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L’opera creativa dell’inconsapevole amore Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 3, Numero 2, marzo 2020 ISSN 2532-7623 (online) – ISSN 2532–7364 (stampa) 101 “L’opera creativa dell’inconsapevole amore”: artisti italiani in Nord America al servizio della Chiesa di Marina LOFFREDO Università Europea di Roma doi.org/10.26337/2532-7623/LOFFREDO Riassunto: La riscoperta delle maestranze italiane che tra fine Ottocento e primi Novecento scelsero la strada dell’emigrazione oltreoceano per lavorare alla costruzione e alla decorazione di edifici ecclesiastici, getta una luce inedita sulla Chiesa dell’epoca, nonché sul dialogo tra Europa e America e sulle problematiche dell’integrazione. Tra i testimoni fondamentali il toscano Guido Nincheri che lasciò tracce della sua opera in oltre cento chiese tra Stati Uniti e Canada e che qui appare per la prima volta nelle vesti di genuino portavoce degli ostacoli sperimentati persino dal linguaggio universale dell’arte. Abstract: The rediscovery of Italian workers who chose the road of overseas emigration between the late nineteenth and early twentieth century to work on the construction and decoration of ecclesiastical buildings, sheds an unprecedented light on the Church of the time, as well as on the dialogue between Europe and America and on integration issues. Among the fundamental witnesses the Tuscan Guido Nincheri who left traces of his work in over one hundred churches between the United States and Canada and who appears here for the first time as a genuine spokesman for the obstacles experienced even by the universal language of art. Keywords: Mass migration, sacred art, identity Introduzione Nell’interpretazione dei fenomeni storici, magari già sedimentati in una certa forma nella memoria collettiva, esistono

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L’opera creativa dell’inconsapevole amore

Viaggiatori. Circolazioni scambi ed esilio, Anno 3, Numero 2, marzo 2020 ISSN 2532-7623 (online) – ISSN 2532–7364 (stampa)

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“L’opera creativa dell’inconsapevole amore”: artisti italiani in Nord America al servizio della Chiesa

di Marina LOFFREDO Università Europea di Roma

doi.org/10.26337/2532-7623/LOFFREDO

Riassunto: La riscoperta delle maestranze italiane che tra fine Ottocento e primi Novecento scelsero la strada dell’emigrazione oltreoceano per lavorare alla costruzione e alla decorazione di edifici ecclesiastici, getta una luce inedita sulla Chiesa dell’epoca, nonché sul dialogo tra Europa e America e sulle problematiche dell’integrazione. Tra i testimoni fondamentali il toscano Guido Nincheri che lasciò tracce della sua opera in oltre cento chiese tra Stati Uniti e Canada e che qui appare per la prima volta nelle vesti di genuino portavoce degli ostacoli sperimentati persino dal linguaggio universale dell’arte. Abstract: The rediscovery of Italian workers who chose the road of overseas emigration between the late nineteenth and early twentieth century to work on the construction and decoration of ecclesiastical buildings, sheds an unprecedented light on the Church of the time, as well as on the dialogue between Europe and America and on integration issues. Among the fundamental witnesses the Tuscan Guido Nincheri who left traces of his work in over one hundred churches between the United States and Canada and who appears here for the first time as a genuine spokesman for the obstacles experienced even by the universal language of art. Keywords: Mass migration, sacred art, identity Introduzione

Nell’interpretazione dei fenomeni storici, magari già sedimentati in una certa forma nella memoria collettiva, esistono

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spesso dei punti di vista privilegiati che finiscono per aprire nuovi ed inediti scenari.

È il caso della migrazione italiana di massa in America che, osservata dalla prospettiva della produzione artistica sacra, ci rivela alla base del lavoro di quelle maestranze non una semplice “necessità di pane”, ma addirittura una ricerca di appropriazione identitaria.

Pur essendo ancora non molto sviluppato lo stato dell’arte sull’argomento, è senz’altro possibile individuare nell’approccio sociologico alla tematica migratoria almeno tre capisaldi utili ai fini della nostra indagine, vale a dire gli studi degli storici Regina Soria, Richard Juliani e Joseph Sciorra.

Se dalla prima – autrice meritevole di aver sollevato finalmente il velo sull’argomento degli artisti italiani emigrati negli Stati Uniti – si coglie la portata del loro operato, per molti versi vero e proprio pollinator dell’arte e dell’identità stessa americane, dagli ultimi due apprendiamo un modello di analisi sociale in cui si attribuisce il giusto peso al vissuto della dimensione religiosa nello sforzo di adjustment to America dei nostri migranti.

L’etnografo Joseph Sciorra, che ha recentemente realizzato un approfondito saggio sulle edicole votive ed altre rappresentazioni folcloristico-devozionali degli italiani in America, ha per l’appunto dimostrato che «un approccio puramente estetico […] fallisce nello spiegare adeguatamente i modi complessi in cui questi oggetti sono immaginati, ricordati, interpretati da una gran quantità di persone che condividono e comprendono i riferimenti artistici, culturali e religiosi che caricano questi siti di significato»1.

1 J. SCIORRA, Built with Faith. Italian American Imagination and Catholic Material Culture in New York City, Knoxville, University of Tennessee Press, 2015, p. XXI. La traduzione è mia.

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Esiste tuttavia nel quadro interpretativo fornito dalla somma dei tre succitati approcci un tassello mancante: la dimensione ecclesiologica.

L’attività di questi artisti non è infatti del tutto comprensibile se si sradica dalla realtà della Chiesa del tempo – il cui ruolo in relazione al fenomeno dell’emigrazione ha un autorevole interprete nello storico Matteo Sanfilippo – oltre che dal contemporaneo dibattito liturgico.

Il presente articolo si pone perciò come un’indagine storiografica tesa alla scoperta di nuove fonti2* e soprattutto di più profonde possibilità di lettura di un’opera creativa che, come tale, anche se non sempre consapevolmente, fu un’opera radicata in un intreccio di carità e speranza.

Considerato l’aspetto psicologico del trauma del migrante approdato nella nuova terra, passeremo dunque ad analizzare la tensione del “già e non ancora” insita nel suo animo in ragione della sua stessa fede, fino a passare in rassegna – attraverso il lascito di alcuni testimoni “d’eccezione” – le problematiche connesse alle espressioni artistiche sacre chiamate a tradurre in forma tangibile un così sofferto anelito. 1 – “Accecati da una tetra notte”, ovvero il trauma dell’approdo in terra straniera

Noi che siamo nati per mezzo dell’amore di Dio dobbiamo morire per mezzo dell’odio di Uomo. Noi che siamo alle prese con l’opera distruttiva dell’ignoranza e l’opera creativa

2 * Riportiamo di seguito le sigle degli archivi i cui fondi sono stato oggetto di consultazione: AAV = Archivio Apostolico Vaticano. AGASCJ = Archivio Generale Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Ringraziamo per la preziosa consulenza e disponibilità il prof. Luca Carboni, archivista presso l’Archivio Apostolico Vaticano.

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dell’inconsapevole amore ci dibattiamo, accecati da una tetra notte, in un’irreale città fatale. […] Cieco l’odio e più cieco l’amore corrono qua e là per la città presi da follia sanguinaria3. Con queste parole l’abruzzese Pascal D’Angelo (1894-

1932), «povero bracciante ma ricco propugnatore di verità», come egli stesso si definiva, immortalò tra il 1919 e il 1920 le impressioni che la sua anima, desiderosa di «erompere dalla crisalide di forzata ignoranza» e volare «verso il fiore della speranza»4, aveva ricevuto nel vortice della città di New York.

E in effetti rischiava di essere davvero tetra la notte per le masse di migranti che approdavano sul suolo statunitense desiderose di riscatto, spesso destinate a fare i conti con una strisciante miseria morale prima ancora che materiale.

Nei primi anni Dieci del Novecento la giornalista e storica italiana Amy Allmand Bernardy (1879-1959), attenta osservatrice del fenomeno migratorio, utilizzò toni molto foschi per raccontare le contraddizioni della società americana, non usando mezzi termini per illustrare come negli slums che costituivano le colonie italiane, accanto alla stanchezza morale, subentrasse «la fatica fisica, l’esaurimento materiale di tutto quel

3 P. D’ANGELO, Son of Italy, Torre dei Nolfi, Edizioni Qualevita, 2003, p. 171; l’edizione originale risale al 1924 per i tipi della casa editrice MacMillan di New York. Pasquale D’Angelo emigrò negli Stati Uniti poco più che bambino insieme al padre nel 1910. Lavorò duramente per anni nei vari cantieri americani come pick and shovel man senza smettere mai di coltivare il sogno della poesia. Ebbe il coraggio perciò di rimanere in terra americana anche quando il padre, deluso e sfibrato da cinque anni di indicibili fatiche, decise di far ritorno in Italia. Negli anni Venti finalmente giunsero per “Pascal” i primi riconoscimenti. 4 Ivi, p. 190.

