitigato con le successive modifiche tradot-tesi nel Codice del 1959.Quest’ultimo, infatti, comminò la sola pena dell’ammenda(da lire 4.000 a lire 10.000) al conducente che avesse supe-rato di non oltre 5 km i limiti considerati; mentre per chiavesse superato tale velocità di oltre 5 km il limite massimo,era prevista l’ammenda da lire 10.000 a lire 40.000 o l’arre-sto fino a due mesi. Oltre a tali contravvenzioni comminate per eccesso di velo-cità all’art. 92 di detto Codice era stabilito che, insieme adaltre violazioni, sarebbe stata sospesa dal Prefetto la patentedi guida da uno a tre mesi.Di non meno importanza e pertanto meritevoli di essere,seppur sinteticamente, analizzate furono le norme con cuiil Legislatore dettò la disciplina sul sorpasso. Ricordiamo,infatti, che il sorpasso è considerata la manovra più perico-losa dalla circolazione stradale e, di conseguenza, il Codi-ce del 1959, a differenza di quello abrogato, regolamentò

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in modo più analitico54 tale comportamento alla guida. Tra le modifiche maggiormente rilevanti apportate dal testodi legge va segnalata l’eliminazione dell’obbligo di segnala-zione acustica prima del sorpasso, in linea con la prassi inter-nazionale contraria ai rumori stradali. Tuttavia se tale abro-gazione apparve comprensibile in città, rischiava di essereforiera di pericolo su strada extraurbana, ove il sorpassosilenzioso poteva essere causa di un numero elevato di inci-denti stradali. Pertanto si mostrò di ausilio la norma di cuiall’art. 523 del Regolamento secondo la quale chi intendevasorpassare avrebbe dovuto segnalare la manovra stessa sia aiveicoli che lo avessero preceduto che seguito, mediantesegnale acustico o luminoso, azionando, contemporanea-mente, l’indicatore sinistro di direzione.Del resto tale disposizione non rappresentò altro che unadiretta applicazione dell’art. 113 C.d.S., in cui si prescrissel’uso obbligatorio dei dispositivi di segnalazione acusticaogni qualvolta le circostanze lo rendessero consigliabile,come presumibilmente sarebbe potuto accadere durante lamanovra di sorpasso.Alle norme sulla fase preparatoria del sorpasso seguivanoquelle inerenti l’attuazione della stesso che, secondo il detta-to normativo di cui all’art. 106, doveva essere effettuato sul-la sinistra. Il conducente doveva poi completare la manovra

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54. Nel dettaglio la disciplina del sorpasso risultò contenuta in appositenorme contenute nell’art. 106 del C.d.S., a cui furono aggiunti gli artt.523-526 del Regolamento.

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di sorpasso “nel più breve tempo possibile”, in guisa da evi-tare di stringere o tagliare la strada al veicolo sorpassato.Precisi obblighi furono imposti anche al conducente del vei-colo sorpassato che aveva la precipua finalità di facilitare“comunque” tale manovra. La modifica alla logica del Codi-ce precedente, in tale articolo, ebbe anche la funzione di fun-gere da deterrente per i “maniaci” del sorpasso, non essendopiù facilitato dall’obbligo di rallentare, imposto al sorpas-sando, secondo quanto previsto nel precedente testo55. L’art. 106 prevedeva, altresì, una minuziosa serie di divietidella manovra di sorpasso che, in sintesi, sembra opportunoelencare: il divieto di sorpasso in prossimità di curve, dossi,crocevia e passaggi a livello, senza barriere, nonché in ognialtro caso di scarsa visibilità; il divieto del c.d. “doppio sor-passo” e cioè di un veicolo che ne sorpassasse un altro e ildivieto di sorpassare veicoli fermi per cause di interruzionedella circolazione (come passaggi a livello e semafori).Un’ulteriore rilevante disposizione fu quella che abrogò, alavori conclusi del Codice del 1959, il divieto per gli auto-mezzi pesanti di sorpassarsi tra loro, data l’intenzione dellegislatore di salvaguardare l’indispensabile funzione svoltada tali veicoli commerciali per lo sviluppo economico delnostro Paese.Dunque, seppur sommariamente, queste furono le principa-

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55. V. nota 48.56. In tal senso Le norme di comportamento in op. cit. nota 51.

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li norme di comportamento, in sede di sorpasso, per gli auto-mobilisti ma che, come osservò attenta dottrina56, non avreb-bero esonerato gli stessi dall’ottemperare alle regole dicomune prudenza e diligenza alla base di una guida correttae che avrebbero fatto valere il loro peso in sede di accerta-mento della responsabilità colposa esclusiva o concorrentedel sorpassante.

LE PORZIONI DI TERRA, DI DETERMINATALUNGHEZZA E LARGHEZZA...LA STRADA NEGLI ANNI 50“Porzioni di terra, di determinata lunghezza e larghezza,escluse da dominio privato e poste fuori commercio, perchéservissero all’uso comune e ai fini dell’umana società, non-ché ai bisogni della vita. Infatti, esse hanno per la società lostesso peso che per il corpo hanno le vene e le arterie: comesenza vene ed arterie non si ha vita o la vita languisce quan-do per le medesime il funzionamento non è del tutto regola-re, lo stesso si verifica nel mondo sociale quando le vie dicomunicazione, che si presentano come le condizioni mate-riali indispensabili per l’incremento dei mezzi di trasporto e,di conseguenza, per il soddisfacimento dei bisogni individua-li e sociali, mancano o sono insufficienti”57. Sembra una definizione data da contemporanei, invece si

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57. Sul punto e per un maggior approfondimento sulla storia delle stra-de pubbliche si veda l’articolo di SIMONCELLI D., La Circolazionestradale in Rivista giuridica della circolazione stradale, 1937.

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tratta di Roma, la Roma degli imperatori!Contemporaneo o quasi agli interventi legislativi sin qui esa-minati, tesi a disciplinare la circolazione ed armonizzare lacoesistenza dei vari utenti della strada, fu il problema delpotenziamento delle strade pubbliche. Soprattutto, a partire dagli anni 50, il vertiginoso aumentodelle unità di vetture in circolazione impose la risoluzione diuna necessità basilare: imprimere un nuovo impulso per losviluppo di una rete viaria che consentisse all’automobile didivenire un confortevole e veloce mezzo per lo spostamentoquotidiano e per rendere il traffico più fluido e sicuro. Benpresto, infatti, le poche strade che erano state costruite nelXIX sec. non risposero più adeguatamente alle nuove esigen-ze automobilistiche. Nella primavera del 1945, la rete stra-dale era di 170.591 km, ma presentava parecchi problemistrutturali, dovuti alle distruzioni belliche, che avevano resointransitabile la metà delle statali, un terzo delle provincialie un sesto delle comunali. Fu Bonomi, durante la prima legislatura repubblicana, a sentirela necessità di metter mano al settore dei trasporti le cui compe-tenze furono demandate al dicastero dei Lavori pubblici.Tuttavia la ricostruzione della rete infrastrutturale avvennesenza un vero coordinamento politico fra le diverse reti, inassenza delle quali, il trasporto privato su strada finì peressere il vero privilegiato, penalizzando la ferrovia e i mezzipubblici su rotaia che non poterono competere con la flessi-bilità offerta dalle automobili, dai pullman e dagli autocarri.Un tentativo di realizzare una qualche forma di regolamen-

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tazione dei trasporti su strada si ebbe nel 1948 con il decre-to legge n. 547 che accordò all’Azienda nazionale autonomadella strada (Anas) la possibilità che la concessione di nuoveautostrade fosse affidata sia a Enti pubblici che privati e for-malizzò la pratica dell’aggiudicazione dei lavori pubblicimediante “licitazione privata”. Lo Stato avrebbe potuto sce-gliere le imprese che avrebbero costituito e gestito le nuoveautostrade. Infatti, la licitazione altro non era che un’astapubblica alla quale tramite avvisi particolari, erano invitatea partecipare le imprese ritenute idonee all’appalto: insom-ma una simile scelta creò le condizioni perché intorno ailavori pubblici, si sviluppasse un clima di pressioni clientela-ri e di favoritismi.Tuttavia durante la prima legislatura, il dibattito parlamen-tare più che concentrarsi sulla costruzione di nuova reteautostradale, diede spazio alla necessità di avviare la siste-mazione della viabilità ordinaria in modo particolare alSud: anzi lo stesso governo propose un disegno di legge, fir-mato dal Ministro dei Lavori Pubblici Salvatore Aldisio, checoncedeva all’Anas un finanziamento straordinario di qua-ranta miliardi per il miglioramento della viabilità nel Mez-zogiorno. Questi primi interventi furono una prima espressione diquello che poi sarebbe accaduto nel corso di tutti gli annicinquanta: il decollo industriale, l’abbandono delle campa-gne, l’urbanizzazione di massa, l’aumento dell’occupazione edei consumi, tutti eventi che avrebbero caratterizzato ilboom economico. In tale contesto le scelte governative e

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industriali attribuirono all’enorme aumento dei veicolimotorizzati, un ruolo centrale nel processo di sviluppo, favo-rendo rapide trasformazioni in tutto il settore dei trasporti.La costruzione delle strade fu salutata e acclamata comeun’opera democratizzatrice, capace di distribuire lo svilupposul territorio.Invero, già a partire dagli anni 50 le forze politiche ed econo-miche puntarono inevitabilmente sulla strada, anche in vistadell’occupazione che avrebbe potuto apportare: di conse-guenza i segnali di questa nuova volontà politica furono i piùsvariati e diversi58. Una vera e propria svolta si ebbe, però, con la discussionedel bilancio per l’esercizio finanziario 1954-55 del dicastero

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58. In primis ricordiamo il programma di opere stradali elaborato, fra il1951 e il ’52, dall’Anas su richiesta del Ministro dei Lavori pubblici Aldi-sio. Il piano, presentato alla IX Conferenza del Traffico di Stresa sullaviabilità, stanziava notevoli somme di denaro destinate ad ampliare larete stradale, a costruire nuove autostrade e a raddoppiare quelle già inesercizio e prevedeva anche somme per la realizzazione di piste ciclabili.Un secondo segnale fu la fondazione, il 16 giugno del 1952, della Fede-razione Italiana della Strada, atta a promuovere la cooperazione in mate-ria di problemi della strada, di tutti gli Enti, le Associazioni, le Impreseecc. Un terzo segnale fu dato dalla costituzione del gruppo parlamenta-re “Amici dell’automobile”. Tra le proposte dei soci del gruppo, meritadi essere menzionata quella dell’onorevole Del Fante, che prendendo amodello le free–way americane, sollecitava la costruzione di un sistemaviario longitudinale e latitudinale di grandi camionali, con spartitrafficoa due sedi, ciascuna a tre vie, per una larghezza totale non inferiore 22metri. La proposta di legge rimase però alla commissione Lavori Pubbli-ci della Camera, sia per il crescente consenso di cui godevano sempre più

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dei Lavori pubblici, alla quale partecipò per la prima volta ilministro socialdemocratico Romita, il quale propose chebuona parte delle strade fossero assegnate all’organismo cen-trale statale, l’Anas, lasciando alle province un limitato numero di tratti di minore importanza, tra cui le strade, sinoad allora, comunali.

A questa prima proposta, il Ministro presentò il 9 novembre1954 il primo piano organico autostradale italiano, il qualecontemplava due ipotesi:- affidare direttamente all’Anas la costruzione delle tratteautostradali, cosicché l’Anas potesse contrarre mutui,ammortizzabili in un periodo non superiore a trent’anni, conil Consorzio di credito per le opere pubbliche o con altri isti-tuti di credito ed Enti di diritto pubblico;- prevedere la concessione della costruzione e dell’eserciziodelle autostrade a privati, tramite bando statale di attribu-zione, ove non si superasse il 40 % del costo di costruzione,con una durata della concessione non superiore a trent’annie con la possibilità di introdurre pedaggi di tassazione.

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le autostrade, sia a causa dei costi preventivati: 250 milioni per lo studioe la progettazione dei primi 2000 chilometri e un costo di realizzazionedi 200 milioni per chilometro: insomma un investimento totale di oltre700 miliardi di lire. Vedi a tal proposito BIAGINI A., Politiche provin-ciali e interventi pubblici: l’Era della Strada, in La Provincia di Pesaro eUrbino nel Novecento, caratteri, trasformazioni e identità, Venezia,2003.

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La sola voce decisamente contraria al “piano Romita” fuquella di Del Fante, che denunciò, senza remore, la legittimapreoccupazione delle piccole e medie imprese edili: infatti irappresentanti di tali categorie temevano che il trust affari-stico fuori dalla loro portata, impedisse loro di aggiudicarsigli appalti. Per questo Del Fante rivolse un invito esplicitoalla FIAT, alla Pirelli e all’Italcementi “di non ingerirsi in affa-ri non di loro pertinenza”.L’opposizione della sinistra al piano Romita fu invece esigua:nessuno voleva addossarsi la responsabilità di arrestare undisegno di legge che poteva contribuire ad apportare lavoroal popolino. I deputati di sinistra si limitarono quindi solo adenunciare l’assenza di un piano generale dei trasporti el’esiguità dei finanziamenti ivi predisposti.Nonostante ciò, o forse grazie a ciò, il 12 maggio 1955, laVII Commissione approvò il disegno di legge Romita (Legge23 maggio 1955, n. 463), con un’ampia maggioranza: 29voti favorevoli e 4 contrari. Con l’approvazione del “pianoRomita” l’era autostradale e la scelta a favore della strada edei trasporti privati era ufficialmente iniziata.

“L’ETÀ DELL’ORO” DELLE AUTOSTRADE.L’Italia intera si trovò dal 1955 in preda ad una travolgenteretorica autostradale che inneggiava all’ “Autosole” come alsimbolo della rinascita nazionale. Il cemento e l’asfalto della Milano-Napoli divenivano cosìl’emblema di un Paese che si scrollava di dosso, in tutta fret-ta, gli anni della dittatura e della povertà.

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Nel fervore complessivo c’era persino spazio per “il Giocodell’Autostrada del Sole”, distribuito gratuitamente a tutti ipiccoli in visita al “Salone del bambino” presso la Fiera diMilano. Questo binomio parallelo strade-autostrade pose tuttavia unnuovo e serio problema: quello di un’armonizzazione legisla-tiva tra due discipline differenti.È solo nel 1958 che si registrò, con la legge del 12 febbraio1958, n. 126, la ridefinizione dei meccanismi di classificazio-ne e suddivisione delle strade non solo in base ai soggetti chene erano riconosciuti titolari, ma anche in base alle loro stes-se funzioni.Secondo questa legge, i tratti di maggior traffico e rilevanzadovevano essere di pertinenza degli Enti territoriali piùattrezzati, come lo Stato e le Province, sottraendoli ai Comu-ni che, a loro volta però, avrebbero visto crescere il proprioreticolo stradale, a causa delle nuove assegnazioni derivantio da strade nuove urbane o dalla riclassificazione di strademinori, quali vicinali, di bonifica ecc.Le costruzioni autostradali ebbero il loro apice nella IV enella V Legislatura (tra il 1963 e il 1972 quindi), a causa delsorprendente aumento del traffico, che comportò il varo diuna lunga serie di leggi, atte a completare ed estendere ulte-riormente la normativa di riferimento.Ciò nonostante la politica autostradale, ad un certo punto,conobbe una battuta d’arresto, in particolare nel 1970,quando il governo Colombo bloccò la realizzazione di otto-cento chilometri di autostrade e approvò due leggi volte a

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favorire lo sviluppo della rete ordinaria che continuava apresentare notevoli carenze strutturali. Era sempre più evi-dente la grave situazione in cui si trovavano i gestori delleautostrade, in conseguenza della cessazione del regime fisca-le di favore accordato alle concessionarie dalla Legge Fanfa-ni del ‘61 e in una certa misura anche per la crisi petroliferache nel corso del 1974 causò una diminuzione del trafficoautomobilistico rispetto allo stesso anno precedente.Solamente di fronte alla crisi delle società concessionarie si ini-ziò a prendere coscienza degli squilibri provocati dalla politi-ca autostradale: troppe le pressioni delle case automobilisti-che, insistenti quelle dei costruttori edili, motivo per cui eranostate concesse autostrade costose e spesso inutili, che avevanoassorbito la quasi totalità delle risorse finanziarie, rallentandocosì, l’estensione della rete viaria ordinaria, molto più utileallo sviluppo del Paese e da cui avrebbero tratto giovamentouna miriade di piccole e medie imprese del territorio naziona-le, situate ben lontane dai percorsi autostradali59.Vi è stato infine un altro motivo di ulteriore squilibrio. Leautostrade costruite parallelamente alle principali linee auto-stradali, costituirono la causa principale della crisi del setto-

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59. A prova di ciò, vi è il fatto che la costruzione delle autostrade non hafavorito il decollo economico di ampie aree appenniniche nella misuraprospettata da chi aveva sostenuto a spada tratta i piani autostradali, néha permesso alle Regioni meridionali di recuperare il loro storico ritardorispetto alle aree industrializzate del Nord. Per non parlare poi di quan-to disomogeneo sia stato questo sviluppo territoriale; che le attività indu-

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re ferroviario italiano, incapace di reggere la concorrenzacon l’autotrasporto soprattutto nel settore del traffico merci.Le scelte degli anni 50 furono volte, quindi, a favorire losviluppo delle grandi autostrade e della motorizzazione pri-vata, penalizzando il trasporto pubblico e accentuando glisquilibri territoriali attraverso una politica che favorì leregioni più industrializzate. Contemporaneamente cominciarono ad affiorare i primi“scandali autostradali” e si iniziò a mettere sotto accusala costruzione di molte tratte, considerate solo come promes-se elettorali di importanti esponenti politici di areagovernativa. Il Direttore di Quattroruote ad esempio non si sottrasse dalrendere noto lo “scandalo” della costruzione delle due auto-strade abruzzesi che collegano Roma con Pescara e conL’Aquila. Nonostante infatti l’Abruzzo fosse una delle regio-ni italiane con il volume di traffico più basso, si procedevaalla costruzione di due tratte, praticamente parallele.Il presidente dell’ACI, Filippo Carpi de Resini, parlò di “fol-le politica autostradale, e criticò anche la “pratica semprediffusa in occasione di ogni progetto autostradale di gonfia-re le previsioni del traffico sempre crescenti e di considerarecongelati i costi di lavorazione e delle materie prime; un

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striali abbiano finito per insediarsi quasi esclusivamente in corrisponden-za dei raccordi autostradali, non è un mistero per nessuno, con conse-guente affossamento delle aree ubicate a maggiore distanza dai caselliautostradali.

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escamotage che invece sotto la copertura di nuove iniziativeautostradali, serviva a soddisfare fameliche clientele e inte-ressi parapolitici”60. La costruzione di nuove autostrade, in conseguenza di tuttociò, rimase bloccata per circa sette anni (dal 1975 al 1982);il 1975 può essere considerato quindi l’anno in cui si conclu-se definitivamente “l’età dell’oro” delle autostrade. Ben consapevole di tutto ciò, la politica continuò ad ignora-re le raccomandazioni dei tecnici circa la necessità di rivede-re l’intera programmazione del settore infrastrutturale e diconseguenza, temendo anche una crisi dai risvolti economicinazionali, rilanciò la politica autostradale soprattutto alNord, causando, di conseguenza, un’inevitabile squilibrio trale varie reti di trasporto (basti ricordare che dal 1980 e il1993 la lunghezza complessiva della rete stradale era cresciu-ta del 3,45%, a differenza di quella del settore ferroviario chevide diminuire la sua estensione)61 e un’ingiusta distribuzionedelle infrastrutture a scapito delle regioni del Sud del Paese62.

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60. In tal senso PAOLINI F., Un Paese a quattro ruote, Automobili esocietà in Italia,Venezia, 2005.61. Per una dettagliata analisi dei dati inerenti alle reti di trasporto in Ita-lia, nel periodo esaminato dallo studio sopraesposto, nonché per maggiorapprofondimenti, è possibile consultare la monografia di PAOLINI F.,op.cit.62. Nel 1991 a fronte del 45,09% delle infrastrutture del Nord, il cen-tro possedeva il 19,96%, il Sud il 24,17% e le isole solo il 10,78%, (Cfr.GIUNTINI, Nascita, sviluppo e tracollo della rete infrastrutturale, inStoria d’Italia, Annali XV. L’industria, Torino, 1999).

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LA RESPONSABILITÀ CIVILE AUTO.Non vi è dubbio che lo sviluppo delle reti stradali concepitee costruite con criteri del tutto differenti da quelle che neisecoli furono sperimentati per le arterie destinate ad convo-gliare i traffici imperniati sui veicoli a trazione animale; non-ché un ponderato sistema di segnalazioni; una prudentedisciplina degli incroci e dei sorpassi; una limitazione dellavelocità e più di tutto un’educazione di tutti gli utenti dellastrada, se furono tutti fattori che poterono servire sul pianodella prevenzione a ridurre il numero degli incidenti, di cer-to non riuscirono ad impedire il verificarsi degli stessi. Daqui l’esigenza, che fu alla base della responsabilità civiledegli automobilisti, di integrare i rimedi preventivi e a ancherepressivi con quelli riparatori63.

Tuttavia in Italia, a differenza degli altri Paesi europei64,nonostante la problematica fosse avvertita sin da quando leautomobili cominciarono a correre sempre più numerosenelle strade, l’assicurazione della responsabilità civile auto-veicoli fu rimessa all’iniziativa dell’utente, soprattutto di

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63. Il risarcimento è il momento culminante di tale rimedio, la cui faseiniziale è data dal rischio, si concreta con il danno, di solito, incolpevo-le e si chiude con la reintegrazione della vittima. Il criterio di imputazio-ne dello stesso è dato dal principio del neminem laedere e la cui finalitàè quella di evitare che le conseguenze di un ingiusto danno ricadano suchi lo ha patito o possano essere trasferite sulla collettività.64. Il primo sistema di assicurazione obbligatoria fu introdotto nel 1918

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quelli più agiati e alla sua coscienza dei doveri sociali. È evi-dente che la facoltatività della responsabilità civile auto nonpotette garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alrischio e di conseguenza si impose il bisogno di individuareun modello regolamentare capace di rispondere ad unacopertura collettiva.L’impegno del nostro Paese alla elaborazione di una leggeche prevedesse l’assicurazione obbligatoria degli automobili-sti si inscrive in uno scenario internazionale risalente sin dal1934, quando l’Istituto Internazionale per l’Unificazione delDiritto Privato (UNIDROIT) costituì, per lo studio del proble-ma, un Comitato di esperti, del quale furono chiamati a farparte non solo giuristi, diplomatici e magistrati ma ancherappresentanti dell’Associazione Internazionale degli Auto-mobile-Clubs riconosciuti, del Reale Automobile Club d’Ita-lia, nonché delle Imprese assicuratrici.Il gruppo di lavoro compilò, nell’arco di due anni, due pro-getti che furono particolarmente apprezzati dalla Societàdelle Nazioni ma che gli imminenti eventi bellici contribui-rono a vanificare.Terminato il conflitto mondiale, il Consiglio d’Europa, nel1954, affidò il riesame degli studi dell’UNIDROIT alla Com-

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in Danimarca; in Norvegia nel 1926; in Austria e Svezia nel 1929, inInghilterra nel 1930, in Germania nel 1939; in Francia nel 1958; in Spa-gna nel 1962. È possibile trovare notizie storico-giuridiche interessanti inmerito al problema dell’obbligatorietà dell’assicurazione autoveicoli nelnostro paese sulla Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1963.

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missione Economica per l’Europa che, due anni più tardi,approvò, dopo un ampio dibattito, lo schema di un Tratta-to col quale gli Stati aderenti avrebbero dovuto impegnar-si ad introdurre nella loro legislazione l’assicurazioneobbligatoria.

Secondo i principi informatori dello schema:- le vittime degli infortuni stradali avrebbero dovuto essereefficacemente tutelate e quindi ad esse andava garantito – inogni caso – un pronto e sicuro risarcimento;- il migliore e sicuro sistema di tutela sarebbe stato rappre-sentato senza dubbio dall’assicurazione obbligatoria, ove sene fosse affidata la gestione ad Imprese assicuratrici, autoriz-zate all’esercizio in virtù delle varie leggi territoriali;- le singole leggi nazionali avrebbero dovuto, per l’attuazio-ne dell’assicurazione obbligatoria sul piano europeo, adotta-re una serie di principi unitari, non derogabili in pejus, masarebbero state libere di accrescere le garanzie, tenendo con-to del livello di reddito di ogni Paese.

L’elaborato del Comitato degli esperti, anche se con alcuniemendamenti, portò alla stesura di una Convenzione euro-pea che fu firmata a Strasburgo il 20 aprile 195965. Con la firma della suddetta Convenzione, sintetizzata per

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65. La Convenzione fu sottoscritta dall’Austria, dal Belgio, dalla Fran-cia, dalla allora Repubblica federale tedesca, dalla Grecia, dall’Italia, dal-la Norvegia, dal Lussemburgo e dalla Svezia.

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sommi capi, e per conformarsi alla stessa, il governo italianoavrebbe dovuto presentare, di sua iniziativa, un progetto dilegge e ben avrebbe potuto fare dato che la questione per ilnostro Paese non era nuova. Fu, infatti, di quegli anni il pri-mo progetto di una Commissione di esperti finalizzato agarantire la dovuta riparazione alle vittime degli incidentiprovocati dalla circolazione stradale.

Lo studio si ispirava a quattro principi fondamentali e preci-samente: - la permanenza dei concetti ispiratori degli articoli 2054 eseguenti del Codice Civile;- la limitazione dell’imposto obbligo di assicurare al risarci-mento dei soli danni prodotti alle persone;- l’estensione della garanzia ai danni sofferti dalle personetrasportate se prodotti da autoveicoli destinati ad uso pub-blico;- l’indissolubile legame tra il contrassegno attestante ilpagamento della tassa di circolazione e l’assicurazioneobbligatoria.

Nonostante dal progetto emergesse una esaustiva protezioneaccordata al danneggiato non si tradusse in legge e rimasenel silenzio66.

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66. In tal senso vedi l’articolo di MORMINO A.P., L’assicurazioneobbligatoria della responsabilità civile, in Trattato della responsabilità

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Solo, più tardi, e precisamente nel 1969, l’incertezza del legi-slatore su quale modello regolamentare adottare per garan-tire una copertura assicurativa collettiva, venne superata conla sistemazione della materia nella legge del 24 dicembre1969, n. 990.Tale legge è rimasta per oltre trent’anni, dalla sua entrata invigore, il fulcro della disciplina dell’assicurazione obbligato-ria della responsabilità civile automobilistica.

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civile - Responsabilità e Assicurazione, a cura di CAVALLO BORGIA R.,Milano, 2007. Occorre rilevare che la legge che introdusse l’obbligo diassicurazione per i proprietari dei veicoli a motore e dei natanti, enunciòalcuni principi: l’obbligo di assicurarsi e l’obbligo a contrarre; l’azionediretta per il risarcimento del danno; il fondo di garanzia delle vittimedella strada. Nella sua originaria formulazione la legge escludeva tra isoggetti beneficiari della garanzia i terzi trasportati sui veicoli a motoree tale lacuna venne integrata solo nel 1977 con la legge n. 39 con l’esten-sione anche a tale categoria di soggetti della garanzia assicurativa, fattaeccezione per gli stessi responsabili o a coloro che sono ad essi legati daparticolari legami di parentela e affinità.

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IV

IL CODICE DEL 1992

Con gli inizi degli anni 90 l’automobile è, come già accadu-to in tutto il secolo, strettamente connessa a quelli che sonoi dibattiti politici ed istituzionali per una nuova codificazio-ne legislativa, che vedrà la sua luce nel 1992, con il Codicedella Strada tuttora vigente, ma che avrà i suoi primi vagitigià durante gli anni 80.Importante tuttavia sottolineare che ora i problemi daaffrontare non sono più “un’automobile ed una strada”, matutte le diseconomie esterne che tali entità comportano.Il Codice della Strada del 1992, è infatti il frutto di fenome-ni di “assimilazione e acculturazione”, porta i segni del suopassato e delle numerose riforme adottate nel tempo, in fun-zione dei mutamenti storici e di costume di una società incontinuo divenire, ove il peso di nuovi valori legati all’am-biente, alla sicurezza, all’integrazione delle legislazioni tro-vano nuovi modelli di composizione sempre più dettagliati esempre più ispirati al mutato contesto internazionale di rife-rimento.

“HUMUS” ALLA BASE DELL’EVOLUZIONE GIURIDICADELLA LEGISLAZIONE STRADALE NEGLI ANNI 90.Quelli che precedono il Codice del 1992 sono anni di gran-di cambiamenti, in cui il progresso sembra inarrestabile. È il1969 quando gli americani Armostrong e Aldrin mettono,

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per la prima volta, piede sulla luna e si diffonde una sensa-zione di onnipotenza; ma sono anche anni di progresso poli-tico in cui lo Stato diviene sempre più garantista dei dirittidei suoi cittadini. È il 20 maggio del 1970 quando il Parla-mento italiano adotta lo Statuto dei lavoratori, sono, inoltre,anni di importanti conquiste civili. Il legislatore emana ilnuovo diritto di famiglia (1975) con cui sancisce la paritàmorale e giuridica dei coniugi, abolisce la dote e riconoscepari dignità e pari diritti ai figli nati fuori dal matrimonio, il14 aprile del 1978 è approvata la legge che depenalizzal’aborto, pochi anni dopo nel 1980, è istituito il Serviziosanitario nazionale che consente a tutti gli italiani di esserecurati gratuitamente indipendentemente dalle loro condizio-ni reddittuali. Sono, infine, anche anni in cui si diffonde una nuova cultu-ra attenta all’ambiente, alla vita umana e alla loro tutela.Nasce, una nuova sensibilità in materia automobilistica, chealcuni timidi provvedimenti legislativi e l’industria incomin-ciano a recepire: la General Motors inventa la prima mar-mitta catalitica; in Francia, è già imposto l’obbligo della cin-tura di sicurezza, a testimonianza di una nuova generalizza-ta attenzione verso un aspetto della circolazione, quello del-la salute umana, che, fino a quel momento, non era statooggetto di specifiche attenzioni da parte del legislatore. Fra il Codice del 1959 e il Codice del 1992, intervengono,inoltre, in quegli stessi anni, due importanti riforme giuridi-che che, seppur non direttamente collegate con il diritto del-la circolazione stradale, finirono per influenzarne i contenu-

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ti, con particolare riferimento agli aspetti sanzionatori. La prima è legata all’adozione del nuovo Codice di Procedu-ra Penale, che, approvato nel 1988, introduce la nuova for-mula basata su un modello “di tipo accusatorio”, in con-trapposizione al modello “inquisitorio” previsto dal vecchioCodice Rocco di epoca fascista; la seconda riguarda il consi-stente processo di depenalizzazione con il quale è mutata lanatura stessa di molte sanzioni stradali, nella convinzione,ad esempio, che la misura detentiva del carcere dovesse rap-presentare una extrema ratio, con la conseguente necessità diindividuare valide soluzioni alternative.Giova sottolineare come, indipendentemente dalle ragioniche l’hanno giustificata, l’azione di depenalizzazione è unprocesso che non riguarda solo l’Italia. La stessa proceduraè, infatti, adottata anche dalla maggioranza degli altri Paesieuropei, i quali per fronteggiare l’ipertrofia dei loro ordina-menti e per restituire alla sanzione penale “la sua naturaledimensione sussidiaria e frammentaria”67, hanno fatto ricor-so a tale istituto.

LA PECULIARE NATURA DEL NUOVO TESTO.Il lungo processo di depenalizzazione ci consegna un Codicefortemente incentrato sulla sanzione amministrativa, e inparticolare su quella pecuniaria, che non è tuttavia l’unica

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67. Tale definizione è del Prof. Bernardi. Per maggiori approfondimentisul punto è possibile consultare BERNARDI A., in Brevi note sulle lineeevolutive della depenalizzazione in Italia, op. cit.

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importante innovazione contenuta nel nuovo testo del 1992. Il nuovo Codice, infatti, recependo le ripetute sollecitazioniprovenienti dai diversi soggetti impegnati nel settore, primifra tutti l’Automobile Club d’Italia, predispone un insieme diregole che inseriscono la disciplina della circolazione strada-le all’interno di un corpo più consistente di norme ispiratoad un programma pubblico e globale del settore trasporti.Cambia cioè l’approccio. Da un lato si procede ad un accorpamento delle vecchiediscipline in un unico testo in cui confluiscono il vecchioCodice del 1959 e il R.D. del 1933 sulla tutela delle strade edelle aree pubbliche, dall’altro gli articoli sono quasi rad-doppiati nel numero e nella lunghezza a testimonianza di unpiù completo progetto legislativo. Le definizioni sono perfezionate attraverso una piùapprofondita elencazione di dettagli e precisazioni, i conflit-ti di competenza sono risolti, attraverso il disegno completodi un nuovo “quadro del potere” nel quale il numero di sog-getti pubblici incaricati della regolamentazione del settore èampliato anche in funzione dei nuovi orientamenti e dellelinee guida europee, sollecitazioni e impulsi attraverso i qua-li soggetti come il Ministero dell’Ambiente vedono ricono-scersi un nuovo ruolo nel rinnovato assetto di pianificazionedei trasporti.La molteplicità degli interessi tutelati trova conferma già neiprimi articoli del nuovo testo, ove, in una visione di ampiorespiro, vengono inclusi, fra gli obiettivi da perseguire, oltrealla sicurezza stradale, anche la riduzione dei costi economi-

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ci, sociali ed ambientali o il livello di qualità della vita deicittadini, (art. 1 c. 2).Come evidenziato, all’ampio ventaglio di finalità, si accom-pagna un altrettanto ampio elenco di soggetti incaricati, sud-diviso fra organi nazionali e locali68. Con il Codice del 1992 sembrerebbe ormai maturo il tempodi considerare il sistema della circolazione stradale, non piùsoltanto come una sommatoria di regole e di interventi set-toriali (demanio stradale, polizia amministrativa, caratteri-stiche costruttive dei veicoli a motore), bensì “alla stregua diun sottosistema amministrativo autonomo da scorporare,almeno dal punto di vista dell’analisi sistematica, un sistema[…] da analizzare in modo unitario, ricercando al suo inter-no quegli elementi di coerenza che devono essere alla base diuna razionale regolamentazione amministrativa”.In altri termini, il Codice del 1992 fornisce alla disciplinadella circolazione stradale la dignità di materia a sé stante,contraddistinta da proprie regole, propri principi, intrinseca-mente diversi e peculiari rispetto a quelli tipici del dirittoamministrativo “generale”. Basti pensare al fatto che il diritto sanzionatorio amministra-tivo previsto dal Codice della Strada è l’unico diritto sanzio-natorio esistente ad essere adottato anche nell’interesse e tal-volta SOLO nell’interesse del soggetto sanzionato.

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68. In tale contesto, di particolare rilevanza, può essere considerata laregolamentazione della circolazione nei centri abitati, affidata ai sindacidelle diverse municipalità.

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Per esemplificare e chiarire meglio la considerazione di cuisopra, basti pensare all’art. 172 del nuovo C.d.S., che pre-scrive l’uso delle cinture di sicurezza, norma che, a ben vede-re, è finalizzata a tutelare il solo soggetto trasgressore. Loprotegge infatti da eventuali danni nei quali questi possaincorrere a seguito di incidente stradale e non altri soggettidiversi dallo stesso, in una visione che differisce, ad esempio,da tutte le norme previste dal Codice Penale (si pensi al rea-to di furto, di truffa, di omicidio, di falso). Si tratta di model-lo di legislazione che non trova equivalenti in altre materie,in cui il soggetto che viola la norma è punito per essere pro-tetto lui stesso e non un altro.

LE DISPOSIZIONI PARTICOLARI.

A) La tutela ambientale.Con il Codice del 1992 prende vigore la questione ambien-tale. Molte disposizioni vengono adottate allo scopo diridurre l’inquinamento acustico o atmosferico; è il caso degliartt. 13 e 36, che finalizzano l’attività di progettazione stra-dale alla riduzione dell’impatto e quindi del danno ambien-tale generalmente inteso. Nonostante i lodevoli sforzi legislativi mirino alla tutela del-l’ambiente circostante, merita di essere evidenziato come ipiù recenti studi in materia, incomincino a sottolineare lamarginalità del contributo del settore trasporti al problemadell’inquinamento globale, riconducendo lo stesso, in formaprevalente ad altre fonti di inquinamento.

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Sono per la prima volta presenti nel Codice del 1992 ledisposizioni che oggi giustificano la maggior parte dellemisure di limitazione della circolazione stradale (isole pedo-nali, zone a traffico limitato, circolazione alterna dei veicoloin relazione al numero finale contenuto nella targa, sussidi altrasporto pubblico locale).Nasce e si diffonde l’idea che nel compromesso fra mobilità eambiente il secondo non debba incondizionatamente sacrifi-carsi al primo, ma si debba cercare un equo punto di incontro.In quest’ottica, le moderne ZTL assolvono la stessa funzionedelle vecchie mura cittadine (con le quali, tra l’altro, spessocondividono l’estensione), proteggendo i moderni centri sto-rici dall’assalto, quasi sempre pacifico, delle fiammanti auto-vetture. In un contesto già particolarmente sensibile inter-vengono poi le disposizioni contenute nel Protocollo di Kyo-to con le quali l’Italia si impegna a ridurre le emissioni di gasserra, in relazione agli standards ottenuti nel 1990.La circolazione stradale non rientra negli impegni interna-zionali assunti dal nostro Paese, ma la “strada per Kyoto” eper i suoi obiettivi, passa anche attraverso un’azione di rego-lamentazione intelligente dell’inquinamento prodotto dallacircolazione stradale.

B) La questione della sicurezza. Trovano ampio spazio nel Codice del 1992 le nuove disposi-zioni dedicate alla sicurezza. È esteso, confermato, perfezio-nato e generalizzato l’obbligo delle cinture, la cui applicazio-ne uniforme in tutta Europa, discende direttamente dalla

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direttiva 91/671/CEE la quale a sua volta, trova ispirazionenelle direttive 77/541/CEE e 76/115/CEE.Con tali provvedimenti normativi, a distanza di circa un seco-lo dalla sua invenzione, è introdotta definitivamente nel dirittodella circolazione stradale l’obbligo della cintura di sicurezza69. Con il Codice del 1992 si rafforzano gli obblighi di forma-zione alla guida e la severità e complessità delle norme fina-lizzate a ridurre il rischio di incidenti.

C) Le risorse limitate.In termini di “economia del benessere” è possibile affermareche il nuovo Codice prenda finalmente coscienza della limi-tatezza delle risorse stradali in relazione ai molteplici bisognidegli utenti. Sulla scia dei precetti contenuti nella leggeTognoli, l’art. 7 del Codice della Strada consente ai Sindacila possibilità di riservare degli spazi nei quali la sosta èsubordinata al pagamento di una tariffa. Si tratta ovviamen-te del tentativo, purtroppo spesso vano, di arginare l’assalto

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69. Alcune fonti ci dicono che le cinture o meglio “le bretelle di sicurez-za” furono inventate e brevettate dal francese Gustave Desirè Liebau, nel1903. Tuttavia la ridotta velocità dei veicoli, unita alla cattiva qualità deimateriali utilizzati per la loro realizzazione, non ne consentirono l’imme-diata diffusione, la quale arrivò molti anni dopo, dapprima nelle compe-tizioni sportive, dove si riteneva che le cinture di sicurezza aiutassero iguidatori a tenere una posizione corretta, poi nell’industria di massa. Ilprimo Stato che le dichiarò obbligatorie per legge fu la Francia (era il1973), seguita immediatamente dagli Stati Uniti, dove lo Stato del Mas-sachusetts le rese obbligatorie nel 1975.

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delle autovetture rispetto alla ricerca selvaggia di parcheg-gio, in un mutato contesto in cui la mobilità si trasformasempre di più da piacere a necessità.

IL NUOVO QUADRO DEI POTERI IN MATERIADI CIRCOLAZIONE STRADALE.Il Codice del ’92 disegna, infine, il nuovo quadro del poterein materia di circolazione stradale, affidando al Ministro deiLavori Pubblici (oggi Ministro delle Infrastrutture e dei Tra-sporti) il compito di impartire ai Prefetti e agli Enti proprie-tari delle strade le direttive per l’applicazione delle normeconcernenti la regolamentazione della circolazione, confe-rendogli, in caso di inosservanza, poteri di diffida nei con-fronti degli Enti proprietari per l’adozione dei relativi prov-vedimenti e in caso di ulteriore inosservanza e, in ogni caso,di grave pericolo per la sicurezza, poteri sostitutivi per l’ese-cuzione delle opere necessarie, con diritto di rivalsa nei con-fronti degli Enti medesimi, a conferma di un nuovo e matu-ro disegno politico che sembra conferire alla circolazionestradale diritto di materia a se stante.

