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MUS IC @ CONSERVATORIO ‘ALFREDO CASELLA’ L’AQUILA. WWW.CONSAQ.IT FRATELLI D’ITALIA L’ITALIA SI DESTI! N.18 BIMESTRALE ANNO V MAGGIO-GIUGNO 2010 Claudio Abbado torna alla Scala dopo 24 anni Mameli di Leoncavallo ritrovato Inno nazionale italiano: riflessioni e curiosità Romanzo Scarlattiano di Roberto Pagano (seconda puntata) Nino Carloni, apostolo della musica a L’Aquila Maderna, ritratto di musicista Vespri della Beata Vergine (1610) di Claudio Monteverdi Omnibus

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MUSIC@

CONSERVATORIO ‘ALFREDO CASELLA’ L’AQUILA. WWW.CONSAQ.IT

FRATELLI D’ITALIAL’ITALIA SI DESTI!

N.18 BIMESTRALE ANNO V MAGGIO-GIUGNO 2010

Claudio Abbado torna alla Scala dopo 24 anni Mameli diLeoncavallo ritrovato Inno nazionale italiano: riflessionie curiosità Romanzo Scarlattiano di Roberto Pagano(seconda puntata) Nino Carloni, apostolo della musicaa L’Aquila Maderna, ritratto di musicista Vespri dellaBeata Vergine (1610) di Claudio Monteverdi Omnibus

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GiorGio NapolitaNo peril teatro e la Musica

La ‘Giornata mondiale del Teatro’ promossa a Vienna nel 1961 dall'Istituto Internazionaledel Teatro, su impulso dell'Unesco, e' volta a incoraggiare gli scambi, stimolare la reciproca

conoscenza e accrescere il fondamentale contributo dell'arte teatrale all'amicizia tra i popoli.Partecipo con piacere alle iniziative programmate per la celebrazione anche in Italia dellaGiornata Mondiale del Teatro con il video 'Il Quirinale per il teatro', che testimonia l'atten-zione da me personalmente e istituzionalmente rivolta al mondo del teatro. Sono convinto chela nostra tradizione teatrale costituisca una componente originale e significativa della storia delteatro in Europa e che essa sia parte integrante di quel patrimonio culturale e artistico che tuttoil mondo apprezza e da cui l'Italia trae prestigio e simpatia.

Il Presidente della Repubblica

L'Orchestra Mozart è solo la più giovane delle splendide creature cui Claudio Abbado hadato vita nel corso degli anni. Poco fa abbiamo unito, nella persona del Maestro Diego Ma-

theuz, la nostra ammirazione per l'Orchestra Mozart a quella per il ‘Sistema orchestrale infan-tile e giovanile venezuelano’, costruito dal Maestro Josè Antonio Abreu. L'onorificenza diCavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana concessa al MaestroAbreu vuole essere anche uno stimolo per noi, per sollecitare con convinzione un più forteimpegno a sostegno dell'educazione e dell'attività musicale in Italia. Ci crediamo e ne abbiamobisogno.

Il Presidente della Repubblica

Signor Presidente,

grazie innanzitutto per la tenacia e convinzione con cui difende i valori della grande tradi-zione culturale italiana, e della musica e teatro in particolare. Fidando sulla sua antica e maisopita passione per il teatro e per la musica, osiamo rivolgerLe una richiesta che, siamo sicuri,vorrà accogliere. Le chiediamo, anzi La supplichiamo di adoperarsi concretamente perché lagrande cultura italiana non venga affamata, come sembra stia accadendo attualmente nel no-stro amatissimo paese che, in futuro, rischia davvero di risultare irriconoscibile agli occhi delmondo. La preghiamo di intervenire presso l’attuale Governo, e presso i Ministeri competentiche, malauguratamente, credono di risolvere i problemi economici, reali e gravi, del Paese, ta-gliando di un centinaio di milioni di Euro il FUS, mentre si sa bene che quei problemi si risol-veranno solo quando in Italia saranno cancellate le caste, i privilegi, il malcostume, le ruberieed anche gli sprechi. Miliardi di Euro pubblici letteralmente buttati via! Glielo dica anche Lei,apertamente - la supplichiamo signor Presidente - al Governo ed ai suoi Ministri. Grazie.

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4 - Aria del Catalogo

la coMpaGNiaDelle opere

Venti opere liriche del Novecento da sal-vare. Riprendendo un’iniziativa del 1956