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lurido, di tutto quel brutto, di tutta quella volgarità ignobile e irredimibile»5.

Una distanza incolmabile sembrava ergersi tra l’anima latina e quella americana, quest’ultima definita «dalla rigidità intollerante puritana e dall’attività incessante meccanica»6.

Eppure gli animi sensibili potevano ancora sperare in una luce, in una «breccia» che non avrebbe fatto «restare nelle tenebre in eterno»7.

A primo acchito si potrebbe pensare che il concetto stesso di libertà, grande vanto dell’America, sarebbe di per sé bastato a tessere progressivamente nuove trame nelle vite di tanti derelitti.

In realtà questo concetto finiva per suonare come vuoto agli orecchi dei nostri migranti, i cui ideali e consuetudini non avevano alcun punto di contatto con la nuova terra di approdo.

L’acuto giornalista e scrittore Giuseppe Prezzolini (1882-1982) mise in risalto il carattere terribile di tale vuoto concettuale e parlò di un’unica possibilità per gli italiani emigrati oltreoceano: il «residuo di due sottrazioni», ossia lo smussamento – piuttosto che la semplice fusione – di due culture, quella americana e quella italiana, assolutamente estranee fra di loro, chiamate perciò a rinunciare entrambe ad una parte di loro stesse per potersi incontrare8.

Solo in questo bacino vitale sarebbe potuta maturare una nozione rivoluzionaria per le classi umili dell’epoca, ossia la fede nel futuro9, un ideale che nel Vecchio Mondo tardo ottocentesco era appannaggio della classe borghese, stordita dalle illusioni della Belle Époque e del positivismo.

5 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1911, p. 97. 6 Ivi, p. 4. 7 P. D’ANGELO, Son of Italy, p. 125. 8 G. PREZZOLINI, I trapiantati, Milano, Longanesi, 1963, pp. 9-10. 9 P. D’ANGELO, Son of Italy, p. 178.

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Non si trattava perciò di subire una «inoculazione d’americanismo all’ingrosso»10, ma di procedere verso un’americanizzazione graduale e non eccessiva.

Non stupisce che questa fosse anche la via auspicata dalla Santa Sede in vista della preservazione della fede del suo gregge in esilio11 e ciò poteva essere possibile perché – come aveva asserito papa Leone XIII nella sua lettera apostolica Testem benevolentiae del 1899 – dalle negatività dell’americanismo, inteso come insieme di vedute moderniste incentrate sull’autodeterminazione del singolo, bisogna distinguere «le qualità caratteristiche che conferiscono onore al popolo americano», la cui indole si rivela «pronta ad ogni nobile impresa e al conseguimento di quanto giova al civile benessere e allo splendore della nazione»12.

Tale affermazione probabilmente non avrebbe convinto la scettica Bernardy che forse avrebbe continuato a vedere dietro lo spirito ardito americano le tenebre di quella che il lessico poetico di Pascal D’Angelo definisce come una “tetra notte”.

Agli occhi della giornalista l’ardimento americano non sarebbe sembrato altro che l’esito pragmatico della spavalderia del dollaro, per cui la giovane nazione «se c’è una cosa al mondo che non ha, la vuol avere, perché crede sempre che basti il denaro per potersela comprare», fingendo di ignorare che mai potrà comprare ciò che più le manca, «la dignità della storia»13.

10 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, p. 37. 11 Per un’ulteriore trattazione rimando ai miei studi: Libertà e identità: la fede e l’arte nelle colonie italoamericane negli anni dell’emigrazione di massa, in «Diacronie. Studi di Storia contemporanea. Spazi, percorsi, memorie», III (2013), n. 15, <http://studistorici.com/ 2013/10/29/loffredo_numero_15/>; La bottega newyorchese di Ilario Panzironi, in «Il covile», XVII (2017), n. 964, <https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_964_Marina_Loffredo.pdf>. 12<http://www.unavox.it/Documenti/Doc0375_Testem_benevolentiae_nostrae.html> (ultima consultazione: 20-11-2019). 13 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, p. 196.

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Tuttavia, per rimanere all’interno della metafora luministica, sarebbe opportuno chiedersi se la fede nel futuro e nella libertà rappresenti nello scenario americano una fiammella avvolta da un’oscura notte in cui si agitano i fantasmi dell’arrivismo dollaresco e delle intransigenze puritane, oppure se questa fede sia piuttosto un faro con una lampada che può essere diversamente alimentata e che finirà dunque per produrre differenti illuminazioni – talvolta persino pericolose – a seconda del combustibile utilizzato, senza dimenticare che per sua natura continuerà a gettare delle ombre al di là del suo raggio di luce.

La prima interpretazione è senz’altro troppo semplicistica per poter rendere conto delle innumerevoli sfaccettature dell’esperienza americana, ma può rappresentare il punto di vista dello straniero al momento traumatico dell’impatto con la società statunitense.

Più corretto dunque appellarsi all’immagine della lanterna del faro che trova il suo combustile nel mito del ritorno alle origini, vero e proprio genius loci del Nuovo Mondo14.

Da qui il bisogno di arte e di raffinatezze, che la Bernardy attribuisce invece, confondendo il movente con l’atteggiamento esteriore, alla già citata spavalderia del dollaro15.

La constatazione per cui «la quantità dei leaders di pensiero che si scambiano tra loro le due nazioni è troppo piccola di fronte alla quantità degli illetterati […] che l’Italia manda in America in terza classe, come di fronte alla quantità degli illetterati […] che l’America manda in Italia magari in cabina di lusso»16 non deve azzerare l’intensità dello scambio che pure ci

14 C. NORBERG-SCHULZ, L’architettura del Nuovo Mondo. Tradizione e sviluppo nell’architettura americana, Roma, Officina Edizioni, 1988, pp. 10-11. 15 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, p. 196. 16 Ivi, p. 140.

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fu, spesso a livello di vissuto pratico, altre volte anche a livello intellettualistico.

D’altronde, la cultura e le tecniche importate dagli emigrati, trasferite da un luogo all’altro, avrebbero difficilmente conservato il loro significato originario, in quanto il contenuto di queste forme sarebbe stato naturalmente relativizzato, finendo per creare nella moderna città americana – luogo per eccellenza dove l’Homo faber può costruire il proprio destino – un insieme di “isole di significati” e “nodi di attività”17.

In tale contesto le isole di significati non possono che ricercare il linguaggio archetipico: ecco che affiorano tra i grattacieli le imitazioni di «quelle dolci cose del Trecento e del primo Quattrocento […] fiori di fede e d’amore, associati fin dal primo principio all’idea della casa, della cappella, dell’aria stessa di una città, di un castello, di un villaggio […] cose nate per un’esistenza dolce, umile e tranquilla»18.

La critica secondo cui tali riproduzioni del passato «perdono ogni pregio e ogni sorriso nel mondo che non è memore né consapevole, che non sa, che non capisce, che non crede»19, esprime in realtà una visione parziale.

Se non si nega l’effetto “posticcio” e la visione nel complesso stridente, si deve d’altra parte riconoscere il senso del linguaggio scelto per costruire tali “isole di significati”, senz’altro più coerente di mal riuscite forme di contaminazione tra antico e moderno, come il caso grottesco delle campane montate sui grattacieli, di cui riportiamo l’incredibile annuncio: «Tutte le campane che risultassero superflue per le cattedrali potranno essere smerciate in America dove vengono collocate nelle torri dei grattacieli. […] Non sarà la dolce melodia dei carillons di Bruges e di Gand […] ma porterà una nota 17 C. NORBERG-SCHULZ, L’architettura del Nuovo Mondo, pp. 10-13. 18 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, pp. 274-275. 19 Ivi, p. 275.

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sentimentale nelle nostre grandi metropoli che sono così spesso tacciate di materialismo»20.

Il discorso sinora svolto vale in misura analoga per la nazione canadese, pur all’interno di significative differenze.

Il Dominion, al contrario degli Stati Uniti, non aveva infatti conosciuto la spinta omologatrice del manifest destiny con cui la nazione statunitense si era cementata andando alla conquista dell’ovest e perciò, non solo non era percepito in termini ideologici, ma la sua unità ed identità erano di continuo minacciate dallo scontro nazionalistico-moraleggiante tra la componente anglofona e quella francofona che temeva di essere assorbita e cancellata dalla prima, nella quale confluiva anche – ma non esclusivamente – l’elemento protestante21.

Di fronte a una simile problematica identitaria, fondamentale fu il ruolo della Chiesa.