DAL 1992 AD OGGI: UN BISOGNO COSTANTEDI INTERVENTI NORMATIVICome tutti i grandi progetti di riforma, dunque, il testo del1992, ha richiesto, sin dalla sua adozione, una serie di inter-venti correttivi che ne precisarono la natura e la portatamodificatrice. Tali atti, tuttavia, non risultarono sempremirati ed efficaci ed anzi, spesso, si rivelarono “abbondanti”

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nel numero, con una prassi che non trovò pause, né battuted’arresto fino ai giorni nostri, in un lasso di tempo di circa16 anni in cui il Codice fu modificato più di 60 volte.Queste correzioni, succedutesi nel tempo, oltre che per leprevedibili antinomie che generarono, furono criticate dagliesponenti della dottrina anche per altre ragioni. Alcuni suc-cessivi aggiornamenti, infatti, crearono esempi di legislazio-ne un po’ bizzarra. Uno fra questi fu rappresentato dall’art.173 comma 3 il quale, dopo aver vietato l’uso dei telefonicellulari durante la guida, recita testualmente: è consentitol’uso di apparecchi auricolari purché il conducente abbiaadeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie che nonrichiedono per il loro funzionamento l’uso delle mani70. È anche vero che le modifiche intervenute, e che intervengono,sul Codice del 1992, trovarono, e trovano, la loro importanzaper l’inevitabile e fisiologica incidenza che le stesse sono desti-nate ad avere sulla sicurezza stradale e quindi sulla vita umana. Questo processo di continua riforma è iniziato nel 1993immediatamente dopo l’approvazione del “nuovo Codicedella Strada” ed è proseguito incessantemente, anche pereffetto diretto o indiretto dell’evoluzione della PubblicaAmministrazione (modifica del titolo V della Costituzione).Sarebbe probabilmente fuori luogo, in questa sede, riportareogni passaggio delle riforme, ed è forse più opportuno chia-

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70. Dalla comprensione letterale del testo sembra quasi che possano usa-re l’auricolare soltanto quei conducenti che necessitino delle mani per ilfunzionamento delle loro orecchie.

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rificare quella che, più di altre, si è distinta per i positivieffetti ottenuti sulla riduzione degli incidenti: la patente apunti, introdotta nell’ordinamento italiano nel 2002 ad ope-ra del D.lgs. n. 2 e subito riformata ad opera del Decreto leg-ge 151/2003 e della Legge 214/2003.Il risultato di tanto legiferare ci consegna un sistema sanzio-natorio destinato a rivelarsi particolarmente deterrente per lasua capacità di incidere in maniera significativa sulle abitudi-ni dei conducenti, arrivando fino (nel caso del ritiro dellapatente) a condizionarli nella scelta del mezzo. È una misuraimportante grazie alla quale il numero delle vittime sulle stra-de si riduce in misura consistente e che deriva la propria for-za anche dalla sua capacità di colpire indistintamente “pove-ri e ricchi”71, nonché da una mutazione ontologica, struttura-le della qualità della sanzione: non più solo denaro da richie-dere a chi sbaglia, ma studio che deve essere richiesto a chi,oltre un certo limite, viola le regole di sicurezza per sé e pergli altri; insomma, “chi più sbaglia, più studia”.

VELOCITÀ MASSIMA. Tutto questo bisogno di riforme fa riflettere su come cambiavelocemente il nostro presente.

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71. L’istituto giuridico della patente a punti appartiene all’ordinamentogiuridico internazionale dal 1947, anno in cui la prima rudimentale for-ma di punti fu introdotta negli Stati Uniti e precisamente nello stato delConnecticut. Poi fu la volta del Regno Unito, nel 1962, a seguire, nel1967, la Nuova Zelanda e alcuni Stati dell’Australia.

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I dibattiti parlamentari degli anni 2001 e 2002 si concentra-no, in lunghi stralci, sul tema della velocità, non soltantolegato al concetto di “velocità veloce”, ma anche e soprattut-to connesso ai modelli di autovetture, di strade, di volume ditraffico, di condizioni atmosferiche. Ovvero, se per alcuniparlamentari la questione era quella di differenziare forte-mente i limiti di velocità in base alla tipologia di automobi-le, quindi una cinquecento mai avrebbe potuto essere allapari di una vettura dotata di strumenti di sicurezza accesso-ri, quali ABS, airbag, cinture di protezione laterale, strumen-ti di prevenzione di danni da fuoco, per altri era necessarioil proseguimento di una standardizzazione ed anche forse diuna maggiore limitazione della velocità.Infatti, per questi secondi, causa inconfutabile della mortali-tà sulle strade, e quindi dell’incidenza sul sistema sanitarionazionale e sui costi sociali ivi connessi, era fortemente l’al-ta velocità.Tale mito, dunque, che dagli anni 50, come precedentemen-te ricordato in questo libro, divenne strettamente legatoall’evoluzione automobilistica, e si affermò a modo di esse-re degli individui, col tempo ha cominciato a divenire unproblema, ed ha così avuto con i primi anni del nuovo mil-lennio una forte battuta d’arresto. La questione fondamentale era vedere se la velocità potesseconciliarsi, nel nostro Paese, con gli obbiettivi centrali delCodice del 1992, cioè con quello della sicurezza, della tuteladell’ambiente e con quello della diminuzione dei consumienergetici.

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D’altronde in Europa la tendenza non era quella di aumen-tare la velocità, ma di aumentare la sicurezza per diminuireil numero delle vittime della strada.Si è cominciato a pensare quindi che, ritenendo sconvenien-te impedire alle case automobilistiche di creare macchinesempre più potenti, si dovesse comunque intervenire in qual-che modo sull’esternalità negativa della velocità, cercando dicombattere il mito dell’automobile da corsa, col suo cofanoadorno da grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo,“ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, più bella del-la Vittoria di Samotracia”.A distanza di quasi dieci anni da quei dibattiti, è interessan-te e confortante, notare come sulle pubblicità delle autovet-ture non si espliciti più la velocità raggiungibile e il tipo diaccelerazione perseguibile, ma la vendita delle automobili èincentivata dai comforts ivi presenti, dai bassi consumi e dal-le tecnologie installate.

L’AUTOMOBILE DEL FUTURO.Giunti ormai, all’epilogo, di questa prima parte del libro, cisi può rendere conto, ritornando all’inizio del 1900 e perbuona parte del secolo, di come, grazie all’invenzione del-l’automobile, tutto ciò che riguardava la circolazione strada-le sembrava aver trovato una soluzione ottimale, tutti i luo-ghi erano più facilmente raggiungibili, ogni disagio risolvibi-le, il “tempo dei cambiamenti” sotto il controllo umano,cosicché le grandi riforme della circolazione stradale avveni-vano almeno ad una distanza l’una dall’altra di 10 anni.

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Oggi non è più così! Oggi abbiamo un sistema automobili-stico sicuramente più sviluppato, ma abbiamo altrettantiproblemi da risolvere e di differente natura.Per esempio, il bisogno di una normativa che possa incideremaggiormente sull’inasprimento delle sanzioni per la guidain stato di ebbrezza, (i dati sull’incidentalità ci dicono che inumeri delle vittime sono spaventosi) o una normativa chepossa regolarizzare il sistema italiano alle richieste Comuni-tarie in materia di inquinamento ambientale.D’altronde in Italia circolano oltre 40 milioni di veicoli, peruna rete stradale complessiva di circa 320.000 chilometri,che hanno prodotto, nel 2007, 230.871 incidenti, per unnumero complessivo di 5.131 vittime.E se tali dati non sono paragonabili con situazioni strada-li malamente sviluppate, quali quelle presenti in larga par-te della nuova Europa, ovvero l’Europa dell’est, allo stes-so modo sono difficilmente paragonabili con realtà alta-mente sviluppate, quali quelle di Regno Unito e Germania,ma che presentano situazioni morfologiche e culturali lar-gamente differenti dalle nostre. In tal senso Giandomenico Protospataro scrive72 : “bisognaevidenziare a questo punto, per una maggiore e definitivachiarezza, che il processo di riforma del nuovo Codice dellaStrada, iniziato dal 1993, non sia frutto di errori di proget-

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72. Per maggiori approfondimenti sull’argomento è possibile consultarePROTOSPATARO G., in Modifiche al Codice della Strada: la minirifor-ma 2002, Egaf novembre 2002.

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tazione originaria del testo del 1992, ma è conseguenza del-la velocità con la quale muta il contesto economico e socia-le dei fenomeni disciplinati da queste norme ed è effetto,diretto o indiretto, dell’evoluzione della pubblica ammini-strazione, delle politiche criminali e, soprattutto, delle nor-me comunitarie, sempre più numerose e dettagliate nel setto-re, tanto da fare ipotizzare una codificazione organica dellacircolazione in tutto il territorio dell’Unione”.Oggi, a differenza di ieri, si vive in un’“Europa senza fron-tiere” in cui la libera circolazione degli uomini e delle mercisono le prime libertà fondamentali previste dal diritto comu-nitario, perché, oggi, “si pensa internazionale”, si stringonorapporti di lavoro con stranieri, ci si sposta con l’automobi-le da una nazione all’altra più facilmente.Mai come in questo momento si sente il bisogno di una“omogeneità” tra le varie legislazioni nazionali, per arrivaread un Codice della Strada Europeo UNICO, perché le nor-me comunitarie sono sempre più numerose e dettagliate nelsettore, e perché non si può pensare che la sicurezza strada-le internazionale (che dipende dalla conoscenza del tessutonormativo vigente), possa passare soltanto attraverso la let-tura della “cartellonistica” presente in “frontiera”, nellamisura in cui molte legislazioni europee presentano tra diloro ancora significative differenze.È sufficiente pensare ai limiti di velocità, che variano da Statoa Stato o addirittura scompaiono in alcuni (si veda in buonaparte della Germania). Certo, un’idea del genere non è di faci-le approccio e di anni ne passeranno ancora molti, prima di

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una definizione organica di un Codice della Strada Europeo.Tuttavia, potrebbe essere opportuno, per un buon inizio,ridurre, per esempio, il nostro attuale Codice della Strada,così da poter privilegiare delle norme che incidano diretta-mente sui comportamenti dei conducenti per ottenere deimiglioramenti sulle condizioni di sicurezza stradale.Questo significa però, nuovamente un susseguirsi di riformee poi altre ancora destinate a cambiare, correggere, miglio-rare l’attuale legislazione. Insomma una corsa a tutta velocità per il bisogno di una nor-mativa sulla circolazione stradale “al passo con i tempi!”E quindi l’automobile del futuro come sarà? Alimentata acarbone…, petrolio…, biomasse…, sole…, vento…, idroge-no o forse ad acqua…?E per una maggiore sicurezza quali saranno i nuovi accorgi-menti tecnologici? “scatole rosa”?, “scatole nere”?...E finalmente l’educazione stradale riuscirà a diventare mate-ria di insegnamento nelle scuole primarie e secondarie?Comunque una cosa è certa: per le nuove generazioni l’auto-mobile rimarrà sempre un simbolo!

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PARTE SECONDA

UN SECOLO DIEVOLUZIONE SOCIALE

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LA MOBILITÀ DALL’UNITÀD’ITALIA AL 1919

QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.La realizzazione dell’unificazione politica italiana nel 1861 –con l’eccezione dello Stato Pontificio – corona gli sforzidecennali dei patrioti risorgimentali, ma li mette anche difronte a una serie di questioni pratiche di dimensioni e com-plessità colossali.Alcune tra le condizioni e conseguenze economiche dell’uni-tà – la creazione di un mercato nazionale e l’inserirsi nei traf-fici commerciali ed industriali d’Oltralpe – impongono unrapido superamento dei problemi posti dalle realtà economi-che ed infrastrutturali regionali.La storia sociale della mobilità del neocostituito Regnod’Italia è pertanto la storia di un immenso sforzo di riorga-nizzazione infrastrutturale volto ad allacciare le preesistentireti dei regni regionali. L’innovazione di quegli anni testimo-nia altresì l’impegno italiano a imboccare la via dell’indu-strializzazione e della modernizzazione economica, con tuttele conseguenze sociali e culturali del caso, nel tentativo di farattecchire sul territorio nazionale gli elementi alla base delsuccesso delle nazioni europee più avanzate e del Regno Uni-to in particolare. La trasformazione socio-economica avvia-ta dalla Destra e continuata dalla Sinistra sfocia, seppur inmezzo a mille difficoltà, nel passaggio da un’economia basa-

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ta sui trasporti marittimi – maggioritaria ad esempio nelMezzogiorno (cfr. Maggi 2005) – a un’altra dove è prepon-derante il trasporto su terra, sviluppando in primo luogo leinfrastrutture ferroviarie.A partire dagli anni Quaranta del secolo XIX, i regni italia-ni si sono già interessati o hanno iniziato a sperimentare lenovità tecnologiche rappresentate dalle macchine a vaporeper uso economico-industriale, realizzando le prime ferrovieper il trasporto merci e viaggiatori, con particolare intensitàin Piemonte e nel Lombardo-Veneto. Al di là degli aspetti piùstrettamente tecnologici ed economici, il dibattito risorgi-mentale sul ruolo della ferrovia s’incentra anche sulla suacapacità di stabilire ed assicurare l’indipendenza nazionale(cfr. Maggi 2005). Il duplice ruolo della ferrovia come moto-re di sviluppo economico ed infrastruttura di comunicazionein grado di reificare lo Stato unitario italiano accompagna leriflessioni degli economisti risorgimentali e l’azione dei pri-mi governi del regno.I primi governi unitari si lanciano con impegno nello sforzodi connettere le esistenti ferrovie in un’unica rete nazionale,completata nel 1866 ed estesa per più di 5.000 chilometri(cfr. ivi). I collegamenti con le reti ferroviarie europee proce-dono di pari passo, attraverso i numerosi trafori alpini rea-lizzati a partire dal 1867 (Brennero) fino al 1906 (Sempio-ne). La corsa al recupero del divario infrastrutturale con ilRegno Unito e la Francia conosce alcuni successi, come larapidità di realizzazione della linea adriatica, che costituisceil tratto finale mediterraneo della “Valigia delle Indie”, la

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tratta commerciale che univa Londra alle colonie del Sud-estasiatico; tuttavia, il ritardo dell’industrializzazione italiana sisomma alla complessità orografica del territorio ed alla scar-sità dei traffici interni.La convinzione dei politici e degli economisti italiani del-l’epoca è che l’espansione della ferrovia possa risolvere i pro-blemi dello sviluppo economico e quelli dell’integrazioneculturale e politica delle popolazioni degli Stati preunitari.Messi di fronte alla straordinaria crescita economica regi-strata nei paesi europei, in concomitanza con la relativacostruzione di un’infrastruttura di trasporti più moderna edefficiente, i governanti italiani cercano di applicare lo stessomodello, iniziando a costruire, già negli anni Settanta eOttanta, anche le linee ferroviarie complementari d’interesselocale e regionale. Tuttavia, tale modello non funziona comesperato: al contrario dei paesi europei, dove le ferrovie rie-scono effettivamente a potenziare un fitto sistema di scambicommerciali già esistente, in Italia il treno è introdotto inun’economia prevalentemente di autoconsumo e nella qualegli scambi avvengono in prevalenza con gli Stati esteri limi-trofi (cfr. Pollard 1984).Inoltre, non esiste un’industria metallurgica nazionale in gra-do di fornire locomotive e materiale rotabile, che vengonoquindi importati da Germania, Francia e Regno Unito. Se irisultati in termini di sviluppo economico sono inferiori alleattese e si deve aspettare la fine del secolo per avere un’indu-stria siderurgica e metallurgica nazionale, la creazione di unaprima infrastruttura di comunicazione nazionale rappresenta

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comunque un traguardo importantissimo per la costruzionepolitica e sociale del Regno d’Italia, mettendo in relazionerealtà socio-economiche e culturali fino ad allora distanti.In particolar modo, l’innervazione del territorio nazionalecon una fitta rete ferroviaria, rappresenta anche il primocontatto delle società italiane con la nuova realtà dellamodernità industriale, intrisa di razionalismo economico e difiducia in un progresso scientifico e tecnologico continuo ebasato su macchine sempre più capaci di elevate prestazioni.“Il successo della locomotiva è in gran parte dovuto alla suacapacità competitiva nei confronti degli altri mezzi di tra-sporto: viaggiando a circa 50-60 km/h, sbaraglia ogni con-corrente, sia le carrozze (la cui velocità media era sui 14-15km/h) sia i battelli fluviali (7-8 km/h)” (Davico e Staricco2006, 14).Lo sviluppo delle infrastrutture viarie è inizialmente relegatoin secondo piano, sia perché promette minore crescita eco-nomica, sia per i vincoli finanziari posti allo Stato italianodagli elevati costi delle infrastrutture ferroviarie. L’ostacolomaggiore a un potenziamento del sistema viario è tuttaviadovuto all’estrema differenza di diffusione e di livello dimanutenzione che esisteva nei regni preunitari, strettamenteconnessa al sistema di doganale e tariffario allora vigente. Sesi escludono gli interventi napoleonici, localizzati soprattut-to nei valichi alpini del Nord, la rete viaria italiana – ed inparticolare quella del Regno delle Due Sicilie – soffre di scar-sa manutenzione e pochi sono e sono stati gli interventi pub-blici nel settore.

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Dopo il 1861, l’impulso allo sviluppo delle strade deriva dal-la necessità di collegare le campagne ed i centri minori aiprincipali centri di snodo ferroviario realizzati o in costru-zione. “Nell’Italia unita si comprese in breve tempo che l’au-spicata modernizzazione economica dei territori e socialedelle popolazioni non era legata soltanto alla costruzione distrade ferrate, ma anche all’incremento delle vie rotabiliminori. Negli intendimenti dell’epoca, le strade dovevanoservire essenzialmente a raggiungere le stazioni delle costrui-te e costruende ferrovie, diventando arterie per le ferroviestesse, le quali altrimenti avrebbero portato benefici soltan-to ai paesi direttamente toccati” (Maggi 2005, 80). La nor-mativa sulle strade allora promulgata prevede una riclassifi-cazione delle medesime e anche la possibilità di imporrepedaggi a livello locale (ad esempio per il passaggio dei fiu-mi). “Tuttavia la manutenzione ed il potenziamento dellaviabilità stradale secondaria fu fatto ricadere sugli esiguibilanci dei Comuni, con effetti nefasti sulla programmazionenazionale” (ivi, 84). È soltanto con la legge n. 312 del 1903che lo Stato italiano si accolla la metà dei costi per la manu-tenzione ed il rinnovo della rete stradale italiana secondaria.Gli sforzi maggiori si indirizzano verso la Calabria e la Basi-licata, quasi del tutto prive di strade secondarie e comunalitransitabili, affidando al Genio civile l’esecuzione dei lavori(cfr. De Rios e Porro 1989).Durante il quindicennio dei governi di Giovanni Giolitti,l’opera di rinnovamento infrastrutturale può dirsi completa,disponendo ormai l’Italia di una rete ferroviaria nazionale e

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di un adeguato sistema di strade secondarie di collegamento.La rincorsa per raggiungere gli altri paesi europei è stataperò sovente caotica e viziata dal prevalere di interessi parti-colaristici. L’importanza delle ferrovie, che diventano nelDiciannovesimo secolo il principale attrattore di poterefinanziario e politico, non manca di scatenare conflitti e con-nivenze tra Enti pubblici e privati e comporta una pianifica-zione dei trasporti gravata da pesanti limiti. “I politici, e aloro seguito i tecnici, dimostrarono fin dal 1850 una parti-colare miopia nel progettare le infrastrutture ed una tenden-za a seguire eccessivamente il mezzo più in voga del momen-to, trascurando i modi di trasporto che venivano dal passa-to a vantaggio delle ‘novità’ ed a vantaggio degli interessieconomici che ruotavano intorno alle stesse: ciò si verificònell’epoca ferroviaria a scapito della navigazione interna edel cabotaggio marittimo, mai coordinati in un’organicavisione d’insieme, come nell’epoca automobilistica a dannodella rotaia” (Maggi 2005, 221).

MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.Nel Diciannovesimo secolo, quello ferroviario diventa il piùimportante sistema di trasporto per merci e passeggeri edinaugura l’era dei sistemi di trasporto collettivi di massa.Sebbene inizialmente ristretto a un’élite urbana dagli ade-guati mezzi economici, il treno dà inizio a una rivoluzionenella mobilità, laddove il trasporto a trazione animale iniziaad essere sostituito sempre più da tram, filobus e omnibus avapore o elettrici. Lo sviluppo della rete tramviaria si assesta

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su due principali filoni: tram a vapore per le comunicazioniinterprovinciali e tram o filobus elettrici per i trasporti urba-ni (quest’ultimi sono usati fino alla fine degli anni Trenta).Maggiormente rappresentata nel centro-nord, “la rete tram-viaria italiana rispondeva al bisogno di mobilità nato dallacrescente urbanizzazione della manodopera impiegata pres-so le industrie e gli opifici urbani, ma svolse anche un impor-tante ruolo nel trasporto delle merci dalle zone rurali ai cen-tri cittadini” (Maggi 2003, 42).Anche il trasporto individuale, fino ad allora legato agli ani-mali, subisce un rinnovamento tecnologico con l’invenzionedel velocipede e la sua successiva trasformazione, dal 1886,in bicicletta. Benché coeva dell’automobile, la biciclettaottiene un incredibile successo, in quanto garantisce unarelativa autonomia di movimento a fronte di un prezzo dav-vero accessibile a tutti. Il successo europeo, ed in primo luo-go francese, della bicicletta è consacrato sia “dall’istituzionedi competizioni di rilevanza nazionale – il primo Tour deFrance è del 1903, mentre nel 1909 s’inaugura il primo Girod’Italia – sia dall’apparire di Enti nati per organizzare le atti-vità turistiche come il Touring Club italiano” (ivi, 89). Agliinizi degli anni Novanta del secolo appaiono i primi triciclie quadricicli mossi da motori a scoppio, quale alternativa aimezzi di trasporto individuali alimentati dal vapore, piùpesanti e difficili da condurre e che nel Regno Unito eranogià stati oggetto di normative restrittive. L’invenzione del-l’automobile a benzina si diffonde velocemente in Europa,sull’onda di quella fiducia nel progresso scientifico e tecno-

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logico che porta le élites urbane ad adottare velocemente iprodotti della nuova civiltà industriale. Pur rimanendo unprodotto di consumo riservato alle classi più ricche dellasocietà, l’automobile, come tutti gli altri mezzi di trasportotipici della civiltà industriale, ne diviene un simbolo; inoltre,il suo impiego quasi immediato in corse e competizioni nefavorisce l’accettazione anche presso gli strati sociali cherimangono comunque esclusi dal suo utilizzo.Inizialmente prodotta da opifici artigianali, retti spesso sol-tanto dalla genialità e dalla perseveranza di alcuni inventori,l’automobile passa rapidamente da diletto per i più abbientia prodotto industriale in grado di calamitare il capitalefinanziario e il know-how del paese. Questo processo sicompie definitivamente con l’accelerazione tecnologica e laconcentrazione industriale provocati dall’impegno bellico,ma “già nei primi anni del Novecento il motore a scoppioentra prepotentemente nello scenario del trasporto collettivoitaliano” (De Rios e Porro 1989, 93).A causa delle difficili condizioni orografiche dell’Italia, losviluppo ferroviario era stato infatti limitato dall’alto costodelle costruzioni ed il traffico pubblico su strada assunsesubito una rilevante importanza economica e sociale, tra-sportando peraltro la corrispondenza postale nei piccoli cen-tri di campagna. Nel 1912, anche grazie alla politica di sov-venzioni statali, le autolinee erano 162 ed alla fine del 1915la rete copriva circa 13.900 km sul territorio nazionale (cfr.Maggi 2005).

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MOBILITÀ E SOCIETÀ.L’accresciuta mobilità garantita dai nuovi mezzi rappresental’aspetto più evidente dei profondi mutamenti che la rivolu-zione industriale inizia a dispiegare prima nel Regno Unito edin seguito in Europa e nel resto del mondo. A partire dalladifferente organizzazione economica della produzione e daicambiamenti sociali che ne derivano, per giungere al modellodi riproduzione culturale, la civiltà industriale si caratterizzada subito per il suo livello intrinseco di dinamismo.La dipendenza da fonti di energia inanimate e da macchinarirende possibile impiantare un sistema di industrie virtualmen-te in qualsiasi luogo, qualificando il sistema industriale di persé come mobile (cfr. Davico e Staricco, 2006). Allo stessotempo, il continuo miglioramento del sistema ricercato attra-verso la sperimentazione e l’applicazione delle scienze esatte,predispone la civiltà industriale a muovere anche il sistemadelle conoscenze che la sostiene, spostando ed attualizzandodi continuo la frontiera della cultura (cfr. Giddens 1994).L’idea di un progresso scientifico e tecnologico continuo èaccettata ed incorporata dalle principali correnti di pensieroottocentesche (positivismo, marxismo e così via), tramite lequali si diffonde presso gli strati delle popolazioni europee,cui i nuovi ritrovati tecnologici consentono una capacità diintervento e di trasformazione della natura mai sperimenta-ta in precedenza. In sintesi, la società moderna si caratterizza per aver larga-mente esteso il dominio dell’uomo sulla natura e per averimpresso una notevole accelerazione al ritmo dei mutamen-

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ti. L’influenza di un maggiore potere di trasformazione e diuna maggiore velocità si ravvisa fortemente anche nel rap-porto fra evoluzione sociale e mobilità, a livello d’analisiindividuale e collettivo. I concetti di potere e velocità sonoqui da intendere in senso lato e multidimensionale, nonquindi come cornice concettuale ma piuttosto come potentiindicatori dei mutamenti che la mobilità ha apportato edapporta all’evoluzione sociale. Ad esempio, nella storia del-le relazioni tra mobilità e società, il potere può indicare sial’aumento della capacità spazio-temporale di movimento, siaanche la simbolizzazione di un potere sociale più ampio, chetrova espressione in un vissuto di mobilità (ad esempio iltipo di mezzo di trasporto che si guida in relazione alla con-dizione economica e sociale).Allo stesso modo, la velocità non indica solamente il ritmodella mobilità, bensì anche i mutamenti avvenuti nella perce-zione e nel vissuto del tempo e dello spazio.Inoltre, vi sono aspetti della relazione fra mobilità e socie-tà che possono trovare una spiegazione sotto entrambi iconcetti, tuttavia risulta utile e più agevole leggere la storiadella relazione fra mobilità e società se consideriamo chel’incremento del potere e l’incremento della velocità sonodue importanti finalità della società moderna, sempre atti-ve nell’orientare la direzione in cui si muove l’organizzazio-ne della società (cfr. Virilio 2000). A partire dalla fine del-l’Ottocento, la direzione in cui si muovono le società tocca-te dalla rivoluzione industriale è la stessa: una crescente dif-fusione del potere e della velocità in tutte le attività e clas-

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si sociali, in un percorso di progressiva costruzione di unasocietà di massa altamente mobilizzata.Nella parte finale del secolo Diciannovesimo, in concomitan-za con la diffusione della tecnologia relativa alla mobilità, siformano dunque una serie di relazioni – fra il comportamen-to individuale e sociale ed i mezzi e le modalità della mobili-tà moderna – che hanno modo di svilupparsi ulteriormentenel Ventesimo secolo. Ad esempio, l’aumento della sfera dimobilità individuale consentita dal treno, quindi il potere dicontrollare un territorio più ampio, si evolve in un potereancora più ampio e personale con l’introduzione dell’auto-mobile, che trasforma ogni individuo nel padrone del mezzoe nell’autore dei propri percorsi di mobilità. Elettricità,motori a vapore ed a combustione interna, onde radio, com-portano un definitivo distacco dalle età precedenti.L’esperienza sociale individuale e collettiva è sempre piùdisaggregata dai contesti locali (la comunità, il villaggio e cosìvia) per essere ricostruita su tempi e spazi diversi, profonda-mente modificati dalla velocità delle comunicazioni e dall’ac-cresciuta sfera di mobilità individuale e collettiva garantitadai nuovi e più performanti sistemi di trasporto. Tempo espazio si separano e diventano vuoti, cioè sono trasformati inelementi astratti e razionalizzati, presupposto per una precisasuddivisione in zone temporali e spaziali, nelle quali sonoesperibili le interazioni sociali (cfr. Giddens 1994).L’organizzazione razionalizzata del tempo e dello spazio ren-de inutile il coordinamento dei molteplici fusi orari e delleore locali, misurate con le meridiane, ed impone la necessità

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di un metodo comune per misurare il tempo e lo spazio. Pri-ma gli sforzi delle compagnie ferroviarie, e poi quelli deigoverni, rendono possibile l’adozione di tale sistema a parti-re dal 1884, data dell’adozione del sistema dei fusi oraribasati sul meridiano di Greenwich (cfr. Kern 1999). Nascecosì un tempo pubblico ufficiale, in grado di fornire una cor-nice di certezza e prevedibilità alle comunicazioni dellasocietà e favorendone lo sviluppo (ad esempio, aumentano leconsegne postali ed i flussi commerciali).L’esperienza sociale del tempo e dello spazio cambia sia alivello individuale sia collettivo: il tempo pubblico – il tem-po sul quale si plasmano le attività istituzionali e sociali – sidifferenzia sempre più dal tempo privato – il tempo del vis-suto personale.Allo stesso tempo, la sistematicità delle comunicazioni el’esperienza della simultaneità concessa dal telegrafo prima edal telefono poi, contribuiscono a trasformare l’idea stessadi passato, presente e futuro. È indubbio che l’aumentato livello di mobilità personale ecollettiva influenzi la percezione del presente, a motivo pro-prio della possibilità di intrattenere più frequentemente rela-zioni con la propria cerchia sociale, le cui vicissitudini inizia-no a far parte del vissuto personale quotidiano. Il tempo pre-sente dell’homo modernus si espande per comprendere i pre-senti delle realtà con cui i mezzi di mobilità e di comunica-zione lo mettono in contatto, aumentando la sua sfera diesperienza individuale. “Il presente dell’era moderna si con-figura come un’esperienza principalmente espansa nella

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dimensione spaziale e concettualmente percepita comeun’esperienza di simultaneità, mentre si abbandona l’ideache il presente sia una semplice successione di istanti” (Kern1999, 111).Il futuro diventa improvvisamente il luogo verso cui la socie-tà e l’individuo devono muoversi, tentando di raggiungerloil prima possibile. L’aumento della velocità e dei ritmi dellasocietà moderna impongono un ribaltamento epocale del-l’orizzonte temporale e sociologico di riferimento. Non più ilrispetto del passato e la riproposizione fedele delle tradizio-ni, ma il nuovo che deve arrivare e verso il quale l’interasocietà si protende, nello sforzo di annullare la distanza trail presente e ciò che deve seguirlo. È il futuro inteso comesenso di anticipazione degli eventi, come aspettativa stimola-ta ed alimentata dall’idea che lo stesso futuro sia fonte divalori e guida per l’azione. Agli inizi del Novecento il muta-mento concettuale trova la sua più estrema espressione nelmovimento Futurista italiano ed anche nell’opera di alcuniautori critici della modernità, quali Oswald Spengler, per ilquale l’epoca moderna è intrinsecamente temporale, cioècaratterizzata da una netta prevalenza dell’elemento tempo(cfr. Spengler 1999).Lo spazio si trova dunque ad essere totalmente dominato daltempo. In realtà, ciò che l’età moderna effettivamente com-prime è l’estensione, la distanza, via via ridotta dalla crescen-te velocità e pervasività dei mezzi di trasporto. Lo spazio adisposizione dell’uomo moderno in realtà si espande, corri-spondendo ai luoghi raggiungibili dai moderni mezzi di tra-

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sporto e dalle nuove reti per la mobilità. Mano a mano cheil potere di muoversi velocemente si diffonde in tutta lapopolazione, ecco che la società cambia la sua percezionespazio-temporale e diventa essa stessa più mobile. Alla basedi questa mobilizzazione sta il fenomeno dell’urbanizzazio-ne, che porta milioni di persone una volta stanziali a viverein città, il luogo della produzione industriale e dei nuovi,accelerati, ritmi della vita moderna (cfr. Colarizi 2000).Diversi studiosi a cavallo tra i due secoli non mancano dirilevare il nuovo fenomeno delle masse urbane, spiegandoloappunto con una contrazione delle distanze sociali prodottodalla crescita demografica, dalla sua concentrazione urbanae dalla rapidità dei mezzi di comunicazione e di trasporto(cfr. Kern 1999).Ma quali effetti sociali concreti portano la differente perce-zione ed il differente vissuto del tempo e dello spazio, la con-centrazione urbana, i nuovi ritmi della vita moderna e dellamobilità? È agevole suddividerli fra effetti generati dai mez-zi di trasporto collettivi o sociali e quelli che originano dallamobilità individuale e che tendono a influenzare maggior-mente la sfera privata. I primi sono quelli legati all’espansio-ne delle ferrovie, dell’industria e delle comunicazioni su lun-ga distanza, i secondi alla bicicletta e poi all’automobile.Il treno simboleggia il progresso, incarna la filosofia neopo-sitivista, ma soprattutto fa camminare anche le idee, nonsolo le merci. A cavallo fra Ottocento e Novecento, treni,omnibus e tramvie renderanno popolare non solo il traspor-to collettivo ma anche le idee sociali e le convinzioni politi-

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che di coloro che quei mezzi guidano: ferrovieri, macchinistie conducenti diventano la prima aristocrazia operaia forte-mente socialista e marxista, perfetta incarnazione del dina-mismo della storia e delle classi sociali che la attraversano.Saranno a breve seguiti dagli operai inurbati, coloro chequelle macchine di trasporto sono impegnati a costruire, unavolta che la Prima Guerra Mondiale, con la sua conversionebellica prima e la sua riconversione civile poi, ha definitiva-mente fatto decollare l’industrializzazione dell’Italia. Con laguerra, grazie ai prestiti garantiti dallo Stato e dalle facilita-zioni fiscali, l’industria ha avuto uno straordinario sviluppo:“in testa c’è il settore metalmeccanico e siderurgico con icolossi dell’Ansaldo, dell’Ilva, della Odero-Orlando, dellaBreda, della FIAT – l’Ansaldo è passata da un capitale di 30milioni a 500 milioni; la FIAT da 17 milioni a 200 milioni”(Colarizi 2000, 86).Lo sviluppo industriale non è soltanto figlio dell’interventodello Stato, ma anche dell’organizzazione scientifica dellaproduzione, figlia della nuova percezione moderna, laddovele fabbriche producono secondo i principi di massima otti-mizzazione del tempo, degli spazi e dei ritmi di lavoro defi-niti da Frederick W. Taylor nel 1883 e poi sviluppati dal suoallievo Frank B. Gilbreth nel 1909. La disumanità della cate-na di montaggio e della registrazione cronometrica dei tem-pi di lavorazione contribuiscono ad acuire il conflitto di clas-se fra proletariato e borghesia, già ambedue impegnati nellalotta per il controllo del sistema industriale e dei livelli di ric-chezza e di accelerazione dei ritmi sociali che esso produce.

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La rapida urbanizzazione ed il conseguente affollamentoportano a uno sviluppo del territorio urbano senza prece-denti, con la creazione delle cinture industriali a Torino,Genova e Milano. Si tratta di luoghi dove si manifestano,spesso nella maniera peggiore, i lati negativi della modernavita industriale: rumore, sovraffollamento, spersonalizzazio-ne delle interazioni sociali, conflittualità sociale e così via. Èin questo ambiente accelerato e dinamico, ma a volte ostile,che inizia a prendere forma la consapevolezza di una resi-stenza ai ritmi sempre più serrati che, nel luogo di lavoro edin generale, s’impongono all’individuo. Se in superficie c’èun’accettazione piena, magari conflittuale, del valore dellavelocità dei tempi moderni, nel profondo iniziano a muover-si correnti contrarie che ricercano una fuga da ritmi troppooppressivi, a volte in un passato elegiaco, e che troverannovisibilità e forza sociale decenni dopo.L’ambiente fisico, ed in particolare quello urbano, iniziano atrasformarsi in profondità e mano a mano sempre più veloce-mente per “ospitare” al meglio il nuovo sistema di trasporti.L’impatto del treno e del sistema ferroviario è intenso, per viadella pesantezza delle infrastrutture richieste, ma altrettantolimitato ai nodi principali del territorio italiano che va a con-nettere. Le stazioni ferroviarie sono in realtà, almeno nellecittà maggiori, integrate nel tessuto urbano laddove ciò siapossibile e l’intero modello ferroviario comporta un impulsoalla centralizzazione e concentrazione delle infrastrutturecomplementari (trasporto commerciale, attività industriali)nello stesso spazio dove sono collocati anche i binari.

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L’avvento dell’automobile, invece, scardina questo modello,in virtù della flessibilità del mezzo, che ha il grandissimo van-taggio di rendere personale la mobilità e di renderla esperibi-le sulla già esistente rete stradale, “connettendo e riconnetten-do quelle parti d’Italia che la ferrovia aveva tagliato fuori dal-la modernità” (Boatti 2006, 150). L’immediato successo del-l’auto impone l’esigenza di mettere finalmente mano alla retestradale principale e secondaria, a lungo trascurata pergarantire le risorse finanziarie necessarie a dotarsi di una reteferroviaria nazionale. Le strade sono in pessimo stato, per viadell’usura cui le sottopongono i carri per il trasporto com-merciale e per l’incuria. La già citata legge statale del 1903mira esattamente a dotare gli Enti locali dei finanziamentinecessari alla manutenzione stradale, mentre contemporanea-mente il Touring Club Italiano conduce un’assidua e tenacecampagna per dotare le strade di una segnaletica comune ericonoscibile.La campagna si traduce in una serie di sottoscrizioni peracquistare la segnaletica e, nel 1906, nell’uscita dei primiquattro quadranti – relativi a Milano, Torino, Genova eVenezia – della prima carta stradale d’Italia in scala1:250.000 (cfr. ivi). Lo scoppio della Prima Guerra Mondia-le arresta questo cammino di recupero della rete stradale esarà il regime fascista, in virtù anche della maggiore diffusio-ne dei veicoli a motore, a investire modernamente nel setto-re viario con la realizzazione delle prime autostrade, percor-si cioè specificatamente pensati per l’automobile. Gli effetti delle mobilità sull’individuo sono altrettanto este-

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si ed importanti: da un lato egli gode di un’espansione delsuo potere d’interazione sociale, mantenendo od allargandole sue relazioni sociali grazie a trasporti veloci e sicuri; dal-l’altro lato, la natura di tali rapporti inizia a cambiare pun-tando verso la spersonalizzazione dovuta a una razionalizza-zione dei tempi personali adeguata ai ritmi della vita moder-na. Il cambiamento maggiore lo si avverte comunque nell’au-mentato grado di libertà personale che i mezzi di trasportoindividuali, bicicletta prima ed auto in seguito, consentono.Il famoso romanzo sul ciclismo di Maurice Leblanc – Voicides ailes! – incarna il desiderio e la possibilità di libertà offer-te dalla bicicletta a tutti coloro che desiderano sfuggire alleconvenzioni sociali opprimenti di fine Ottocento, suggeren-do ai lettori un traguardo di emancipazione spaziale, socialeed infine sessuale. L’apparizione dell’automobile non faràaltro che accelerare l’affermazione di questo potere di eman-cipazione e liberazione personale, finalmente a disposizionedel singolo individuo, che diventa egli stesso conducente epasseggero del proprio mezzo.Gli autoveicoli sono non sono soltanto più veloci e perfor-manti degli altri mezzi di trasporto coevi, ma il loro valored’uso e simbolico risiede proprio nel fatto di aver collocatoil potere e la libertà di muoversi nelle mani del singolo indi-viduo. Questo aspetto, unito all’estrema flessibilità d’uso,spiega il rapido affermarsi dell’automobile ed il suo progres-sivo diffondersi in quasi tutta la popolazione italiana lungol’arco del Novecento.Inoltre, l’automobile gode anche del lustro dovuto all’essere

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immediatamente percepita come il nuovo simbolo del pro-gresso ed all’essere da subito adottata da parte dei ceti piùricchi e capaci d’influenza sul costume sociale. L’automobilee l’aereo arrivarono dalla Francia e furono subito accolti daquel mondo ricco ed intraprendente, ammiratore del pro-gresso e del coraggio che regnava nella Ville Lumière, cittàche dettava il costume, lo stile di un’epoca, cui tutti o quasisentivano l’imperioso comandamento di uniformarsi. E dal-la Francia giunse in Italia anche la moda di organizzare gareautomobilistiche, spesso sapientemente usate dai produttoriautomobilistici come efficace metodo di pubblicità. Organiz-zate in collaborazione con le principali testate giornalistiche(Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport) e con il TouringClub ed i primi Automobile Club, le corse di auto non man-cavano di suscitare entusiasmi in tutti gli strati sociali emonopolizzavano frequentemente l’immaginario collettivo,registrando anche duelli individuali, “come quello fra ilDuca degli Abruzzi e il cav. Coltelletti” (Boatti 2006, 157). Così come gli altri mezzi di trasporto, ed in linea con lo spi-rito dei tempi, anche l’auto fu protagonista di un’epica cheesaltava la destrezza alla guida e la velocità. La poesia del-l’automobile e della velocità trova infine i suoi epigoni nelFuturismo di Marinetti ed anche nella produzione di D’An-nunzio. Insieme hanno contribuito a determinare in Italiauna percezione insieme popolare e complessa dell’automobi-le, ponendo attenzione non soltanto ai primati del mezzomeccanico, ma anche all’evocazione del potere, della sedu-zione e della libertà.

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Tanto amore e passione per l’auto non manca tuttavia dirisvolti negativi e l’Italia si indigna e si preoccupa anche peri primi morti in incidenti stradali, causati sia dall’imperiziadei primi chauffers sia dall’assenza di una regolamentazioneuniforme relativa alla circolazione stradale. Così una voltaavviata la sistemazione della rete stradale, l’auto impone allepubbliche autorità l’adozione di regole, in grado di fare chia-rezza in un insieme di provvedimenti, nazionali e locali, chepossono anche prevedere che in città diverse si possano tene-re la sinistra o la destra. “Nel 1901 è introdotto il primoinsieme di norme, poi integrato nel 1905, con l’adozione del-le targhe, la patente a 21 anni e i limiti di velocità urbani edextraurbani” (Maggi 2005, 102).Tuttavia, l’ordinamento dispone che le città con più di25.000 abitanti possano autonomamente decidere qualemano vada tenuta all’interno delle strade urbane e si pervie-ne all’obbligo di tenere la destra soltanto nella successivacodificazione del 1923. Alla vigilia della Prima Guerra Mon-diale, l’Italia assomiglia un po’ di più alle altre nazioni euro-pee che hanno imboccato con decisione la via della moder-nità: esiste una rete ferroviaria nazionale ed il paese sembraanche culturalmente evoluto nel saper cogliere novità tecno-logiche dirompenti come l’auto e l’aereo, come dimostra lavittoria del principe Borghese al raid Parigi-Pechino, vintocon la sua vettura Itala.Sebbene non diffusa a livello popolare per i suoi alti costi,l’automobile gode tuttavia di immensa popolarità, finendoper essere l’oggetto dei desideri di quanti non possono per-

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mettersela, un sentimento e un desiderio che in Italia si radi-cano profondamente, ma che deve aspettare il secondodopoguerra per essere soddisfatto. L’automobile inizia acambiare il panorama sociale della provincia italiana, quan-do la diffusione delle auto private e delle autolinee mettonoin collegamento con le parti più dinamiche del paese quellezone che la ferrovia aveva lasciato fuori. La Grande Guerra, poi, determina il definitivo intreccio traindustria automobilistica ed economia nazionale, che in Ita-lia più che in altri paesi europei contribuisce a scrivere la sto-ria del paese nella seconda metà del Novecento. La PrimaGuerra Mondiale è infatti il terreno della definitiva provadelle potenzialità degli autoveicoli, già sperimentati per ilcollegamento ed il trasporto merci nella campagna di Libiadel 1912, dove si erano distinti per la flessibilità d’uso maanche per la precoce usura.Le gerarchie militari italiane dimostrano una certa miopia,in questo in buona compagnia dei loro colleghi europei, neiconfronti dell’uso dei veicoli nelle manovre militari. La spe-rimentazione principale degli autoveicoli arriva alla conclu-sione che essi sono eccellenti quali mezzi di trasporto e dicollegamento fra il comando e le truppe schierate, ma nonprende nemmeno in considerazione l’idea di motorizzare letruppe per guadagnare velocità di spostamento nel teatro dibattaglia.Si ha una visione “statica” del veicolo, sul quale si tentainfruttuosamente di impiantare artiglieria pesante; un certosenso del risparmio fa prediligere soluzioni che sfruttino il

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materiale già esistente – muli per il trasporto e cavalli – e viè la radicata convinzione che il fante debba sperimentare ilsacrificio della marcia a piedi (cfr. Boatti 2006).Sarà poi il corso della guerra, fortemente voluta da quellacompagine culturale e sociale che si muove in auto e di essafa il simbolo del divenire, a imporre la necessità di dotare ilRegio Esercito di numerosissimi mezzi per il trasporto.Saranno queste tragiche circostanze ad accompagnare la sco-perta dell’automobile per una generazione di giovani soldatiitaliani (cfr. Maggi 2005).Negli anni della guerra si assiste pertanto a una marcata con-versione bellica non solo dell’industria pesante ma anche deiprincipali produttori automobilistici.Il personale della FIAT passa dalle 4.500 unità del 1914 alle40.000 del 1918, grazie alle commesse di guerra ed al siste-ma generale di sovvenzioni statali e di agevolazioni fiscaliche contribuiscono alla straordinaria crescita dell’intero set-tore industriale.L’esplosione della capacità industriale, concentrata soprat-tutto nel settentrione del paese, avveniva però a spese deidiritti dei lavoratori dell’industria, che videro inasprirsi mol-to sia le condizioni di lavoro che di vita in generale. La sof-ferta vittoria del 1918 arride così a un Paese provato, divisofra pulsioni contrapposte e lacerato da conflitti sociali laten-ti che sono nati dalla corsa allo sviluppo ed alla modernità,e che nel Dopoguerra non mancano di esprimere tutta la loroviolenza, sfociando in una crisi politica e sociale che scuotelo Stato liberale italiano fino alle sue fondamenta.

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QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.L’esser usciti vittoriosi dal primo conflitto mondiale nonlenisce le ferite umane, sociali e soprattutto politiche cheesso ha causato alla società italiana. Al contrario, la dram-matica esperienza bellica determina una polarizzazione poli-tica ancora maggiore fra gli interventisti – i movimenti poli-tici irredentisti e parte dell’intellighenzia italiana – e i noninterventisti – principalmente i partiti di sinistra e le classipopolari. Il contrasto fra queste due componenti della socie-tà italiana riesplode al termine del conflitto, aggravato dalletrasformazioni economiche e sociali indotte dalla guerra: nelbiennio 1918-1920 l’Italia liberale è scossa dagli scioperinell’industria, dalle rivolte dei braccianti agricoli e dal radi-calismo politico di coloro che ritengono la vittoria militare ele sue conseguenze territoriali estremamente insoddisfacentia fronte del sacrificio sostenuto. Lo scontro aperto fra forze politiche di sinistra e forze con-servatrici si fa aspro e quotidiano e l’attendismo dei governiparlamentari dell’epoca non fa che alimentarlo (cfr. Colarizi2000). Il sistema costituzionale Albertino è anacronisticorispetto ai mutamenti sociali ed economici innescati dall’in-dustrializzazione ed accelerati dalla guerra e in Italia si inne-sca una crisi politica e sociale che sfocia in una crisi di rap-presentanza politica.

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Le classi sociali meno agiate non hanno la stessa voce incapitolo dei capitani d’industria e di quanti – proprietari ter-rieri, liberi professionisti, ecc. – determinano le sorti d’Italiaattraverso un parlamento eletto da una minoranza di censo.Esistono ormai nel paese le condizioni per l’allargamento delsuffragio e per la legittimazione politica e sociale delle novi-tà che la modernizzazione industriale reca con sé, ma il siste-ma politico non coglie la gravità e l’urgenza di tali istanze,dibattuto fra la difesa, anche repressiva, dello status quocostituzionale e timidi accenni di rinnovamento. Il risultatoè una continua delegittimazione della monarchia costituzio-nale da parte delle forze sociali emergenti, che sfocerà nellaconquista prima, e nell’abbattimento poi, del regime parla-mentare ad opera di Benito Mussolini. Il regime fascistas’impegna a realizzare molte delle riforme dei precedentigoverni, comprese quelle nel settore dei trasporti e della via-bilità, inclusa l’attesa introduzione di un Codice della Stradaaggiornato. La politica infrastrutturale del regime fascista sidivide tra il sostegno alla viabilità su gomma e l’ammoder-namento della rete ferroviaria. Le linee ferroviarie ricevonol’elettrificazione e si continuano gli ingenti investimenti nel-le linee a scorrimento veloce, le direttissime, che rendevano itragitti ferroviari ancora più brevi. Altre realizzazioni importanti sono le stazioni di NapoliPiazza Garibaldi e Mergellina (1925), Milano Centrale(1931), nonché il nuovo fabbricato di Firenze Santa MariaNovella (1935). Nel 1940 le linee a doppio binario passanodai 3.640 km del 1923 a 4.570 e le linee elettrificate arriva-

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no a coprire quasi un terzo della rete nazionale (cfr. Maggi2005). L’ammodernamento delle ferrovie rappresenta unavetrina di prestigio per il nuovo regime e anche le lineesecondarie sono oggetto di miglioramenti, fra i quali l’intro-duzione delle automotrici a motore, chiamate Littorine.Quest’ultime e gli altri treni leggeri erano in grado di rag-giungere velocità maggiori e pertanto nascevano come rispo-sta al crescente traffico su gomma (cfr. Cruciani 1987). Inlinea generale, gli investimenti statali garantiscono un siste-ma ferroviario moderno ed efficiente e, per quanto riguardala mobilità collettiva sulle lunghe distanze, ancora competi-tivo nei confronti dei veicoli a motore. Negli anni Trentasono istituiti treni di lusso che collegano l’Italia con l’esteroe fa la sua apparizione il capostipite dei treni italiani ad altavelocità, l’Etr 200, in grado di stabilire nel 1937 il primatonazionale di velocità (cfr. Giuntini, 2001). Gli investimenti nelle infrastrutture ferroviarie s’interrompo-no durante la Seconda Guerra Mondiale, ma le ferrovie con-tinuano a funzionare anche quando l’Italia è divisa in duecome conseguenza dell’armistizio dell’8 settembre 1943.“Gli ultimi anni del conflitto sono però disastrosi per leinfrastrutture ferroviarie a causa delle mine e dei bombarda-menti, responsabili della distruzione di circa il 30% dei bina-ri della rete nazionale e del 100% delle linee elettrificate”(Maggi 2005, 58). Sotto il regime fascista il sistema dei tra-sporti su strada riceve un’ulteriore sistemazione sia a livelloamministrativo sia infrastrutturale. Dal punto di vista ammi-nistrativo, “la rete viaria è posta sotto la supervisione ed il

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controllo della Aass (Azienda autonoma statale della strada),istituita con la legge n. 1094 del 1928, con l’obiettivo digestire le principali vie di comunicazione stradali per untotale di 20.620 km” (Maggi 2005, 107). Le altre decisioniamministrative a favore del trasporto su gomma sono l’isti-tuzione di autolinee di gran turismo e la creazione del P.R.A.(Pubblico Registro Automobilistico), nonché la trasforma-zione della tassa sulle automobili da comunale a statale.Dal punto di vista infrastrutturale, la rete viaria italiana siarricchisce di una nuova tipologia: l’autostrada. Benché giàrealizzata altrove, l’autostrada italiana degli anni Ventidiventa, nella propaganda fascista, un’opera pionieristicaitaliana e un’importante vetrina per il prestigio internaziona-le del regime di Mussolini. Le prime autostrade italiane sonorealizzate secondo il modello usato per le infrastrutture fer-roviarie: il concessionario le costruisce e ne percepisce ilpedaggio, mentre lo Stato vigila sulla gestione e ha la prela-zione sul riscatto. Nel 1924 inizia la costruzione della prima autostrada italia-na, la Milano-Laghi, alla quale seguono la Milano-Bergamola Bergamo-Brescia, la Roma-Ostia, la Firenze-Mare e laNapoli-Pompei. “Nel 1934 si pianifica la costruzione dinuove autostrade per circa 7000 km, ma il progetto non tro-va attuazione per gli impegni finanziari dovuti alla guerracon l’Abissinia e alla Seconda Guerra Mondiale” (Maggi2005, 111). Molto più importanti per il sistema di trasportiitaliano sono le camionabili, strade larghe a carreggiata uni-ca che hanno l’obiettivo di facilitare il trasporto merci su

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gomma. La principale di queste – la Genova-Valle del Po –collega Genova con la pianura padana ed è aperta nel 1935.Durante la Seconda Guerra Mondiale i danni maggiori lisubiscono le strade statali, non solo per le operazioni milita-ri di distruzione, ma anche per l’usura dovuta ai trasportimilitari ed ai carri armati pesanti. Le distruzioni maggiori siregistrano nelle regioni centrali, fra la linea Gustav (da Gae-ta alla foce del Sangro con Cassino come punto nodale) e lalinea gotica (da Viareggio a Rimini lungo l’Appennino), inragione della lenta ritirata verso nord dell’esercito tedesco.Oltre la linea gotica, invece, per il rapido evolversi dellaguerra, i danni sono minori (Maggi 2005, 112).

MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.Il periodo fra le due guerre mondiali si caratterizza per lacoesistenza, prima, e la competizione, poi, tra il rinnovatosistema ferroviario italiano e l’emergente trasporto su gom-ma. Le ferrovie continuano ad essere non solo un settorestrategico delle infrastrutture e del sistema di trasporto ita-liano, ma godono anche “dell’incremento del traffico mercie passeggeri su rotaia che si registra in Europa, giungendo atrasportare nel 1929 circa 139 milioni di passeggeri e 59milioni di tonnellate di merci” (Maggi 2005, 53). Entrato incompetizione con l’automobile, il treno rimane tuttavia unmezzo imbattibile per quanto riguarda il trasporto di perso-ne su lunghe distanze. A ciò contribuisce anche il migliora-mento tecnologico di locomotori ed infrastrutture, che por-ta i nuovi elettrotreni della Breda a coprire la distanza Firen-

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ze-Milano in poco meno di un’ora e 55 minuti (cfr. Crispo,1940). Tuttavia, nonostante gli investimenti ingenti nell’elet-trificazione delle linee e nei treni leggeri, il trasporto merci subinario si avvia a diventare minoritario. Il successo degli autoveicoli è indiscutibile e negli anni Tren-ta si registra un marcato aumento del trasporto merci sugomma, in misura tale da causare i primi deficit nei bilancid’esercizio delle ferrovie e costringere il governo a realizzaremisure restrittive per l’autotrasporto. “A titolo d’esempio,basti pensare che nel 1931 il trasporto su gomma incide peril 3% sul totale, ma già nel 1932 sale al 13% e nel 1933 rag-giunge il 20%” (Maggi 2005, 53). Durante gli anni Trenta egli anni Quaranta si registra dunque in Italia l’eccezionalediffusione dei camion, “tanto che nel 1942 essi erano quasipari al numero di automobili e un mezzo di trasporto e dilavoro assai popolare, almeno nell’Italia del nord” (Mendu-ni 1999, 20). Dal canto loro, le automobili continuavano lapropria corsa alla conquista degli italiani benché ancora diquelli più abbienti. Dopo la Prima Guerra Mondiale l’industria automobilisticaesce infatti dalla fase pionieristica per entrare in quella delconsolidamento e della maturità. Il mercato italiano siespande e, sull’esempio di FIAT, l’industria dell’auto introdu-ce gradualmente la catena di montaggio e si appropria del-l’eccezionale evoluzione della tecnologia meccanica e del for-midabile sviluppo dei procedimenti costruttivi. Inizia anchein Italia un processo di concentrazione industriale che vedesparire molte delle marche automobilistiche di inizio secolo

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e dei loro protagonisti. Allo stesso tempo, si assiste alla spe-cializzazione funzionale dell’industria dell’auto, con la nasci-ta di numerose imprese che si dedicano unicamente alla pro-duzione di componentistica per auto e motori – la FIAT smet-te di produrre carburatori in proprio già dal 1927 (AAVV,L’automobile italiana, Giunti 2006, 117). Alla fine degli anniVenti il mercato italiano vede sul campo solo alcuni grandiindustrie quali FIAT, Alfa Romeo, Lancia e Isotta-Fraschini(cfr. Mochi 1982). La FIAT e l’Alfa Romeo, al contrario del-la Lancia, sono aziende che operano a tutto campo nel set-tore dei motori, producendo motori per l’aviazione – il prin-cipale affare dell’Alfa Romeo negli anni Trenta – o per i tre-ni – la FIAT realizza nel 1922 la prima locomotiva diesel-elet-trica del mondo. L’industria dell’auto si avvia in quegli anni a ricoprire unruolo centrale e, per certi aspetti, fondamentale nell’interaeconomia italiana, catalizzando risorse umane e finanziarie.Ne sono testimoni gli investimenti realizzati per la costruzio-ne di nuove sedi produttive in Italia ed all’estero: l’AlfaRomeo, passata sotto la gestione statale dell’IRI nel 1932,inizia la costruzione dello stabilimento di Pomigliano d’Arconel 1938, dedicato alla costruzione su licenza dei motoriaeronautici dell’inglese Bristol; La FIAT, il più grande costrut-tore nazionale privato, inaugura il nuovo stabilimento delLingotto nel 1923, al quale fa seguito lo stabilimento diMirafiori, inaugurato nel 1939. La vitalità della FIAT, chealla fine degli anni Trenta è già il maggior gruppo imprendi-toriale italiano, non si arresta ai confini nazionali: nel 1921

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nasce FIAT Polski e nel 1923 si avvia la produzione su licen-za di automobili e camion in Russia (AA.VV. 2006, 149).L’inizio della Seconda Guerra Mondiale vede un’industriaautomobilistica ormai radicata e protagonista dell’economianazionale e pronta, sull’esperienza delle recentissime avven-ture coloniali nell’Africa orientale, ad avviare un nuovo pro-cesso di riconversione della produzione a fini bellici, concen-trando gli sforzi produttivi nei camion, negli aerei e nei mez-zi corazzati. Dall’inizio delle ostilità, infatti, il regime fasci-sta ha imposto il divieto di circolazione per le automobiliprivate e tutte le risorse industriali sono concentrate nellosforzo bellico.

MOBILITÀ E SOCIETÀ.Lo sconquasso sociale ed economico portato dalla PrimaGuerra Mondiale si ripercuote a livello politico, determinan-do la fine degli Imperi ottocenteschi e l’insorgere di nuoviprotagonisti sociali e politici all’interno e all’esterno dellenazioni. L’Europa è ancora una volta la fucina nella quale sisperimentano i nuovi modelli politici, comunismo e nazifa-scismo, nati apertamente per superare quella che all’epocaera la crisi della democrazia parlamentare di ispirazione libe-rale. Allo stesso tempo, si ultima il processo di conversionedel modello di sviluppo delle società industrializzate, conl’abbandono quasi completo del carbone in favore dell’ado-zione dei combustibili fossili, dal potere energetico maggio-re e più disponibili. La conversione energetica al petrolio sostiene lo sviluppo di

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un capitalismo di tipo nuovo, basato su una tecnologia anco-ra più potente e su una completa riorganizzazione scientificadella produzione di stampo taylorista, che consente unamaggiore standardizzazione e produttività delle merci e unaconseguente necessità di espandere i mercati. I sistemi politi-ci emergenti – compreso il fascismo in Italia – dimostrano divoler usare la razionalizzazione dell’industrializzazione perconsolidare il proprio potere e realizzare i propri obiettiviprogrammatici, al centro dei quali, in veste di attore e bene-ficiario finale, sta comunque una comunità (il popolo o laclasse proletaria). Il protagonismo sociale e politico dellemasse è in effetti il dato distintivo delle società europee neglianni fra le due guerre mondiali. Quanti erano stati esclusi dal sistema politico liberaldemo-cratico, ovvero operai e piccolo-borghesi, diventano i prota-gonisti del rinnovamento, ultimando quel cammino verso lasocietà di massa iniziato nell’Ottocento con le unificazioninazionali, l’industrializzazione e l’inurbazione di quote cre-scenti della popolazione. La società di massa nei regimi tota-litari o autoritari è una società dinamizzata, manipolata estimolata da chi detiene il potere e ne vuole indirizzare leazioni e carpirne il consenso. Le relazioni che si instaurano tra massa e potere nelle socie-tà totalitario-autoritarie tendono a creare un legame organi-co e diretto tra i dirigenti ed il popolo e ad estremizzare ildinamismo dell’azione politica e sociale, puntando al coin-volgimento della totalità della comunità verso gli obiettivipolitici designati. Il caso del fascismo italiano è tuttavia par-

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ticolare, date le condizioni di relativa arretratezza economi-ca del paese rispetto alle altre nazioni europee ed agli StatiUniti in particolare, da dove proviene la spinta all’evoluzio-ne verso un capitalismo moderno, e dove una crescente quo-ta di persone di lì a poco costituirà i consumatori della clas-se media.Anche il fascismo nasce come movimento politico rivoluzio-nario, in aperto contrasto con le utopie socialiste massimali-ste e comuniste, ma in totale sintonia con la filosofia futuri-sta di completo rigetto del passato, del vecchio, della tradi-zione, in favore della velocità, della tecnologia e delle mac-chine. Tuttavia, nel corso del Ventennio, il regime fascistadimostrerà una completa ambivalenza, limitando la propriacarica modernizzatrice iniziale per inseguire i propri obietti-vi di stabilità interna e di politica estera. Di fronte alle resi-stenze della Chiesa in tema di politica sociale e familiare, allosquilibrio economico fra nord e sud d’Italia, agli obblighiinternazionali verso i creditori e alle proprie, smisurate,ambizioni in politica estera, il regime sarà costretto a conse-guire compromessi limitanti. Il mix di politiche messe in atto dal regime fascista nel ten-tativo di conseguire obiettivi tra loro contraddittori – lamodernizzazione economica del paese con uno spiccato con-servatorismo sociale, oppure la pace sociale con la compres-sione dei redditi per stabilizzare il bilancio nazionale e soste-nere la Lira – sfocia pertanto in risultati parziali, se non delu-denti, che alimentano e talvolta, molto più raramente, sfo-ciano in aperta contestazione al regime. L’opera di conquista

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del potere da parte del partito fascista e della liquidazionedelle istituzioni democratiche, così come lo sforzo di assor-bire il debito internazionale e rafforzare la moneta, si esten-de fino alla crisi del 1929, quando le peggiorate condizionieconomiche mondiali ed europee dimostrano alla dirigenzafascista che la repressione poliziesca è insufficiente a far pro-cedere il paese sul cammino della conversione morale e spi-rituale degli italiani sulla base degli ideali fascisti.Dagli anni Trenta in poi lo slogan andare verso il popolosegna l’inizio di un cambiamento di strategia politica delpartito fascista, indirizzato all’instaurazione di un sistemaassistenziale che ha il compito di alleviare i disagi più gravidegli strati più colpiti della popolazione e di mantenere erecuperare il consenso perduto, che vedrà raggiungere il suoculmine con la guerra in Etiopia. Le politiche adottate lungo la suddetta direttiva politica del-l’andare verso il popolo – per quanto in realtà poco sostan-ziali – gettano tuttavia le basi per alcuni cambiamenti impor-tanti della società italiana e risultano significative per il rap-porto tra questa e la mobilità. Durante gli anni Trenta siverificano anche in Italia quei mutamenti dovuti alla nuovariorganizzazione del capitalismo industriale e che in Europagià fanno sentire i propri effetti: la diffusione della meccaniz-zazione dei processi produttivi accompagnata da una pro-gressiva riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori nell’in-dustria e dalla conseguente comparsa del tempo libero; losviluppo di un settore terziario e l’apparizione di una nuovatipologia di lavoratori; l’espansione della produzione di mer-

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ci e di un più esteso mercato di consumatori. Il fascismo ita-liano, seppur nel quadro dei compromessi citati in preceden-za, si muove nella direzione di accogliere tali cambiamenti,ponendosi come intermediario tra questi e la società italiana.Complessivamente, l’intervento del governo fascista si rias-sume perciò in un’influenza, a volte significativa, sul rappor-to fra società e mobilità in Italia ed in particolare sui seguen-ti risultati:- il rapporto sempre più stretto tra la FIAT ed il potere gover-nativo italiano, in virtù dell’importanza economica del-l’azienda torinese, che si assicura un predominio nell’econo-mia italiana tale da orientare pesantemente le scelte di poli-tica economica ed infrastrutturale dell’Italia;- la definitiva affermazione in Italia della società di massa,sia in termini di omologazione dei comportamenti sia diun maggior accesso ai consumi, tuttavia fortemente limitatadal conservatorismo sociale e dal basso livello di redditoprocapite;- la profonda interiorizzazione dell’automobile nell’immagi-nario collettivo degli italiani, sia come oggetto di prestigiosociale sia come potente simbolo di modernità, dovuta allasaldatura culturale fra fascismo e futurismo, ulteriormentealimentata dalla mitologia delle corse automobilistiche e dauna produzione industriale che inizia a rivolgersi a tutte lepossibili fasce di clientela.I rapporti fra FIAT e fascismo sono di rilevante importanzasin dall’affermazione del movimento di Mussolini nel pano-rama politico italiano. Come la maggior parte dei grandi

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industriali italiani, la FIAT appoggerà il consolidamento delregime fascista ed i suoi obiettivi di stabilità e ordine trami-te l’annientamento dei movimenti sindacali e operai rivolu-zionari, pur riuscendo a mantenere in gran parte lontano daipropri stabilimenti il controllo e la presenza degli uomini delregime. Come principale industria tecnologica italiana e pro-duttrice di veicoli, poi motori di treno e di aerei poi, la FIAT

è inoltre naturalmente deputata ad entrare in sintonia con iconcetti e gli stilemi del futurismo italiano. La storia dei rap-porti fra la FIAT ed i governi italiani affonda comunque giànel primo conflitto mondiale, quando l’azienda torinese siarricchisce e si espande grazie alle commesse militari. Il rapporto prosegue sotto il fascismo ma – in virtù della cen-tralizzazione e della statalizzazione dell’organizzazione del-l’economia e della società da parte di quest’ultimo – assumeun’intensità nuova. La commistione dell’amministrazionestatale negli indirizzi di politica economica implica un rap-porto ancora più stretto con il mondo imprenditoriale rispet-to a quanto avveniva sotto lo Stato liberale, quando allo Sta-to si richiedeva di difendere la posizione privilegiata dell’in-dustria tramite la repressione dell’insubordinazione deglioperai ed il farsi carico di tutti i costi sociali causati dallo svi-luppo industriale – ad esempio la scarsità di alloggi e l’assen-za di servizi sociali. Benché il fascismo della prima ora si connoti come una rea-zione a difesa dell’industria italiana nell’interesse di un’ideo-logia esclusivamente produttivistica, è impossibile anche perMussolini non farsi carico di questioni strutturali che sono

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legate all’industrializzazione della società e che investono diresponsabilità lo Stato italiano. Il nascente capitalismomoderno necessita non soltanto di una spoliticizzazione deirapporti di classe, ma anche di una riorganizzazione dellasocietà che tenga conto dei mutamenti sociali ed economiciimposti dalla produzione industriale. In breve, le condizionieconomiche e sociali di un capitalismo di tipo coercitivo spa-riscono e il nuovo capitalismo organizzato, in forte crescitae favorevole a un consumo di massa, richiede un governo ingrado di plasmare il paese nella direzione dell’integrare tuttigli strati della società nel sistema economico.La FIAT è indubbiamente una delle protagoniste di questorinnovamento istituzionale e organizzativo del capitalismoitaliano e pertanto riscuote il plauso del regime fascista,anche per questo e non soltanto per lo strapotere economicoche si avvia ad avere nel panorama imprenditoriale. I van-taggi che l’azienda ottiene dall’appoggiare il governo fascistasono innanzitutto di tipo economico.L’intervento statale nell’economia, per conseguire gli obietti-vi di stabilizzazione della Lira, fa sì che vengano consolidatee rafforzate le posizioni di predominio sul mercato, graziealla protezione accordata da tariffe e sovvenzioni. Allo stesso tempo, il militarismo del regime fascista – conl’intervento mascherato nella guerra civile spagnola, l’ag-gressione all’Etiopia e infine la Seconda Guerra Mondiale –assicura alla FIAT, così come all’Alfa Romeo ed al resto del-le industrie meccaniche italiane, un flusso sicuro di commes-se militari. Nel 1911 la FIAT risultava al trentesimo posto fra

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le maggiori società anonime industriali del paese, ma a segui-to della Grande Guerra, grazie alle commesse belliche, divie-ne la terza impresa italiana dopo l’Ansaldo e l’Ilva. La ricordata ultimazione nel 1922 dell’ampio stabilimento aTorino Lingotto vuole rispondere all’espansione del mercatodegli autoveicoli, che nel decennio compreso tra il 1920 e il1930 fa registrare un aumento del numero di veicoli da49.433 a 245.477 (fra autoveicoli, autocarri e autobus).Dopo la crisi del ’29 il mercato riprende la sua corsa e laFIAT, dopo aver raddoppiato la struttura del Lingotto, siavvia nel 1936 – grazie anche alla ripresa stimolata dall’in-tervento in Etiopia – a costruire uno stabilimento ancora piùgrande, Mirafiori, che permette all’azienda volumi produtti-vi mai eguagliati da altri opifici (cfr. Berta 1998).L’attenzione di Mussolini per la grande industria e per laFIAT in particolare si arricchisce di altri episodi, sia sostan-ziali sia simbolici.Nel 1928 il Duce riconferma alla Confindustria che il suogoverno non avrebbe introdotto in Italia il fordismo, ovverola dottrina degli alti salari accompagnati alla riorganizzazio-ne taylorista dell’azienda (De Grazia 1981, 81). Nel 1932 Mussolini sceglie gli stabilimenti FIAT come palco-scenico del suo discorso celebrativo del decennale del fasci-smo, accompagnato da Giovanni Agnelli e da Vittorio (Cola-rizi 2000, 209).La dirigenza FIAT è inoltre pronta a sposare una visioneimperialista del fascismo, come dimostra la propagandaospitata dal giornale aziendale Bianco e Rosso, che nel 1935

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paragona l’èlite proletaria alle dipendenze della FIAT al sol-dato che combatteva in prima linea per dare l’Impero all’Ita-lia (De Grazia 1981, 93). L’altro importante legame economico fra la FIAT e il governodi Mussolini si realizza negli investimenti sul sistema viarioitaliano, quando la FIAT, assieme agli altri imprenditori e ban-che interessate, mette in partecipazione i propri capitali nellacostruzione delle prime autostrade ed Agnelli diviene il presi-dente della concessione per la Milano-Torino (cfr. Bortolottie De Luca, 1994). L’impatto delle autostrade sul traffico ita-liano è positivo, tuttavia il limitato sviluppo della motorizza-zione privata obbliga lo Stato italiano a rilevare, già durantegli anni Trenta, le tratte autostradali i cui pedaggi non con-sentono la sopravvivenza finanziaria delle società di gestione(Maggi 2005, 111). Ad ogni modo il connubio che si stabili-sce tra amministratori pubblici e FIAT si consolida, per raffor-zarsi nel secondo dopoguerra, quando la politica di sviluppoeconomico punterà con decisione verso il decollo della moto-rizzazione privata e del trasporto su gomma.L’altro aspetto del connubio che interessa al regime fascistaè il ruolo di traino che la grande azienda torinese può eser-citare sul restante panorama imprenditoriale italiano, quan-do il regime si trova a dover rispondere alla crisi economicaseguita al crollo di Wall Street nel 1929 e attiva la propriastrategia di costruzione del consenso. Il corporativismo fasci-sta e le politiche sottese allo slogan andare verso il popolocostituiscono la soluzione al conflitto di classe e una com-pensazione per i sacrifici sostenuti dai salariati – i quali han-

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no avuto nel 1926 una perdita di potere d’acquisto pari al25% – al momento dell’attuazione della politica monetariaa sostegno della Lira. Dopo aver schiacciato i sindacati disinistra e pressoché l’intero associazionismo collegato neiprimi anni Venti, Mussolini si propone di organizzare l’Ita-lia sulla base delle nuove istituzioni fasciste, il cui scopo èarmonizzare i conflitti sociali e rafforzare l’unità nazionale.La costruzione dello Stato corporativo è all’inizio poco inci-siva, quando sembra che la repressione sia sufficiente agarantire l’ordine economico e sociale, ma dagli anni Trenta,e a seguito del diffuso malcontento popolare per la crisi eco-nomica mondiale, assume un altro ritmo e un’altra direzione. Il regime fascista, di fronte al peggioramento delle condizio-ni di vita dei lavoratori e al loro malcontento, fa pressionesugli industriali per migliorare le condizioni di lavoro nellefabbriche e si appronta a penetrare nelle vite degli italianiattraverso una minuziosa organizzazione istituzionale dellestesse. La soluzione organizzativa del regime fascista al pro-blema delle condizioni lavorative è rappresentatadall’O.n.d., l’Organizzazione nazionale del dopolavoro, ilcui scopo è organizzare il tempo libero dei lavoratori pro-muovendo gli sport, la cultura, le tradizioni popolari localie, ovviamente gli ideali ed i principi del regime fascista. Con i suoi circa 4 milioni di iscritti all’inizio del secondoconflitto mondiale, l’Ond costituisce l’organizzazione piùimportante per la costruzione del consenso attorno al regi-me, con l’eccezione della propaganda diffusa tramite il cine-ma e la radio. All’inizio l’Ond intende essere il sostituto del-

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l’associazionismo dei lavoratori spazzato via dallo squadri-smo e si pone come un ulteriore strumento a disposizione diquel capitalismo e aziendalismo moderno, di stampo angloa-mericano, che individuava nella pianificazione razionale deirapporti fra capitale e lavoratori la soluzione ai conflitti diclasse. Secondo tale tendenza, l’integrazione totale del lavo-ratore nel processo produttivo non può prescindere daun’organizzazione della sua vita anche al di fuori del tempodi lavoro, tramite migliori salari e una serie di servizi offertianche dall’azienda (centri sportivi, alloggio, istruzione pro-fessionale, ecc.). Gli industriali italiani, benché il fascismo abbia imposto perlegge le otto ore lavorative determinando la comparsa deltempo libero dei lavoratori anche in Italia, si rifiutano diapplicare questo modello in virtù delle differenze esistenticol capitalismo americano – minore capitalizzazione delleimprese, mercato più ristretto e abbondanza di manodopera– e anche per scarsa lungimiranza. L’esempio della FIAT, chenel 1928 vi iscrive l’associazione dei suoi impiegati e il grup-po sportivo dei suoi operai, contribuisce al decollo dell’Ondche nel 1931 conta già 2.938 aziende con una sede dopola-voristica (cfr. De Grazia 1981). L’impatto principale del-l’Ond nella società italiana, tuttavia, non risiede tanto nel-l’aver introdotto una versione più razionalizzata ed assisten-ziale del capitalismo, quanto nell’aver consentito la pienaaffermazione della società di massa e preparato il terrenoall’avvento del consumo di massa. Ciò è avvenuto tramite ilcoordinamento e l’organizzazione unica di attività sportive,

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ricreative e culturali a livello nazionale, regionale e locale. Inprimo luogo l’intervento dello Stato tramite l’Ond ha contri-buito a far sorgere in Italia il tempo libero di massa; insecondo luogo esso ha indotto la realizzazione di un pubbli-co unificato e, infine, favorito lo sviluppo di un mercato diconsumo di massa tramite la democratizzazione dell’accessoa nuovi comportamenti di consumo. “La nazionalizzazionedel tempo libero e la creazione di un pubblico unificatoobbedisce all’indirizzo politico generale che tende alla for-mazione di un’identità culturale nazionale al di sopra delleclassi, benché di carattere popolare” (ivi, 175). La costruzione dell’identità è accompagnata dal tentativo dimobilitare il popolo italiano verso un consumo di massa,con il duplice scopo di espandere il mercato per i prodottinazionali ed integrare stabilmente i lavoratori italiani nell’as-setto sociale promosso dal fascismo. È così che l’Ond, fortedi milioni di iscritti, sottoscrive convenzioni con importantiaziende italiane per la fornitura di prodotti a prezzo sconta-to ai tesserati, che hanno la possibilità di acquistare siaoggetti – l’ambita radio – che servizi – polizze di sicurezzasociale. Tuttavia, a fronte della compressione dei salari e conl’iniziare della depressione economica, si realizza ben prestoche non ci sono le condizioni per l’integrazione socialemediante l’ammissione a un mercato di consumo in viad’espansione. La coscienza da consumatore non è ancoraeconomicamente attuabile come un’alternativa alla coscien-za di classe (ivi, 184). Inoltre, vi sono notevoli contraddizio-ni, ancora una volta, fra il conservatorismo sociale e familia-

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re del fascismo ed il libero accesso ai consumi da parte delledonne.Dal momento in cui il gerarca Starace prende la guida del-l’Ond, la priorità degli organizzatori si sposta dal consumodelle merci al consumo dello stesso tempo libero. A partiredal 1932, infatti, l’Ond sviluppa una politica di progressivoaccesso ai beni di intrattenimento generalmente riservati aipiù abbienti, con particolare insistenza sul turismo e l’escur-sionismo di massa. Si tratta di una politica di grande succes-so per l’immagine del regime, basata su un vasto programmache s’imperniava sull’idea di un pubblico in movimento eattivo piuttosto che passivo. Dal 1931 il popolo italiano ha l’opportunità, per quantosporadica, di fare un’esperienza di mobilità fuori dall’am-biente abituale, alla scoperta di nuovi territori. La campa-gna, le spiagge del mare e le montagne italiane si trasforma-no in prodotti accessibili, grazie alle riduzioni sul bigliettopreviste per i treni popolari. Il successo di quest’ultimi è ele-vato e continuo fino alla guerra contro l’Etiopia, quando, inoccasione delle festività, più di un milione di persone ne usu-fruiscono (cfr. Maggi 2005). Talvolta il turismo di massaprevede anche l’uso di automobili, come avviene a Torino,dove il federale Andrea Gastaldi sperimenta una mobilitazio-ne di massa di mezzi celeri, ottenendo da industriali locali eda singoli privati 24 autocarri, 46 automobili e 42 motoci-clette per trasportare 1.500 contadini e lavoratori del Cana-vese fino a Ceresole Reale sulle falde alpine (De Grazia1981, 210). In realtà la mobilità popolare organizzata

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riguarda una parte limitata della popolazione, quella chevive nelle grandi città e lavora nelle fabbriche e negli uffici,mentre chi abita in campagna e nei centri minori accederàalla villeggiatura nel secondo dopoguerra.Nondimeno, grazie a queste azioni l’Ond contribuisce adabbattere alcune divisioni sociali e di classe, ad ottenerel’ammissione parziale a nuovi modelli di consumo e adestendere la rete delle comunicazioni di massa, spianando lastrada a modelli di consumo e di comportamento che esplo-deranno nel secondo dopoguerra con il decollo della moto-rizzazione privata. Negli anni del fascismo l’automobile è giàun prodotto tecnologicamente maturo ma ancora troppocostoso per la maggioranza della popolazione, che si spostaancora sul velocipede, con mezzi a trazione animale oppurecon tram urbani ed extraurbani, filobus e treni. Il radica-mento dell’automobile nell’immaginario collettivo degli ita-liani avviene tuttavia proprio in questi anni di enorme cresci-ta del trasporto collettivo. Il sogno di un’automobile si alimenta di svariati fattori, maproprio la sua mancata realizzazione durante il Ventennio, sesi eccettua una minoranza di abbienti, contribuisce a rende-re così forte e duraturo l’amore degli italiani per i mezzi amotore lungo tutto il secondo dopoguerra e ben oltre. A sti-molare il desiderio concorrono principalmente fattori cultu-rali – la vicinanza ideologico-culturale fra futurismo e fasci-smo; fattori di costume – la grandissima popolarità delle cor-se automobilistiche e dei piloti loro protagonisti; infine, fat-tori di mercato – il progressivo avvicinamento della produ-

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zione automobilistica anche alle fasce basse del mercato e lacontinua differenziazione stilistica dei modelli. Come si è accennato, il fascismo italiano è stato il movimen-to politico che, specie ai suoi inizi, ha incarnato i valori delfuturismo e cioè l’identificazione con il dinamismo e la velo-cità, e la storia dei suoi inizi avviene tutta su ruote, dalle vio-lenze squadriste alla marcia su Roma. In seguito Mussolinisi premura di continuare a promuovere un’immagine virile etecnologica del fascismo, in virtù anche di una passione per-sonale per i motori che lo porta a prendere il brevetto dipilota d’aereo dopo il primo conflitto mondiale ed a parteci-pare a raduni motociclistici (cfr. R. De Felice e L. Goglia1983). Il capo del governo fascista non manca poi di presen-ziare alla presentazione dei modelli di casa FIAT, come nelcaso della FIAT modello 508, ribattezzata “Balilla” dal Ducee da questi personalmente provata sui viali della sua residen-za di Villa Torlonia (cfr. AA.VV. 2006). In campo più strettamente culturale e di costume si registra-no “I romanzi Racconto di un’automobile (1931) di Massi-mo Bontempelli e La strada e il volante (1936) di PietroMaria Bardi, senza contare i titoli più strettamente futuristi– Il paesaggio e l’estetica futurista della macchina e Cantoeroi e macchine della guerra mussoliniana di Marinetti, Poe-sia della macchina di Maria Goretti e Fiori e Motori diLudovico Gaetani. Non vanno neppure dimenticate le can-zoni popolari La Balilla e Sulla mia Topolino, così come ilfilm La danza delle lancette (1936), sceneggiato da CesareZavattini e diretto da Mario Baffico, in cui si narrano le

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vicende di Arnaldo d’Aragona, un giovane pilota che corresotto falso nome per tenere nascosta al padre la sua passio-ne per le gare automobilistiche” (AA.VV. 2006, 108-109).Sono tuttavia la fotografia e la cartellonistica le arti cui sideve l’immensa popolarità dell’automobile fra gli italiani.“La prima contribuisce a creare una vera e propria iconogra-fia naturalistica della velocità, nella quale le protagonistesono le auto da corsa ed i loro piloti; la seconda, alimentatadai manifesti di Plinio Codognato e dalle copertine di Marcel-lo Nizzoli per la rivista Le vittorie del motore, presenta le vet-ture come simboli di uno status sociale superiore” (ivi, 119).Le competizioni di autoveicoli diventano uno dei più impor-tanti fattori di valorizzazione della produzione automobili-stica nazionale nonché la fucina per la creazione di una nuo-va mitologia relativa ai piloti di auto, alle loro scuderie dicorsa ed ai marchi che rappresentano. Tazio Nuvolari, Anto-nio Ascari, Achille Varzi, Giulio Masetti, per citare i piùfamosi, sono i protagonisti di una stagione epica di scontrisulle piste e sui campi di gara. Durante il Ventennio il motorismo automobilistico giunge alsuo massimo splendore: “si corre sulle piste, sui circuiti cit-tadini, nelle gare di durata e nel 1927 si disputa la prima edi-zione della più famosa gara italiana e una delle più ambiteda piloti e costruttori: la Mille Miglia, un percorso di 1600km sul percorso Brescia-Roma-Brescia” (ivi, 113-114). Larisonanza mediatica di cui godono sia le corse sia i piloticontribuisce a renderle conosciutissime ed a scatenare unapassione duratura negli italiani.