Secondo quanto stabilito dalla costituzione apostolica Sapienti Consilio del 1908, il principio da salvaguardare doveva essere quello della territorialità, per cui in un paese a maggioranza anglofona, sarebbe stato il clero rappresentante di quest’ultimo gruppo ad assicurare al meglio l’assimilazione dei nuovi immigrati, fermo restando che nelle zone a maggioranza francofona i pastori avrebbero dovuto essere preferibilmente francocanadesi22.

20 Si cercano campane usate pei grattacieli, in «Il Progresso Italo-Americano», 30 gennaio 1924. 21 M. RUBBOLI, Il Canada. Un federalismo imperfetto (1864-1990), Firenze, Giunti, 1992, pp. 21 e 43. 22 M. SANFILIPPO, L’affermazione del Cattolicesimo nel Nord America. Élite, emigranti e Chiesa cattolica, 1750-1920, Viterbo, Sette Città, 2003, p. 201; L. CODIGNOLA - M. SANFILIPPO, L’histoire québécoise dans les archives du Vatican: prespectives de recherche pour l’avenir, in Premiers états généraux des études québécoises en Italie e Prespective européenne, Bologna, I libri di Emil, 2014, pp. 187-196, in particolare a p. 195.

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Con l’arrivo di altre minoranze venne ad affermarsi conseguentemente il principio delle parrocchie nazionali, principio che – ritenuto comunque transitorio nel processo di assimilazione – era già ampiamente affermato negli Stati Uniti, dove tali parrocchie sfidavano da un lato l’aggressività xenofoba dei movimenti cosiddetti nativisti, dall’altro la patronizing attitude della gerarchia cattolica statunitense, di sua natura piuttosto diffidente nei confronti degli italiani (oltre che in generale degli arrivati con le ultime ondate migratorie, provenienti per lo più dall’Europa sudorientale) che avrebbe voluto trasformare in Irish Americans23.

E ancora una volta il disincantato Prezzolini, descrivendo l’italiano emigrato tipo, ci offre con poche battute una considerazione importante sull’Italian problem, il rischio per gli italiani immigrati – disorientati, assediati dal proselitismo protestante e già divisi tra loro stessi per motivi di orgogli campanilistici – di smarrire ogni traccia della loro identità spirituale e culturale: «La sola forma di vita sociale che lo innalzasse un poco al di sopra di quei limiti quasi da gregge fu la religione cattolica»24. 23 R. N. JULIANI, Priest, Parish and People: Saving the Faith in Philadelphia’s Little Italy, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2006, pp. 171-172, 196. Le parrocchie nazionali, chiamate anche personali o linguistiche, furono autorizzate da Propaganda Fide l’11 aprile 1887. Esse dovevano integrarsi nel tessuto diocesano, ma avevano giurisdizione su una comunità immigrata e non su un quartiere. Cfr. M. SANFILIPPO, Il Vaticano e l’emigrazione, in Sorelle d’oltreoceano. Religiose italiane ed emigrazione negli Stati Uniti: una storia da scoprire, a cura di M. S. Garroni, Roma, Carocci, 2008, pp. 29-47, in particolare a p. 32. 24 G. PREZZOLINI, I trapiantati, p. 14. L’autore aggiunge, di seguito, riguardo alla religione cattolica: «sebbene affidata allora a ministri di non eccessiva cultura ed anche spesso di non profonda ed esemplare vita cristiana». Va tuttavia ricordato che, come sottolinea lo studioso Matteo Sanfilippo, «per ovviare a questa situazione si decide, sempre nel 1887, di affidare a Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, la fondazione di un istituto di

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2 – Il “già” e il “non ancora” Il “già” della salvezza di Cristo nel “non ancora” della

storia che continua è, secondo la dinamica individuata dal teologo protestante Oscar Cullman (1902-1999), una tensione fondamentale del cristiano, il suo modo peculiare di vivere la temporalità, in quanto il dono offerto – la croce seguita dalla resurrezione – pur sancendo che la battaglia decisiva è stata vinta, non è ancora pienamente posseduto25.

Per usare una terminologia psicologica attualmente in voga tale atteggiamento predispone alla “resilienza”, perché è grazie ad esso che negli avvenimenti traumatici, dove si rivela la provvisorietà dell’esperienza, la ricomposizione dell’unità di senso appare come un dono possibile, perché concesso da un Altro, da cui tutto dipende.

Una simile speranza «cerca dei segni (intuizioni simboliche) che autorizzino la sua fiducia nella presenza di una Realtà che tutto determina e può fondare con la sua promessa la possibilità di fare un’esperienza sensata»26.

Ecco dunque un punto fondamentale. Ricapitolando: se parliamo di Italian problem e rapporto tra fede ed identità, non religiosi che assista gli italiani negli Stati Uniti e nel Brasile e al contempo gestisca un collegio per formare i missionari addetti a tale compito. […] Scalabrini ottiene i risultati migliori nei luoghi d’arrivo, grazie all’impegno dei suoi missionari e al fondamentale aiuto delle congregazioni femminili». Si tentava in questo modo di superare quella realtà pericolosa per cui spesso le Americhe diventavano «rifugio per quei sacerdoti che Diomede Falconio, nunzio a Washington, definisce nel 1908 “rifiuti delle diocesi di Italia”». M. SANFILIPPO, Il Vaticano e l’emigrazione, in particolare a pp. 32-33, 36. 25 A. COZZI, La resilienza tra promessa di Dio e fiducia dell’uomo. Il contributo della teologia, in Resilienza: oltre la tragedia e la rassegnazione. Atti del Convegno, Aula Magna, Università cattolica del Sacro Cuore, 20 novembre 2009, a cura di P. Di Sabato - E. Viscardi, Milano, EDUCatt, 2010, pp. 37-54, in particolare a pp. 40-41. 26 Ivi, pp. 43-44. Il corsivo è mio.

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dimentichiamoci che l’impatto con il suolo americano rappresentò un’esperienza traumatica alla quale l’anima del migrante cercò di reagire nella sua naturale tensione tra il “già” e il “non ancora”, magari accogliendo il genius loci della nuova terra, ma rimanendo al tempo stesso estremamente bisognosa di segni.

Quando la Bernardy prospettò un’emancipazione dell’immigrazione italiana per mezzo delle «buone qualità ataviche» principalmente agricole, ricordando accanto a tali virtù «quella ereditaria abilità tecnica che ispirò i padri a intagliare la pietra delle colonne belle»27, di fatto non ragionò in termini di necessità di segni e di integrazione possibile, ma in termini di sopravvivenza rispetto al turbinio vitale del paese d’arrivo, da cui il sospiro: «Ahimè, di fronte al problema terribile della nomade Italia, anche la gioia e la gloria di una suggestione artistica diventa una inquieta questione sociale»28.

In realtà, come abbiamo visto, la faccenda merita di essere analizzata da una prospettiva più ampia che consenta di allargare gli orizzonti di significato implicati.

Se la giovane nazione, tra la fine degli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, conobbe il suo cosiddetto “Rinascimento americano”, caratterizzato da uno sforzo comune di tutte le arti volto ad assicurare il fasto pubblico attraverso l’incorporazione di pittura e scultura nel progetto architettonico in cattedrali, chiese, biblioteche, stazioni, alberghi, teatri e musei29, il terreno doveva essere propizio per le maestranze straniere.

Non a caso in un articolo de “Il progresso Italo-Americano” del 16 dicembre 1923 dedicato alla neonata scuola

27 A. ALLMAND BERNARDY, America vissuta, pp. 300-301. 28 Ivi, p. 302. 29 R. SORIA, Fratelli lontani. Il contributo degli artisti italiani all’identità degli Stati Uniti (1776-1945), Roma, Liguori Editore, 1997, pp. 91-92.

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d’arte Leonardo da Vinci fondata nel Lower East Side di New York da alcuni membri insigni della Italian-American Arts Association, tra cui lo scultore Onorio Ruotolo, si parla con fierezza dell’inizio di un affrancamento per i nostri artisti che per troppi anni erano stati «costretti a prestare opera anonima e meccanica a benefizio di artisti di altre nazionalità sorretti da influenze politiche e finanziarie»30.

Il clima giovò non solo agli artisti immigrati, ma anche a chi – come il grande architetto romano servo di Dio Aristide Leonori (1856-1928) – fu chiamato a lavorare ripetutamente a cavallo tra i due Mondi, a testimonianza di quanto l’istanza di “segni” fosse profonda ed estesa.

A distanza di decenni il nipote Fausto commenterà riguardo allo zio Aristide che costruire chiese fu la sua forma di apostolato, l’esercizio di una carità «che viene dall’amore di Dio e dalla volontà di rendergli onore mettendosi al servizio delle comunità dei fedeli beneficiari del rifugio e del conforto spirituale della Casa di Dio»31.