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Il fenomeno è attentamente osservato ed alimentato dallecase automobilistiche, che hanno tutto l’interesse ad allarga-re il mercato per i loro prodotti, sia destandone il desideriocon la pubblicità sia iniziando a studiare modelli di auto spe-cifici per i nuovi segmenti di mercato ed in particolare per leclassi sociali popolari. L’auto del popolo è già una realtà negli Stati Uniti con ilmodello T della Ford, ma mentre i costruttori americani ini-ziano a “spostare la produzione dai modelli semplicementefunzionali a modelli che rispondono a precisi criteri – stilisti-ci, di qualità ed estetici dei consumatori – in Europa gli anniTrenta rappresentano il periodo in cui si cerca di svilupparel’auto per tutti” (D. Nappo e S. Vairelli, 2006, 48).La FIAT fa un primo sforzo con il modello Balilla, ma è laFIAT 500, denominata Topolino, presentata nel 1936, la pri-ma vera utiltaria di massa dell’azienda torinese. Con soli dueposti per adulti, una cilindrata di 569 cc. per una potenza di13 cavalli, la Topolino è al momento della sua introduzionesul mercato la vettura più piccola del mondo. Il successo cheriscuote è molto grande e, grazie a questo modello, la FIAT

arriva a conquistare nel 1937 il 7% del mercato automobili-stico europeo (AA.VV. 2006, 166-167).Tuttavia, pur avendo avvicinato molti italiani all’automobile,la Topolino non dà l’avvio a una reale motorizzazione di mas-sa. Il rapporto fra autovetture ed abitanti in Italia è nel 1927pari a una automobile per 254 abitanti, molto distante dallealtre realtà europee – in Francia è una ogni 40 e nel RegnoUnito una ogni 37. Nel 1935 le cose non sono cambiate mol-

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to e a fronte dei 326.000 autoveicoli immatricolati in Italia,ne circolano oltre due milioni in Francia e nel Regno Unito(Maggi 2005, 105). Il maggior ostacolo alla motorizzazionedi massa rimane il basso reddito degli italiani e l’alto costodelle automobili: nel 1933 una Balilla berlina costa 9.900lire, mentre con 15-20.000 lire si riesce ad acquistare unappartamento in città (AA.VV. 2006, 106-107).Alla fine degli anni Trenta l’Italia è un paese che si muoveancora in netta maggioranza con i trasporti pubblici o inbici, inizia a familiarizzarsi con il mercato del consumo dimassa e pianifica di potenziare in maniera determinante lapropria rete viaria. Tuttavia l’ingresso nell’età del benessereè interrotto dall’intervento bellico e rimandato al secondodopoguerra.

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LA MOBILITÀ DAL 1945ALLA CRISI PETROLIFERA

QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.Il secondo dopoguerra si apre con una profonda trasforma-zione politica, foriera di ulteriori mutamenti socioeconomi-ci. L’Italia si dà un nuovo ordinamento costituzionale parla-mentare e democratico, sotto l’influenza delle Forze Alleate,ed in particolare degli Stati Uniti, i quali assurgeranno amodello anche per quanto riguarda le principali scelte distrategia di sviluppo economico. La ricostruzione postbellicasi avvia dunque a trasformare l’Italia da paese europeonazionalista ed autarchico a moderna democrazia industria-le, caratterizzata da un’economia progressivamente apertaed integrata con l’esterno. Lo Stato riveste ancora un ruolo fondamentale nella ricostru-zione e nel rilancio dell’economia italiana, per tutta una seriedi ragioni: in primo luogo c’è un bisogno di legittimazioneinterna, anche rimarcando la differenza con il precedente regi-me fascista; in secondo luogo la complessità della ricostruzio-ne economica e soprattutto infrastrutturale dell’Italia imponela presenza e la direzione di un potere centrale; infine, il prece-dente assetto delle relazioni fra Stato italiano e mondo dell’im-presa – imperniato sulle attività e le partecipazioni dell’IRI –rappresenta uno strumento già pronto e per certi aspetti indi-cato per la realizzazione delle due succitate esigenze.

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L’intervento o la presenza dello Stato rappresentano unacaratteristica forte del radicamento e del consolidamento del-la giovane democrazia italiana e tali rimangono fino alla finedegli anni Ottanta, quando inizia anche in Italia una politicadi privatizzazione dell’economia. La stagione più importantedell’intervento statale coincide con gli anni Cinquanta e Ses-santa, quando il paese è impegnato nella realizzazione delleinfrastrutture viarie a sostegno della motorizzazione privata.Il modello di sviluppo al quale gli italiani – e non soltantoloro – guardano è quello statunitense, caratterizzato da unbenessere e consumi diffusi e da una struttura economicaadeguata a sostenerli, uniti a un livello di mobilità individua-le e collettiva mai visti in precedenza.L’alto livello degli scambi economici e sociali, essenziali asostenere un mercato di massa, presuppone ed impone unsistema di trasporti molto efficiente, esteso e soprattutto fles-sibile. La politica infrastrutturale riveste, pertanto, un’im-portanza primaria nel dotare il sistema dei trasporti deglielementi adeguati a sostenere le varie tipologie di traffico(merci, persone) e di percorsi (breve o lunga distanza, perlavoro o per diporto) possibili, ma anche nell’armonizzarliper giungere ad un equilibrio degli stessi. La crescita del trasporto motorizzato e delle infrastruttureviarie collegate, avvenuta in tutta Europa durante gli anniTrenta, si avvia ad essere irreversibile per le moderne econo-mie industriali, nonché strettamente imparentata con l’obiet-tivo di diffondere il benessere individuale che anima le poli-tiche del nascente Welfare State.

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In alcuni Stati, la consuetudine alla pianificazione aiuta asviluppare un sistema di trasporti che integra ed equilibra leprecedenti infrastrutture con la crescente motorizzazioneprivata.In Italia, al contrario, il secondo dopoguerra testimoniaancora una volta la scarsa capacità di pianificare un sistemanazionale ed integrato dei trasporti da parte del governo,unita alla tendenza ad abbandonarsi all’ultima tendenzadisponibile.In virtù della già sperimentata flessibilità di utilizzo dei mez-zi a motore in un territorio montuoso come quello italiano,nonché del peso politico ed economico acquisito dai gruppiindustriali legati al settore dell’auto, l’Italia è in qualchemodo predestinata a valutare con la massima attenzione lascelta di orientare tutto il sistema dei trasporti a favore deltrasporto su gomma.A favore di questa scelta, oltre ai motivi summenzionati, gio-ca anche l’idea che l’infrastruttura possa portare crescita esviluppo, cioè creare il mercato, sulla falsariga di quantosostenuto anche dai fautori delle infrastrutture ferroviarieall’indomani dell’unificazione del paese. Per quanto pocoverosimile, questa equazione si prova irresistibile per i gover-ni italiani dell’immediato dopoguerra, i quali s’affrettano ariprendere in mano il piano di costruzione di una rete auto-stradale del 1939. Alla metà degli anni Cinquanta il piano diventa un’opzionecaldeggiata ed infine una realtà concreta, determinando losviluppo delle infrastrutture e delle modalità di trasporto

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dell’Italia fino ai giorni nostri. Il trasporto su gomma e larete autostradale e viaria diventano un binomio indissolubi-le nella trasformazione dell’Italia in una moderna democra-zia industriale.Il volano dello sviluppo della motorizzazione di massa acce-lera la crescita economica, aiutata dall’integrazione del mer-cato italiano in quello multilaterale del GATT prima e del-l’unione doganale della Comunità europea in seguito. Lacrescita impetuosa dell’economia italiana fa gridare al mira-colo e prosegue pressoché costante fino alla fine degli anniSessanta. Durante questo periodo il reddito pro capite degliitaliani aumenta così come aumentano i beni destinati alconsumo di massa. Grazie anche alla televisione, si diffondono rapidamente glistili di vita legati al consumismo e all’edonismo, contribuen-do a unificare in modo ancora più efficace tra loro il merca-to ed i comportamenti di consumo. Il consumo di mobilitàdegli italiani è reso possibile dall’avvento delle utilitarie,quali la FIAT 600 e la FIAT 500, che inaugurano anche in Ita-lia la vettura di massa, non più irraggiungibile nel costo d’ac-quisto e d’esercizio. L’automobile diventa per moltissimefamiglie ed individui la principale spesa da sostenere per par-tecipare pienamente alla moderna società del benessere, o,per lo meno, il principale oggetto del desiderio degli italiani,che l’avevano lungamente ed invano sognata durante il ven-tennio fascista. L’arrivo dell’automobile nella vita quotidiana delle famiglieitaliane ha effetti profondi e duraturi sia in ambito privato

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sia pubblico. L’elevata diffusione della mobilità individualeesperita con i mezzi a motore determina mutamenti repenti-ni nelle abitudini di spostamento e di consumo, nonché sul-l’ambiente fisico del paese.Le nuove infrastrutture stradali ed il più elevato livello dimobilità possibile inducono ad un uso più intensivo del ter-ritorio ed alla sua urbanizzazione progressiva.La costante crescita del parco macchine degli italiani inizia adoccupare piazze, strade e luoghi monumentali, mentre il traf-fico motorizzato marginalizza il resto delle modalità di tra-sporto collettivo (treni, tram, ecc.) e individuale (bicicletta). L’espansione della motorizzazione privata causa il declinodel trasporto collettivo sia a livello nazionale sia nelle gran-di città, dove non si realizza un piano organico di linee dimetropolitana e dove le periferie mostrano spesso di cresce-re in modo disordinato e fuori dal controllo. Il traffico d’ori-gine privata è la principale ragione degli ingorghi e degliintasamenti delle rete viaria ordinaria ed autostradale, e allafine degli anni Sessanta si avvertono i primi segnali forti del-le disfunzioni che l’improvvisa e profonda motorizzazionesta causando al paese. Il vasto numero delle macchine compromette un’ordinatacircolazione ed inizia a portare effetti nefasti sulla qualitàdella vita, specie nelle grandi città. Si avvertono i primisegnali di consapevolezza ambientale e anche grazie all’azio-ne della Comunità europea, si dispongono i primi studi e leprime normative restrittive per i produttori d’auto. Tuttavia,la civiltà della mobilità con i suoi grandi vantaggi in termini

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di maggior libertà ed emancipazione individuale, maggiordinamismo sociale ed economico e miglior uso del tempolibero è una conquista troppo recente per essere affrontata inmodo critico. Sarà la reazione della Lega Araba alla guerradello Yom Kippur a fornire uno shock esterno tanto grandequanto imprevisto, in grado di far emergere nelle societàoccidentali e in quella italiana una nuova consapevolezza deilimiti del modello di sviluppo finora perseguito nei paesi adalto tenore di vita.Il sistema ferroviario è la principale vittima del matrimoniotra l’Italia ed il trasporto su gomma. Dopo l’ultimo sforzo dirinnovamento ed ammodernamento della rete condotto dalfascismo, le ferrovie italiane si avviano verso un periodo diminori investimenti da parte dello Stato, sia in termini d’in-frastrutture sia di materiale rotabile.Mentre all’orizzonte si profila già la temibile concorrenzadegli aerei, il treno italiano continua a perdere costantemen-te quote del traffico merci e anche del traffico di passeggeri,a vantaggio dei pullman, molto più flessibili del trasporto surotaia. “Su pressione del Sindacato ferrovieri, sono varatidue piani di potenziamento, il primo nel 1957 ed il secondonel 1962. Tali piani sono accompagnati dalla crescita deldeficit di bilancio e non risultano mai in grado di correggerela secca perdita di percentuali del traffico merci e viaggiato-ri“ (Maggi 2005, 58). La preferenza accordata al trasporto su gomma si evidenzianella sproporzione degli investimenti: nel 1959 alle ferroviesono destinati 35,8 miliardi di lire, mentre il sistema viario

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beneficia di 238 miliardi di lire (ivi, 59). La maggior operainfrastrutturale delle ferrovie è il progetto della linea direttis-sima fra Roma e Firenze, la cui costruzione si trascina peròmolto a rilento. In realtà l’ammodernamento tecnologico èad un punto morto e la direzione delle ferrovie tenta di rea-gire potenziando l’offerta degli elettrotreni sulle lunghedistanze, senza ottenere però i risultati auspicati. “Il numerodei viaggiatori rimarrà stazionario fra il 1950 ed il 1980 e,in un generale contesto di crescita della mobilità, il trenoperde costantemente terreno: la quota ferroviaria nel merca-to dei passeggeri è del 16,2% nel 1965 e scende al 10,9% nel1970. Ma lo stacco maggiore si verifica nel trasporto merci,dove negli anni del miracolo economico viaggia su rotaiasoltanto il 24% delle merci” (ivi, 60).Tutti gli sforzi finanziari e strategici del paese sono quindiconcentrati sul potenziamento viario, al fine di facilitare iltrasporto motorizzato su gomma e di accelerare la crescitadella motorizzazione privata. Come si è accennato, la sceltadel trasporto su gomma origina da diversi fattori: in primoluogo la pregressa esperienza delle infrastrutture autostrada-li costruite sotto il fascismo; l’azione di lobbying sviluppatadall’industria automobilistica e delle costruzioni nei confron-ti del legislatore, industrie spesso sostenute dalle imprese apartecipazione statale sotto l’IRI; l’effettiva domanda di unmiglioramento delle strade che proviene da un traffico mercisempre più importante in volume e tragitti e da un fiorire diimprese piccole e medie – nate con la ricostruzione ed il rilan-cio economico – che non sono più concentrate nel tradiziona-

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le triangolo industriale, ma sono disperse nel territorio.A questi fattori si aggiunge anche un forte desiderio dei pri-mi governi italiani del dopoguerra di rimarcare l’appartenen-za dell’Italia al campo occidentale. I governanti si rendonoconto che, finita l’emergenza del dopoguerra, l’occidentaliz-zazione dell’Italia per avere successo deve portare benesseree stabilità a larghe maggioranze di italiani, secondo il model-lo americano. Quest’ultimo comincia a circolare largamentenon soltanto grazie al cinema di Hollywood, ma anche peresigenze di propaganda contro il comunismo e l’Unionesovietica. Favoriscono, dunque, l’aumento dei consumi indi-viduali e familiari, anche a costo di entrare in contraddizio-ne “con i valori di sobrietà e di solidarietà del cattolicesimo,in nome della conclamata esigenza di dare a tutti, o almenoa molti, il lavoro ed il benessere” (Menduni 1999, 9).Il modello di sviluppo economico statunitense comprende siauna politica energetica in grado di fornire approvvigiona-menti sicuri e poco costosi al sistema industriale ed al merca-to dei consumatori, sia lo sviluppo della motorizzazione pri-vata e delle relative infrastrutture. Nell’Italia del dopoguerra,il primo aspetto è brillantemente gestito da Enrico Mattei –prima a capo dell’Agip e in seguito dell’Eni – alla cui spregiu-dicata politica energetica si deve la creazione di un forte inte-resse pubblico nel settore dei gas e degli idrocarburi, i cuiricavi, tramite l’imposizione fiscale, vanno a comporre il fon-damentale interesse dello Stato nello sviluppo della motoriz-zazione privata. Il potenziamento della rete stradale vede poiancora in prima fila l’azione ed il concorso delle imprese

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automobilistiche e di costruzione, a loro volta interessate avendere i propri prodotti e a realizzare i propri progetti.È in questa cornice economico-istituzionale che prende for-ma la scelta di orientare il sistema della mobilità italiana afavore del trasporto su gomma. A partire dall’immediatodopoguerra, infatti, nel Parlamento italiano si discutono dif-ferenti strumenti legislativi a sostegno della ricostruzionedelle strade italiane.La presenza, da un lato, di una rete viaria disastrata, concaratteristiche geometriche e plano-altimetriche ormai ina-deguate alla progressiva crescita del traffico su gomma(anche se già nel 1949 il traffico merci su strada aveva supe-rato, per la prima volta, quello su ferrovia), ma, dall’altro, diinnovative tecniche costruttive, incoraggiano a partire dal1952, la scelta a favore dell’infrastrutturazione viaria. L’aspetto peculiare di questa decisione va individuato pro-prio nel fatto che il Parlamento ed i governi non optano perla ricostruzione di una rete ordinaria capillare che completiquella prebellica, ma preferiscono “indirizzare la propriascelta verso la costruzione di un nuovo sistema di autostra-de, ritenuto uno strumento capace di offrire una risposta piùidonea al prevedibile sviluppo della domanda di mobilità”(Paolini 2005, 29).Le imprese interessate – in prima fila FIAT, Pirelli, Italcemen-ti – si attivano per intercettare ed influenzare questa linea disviluppo e danno vita a società per la costruzione di auto-strade, affiancati dall’opera instancabile di “un nutrito rag-gruppamento di deputati del Parlamento, riuniti sotto il

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nome di Amici dell’automobile, in grado di portare la que-stione stradale al centro delle discussioni in seno alla Com-missione lavori pubblici della Camera” (ivi, 22).Il 9 novembre 1954 il ministro Romita – titolare del dicasterodei lavori pubblici – presenta un piano governativo per lo svi-luppo di una rete autostradale, per la quale sono stanziati 100miliardi, ed il potenziamento della viabilità secondaria. I trac-ciati previsti sono: Milano-Napoli, Serravalle Scrivia-Milano,Brescia-Verona-Vicenza-Padova, Napoli-Bari, raddoppio dellaNapoli-Pompei, raddoppio della Padova-Mestre, Savona-Ceva e Torino-Ivrea. Il provvedimento di legge prevede che ilavori di costruzione possano essere realizzati direttamentedall’Anas oppure da concessionari privati con il concorso del-lo Stato. Nel maggio del 1955 il piano diviene legge e così sicompie la scelta definitiva verso un tipo di sistema di traspor-to basato sui mezzi motorizzati e sulle autostrade. La politica autostradale italiana resta un punto fermo del-l’attività economica nazionale e una linea guida per tutti igoverni che seguiranno, con l’unico momento di arrestodurante la crisi petrolifera dell’inizio degli anni Settanta (cfr.ivi). È doveroso notare che ci sono poche eccezioni, sia nelpaese sia in Parlamento, a questa scelta strategica: l’opposi-zione la contesta in un primo momento, sostenendo la mag-giore importanza di una riqualificazione della viabilità ordi-naria, salvo poi darsi da fare per promuovere tratte autostra-dali nei territori da essa governati e accogliere con favoreuna politica d’investimenti che creava lavoro; le piccole emedie imprese di costruzioni, nel timore di vedersi tagliare

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fuori dall’esecuzione dei lavori di costruzione, danno batta-glia per voce del deputato Del Fante, il quale denuncia ilcosto spropositato del preventivo di costruzione presentatodal gruppo Sisi (Sviluppo iniziative stradali italiane), a nomedell’Associazione nazionale costruttori edili (cfr. ivi). Altre voci isolate dal coro sono quelle dei tecnici specializ-zati del mondo dei trasporti, ai quali è chiaro che la reteautostradale che si intende costruire non rappresenta affat-to una soluzione per il sistema italiano dei trasporti. Nelleloro opinioni, gli investimenti maggiori dovrebbero indiriz-zarsi a correggere le distorsioni di sviluppo economico tranord e sud del paese, potenziando in maniera vigorosa lestrade ordinarie e secondarie nel Meridione ed armonizzan-do i piani di sistemazione della viabilità con i piani regola-tori generali e quelli regionali per l’edilizia pubblica. Unacritica particolarmente pungente e circostanziata è quellarivolta al tracciato delle autostrade, parallelo a quello dellemaggiori direttrici ferroviarie e perciò in diretta competizio-ne con queste, a dimostrazione di un’assenza di coordina-mento e d’integrazione che si ammette anche a livello gover-nativo (cfr. ivi).La febbre autostradale, tuttavia, dilaga: il governo Tambro-ni, sulla base di un progetto del ministro Togni, annuncia unnuovo piano autostradale, poi sviluppato dal successivogoverno Fanfani, con il quale si estende la rete autostradaleanche al profondo sud e sulla costa adriatica.Ora vi sono molte più critiche adesso da parte dell’opposi-zione, alle quali è chiaro che l’intero affare delle autostrade

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è e sarà comunque gestito a livello centrale, in stretto accor-do con le grandi industrie concessionarie e senza alcuna pos-sibilità di coinvolgimento degli attori e delle imprese locali.Tali critiche non sono infondate se si pensa al ruolo di lob-bying esercitato dalla Sisi e alle agevolazioni tributarie efiscali che la legge del 1961 riconosce alle imprese impegna-te nella costruzione delle autostrade, per le quali è possibilegodere di vari tipi di esenzione d’imposta (ad esempio suimateriali di costruzione).In realtà, l’aspetto che inquieta maggiormente le opposizio-ni ed i critici del progetto autostradale è il ruolo dell’IRI e lasua natura ambigua di ente pubblico ed imprenditore allostesso tempo. “Il piano Zaccagnini, approvato con legge nel1961, oltre a prevedere investimenti stradali per oltre 5.120km fra strade, autostrade e raccordi autostradali, apportauna modifica sostanziale alla normativa in vigore, preveden-do che il grosso delle concessioni, comprese alcune già inatto, vada ad una società per azioni controllata al 51% dal-l’IRI, la Società Autostrade” (Maggi 2005, 115). Il ruolo dell’IRI in quegli anni ed in quelli successivi è deci-sivo per la rapidità dei tempi di costruzione, in particolarmodo per quanto riguarda l’Autostrada del sole, la principa-le autostrada italiana. La legge n. 463 del 1955 che attua ilpiano Romita ha come primo obiettivo la costruzione diautostrade da parte dell’Anas, l’Azienda autonoma dellestrade statali presieduta dal Ministro dei lavori pubblici esolo in subordine la concessione a terzi della loro costruzio-ne e del loro esercizio. Anche se “è opinione diffusa che

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l’Anas non ha né la capacità finanziaria, né l’efficienza, né lacompetenza per farlo; del resto, il ceto dirigente modernizza-tore preferisce collocare le competenze relative all’impianti-stica e gestione di grandi arterie stradali nel raggio d’azionedella politica, ma più spostate verso l’industria privata”(Menduni 1999, 40). A capo della Società Autostrade viene nominato l’ingegnerFedele Cova, che aveva lavorato per la Cementir del gruppoIRI ed al quale è sottoposto il progetto di massima realizza-to dalla Sisi. “Cova conosce le caratteristiche dell’IRI come“braccio esecutivo” dello Stato nei campi in cui le pastoieburocratiche, i vincoli politici (ma anche le esigenze di tra-sparenza della Corte dei conti) gli avrebbero impedito dioperare direttamente.All’IRI si chiedeva proprio questo: costruire in fretta le auto-strade dribblando le varie difficoltà, agendo di volta in vol-ta come se fosse un imprenditore privato, o invece come uncorpo dello Stato che chiamava alla collaborazione le prefet-ture in nome di un progetto di pubblica utilità adottato dalgoverno: entrando ed uscendo continuamente dalla naturapubblica e dall’ufficialità, passando lestamente a quella pri-vata “(ivi, 41).Le caratteristiche tecniche dell’Autostrada del sole, che siavvia a diventare la principale arteria di comunicazione delpaese, sono largamente ispirate a quelle americane, presso lequali Cova ed altri dirigenti erano stati in visita di studio nelsettembre 1956 grazie ad un viaggio organizzato da Medio-banca e dalla banca d’affari americana Lehmann Brothers.

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Dopo questo viaggio, la progettazione dell’Autostrada delsole segue strettamente i principi e gli standard delle auto-strade americane, con pochi adattamenti.“Si respinge nettamente la micidiale piattaforma stradale atre corsie (una per ogni senso di marcia, più una centrale peri sorpassi in entrambe le direzioni) che era stata adottata dal-l’Anas e dalle prime realizzazioni della Cassa del Mezzogior-no, perché pericolosa e disordinata; si opta invece per il prin-cipio delle due carreggiate sempre separate, divise da unospartitraffico centrale e dotate di due corsie più una di emer-genza per ogni senso di marcia” (ivi, 47). I lavori di costruzione dell’Autosole iniziano ufficialmente il19 maggio 1956, con la cerimonia della posa della primapietra alla presenza del Presidente della Repubblica, Giovan-ni Gronchi e già nel 1957 è stato appaltato tutto il percorsoMilano Firenze, nonché il tratto Capua-Napoli. “I lavori dicostruzione, divisi in lotti e aggiudicati a varie imprese, pro-cedono molto speditamente, grazie anche all’uso dei decretiprefettizi di occupazione d’urgenza per rendere esecutivi gliatti di esproprio per ragioni di pubblica utilità” (ivi, 50).Il tratto Milano-Bologna è inaugurato nel 1959 e quelloBologna-Firenze, molto ostico a livello progettuale ed esecu-tivo per via dell’attraversamento dell’Appennino ad unaquota più alta di quella usata dalla ferrovia, soltanto l’annodopo.L’apertura dell’intero tratto Milano-Napoli si ha nel 1964,dopo che si sono superate tutte le resistenze ed i tentativi divariare il tracciato originale da parte delle amministrazioni

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locali, in particolare quelle delle città di Siena e di Perugia,che furono compensate con la costruzione (tuttavia parziale)di strade di grande collegamento con l’Autosole. Nel periodo seguente l’enorme investimento statale porta arealizzare in media 208km di autostrada all’anno, contro i170 della Germania ed i 127 della Francia. Alla fine del1974 l’Italia ha il doppio delle autostrade rispetto alla Fran-cia e due volte e mezzo rispetto al Regno Unito, risultando,in termini assoluti, la rete autostradale più estesa al mondodopo quelle di Stati Uniti e Germania . “Alla realizzazionedelle autostrade si aggiungono poi i trafori stradali alpini, iltunnel del Gran San Bernardo ed il tunnel del Monte Bianconel 1964, il traforo del San Bernardino in Svizzera nel 1968e quelli del Fréjus e del San Gottardo nel 1980” (Maggi2005, 119).I costi di realizzazione sono però molto alti, a fronte di untraffico che, seppur in forte crescita, non è ancora particolar-mente sostenuto e non sembra ancora sufficiente a far rien-trare tramite i pedaggi le società concessionarie dall’esposi-zione finanziaria registrata nella fase di progettazione e rea-lizzazione.Si profila, ancora una volta, la necessità di un intervento sta-tale a salvaguardia delle imprese a rischio di dissesto finan-ziario, replicando quegli interventi di salvataggio già attuatidal governo fascista per rilevare le autostrade costruite neglianni Venti e Trenta. Il primo intervento lo attua il governoFanfani, accollando alla Società Autostrade la gestione e lariscossione di tre autostrade a pedaggio in perdita (la Napo-

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li-Canosa-Bari, la Pescara-Canosa e la Genova-Sestri) e laricostruzione delle autostrade dell’anteguerra, mentre saràl’Anas ad accollarsi le spese e la realizzazione della Salerno-Reggio Calabria.La Società Autostrade è poi “beneficiaria di un contributodecennale del 3% e soprattutto viene trasformata nella con-cessionaria per eccellenza, nella quale sarebbero poi con-fluite, una dopo l’altra, tutte le concessionarie in perdita eprive di una consolidata esperienza aziendale” (Menduni1999, 63).Il dissesto finanziario delle imprese concessionarie originadalla “sottostima delle spese e dalla sovrastima degli introitie il governo è costretto ad intervenire nuovamente nel 1968,per le autostrade in concessione a società e consorzi a capi-tale pubblico, e nel 1971, per le autostrade a capitale priva-to. In cambio del salvataggio, lo Stato richiede il controllodella gestione aziendale, con la presenza nel collegio sinda-cale delle singole società di due funzionari, uno del Ministe-ro del Tesoro e uno dell’Anas” (Maggi 2005, 117). A metà degli anni Settanta, tuttavia, le autostrade presenta-no ancora i bilanci in deficit, con il rischio di non poter com-pletare i lavori in corso. L’indebitamento raggiunge il culmi-ne nel 1974, quando in presenza dello shock petrolifero edella politica di restrizione al consumo di benzina il trafficoautostradale diminuisce, abbassando i ricavi provenienti daipedaggi.La principale ragione del persistere dei deficit è dovuta peròalla crescita degli oneri fiscali, in seguito alla riforma tribu-

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taria che aveva soppresso le agevolazioni fino ad allora con-cesse dallo Stato.“Ad aggravare il bilancio finanziario delle concessionariecontribuì anche l’applicazione alle tariffe di pedaggio del-l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, al 12% che, non solofece aumentare repentinamente le tariffe, ma gravò le socie-tà di un ulteriore costoso lavoro per il disbrigo delle pratichedi rimborso dell’Iva aperte dagli utenti delle autostrade”(Paolini 2005, 45).La crisi delle concessionarie autostradali, unita allo shockpetrolifero ed alla conseguente politica di austerità, fa emer-gere le critiche, a volte in passato sopite, a tutto il modellodi sviluppo infrastrutturale ed economico seguito dai gover-ni fino ad allora. Gli squilibri della politica autostradalesono ricondotti, ancora una volta, alla mancata realizzazio-ne di investimenti nella viabilità ordinaria a sostegno dellamaggioranza di piccole e medie imprese, spesso situate benlontano dai tracciati autostradali.La dislocazione delle attività industriali attorno all’autostra-da causa invece un’ulteriore impoverimento delle aree giàeconomicamente depresse e uno sviluppo territoriale forte-mente disomogeneo.L’altra grande critica è la mancata integrazione fra autostra-de e ferrovie, sostituita da un’aperta quanto dannosa compe-tizione fra i due sistemi di trasporto, entrambi spesso collo-cati sulle stesse direttrici di marcia, che finisce, come si èvisto, con l’escludere la ferrovia dal sempre più ricco merca-to del trasporto delle merci.

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La politica autostradale si sostanzia perciò in un’affermazio-ne della strada a danno della ferrovia e in una trasformazio-ne in senso monomodale, del sistema di trasporti italiano,con influenze su tutte le modalità di trasporto pubblico (cfr.ivi).Questi rilievi trovano prima spazio fra i tecnici di settore, poisulla stampa specializzata, per essere fatti propri infine dal-l’opinione pubblica, che inizia “ad accusare il sistema politi-co-clientelare creatosi attorno alla costruzione di nuove trat-te autostradali, per lo più inutili, come nel caso delle dueautostrade abruzzesi e del traforo del Gran Sasso, trasforma-to in laboratorio di fisica nucleare” (ivi, 49).La programmazione di nuove autostrade s’interrompe infinedal 1975 al 1982, quando se ne rilancia la costruzione perun totale di 558 km. “Le ragioni del rilancio, tuttavia, nonhanno niente a che fare con le esigenze di riequilibrio e razio-nalizzazione del sistema di trasporti nazionale, ma rispec-chiano ancora una volta quel modello di sviluppo che stavaalla base del “piano Romita”, cioè promuovere lo sviluppoo per lo meno mantenere il livello di occupazione dell’indu-stria automobilistica e quella edile, quali principali motoridello sviluppo economico del paese” (ivi, 50).

MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.Il secondo dopoguerra fa registrare profondi mutamenti neimezzi e nelle modalità di trasporto, come conseguenza del-l’impetuoso sviluppo economico iniziato nei primi anni Cin-quanta. In questo panorama di rinnovamento dei mezzi di

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trasporto fa eccezione il treno, per il quale gli investimenti siconcentrano in pratica soltanto nel completamento dell’elet-trificazione delle linee. “Il materiale rotabile innovativo, cosìcome i nuovi vagoni e le locomotive, sono un ricordo delpassato, dato che tra il 1951 ed il 1953 si ordinano soltanto15 locomotori e nel 1954 ci si limita alla costruzione diun’automotrice e di una carrozza” (Maggi 2005, 59). Le fer-rovie si concentrano sull’offerta di un servizio di treni velo-ci, tali da fare concorrenza agli altri mezzi di trasporto sullalunga distanza, basati sulla nuova serie di elettrotreni di lus-so modello Etr 300. “Il treno Settebello, così chiamato perché formato da 7 car-rozze, offre tutti gli elementi per un viaggio di lusso: ariacondizionata, ristorante, bar ed anche due salottini con fine-stra panoramica, posti sotto la cabina di guida, per permet-tere ai passeggeri una veduta frontale del paesaggio, attra-versato ad una velocità pari a 180km/h” (ivi, 60).Tuttavia, il fiore all’occhiello del trasporto ferroviario subi-sce il primo smacco mediatico ad opera dei fautori dell’auto-mobile e dell’automobilismo, quando il mensile Quattroruo-te organizza una gara di velocità fra il treno e l’auto. Nel1961 il Settebello è messo a confronto “con un’Alfa RomeoGiulietta, guidata dal pilota Sanesi, sul percorso Milano-Roma e arriva nella capitale con un ritardo di 38 minutirispetto all’auto. Poco dopo si ripete l’esperimento organiz-zando una nuova competizione tra le stazioni di Milano e diFirenze fra il Settebello e una Lancia Flavia. La vettura, conalla guida un esperto pilota, percorre la distanza in due ore

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e mezzo circa, con una spesa complessiva di 17.784 lire,mentre il viaggio in treno per cinque persone è costato28.250 lire ed è durato due ore e quarantacinque minuti”(Paolini 2005, 144). Il servizio ferroviario presenta comunque dei miglioramentia livello di offerta, quando si abolisce la terza classe accor-pandola alla seconda e quando “si istituiscono anche in Ita-lia i convogli ad alta velocità commerciale, i Tee (TransEurope Express), che collegano con automotrici diesel leprincipali relazioni dell’Europa occidentale, in seguitoall’istituzione del Mercato europeo” (Maggi 2005, 60). Tut-tavia, il declino del treno e l’avvento del trasporto su gom-ma, collettivo o individuale che sia, è alle porte. La motoriz-zazione privata in Italia segue due fasi principali: in un pri-mo momento continuano a diffondersi soprattutto gli auto-carri, specie nell’immediato dopoguerra, quando l’industrianon ha ancora completamente riconvertito la produzione afini civili e quando le condizioni delle strade sono pessimeper via della guerra. È in questo contesto, o addirittura durante l’occupazionetedesca e alleata della penisola, che moltissimi italiani si con-frontano con la necessità di spostarsi e scoprono il trasportoprivato. “Le ferrovie erano state duramente colpite dai bom-bardamenti e dai sabotaggi. I treni funzionavano malissimo;per raggiungere da Milano la capitale si impiegavano nel1945 33 ore, contro le 6 del 1938 (…). Le strade erano ridot-te anche peggio delle ferrovie, se possibile, ma ci si potevaarrangiare (…). L’esigenza del trasporto era molto forte.

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Centinaia di migliaia di persone cercavano di tornare alleloro case e di chiudere così l’esperienza della guerra” (Men-duni 1999, 20-21).Mentre la ricostruzione delle infrastrutture stradali volge altermine, l’Italia fa l’esperienza di una prima motorizzazionedi massa, che riguarda in particolar modo coloro che nonpossono permettersi l’acquisto di un’automobile, ovverosia leclassi popolari. I mezzi protagonisti di questa prima ondatadi motorizzazione si chiamano Vespa e Lambretta e incontra-no il favore del pubblico per la loro comodità d’uso e ed eco-nomia d’esercizio. Entrambe sono il frutto dell’ingegnositàdegli imprenditori del tempo, impegnati nella riconversionedei propri impianti alla produzione civile. La Vespa è prodot-ta dalla Piaggio a partire dal 1946, quando “qualcuno pensòdi utilizzare dei motorini di avviamento per aerei militari, chenon servivano più, per un motociclo dalle forme tondeggian-ti, le ruote piccole ed uno scudo anteriore” (ivi, 22).La Lambretta è prodotta dalla Innocenti di Milano che fab-bricava linee per confezionare proiettili e tubi in acciaio – daiquali si ricava il telaio dello scooter. Entrambe hanno un successo commerciale enorme e diven-tano in breve il simbolo della ricostruzione del secondodopoguerra grazie a delle caratteristiche vincenti: “(...) era-no facili da guidare, andavano dappertutto, consumavanopoco; il motore era protetto e quindi non macchiava i pan-taloni come quello delle motociclette; non occorreva caval-carli, ma bastava sedersi sul sellino. Si poteva ospitare unsecondo passeggero (…) ed eventualmente un bambino in

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piedi davanti al guidatore” (ivi, 22-23). Dalla Vespa nascenel 1948 l’Ape, “il motofurgone con tre ruote ed un casso-ne, che ebbe il merito di accelerare il commercio al minutoin un paese ancora alle prese con i danni alla viabilità , e chein seguito venne esportato in diversi paesi extraeuropei”(Maggi 2005, 121-122). Agli inizi degli anni Cinquanta la ricostruzione è pressochécompletata e si intravedono i primi benefici della politicamonetaria del governo italiano, accompagnata dal progressocostante dell’export italiano verso i partner commerciali piùimportanti, che svolge un ruolo trainante per rilanciarel’economia italiana ed i consumi interni. Sul fronte automo-bilistico, le principali case costruttrici sono alle prese con leultime produzioni dei modelli prebellici o bellici. La FIAT, che nel dopoguerra ha rinnovato la gamma mediacon il modello 1400, cerca di presidiare la fascia bassa delmercato con l’ultima edizione della Topolino, la 500 C, unveicolo spartano e adatto al periodo della ricostruzione, mache si rivela completamente inadeguato per quanti, e all’ini-zio degli anni Cinquanta sono in molti, desiderano scenderedalle Vespe e dalle Lambrette per approdare a qualcosa dipiù comodo. Il vero avvio della motorizzazione individualesi ha con la presentazione della 600, un’auto appositamenteconcepita per sostituire la Topolino e per rendere pratica-mente realizzabile il sogno degli italiani di possedere un’au-tomobile per la famiglia. L’auto, ideata dall’ingegner Dante Giacosa, è dapprimaannunciata agli azionisti dal Presidente Vittorio Valletta nel

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1953, ed in seguito prodotta dal 1955. L’interesse della FIAT

per l’automobile popolare è radicato nella convinzione cheesista lo spazio ed il potenziale di occupare tale spazio pro-duttivo nella divisione internazionale del lavoro, nonché delruolo attivo nell’aumento dei consumi privati che un’utilita-ria di successo potrebbe avere (cfr. Berta 1998). Il progetto100 – così si chiama lo studio della futura FIAT 600 – è affi-dato a Dante Giacosa, il quale disegna una vettura che acco-glie molte delle innovazioni tecnologiche che l’industriaautomobilistica italiana ha introdotto nel panorama mon-diale a partire dagli anni Trenta. “La prima novità è il posi-zionamento del motore nella parte posteriore, una scelta chepermette di economizzare a livello di trasmissione (anche latrazione è posteriore) e guadagnare spazio nell’abitacolo per4 posti comodi, pur contenendo il più possibile le dimensio-ni esterne. Ulteriore volume interno viene guadagnato sce-gliendo la carrozzeria a scocca portante e adottando il siste-ma di sospensioni a quattro ruote indipendenti (menoingombranti dei sistemi tradizionali). Il motore è un quattrocilindri raffreddato ad acqua. Cilindrata di 633 cm3, veloci-tà di quasi 100km/h, con doti di accelerazione, ripresa edagilità eccellenti per un propulsore così piccolo” (AA.VV.2006, 293). La 600 è presentata al Salone dell’auto di Ginevra del 1955ed il “prezzo di vendita è fissato a 590.000 lire, pari a ventimensilità di un operaio, ben al di sotto del costo della FIAT

Topolino Belvedere, macchina ormai anziana e con presta-zioni minori, per il cui acquisto si deve sborsare un prezzo

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pari a trenta mensilità di un operaio” (Menduni 1999, 31).Nel 1960 la FIAT presenta al salone dell’auto di Parigi laseconda versione della 600, modificata nel motore – portatoa 767 cm3 per 29 CV di potenza – e nella carrozzeria, secon-do le specifiche previste dal Nuovo Codice della Strada del1958 (ad esempio gli indicatori di direzioni replicati sullefiancate). L’auto verrà prodotta in Italia fino al 1969, per poiessere fabbricata in seguito in Argentina ed in Jugoslavia, eda subito ottiene un successo clamoroso, diventando unfenomeno di costume e uno dei simboli del miracolo econo-mico italiano. Nel 1965 ne sono già stati prodotti due milio-ni di esemplari, molti dei quali acquistati a rate, a confermache il modello ha contribuito a motorizzare tantissime fami-glie italiane, specie quelle più numerose che hanno potutoprocedere all’acquisto della 600 Multipla, la prima monovo-lume di massa della storia. Nonostante il suo successo, la FIAT già pensa ad un autoancora più piccola e dal prezzo popolare, rivolta a quella lar-ghissima fascia della popolazione che continua a spostarsisugli scooter della Piaggio o della Innocenti. A capo dellaprogettazione della nuova auto minima di casa FIAT si trovaancora l’ingegner Giacosa, il quale parte dall’idea di realiz-zare un’autovettura delle dimensioni della Topolino, rivesti-ta da una carrozzeria ispirata a quella della 600. “Lo studiodella meccanica impone scelte innovative, come l’utilizzo diun piccolo motore a 4 tempi, bicilindrico, raffreddato adaria (soluzione rivoluzionaria per la Casa), cilindrata inferio-re a mezzo litro e potenza di appena 13 CV. Il motore, col-

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locato anche qui posteriormente, è sospeso alla strutturaportante con una serie di bracci snodabili a molle, così daassorbire le forti vibrazioni. Sempre dalla 600 viene ripresaanche la soluzione della balestra trasversale all’avantreno,mentre il cambio è di derivazione motociclistica senza sin-cronizzatori” (AA.VV. 2006, 297).L’auto che diverrà uno dei miti più popolari del dopoguerra èperò accolta con relativa freddezza proprio da coloro ai qua-li si rivolge. I potenziali acquirenti lamentano un prezzo trop-po alto – 490.000 lire – per quanto offre la vettura, caratte-rizzata da soluzioni troppo spartane (mancanza di veri postiposteriori, dei finestrini a discesa anteriori e del portacenere).La FIAT corre immediatamente ai ripari e modifica costante-mente la linea di produzione fino ad esaudire le richieste del-la clientela, introducendo nel 1965 la 500 F, che si affermacome quella di maggior successo, inglobando il motore piùpotente della Bianchina assieme a molte altre modifiche dellacarrozzeria e degli interni in senso più confortevole. “Apochissimi anni dall’iniziale insuccesso, con questa versionela 500 arriva ad essere la vettura più venduta in Italia perchéadatta a tutto e a tutti: ideale per la città, seconda macchinaper migliaia di famiglie (quella che usano le donne e i ragaz-zi), una ‘vera’ automobile a un prezzo che chiunque può per-mettersi di pagare” (ivi, 299). La 500 continuerà ad essereprodotta ed apprezzata fino al 1975, quando sarà sostituitadalla 126, una macchina dall’impostazione meccanica e stili-stica molto simile, ma indubbiamente più confortevole e conil ruolo determinato di seconda macchina per la famiglia.

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Il modello destinato alla famiglia nella seconda metà deglianni Sessanta è la 850, ulteriore piccolo passo di avvicina-mento ai modelli maggiori 1500, 1800 e 2300, destinati adun pubblico più facoltoso, tuttavia non riscuote il successodella 600 e della 500, probabilmente perché l’aumentatobenessere mette a disposizione scelte ben più appaganti peril consumatore. Ne è prova l’accoglienza molto favorevoleche viene riservata alle versioni speciali della 850, la spider ela coupé.Il fenomeno delle utilitarie non è l’unico presente nel pano-rama automobilistico italiano, che continua a rinnovarsi ead esprimersi ai migliori livelli tecnici anche nel settore delleauto di lusso e sportive. Nel dopoguerra l’Alfa Romeo com-pie il decisivo passo verso la produzione industriale, instal-lando le prime catene di montaggio ed ingrandendo gli sta-bilimenti con la nuova fabbrica di Arese. Sfruttando le com-petenze acquisite con la costruzione su licenza di motoriaeronautici, gli ingegneri della casa di Milano sono capaci dicostruire vetture sportive estremamente performanti, aggiu-dicandosi due titoli mondiali di Formula Uno. Tuttavia, sot-to la spinta dell’IRI e di Finmeccanica, l’Alfa Romeo decidedi entrare nel mercato automobilistico in espansione, rinun-ciando alla costruzione semiartigianale a favore di una pro-duzione industriale di modelli che mantengano comunque ilcarattere sportivo e l’elevato livello tecnico delle auto realiz-zate in passato. Nel 1951 nasce così l’Alfa Romeo 1900, una berlina dalcarattere sportivo e dai grandi contenuti tecnici: l’auto mon-

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ta un quattro cilindri in linea bialbero, le sospensioni indi-pendenti, la scocca portante e i nuovissimi pneumatici radia-li della Michelin (ivi, 235). La trasformazione dell’AlfaRomeo in costruttore di massa si concretizza con il modelloGiulietta, commercializzato nel 1955 con grandissimo suc-cesso in tutte le sue varianti di carrozzeria – spider, coupè eberlina. L’auto monta un motore di 1290 cm3, bialbero einteramente costruito in lega d’alluminio, capace di raggiun-gere una velocità di 180km/h nell’allestimento Sprint Veloce. Nonostante il prezzo di 1.735.000 lire, l’auto arriva al cuo-re degli italiani – per i quali la Giulietta è la fidanzata d’Ita-lia – e non soltanto di essi: “Max Hoffmann, l’importare diAlfa Romeo negli Stati Uniti, convince i dirigenti della casamilanese a produrre il modello spider, realizzato dal carroz-ziere torinese Pinin Farina, ed il successo è tale che gli Sta-ti Uniti assorbono quasi totalmente i primi tre anni di pro-duzione (circa 8000 esemplari) mentre la Pinin Farina sivede costretta a realizzare un nuovo stabilimento produtti-vo a Grugliasco, da dove escono le scocche finite spedite adAlfa Romeo per il montaggio degli organi meccanici” (ivi,238-241). Sull’onda del successo della Giulietta escono inseguito il modello 2000, in sostituzione della 1900, e laGiulia, un modello che ”raccoglie consensi entusiastici perla linea originale e moderna, ma anche per la meccanicacapace di brillanti prestazioni. La velocità massima è dioltre 165 km/h, grazie al motore di 1570 cm3 da 92 CV a6200 giri, alimentato da un carburatore a doppio corpo,con collettore di scarico sdoppiato e coppa dell’olio in allu-

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minio con alettatura di raffreddamento” (ivi, 243).Anche la Giulia sarà prodotta con carrozzeria coupè e spidere diventa molto familiare agli italiani per il fatto di essereuna delle vetture predilette dalle forze dell’ordine. Inoltre,essa si distingue dal resto della produzione automobilisticaanche per esser stata progettata tenendo conto degli aspettirelativi alla sicurezza del guidatore e dei passeggeri. “La Giu-lia è una delle prime automobili al mondo ad avere la scoc-ca dotata di elementi strutturali di sicurezza, costruitaseguendo gli studi compiuti dopo aver eseguito crash test(prove d’urto) su alcuni esemplari. L’abitacolo della Giulia èrigido, la parte anteriore e posteriore sono invece deforma-bili progressivamente al fine di assorbire gli urti. Solo nel1966 negli Stati Uniti, paese all’avanguardia in tema di sicu-rezza, si rendono obbligatorie queste soluzioni e si utilizza-no gli stessi sistemi e metodi già applicati in Italia da AlfaRomeo“ (ivi, 233). Anche Lancia, l’altro costruttore di auto di lusso, beneficiadell’espansione dei consumi e continua a rinnovare la propriagamma con modelli al vertice per innovazioni tecniche: nel1950 la Lancia Aurelia sfoggia il primo motore al mondo conarchitettura sei cilindri a V, tuttora in uso ed adozione da par-te di moltissime marche automobilistiche. All’inizio deglianni Sessanta ancora Lancia “presenta due importantissimenovità. La prima è la Flavia, vettura di fascia medioalta dota-ta di un raffinato (ma complesso!) motore a quattro cilindricontrapposti interamente in lega d’alluminio e dotata (primaitaliana di serie) di trazione anteriore” (ivi, 221).

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Tuttavia, a rendere unico il panorama automobilistico nazio-nale è la fondazione nel 1946 della Ferrari, in seguito alladecisione di abbandonare l’Alfa Corse, il reparto corse del-l’Alfa Romeo, da parte di Enzo Ferrari. La casa di Maranel-lo fa delle prestazioni e dello stile i suoi punti di forza, legan-dosi in maniera stretta con i più grandi designer delle carroz-zerie italiane dell’epoca – Touring, Ghia, Vignale, Pinin Fari-na – e partecipando a tutti i campionati e le corse sportive dirilievo, in aperta competizione con l’altro grande costrutto-re di auto sportive, Maserati. Mentre quest’ultima si ritiraprogressivamente dai circuiti più importanti per dedicarsialla produzione di sportive di lusso, come la 3500 GT, laFerrari lega indissolubilmente la propria immagine di pro-duttore alla partecipazione alle corse, raccogliendo il testi-mone di Alfa Romeo e Lancia, che escono dalla FormulaUno rispettivamente nel 1952 e nel 1955. Gli ingredienti del rapido affermarsi del mito Ferrari sonoessenzialmente due: da un lato la capacità di essere allo stes-so tempo auto da competizione e da strada, dall’altro il gran-dissimo favore incontrato dal marchio negli Stati Uniti, chelo porta in breve a connotarsi come marchio internazionaleed incarnazione dell’auto sportiva per eccellenza. A decreta-re il successo nel ricco mercato nordamericano, e quindi poiin quello mondiale, sono una serie di modelli derivati dalla250 GT, disegnata da Pinin Farina e dotata di un motore 12cilindri a V di 3 litri che la rende alla metà degli anni Cin-quanta l’automobile più veloce del mondo (ivi, 267). Larichiesta di 250 GT è tale che ne vengono sviluppate molte

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varianti e in breve tempo, grazie ai tanti ordini ricevuti,anche la Ferrari adotta una produzione in serie. Negli anniSessanta fa la sua comparsa la Ferrari più famosa di sempre,la 250 GTO (Gran Turismo Omologata), considerata unadelle più belle auto di sempre e l’ultimo “esempio di unagenerazione di vetture che si trova a proprio agio sia sullapista sia in strada” (ivi, 274).A fronte di un comparto automobilistico assolutamentecompetitivo con l’estero, quando non tecnicamenteall’avanguardia, il mercato automobilistico italiano eviden-zia invece una serie di caratteristiche che lo distinguonoabbastanza nettamente dai restanti mercati mondiali. In pri-mo luogo va ricordato il ritardo della sua formazione unitaalla rapidità del suo sviluppo: basti pensare al fatto che sol-tanto nel 1964 le immatricolazioni di automobili superanoquelle dei mezzi a due ruote, mentre ancora “nel 1958 vi eraun motoveicolo ogni 14,1 abitanti contro un autoveicoloogni 28,4” (Paolini 2005, 112). Durante gli anni del mira-colo economico, “l’espansione automobilistica assunse unritmo travolgente con un tasso di incremento medio del20,7% (23% per le sole vetture): nel 1964, rispetto al 1950,la densità era passata da 81,9 a 9,9 abitanti per veicolo e leautomobili circolanti erano più del triplo di quelle in circo-lazione nel 1958” (ivi, 112). La crescita si fa meno impetuo-sa, ma comunque sostenuta, fino alla crisi petrolifera del1973, quando la restrizione dei consumi prima, e la crescen-te concorrenza all’interno della Comunità europea modifi-cano le dinamiche commerciali e produttive.

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Gli altri caratteri distintivi della motorizzazione italianasono tre (cfr. ivi): una dinamica interna comune a tutto il ter-ritorio nazionale, nonostante la presenza di forti disparitàregionali nella distribuzione della ricchezza e nello sviluppoeconomico; il dominio pressoché completo del mercato daparte delle industrie automobilistiche italiane; infine, la net-ta prevalenza delle utilitarie sul resto degli altri modelli. Il primo aspetto è forse il più singolare di tutti, dato che frail 1952 ed il 1974 il tasso d’incremento dei veicoli circolantinell’Italia meridionale è generalmente superiore a quello del-le altre regioni più sviluppate economicamente. “Nel 1952,la motorizzazione privata era caratterizzata da profonde spe-requazioni regionali: il 61,04% degli autoveicoli circolantiera dislocato nelle regioni settentrionali (il 36,22% nelle soleLombardia e Piemonte), il 20,60% in quelle centrali ed ilrestante 18,36% in quelle meridionali ed insulari”. Fra il1952 ed il 1963 “l’incremento della motorizzazione privatafece registrare i ritmi più sostenuti proprio in quelle regionidove la densità automobilistica era inferiore, anche di mol-to, alla media nazionale” (ivi, 113). La tendenza si accentuaa partire dal 1964, quando la crescita economica italiana haormai salde radici. “Fra il 1964 e il 1974, infatti, furono leregioni meridionali, principalmente quelle dove la densitàera minore, a trainare lo sviluppo della motorizzazione. Allafine di questo periodo, per numero di veicoli e di automobi-li circolanti, il Sud (24,52% e 24,61%)” aveva superato ilCentro (22,18% e 22,39%), mentre il Nord (53,28% e53%) continuava a mantenere un indiscusso primato” (ivi,

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115). Il secondo aspetto, relativo al dominio sulle venditeesercitato dalle case automobilistiche nazionali, è probabil-mente connesso alla ancora scarsa integrazione del MercatoComune ed alla specializzazione dei costruttori d’oltralpe,specie tedeschi, in automobili di grossa cilindrata. La specia-lizzazione della FIAT nel produrre le utilitarie, unita ad unrete distributiva e di assistenza capillare, ha sicuramentecontribuito a farne il marchio più richiesto nel mercato,affollato di nuovi clienti a caccia di automobili poco costo-se, dal costo di esercizio basso e semplici da riparare. Il par-co macchine nazionale, e questo è il terzo aspetto, vede unaprevalenza delle utilitarie: “(…) mentre nei paesi europei conun’alta densità automobilistica, per non parlare degli StatiUniti, circolavano in maggioranza vetture di media e dimedio-grande cilindrata (fra i 1001 e i 2000 cm3), in Italiaprimeggiavano le autovetture fino a 1000 cm3. Nel 1964, il66,74% delle automobili immatricolate avevano una cilin-drata fino a 1000 cm3, il 28,20% fra i 1001 e i 1500 cm3, il4,52% fra i 1501 e i 2000 cm3 e solamente lo 0,54% oltre i2000 cm3. Anche per quanto concerne la cilindrata, non vierano sostanziali differenze fra le diverse aree geografiche: leutilitarie rappresentavano il 70,41% delle immatricolazionial Centro, il 66,73% al Sud e il 64,93% al Nord, mentre leauto medie il 29,54% nelle regioni settentrionali, il 28,60%in quelle meridionali e il 24,80% in quelle centrali” (ivi,117). Gli ultimi mostrano con evidente chiarezza che lamotorizzazione di massa è davvero tale, cioè alimentata dal-le classi popolari che acquistano esclusivamente utilitarie.

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L’auto popolare italiana, tuttavia, non si afferma soltantoperché è un prodotto industriale adeguato alle esigenze sto-riche di espansione del mercato automobilistico, ma ancheperché si differenzia in maniera significativa dal resto delleutilitarie prodotte negli altri Stati industrializzati. L’idea diauto popolare era stata introdotta e praticata con successonegli Stati Uniti, dove Henry Ford era riuscito a motorizza-re le famiglie americane con il modello T, venduto in 15milioni di esemplari tra il 1908 e il 1926. Grazie all’abbatti-mento dei costi di produzione derivanti dalla catena di mon-taggio ed agli alti salari pagati agli operai per trasformarli inun nuovo segmento di consumatori, Ford riesce a produrreun’auto spartana, ma senza troppi compromessi rispetto alledimensioni e alle prestazioni dei modelli destinati alle nicchiepiù alte del mercato. Il suo esempio industriale innovativo èosservato con attenzione dall’industria dei motori europea e,appena possibile, si cerca di copiare la sua organizzazioneaziendale, mentre si respinge la dottrina economica degli altisalari, come si è visto nel capitolo precedente. Il fordismocome dottrina economica non attecchisce in Europa, e speciein Italia, perché i mercati degli Stati europei non sono suffi-cientemente grandi e sviluppati da fornire i capitali ed ilnumero dei consumatori necessari a sostenere una produzio-ne industriale su larga scala e, conseguentemente, i prezzi deibeni adeguatamente bassi. Nel Vecchio continente, chi vuolecostruire un’auto per la massa ha due strade davanti a sé:mobilitare le risorse finanziarie dello Stato, oppure cercaredi economizzare il più possibile sul prodotto. La prima stra-

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da la si segue in Germania, dove per volontà di Hitler è ilPartito Nazista a impegnarsi in prima persona nella produ-zione dell’auto per tutti, fondando la Wolkswagen nel 1937,alla capo della quale mette Ferdinand Porsche. La seconda è seguita dal resto dell’industria automobilisticaprivata europea, che si caratterizza per il progettare e realiz-zare auto così spartane da compromettere a volte le funzio-nalità essenziali e l’idea stessa di avere a che fare con un’au-tomobile, com’è il caso della 2CV della Citroën, originaria-mente prevista con un solo faro anteriore e il tergicristalloazionato manualmente. Alcune industrie di motori europee,sull’onda del successo degli scooter nell’immediato secondodopoguerra, decidono di avventurarsi a produrre ibridi tral’auto e la moto, con tre ruote, motori motociclistici edimensioni ed abitabilità veramente spartane. Questi model-li si diffondono soltanto nell’Europa del nord, come nel casodella BMW 600, prodotta a partire dall’Isetta della ditta ISOitaliana, dopo che gli italiani dimostrano di non gradireaffatto questo tipo di prodotti.L’industria automobilistica italiana, e la FIAT in particolare,affrontano il tema dell’utilitaria proprio rifiutando l’idea cheessa debba compromettere le caratteristiche essenziali deimodelli più grandi. L’industrializzazione più tarda, un reddi-to procapite inferiore e un mercato interno più piccolorispetto al resto d’Europa, non permettono in Italia uno svi-luppo ulteriore dei segmenti alti o medio-alti del mercatoautomobilistico.La FIAT decide di rendere i propri prodotti più facilmente

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appetibili commercializzando già negli anni Trenta la FIAT

Balilla, una vettura più economica e acquistabile anche arate, in ciò emulando quanto aveva fatto Ford in Americacon il modello T. Tuttavia, la vettura è ancora troppo caraper la stragrande maggioranza del popolo italiano.Nel 1936 la FIAT introduce nel mercato la Topolino, la suaprima vera utilitaria e la prima vera utilitaria all’italiana. Lascelta costruttiva di FIAT, e che in seguito si mantiene in tut-ta la produzione della casa torinese, va nella direzione dellaminiaturizzazione di tutti gli aspetti caratteristici di un’auto-mobile, piuttosto che nell’eliminazione degli stessi al fine diabbassare il prezzo di vendita (cfr. Calabrese 1999).Il concetto di utilitaria FIAT, poi copiato dal resto delle caseautomobilistiche, prevede che non si snaturino né si perdanol’idea e le funzioni proprie di un’automobile, cercando dirispondere a tutte le aspettative che il cliente ha nei riguardidell’auto. “Nella Topolino, come nella moderna Cinquecen-to, si entra in quattro persone, mai in due (se non nel casodella Isetta, che però non fu mai considerata un’automobile,ma una motocicletta coperta).Le velocità non sono mai bassissime, e anzi, qualche volta, sisono messe a punto soluzioni sportive, soprattutto per i percor-si misti. I modelli sono giunti a coprire tutte le varietà dellagamma automobilistica, comprese giustappunto quelle piùlussuose, come il cabriolet, il coupé, il fuoristrada e persino lastation wagon” (ivi, 554-556).Tale filosofia costruttiva ha anche due ulteriori effetti: in pri-mo luogo, ha il merito di mantenere intatta anche nei model-

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li più economici l’attrattività ed il richiamo simbolico chel’auto esercita sulla società, come vedremo più avanti; insecondo luogo, ma in stretta dipendenza col primo, introdu-ce anche nelle utilitarie, in quanto in realtà non soltanto vet-ture funzionali, l’elemento del design. A partire dai primipionieristici studi sull’aerodinamica, infatti, il mestiere dicarrozziere si va integrando sempre più nell’industrializza-zione del prodotto automobilistico, tanto che dal secondodopoguerra in poi i più famosi carrozzieri italiani si leganofortemente a determinati costruttori, quando non diventanoindustrie a loro volta, come nel caso di Pinin Farina.L’importanza dell’estetica e del design risale all’evoluzionedel mercato automobilistico americano, avvenuta negli anniTrenta, quando i grandi produttori iniziano a differenziare lapropria produzione per venire incontro ai gusti di un consu-matore più evoluto ed esigente. Dal punto di vista estetico, ildesign automobilistico derivava dagli studi di aerodinamicacondotti in primo luogo dall’industria aeronautica. L’in-fluenza dell’aerodinamica pervade tutta la produzione auto-mobilistica statunitense fin dagli anni Trenta, portando allanascita della corrente Streamline, la quale “accentuava edesaltava gli aspetti estetici degli autoveicoli aerodinamici uti-lizzando carenature ed elementi accessori, talvolta superflui”(Nappo e Vairelli 2006, 51).Lo stile e la cultura del design automobilistico americaniapprodano in Europa dopo il secondo conflitto mondiale,determinando anche qui una completa rottura dell’esteticatradizionale del mondo dell’auto. La tendenza è quella di

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integrare le varie parti dell’auto – abitacolo, cofano, baga-gliaio, fanali, parafanghi, passaruote e così via – in un uni-co vestito il più possibile sinuoso, cercando di smussarne gliangoli vivi. Lo stampaggio seriale dei lamierati fa sì che “lacarrozzeria, prima disegnata a parte, doveva ora diventareelemento integrante della progettazione e, a loro volta, icarrozzieri collaborare direttamente con la grande indu-stria” (ivi, 77). D’altro canto, l’integrazione delle varie par-ti dell’auto in un continuum estetico fornisce agli stilisti unalibertà di soluzioni stilistiche prima impensabile, mentre ilimiti e le condizioni suggerite dagli studi aerodinamicioffrono i punti di riferimento fondamentali sui qualicostruire un linguaggio ed una direzione estetica personaliz-zata. La rivoluzione stilistica e l’applicazione di canoni este-tici al design industriale si consolidano in Europa ed in Ita-lia negli anni Cinquanta, per poi esplodere definitivamentenegli anni Sessanta. Il mercato dei motori italiano è un grande protagonista diquest’evoluzione, avendo prodotto icone stilistiche sia neiciclomotori – la Vespa – che nelle auto – la FIAT 600 e 500 ela Ferrari 250 GTO – per citare gli esempi più rappresenta-tivi. La particolare importanza che l’industria motoristicaitaliana dà all’estetica dei suoi prodotti non è soltanto figliadi una filosofia costruttiva, come nel caso delle utilitarieFIAT, ma anche il combustibile principale che alimenta ed ali-menterà un particolare edonismo legato al consumo dell’au-tomobile che caratterizza la società italiana molto più a lun-go e molto più intensamente di altre.

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MOBILITÀ E SOCIETÀ.Il principale evento che rimodella l’intera società italiana è,alla fine del secondo conflitto mondiale, il posizionamentodel paese all’interno della sfera d’influenza americana e del-le organizzazioni che la strutturano e la animano. La fedeltàal mondo occidentale comporta l’adozione di un modello disviluppo della modernizzazione enormemente influenzato daquello statunitense, temperato dal retaggio storico italiano edall’adesione al nascente modello d’integrazione europea.L’elemento di dirompente novità è il carattere di aperturache connota lo corsa alla modernizzazione italiana del dopo-guerra: apertura dei mercati e apertura della società a model-li e stili di vita americani o comunque d’importazione. Il modello autarchico di stampo fascista cede il passo ad unsistema di relazioni multilaterali che consentono all’Italia diimpostare una serie di scelte capaci di farle ultimare il pro-cesso di industrializzazione iniziato nel secolo precedente. Lanuova cornice istituzionale interna – la democrazia parla-mentare repubblicana – ed esterna – il GATT, il FondoMonetario Internazionale e la Comunità economica europea– delimitano il quadro di un rinnovato sforzo industriale chetrova nella politica deflazionistica di Luigi Einaudi, da unlato, e negli aiuti del Piano Marshall, dall’altro, i sostegni peraffacciarsi sui mercati internazionali. Gli attori di questo cambiamento non sono soltanto le élitespolitiche ed economiche del paese, ma gli italiani stessi, iquali partecipano al processo di trasformazione del paese daprotagonisti e, spesso, anche all’esterno degli indirizzi del

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governo. L’imprenditorialità diffusa del secondo dopoguerraha come risultato la creazione di uno strato di piccole emedie imprese che, in autonomia o al traino dei grandi grup-pi economici privati e pubblici, contribuisce a creare la mas-sa critica necessaria a trasformare definitivamente l’Italia inun paese con un’industria moderna.Il periodo economico compreso tra il 1958 e il 1963 è ilperiodo di maggior crescita dell’economia italiana, facendoregistrare incrementi annuali del Pil attorno al 5-6%. Si trat-ta di uno sviluppo economico che, con l’eccezione dei grossiinvestimenti per le infrastrutture pubbliche, è “il risultato diun’iniziativa privata libera, disordinata e feroce che nonconosce o non rispetta leggi, regole, contratti, che si svilup-pa in una fase della nostra storia nella quale tutto si può faree tutto si può inventare e chi ha fantasia, coraggio e vogliadi lavorare raggiunge rapidamente i suoi obiettivi. Mai comein questo periodo gli animal spirits del capitalismo hannomodo di dispiegarsi appieno – ancor più e meglio di quantoavvenne nella prima fase della nostra industrializzazione,all’inizio del secolo – anche grazie la fatto che energie evolontà non vengono dirottate verso obiettivi internazionali,guerre o imprese coloniali. Siamo un paese sconfitto e ilsistema politico internazionale nel quale siamo inseriti(…)garantisce insieme la nostra sicurezza e il nostro sviluppoeconomico” (Mafai 1996, 33).Nella fase della ricostruzione economica, i primi governi ita-liani s’impegnano così ad imboccare il modello di sviluppostatunitense, favorendo l’iniziativa privata e spesso indiriz-

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zandone ed accompagnandone il percorso tramite le societàfacenti parte dell’IRI o tramite l’azione energica di uominicome Oscar Sinigaglia ed Enrico Mattei, rispettivamente ipadri dell’industria siderurgica ed energetica del secondodopoguerra, e dall’altro lato anche i grandi gruppi industria-li, i soli in grado di puntare alle elevate quote di produzionerese possibili dall’integrazione in mercati aperti, hanno datoil loro contributo in questa direzione, accompagnati da unamiriade di loro fornitori o subfornitori.La risultante di questi sforzi sarà una crescita economica eindustriale che traghetta il paese nella cosiddetta “società deiconsumi” e verso quei livelli di benessere che gli Stati occi-dentali più ricchi avevano raggiunto prima o si apprestava-no a recuperare. La via italiana alla società dei consumi chia-ma in causa fortemente il rapporto tra mobilità e società,non tanto per una presunta originalità della formula di svi-luppo – dato che molti altri Stati tendono a favorire la moto-rizzazione privata – quanto per l’importanza del ruolo che lacrescita del settore dei motori ha giocato all’interno delmodello di sviluppo economico e di società dei consumi. Questo forte legame è, ancora una volta, basato sulla centra-lità economica che le industrie automobilistiche, ed in parti-colare la FIAT, hanno avuto nel definire le scelte produttivi-stiche all’indomani del secondo conflitto mondiale. Lo sfor-zo di riposizionamento strategico della maggior industrianazionale è complementare all’azione di rinnovamento com-piuta dai governi nel campo delle infrastrutture del traspor-to e, in virtù di ciò, all’origine di un modello di sviluppo eco-

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nomico e sociale che si centra sui mezzi di trasporto privati,tale da far parlare di una civiltà dell’auto (cfr. Berta 1991).Il primo passo in questa direzione lo compie Vittorio Vallet-ta, già direttore e poi presidente della FIAT, quando, nel suodiscorso del 1946 alla Commissione economica della Costi-tuente, prospetta l’ipotesi di un’industria automobilistica ingrado di farsi motore dello sviluppo economico del paese,concentrando risorse finanziarie e umane nella costruzionedi vetture di piccola taglia, un segmento di mercato nonancora fortemente presidiato dalle più forti industrie auto-mobilistiche mondiali e l’unico capace di estendere la produ-zione industriale italiana in virtù delle prospettive di crescitadella domanda per questo tipo di automobile. Vittorio Valletta è perfettamente consapevole che il ruolopreminente di FIAT all’interno del mercato italiano e i suoinumeri di vendita sono ben poca cosa se confrontati con l’in-dustria americana ed europea, ed è altresì convinto che l’Ita-lia debba allinearsi al resto del mondo automobilistico, rifiu-tandosi di “accreditare un’immagine del futuro dell’Italiasospesa in un limbo artigianale, dal quale fossero program-maticamente escluse le possibilità di espansione della grandeindustria” (ivi, 14). La strada indicata dal presidente dellaFIAT implica una transizione definitiva verso un modello diproduzione industriale basato non soltanto su sistemi pro-duttivi taylorizzati, ma finalizzati alla produzione su larghis-sima scala. La premessa fondamentale di quest’ipotesi di svi-luppo è l’incapacità del settore dell’auto di innescare un pro-cesso di crescita autopropulsivo, in grado di trascinare e di

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far crescere altri settori industriali, a causa della modestacapacità produttiva e soprattutto delle limitate dimensionidel mercato interno. Il modello di crescita caldeggiato daVittorio Valletta si propone invece di fare dell’industriaautomobilistica nazionale, e di FIAT in particolare, il motoredello sviluppo economico nazionale, così come avviene o ègià avvenuto in altri paesi occidentali. L’azione dell’industria torinese dimostra già nel primissimodopoguerra la praticabilità dell’ipotesi, dato che nel 1949 vie-ne superata la quota di produzione di automezzi dell’ante-guerra, per poi decollare negli anni successivi, quando lacostruzione della rete autostradale e l’introduzione di utilita-rie quali la 600 e la 500 trasformano l’automobile nel volanodi crescita di gran parte del resto dell’economia nazionale.La ricerca dell’auto per tutti e, conseguentemente, dellacapacità produttiva in grande dimensione, determina unmutamento dell’industria e delle attività economiche italia-ne. “L’auto determinava davvero una nuova fase nel ritmo dicrescita, imprimendo, il proprio ritmo a settori che, fino aquando la motorizzazione era stata un fenomeno d’élite, nonne avevano risentito in grande misura le conseguenze dina-miche. L’industria della lavorazione delle fonti d’energia,della gomma e della costruzione delle infrastrutture reagiro-no con forza, lungo il decennio Cinquanta, agli impulsi chevenivano dall’auto e dal suo processo di diffusione. Oradiveniva chiaro a tutti, anzi, che l’auto non era più un pro-dotto fra i tanti, ma una sorta di bene-pilota, in grado diriplasmare a propria misura il sistema economico” (ivi, 21).

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La capacità di pilotare la trasformazione economica si riflet-te poi anche a livello sociale, laddove il raggiungimento delbenessere economico e di una maggiore estensione della pro-pria sfera di mobilità individuale e dell’autonomia persona-le s’identificano ancor di più con l’automobile, rafforzando-ne l’uso pratico e il ruolo simbolico. Alimentata da questaforte identificazione con il sopraggiungimento del benesseremateriale, l’automobile gode in Italia di un ruolo privilegia-to all’interno dei beni propri della modernizzazione indu-striale – lavatrice, frigorifero e televisione.L’affermazione del benessere in Italia si consolida a partiredal 1960 e il 1961, anno del censimento e del picco della cre-scita economica del PIL (pari all’8,3%), permette di verifica-re l’enorme passo in avanti compiuto dall’Italia nella stradaverso il benessere generalizzato. “A dieci anni dall’ultimocensimento, (…) mangiamo di più e meglio (è aumentato del20% il numero delle calorie consumate pro capite), ci vestia-mo meglio, (…) comperiamo, o progettiamo di comprare,prodotti che nel decennio precedente non esistevano, televiso-re e frigorifero, mentre l’automobile, fino a poco tempo pri-ma segno di vera ricchezza, sta diventando un bene diffuso.Le automobili in circolazione nel 1951 erano 425.283, nel1961 sono circa due milioni e mezzo” (Mafai 1996, 117). Altre cifre testimoniano l’enormità dei mutamenti occorsi alconsolidamento del benessere: la FIAT ha quadruplicato lasua produzione nell’arco di un decennio, mentre il suo fattu-rato rappresenta circa il 14% delle entrate complessive delloStato; la popolazione attiva nell’industria passa dal 32,1 %

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del 1951 al 40,6% del 1961, mentre il terziario continua adespandersi, arrivando a coprire circa un terzo del PIL;aumenta in maniera considerevole l’occupazione e soprattut-to l’emigrazione per lavoro, prima verso i tradizionali sboc-chi in America ed in Europa, poi sempre più assorbita dallacapacità produttiva della grande industria localizzata a set-tentrione (cfr. Colarizi 2000). La migrazione interna di molti italiani meridionali e la loroinclusione nel capitalismo industriale moderno con il doppioruolo di produttori prima, e consumatori poi, sancisce ildefinitivo decollo della società dei consumi e del consolida-mento del mercato interno, grazie alla contaminazione e dif-fusione sul territorio nazionale di stili di vita tradizionalmen-te usuali soltanto fra i ceti urbani maggiormente sviluppati.La civiltà dell’auto comporta conseguentemente la nascita ela diffusione di una cultura dell’automobile che alimenta edinfluenza a sua volta i comportamenti e le scelte individualiin merito ai mezzi ed alle modalità di trasporto. Il ruolo propulsivo che l’automobile svolge nell’economiaitaliana non può che renderla l’oggetto più importante delmercato dei consumi, fra i tanti altri che pur realizzano ilsogno del benessere degli italiani. I valori di dinamismo elibertà, emancipazione ed indipendenza personale sono stret-tamente connessi all’auto, che assume in sé anche il resto del-le connotazioni simboliche proprie del benessere diffuso, del-la società democratica e della modernità intesa come pro-gresso. Radio e televisione, così come gli altri elettrodome-stici e oggetti di comfort, seppur acquistati in massa dagli

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italiani e da questi tenuti in gran pregio, non sembrano rive-stire la stessa importanza e non riscuotono lo stesso attacca-mento e la stessa passione che suscita l’automobile. Ne è laprova il tipo ed il livello di diffusione dell’automobile nelleregioni italiane, con una distribuzione geografica che vedeparzialmente rovesciata la spiegazione economicistica percui a più alti livelli di reddito corrisponde un più alto livellodi consumo di beni durevoli. “Comparando i dati sulle autocircolanti con quelli sull’andamento dei redditi osserviamoche il basso livello di questi non rappresentò un ostacolo alladiffusione della motorizzazione privata. Tra il 1952 ed il1964, infatti, i massimi tassi di crescita automobilistica siregistrarono nelle regioni meridionali e insulari con l’ecce-zione del Friuli-Venezia Giulia e del Lazio; in particolare laCampania, la Basilicata, la Calabria e il Molise, le quattroregioni più povere, avevano rispettivamente il sesto, il setti-mo, nono e undicesimo tasso di incremento. Fra le provincein cui la motorizzazione crebbe maggiormente vi erano Avel-lino, Potenza, Cosenza, Enna, Benevento, Lecce, Agrigento eReggio Calabria, ossia le otto con il reddito più basso” (Pao-lini 2005, 137-138).La civiltà dell’auto e la cultura della mobilità si alimentanoinoltre dagli aspetti intrinseci della trasformazione dellasocietà italiana in una democrazia, evidenziando, anche inItalia, l’emergere di alcune caratteristiche tipiche delle socie-tà democratiche: la tendenza all’egualitarismo delle condi-zioni economiche, una mobilità accentuata dovuta al mag-gior interscambio sociale fra le classi, uniti ad una massifica-

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zione degli stili di vita e dei consumi. In Italia, queste tenden-ze s’incarnano in una classe media – formata da media e pic-cola borghesia – che aumenta notevolmente le sue dimensio-ni e che ben presto, assieme alle classi popolari, si avvia amonopolizzare il mercato dei consumi, ferme restando lefortissime influenze di un passato ricco di tradizioni e di dif-ferenze di stili di vita ancora esistenti fra le classi sociali.L’analisi del consumo del bene automobile negli anni delmiracolo economico e in quelli seguenti fornisce ulteriorispunti di riflessione relativamente al peso, reale e simbolico,che essa mantiene nel mercato dei consumi. In primo luogo,la spesa per l’acquisto dell’automobile assorbe una quantitàcrescente dei bilanci familiari italiani. “Nel 1951 le automo-bili rappresentano il 45% degli acquisti di mezzi privati, perarrivare poi nel 1970 al 95%, anno nel quale la spesa com-plessiva per gli autoveicoli – acquisto e spese d’esercizio –compone circa l’8% del totale dei consumi delle famiglie ita-liane” (cfr. ivi). L’acquisto dell’automobile è facilitato dalsuo prezzo d’acquisto, ora finalmente raggiungibile, seppura costo di certi sacrifici, da parte della maggioranza degli ita-liani. “Nel 1963, all’apice del boom economico, il costo diuna FIAT 600 era circa il doppio rispetto al reddito medioannuo pro capite, mentre per acquistare un auto medio-pic-cola come la FIAT 1100 era necessaria una cifra quasi triplarispetto al reddito dell’Italia settentrionale e quadrupla diquello delle regioni meridionali. (…) Nel 1973 il divario frai prezzi di listino e il reddito, soprattutto per i modelli fino acm3 1.000, si era ridotto sensibilmente, mentre il costo di

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un’auto media restava superiore sia al reddito dell’Italiameridionale e insulare, sia a quello nazionale” (ivi, 139). Lefamiglie che desiderano l’automobile trovano una soluzionenel diffondersi delle modalità di pagamento rateizzato ofinanziato, grazie all’azione di società che “concedevano pre-stiti accettando l’automobile come garanzia e ottenendone,come contropartita, l’ipoteca della vettura a tassi di interes-se mensili che raggiungevano il 20%” (ivi, 141). Le tredice-sime di operai ed impiegati sono spesso usate per ripagare idebiti contratti per l’acquisto di beni durevoli, ed in partico-lare dell’auto, che finisce per limitare altri consumi.Dal punto di vista simbolico, l’auto primeggia in virtù dellaforza dei significati e valori che gli italiani le attribuiscono,in primo luogo come simbolo stesso del consumismo e dellasocietà dell’abbondanza, pur essendo, in realtà, un benedurevole che si acquista con bassa frequenza. I fattori essen-ziali alla base di questo processo sono i seguenti:- il lungo periodo di tempo che è intercorso fra il desideriodell’automobile e il suo soddisfacimento pratico;- le caratteristiche del prodotto automobile;- il processo sociologico di differenziazione e distinzionesociale, come fenomeni della società dei consumi;Per quanto riguarda il primo fattore, non si può non notarecome l’automobile sia rimasta a lungo un prodotto proibitoper le tasche della maggioranza degli italiani. Le condizionidi ritardo economico dell’Italia si sono mantenute sia sottol’Italia liberale sia sotto il fascismo, aggravate dal protezio-nismo derivato dalla crisi finanziaria del 1929.