Nei suoi 37 viaggi al di là dell’Atlantico e un po’ dappertutto nel mondo, di fronte al volto sofferente della miseria morale e materiale dell’Italia costretta ad emigrare, il Leonori cercò di dare il suo contributo sul fronte delle necessità architettoniche al pari di quelle più elementari e immediate, non stentando a fondare negli Stati Uniti e in Egitto centri di assistenza per gli italiani32.

30 La nuova scuola d’arte “Leonardo da Vinci”, in «Il Progresso Italo-Americano», 16 dicembre 1923. 31 F. LEONORI, Arte e santità nella vita del servo di Dio Aristide Leonori, Roma, 1995, p. VI. 32 N. FABBRETTI, Aristide Leonori, Roma, Unione ministri provinciali O.F.M, 1989, p. 65.

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Il primo viaggio in America avvenne nel 1888, su invito dei francescani33.

La permanenza durò quattro mesi, nel corso dei quali l’architetto romano ebbe modo di visitare gran parte del paese e di cogliere il suo genius loci, ma anche la sua ansia di colmare il divario con il Vecchio Mondo. Significativo al riguardo l’incontro avuto con il presidente Cleveland, annotato con toni aneddotici nel diario del Leonori: «Egli [il Presidente] mi ascolta compiaciuto, indi, rivolgendosi a p. Matkin dice che davvero ho fatto una bella gita… Mi domanda quale è la mia impressione circa i monumenti di Washington. Gli dico che sono meravigliosi e che ho avuto l’impressione di stare a Parigi. Egli mi dice che questa è l’impressione di molti»34.

Le commissioni si susseguirono copiose: nel 1898 iniziò la costruzione del complesso del Mount Saint Sepulchre per i francescani di Washington, con la suggestiva chiesa dal caratteristico impianto bizantino e dai frequenti richiami neorinascimentali (si noti la cupola chiaramente ispirata al Pantheon, v. fig. 1) che conserva all’interno i modelli in scala dei santuari della Terrasanta; la cattedrale neogotica di S. Giuseppe a Buffalo (1912-15, demolita), due cappelle nella cattedrale di Saint Louis (1912-14), la decorazione del mausoleo dei Vescovi nel cimitero di Hillside a Chicago (1910-13) e il collegio St. Charles a Baltimora (1911-14), mentre rimasero su carta i progetti per chiese a Nashville (1906), Niagara Falls (1912) e Washington (1917)35.

33 Ivi, p. 21. 34 F. LEONORI, Arte e santità, p. 91. 35 F. DI MARCO, Leonori, Aristide, LXIV, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, pp. 626-628, in particolare a pag. 626. Voce consultabile anche alla seguente pagina web: <http://www.treccani.it/enciclopedia/aristideleonori_%28DizionarioBiografico%29/> (ultima consultazione: 22-12-2019).

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Fig. 1. Interno della chiesa di Mount St. Sepulchre a Washington, USA, progettata da Aristide Leonori nel 1898.

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Lo stile è quello eclettico in voga nell’architettura religiosa europea del diciannovesimo secolo che, coniugando echi rinascimentali e suggestioni paleocristiane secondo un formulario architettonico e decorativo elaborato nei numerosi cantieri di restauro promossi nelle basiliche romane da Pio IX, si apriva – dietro la spinta dei criteri guida definiti nel campo dell’arte cristiana da Pio X – agli stilemi medievali con il conseguente riferimento allo stile romanico e gotico.

La motivazione ideale era quella di enfatizzare il legame con la tradizione cristiana, differenziando, attraverso un linguaggio immediatamente riconoscibile, gli edifici religiosi dalle opere pubbliche moderne36.

Se questo era il trend per gli edifici ecclesiastici europei, a maggior ragione – per le necessità archetipiche in precedenza ricordate – il fenomeno era destinato a presentarsi in Nord America, manifestando una spiritualizzazione che Norberg-Schulz definisce poco adatta all’utilitarismo americano, ma che a nostro avviso doveva esserne l’inevitabile contraltare37.

Gli esiti di tali soluzioni proposte erano però tutt’altro che pacifici e spesso distanti dal gusto raffinato del Leonori. Proprio in quegli anni mons. Celso Costantini (1876-1958), storico dell’arte ed esperto di arte cristiana, denunciò le insidie tanto del novecentismo – termine da lui utilizzato per indicare il

36 M. NUZZO, Lo spazio sacro della Terza Roma: dinamiche di insediamento, aspetti devozionali e caratteri formali degli edifici religiosi dei nuovi quartieri della capitale tra Leone XIII e Pio X (1878-1914), CXVII, in «Mélanges de l'École française de Rome. Italie et Méditerranée. Sanctuaires français et italiens dans le monde contemporain», 2005, pp. 497-518, in particolare a pp. 503-507; <https://www.persee.fr/doc/mefr_1123-9891_2005_num_117_2_10448> (ultima consultazione: 12-12-2019). 37 C. NORBERG-SCHULZ, L’architettura del Nuovo Mondo, pp. 135, 147.

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modernismo in campo artistico38 – quanto di un non autentico tradizionalismo.

I cattolici infatti devono essere tradizionalisti «non nel senso di un pedestre ritorno all’antico per ricopiare e rifare le opere dei maestri del passato: ma nel senso di guardare alla tradizione come a una guida per utilizzare con intelligenza le conquiste fatte dai predecessori e procedere nel cammino dell’arte»39.

Il Costantini stesso aveva notato che a differenza dell’America Latina, dominata dall’esuberanza del barocco spagnolo e portoghese, per l’architettura ecclesiastica dell’America settentrionale bisogna parlare di «un’arte di seconda mano […]. Non sempre la ricchezza nasconde la povertà di concezione; povertà interiore, che nasce per la mancanza di un pensiero originale e per la necessità di prendere a prestito da vecchi monumenti i concetti costruttivi e decorativi»40.

La spiegazione di questa “povertà di concezione” è ben fornita dall’architetto James Murphy (1834-1907), uno degli articolisti della grandiosa opera in cinque volumi Catholic Builders of the Nation, ideata da diversi intellettuali statunitensi di fede cattolica per provare la collaborazione preziosa dei

38 Il termine fu portato in auge da Massimo Bontempelli (1878-1960), intellettuale italiano tra i più influenti e prolifici del XX secolo, noto per la sua esaltazione del “realismo magico” come unico linguaggio possibile per la modernità e l’agognato “uomo nuovo”; in una simile poetica nessuno spazio è concesso al riconoscimento dell’importanza della tradizione, in quanto «la sola legge dello sviluppo è la legge dell’ingratitudine». Cfr. E. BUONANNO, Il Novecento immaginario di Massimo Bontempelli, in «Studi Novecenteschi», XXX, 66 (2003/2), pp. 239-262, in particolare a p. 244. 39 C. COSTANTINI, Arte sacra e Novecentismo, Roma, Libreria F. Ferrari, 1935, p. 17. Corsivo originale. 40 C. COSTANTINI, L’arte cristiana nelle missioni. Manuale d’arte per i missionari, Città del Vaticano, Tip. Poliglotta Vaticana, 1940, pp. 382-383.

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cattolici alla vita pubblica della nazione, il quale afferma: «Gothic architecture has unfortunately served to mislead in many cases and to develop the most insincerity and copying in inferior material of all»41.

Altri architetti tra cui Maurice Lavanoux (1894-1974) – progettista per la celebre ditta d’arte sacra di Boston Maginnis & Walsh – e John Theodore Comes (1873-1922) – operativo a Pittsburgh sia in proprio che in società – avevano evidenziato con sconcerto che centinaia di edifici ecclesiastici americani non erano altro che semplici copie di modelli dell’Europa medievale e rinascimentale o delle varianti coloniali ispanico-britanniche, mentre molta della cosiddetta Catholic Art ivi custodita era stata realizzata «solo per vendere e non per abbellire»42.

Analogamente in Canada Gérard Morisset (1898-1970), eminente storico dell’arte, scriveva nella sua breve panoramica dell’arte religiosa quebecchese dalle origini fino agli anni Trenta: «Nel 1870 Luigi Capello apre in Montreal un laboratorio che rapidamente diviene prospero. Più tardi tocca a Guido Nincheri un abile ma terribile decoratore. Petrucci invade la provincia con le sue statue di stucco, mentre Daprato fa altari di marmo di ogni stile e vetrate simili a quelle del Medioevo. È cattivo gusto italiano che sta prendendo piede nelle nostre chiese»43.

Il giudizio di Morisset pecca tuttavia di tendenza omologatrice, soprattutto nei confronti del toscano Guido 41 F. V. MURPHY, Catholics Influence in American Architecture, IV, Catholics in the Liberal Professions, parte di Catholic Builders of the Nation. A Simposium on the Catholic Contribution to the Civilization of the United States, voll. I-V, a cura di C. E. McGuire, Boston, Continental Press, 1923, pp. 285-304, in particolare a p. 295. 42 J. M. PRICE, Temples for a Modern God. Religious Architecture in Postwar America, New York, Oxford University Press, 2013, pp. 36-37. 43 M. GRONDIN, The Art and Passion of Guido Nincheri, Montreal, Véhicule Press, 2018, p. 99. La traduzione è mia.