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Al tempo stesso, la diffusione delle automobili continua adalimentare un desiderio che, come si è visto, per merito delruolo svolto dalle competizioni, dalla cultura e dall’organiz-zazione statale del tempo libero, si radica profondamenteanche fra le classi popolari. Quando, infine, l’automobilediventa una realtà per la maggioranza degli italiani, questafame d’auto lungamente insoddisfatta protrae a lungo i suoieffetti sulle vendite, fino a rendere l’Italia uno dei paesi almondo col più alto tasso di motorizzazione privata. Il secon-do fattore ha a che fare, come brevemente analizzato in pre-cedenza, con le caratteristiche tecniche dell’utilitaria italianache, al contrario di quanto suggerisce il termine che la deno-mina, incorpora non soltanto l’utile e il valore d’uso di mez-zo di trasporto, ma tutte le pretese simboliche collegate allaciviltà moderna: dinamismo, velocità, libertà personale e,soprattutto, il sogno del benessere. “L’utilitaria trasferivapienamente una società intera da un mondo ad un altro, dal-l’universo contadino a quello urbano, della sfera delle rela-zioni familiari a quella delle relazioni in pubblico, dai costu-mi locali a quelli almeno regionali, dall’arcaismo alla moder-nizzazione, (...) appare chiaro che l’”utile” dell’utilitaria èstato indiscutibilmente soprattutto simbolico. L’utilitarianella società italiana ha avuto il compito di far sognare inte-re classi sociali (proletariato garantito e piccola borghesia)sulla possibilità effettiva di uno stato del benessere. Ha resoquesto sogno a portata di mano, immediatamente realizzabi-le” (Calabrese 1999, 554-556).Il terzo fattore è alimentato da una tendenza sociologica,

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riscontrata più o meno regolarmente in tutte le realtà socia-li: ogni volta che la società si livella su un insieme di condi-zioni comuni, quando le differenze tendono a sparire – amotivo della redistribuzione del reddito o dei modelli cultu-rali imperanti – nasce una tendenza contraria alla differen-ziazione e alla distinzione dagli altri membri della società. Latendenza, notata nel diciannovesimo secolo da de Tocquevil-le nel suo viaggio negli Stati Uniti, emerge in tutta la sua evi-denza nelle società democratiche, dove la passione acquisiti-va o passione del benessere dell’individuo è stimolata dallamaggiore eguaglianza della società democratica: tutti hannopiù possibilità di migliorare la loro condizione e si sforzanodi riuscirci. (...) La democrazia, inoltre, produce indifferen-ziazione e dunque il possesso di ricchezza diviene funzionaleall’esigenza di distinguersi (cfr. Tocqueville 1953).Il processo di differenziazione sociale e di costruzione simbo-lica legati ad un mezzo per la mobilità fanno la loro primacomparsa già al tempo della Vespa e della Lambretta, quan-do anche in Italia dilaga la moda dei Mods, giovani ragazziinglesi che si distinguono dall’estetica giovanile dell’epoca,fatta di motociclette e giubbotti di pelle, adottando al con-trario vestiti ricercati e Vespa e Lambretta come mezzi dilocomozione (cfr. Donadio e Giannotti 1996). Si tratta, tut-tavia, di un mero processo imitativo che si diffonde solo alivello urbano. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, l’auto-mobile diventa sempre più diffusa, in seguito alla mentalitàdella società dei consumi che impone l’accumulo di tutta unaserie di oggetti in qualità di segni e prove misurabili dell’ap-

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partenenza al benessere. Allo stesso tempo emergono conforza i primi segnali del processo di differenziazione socialee la società italiana inizia a far propria quella logica socialedel consumo che fa sì che “non si consuma mai l’oggetto insé (nel suo valor d’uso) – si manipolano sempre gli oggetti(nel senso più ampio) come segni che vi distinguono, sia affi-liandovi al vostro gruppo preso come riferimento ideale, siadeprezzando il vostro gruppo in confronto ad un gruppo”(Baudrillard 1976, 72-73).In questo senso, l’automobile diviene così il bene distintivoper eccellenza, tramite il quale cui si comunica agli altri ilproprio status sociale. Per il nostro paese, infatti, il rappor-to privilegiato che s’instaura con l’automobile condiziona lacomposizione degli acquisti delle famiglie fino agli anniOttanta, a differenza di altri paesi ad alta densità automobi-listica, dove le voci del bilancio familiari sono più riequili-brate a favore di altri beni e servizi (cfr. Spallino 1984).Questa preferenza s’impone sul mercato con l’apparire dinumerose utilitarie, autoctone come la Bianchina o importa-te come la Mini inglese, nonché di personalizzazioni serialiad opera di carrozzieri come Abarth, e continua ad operarenell’immaginario collettivo dato che già la rivista Quattro-ruote evidenzia già che gli italiani, pur acquistando utilitarie,in realtà sognano auto ben più di sostanza , simile alla Lan-cia Aurelia guidata da Vittorio Gassman – protagonista delfilm Il sorpasso di Dino Risi – assurto a simbolo dei nuoviceti sociali emergenti.L’automobile come status symbol è ulteriormente rafforzato

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dallo strumento della pubblicità, a sua volta enormementeaiutata nel raggiungere i potenziali acquirenti dalla diffusio-ne della televisione, in quegli anni impegnata a “preparare ilterreno per lo sviluppo dei consumi privati mostrando ilbenessere individuale e familiare e il suo uso” (Menduni1999, 12). I messaggi pubblicitari dell’epoca fanno espressa-mente leva sul significato di status dell’automobile, quale“luogo d’investimenti psichici estremamente ricchi” (Barthes1998, 41-50). Prevale pertanto un messaggio stereotipizzatoincentrato sulle idee di potenza, prestazioni, eleganza edistinzione, a volte mitigato dai riferimenti all’economiad’esercizio o alla simpatia nel caso di modelli destinati allafamiglia o al mercato emergente dei giovani e delle donne(cfr. Paolini, 2005). La forza di quest’associazione simbolica tra auto e moderni-tà alimenta costantemente la motorizzazione dell’Italia, magiunge a determinare la comparsa di effetti collaterali spiace-voli: l’alta “incidentalità”, il crescente inquinamento atmo-sferico e la deturpazione del territorio. Il primo fenomeno èdovuto alla scarsa disciplina alla guida degli italiani e allamancanza di normative che regolino la sicurezza sulle stradee quella degli autoveicoli.L’aumento vertiginoso degli incidenti automobilistici è taleda indurre l’opinione pubblica a richiedere l’adozione di unnuovo Codice della Strada, in sostituzione di quello fascistaancora in vigore dal 1933. Sotto la pressione della stampaspecializzata e dell’ACI, che dedica la nona Conferenza deltraffico e della circolazione di Stresa al problema degli inci-

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denti stradali, il governo approva il Testo Unico delle normesulla circolazione stradale nel 1958, nel quale si fanno pro-prie le indicazioni della Convenzione di Ginevra sul tema del1949 (cfr. ivi).La lentezza dell’approvazione e la lacunosità della legge – adesempio la mancanza di qualsivoglia indicazione su un temaimportante come l’educazione stradale – sono da ascriversiad una generale resistenza dell’industria automobilistica edei gruppi di pressione del settore, timorosi che l’introduzio-ne di una normativa troppo restrittiva avrebbe potuto dan-neggiare la motorizzazione di massa. Tuttavia, le difficoltàmaggiori le affronta il disegno di legge sull’obbligatorietàdell’assicurazione civile per i danni causati alla guida dell’au-tomobili. Il peso dell’incidentalità aumenta costantemente col cresceredel parco automobilistico e durante gli anni Sessanta “siebbero mediamente 315.036 sinistri per anno” (ivi, 83), mafra i politici italiani del dopoguerra esiste una forte opposi-zione all’assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore,preoccupati che i costi della polizza rallentino lo sviluppo delsettore automobilistico e che le compagnie assicuratrici per-dano troppi capitali.A ciò va aggiunto il fatto che la maggioranza degli automo-bilisti italiani è formalmente assicurata, seppur con una dif-formità di trattamenti e soluzioni molto alta (cfr. ivi). Il risul-tato è che il percorso legislativo della proposta di legge sullaRCA è oltremodo tormentato e lungo, snodandosi tradiscussioni governative e in sede di commissioni parlamenta-

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ri, per poi approdare, dopo cinque legislature, all’approva-zione finale soltanto nel 1968 (cfr. ivi).Altrettanti ritardi, miopie e resistenze si registrano per quan-to riguarda la saturazione degli spazi e del territorio urbanoda parte del crescente parco automobilistico. Il fenomeno simanifesta a causa dell’accelerazione del processo di urbaniz-zazione, che porta molte migliaia di italiani a concentrarsinelle città e nelle zone ricche ed industriali del paese. Fra il1960 ed il 1970 sono due “gli indicatori che simboleggianoil raggiungimento di una posizione di relativa sicurezzasociale: l’occupazione nella grande industria, giudicata van-taggiosa sia nei termini delle garanzie di reddito sia in quel-li dei benefici previdenziali, e il possesso familiare di un’au-tovettura” (Berta 1991, 18). Torino e Milano, le capitali del-l’auto, assorbono gran parte di questa migrazione interna ea causa dell’incremento dei residenti si espandono in manie-ra vertiginosa e tendendo ad inglobare, nel proprio tessutourbano, i comuni limitrofi. Le città industriali iniziano a disperdersi in un territorio piùampio, oppure si urbanizzano le aree che vengono raggiuntedalla rete autostradale (cfr. Maggi 2005), ma il risultato èspesso una crescita edilizia disordinata, aggravata anche dal-l’assenza di una politica di decentramento amministrativo chesgravi i già angusti centri storici italiani dal flusso dei veicoli. Le automobili invadono perciò gli spazi pubblici ed il traffi-co motorizzato diventa sempre più difficile da gestire, anchedal punto di vista della salute pubblica. A partire dalla metàdegli anni Sessanta, sull’onda dei dibattiti e delle decisioni

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prese da paesi di più antica motorizzazione, si affaccianoanche nel nostro paese le questioni relative all’inquinamentoatmosferico ed al disordine provocato dalla concentrazionedegli automezzi nelle città. La prima legge in materia è discu-te dal governo nel 1958 per poi essere bloccata presso laCommissione igiene e sanità del Parlamento fino al 1966,anno di promulgazione dei primi provvedimenti quadro con-tro l’inquinamento atmosferico. Il primo, vero interventosulla questione arriva nel 1971 con la legge n. 437, a segui-to degli indirizzi legislativi provenienti dalla Comunità eco-nomica europea. Il provvedimento ha però un impatto debo-le, a motivo dell’esclusione dei motoveicoli e per l’assenza disistemi di controllo del parco circolante, mentre per una nor-mativa più stringente si dovrà aspettare circa venti anni ed ilpungolo sistematico della normativa europea (cfr. ivi).La realtà è che nonostante alcune clamorose eccezioni, laresistenza opposta da politici, amministratori e dagli auto-mobilisti impedisce di mettere in discussione qualsiasi aspet-to legato alla motorizzazione e ad un modello di sviluppoche ha traghettato gli italiani nella società del benessere.Inoltre, la motorizzazione dei trasporti italiani ha interessa-to anche il trasporto pubblico e collettivo, che abbandonanel decennio Sessanta le tramvie ed i filobus a favore degliautobus, rafforzando così l’idea e l’impatto del trasporto sugomma come unica modalità di trasporto possibile. “In solitredici anni [dal 1949 al 1965, nda], nelle otto principali cit-tà italiane, viene smantellata la rete tranviaria: nel 1953,infatti, esistevano 1.159 km di tranvie che trasportavano

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1.618.212 passeggeri; nel 1966 i km erano 447 e i viaggia-tori 562.487. Nello stesso lasso di tempo le filovie registra-rono un forte decremento del traffico (88,63%), mentre leautolinee passarono da 1.248 a 3.667 km e da 529.642 a2.074.333 passeggeri” (Paolini 2005, 192).È così che in Italia si assiste al rapido declino del trasportopubblico e alla continua ascesa del trasporto individuale, cheva ad assorbire in pratica tutta la domanda di mobilità. Lericerche condotte in quegli anni dalla stampa specializzatadall’ACI e da altri istituti di ricerca, registrano il definitivoabbandono dei mezzi pubblici a favore del trasporto priva-to. Secondo la ricerca ACI del 1965 intitolata “Preferenze evalutazioni nelle scelte del mezzo di trasporto fra casa e lavo-ro”, una percentuale compresa tra il 77 e l’80% degli italia-ni usa già l’automobile per il percorso casa-lavoro, pari a cir-ca il 55% del chilometraggio annuale, anche in presenza del-l’alternativa di un trasporto pubblico efficiente (cfr. ivi).Laddove il servizio pubblico è carente, come nel caso dellenuove periferie delle grandi città italiane, si crea un circolovizioso fra l’aumentato ricorso a mezzi di trasporto privati ela congestione del traffico, per sfuggire al quale, gli italianipuntano comunque sull’automobile, considerata miglioredel sistema di trasporti pubblici per costi, tempi di percor-renza e flessibilità d’uso, come dimostra una ricerca del Cen-tro studi sui sistemi di trasporto di Roma (cit. in Paolini2005). L’automobile si avvia infine ad occupare anche granparte della domanda di mobilità per svago o attività ludiche,stimolando ed accompagnando la crescita del turismo bal-

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neare, in primo luogo, e del turismo di transito, itinerante edel fine settimana. Le vacanze al mare, altro bene di statusdell’Italia del benessere, si fanno sempre più in automobile,come dimostra il confronto dei transiti medi giornalieri delmese di agosto e gennaio pubblicati dai gestori autostradali(cfr. ivi 2005). Inizialmente, l’aumentata mobilità a scoporicreativo è un fenomeno prevalentemente legato alla popo-lazione urbana, ma successive indagini della Doxa e del-l’Istat testimoniano il crescente successo dell’associazionevacanza-automobile fra gli italiani, con una percentuale parial 50% già nel 1964 (cfr. ivi 2005).L’esplosione della mobilità privata registrata nel decennio1963-1973 sancisce il definitivo approdo della società italianaalla civiltà dell’auto e ad un modello di sviluppo basato su unacultura della mobilità che incentiva l’uso dei mezzi di traspor-to individuali e privati a scapito di quelli collettivi e pubblici.La sfera di mobilità individuale si è ampliata moltissimo edil mezzo di trasporto privato, pur mantenendo intatto il suopotere evocativo e simbolico, diventa un oggetto quotidiano,indispensabile ed irrinunciabile, anche a fronte delle crescen-ti disfunzionalità – disordine, congestione del traffico einquinamento – che tutto ciò comporta.La società italiana, tuttavia, giunta recentissimamente aibenefici della moderna società dei consumi, è particolarmen-te ostile all’idea di rinunciare ad un’organizzazione socialeed economica centrata sullo sviluppo dell’automobile e, per-tanto, molto vulnerabile ai mutamenti che lo shock petroli-fero del 1973 reca con sé.

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LA MOBILITÀ DAL 1973 AI GIORNI NOSTRI

QUADRO GENERALE.La crisi petrolifera del 1973, originata dalla decisione deipaesi arabi di opporsi concretamente alla politica occidenta-le, e in particolare statunitense, nel conflitto israelo-palestine-se, pone in evidenza la fragilità politica ed economica di unmodello di sviluppo basato sulla crescita continua e sul sem-pre maggior sfruttamento delle risorse naturali del pianeta. Gli aspetti essenziali del modello industriale fordista – titani-smo dell’impresa, produzione su larghissima scala ed espan-sione dei consumi – hanno già evidenziato, alla fine degli anniSessanta, l’emergere di disfunzionalità del sistema sempre piùdifficili da negare od arginare. Il sistema economico occiden-tale è affetto da gravi problemi, il più pressante dei quali èl’inquinamento ambientale, al quale si aggiungono i guasti diuna trasformazione dell’ambiente e della società spesso trop-po rapida, quando non controllata adeguatamente.Alcune parti delle società industriali rimettono in discussionela validità di una ricetta di sviluppo che ha avuto un’applica-zione più o meno uniforme in Occidente, stimolando la rifles-sione sulla necessità di adottare rimedi basati su una prospet-tiva diversa della società e dell’uomo. I dibattiti economici suilimiti dello sviluppo e quelli sui suoi costi in termini di risor-se ambientali emergono con chiarezza alla fine degli anni Ses-santa, prima negli Stati Uniti e poi in Europa occidentale, per

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poi guadagnare visibilità ed accettazione comune con la crisipetrolifera e, infine, entrare nella coscienza politica e civilegenerale a partire dagli anni Ottanta. Il mutamento sociale principale che si registra a partire dal-la metà degli anni Settanta è dunque l’accettazione del con-cetto di limite allo sviluppo economico e di riequilibrio delrapporto tra l’uomo e i suoi prodotti e la natura. In questosenso, perde d’importanza il principio d’abbondanza, allabase della prima fase di espansione dei consumi, mentre neacquista il principio di qualità, alla base della ricerca di uncorso d’azione che includa anche gli elementi non misurabi-li e simbolici, ritenuti tuttavia indispensabili per aumentareil valore della propria esperienza umana e sociale. L’effettodi questi ripensamenti investe in primo luogo il settore deitrasporti, il maggior consumatore dei prodotti petroliferi, e,conseguentemente, tutto l’assetto socioeconomico, ormaicompletamente basato sulla motorizzazione di massa e sulleinfrastrutture viarie. La razionalizzazione in termini di costiambientali ed energetici del sistema dei trasporti deve affron-tare questioni di natura interna ed esterna. Le prime hannoa che fare con il sempre più grande numero di autoveicoli econ il loro crescente utilizzo, nonché con le profonde trasfor-mazioni del territorio, sempre più urbanizzato e occupato daun reticolo di infrastrutture viarie; le seconde riguardano iltema dell’inquinamento planetario e dello sfruttamento for-sennato delle risorse naturali ed ambientali.Entrambe sono strettamente interdipendenti e questa reci-proca influenza amplifica i loro effetti negativi – la conge-

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stione del traffico, l’inquinamento atmosferico nelle città, ladeturpazione dell’ambiente naturale ed artistico – sino a tra-sformarli in disfunzioni capaci a volte di annullare i beneficiarrecati dalla società del benessere. La critica al modello disviluppo fa emergere due importanti temi che esercitano sul-la mobilità un’influenza sempre crescente:- la difesa dell’ambiente, a partire dalle norme di costruzio-ne degli autoveicoli, il loro livello di emissioni inquinanti,per poi giungere all’impatto ambientale delle infrastruttureviarie, ai rischi ambientali reali e potenziali legati alla civiltàdell’auto e alla più generale influenza sulla qualità della vitae sui macroeffetti sull’ecosistema planetario (effetto serra);- la sicurezza, intesa come miglioramento delle condizioni diviabilità e riduzione delle incidentalità , ma anche riflesso diun bisogno di certezza e di controllo del rischio che vienedemandato sempre più all’organizzazione funzionale dellasocietà (incluso, quindi, il sistema dei trasporti) piuttosto chealla capacità di generare legami sociali.Entrambe le questioni assumono una nuova rilevanza a par-tire dagli anni Novanta, quando la ristrutturazione delmodello di sviluppo portata a termine negli anni Ottantasubisce una nuova, importantissima, accelerazione dovutaalla globalizzazione dell’economia ed alla rivoluzione inne-scata dalle tecnologie informatiche e della comunicazione.La globalizzazione comporta una serie di profondi muta-menti, tra i quali la delocalizzazione dei processi produttivial di fuori del mondo occidentale e l’esportazione di unmodello di sviluppo consumista che intensifica lo sfrutta-

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mento delle risorse naturali. L’economia globalizzata si basapertanto sullo sviluppo di una rete di comunicazione e di tra-sporto planetaria, unita a un modello di produzione di benie servizi basati sulla filosofia del just-in-time, cioè della mas-sima flessibilità e velocità di risposta dei fattori di produzio-ne alle variazioni della domanda. L’effetto principale che ne consegue è un’accelerazione ulte-riore dei ritmi delle attività e delle relazioni umane, una piùradicale compressione del tempo e dello spazio, seguiti dauno svuotamento della tradizionale capacità di controllo esovranità degli Stati. La risposta che emerge è, come nel casoeuropeo, la trasposizione della gestione politica e ammini-strativa a un livello sovranazionale ed il metodo multilatera-le come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Ciò èparticolarmente vero per quanto riguarda la politica dei tra-sporti, progressivamente sottoposta alla legislazione ed agliindirizzi dell’Unione europea, sia per quanto riguarda leinfrastrutture e la normativa sulla costruzione degli autovei-coli, sia per il raggiungimento di un modello di sviluppo eco-nomico pienamente sostenibile in senso ambientale.Allo stesso tempo, le trasformazioni economiche e sociali del-la globalizzazione comportano un aumento notevole dell’in-certezza e dell’instabilità nelle società occidentali, in virtù del-l’esposizione a un livello e a un’intensità crescente di rischio,che mina nel profondo la coesione assicurata dal Welfare Sta-te (ad esempio il rischio di perdere o non trovare il lavoro).Tutto ciò si traduce in un maggior senso di vulnerabilitàindividuale e collettiva che influenza tutta la società e che si

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riverbera anche in alcuni aspetti del sistema di trasporti edella mobilità, quali, ad esempio, la ricerca della massimasicurezza e del comfort delle autovetture, nonché l’opposi-zione all’ammodernamento delle infrastrutture di trasporto,accusate di peggiorare il livello della qualità della vita e diaumentare il rischio di catastrofe ambientale. La diffusione e la pervasività delle tecnologie informatiche siè verificata contemporaneamente alla globalizzazione e hacomportato una profonda rivoluzione nelle comunicazioni,con conseguente mutamento della percezione del tempo edello spazio. La struttura a rete, la fruizione di beni e servi-zi su richiesta, alle quali si aggiunge la trasformazione delconsumatore in produttore di contenuti, ha causato una for-tissima accelerazione dei ritmi di vita individuali e collettivi,con forti conseguenze nelle relazioni fra individui e fra indi-vidui e comunità. La virtualizzazione di molte esperienzesociali (giocare, acquistare on-line) è una delle tendenzeprincipali delle società odierne e rappresenta l’annullamentopressoché completo della variabile spazio e teoricamenteproduce una minore rilevanza della mobilità.Al contrario, potremmo aspettarci qualcosa di simile aquanto successo con l’introduzione del treno e della macchi-na, quando si verificò un temporaneo aumento della mobi-lità tradizionale a trazione animale, stimolato proprio dalmaggior livello di scambio dovuto alle ferrovie ed alle stra-de. Allo stesso modo la virtualizzazione delle comunicazio-ni sembra accrescere, come sta succedendo, la quantità diviaggi in auto, treno ed aereo, determinando quindi un

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aumento della mobilità collettiva ed individuale. Negli ultimi dieci anni si assiste, pertanto, a un incremento

straordinario dei trasporti commerciali e del traffico dei pas-seggeri, in considerazione dell’aumentato volume degliscambi internazionali, stimolato dalla facilità e dal poteredei nuovi mezzi di comunicazione, e dall’accesso alla moto-rizzazione di quote crescenti di popolazione dei paesi in viadi sviluppo. La rivoluzione tecnologica ha tuttavia rappre-sentato non soltanto la fonte di nuova mobilità, ma spessoanche la soluzione ai problemi di questa, grazie ai sistemi dimonitoraggio e di ticketing automatico.In sintesi, la realtà contemporanea della mobilità è moltocomplessa e presenta una varietà di situazioni e soluzioni,sospese fra passato e futuro, tipica delle epoche di transizio-ne. In Occidente sono sempre presenti, anzi acquistano mag-gior importanza, le tematiche ambientali ed i primi tentatividi una mobilità diversa e più evoluta, mentre, al di fuori diesso, si assiste a una crescente espansione della motorizza-zione privata senza alcun riguardo per l’inquinamento.La compresenza e la stratificazione di tipi di mobilità assaidiversi ci indica che, probabilmente, tale situazione persiste-rà fino al momento in cui vi sarà un mutamento fondamen-tale nel paradigma energetico e di sviluppo, attualmenteancora basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili.

LE INFRASTRUTTURE PER LA MOBILITÀ.La seconda metà degli anni Settanta vede un momentaneoarresto della spesa per infrastrutture, in particolare autostra-

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dali, per poi riprendere a metà degli anni Ottanta, in conco-mitanza con un nuovo ciclo di espansione economica.Durante gli anni Novanta, il tema dell’ampliamento e del-l’ammodernamento delle infrastrutture del sistema di tra-sporto diventa di prioritaria importanza per i governi italia-ni, a seguito di un volume di traffico che ha completamentesaturato la capacità del sistema viario. L’azione governativanel settore dei trasporti è progressivamente armonizzata congli indirizzi che l’Unione europea promuove nel settore, nel-l’ottica della costruzione di un sistema transeuropeo dei tra-sporti a sostegno dell’implementazione e del completamentodel Mercato Unico previsto per il 1992. Il ruolo della politi-ca europea dei trasporti si diversifica negli anni Novanta,quando punta alla creazione di uno spazio unico dei cieli edi progetti impegnativi di riqualificazione delle ferrovie, tra-mite una creazione di corridoi di transito che collegano tut-ti gli Stati membri in un sistema ferroviario comune. In generale, la politica infrastrutturale italiana si caratteriz-za per l’incapacità di integrare le emergenti teorie sul traffi-co e sull’uso del suolo, nonché gli obiettivi e le finalità dialtri settori economici. Il risultato principale è un ritardolegislativo ed amministrativo che, da un lato, è la sempliceconseguenza delle pressioni dell’industria automobilistica ededile, e dall’altro, l’espressione di “forme di pianificazionesettoriale del tutto dissimili e distinte, ciascuna affidata allelogiche di azione di campi organizzativi differenziati, auto-nomi e non comunicanti” (Tebaldi 1999, 177).I primi tentativi di pianificazione degli interventi infrastrut-

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turali compaiono a livello locale fra la fine degli anni Sessan-ta e l’inizio dei Settanta, ma è necessario aspettare il 1984per vedere l’approvazione di un Piano Generale dei Traspor-ti (cfr. Maggi 2005). Tra la fine degli anni Ottanta ed i pri-mi anni Novanta compaiono i primi strumenti normativi dipianificazione del traffico: il Piano di fluidificazione del traf-fico (1988), il Piano urbano dei parcheggi (1989) ed il Pianourbano del traffico (1992). Negli anni successivi compaionoaltri Piani settoriali – il Piano della sicurezza stradale urba-na, il Piano della rete ciclabile – per culminare, nel 2000, nelPiano urbano della mobilità, provvedimento che, delineandola strategia di mobilità a lungo termine, si pone come puntodi riferimento per gli altri (cfr. Davico e Staricco 2006).Prima della realizzazione di questi strumenti, l’azione delloStato italiano si concentra nello sviluppo e nel potenziamen-to del sistema viario, che vive una seconda giovinezza con lacostruzione di nuovi collegamenti autostradali, dopo lo stopseguito alla crisi petrolifera ed alla crescente opposizione del-l’opinione pubblica (compresa l’ACI), sempre più ostile a spe-se infrastrutturali che sovente si dimostrano tanto inutiliquanto faraoniche (cfr. Paolini 2005; 2007). La ripresa dellacostruzione delle autostrade si avvia nel 1982 con il lancio diun nuovo piano decennale per la creazione di ulteriori 558km, il cui scopo malcelato è sostenere la compagine industria-le, automobilistica e delle costruzioni, che se ne avvantaggia.In realtà, le nuove autostrade non fanno che aumentare econcentrare il traffico sulle solite direttrici, accelerando inquesto modo il collasso delle infrastrutture e gli squilibri esi-

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stenti nell’intero sistema dei trasporti. “Dal 1980 al 1993,infatti, la lunghezza complessiva della rete stradale era cre-sciuta del 3,45%, mentre le altre reti di trasporto (…) aveva-no visto diminuire la loro estensione” (cfr. ivi, 51). I proble-mi delle infrastrutture stradali sono inoltre aggravati dallaloro sperequazione geografica (in quanto le regioni settentrio-nali ne posseggono circa la metà) e dal problema della man-cata integrazione fra le modalità del sistema di trasporto.La scelta di puntare nuovamente all’estensione del sistemaviario non fa che confermare le ferrovie nel loro ruolo mino-ritario. Al di là della Direttissima Roma-Firenze, il decenniocompreso fra il 1970 ed il 1980 testimonia soltanto il conti-nuo ridimensionamento del servizio ferroviario, fatto di taglidei cosiddetti rami secchi e di assenza di investimenti (cfr.Maggi 2005). In quegli stessi anni, a fronte di un impegnofinanziario statale che si dimostra comunque incapace diincrementare e migliorare il servizio offerto, prende corpol’idea di una profonda riforma della natura delle ferrovie,per larga parte rimaste basate sull’organizzazione data lorodalla nazionalizzazione effettuata ai primi del Novecento.In un primo tempo la riforma introduce la trasformazionedelle ferrovie da Direzione generale del Ministero dei tra-sporti in Ente pubblico economico dotato di personalità giu-ridica ed autonomia patrimoniale, finanziaria e contabile.Nonostante l’ampliamento dei poteri decisionali seguiti allariforma, le ferrovie continuano a soffrire di un deficit diinvestimenti e dell’invecchiamento del materiale rotabile.“A metà degli anni Ottanta il parco rotabile rimaneva assai

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vecchio: un quarto dei locomotori risaliva a prima del 1940,la metà era stata prodotta dal 1940 al 1969 e solo l’ultimo25% era di produzione successiva. Una situazione simile siriscontrava per i carri e le carrozze, di cui circolavano anco-ra numerosi esemplari degli anni Trenta” (ivi, 39). Le ferro-vie subiscono un’ultima trasformazione organizzativa nel1992, quando diventano una società per azioni privata.Quest’ultima, nel 1999, viene poi divisa, sulla scorta dellanormativa europea, in una pluralità di società, la Rfi (Reteferroviaria italiana) per i binari e le stazioni, e una serie dialtri operatori privati per i convogli.Il processo di privatizzazione lancia nuovi investimenti,comunque non indirizzati al potenziamento della rete ferro-viaria secondaria, ma rivolti al progetto dell’Alta velocità,basato sul nuovo treno ETR 500 e sul rafforzamento edammodernamento delle grandi linee direttrici di comunica-zione. I lavori dell’Alta velocità, realizzati con la tecnica delproject financing, incontrano notevoli ritardi nella realizza-zione, a motivo delle difficoltà tecniche di alcuni percorsi –ad esempio la tratta Firenze-Bologna con i suoi 73 km di gal-lerie – e dell’opposizione delle popolazioni dei territori attra-versati dai lavori. Le opere previste per l’Alta velocità sonoin seguito integrate nel più vasto complesso della rete ferro-viaria transeuropea, all’interno del corridoio 5, che collega ilsistema ferroviario francese all’Europa dell’est passandoattraverso la rete italiana.La progressiva europeizzazione della politica dei trasporti èla naturale conseguenza del progetto di Unione doganale e

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del Mercato unico, i due principali obiettivi alla base dellacreazione della Comunità economica europea, in seguitoUnione europea. L’opera di armonizzazione delle differenzenormative esistenti negli Stati membri in materia di traspor-ti ha lo scopo di rendere effettiva la libera circolazione dellemerci e delle persone, secondo quanto stabilito dai Trattaticomunitari. Tuttavia, la sua realizzazione pratica si trascinaa rilento, almeno durante gli anni Settanta e Ottanta, osta-colata dalle diatribe fra Stati con una tradizione d’interven-to in materia di trasporto e Stati con politiche più liberali(cfr. Santoro 1974). Bisogna attendere il rinnovato impulsopolitico dell’Atto Unico europeo del 1985, con il quale silancia la realizzazione pratica del mercato unico, per assiste-re alla nascita delle prime azioni in tema di trasporti, chevanno ad interessare il comparto ferroviario e quello aereo.Da quel momento, l’azione normativa europea si fa più inci-siva, giungendo a una progressiva deregulation del settoreaereo ed allo smantellamento o alla limitazione del ruolodello Stato nel comparto ferroviario, con l’introduzionedi un gestore della rete infrastrutturale (pubblico o privato)e di società che erogano l’offerta di trasporto merci e pas-seggeri.Il panorama delle infrastrutture europeo, e quindi anche ita-liano, è così soggetto a forti stimoli di competitività e con-correnza, sancita dalla “possibilità per le imprese di tra-sporto di operare in altri Stati, (…) imponendo efficienza edeconomicità per conquistare nuove quote di mercato ogarantire le proprie” (Maggi 2005, 291).

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L’impulso maggiore deriva, infine, dal Trattato di Maastrichtdel 1992 e dal Piano Delors sulla crescita, la competitività el’occupazione del 1993 (cfr. Commissione europea 1994),nei quali si individuano non soltanto i progetti infrastruttu-rali da realizzare, ma anche quei principi che devono infor-mare la politica dei trasporti. Si introducono così nelle poli-tiche europee e nazionali dei trasporti i concetti di mobilitàsostenibile, risparmio energetico, intermodalità ed integra-zione e, soprattutto, l’internalizzazione dei costi del traspor-to, ovvero l’addossamento ai gestori dei trasporti di tuttiquei costi – inquinamento, uso del suolo e del territorio –precedentemente scaricati sulla collettività. “Venivano quin-di imposte agli Stati membri regole volte a diminuire le ema-nazioni inquinanti da parte di autoveicoli, motocicli, aero-plani e per ogni infrastruttura proposta si rivolgeva una spe-cifica cura alla valutazione di impatto ambientale” (Maggi2005, 293).A partire dalla fine degli anni Novanta, l’Unione europea hapromosso la realizzazione di numerosi progetti di interope-rabilità delle reti infrastrutturali, individuando 14 progettiprioritari tra i quali, per l’Italia, anche la linea ad alta velo-cità Lione-Torino, l’asse ferroviario del Brennero e l’aero-porto di Malpensa.Dal punto di vista concettuale, la politica dei trasporti euro-pea è sempre più integrata nei programmi ambientali, dirisparmio energetico e di ricerca tecnologica, con particola-re riferimento all’obiettivo di riequilibrare le distorsioni delsistema dei trasporti, favorendo lo spostamento del traspor-

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to merci e passeggeri dalla gomma alle altre modalità. Questo approccio è alla base degli indirizzi generali che laCommissione europea ha delineato nel Libro bianco del2001, intitolato “La politica europea dei trasporti fino al2010: il momento delle scelte” (cfr. Commissione europea2001), laddove si afferma ancora una volta l’esigenza didiversificare ed aumentare l’offerta di soluzioni per la mobi-lità attraverso il rilancio delle modalità alternative al tra-sporto su gomma.In particolare, l’allargamento dell’Unione europea a dodicinuovi Stati membri ha imposto una sistematizzazione gene-rale delle questioni sul tappeto, al fine di affrontare un pre-vedibile incremento del traffico merci su gomma. Fanno par-te di questa strategia:- l’introduzione di una normativa che riequilibri i trasportirilanciando le ferrovie, controllando la crescita del trasportoaereo e sviluppando le vie d’acqua (autostrade del mare);- il decongestionamento dei grandi assi di trasporto attraver-so la realizzazione di infrastrutture in grado di creare corri-doi multimodali dedicati alle merci;- la razionalizzazione dei trasporti e la collocazione degliutenti al centro della politica, da un lato responsabilizzando-li e sensibilizzandoli in merito ai costi ambientali del sistema,dall’altro agevolandoli tramite l’integrazione delle tariffe edil miglioramento dei servizi di mobilità (cfr. ivi).Le strategie operative per giungere a questi risultati sonovarie e sono riunite sotto la dizione di mobility management,espressione che comprende il riequilibrio della politica infra-

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strutturale, la regolamentazione del traffico, la gestione del-la domanda e dell’offerta di trasporto, la sicurezza e l’educa-zione stradale e la riduzione dell’inquinamento generato dal-le modalità di trasporto.L’interdipendenza fra i vari sottosistemi fa sì che il mobilitymanagement non possa prescindere da un’attività di analisie raccolta di dati che consenta l’adattamento delle soluzio-ni operative alle situazioni contingenti. Conseguentemente,si assiste in tempi recenti all’utilizzo massiccio delle tecno-logie informatiche, le sole in grado di garantire un elevatolivello di flessibilità ed il successo delle strategie di mobilitymanagement.Si tratta di una tendenza inarrestabile e giustificata dall’esi-genza del rispetto del principio di sostenibilità, integratocome elemento fondamentale e trasversale nelle politicheeuropee. Il concetto di sostenibilità presuppone la ricerca diun modello di sviluppo che garantisce i bisogni delle genera-zioni attuali senza compromettere la possibilità che le gene-razioni future riescano a soddisfare i propri (cfr. WCED,1987). Applicato nel settore della mobilità, il principio disostenibilità ha prodotto, in tempi recenti, un rapido svilup-po di soluzioni per il trasporto a bassissimo impatto ambien-tale, quali veicoli ibridi, elettrici, ad energia solare e a idro-geno, il cui ruolo all’interno del mobility management sem-bra destinato ad aumentare. Rimane invece da perfezionare la pianificazione e la pro-grammazione di nuove infrastrutture, visto che, per quantola politica delle infrastrutture e della mobilità in Italia si sia

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finalmente dotata di un quadro normativo ed amministrati-vo più integrato, risulta ancora consistente il divario traquanto si progetta sulla carta e quanto si realizza effettiva-mente. La ragione principale di questa storica tendenza è lamancanza di adeguati sistemi di finanziamento delle opere,che comporta non soltanto difficoltà di reperimento dellerisorse finanziarie, ma sopratutto il ritardo o la sospensionedei lavori. Il nodo della questione risiede nella struttura del-la fiscalità italiana sull’automobile, per cui, a fronte di unprelievo finanziario da diverse fonti – accise sui carburanti,bollo di proprietà, oneri amministrativi sui costi assicurativi– non si riscontra un adeguato investimento in servizi edinfrastrutture per il mondo della mobilità privata e pubblica.È stato calcolato che “(...) la stima del gettito fiscale creatodalle famiglie italiane che possiedono automobili nel corsodel 2005 è pari a circa 44 miliardi di euro, una cifra partico-larmente significativa, pari a circa il 3% del PIL” (Studio ACI

2006a, 95).A questa onerosità finanziaria dell’automobile non corri-sponde un investimento adeguato nei trasporti, e anche iltrasferimento agli Enti locali dei proventi dell’imposta di tra-scrizione non sembra aver cambiato questo stato di cose,dato che tali entrate non sono vincolate al settore dellamobilità e vengono spesso usate per sopperire alla generalecontrazione dei trasferimenti statali (cfr. Studio ACI 2004).La difficoltà maggiore per una riformulazione della fiscalitàsull’auto risiede nel fatto che quasi la metà degli introiti delsettore automobilistico derivano da una sola imposta – l’Iva

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sui carburanti – e, in quanto imposta, priva di una destina-zione specifica. La modifica della politica fiscale sull’auto silimita, pertanto, a vincolare il maggior gettito fiscale dovutoall’incidenza dell’Iva ad un fondo per l’energia rinnovabile(cfr. Studio ACI 2006a).

MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.Alla conclusione della fase della motorizzazione di massa,l’automobile ha radicalmente cambiato non solo il sistemadei trasporti, ma tutto l’assetto sociale ed economico italia-no. La conseguenza più importante è l’enorme aumento dellivello di mobilità generale, individuale e collettiva, cheassurge ad elemento irrinunciabile e fondamentale per l’as-setto economico e sociale, oltre a rappresentare un fenome-no in crescita costante (cfr. Commissione europea 2001).I mezzi e le modalità di trasporto rimangono tuttavia gli stes-si, con la prevalenza dei mezzi privati ed individuali del ruo-lo minoritario di quelli collettivi. La congestione crescentedel traffico causa da una parte uno sforzo di riqualificazionedell’offerta di trasporto pubblico e collettivo, ma dall’altra,una nuova, forte crescita delle vendite di motocicli e scooter,gli unici adatti a muoversi agevolmente nel traffico urbano.La mobilità sostenibile tende a rilanciare il trasporto pub-blico locale in Italia, dove sono “(...) in corso di finanzia-mento interventi in circa 15 città per ampliare la rete già esi-stente o per reintrodurre il tram dove era stato abbandona-to” (Studio ACI 2002, 40). Questo piano di rilancio delleinfrastrutture urbane di trasporto in sede fissa rischia però

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di trovare un grave ostacolo nell’evoluzione della domandadi trasporto, per cui, a fronte del potenziamento di metro-politane e tram, non si registra un incremento del loro uso.Ciò dipende dal fatto che gli spostamenti attuali sono cosìframmentari e articolati da premiare ulteriormente la versa-tilità dell’auto privata (cfr. ivi). Le tendenze recenti relativeall’offerta di trasporto pubblico locale mostrano, tuttavia,una certa capacità di adattamento all’evoluzione delladomanda di trasporto, con l’introduzione di un certo gradodi flessibilità tramite i servizi di bus a chiamata. “Sei gran-di città italiane, Firenze, Milano, Roma, Bologna, Trieste eCatania hanno già messo a punto programmi di trasportopubblico a chiamata, tramite lo sviluppo di diverse soluzio-ni tecnologiche: installazione di videotel presso le abitazio-ni degli utenti, prenotazione del viaggio direttamente allafermata, istituzione di uno speciale e dedicato centro telefo-nico” (ivi, 103).Il panorama delle modalità di trasporto registra, inoltre, laforte affermazione dell’aereo, sempre più usato non soltantodai viaggiatori d’affari ma da quote crescenti di turisti e disemplici viaggiatori, e divenuto in breve la modalità di tra-sporto più utilizzata per le distanze medio-lunghe, in direttaconcorrenza con il treno.Quest’ultimo è oggetto di un miglioramento del servizio amotivo sia del rilancio delle modalità di trasporto non inqui-nanti da parte dell’Unione europea, sia della naturale evolu-zione tecnologica che porta la maggior parte dei sistemi fer-roviari europei a investire nell’alta velocità.

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Le ferrovie italiane inaugurano il proprio servizio di treniveloci nel 1989, presentando ufficialmente i treni modelloETR 500. “Si trattava del nuovo treno italiano ad alta velo-cità, senza la cassa oscillante del Pendolino, convoglio di lus-so già in servizio da alcuni anni, che superava la distanza daMilano a Roma in 4 ore. Entrato in esercizio nel 1976, l’Etr400 Pendolino rappresentò l’ultima grande innovazione ita-liana in fatto di treni, grazie al cosiddetto ‘assetto variabile’,che gli permetteva di inclinarsi in curva verso l’interno perattutire la forza centrifuga” (Maggi 2005, 64).Molto più dinamica, invece, l’evoluzione dell’industria auto-mobilistica, laddove la compenetrazione fra l’automobile ela società instaura un rapporto di interdipendenza che portal’una a influenzare l’altra. Inizia per l’auto una rivoluzionesimbolica e di contenuti che attinge ampiamente dai muta-menti tecnologici e sociali della realtà circostante. La prima novità rilevante è la rivoluzione tecnologica opera-ta dal diffondersi del calcolatore elettronico e dell’automa-zione nei sistemi produttivi in tutte le fasi dell’organizzazio-ne aziendale. L’elettronica fa la sua apparizione prima nelsistema di alimentazione, al fine di rispettare i limiti alleemissioni inquinanti, poi si estende al resto dell’autovetturagrazie a una serie di dispositivi deputati a facilitare la guidaed a renderla più sicura. La seconda novità è rappresentatadall’inasprimento della concorrenza nel comparto automo-bilistico, accelerata prima dalla creazione del Mercato unicoeuropeo e dalla globalizzazione. Questo processo alimenta erafforza la naturale tendenza alla concentrazione industria-

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le, per poi assumere una spiccata tendenza al gigantismodurante gli anni Novanta. Al termine di questa evoluzionedel mercato, FIAT si trova, in qualità di unico produttore ita-liano, in una situazione di monopolio, avendo assorbito,durante gli anni Settanta e Ottanta, Autobianchi, Abarth,Alfa Romeo, Ferrari, Innocenti e Lancia.Nonostante questa posizione, unita al successo commercia-le su tutto il mercato europeo registrato negli anni Ottanta,FIAT non riesce ad evitare il crescente peso della concorren-za estera, aggravato dalla presenza sempre più massiccia edaggressiva dei produttori nipponici: “nel 1991 i modelliprodotti dai principali marchi italiani (...) rappresentavanoancora il 61,5% delle autovetture circolanti, mentre, nel2003, scendono al 44,2% (…). Si tratta, in sostanza, di unaradicale inversione di tendenza nei gusti degli automobili-sti” (AA.VV. 2006, 484-485). Le ragioni di questo fenome-no si possono ascrivere alle decisioni strategiche prese dalgruppo torinese negli anni Novanta, quando si distolgonoinvestimenti dal settore auto a vantaggio di altre attivitàeconomiche, determinando un ritardo tecnologico dei pro-dotti e un sottodimensionamento della capacità produttivache impediscono di stare al passo con il mutamento del mer-cato automobilistico. Quest’ultimo è molto cambiato dai tempi della motorizza-zione di massa, sebbene mantenga immutate alcune caratte-ristiche. Da un lato, si registra la costante ascesa dei model-li di media e grande cilindrata a scapito delle cilindrateminori, dall’altro permane pressoché immutata “l’obsole-

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scenza delle automobili in circolazione: nel 2003, infatti, il28,85% è su strada da almeno 10 anni e il 9,06% da oltre20. Ciò si spiega anche con la costante preminenza del mer-cato dell’usato su quello del nuovo: nel corso degli anni,infatti, i trasferimenti di proprietà hanno continuato ad esse-re superiori alle immatricolazioni” (ivi, 486).I modelli distintivi di FIAT sono quelli della produzione deglianni Ottanta e della fine degli anni Novanta. Grande succes-so riscuotono le utilitarie del gruppo torinese, a conferma diuna leadership di progettazione e realizzazione che confermauna vocazione alla costruzione di auto piccole e complete. Imodelli Panda, Uno e Punto cambiano l’idea e la destinazio-ne d’utilitaria: la prima attualizza l’idea di seconda auto perla città, estremizzandone gli aspetti funzionali ed introducen-do nella categoria il concetto di una maggiore altezza da ter-ra dell’abitacolo, che la fa una delle vetture preferite dallaclientela femminile, proprio per l’aumentata visibilità che lasoluzione comporta; la Uno rappresenta la definitiva matura-zione dell’utilitaria italiana, in considerazione dell’innovazio-ne tecnologica e stilistica che la contraddisitnguono: la vettu-ra è la prima ad adottare i motori Fire – per la cui produzio-ne FIAT costruisce uno stabilimento dedicato – parchi nei con-sumi, prestanti e particolarmente poco inquinanti; inoltre sta-bilisce un nuovo punto di riferimento per quanto riguardal’abitabilità interna e lo stile pulito della sua linea; la Puntorappresenta l’auto del rilancio della FIAT all’indomani dellacrisi economica dei primi anni Novanta, ed introduce il con-cetto di utilitaria costruita con livelli di qualità che general-

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mente si incontrano in auto di categoria superiore.La produzione di auto di categoria medio e medio-grande subi-sce al contrario la temibile concorrenza dell’industria tedesca,nettamente migliore in termini di qualità lungo tutti gli anniNovanta, oltre che la scarsità di risorse finanziarie, che impedi-sce un rilancio deciso dei modelli di alta gamma marchiati AlfaRomeo e Lancia, per i quali è necessario aspettare gli anni suc-cessivi. Il ritorno dell’azienda torinese allo sviluppo del settoreauto è sancito dall’introduzione della tecnologia common railper i motori turbodiesel, il settore a più alta crescita degli ulti-mi anni, che diventa lo standard dell’industria.Il common rail, insieme ai dispositivi di assistenza alla guida(Abs, Esp, Asr, e cosìvia), alla distribuzione multivalvole,alla fasatura variabile e agli impianti di scarico ‘catalitici efiltranti, si pone come unulteriore tappa dell’evoluzione tec-nica che ha trasformato e sta trasformando l’automobile inun oggetto sempre più ecologico, più sicuro e confortevole,secondo le tendenze sociali che contemporaneamente siaffermano nelle società occidentali.L’auto tende sempre più a trasformarsi da mezzo di traspor-to ad ambiente di vita: si introducono così nell’abitacolo glielementi necessari per lavorare – fax, telefono, Internet – eper svagarsi – Tv, lettori Dvd, stereo ad alta fedeltà, e cosìvia. La ricerca del massimo comfort e la trasformazione inoggetto “intelligente” sono i segni distintivi dell’auto con-temporanea, in risposta al crescente disagio, in termini ditraffico ed inquinamento, che proprio la mobilità privatagenera. Si deve comunque rilevare che la ricerca del comfort

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si confonde spesso con quella della massima sicurezza, percui si è massimamente comodi quando si è al sicuro dalleinsidie del mondo esterno, in un processo che porta però aun crescente isolamento sociale dagli altri automobilisti edagli altri utilizzatori della strada (cfr. Virilio 2000). Ladimensione collettiva la si recupera nell’ottica della conser-vazione dell’ambiente, tramite lo sforzo che l’industria auto-mobilistica conduce per produrre veicoli sempre meno inqui-nanti. L’attuale e futuro panorama automobilistico presentauna tendenza alla ricerca di un sostituto non tanto dell’auto-mobile quanto del motore a scoppio, sostituito dal motoreelettrico o da propulsori che usano combustibili più ecologi-ci – Gpl, metano, etanolo. Fra le tecnologie future, il motore a idrogeno è sicuramentequella di punta, sulla quale le case automobilistiche hannogià investito più di 6 miliardi di dollari tra il 1993 ed il 2000(cfr. AA.VV. 2006, 506). L’auto a idrogeno promette diridurre quasi a zero il problema delle emissioni inquinanti –dalla marmitta esce in pratica vapore acqueo – ma la transi-zione a questo tipo di combustibile è difficoltosa dal puntodi vista economico ed ingegneristico. L’idrogeno infatti nonè una fonte di energia ma un vettore di energia, per cui deveessere ricavato da qualche parte. La possibilità di estrarlo dafonti energetiche rinnovabili – solare, eolica, ecc. – non sem-bra attualmente compatibile con i consumi che caratterizza-no le economie moderne, ma la sua estrazione dal petrolionon eliminerebbe l’attuale dipendenza dai combustibili fos-sili in via d’esaurimento.

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Dal punto di vista dell’ingegneria, le caratteristiche fisichedell’idrogeno pongono rilevanti problemi in ordine al suostoccaggio ed alla sua distribuzione. Essendo altamenteinfiammabile, va conservato a temperature molto basse econ un livello di sicurezza adeguato, requisiti che impedisco-no la realizzazione a costi accettabili dei serbatoi degli auto-veicoli. Ad ogni modo, le principali casi automobilistiche,tra le quali Honda, BMW e GM, hanno già realizzato pro-totipi funzionanti che, nel caso di Honda con il modelloFCV, sono attualmente in uso sperimentale da parte di alcu-ne famiglie californiane. Se la tecnologia a idrogeno si affermerà nei prossimi decen-ni c’è da aspettarsi anche un mutamento del design dei vei-coli, in virtù delle soluzioni offerte dall’architettura delmotore a idrogeno, come ha dimostrato il prototipo pre-sentato da General Motors, nel quale sparisce il motorecentrale, sostituito da quattro motori dislocati presso lequattro ruote, a tutto vantaggio dell’abitabilità interna delveicolo.L’attuale tendenza del design dei veicoli è, infatti, tutta tesaal recupero di un immaginario collettivo nostalgico tramitestilemi retrò, finalizzati a rassicurare il cliente o a potenzia-re l’immagine dei marchi. Tuttavia, all’orizzonte si prean-nunciano mutamenti significativi, in grado di ristabilire unequilibrio nuovo tra forma e funzione. È il caso della tecno-logia drive-by-wire, per la quale il collegamento meccanicodei comandi è sostituito da quello elettronico, con la conse-guenza di una profonda destrutturazione dell’abitacolo a

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favore di una plancia di comandi miniaturizzati e perciòmeno pesanti ed ingombranti (cfr. ivi).Accanto all’influsso delle tecnologie emergenti, il design sem-bra poi subire sempre più l’influsso dell’accelerazione indot-ta dai ritmi elevati, quasi istantanei, delle comunicazioni dimassa contemporanee. Il valore estetico di una realizzazionedecade più rapidamente proprio per la velocità della sua dif-fusione, costringendo l’industria del design a uno sforzo este-tico e progettuale più intenso e frequente nel tempo.

MOBILITÀ E SOCIETÀ.L’enorme e rapido sviluppo della motorizzazione privata ita-liana è dipeso, come si è visto, dal forte sostegno governati-vo e dal profondo legame reale e simbolico che gli italianihanno stretto con il mondo dei motori, sin dal suo apparireagli inizi del Novecento. I mutamenti sociali e sistemici chel’automobile ha innescato in Italia hanno trasformatoampiamente il paese, traghettandolo da un assetto tradizio-nalista, se non arcaico, a moderna civiltà industriale.I benefici sociali di questa trasformazione sono stati innu-merevoli e hanno contribuito, insieme ai mass media, a farcompiere agli italiani sostanziali passi in avanti nell’unifica-zione reale del paese e nell’integrazione di alcuni gruppi tra-dizionalmente esclusi (donne e giovani) nel tessuto produt-tivo e sociale. L’auto ha permesso alle donne l’ingresso nel mercato dellavoro e il raggiungimento dell’indipendenza economica.Inoltre, la flessibilità e la versatilità d’uso dell’automobile

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consentono loro di conciliare più facilmente il lavoro con lacura dei figli e le esigenze della famiglia (cfr. Studio ACI

2006a). Nel caso dei giovani, il conseguimento della paten-te di guida rappresenta uno dei maggiori riti d’iniziazionedelle società moderne, oltre che il viatico a una maggioreindipendenza ed emancipazione rispetto alla famiglia. L’uti-lizzo dell’automobile da parte di quest’ultimi si associa,infatti, all’organizzazione e al vissuto del tempo libero (cfr.Marocci 2001).L’antica frammentazione geografico-culturale italiana, èsostituita da un popolo in perenne movimento, per ragioni dilavoro o di svago. Idee e stili di vita differenti circolano piùfacilmente, aumentano le relazioni sociali e, soprattutto conl’automobile, si gode di una libertà personale che permette disvincolarsi dai legami e dagli ambienti, rimettendo nellemani degli individui il potere di operare scelte secondo leproprie inclinazioni. La motorizzazione di massa, dunque, diffonde in tutti i cetisociali la modernizzazione degli stili di vita e la storica ten-denza della civiltà occidentale a svincolarsi dai limiti postidallo spazio e dal tempo, annullandoli tramite la sempremaggiore velocità di movimento, per poi piegarli al propriovantaggio (cfr. Virilio 2000).Alla fine del Novecento, dunque, si realizzano quei fonda-mentali mutamenti nel vissuto spazio-temporale che eranostati intuiti e annunciati alla fine dell’Ottocento da chi riflet-teva sulla comparsa del treno, dell’automobile e dei mezzi dicomunicazione di massa.

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Tuttavia, l’avanzare della civiltà lungo la direzione di unamodernizzazione e razionalizzazione sempre più spinte com-porta l’emergere nella società contemporanea di caratteristi-che nuove, che la differenziano dalla prima società industria-le e le cui tracce si rinvengono anche nel rapporto fra evolu-zione sociale e mobilità. Il crescente dinamismo della societàè reso possibile dall’elevato sfruttamento delle risorse natu-rali, accompagnato però dall’inquinamento e dal rischioambientale. Quella contemporanea, infatti, si caratterizzasempre più come società del rischio, ovvero in grado di crea-re, in modo autonomo ed interno a se stessa, situazioni diminaccia reale e potenziale che ne mettono a rischio la stabi-lità e financo la sopravvivenza (cfr. Beck 2000). La radioat-tività, un conflitto atomico o le catastrofi ambientali dainquinamento sono tutti pericoli causati dall’attività dell’uo-mo e non più dalla natura o da qualcosa di esterno alla civil-tà umana. Si tratta di rischi globali che inducono “sistemati-camente danni spesso irreversibili, si basano su interpreta-zioni causali, e così si producono soltanto in termini di sape-re (scientifico o antiscientifico che sia)” (ivi, 30). In altri ter-mini, le minacce prodottesi con il progresso tecnologico edeconomico colpiscono tutti gli individui indiscriminatamen-te e, in quanto prodotto scientifico, le loro cause devonoessere indagate, conosciute ed accertate.Tuttavia, la determinazione del rischio e dei danni potenzia-li presume non soltanto delle supposizioni scientifiche, maanche delle valutazioni di tipo etico e di accettabilità sociale,spesso inconciliabili con le prime. In tal modo la definizione

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dei rischi diventa un campo di battaglia dove “ciò che simostra chiaramente (...) sono le crepe e le voragini che siaprono tra razionalità scientifica e razionalità sociale nelmodo di rapportarsi ai potenziali di pericolo insiti nella civil-tà” (ivi, 39). Ne consegue che la determinazione dei rischi si trasforma inun’attività sociale – con il sistema dei mass media in posizio-ne chiave – in cui sono spesso più importanti e legittimi glieffetti sociali di una potenziale minaccia, piuttosto che la vali-dità, comprovata scientificamente, delle sue cause. Tutto ciòsi riflette nell’altra faccia del rischio, ovvero l’insicurezza e lapaura, che ammantano ed adombrano i successi della societàmoderna contemporanea senza alcuna tregua: in quanto atti-vità sociale e culturale, infatti, “ la domanda indotta dairischi di civiltà è (…) una ‘botte senza fondo’, inesauribile,infinita, autoproducente” (ivi, 31). In questo senso, il rischiosi trasforma in motore della storia e delle attività umane,svolgendo il ruolo che nella prima società industriale aveva ilsoddisfacimento dei bisogni. In altre parole, se nell’Ottocen-to e nella prima parte del Novecento la società è dominata dauna logica di creazione e redistribuzione della ricchezza, lasocietà contemporanea è invece incentrata sulla determina-zione e redistribuzione del rischio. Inoltre, una mobilità sempre più dinamica ha sì accresciuto leinterazioni sociali, ma le ha rese tendenzialmente più astrattee superficiali, cioè prive di profondità e della capacità dicostruire senso sociale e comunitario (cfr. Spreafico 2005),contribuendo a produrre isolamento ed instabilità sociale.

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Ciò è dovuto sia alle caratteristiche dell’esperienza dellamobilità individuale – ognuno si muove col proprio mezzo eseparato fisicamente dagli altri – sia alle forze che spingonole società occidentali sempre più verso l’individualizzazione.In un primo momento, infatti, la società del benessere hareso possibile una vita individuale più ricca, l’emancipazionedai costumi più tradizionali e dal controllo sociale esercitatosull’individuo dalle istituzioni sociali, nonché la possibilitàdi costruzione di un progetto di vita all’interno di un venta-glio di opzioni molto più ampie che in passato.In tempi più recenti, l’individualizzazione assomiglia semprepiù a un processo di atomizzazione nel quale l’individuo,sottoposto alla pressione di mutamenti che non controlla, sirifugia nella propria intimità e nella ricerca dei propri inte-ressi immediati, a discapito del sentimento di appartenenzaa una comunità (cfr. Sennet 2001).Infine, la globalizzazione ha notevolmente contribuito adaumentare il livello di incertezza di alcuni settori delle socie-tà attuali. Nella società globalizzata la mobilità assurge alrango più elevato tra i valori che danno prestigio, e la stessalibertà di movimento diventa rapidamente il primo fattore distratificazione sociale (Bauman 2006).Infatti, i nuovi ceti dirigenti della globalizzazione coincidonocon coloro che godono di un alto grado di mobilità, intesacome capacità di spostare il centro dei propri interessi e del-le proprie attività (ad esempio attività imprenditoriali)all’esterno del territorio di provenienza. I ceti sociali menoabbienti, al contrario, vivono in una maggiore incertezza a

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causa della delocalizzazione dei fattori produttivi.Il risultato più eclatante di queste trasformazioni è l’insor-gere di un senso generale di insicurezza e d’incertezza, cui sioppone una reazione contraria di ricerca di sicurezza e diesclusione del rischio dalle proprie esistenze individuali. Alivello sociale, dunque, si sperimenta un maggior individua-lismo e un conseguente maggior isolamento sociale, laddo-ve i singoli tentano di trovare nella sfera privata soluzionipersonali al disagio sociale ed esistenziale che si origina, tut-tavia, altrove.Il rapporto fra società e mobilità si fa allora più complesso,considerato che sono le condizioni della mobilità moderna acausare o comunque amplificare la crescente atomizzazionedella società.Tuttavia, é sulla mobilità stessa che si riversa il bisogno dimaggior sicurezza e minor incertezza. Il mercato dei mezzi ditrasporto privati subisce allora un’accelerazione in termini didifferenziazione ed in termini di contenuto, mano a mano chedeterminati segmenti sociali – donne e giovani – sono integra-ti a pieno titolo nel modello della motorizzazione privata.L’effetto principale di queste influenze si traduce in unarivoluzione del rapporto fra automobilista e mondo dell’au-to, con la decrescente importanza del mito della velocità afavore di nuovi elementi quali il comfort e la sicurezza: gliequipaggiamenti sono maggiormente rivolti alla protezionedegli occupanti; “la potenza del motore cede il passo ai cri-teri di basso consumo e rispetto dell’ambiente” (Studio ACI

2006a, 11).

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Allo stesso tempo, emerge un arricchimento del significatosimbolico dell’automobile, dovuto all’estremizzazione delprocesso di ricerca dello status tramite segnali distintivi: eccoapparire l’auto storica, d’epoca, con l’inevitabile influenzanel design e nella produzione.Mentre il mercato rivolto ai privati segue l’evoluzione sum-menzionata, a livello collettivo la società è sempre più impe-gnata a fornire una risposta il più possibile integrata allevarie problematiche del trasporto. La mobilità sostenibilediventa l’obiettivo delle politiche dei trasporti, centrali elocali, nonché l’approccio in grado di tenere conto delle que-stioni legate all’urbanistica, all’ambiente ed alla sicurezza.L’introduzione delle tecnologie informatiche e delle teorie suiflussi di traffico nelle soluzioni di mobilità sostenibile ha sen-sibilmente incrementato la loro efficacia, mentre resta davalutare con sicurezza l’influenza che queste possono averesulla mobilità in generale della società.La potenza del modello di comunicazioni attuale, basata sulmodello di rete e sulla “smaterializzazione” crescente di benie servizi, rende già oggi possibile un’interconnessione perso-nale tale da limitare l’idea del trasporto e del trasportarsi.Non si nota ancora, tuttavia, una diffusione massiccia deltelelavoro, per via dell’arretratezza tecnologica italiana e perragioni sociopsicologiche che vedono nel contatto diretto unelemento ancora importante nei rapporti di lavoro.Data l’interdipendenza che segna il rapporto tra società e mobi-lità in tempi recenti, si affronteranno di seguito e in manieraspecifica le questioni appena introdotte in questa sezione.

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LA QUESTIONE AMBIENTALE.L’emergere di una consapevolezza ecologica nella società ita-liana si situa alla fine degli anni Sessanta, come analisi criticagenerale dei guasti provocati dall’inquinamento industriale.Lo shock petrolifero del 1973 attira l’attenzione degliambientalisti sull’automobile, sulla quale è stata organizzatatutta la politica energetica e infrastrutturale italiana. Le criti-che rivolte dagli ecologisti al mondo dell’automobile riguar-dano fondamentalmente le seguenti questioni: l’uso del terri-torio e lo sfruttamento dello spazio pubblico; il rischio diesaurimento delle fonti energetiche; l’inquinamento atmosfe-rico prodotto dalle emissioni delle automobili, incluso l’im-patto che esse hanno sul fenomeno dell’effetto serra.In Italia, si inizia ad analizzare l’uso del suolo secondo unaprospettiva ambientale soltanto quando la forsennata urba-nizzazione mette in mostra i limiti di uno sviluppo industria-le e soprattutto infrastrutturale troppo rapido e squilibrato.Alle pressioni dell’industria automobilistica per le autostra-de, si aggiungono anche quelle dell’industria delle costruzio-ni, primariamente mobilitata nell’espansione degli spaziurbani. Già nel 1958, in fase di approvazione del Codice del-la Strada, il Senato “approvò due emendamenti che mitiga-vano la severità delle norme previste dallo schema prelimina-re del nuovo Codice: il primo finì, di fatto, per rendere vanala norma che istituiva una fascia di rispetto urbanistico ailati delle strade” (Paolini 2005, 82). La forte migrazioneinterna verso le zone industriali, inoltre, alimenta la febbredell’edilizia ed in breve si attua una profonda trasformazio-

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ne dell’ambiente urbano, amplificata da una prospettiva pro-gettuale incentrata sull’uso dell’automobile.L’espansione urbana avviene senza una politica d’indirizzoche chiarisca vincoli e limiti e, soprattutto, senza riuscire adare ordine al crescente traffico veicolare e all’aumento deimezzi a motore. I nuovi quartieri che sorgono sono messi incomunicazione con il resto della città grazie a nuove strade,svincoli e tangenziali, il cui effetto è quello di generare ulte-riore traffico e non una sua decongestione. Inoltre, il boom edilizio “non ha interessato solo i grandissi-mi capoluoghi industriali e terziari, ma l’intera loro area digravitazione funzionale ovvero di accettabile accessibilitàpendolare, sicché l’esplosione industriale e demografica havia via toccato i comuni delle successive cinture, innescando-si in ciascuno di essi per fasce concentriche in una sorta direazione a catena” (Mioni 1991, 53).L’accessibilità ai nuovi territori garantita dalla costruzionedelle infrastrutture viarie trasforma quindi la città tradizio-nale in metropoli prima, e in area metropolitana successiva-mente. La metropoli è un nuovo prodotto della civiltà odier-na, una realtà “nella quale c’è sì una città principale even-tualmente ‘grande’ (…) ma c’è in primo luogo un sistemacomplesso e assai più esteso di insediamenti urbani più omeno dipendenti e (…) che è legato ad essa da una fittissimarete di relazioni, di servizi, di comunicazioni, di solidarietà didestini”, cosicché, la differenza con la città tradizionale stanel fatto che “nello spazio metropolitano la prospettiva èmolto più estesa e veloce, l’intensità e la varietà delle relazio-

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ni sono molto superiori, che la quantità di territorio, di atti-vità, di interessi e di gente in gioco assai più ampia e indeter-minata, e che soprattutto, sono molto diverse la natura e laqualità materiale di tutto ciò che si percepisce come compo-nente materiale dell’insieme” (ivi, 44). Il risultato di questo sviluppo è un grandissimo consumo dispazio pubblico, in termini di terreno sacrificato alla realizza-zione delle infrastrutture edilizie e viarie, come in termini diriduzione degli spazi pubblici sociali – piazze, slarghi, giardi-ni – che sono trasformati in parcheggi o luoghi di transito deltraffico, perdendo la loro natura, a volte secolare, di luoghidi aggregazione. Inoltre, la moltiplicazione delle popolazionimetropolitane alimenta il conflitto sociale legato allo spaziourbano tra chi vive in aree riqualificate (gentrified) e dequali-ficate e quello per il diritto di accesso a uno spazio pubblicoche scarseggia (cfr. Nuvolati 2002). Quest’ultimo tipo di con-flitto “vede contrapporsi, in particolare, il nuovo ‘ceto forte’degli automobilisti (in grado di produrre lobbying, campagnedi stampa, pressioni politiche, alleanze con altri gruppi forti,come i commercianti) e un ‘ceto debole’ (pedoni, passeggeridei mezzi pubblici, ciclisti, bambini ecc.) con scarso potere eben poca voce in capitolo nel dibattito sul traffico e sulle poli-tiche urbane” (Davico e Staricco 2006, 51).Di fronte all’inutilità di costruire nuove infrastrutture pertentare di assorbire il traffico veicolare, gli studi su quest’ul-timo elaborano una teoria che tiene in conto sia delladomanda di mobilità sia dell’offerta di servizi di trasporto,cercando di capire perché la gente si sposta e in che modo.

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Dalla teoria ne consegue che un’organizzazione razionaledegli spazi e dei loro utilizzi – ad esempio il decentramentodi certi servizi – ha una grande influenza sulla riduzione edecongestione del traffico. In Italia, la teoria dell’uso delsuolo tarda ad attecchire e le scelte delle amministrazioni siorientano, fino agli anni Novanta, a cercare di risolvere iproblemi della mobilità ancora con il potenziamento delleinfrastrutture viarie. La questione energetica catalizza l’attenzione all’indomanidello shock petrolifero del 1973, quando anche in Italia vie-ne introdotta una politica di forti limitazioni al consumo dipetrolio e derivati. L’evento ha forti ripercussioni sia in senoal sistema industriale, sia a livello politico-sociale, grazie alriconoscimento ed alla visibilità di cui inizia a godere ilmovimento ambientalista globale ed italiano. Ad esseremessi in causa sono sia i consumi delle automobili, sia lo sti-le di vita delle società industriali moderne, quest’ultimoessenzialmente basato su un livello molto alto di mobilità dimerci e persone.Queste critiche, facilmente estese al sistema industriale econsumistico generale, inducono un mutamento della sensi-bilità ambientale nella società italiana, spianando la strada asoluzioni per la viabilità che includono adesso anche il con-cetto di limitazione della mobilità individuale, a favore diuno stile di vita meno dipendente dagli spostamenti. Ad ali-mentare questo mutamento, nei decenni successivi al 1973,contribuisce anche la natura sempre più energivora del siste-ma dei trasporti e la conseguente rapidità con cui si esauri-

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scono le riserve energetiche. Da un lato, infatti, la motoriz-zazione privata si caratterizza per l’inefficienza energetica,laddove “il coefficiente medio di riempimento delle auto èdel 20 per cento (1,2 passeggeri per veicolo), mentre nel tra-sporto urbano di merci non supera il 30 per cento. (…) maè soprattutto sproporzionato il rapporto tra peso del veicoloe peso del carico utile: per l’automobile è di 5-10 a 1 (un’au-to di classe media pesa intorno ai 1000-1500 kg e in genereporta una o due persone). Ne consegue che su dieci litri dibenzina, otto o nove vengono spesi per spostare il veicolo euno o due per spostare i passeggeri” (Viale 2007, 61); dal-l’altro, il sistema dei trasporti, alimentato dalla globalizza-zione degli scambi, fa costantemente lievitare i consumi dipetrolio e derivati: secondo le proiezioni della Commissioneeuropea, “vi è un urgente bisogno di investimenti. Soltantoin Europa, per soddisfare la domanda di energia prevista esostituire le infrastrutture che mostrano segni di invecchia-mento, nei prossimi 20 anni saranno necessari investimentiper circa mille miliardi di euro (…).Si prevede che entro il 2030 la domanda globale di energia– e le emissioni di CO2 – saranno di circa il 60% superioriai livelli attuali. Il consumo globale di petrolio è aumentatodel 20% dal 1994 e si prevede che la domanda globale dipetrolio aumenterà dell’1,6% all’anno” (Commissioneeuropea 2006, 3).I crescenti consumi energetici comportano inoltre l’aumentodell’inquinamento, prima delimitato alle zone urbane piùindustrializzate, poi, a causa dell’espansione urbana, diffuso-

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si anche altrove. I primi studi che collegano l’auto all’inqui-namento si sviluppano negli Stati Uniti nel secondo dopo-guerra, per poi arrivare in Europa negli anni Sessanta. In Ita-lia essi sono decisamente osteggiati da una sensibilità pubbli-ca estremamente favorevole alla civiltà dell’automobile e sideve attendere l’intervento della Comunità economica euro-pea nel 1971 per l’avvio di una normativa antismog italiana.Negli anni Ottanta, il dibattito europeo ed italiano sull’in-quinamento da emissioni degli autoveicoli converge, grazie anumerosi studi e a dati ormai inoppugnabili, sull’adozione dinormative relative alla costruzione di mezzi a motore carat-terizzati da bassi livelli d’inquinamento ed alta capacità diriciclaggio di materie e componenti, normative conosciutecon le sigle Euro 1, 2, 3, 4, e così via.La lotta all’inquinamento provocato dalle emissioni delleautomobili si alimenta oggi anche di una domanda sociale diriduzione dei rischi ambientali relativi al surriscaldamentoglobale, per il quale il sistema dei trasporti è considerato unodei maggiori responsabili in virtù del quantitativo di CO2

emesso. Secondo quanto rilevato dall’Agenzia europea del-l’ambiente, il trasporto stradale è all’origine di quasi trequarti dei consumi energetici europei nel settore della mobi-lità (cfr. EEA 2003) e, nonostante gli sforzi, i miglioramentinell’efficienza dei veicoli e dei carburanti non riescono acompensare la costante crescita delle emissioni di anidridecarbonica da parte del settore dei trasporti, pari a un aumen-to di più del 32% nel periodo 1990-2004 (cfr. EEA 2007). Si assiste così, in linea con quanto sopra detto sulla società

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del rischio, a una pressione sociale dell’opinione pubblicasull’industria automobilistica, che sfocia nella ricerca di unnuovo modello di organizzazione della mobilità che integrigli aspetti ambientali ed i loro effetti sociali. Si sviluppa allo-ra la mobilità sostenibile, composta da un’attenzione nuovaal tema dell’utilizzo del suolo e dello spazio pubblico, allavalutazione dell’impatto ambientale su tutti gli aspetti deltrasporto, in particolare quelli relativi all’abbattimento delleemissioni di anidride carbonica, finalizzati a contrastare ilsurriscaldamento da effetto serra, e quelli relativi alla ridu-zione dell’inquinamento atmosferico ed acustico ai fini dellasalute pubblica.La gestione della mobilità sostenibile trova applicazione perla maggior parte nei territori urbani, cioè dove si verifica lamaggiore densità di traffico. In tali aree si concentra circa il70% del totale degli spostamenti delle persone (cfr. Davico eStaricco 2006). Inoltre, il traffico tende sempre più a carat-terizzarsi come domanda di mobilità sempre più erratica emeno derivata dai tradizionali spostamenti per lavoro o perstudio (cfr. Studio ACI 2002). La razionalizzazione dellamobilità urbana comprende sia interventi intesi a incoraggia-re l’uso di modalità di trasporto alternative all’automobile –misure di tipo pull – sia provvedimenti finalizzati a scorag-giare l’uso dei mezzi privati – misure di tipo push – entram-bi possibilmente integrati con la pianificazione territoriale eurbana. In genere, i mix di policies che si possono adottarehanno come obiettivo:- la razionalizzazione del trasporto privato motorizzato, rea-

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lizzato tramite la creazione di zone a traffico limitato oppu-re attraverso incentivi intesi ad aumentare il tasso d’occupa-zione dei veicoli – car pooling – oppure a diminuire il nume-ro complessivo dei veicoli in città – car sharing;- l’incremento dell’uso dei mezzi di trasporto collettivi, attra-verso il loro potenziamento infrastrutturale e la loro integra-zione (ad esempio bus più metropolitana), e lo sviluppo dimodalità di mobilità alternative, quali la bicicletta;- la realizzazione di sistemi di mobility management basatisulla pianificazione della domanda e dell’offerta di traspor-to, tramite l’analisi dell’uso del suolo, dello studio dei tempidegli utenti del sistema (orario di lavoro, tempo di svago ecosì via).Sono poi gli ambientalisti e quanti desiderano preservarel’immenso patrimonio culturale e monumentale italiano acompiere le prime riflessioni critiche sull’uso del territorio ea produrre una domanda sociale di mobilità sostenibile dalpunto di vista ambientale, denunciando sia la speculazioneedilizia, che devasta città e luoghi di villeggiatura, sia i rile-vanti problemi di salute pubblica che il crescente inquina-mento atmosferico pone agli individui ed alla collettività (cfr.Paolini 2005). Questo tipo di domanda sociale origina da uninsieme di fattori, tra i quali, appunto, la difesa dell’ambien-te, che si è soliti riunire sotto la locuzione “qualità dellavita”. Essi emergono una volta che la società dell’abbondan-za è abbastanza diffusa da porre in secondo piano il tema delsoddisfacimento dei bisogni primari. La società dei valorimaterialisti fa allora spazio a quella dei valori post-materia-

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listi (cfr. Inglehart 1977), tra i quali si rilevano ovviamente iconsumi culturali e ricreativi.La domanda di soluzioni alle crescenti minacce alla saluteprovenienti dall’inquinamento si è realmente messa in motoin Italia, come si è accennato nel capitolo precedente, soltan-to a seguito della pressione proveniente dagli indirizzi di poli-tica ambientale elaborati dalle istituzioni comunitarie di Bru-xelles. La Commissione europea ha stimato che percentualielevate di popolazione urbana restano esposte nell’Unioneeuropea a livelli di inquinamento atmosferico superiori allesoglie di ammissibilità e l’Organizzazione mondiale dellasanità “in uno studio relativo a otto città italiane ha valutatoche il numero annuale di morti dovuti all’inquinamentoatmosferico per particolati tra le persone con più di trent’an-ni, è pari a circa 3.500, contro i circa 500 morti dovuti a inci-denti stradali” (Davico e Staricco, 74). Soltanto alla fine deglianni Ottanta si è iniziato a corresponsabilizzare l’industriaautomobilistica, vincolandola alla costruzione di veicoli piùpuliti, e ad imporre un sistema di monitoraggio ambientale edi limiti alle sostanze nocive. I provvedimenti verso l’indu-stria si sono concretizzati, oltre che nelle normative Euro sul-l’efficienza dei veicoli, anche nello svecchiamento del parcoautomobilistico tramite incentivi statali all’acquisto di vettu-re nuove, rendendoli ammissibili anche se contrari alle normeeuropee sulla concorrenza, e, infine, in norme intese a pro-muovere l’introduzione nel mercato di carburanti privi diprodotti inquinanti – come la benzina senza piombo – o ilgasolio per autotrazione a basso contenuto di zolfo.