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Nincheri (1885-1973) che per la sua vasta e ricca opera decorativa in Canada e New England meritò l’appellativo di “Michelangelo di Montreal”.

La sua figura si rivela non a caso di estremo interesse e attraverso il suo lascito possiamo cogliere scorci inediti di quello che dovette essere l’insieme di esigenze e contraddizioni delle comunità immigrate in Nord America.

Il suo stile, spesso liquidato al di fuori dell’entourage chiesastico come troppo accademico e di bad taste44, rappresentava infatti un’istanza di tradizionalismo e di legame con le bellezze del Vecchio Mondo richiesta tanto dai laici quanto dal clero d’oltreoceano.

Ma il tradizionalismo di questo artista formatosi alla scuola di Adolfo De Carolis presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze ed emigrato nel 1913 al fianco della donna che aveva appena sposato, non fu mai pedestre – come direbbe il Costantini – perché non fu mai pedissequo.

Si alimentò al contrario di una schietta e profonda devozione e del dialogo con gli Antichi Maestri per combattere il «freddo siberiano materiale e morale» del nuovo Paese (tale la percezione del Nincheri ad un anno dal suo arrivo) e concretizzare quello che in fondo fu il motto del primo studio in cui lavorò prima di mettersi in proprio, quello di Henri Perdriau, che recitava “Arte bonum”, ossia lo scopo del bene attraverso l’arte45.

Padre Donat Richard della chiesa di Saint-Viateur-d’Outremont, uno dei suoi primi committenti, amava, come molti sacerdoti canadesi dell’epoca, tutte le cose italiane.

Quel gusto si era sviluppato nel diciannovesimo secolo quando ogni ecclesiastico canadese che viaggiasse in Italia per

44 Ivi, p. 61. 45 Ivi, pp. 47-48.

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scopi vari non mancava mai di ritornare con un’opera, sia un souvenir o una decorazione per una chiesa46.

In questo contesto maturò il linguaggio pittorico del giovane artista che, mentre si specializzava nella produzione di vetrate, cercava la tecnica più efficace per la decorazione parietale e al tempo stesso puntava a definire la propria tavolozza armonizzando i dorati, i blu delicati e i rosa e tratteggiando personaggi luminosi (spesso evocativi di quello stile liberty assorbito dal maestro De Carolis, v. fig. 2) che, per dirla con la studiosa Raymonde Vanasse, «sembrano sul punto di avvicinarsi all’osservatore in un impulso protettivo»47.

Fig. 2. Battistero di St. Viateur in Outremont, Canada, decorato da Guido Nincheri con la tecnica del marouflage nel 1916.

46 Ivi, p. 60. 47 Ibidem. La traduzione è mia.

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Il discorso sulla tecnica non è secondario, comportando spesso e volentieri una necessità di adattamento per l’artista. Educato alla scuola italiana, il Nincheri avrebbe voluto dipingere in affresco ma poté farlo per la prima volta solo nel 1925 nella chiesa di St.-Catherine-d’Alexandrie in Montreal, quando finalmente con l’aiuto dei suoi collaboratori trovò il sistema per addomesticare la tenuta dei materiali al freddo clima canadese.

Più volte aveva dovuto infatti ripiegare sul marouflage (pittura su tela applicata poi a parete), nonché su altre tecniche come l’olio, la tempera e l’encausto48.

Ma come dovette lottare per esprimere quella perfezione tecnica cui ambiva perché a lui connaturata, così – pur rimanendo interprete di un’arte dai toni affettivi e popolari – cercò con forza di fuggire quella pressione del mercato verso la produzione di copie e l’appiattimento dello spessore iconologico49.

Quando riceveva una commissione doveva ovviamente prendere in considerazione molti aspetti – lo stile architettonico della chiesa, la misura delle finestre, il tema delle altre decorazioni, i desideri del committente – e, sebbene gli capitasse di riciclare in alcuni casi i bozzetti delle sue stesse vetrate, avvertiva sempre l’urgenza di apportare delle modifiche.

La sua bottega era d’altra parte una fonte inesauribile di spunti, ricca com’era di repertori sull’iconografia cristiana, la storia della Chiesa, angeli, santi, paesaggi, palazzi, statue, mentre tra i libri spiccava La vita di Cristo di James Tissot (1836-1902), una serie di trecentocinquanta acquerelli dipinta dall’artista francese in Medio Oriente su ispirazione mistica50.

48 Ivi, pp. 61, 74-77. Il marouflage in particolare era molto in voga tra gli artisti italiani in America per la sua rapidità e versatilità. Cfr. al riguardo: R. SORIA, Fratelli lontani, pp. 49, 123. 49 M. LOFFREDO, La bottega di Ilario Panzironi, p. 18. 50 M. GRONDIN, The Art and Passion, pp. 101-104.

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Un inevitabile risvolto di tale genuina ricerca della bellezza si aveva senza dubbio nella qualità dei materiali, difesa a dispetto della volontà di tener bassi i prezzi: basti notare che, nonostante la disponibilità negli Stati Uniti del vetro piombato, l’artista toscano insisteva nell’ordinare le sue forniture dall’Europa, perché di migliore fattura; tale impostazione del lavoro costituirà anni più tardi un punto di scontro con il figlio Gabriele, divenuto manager dello studio.

Per Nincheri infatti il proprio lavoro non era soltanto un mezzo di sopravvivenza, ma – citando di nuovo la Vanasse – «uno strumento creativo che appagava il suo ardente desiderio di trasmettere agli altri la sua passione per l’arte così come il suo modo di concepire e interpretare i misteri della fede cristiana»51.

Emblematico il caso delle eleganti vetrate prodotte per la cattedrale di Trois Rivieres (1925-54; 1968-69), interamente dedicate alla Vergine Maria attraverso la raffigurazione delle litanie lauretane (v. fig. 3).

Fig. 3. Parte delle vetrate raffiguranti le litanie lauretane realizzate da G. Nincheri per la cattedrale di Trois Rivieres, Canada, nel 1925-54.

51 Ivi, p. 98. La traduzione è mia.

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In una lettera del tempo di guerra a mons. Gélinas, procuratore della diocesi, Nincheri chiese scusa per il ritardo nella consegna di una vetrata, spiegando di aver acquistato il materiale dalla Germania, uno stato all’epoca nemico le cui importazioni erano bloccate, ma il cui vetro antico era dotato di sfumature di blu e di arancione-rubino-selenio nettamente superiori a quelle del vetro inglese: il contrasto con le tre finestre sopra l’entrata realizzate dal figlio negli anni Sessanta con fornitura proveniente dagli Usa è evidente52.

«Queste finestre ci fanno amare l’Immacolata ancora di più, ci portano più vicine a Dio», commenterà nel 1954 il vescovo di Trois Rivieres mons. Georges-Léon Pelletier, valorizzando il programma iconografico che l’artista stesso, particolarmente devoto alla Madonna, aveva proposto in un documento scritto di suo pugno riportato nell’accurata monografia di Mélanie Grondin53.

Nell’arte sacra tradizionale la definizione di questi programmi decorativi o costruttivi è chiamata d’altronde a conciliarsi con un ordine più grande, cosmico, divenendo così espressione non dell’autoaffermazione del singolo ideatore ma del Principio divino che agisce nel mondo54.

All’inizio della sua carriera in Canada, Nincheri prestò la sua opera anche come architetto, disegnando due chiese italiane entrambe affidate ai Servi di Maria, quella di S. Antonio da Padova in Ottawa (1917) e quella della Madonna della Difesa a Montreal (1918).

Per la prima, scarsa di mezzi finanziari ma desiderosa di veder risorgere più grande il proprio edificio distrutto da un incendio, egli eseguì il progetto architettonico gratuitamente con

52 Ivi, p. 125. 53 Ivi, p. 128. La traduzione è mia. 54 J. HANI, Il simbolismo del tempio cristiano, Roma, Edizioni Arkeios, 1996, p. 38.

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tanto di volta ispirata a quella fiorentina di San Miniato al Monte, creando un profondo legame – assai importante a livello di riconoscimento identitario – con la comunità di italiani immigrati, molti dei quali contribuirono in qualità di volontari ai lavori di scavo, recandosi al cantiere persino di sera al termine dei loro impieghi personali55.

Ci piace pensare che quando tra il 1929 e la metà degli anni Cinquanta l’artista fu incaricato di decorare con affreschi e vetrate l’interno della medesima chiesa di Ottawa, la sua mente andasse ai disegni progettuali da lui un tempo realizzati per il fabbricato da ingrandire, ai processi costruttivi, all’osservazione del sole cui era ormai avvezzo per la difficile arte di scelta delle giuste tonalità di vetro per le finestre.

E, più o meno consciamente, ricercasse quello straordinario effetto – magnifica traduzione artistica della tensione tra il “già” e il “non ancora” – che ogni 22 febbraio si verifica alle 10:10 antimeridiane nella vetrata con s. Antonio da Padova (fig. 4) collocata nel lato destro della navata, quando il Bambino Gesù che sovrasta il santo francescano viene illuminato da una luce abbagliante che si irradia in tutto l’edificio56.

55 M. GRONDIN, The Art and Passion, pp. 66-67. 56 Ivi, p. 138.

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Fig. 4. Vetrata con s. Antonio da Padova per la chiesa omonima di Ottawa, Canada, realizzata da G. Nincheri nel 1937.

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Se è vero che il tempio dovrebbe essere per vocazione una «“cristallizzazione” del movimento celeste»57 e dunque del connesso calendario liturgico, il fatto che in quella data ricorra la festa della Cattedra di San Pietro diventa più che una semplice coincidenza, caricando l’effetto sopra descritto di ulteriore significato e rendendolo così uno straordinario promemoria visivo della risposta di Pietro alla domanda di Gesù «Ma voi, chi dite che io sia?»: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 13-19). 3 – Arte “à l’italienne”

Il già ricordato Giuseppe Prezzolini, in uno dei suoi testi

sui nostri connazionali in Canada, ebbe modo di riferirsi alla parrocchia italiana della Madonna della Difesa in Montreal descrivendola come «una delle più raffinate ed eleganti chiese costruite dal clero italiano d’America che, troppo spesso, dimentica le nostre gloriose tradizioni artistiche»58.

L’edificio, progettato dal Nincheri nel 1918 e poi da lui decorato in modo intermittente dal 1923 al 1964, fu uno dei suoi più imponenti lavori.

Si trattava di una delle chiese che, come scrisse l’artista a Franco Riccomini nell’intervista da quest’ultimo eseguita per corrispondenza nel 1965 per il giornale “La Nazione”, «era legata alla storia della comunità italiana in America e in un certo modo serviva a dare una cornice per la creazione dei nuclei di emigranti italiani in America all’inizio del secolo»59.

La peculiare dedicazione deriva dall’origine molisana di gran parte della colonia monrealese, affezionata 57 J. HANI, Il simbolismo, p. 151. 58 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 71. La traduzione è mia. 59 Ivi, p. 72. La traduzione è mia.

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devozionalmente all’apparizione mariana avvenuta a La Difesa, frazione di Casacalenda, provincia di Campobasso, nel 1896.

Il Nincheri scelse perciò una chiesa legata ad un’altra manifestazione della Vergine, la basilica di Santa Maria delle Carceri nella sua città natale di Prato, per trarre ispirazione per i suoi piani architettonici60.

Troppo spesso ricordato per le tristi vicende politiche relative alla decorazione dell’abside che andremo a considerare a breve, il tempio della Madonna della Difesa – l’unico al quale il nostro lavorò dall’inizio alla fine – si rivela in realtà il manifesto del suo stile luminoso e gioioso, à l’italienne, forgiato dai colori di Tiziano e dall’immaginazione di Raffaello61.

Il paradosso dell’apparente centralità della questione politica nel programma decorativo della detta chiesa sembra rispecchiarsi in un documento a firma dell’artista di recente portato alla luce che illustreremo nei dettagli: occasionato principalmente dalle suaccennate tensioni di carattere partitico, finirà per parlare di ben altro, ossia delle ragioni alla base delle scelte stilistiche effettuate e delle difficoltà comunicative inerenti al contesto nordamericano62.

L’artista era salito sulle impalcature per affrescare il catino absidale il 5 maggio 1928; qui le sue fatiche si sarebbero protratte per più di cinque anni. Portava con sé, verosimilmente, accanto ai pennelli e alla tavolozza, il bozzetto che aveva preparato un decennio prima, un disegno dall’equilibrio compositivo pacificante e dall’iconografia originale e potente (v. fig. 5): alla Madonna attorniata da angeli (non danzanti ma quasi adoranti) sovrastante il Calvario si contrapponeva una croce rivolta, a mo’ di visione specchiata, verso la Valle di lacrime raffigurata in basso; è ancora una volta quella tensione tra il 60 Ivi, pp. 68-69. 61 Ivi, p. 64. 62 M. LOFFREDO, La bottega di Ilario Panzironi, pp. 15-16.

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“già” e il “non ancora” che qui, a nostro avviso, pare tradurre in elementi figurativi la celebre frase di san Paolo: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1Cor 13, 12).

Fig. 5. Bozzetto originale di G. Nincheri per la decorazione dell’abside della Madonna della Difesa di Montreal, Canada, risalente al 1918.

Nel 1929, mentre il nostro portava avanti la sua opera, dall’altra parte dell’oceano, in Italia, si festeggiava la firma dei Patti Lateranensi e con essa la conclusione dell’annosa Questione romana.

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L’ondata di entusiasmo raggiunse anche le colonie americane, al punto che gli amministratori laici della parrocchia della Madonna della Difesa arrivarono ad imporre di aggiungere nell’abside le figure di Mussolini e papa Pio XI per commemorare lo storico trattato. A nulla valsero le proteste dell’artista che, refrattario a dipingere questioni di Stato in una chiesa, fu costretto a cedere dietro minaccia di rescissione del contratto.

Lo schema compositivo ne risultò in gran parte alterato (v. fig. 6): le pose degli angeli attorno alla Madonna assunsero un piglio più vorticoso e scomparve la visione specchiata della croce, sostituita dalla figura del pontefice in posizione perfettamente centrale; a destra si inserivano il duce e i suoi quadrumviri, dipinti con sguardo assente, e quindi senza alcun intento di enfasi.

Fig. 6. Salve Regina dipinta a fresco da G. Nincheri nell’abside della Madonna della Difesa a Montreal nel 1928-33.

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I giornali canadesi si scandalizzarono dell’affresco solo nel 1940, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia; nel vasto rastrellamento di italiani sospetti promosso dal War Measures Act finì così anche il povero Nincheri che dovette scontare tre mesi di prigionia nel campo di internamento di Petawawa63.

Eppure non molto tempo prima, nel 1934, il giornalista romano Alighiero Castelli aveva pubblicato un articolo su “Il Messaggero” esprimendo quanto fosse differente dall’Italia il Canada e in particolare Montreal, città nella quale ogni azzardo artistico è possibile, degno di lode, e dove nell’abside di una chiesa cattolica non è blasfemia la presenza di Mussolini vicino ad ascetiche figure di santi e martiri64.

Tale era la realtà dei fatti ma anche lo spirito della colonia italiana che evidentemente viveva ancora nell’atmosfera celebrativa del regime seguita ai Patti Lateranensi, lontana dai venti di burrasca che iniziavano a serpeggiare in madrepatria nel rapporto tra Stato e Chiesa.

Non sorprende quindi che in quel 24 settembre 1933 in cui si celebrarono la conclusione dei lavori di decorazione dell’abside, il settecentesimo anniversario di fondazione dei Serviti e il conferimento all’artista toscano da parte della Santa Sede del titolo di cavaliere commendatore dell’ordine di S. Silvestro per meriti nella propagazione della fede, il delegato apostolico mons. Andrea Cassulo avesse effettuato l’investitura del Nincheri descrivendo l’affresco con toni più che esaltanti: «Qui è la Vergine in un trionfo di luce e gloria tra angeli e santi; qui è il pontefice, che benedice dal suo trono; qui più avanti un

63 M. GRONDIN, The Art and Passion, pp. 114-117, 150. La figura di Mussolini fu coperta all’epoca con ampie strisce di carta rimosse solo nel 1947. Cfr. al riguardo: ivi, p. 155. 64 Ivi, p. 113.

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Uomo che, in accordo con lo spirito del Santo Padre, ha restituito Dio all’Italia e l’Italia a Dio»65.

Le sue parole non furono senza seguito e la ricostruzione che ne abbiamo tratto ha, come precedentemente accennato, molto da dire più sul piano artistico-sociale che su quello politico.

Qualche mese più tardi il delegato apostolico fu raggiunto da una comunicazione della Segreteria di Stato in cui si spiegava che al Santo Padre erano «sembrati deviare dalle direttive della Santa Sede gli affreschi dipinti dal Prof. Guido Nincheri nel Santuario di Nostra Signora della Difesa».