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L’effetto di queste restrizioni sembra tuttavia esser statovanificato dal continuo aumentare degli autoveicoli e dal fat-to che la tecnologia del motore a scoppio, per quanto resapiù pulita dalla gestione elettronica, non cessa di produrreeffetti collaterali indesiderati, come l’aumento dell’inquina-mento da particolato fine (PM 10 e PM 2,5) causato dal dif-fondersi dei moderni turbodiesel. I pubblici poteri stannoperciò attualmente spingendo l’industria automobilistica adorientarsi su sistemi di propulsione – ibrido, elettrico, a idro-geno – e nuovi carburanti – gas combustibili, idrogeno, eta-nolo – mentre le marche automobilistiche stanno svolgendocampagne mediatiche di riposizionamento dei loro principa-li modelli in senso ambientale.La domanda sociale per una mobilità ecologica è influenza-ta anche dalla battaglia generale per l’abbattimento delleemissioni di anidride carbonica, che si è concretizzata nel-l’adozione da parte dell’Italia del Protocollo di Kyoto per lariduzione dei gas serra. Tra il 2008 ed il 2012 il Trattatoimpone la riduzione dei gas serra tramite una serie di stru-menti, tra i quali un sistema di crediti di emissione, l’auto-rizzazione delle autorità per le attività industriali più inqui-nanti e, infine, meccanismi di implementazione e di trasferi-mento dei metodi e delle tecnologie antinquinamento ai Pae-si meno sviluppati. L’applicazione del Protocollo in Italiariposa sulle delibere Cipe 137/1998 e 123/2002, nonché sul-la legge 316/2004 che ha recepito la direttiva europea2003/87/CE in materia di scambio di quote di emissione digas serra. Il dispositivo di questa normativa rende più facile

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attuare in Italia le politiche di riduzione dell’inquinamentoproveniente dal settore dei trasporti, tramite l’adozione dipolicies di mobility management dirette a limitare l’uso deltrasporto privato a favore di quello pubblico e promuoven-do l’integrazione delle modalità di trasporto (cfr. Studio ACI

2006b). L’esempio più recente è il disegno di legge n. 691 del 2006,che “prevede alcuni interventi sulla fiscalità energetica, inparticolare che il maggior gettito fiscale dovuto all’inciden-za dell’Iva, in relazione agli aumenti del petrolio, possa esse-re destinato (...) ad un apposito fondo da utilizzare in viaprioritaria per coprire la realizzazione di nuove infrastruttu-re energetiche, (...) nonché per l’attuazione di misure voltead incentivare il solare termico, l’utilizzo di veicoli efficien-ti dal punto di vista energetico e a ridotto impatto ambien-tale” (Studio ACI 2006a, 96).

LA QUESTIONE DELLA SICUREZZA.La crescente attenzione per la sicurezza rappresenta la rispo-sta collettiva ed individuale alla società del rischio, ma inglo-ba anche altri elementi tipici delle società moderne contem-poranee, quali la ricerca del comfort e tutti gli aspetti affe-renti alla locuzione “qualità della vita”. La relazione trasicurezza e mobilità riguarda così sia gli aspetti “tecnici”relativi al mondo dei trasporti – il traffico, i livelli di inciden-talità, le dotazioni di sicurezza dei veicoli – sia gli aspetti“sociali” connessi ai nuovi valori affermatisi con la societàpostmoderna, vale a dire l’insicurezza sistemica che accom-

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pagna l’individuo nel processo di globalizzazione, ma anchel’edonismo, l’importanza dei desideri e dei bisogni immate-riali che emergono prepotentemente dall’evoluzione dellasocietà dei consumi e che alimentano una richiesta di mobi-lità sempre più confortevole in senso ampio. Il bisogno disicurezza emerge inizialmente già durante la fase di motoriz-zazione di massa, quando la società italiana fa la conoscen-za con la congestione del traffico e con l’aumento vertigino-so degli incidenti stradali, problemi ai quali, come si è vistoin precedenza, si risponde in maniera frammentata oppureinsufficiente, nel timore di determinare un blocco dello svi-luppo economico. A partire dalla seconda metà degli anniSettanta, tuttavia, ci si rende conto che tali problemi sononon soltanto endemici, ma tendono ad eliminare proprio ivantaggi legati alla mobilità individuale, cioè una maggiorlibertà personale unita a flessibilità e risparmio di temponegli spostamenti fisici. La realizzazione di nuove infrastrut-ture viarie senza un’adeguata pianificazione territoriale com-porta un aggravamento della congestione del traffico, la cuiriduzione è ulteriormente resa difficoltosa dalla crescita con-tinua del parco degli autoveicoli lungo gli anni Ottanta eNovanta. “Con il censimento del 1981, si è raggiunta laparità tra numero di nuclei familiari e numero di autovettu-re. Dopo tale data, l’incremento del parco (...) è stato intera-mente dovuto al fenomeno della diffusione della seconda eterza auto. (...) L’Italia è il Paese europeo (dopo il Lussem-burgo) con il più elevato tasso di motorizzazione: 1,5 auto-vetture a famiglia, 59,19 autovetture ogni 100 abitanti cioè

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un’autovettura ogni 1,7 abitanti o un’autovettura ogni 1,4abitanti se consideriamo solo la popolazione con più di 18anni di età” (Studio ACI 2006a, 13).Al momento attuale, le automobili presenti su tutto il terri-torio nazionale ammontano a circa 45 milioni e, se messe infila una dietro l’altra, coprirebbero circa un terzo dell’esten-sione della rete stradale nazionale. I costi e le disfunzioni deltraffico sono vari: si passa dal consumo di spazio pubblico –marciapiedi, piazze e slarghi sono usati come parcheggi – aun maggior isolamento sociale fra le persone; ma col cresce-re della quantità dei mezzi in circolazione, si rende evidenteche il problema più grave è dato dall’alto numero degli inci-denti stradali e dalle vittime che esso provoca. Le cifre relative all’incidentalità in Italia hanno assunto neglianni un andamento preoccupante. “Se ogni anno i morti sul-le strade italiane sono 6-7000, le vittime di gravi incidenti,con conseguenze permanenti sul fisico o sulla psiche sonooltre 150.000” (Viale 2007, 28). In termini più ampi, ovveroincludendo i costi assicurativi, sanitari e così via, le conse-guenze dell’alta incidentalità assumono i contorni di una cala-mità sociale. Alcune elaborazioni ACI-Istat sui costi umanidell’incidentalità mettono in rilievo che “per il 2004, essi sonostati valutati in 16,55 miliardi di euro, derivanti da mancataproduzione, danno alla persona e costi sanitari. I costi mate-riali, invece, [costi amministrativi, assicurativi e giudiziari,nda] sempre per il 2004 sono stimati in più di 17 miliardi, perun totale dei costi sociali di ammontare pari a 33,706 miliar-di, vale a dire il 2,5% circa del Pil” (Studio ACI 2006a, 104).

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I rischi del guidare sono così diventati non più un problemapersonale, ma sociale, andando a comporre una prima,robusta, domanda di maggior sicurezza delle infrastrutture,delle regole di comportamento e degli autoveicoli stessi. Leinfrastrutture viarie principali vengono allora dotate diapparati di sicurezza, di segnalazione e di comunicazione,mentre, a livello normativo si introduce un nuovo Codicedella Strada nel giugno 2003. L’evoluzione maggiore nelle regole riguarda sia l’inaspri-mento delle sanzioni relative alle infrazioni più gravi (ecces-so di velocità, guida in stato di ebbrezza), sia l’introduzionedella patente a punti. Essa ha contribuito a ridurre più dialtre soluzioni il numero degli incidenti stradali, in virtù del-la sua natura mista, “poiché possiede aspetti sia di naturapreventiva nei confronti degli incidenti stradali (in quantoattraverso una misura c.d. sanzionatoria è diretta a colpirei comportamenti scorretti), sia di natura rieducativa, attra-verso i corsi per il recupero dei punti” (Studio ACI 2003, 6).Il tema dell’educazione stradale rappresenta un ambito nelquale le autorità pubbliche e gli Enti del settore, tra cuil’ACI, hanno recentemente intensificato la loro azione.L’industria automobilistica è stata a sua volta coinvolta eresponsabilizzata sul tema e gli autoveicoli prodotti sono sta-ti via via dotati dei dispositivi di sicurezza più avanzati (siste-ma di servoassistenza alla frenata, controllo della sbandata ecosì via), oltre che esser testati contro gli urti frontali e late-rali prima della loro omologazione e commercializzazione.L’insieme di queste soluzioni tecniche ha senz’altro migliora-

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to lo stato della sicurezza e della gestione dei rischi connessialla mobilità.Tuttavia, persistono problemi di sicurezza intesi nella loroaccezione sociologica ed intimamente legati al traffico. Inprimo luogo troviamo la crescita dell’isolamento socialeurbano determinato dall’uso dell’automobile: “lo spaziopubblico consegnato all’automobile è una mutazione chetrasforma l’intera città – e con essa il mondo – in uno spazioprivato, che in nulla differisce – quanto a promozione dellerelazioni sociali – da quello racchiuso tra le pareti della casa,dell’ufficio, del reparto, o dell’aula scolastica: desocializzal’uomo, ne privatizza l’esistenza” (Viale 2007, 21).Inoltre, gli atteggiamenti aggressivi e conflittuali che si sca-tenano per i parcheggi o per il transito sono alimentati dallacompetizione per lo spazio pubblico che emerge fra gli abi-tanti ed i consumatori metropolitani, cioè coloro che “nonrisiedono in città e che, a differenza dei pendolari, non vilavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente perconsumare” (Martinotti 1993, 15). Oltre a ciò, la domanda di sicurezza nella mobilità si alimen-ta di elementi relativi al “fattore umano”. Gli studi sugliincidenti stradali si sono perciò arricchiti di analisi psicoso-ciali che hanno messo in relazione il livello d’incidentalitàcon le nevrosi, il calo d’attenzione e così via, allo scopo dirispondere alla domanda di sicurezza con un modello di pre-venzione dei rischi (cfr. Andreoni 1999). In particolare, alcu-ne psicotecniche messe a punto per valutare l’effetto del fat-tore umano negli incidenti hanno messo in rilievo come la

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guida nel traffico possa scatenare, anche nelle persone nonaffette da patologie nevrotiche, l’attivazione di fattori dellapersonalità profonda quali l’esibizionismo, l’indecisione el’evasione dal reale. “La dinamica inconscia dell’aggressivi-tà, in soggetti normali, assume un nuovo aspetto nella dina-mica degli incidenti stradali e nelle diverse forme e modi diguida” (Marocci 2001, 25). La sindrome di onnipotenza chene può derivare contribuisce ad abbassare negli individui lapercezione della rischiosità, ovvero della valutazione sogget-tiva della gravità di un rischio, portandoli a ignorare i pro-pri limiti o i limiti del contesto nel quale si trovano a guida-re. Allo stesso tempo, la percezione del rischio ha un limitetemporale, oltre il quale scatta l’assuefazione ed il conse-guente calo di attenzione. “Il rischio soggettivo e collettivoaumenta in misura sempre più elevata perché l’abitudine,l’assuefazione, il differimento a cambiare il proprio ‘stile diguida’ , attiva la dimenticanza prima e l’oblio poi, diminui-sce e annulla sia le difese soggettive che quelle oggettive”(Andreoni 1999, 49). Per evitare dunque che rischi adeguatamente segnalati sianoignorati o provochino indifferenza, sta emergendo, semprepiù forte, un’esigenza di diffondere quanto più possibileun’adeguata educazione stradale, specie fra i giovani auto-mobilisti. Costoro sono una categoria ad alto rischio, vistoche le statistiche dimostrano che “negli ultimi trent’anni iltasso generale di mortalità negli incidenti stradali è diminui-to complessivamente del 40%, ma nelle fasce di età giovani-le la riduzione è stata impercettibile”, e studi inglesi sul feno-

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meno hanno rilevato che “i giovani automobilisti sono mag-giormente coinvolti negli incidenti stradali non per incapaci-tà alla guida, ma perché scelgono di guidare in maniera inap-propriata” (Studio ACI 2003, 75). Ad aumentare i rischi del-la guida contribuisce anche il fenomeno del burn out, ovve-ro lo stato patologico di stress ed esaurimento emotivo, psi-chico e fisico che colpisce molti cittadini e che trova la suaprima causa nell’organizzazione quotidiana del tempo socia-le, quel tempo in cui gli attori sociali organizzano le propriestrategie di vita (cfr. Balbo 1991). Le attività umane nelle cit-tà moderne, infatti, si distribuiscono lungo un arco tempora-le più esteso rispetto al passato, provocando, da un lato, ladesincronizzazione dei tempi del lavoro e dello svago, dal-l’altro, la crescente insofferenza per le inefficienze del siste-ma del trasporto, responsabile dell’aumento del tempo con-nettivo, cioè di quel tempo che serve per spostarsi da un’at-tività all’altra (cfr. ivi).Vi è poi un’insicurezza generale sistemica, originata dai pro-cessi di individualizzazione e di globalizzazione che permea-no la società contemporanea.In particolare quest’ultima, con i suoi aspetti di deterritoria-lizzazione e di sradicamento, sembra responsabile di una piùdifficile costruzione dell’identità da parte degli individui e delloro diverso rapporto con la mobilità. Quest’ultima, infatti, sipuò trasformare da elemento apportatore di emancipazione edi libertà personale per tutti, com’è successo durante la moto-rizzazione di massa, ad elemento di stratificazione e polariz-zazione sociale (cfr. Bauman 2006). Come si è accennato in

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precedenza, le élites sociali tendono ad essere sempre piùmobili, liberandosi dai vincoli territoriali e sociali con lecomunità di origine, laddove quanti sono forzatamente radi-cati nel territorio subiscono il peso delle decisioni dei primi,in termini di perdita di lavoro, di ricchezza e di scambiosociale (cfr. ivi). La mobilità ha oggi “significati radicalmenteopposti per quanti sono al vertice e quanti si trovano al fon-do della gerarchia, mentre il grosso della popolazione, la‘nuova classe media’, oscilla tra i due estremi, e si accolla ilcarico di tale contrapposizione soffrendo di conseguenza diacute incertezze, ansietà e paure esistenziali” (ivi, 7).Incertezze e paure sono il frutto di un processo di costruzio-ne dell’identità non più sostenuto dalla società e dalle sueregole, ma pressoché interamente scaricato sull’individuo esui suoi sforzi di autoformazione ed autoaffermazione.Ma a questo punto “il fallimento o l’impossibilità di porta-re a termine il processo di autoformazione, genera (...) lapaura dell’inadeguatezza, (...) un’inadeguatezza postmoder-na, che rimanda all’incapacità di acquisire la forma e l’im-magine desiderate” (Bauman 1999, 109). Data l’importanza che nella globalizzazione assume la capa-cità di deterritorializzare i propri interessi, il livello di inade-guatezza comporta dunque anche una differenza in terminidi accessibilità ai vantaggi della società. La mobilità si pola-rizza in due modelli: da un lato c’è il turista, colui che parte-cipa pienamente ai vantaggi della globalizzazione – cosmo-politismo, libertà di andare e venire – per il quale, compresele sue merci ed i suoi capitali, i confini sono stati smantella-

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ti; dall’altro c’è il vagabondo, ovvero colui che è costrettoall’appartenenza a un territorio che diventa via via più ino-spitale – a causa di depressione economica ed isolamentosociale – e contro il quale il resto del mondo erige confini,muri e divieti d’ingresso (cfr. ivi; Augé 2007).I primi “vivono in un perpetuo presente, immergendosi inuna sequenza di eventi che quasi un cordone sanitario isoladal passato e dal presente. Questa gente è costantementeoccupata e non ‘ha’ mai ‘tempo’, dato che ogni istante è pri-vo di estensione, un’esperienza identica a quella di un tempoche t’impegna fino al colmo, quasi a soffocarti” (Bauman1999, 98). I secondi, al contrario, sono schiacciati “dal pesodi un tempo che non passa mai, ridondante e inutile, un tem-po che non si sa come riempire” (ivi, 99).In pratica, i turisti vivono nel tempo e lo spazio per loro nonconta nulla, poiché possono attraversarlo senza problemi,mentre i vagabondi, invece, vivono nello spazio, unospazio che è pesante e che lega il tempo tenendolo fuori dalcontrollo dei residenti (cfr. ivi).Il rovescio della medaglia di questa incertezza è un fortebisogno di sicurezza che si traduce e si trasforma in edoni-smo sfrenato e nell’evoluzione del mercato dei consumi.“C’è un’evidente affinità elettiva tra la privatizzazione del-la ‘gestione dell’incertezza’ e il mercato che provvede a ser-vire il consumo privato. (...) La paura dell’inadeguatezza ela frenesia del consumatore sono strettamente intrecciate,si nutrono reciprocamente, e trovano l’una nell’altra,l’energia necessaria a sostenersi” (ivi, 110-111). Dalla pri-

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ma industrializzazione alla società contemporanea, l’indi-viduo si è gradualmente trasformato da produttore di benia consumatore e, infine, a collezionista di piaceri e cercato-re di sensazioni. “Lo scopo del gioco del consumo non ètanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumularericchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazioneper sensazioni nuove, mai sperimentate prima” (Bauman2006, 93). Analogamente al processo sociale di definizionee di interpretazione dei rischi, che genera una domanda disicurezza pressoché infinita, anche la “smaterializzazione”del mercato dei consumi si traduce in un’espansione illimi-tata degli stessi. Non ci sono, infatti, “limiti ai ‘bisogni’dell’uomo in quanto essere sociale (cioè produttore di sen-so e relativo agli altri in valore). L’assorbimento quantita-tivo del cibo è limitato, il sistema digestivo è limitato, mail sistema culturale del nutrimento è indefinito” (Baudril-lard 1976, 78).L’insicurezza mascherata da euforia dei consumi getta dun-que i suoi riflessi anche sul bene automobile, esasperandoneil ruolo di segno distintivo di differenziazione sociale, per cuiessa è ancora oggi un potente indicatore di status, ma arric-chendola anche di contenuti intesi a soddisfare valori di tipopost-materialista.Pertanto, se da un lato non sembra cessare la corsa ad auto-mobili dalle prestazioni di potenza e velocità decisamentesovradimensionate rispetto alle condizioni del traffico, dal-l’altro, quest’ultime sono sempre più progettate per assecon-dare il comfort ed il rispetto dell’ambiente, due principi dal-

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la chiara valenza esorcistica nei confronti dell’insicurezzagenerale della società. Il comfort si è sempre accompagnato alla velocità, lungo tut-ta la storia della mobilità umana, ma ha assunto un’impor-tanza primaria quando si è passati dalla trazione animale aquella meccanica.L’aumento della velocità dei vettori impone la difesa del cor-po umano dalle scomodità del viaggio, ma il comfort simbo-leggia anche il distaccarsi dalla realtà circostante, nell’esalta-zione del trionfo della velocità. “L’effetto della superficie del-le cose, il contatto dei suoli sono definitivamente evitati conil miglioramento del ‘benessere, grazie all’interposizione dielementi intermedi destinati a farci perdere completamente ilcontatto con le materie prime. (...)Insomma, il comfort è solo un insieme di trucchi che miranoa fare sparire quelle scomodità infinitesimali che pure nonsono nulla più che la prova dell’esistenza di un peso, di unaportata e di una motricità naturali” (Virilio 2000, 34-35). Attualmente, il comfort si connota sempre più come unamodalità di rifugio e di protezione dall’insicurezza a discapi-to dell’esaltazione della velocità.La mitologia dell’automobile muta, come già osservavaRoland Barthes commentando la Citroën DS: “fino a ieri lamacchina superlativa dipendeva dal bestiario della potenza;ora diventa più spirituale e oggettiva, (...) eccola più casalin-ga, meglio intonata a quella sublimazione dell’utensilità cheoggi si ritrova nella nostra economia domestica: (...) tuttoquesto significa una sorta di controllo esercitato sul movi-

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VIII - LA MOBILITÀ DAL 1973 AI GIORNI NOSTRI

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mento, concepito ormai come comfort più che come presta-zione” (Barthes 2005).Si tratta di un mutamento che influenza non soltanto l’ado-zione di dispositivi di sicurezza, ma anche la qualità dellavita all’interno dell’abitacolo e la forma stessa del mezzo:“(...) le vetture sembrano ispirarsi agli interni domestici,aumenta la cura dei particolari e si studiano le sensazioni tat-tili e visive dei materiali” (Nappo e Vairelli 2006, 163). Ildesign, a sua volta, privilegia il ritorno a stilemi retrò psico-logicamente rassicuranti, quando non si ripropone l’attualiz-zazione di modelli passati – vedi Mini, Volkswagen NewBeetle e FIAT 500.La compatibilità ambientale trova espressione soprattuttonella comunicazione pubblicitaria di recentissima produzio-ne. Il mondo della produzione industriale ha operato già,dietro le quinte, una trasformazione in senso ambientalmen-te sostenibile, che è coincisa con le forti iniezioni di roboticae di elettronica nelle varie fasi di realizzazione dei prodotti.Tuttavia, è soltanto negli ultimi tempi che la comunicazionecommerciale ha iniziato a rassicurarci sulle qualità ambien-tali delle automobili, in particolare per quanto riguarda illivello di emissioni di anidride carbonica o la capacità di fun-zionare con carburanti alternativi o derivati da fonti di ener-gia rinnovabili, ad ulteriore conferma di un rapporto semprepiù interdipendente tra società e mondo della mobilità.

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CONCLUSIONI E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO

CONCLUSIONI E LINEE DITENDENZA PER IL FUTURO

Il 20 settembre 2007 è la data dell’arrivo dell’autovettura“Itala” a Parigi, a conclusione della riedizione per il centesi-mo anniversario del raid automobilistico più celebre dellastoria automobilistica mondiale, la Pechino-Parigi del 1907,vinta appunto dall’equipaggio dell’automobile italiana, for-mato dal principe Scipione Borghese, il meccanico EttoreGuizzardi ed il giornalista Luigi Barzini.L’evento, oltre ad essere meramente celebrativo, è ancheemblematico della storia della mobilità moderna e contem-poranea nel suo incessante progredire verso il rimpiccioli-mento del mondo, reso possibile da mezzi di trasporto che cipermettono di spostarci sempre più in fretta e più lontano.La storia del rapporto fra società e mobilità è il racconto diun’interazione sempre più complessa fra l’uomo e le macchi-ne che questi ha inventato per eliminare la fatica del traspor-to e per assecondare la sua millenaria voglia di esplorazionee di movimento.L’evolversi di questo rapporto ha investito e cambiato l’uo-mo, l’ambiente e le macchine stesse, secondo un rapporto diinterdipendenza reciproca sempre più intrecciato, tale da far-ci apparire i trasporti come sinonimo della stessa civiltàmoderna. Attraverso di essi, infatti, è possibile leggere l’evo-luzione delle società industriali, compresa ovviamente quel-la italiana, dal loro primo affermarsi fino alle tendenzerecenti. Non c’è infatti periodo storico oppure aspetto socia-

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le, che non leghi la sua natura, se non la sua stessa ragiond’essere, al mondo della mobilità. Nel caso italiano ciò è par-ticolarmente vero per quanto riguarda, ad esempio, i titani-ci sforzi condotti per l’unificazione politica, economica,sociale e geografica del paese, un processo che ha visto il tre-no prima, ed i mezzi a motore poi, svolgere un ruolo da pro-tagonisti, tanto forte quanto quello indotto dai mezzi dicomunicazione di massa.Nel lasso di tempo che è stato necessario per trasformarel’Italia da società tradizionale a moderna società dei consu-mi, i mezzi e le modalità di trasporto sono stati gli strumen-ti principali di uno spettacolare cambiamento degli stili divita, collettivi ed individuali. La velocità, la potenza, la fles-sibilità e la versatilità dei diversi mezzi di trasporto sonoentrate a far parte dell’uomo, e le passioni, le pulsioni e i mitidi questo hanno trovato proprio nei mezzi di trasporto illuogo dove condensarsi e rifulgere. La libertà di muoversi siè progressivamente affermata come un requisito indispensa-bile non solo della produzione e riproduzione dell’ordinesociale, ma della stessa esistenza moderna e, in particolare,della società della globalizzazione. In Italia, la lotta per laconquista di una sfera di mobilità individuale più ampia èstata lunga ed irta di ostacoli ed è stata resa possibile soltan-to dallo sviluppo economico instaurato con l’ordinamentorepubblicano e democratico. Soltanto dopo il secondo dopo-guerra, infatti, l’Italia diventa un paese a quattro ruote, inau-gurando un modello di sviluppo foriero di rilevantissimicambiamenti sociali ed ambientali, sia positivi sia negativi.

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I costi di una mobilità individuale diffusa capillarmente nontardano a manifestarsi, nella forma di una trasformazioneprofonda del territorio, sempre più urbanizzato ed “invaso”dall’automobile, ed in quella di un inquinamento atmosferi-co ed ambientale sempre più grave. Il mondo della mobilitàrisulta così sempre più sensibile a una domanda sociale ditrasporti che non ha più nella libertà di muoversi la princi-pale istanza da soddisfare. Fattori esterni quali la difesa del-l’ambiente, un generale senso di inadeguatezza ai ritmi sem-pre più ossessivi della società contemporanea e la parzialediffusione di valori post-materialisti condizionano semprepiù la mobilità degli italiani, le scelte relative alla gestionedelle modalità di trasporto e la natura stessa dei mezzi di tra-sporto.Le correlazioni fra uomo, macchina e natura in termini dimobilità hanno creato un panorama assai composito nelquale non è impossibile notare la coesistenza di elementidiversi. A una domanda di trasporto che segue come un’om-bra la crescita economica, corrisponde sia una gestione del-l’offerta che tende recentemente a scoraggiare l’uso di mezzidi trasporto privati (nell’ottica della difesa dell’ambiente),sia un’evoluzione della produzione dei mezzi di trasportoche punta a renderli sempre più attraenti e confortevoli.È auspicabile che il forte interessamento che le autorità pub-bliche, sia a livello nazionale sia sovranazionale tramitel’Unione europea, stanno dimostrando verso il settore deitrasporti, porti a realizzare una politica per la mobilità cheriesca a risolvere le principali distorsioni che attualmente

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caratterizzano il mondo della mobilità in Italia. Mentre i pri-mi segnali di un tale percorso stanno consolidandosi, attra-verso la diffusione progressiva di una cultura del mobilitymanagement, risulta comunque difficoltoso riuscire a preve-dere quali saranno i fattori determinanti che possono influi-re sull’evoluzione della mobilità in Italia, almeno a lungo ter-mine.Per quanto riguarda il breve termine, infatti, l’orizzonte tem-porale degli indirizzi di politica del settore elaborati a livelloeuropeo, uniti agli obblighi contratti con la ratifica del Pro-tocollo di Kyoto, sono sufficienti per intravedere ciò che ciaspetta: un impiego massiccio della tecnologia per trasfor-mare il comparto dei trasporti in un sistema razionale, piùpulito, efficiente e caratterizzato da un alto livello d’integra-zione delle modalità di spostamento. Le prospettive futureper il comparto dei trasporti in Europa, d’altronde, sonoabbastanza nette nell’affermare che vi sarà una crescita con-tinua, seppur mitigata dalla diffusione di fonti energeticherinnovabili, del volume del trasporto merci e passeggeri(Commissione europea 2003). In particolare, sembra abbastanza plausibile l’adozione dipolitiche di trasporto urbano largamente basate su un tra-sporto collettivo rinnovato e dotato di quelle caratteristichedi flessibilità che hanno fatto il successo dell’automobile pri-vata. Servizi di trasporto collettivo a domanda, car poolinge car sharing, uniti tramite una gestione informatizzata edadattabile in tempo reale, si profilano come le soluzioni del-la mobilità in arrivo nel prossimo futuro (cfr. Viale 2007). Il

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futuro della “mobilità sostenibile”, a basso impatto ambien-tale in termini di emissioni inquinanti, oggi appare tuttaviapiuttosto incerto: secondo i dati Istat del 2007, tra il 1997 edil 2006 l’uso dell’automobile come mezzo di trasporto perandare al lavoro in Italia è cresciuto, arrivando ad oltre il75% nel 2006; al secondo posto vi è l’andare a piedi, moda-lità il cui uso è sceso all’11% nello stesso periodo; seguel’uso di tram e bus, diminuito fino al 4%; quello di moto eciclomotori, cresciuto fino al 4%; quello della bicicletta, sali-to probabilmente ben oltre il 2% (l’uso della bicicletta è mol-to più elevato al nord – Bolzano è la città con la percentua-le più alta, e molte delle città che la seguono sono nella pia-nura Padana – e scarso al sud, in ogni caso quasi ovunquesempre al di sotto della media delle città del nord-Europa,anche in termini di presenza di piste ciclabili; tuttavia, inseguito al successo ed alla diffusione in diverse capitali euro-pee – recentemente Barcellona e Parigi – del bike sharing,attualmente si prevedono stanziamenti governativi in questadirezione anche in Italia); troviamo poi l’uso del treno,aumentato fino a ben oltre il 2%, e quello della metropolita-na, già salito oltre l’1%. Al di là della loro attendibilità, talidati non risultano confortanti se si pensa alla somma diauto, moto e parte dei bus. Nel brevissimo termine la realtàpare ancora discostarsi dalle previsioni e dagli auspici.Ciò non toglie il movimento in atto verso uno sforzo digestione che cerchi d’intervenire sulle componenti internedella mobilità – l’uomo e le macchine – al fine di ottenerebenefici per quella esterna – l’ambiente. Manca, in tutto que-

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sto apparato, una proiezione e una sensibilità sociale, nelsenso che gli aspetti sociali della mobilità sono consideratisolo degli obiettivi da raggiungere e non delle premesse dal-le quali partire per costruire una politica per la mobilità.Le tendenze a più lungo termine si mostrano, com’è natura-le che sia, più ardue da individuare e, pertanto, ci si limiteràqui a isolare quegli aspetti della società contemporanea chesembrano più importanti per abbozzare uno schema dellapossibile evoluzione futura del rapporto fra mobilità e socie-tà, espresso qui in termini generali e non con immediato rife-rimento alla situazione italiana.Innanzitutto, sembra che, dopo circa un secolo di evoluzio-ne tecnologica dei mezzi di trasporto, si possa azzardarel’ipotesi per cui un fondamentale mutamento della mobilitàpossa probabilmente realizzarsi all’esterno di essa. Si parteinfatti dall’assunto che l’automobile, il mezzo di trasportopiù importante e con alle spalle un’evoluzione tecnica e stili-stica esasperata, non sia più il motore del mutamento dellamobilità, com’è accaduto ad esempio quando ha alimentatol’affermarsi dei consumi di massa, ma piuttosto si adatti aglistimoli esterni. Fra quest’ultimi, sembrano assumere un par-ticolare rilievo la questione energetica e lo sviluppo dellecomunicazioni di massa e della telematica in generale.La prima emerge in tutta la sua urgenza, considerando che il“picco di Hubbert”, cioè il punto di massima produzione delpetrolio dopo il quale vi sarà l’esaurimento, viene situato neiprossimi 20 anni, secondo le stime degli esperti del settore(cfr. Studio ACI 2007). Pur prendendo con il beneficio del

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dubbio delle previsioni largamente viziate da speculazioni ditipo politico e finanziario, è opportuno notare che la cresci-ta dei consumi energetici e, in particolare, di quelli utilizzatidal settore dei trasporti, è forte sia per i paesi ricchi sia perquelli in via di sviluppo. In altre parole, se non sarà petrolio,qualcos’altro si dovrà consumare, come dimostra l’aumentorecente di contratti ed accordi internazionali fra paesi pro-duttori e paesi consumatori d’energia, tesi ad assicurarelivelli di fornitura adeguati.Il cambiamento di paradigma energetico dunque ci sarà,anche se è per adesso impossibile determinare in che direzio-ne, sebbene si noti già una maggiore attenzione a questotema da parte dell’industria automobilistica mondiale, tra-mite la commercializzazione di modelli di automobile fun-zionanti con carburanti alternativi (Saab e Ford in Europa,FIAT e Tata in Brasile). È ovvio che quando il mondo adotte-rà un sistema energetico differente il settore dei trasportisarà il primo ad esserne influenzato, in termini di mezzi ditrasporto e relativa tecnologia, nonché di modalità di produ-zione di distribuzione dell’energia stessa. Oggi i carburanti,prima di rendere possibile il trasporto, sono merce da tra-sportare essi stessi, via mare e via terra: domani, una fonteenergetica la cui produzione e distribuzione fossero decen-trate avrebbe un impatto notevole sulla mobilità.Riepilogando, la tecnologia dei trasporti come oggi la cono-sciamo – ad esempio il motore a scoppio – è vecchia di unsecolo, potrebbe essere adattata a una nuova fonte d’energiacome esserne spazzata via per essere sostituita con un’altra.

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In questo senso, l’evoluzione “interna” dell’attuale tecnolo-gia della mobilità, per quanto sofisticata, non sembra potertrainare l’evoluzione della mobilità.L’altro fattore esterno, i sistemi di comunicazione di massa ele tecnologie telematiche, potrebbe essere in grado di eserci-tare un’influenza maggiore sugli aspetti sociali del vivere,tale da influenzare gli attuali stili di vita associati alla mobi-lità. Si può ipotizzare che la loro azione in favore di una stra-tificazione sociale attraverso la mobilità continuerà, almenofino a quando il processo di globalizzazione agirà e dispie-gherà i propri effetti. Va notato, tuttavia, che il collegamen-to istantaneo globale di dati ed informazioni contiene in sénon soltanto la promessa di stabilire le premesse di un tra-sporto fisico, ma anche quella di eliminarlo.In altre parole, se la strada ha portato l’uomo a raggiungerei luoghi, cioè ad espandere lo spazio annullando la distanza,la simultaneità del collegamento globale può condurre i luo-ghi all’individuo. Per adesso, realtà quali il telelavoro non sisono diffuse con la velocità e le conseguenze che in molti ipo-tizzavano all’inizio dell’avvento di Internet, ma è possibileche lo faranno in futuro in modo più esteso. Già oggi, ladelocalizzazione di molti servizi informatici di aziende statu-nitensi in India, da molti analizzati per gli effetti sull’occupa-zione negli U.S.A., produce una minore mobilità globale,tenendo conto che moltissimi ingegneri indiani non sonodovuti emigrare per lavorare.La sofisticazione tecnologica dei moderni sistemi di comuni-cazione di massa e la smaterializzazione che comporta, uni-

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te al fatto che attualmente i beni tendono ad essere erogaticome servizi e non come prodotti, ci induce a ritenere che visaranno mutamenti per quanto riguarda la mobilità di mer-ci e persone. L’economia dell’accesso (cfr. Rifkin 2001), uni-ta alla telematica che interconnette gli individui attraverso ilglobo, può dare luogo a un modello di mobilità individualediverso, influenzato da lavoro, merci e servizi che si muovo-no e vanno verso l’individuo.Si può ipotizzare che la trasformazione di ogni prodotto inservizio produrrà un tipo di logistica diversa, necessariamen-te strutturata sui ritmi dei sistemi di comunicazione e quindipiù veloce di quella presente. Il paradigma dell’economiadell’accesso, al contrario di quello della proprietà degli stes-si, presuppone infatti un alto livello di accessibilità a beni eservizi, coniugato a una disponibilità degli stessi diffusa neltempo e nello spazio.Questa tendenza è già visibile attualmente, se consideriamocome il processo di destrutturazione e di destandardizzazio-ne dei tempi sociali e privati abbia portato a una frammen-tazione degli orari di lavoro e di svago. L’estensione delleattività umane su un più lungo arco temporale sembra unprocesso inarrestabile, oltre che progressivamente esteso alivello planetario con l’ingresso di nuovi Stati nel sistemaeconomico mondiale. Tutto ciò si riflette e si rifletterà inevi-tabilmente sul sistema dei trasporti e sulle modalità relativealla mobilità, come dimostra la crescente imprevedibilità del-la mobilità contemporanea, caratterizzata da un’alta errati-cità e dal crescere degli spostamenti non legati ai tempi

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sociali predefiniti (orario di lavoro). In sintesi, la proiezionedelle tendenze attuali sul lungo termine ci indicano come sia-no all’opera forze in grado di portare sia a una crescita deltrasporto – l’aumento dell’interdipendenza dei commercimondiali – sia a una sua riduzione – il telelavoro. Se risultaimpossibile capire quale delle due sia destinata a prevalere,ci sembra comunque opportuno rilevare due aspetti essenzia-li per completare il quadro di questa previsione: l’effetto deicosti di trasporto ed il crescente coinvolgimento della socie-tà nella definizione della politica dei trasporti. Il primo èovviamente legato all’aspetto energetico e tecnologico, non-dimeno la sua influenza sulle modalità di trasporto è innega-bile e può condurre a due scenari: se il costo dei trasporti,così come quello dei mezzi di trasporto, scenderà, si può ipo-tizzare un tipo di mobilità assai simile a quella attuale, sianelle modalità che nella struttura; se esso, invece, aumente-rà, è molto probabile che si assisterà a un decisivo passaggioa modalità di trasporto di tipo collettivo.Il secondo aspetto, quello sociale, è emerso nelle società occi-dentali ed in quella italiana in tempi recenti e promette didiventare un elemento strutturale della politica dei trasporti.Lasciando da parte i casi più estremi e simbolici della cosid-detta “sindrome NIMB (Not In My Backyard)”, il coinvol-gimento crescente della società nella definizione della politi-ca dei trasporti lascia intendere che nessuna decisione possaormai esser presa ignorando il giudizio degli utenti e deglistakeholders.Si tratta di un ulteriore segnale del forte rapporto, quasi

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organico, che lega sempre più l’evoluzione della società aquella della mobilità. Essere è muoversi, e viceversa.Da questa semplificazione ne discende che gli aspetti socialie culturali possono trovare nella pianificazione della mobili-tà il ruolo che fino a poco tempo fa è stato loro negato.

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INDICE

PREFAZIONE Pag. 5

INTRODUZIONE 7

PARTE PRIMAUN SECOLO DI EVOLUZIONE LEGISLATIVA

I - L’ERA DELL’AUTOMOBILE

La nascita dell’automobile 16

Verso le prime normesulla circolazione stradale 20

Mano da tenere nel regolamentodel 1905 e successivi testi normativi 28

I tentativi di aggirare le normeda parte dei “prepotenti del potere” 31

La nascita dei cartelli stradali 33

II - I PRIMI CODICI DELLA STRADA

Il primo Codice della Strada 37

Il P.R.A. 44

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Brevi cenni sulla ratio delle normedel Codice della Strada del 1928 48

La velocità: sotto l’impero delle vecchie Leggi e del Codice del 1928 52

Lineamenti del Codice della Stradadel 1933 e disciplina del segnalamentoacustico degli autoveicoli 56

Segnalamento visivo dei veicoli a trazione animale 61

III - IL CODICE DELLA STRADA DEL 1959

Dagli scontri bellici a quelli dialetticiin commissione: la lunga procedurache portò al Codice del 1959 67

La velocità dei veicoli e il sorpasso 79

Le porzioni di terra, di determinatalunghezza e larghezza… la strada negli anni 50 86

“L’età dell’oro” delle autostrade 91

La responsabilità civile auto 96

IV - IL CODICE DEL 1992

“Humus” alla base dell’evoluzionegiuridica della legislazione stradale negli anni 90 101

La peculiare natura del nuovo testo 103

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Le disposizioni particolari 106

Il nuovo quadro dei poteri in materiadi circolazione stradale 109

Dal 1992 ad oggi: un bisogno costantedi interventi normativi 109

Velocità massima 111

L’automobile del futuro 113

PARTE SECONDAUN SECOLO DI EVOLUZIONE SOCIALE

V - LA MOBILITÀ DALL’UNITÁ D’ITALIA AL 1919

Quadro generale e delle infrastrutture 118

Mezzi e modalità di trasporto 123

Mobilità e società 126

VI - LA MOBILITÀ DAL FASCISMO AL 1945

Quadro generale e delle infrastrutture 140

Mezzi e modalità di trasporto 144

Mobilità e società 147

293

Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE

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VII - LA MOBILITÀ DAL 1945ALLA CRISI PETROLIFERA

Quadro generale e delle infrastrutture 165

Mezzi e modalità di trasporto 182

Mobilità e società 202

VIII - LA MOBILITÀ DAL 1973AI GIORNI NOSTRI

Quadro generale 221

Le infrastrutture per la mobilità 226

Mezzi e modalità di trasporto 236

Mobilità e società 244

La questione ambientale 251

La questione della sicurezza 261

CONCLUSIONI E LINEEDI TENDENZA PER IL FUTURO 273

BIBLIOGRAFIA 284

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Finito di stampare nel mese di novembre 2009 per conto dellaFondazione Filippo Caracciolo - e-mail: fondazione.caracciolo@aci-it

Progetto grafico e impaginazione SumarteStampa Tipografia Iannetta

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… L’idea era quella di raccontare agli italiani la sto-

ria di un Paese attraverso quello che è stato e che

resta uno dei simboli più importanti del’900. Quindi

di ripercorre l’evoluzione dell’automobile, fino ad

arrivare agli anni in cui il settore dell’auto diventa

la più grande impresa industriale del nostro Paese.

Per poi trovarsi, nell’ultimo periodo, nel mezzo di

una crisi globale. […]

Tra le pagine, procedono di pari passo l’evoluzione

del motore a scoppio e quella dell’Italia. Abbiamo

voluto raccontare una storia, per far capire che

c’è voluto un secolo per arrivare all’automobile di

oggi … (dall’“Automobile”- giugno 2009)