Alla prima motivazione, espressa in cifrato, in cui si afferma che «è dispiaciuto specialmente perché sono rappresentati personaggi politici viventi», segue un’ulteriore concisa critica inerente alle figure degli angeli e della Madonna che «non corrispondono affatto agli ideali di quell’arte cristiana che veramente ispira pietà».

L’auspicio era che tale critica potesse servire ad «acuire la vigilanza nei difficili tempi che attraversiamo»66.

Si percepisce dunque un’insoddisfazione rispetto alle scelte iconografiche scaturita, ma non esaurita, dall’argomento politico.

Nella contrita risposta del delegato troviamo una conferma dell’ipotesi relativa al contesto sociale: «Forse l’ambiente in cui si è trovato e si trova, lo spirito della colonia italiana, lo hanno

65 Ibidem e ivi, p. 122. 66 Lettera di mons. A. Ottaviani, sostituto della Segreteria di Stato, ad Andrea Cassulo, delegato apostolico in Canada, 7 febbraio 1934, AAV, Nunziatura Apostolica in Canada (NAC), b. 200, fasc. 15. Per quanto riguarda il cifrato il testo in chiaro è stato ricavato dalla minuta della lettera della Segreteria di Stato protocollo. n. 130106 del 7 febbraio 1934.

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portato a mettere troppo in evidenza alcune figure, ma è un fatto che l’artista è devotissimo alla Chiesa»67.

Tuttavia, se dietro l’espressione “alcune figure” si scorge un neanche tanto velato riferimento alla problematica politica, nella profonda e spontanea lettera che il Nincheri scrisse a mons. Cassulo a distanza di una settimana da una breve conversazione avuta con lui sull’argomento, non troviamo traccia di simili implicazioni.

E la lettera diventa quasi un grido di dolore dell’artista incompreso in terra straniera, costretto a coniugare infiniti tipi di linguaggio a seconda dei diversi committenti, un grido di dolore che è anche un’analisi lucida e disincantata delle difficoltà di integrazione in un paese nel quale – per usare le argomentazioni contenute in un’epistola del Nincheri al maestro De Carolis del 1924 – ogni cosa procede velocemente, mentre l’arte si muove insieme alle costruzioni e alle altre necessità della vita, per cui, sebbene apprezzata, non è pagata con il rispetto che le sarebbe dovuto68.

Il punto nodale è che l’artista straniero in Canada «deve prima di tutto interpretare i gusti diversi di due razze distinte: la francese e l’irlandese, e distruggere quindi quasi tutta la propria personalità»69.

Deve poi tener conto delle tradizioni dei vari ordini religiosi committenti e dell’impianto architettonico dell’edificio

67 Lettera di mons. Andrea Cassulo, delegato apostolico in Canada, a mons. A. Ottaviani, sostituto della Segreteria di Stato, 3 marzo 1934, AAV, NAC, b. 200, fasc. 15. Mons. Cassulo prosegue l’argomentazione dando come prova dell’attaccamento del Nincheri alla Chiesa il fatto che l’anno precedente abbia eseguito il ritratto del Santo Padre e del delegato apostolico ed ora stia eseguendo i ritratti di tutti i delegati che furono titolari della Delegazione del Canada. 68 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 97. 69 Lettera di Guido Nincheri al delegato apostolico in Canada Andrea Cassulo, 4 giugno 1934, AAV, NAC, b. 200, fasc. 15.

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da decorare senza dimenticare che il secondo elemento può a buon motivo prevalere sul primo, anche se al costo di non poche incomprensioni, come accaduto per la chiesa dei domenicani di Notre-Dame-de-Grâce a Montreal dove l’architettura della chiesa indirizzò il suo stile verso il vorticoso approccio del Seicento.

Di fronte a questa scelta il Nincheri percepì il maturare di un’avversione da parte dei committenti, tanto da scrivere con una vena di amarezza: «Più tardi ho intuito come i Domenicani non mi abbiano perdonato per quel lavoro, e come mi sono in opposizione»70, quasi mostrando il presentimento di quello che sarebbe accaduto decenni più tardi.

Il sentimento di ostilità rimase infatti latente fino agli anni Sessanta, quando, complici le spinte moderniste della Quiet Revolution canadese e alcune interpretazioni iconoclaste del Concilio Vaticano II, fu ordinato l’intero sbiancamento delle pareti e della volta cassettonata della detta chiesa71, arrivando a mascherare persino quelle partiture architettoniche baroccheggianti che nel 1925-26 avevano indirizzato le decorazioni del pittore toscano (nelle figg. 7-8 vediamo com’era l’interno prima dell’intervento del Nincheri e come divenne in seguito alle operazioni di modernizzazione e whitewashing; sarebbero da riportare alla luce le immagini delle pareti decorate relative al periodo intermedio per poter completare il confronto).

70 Ibidem. 71 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 181.

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Fig. 7. Interno di Notre-Dame-de-Grace in Montreal in una cartolina del 1907.

Fig. 8. Interno di Notre-Dame-de-Grace in Montreal dopo lo sbiancamento degli anni Sessanta.

D’altronde, a partire dal 1940, fu proprio il domenicano francese Marie Alain Couturier (1897-1954) – ideatore del pericoloso motto «Meglio un genio senza fede che un credente privo di talento» – che iniziò propagare in Usa e Canada le teorie

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del movimento liturgico di Romano Guardini (1885-1968) e Rudolf Schwarz (1897-1961) attraverso una febbrile attività di conferenziere di temi artistici.

Se l’obiettivo teorico del movimento era quello di riportare la pratica liturgica alla dimensione auspicata da papa Pio X nel motu proprio Tra le sollecitudini del 1903 – ove si introduceva il concetto fondamentale di actuosa participatio dei fedeli ai Santi Misteri che tornerà con la bolla Divini Cultus di Pio XI e con l’enciclica Mediator Dei di Pio XII – nell’impostazione del dibattito si finirà per spostare il baricentro della questione sul ruolo immanente dell’assemblea piuttosto che sulla potenza dell’attuarsi trascendente della presenza reale di Dio nel sacramento eucaristico.

Fu così che quando poi giunse la richiesta di una “nobile semplicità” nella decorazione della chiesa da parte del Concilio Vaticano II, i liturgisti americani non riuscirono a pensare a nient’altro che al minimalismo radicale ed astratto dello stile modernista72.

Va precisato comunque che nel periodo in cui fu decorata la detta chiesa domenicana monrealese sarebbe bastata probabilmente a soddisfare gli animi la semplicità del Beato Angelico, stile che il nostro sentì di non poter adattare alle caratteristiche architettoniche dell’edificio: «L’architettura spingeva la mia imaginazione [sic] nel 1600, e quella teoria di

72 C. LOMONTE, Nuove chiese: fuochi fatui nella notte fonda, in «Il covile», febbraio 2015, p. 1, <http://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_835_Lomonte_Nuove_Chiese.pdf> (ultima consultazione: 10-10-2018); C. LOMONTE, Paradossi dell’architettura moderna per il culto, p. 12 <https://www.academia.edu/11256800/Paradossi_dell_architettura_moderna_per_il_culto> (ultima consultazione: 10-10-2018); M. A. CRIPPA, Ripartire da Guardini e Couturier per comprendere l’architettura e l’arte per la liturgia cattolica del XX secolo, in «Communio. Rivista internazionale di teologia e cultura», n. 217 (2008), pp. 57-68, in particolare a p. 63.

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Angeli che circondano la Madonna in trono e la Madonna stessa non potei vederla che con gli occhi di un secentista […]. Un Angelico in quella Chiesa sarebbe stato troppo mite, troppo tenero, fino a essere meschino e fragile»73.

Le angustiate riflessioni del Nincheri proseguono con una laconica constatazione su come lo scontro tipicamente canadese tra componente francofona e anglofona si rispecchi di fatto anche nel diverso modo di vivere la fede: l’interpretazione del sentimento nordico sarebbe quasi fanatico in fatto di religione e il sentire irlandese andrebbe sempre a detrimento di quello francese e latino.

Terminata tale premessa, le considerazioni si spostano finalmente sulla chiesa della Madonna della Difesa.

Nessuna improvvisazione o superficialità avrebbe guidato la mano dell’artista, ma anzi la consapevolezza della tradizione dei Servi di Maria alla cui custodia era stata affidata la parrocchia, congregazione che egli conosceva bene fin dalla sua giovinezza trascorsa a Firenze in qualità di studente dell’Accademia di Belle Arti74: «Ho visto sempre fino dai miei anni di studi, come Andrea del Sarto sia stato il pittore preferito dei Padri Serviti di Maria, e come le illustrazioni dei fatti salienti del loro ordine […] sieno state sempre eseguite in quello stile di piena maturità artistica del 1500»75.

Ciò dimostra che, se è vero che in termini di iconografia il Nincheri stesso preferiva per sua inclinazione le tradizioni del Rinascimento a quelle bizantine o protorinascimentali76, è anche vero che ogni sua scelta artistica nasceva da un’analisi ponderata.

73 Lettera di Guido Nincheri a mons. Andrea Cassulo. 74 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 39. 75 Lettera di Guido Nincheri a mons. Andrea Cassulo. 76 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 79.

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La lettera prosegue infatti con un insieme di riflessioni sul motivo che lo portò ad enfatizzare il movimento nel Salve Regina affrescato nell’abside, «visione transitoria della Vergine che appare all’umanità nella Valle delle lacrime».

Ancora una volta il placido equilibrio del Beato Angelico non sarebbe stato opportuno, mentre il misticismo più animato e volumetrico di Leonardo, Correggio, Andrea del Sarto, Raffaello e perfino del Tiepolo avrebbe reso al meglio lo slancio spirituale insito nella visione rappresentata.

Il Nincheri si sofferma poi sulla presunta modernità del volto di Maria, esito ineludibile se si utilizza come riferimento una modella vivente. È tuttavia ipotizzabile, a nostro avviso, che il motivo della critica da parte del pontefice sia risieduto più nella posa teatrale, quasi mondana, con la quale ella apre il suo manto di misericordia inclinando la testa (ricordiamo che nel bozzetto originario la figura si presentava invece perfettamente simmetrica).

Riguardo agli angeli l’artista ammette di aver scoperto alcune braccia e alcune gambe, nonché di aver dato rilievo alle forme, espediente necessario per suggerire l’idea di movimento e di volo nello spazio.

E in effetti, come nostra osservazione, aggiungiamo che da Michelangelo al settecentesco Tiepolo questa prassi non avrebbe destato alcun clamore, ma di fatto con l’Ottocento l’arte sacra aveva per lo più evitato questo strascico di manierismo nella raffigurazione angelica, ritornando alle vesti lunghe di giottesca memoria e riservando le nudità ai soli puttini così da evitare l’assimilazione di quelle fisicità adulte alle figure mitologiche.

Quando si svolsero i festeggiamenti conclusivi dei lavori dell’abside, la decorazione della chiesa della Madonna della Difesa non era ancora terminata.

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Era infatti ancora da dipingere la cupola. Per quest’ultima l’artista toscano aveva già progettato di realizzare la Trinità tra i nove cori angelici.

Nella lettera al delegato parlerà di “Gloria Patri” da raffigurare nel centro della grande volta, specificando che, non trattandosi di una visione transitoria come il Salve Regina, «l’insieme risulterà più calmo, e per conseguenza anche le forme dei corpi rimarranno più nascoste dalle vesti ferme»77.

Ancora una volta la chiave di lettura sembra essere quella tensione tra il “già” e il “non ancora”, qui superata dal trionfo dell’immobilità eterna espressa in una composizione serena che verrà dipinta ad encausto solo un ventennio più tardi – nel 1959 – esaltando le figure trascendenti nel dorato e azzurro dominanti (v. fig. 9).

Fig. 9. La Trinità e i nove cori angelici dipinti ad encausto da G. Nincheri nella cupola della Madonna della Difesa nel 1959.

Il Nincheri aveva abbracciato l’idealismo dell’arte religiosa ma in alcun modo avrebbe approvato il ritorno a un’arte primitiva, anche perché l’aspirazione di questi maestri fu quella

77 Lettera di Guido Nincheri a mons. Andrea Cassulo.

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di arrivare a possedere le norme della rappresentazione naturalistica e di ispirarsi alla creazione «quale Dio l’ha fatta».

Concorde con la reazione contro i fasti dell’epoca barocca e l’assenza del religioso spesso palese in quelle opere, non avrebbe tuttavia mai voluto voltare pagina agli insegnamenti preziosi della rinascenza, sapendo che le stesse forme innaturali erano distanti dal “realismo temperato” raccomandato dalla Chiesa per la produzione artistica78.

A questo punto l’artista non nasconde più l’amarezza sperimentata per ventuno anni sul suolo canadese e parla apertamente dei gusti contraddittori di questo popolo in generale di poca cultura artistica: «L’isolamento che lo circonda in fatto d’arte, fa sì che quando qualcuno di loro ritorna dall’Italia e da Roma specialmente, grida allo scandalo per le opere viste nelle chiese»79.

Eppure il mercato canadese e statunitense di Nincheri era costituito da preti conservatori e da parrocchie tradizionali che, volendo evitare il modernismo, ancora seguivano la moda del diciannovesimo secolo che privilegiava l’arte italiana80; questo scritto ci fornisce un importante indizio del fatto che si trattava di richieste in alcuni casi superficiali e non comprese dalla componente nordica della popolazione.

La conclusione della lettera si fa struggente: «Sconsiglierò sempre un artista italiano a cercare plauso in terra straniera. E Dio sa quante volte ho sospirato e sospiro di tornare a lavorare nella mia Patria da integro italiano, e fare l’arte nostra, per loro

78 G. LEPORE, Manuale di arte sacra secondo i recenti programmi di S.S. Pio X, Roma, Desclée-Lefebvre e C. Editori, 1907, p. 143. 79 Lettera di Guido Nincheri a mons. Andrea Cassulo. 80 M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 160.

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esuberante, passionale, festosa, e chiassosa, definita “italienne”. “Vous éte…” au “il est trop italien”»81.

In chiusura, accogliendo l’invito del delegato a rendere le composizioni ispirate e religiose «che vuol dire grandi», il Nincheri proclamerà di voler domandare «come sempre l’aiuto Divino per arrivarvi».

Dinanzi alla barriera dell’incomunicabilità si ergono dunque, significativamente, i giganti della fede, della Tradizione e dell’affidamento alla Provvidenza. Conclusione

Nell’articolato percorso svolto nei tre capitoli del presente studio si è delineata una panoramica dalle molteplici sfaccettature, una sorta di viaggio dalle tenebre dello spaesamento del migrante alla luce di un’acquisita consapevolezza identitaria che, più che una conquista definitiva, si rivela essere una tensione centrata nella riappropriazione di immagini portatrici di significato.

È qui che prende forma il tassello mancante cui abbiamo accennato nell’introduzione, quella dimensione ecclesiologica che restituisce al fenomeno la complessità della sua portata.

Non si è trattato quindi semplicemente di estendere la riflessione storico-artistica contemporanea alle mura delle

81 Lettera di Guido Nincheri a mons. Andrea Cassulo. Le difficoltà insite nella rappresentazione sacra in terra straniera portarono il Nincheri ad apprezzare particolarmente il suo impegno nelle decorazioni mitologiche realizzate nel 1925-45 per lo Chateau Dufresne di Montreal, dove poté lasciare libera la sua immaginazione. Come confessò lui stesso in una lettera a Camille Mancini del 1963: «Io ho avuto molti contratti di natura religiosa. In soltanto due luoghi sono stato capace di lasciar correre libere la mia immaginazione e fantasia per attingere all’umana poesia e bellezza. Uno di questi due luoghi di cui sto parlando è lo Chateau Dufresne». Cfr. al riguardo: M. GRONDIN, The Art and Passion, p. 88.

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chiese americane, ma di riconoscere a quelle opere il carattere di “segno dei tempi”.

Riflettendo sull’evoluzione in senso minimalista dell’architettura religiosa negli Usa, lo storico Jay M. Price sentenzia con una punta di nostalgia: «Andati erano i giorni in cui legioni di italiani immigrati potevano replicare i dettagli del Rinascimento su pietra e intonaco»82.

Una simile affermazione ci restituisce il senso di quella che sin dall’inizio abbiamo definito come una grande “opera creativa”, la cui lezione è vagheggiata ancora oggi da chi crede nel potere salvifico dell’arte e nell’esigenza, per la società americana in primis, di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, antidoto al torpore che anche all’epoca dei nostri emigranti assediava le coscienze83.

82 J. M. PRICE, Temples for a Modern God, p. 145. La traduzione e il corsivo sono miei. 83 Papa Pio X nel corso di un’udienza privata svoltasi il 28 febbraio 1914 con Marcellina Viganò, madre generale delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, e la superiora Carolina Lucci, attribuì senza mezzi termini il problema italiano non all’impreparazione dei preti ma all’indolenza dei migranti, che volevano letteralmente avere servita la «pappa in bocca». Cfr. al riguardo: AGASCJ, Fondo Madre Clelia, b. 15C, fasc. III.CM/VIS/AP.7. Sulla necessità per l’America di “recupero del senso dello stupore di fronte alla grazia e del senso della bellezza”, cfr.: M. INTROVIGNE, L’ultimo viaggio di Tocqueville. L’enciclica itinerante di Benedetto XVI sugli Stati Uniti, <http://www.cesnur.org/2008/ mi_tocqueville.htm> (ultima consultazione: 12-12-2018).

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