del settimanale ‘Il Tempo’, Giorgio Venturi, ri-propone in un divertente libretto, il gioco, agliattuali critici musicali in cassa integrazione eai musicologi da esposizione permanente.Sono passati più di cinquant’anni e da FedeleD’Amico, Franco Abbiati, Massimo Mila,Giorgio Vigolo, Roman Vlad, ecc. siamo pas-sati a premi Nobel del si bemolle e altri impia-stri da asporto, invisi ai giornali e ormaicostretti a salire sui tetti per farsi pubblicarequalche recensione. Nelle opere da salvare del1956 si trovano titoli più che desueti, strani,come ‘Bolivar’ di Milhaud, un’opera in gradodi ridurre, se fatta ascoltare per intero, a piùmiti consigli anche i talebani e Gheddafi. In-fatti fu impiegata a Guantanamo, insieme a‘Judith’ di Honegger, per torturare i prigio-nieri. Mentre l’Iran viene costantemente tenutosotto controllo dalla prospettiva di un allesti-mento di ‘Hyperion’ di Maderna a Tel Aviv.Negli anni cinquanta i critici indicavano comecapolavori le opere di Pizzetti e Wolf-Ferrarimentre cominciava, lento, lo sdoganamento diGiacomo Puccini. Ma si preferiva la ‘Turan-dot’ di Busoni a quella del Maestro lucchese.Questi scrittori di ‘fatti’ musicali avevano, suiquotidiani e settimanali, ampi spazi: l’opera ela musica classica interessavano un nutrito

pubblico di attenti lettori. Oggi non più, speciedopo il trionfo della televisione statale e com-merciale per la quale, c’è una sola musica,quella così detta leggera. I Debussy, gli Strausse i Puccini odierni sono Fabrizio De Andrè(tuttavia il migliore), Zucchero Fornaciari, Re-nato Zero, Madonna, Cristicchi, la coppia deldivino amore Battiato e Dalla, per non diredello Scocciante che, tuttavia, rifà l’opera direpertorio con qualche estro, più un diluvio didentiere da discoteca che urlano dai palchi psi-chedelici ogni sorta di menate e rificolone. Co-munque gli attuali critici un po’ di spazio cel’hanno ancora sulle gazzette come un ex poe-tesso in re minore che continua a bacchettare,nell’indifferenza generale, il verismo italiano:‘i Mascagni, Zandonai, Cilea; Leoncavallo, Al-fano, Puccini del quale, escluse due opere, nefaccio volentieri a meno’. Il libriccino curatoda Venturi ed edito da ‘Dischi Fenice’ di Fi-renze, è il migliore saggio musicale uscito inItalia negli ultimi vent’anni. Il lavoro, davveroarcheologico, sul ‘referendum’ musicale del1956, si deve alla pazienza e all’estro di Ja-copo Pellegrini mentre è da citare un gustosoracconto di Gianni Gori: ‘Melody’, dove si ap-prende che nel prossimo futuro, verrà asse-gnata la pensione di mille euro mensili dellaLegge Bacchelli a Vasco Rossi, indigente.

Leporello

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s o M M a r i o

Editoriale

Aria del CatalogoLa Compagnia delle Opere di leporello

CopertinaIl Mameli di Leoncavallo ritrovatodi Domenico carboni

L'Inno Nazionaledi Giorgio Gualerzi

'Fratelli d'Italia' è una caccoladi loredana lipperini

Inni d'Europadi umberto padroni

Vita di Mameliscritta da Leoncavallodi D. c.

Non affamate la culturaa cura della redazione

Abbado torna alla Scaladi stéphane lissnerUn milanese a Milanodi p. a.

'Io non ho paura'Intervista ad Abbadodi umberto padroni

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Bruno Maderna Un ritrattodi Nicola Verzina

Romanzo Scarlattiano (II) di roberto pagano

Nino CarloniL'inventore della musica a L'Aquiladi Walter tortoretocon un ricordo di Gianni letta

Saggi. MonteverdiVespri delle Meravigliedi pietro acquafredda

Eco della stampa:Un paese dove manca la cultura della culturaarticoli di salvatore settis, Vin-cenzo cerami, Gioacchino lanzatomasi, Vittorio emiliani

OMNIBUS

DocumentiCircolare Ministero n.2367 del 20.II.2010

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Music@ N.18 Bimestrale - anno V Maggio-Giugno 2010

Direttore: Pietro Acquafredda.Progetto grafico e impaginazione: Barbara Pre.Versione online: Alessio Gabriele.Stampa: GTE - Gruppo Tipografico Editoriale - L’Aquila.

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6 - Copertina

Alla vigilia del ritorno dell’opera, questo mese in Sicilia

il ‘MaMeli’ Di leoNcaVallo ritroVato

L’autore del ritrovamento della singolare opera di Leoncavallo, creduta dispersa,racconta la storia dell’opera, la prima messinscena genovese con l’autore sul

podio, il lungo oblio ed, infine, il fortunato ritrovamentodi Domenico carboni

Allo scoppio della Prima Guerra mondiale ilGoverno Italiano scelse la neutralità, ma l’opi-

nione pubblica si spaccò in due fra neutralisti e in-terventisti e questi ultimi, a loro volta, si diviserofra quelli che volevano scendere a fianco delleforze ‘centrali’ (Austria e Germania) e i favorevoliagli Alleati (Francia e Inghilterra). Anche fra i mu-

sicisti le posizioni furono contrastanti: Leoncavalloe Toscanini erano convinti interventisti pro Alleati,mentre Mascagni era neutralista. Puccini, sebbenein privato si dichiarasse filogermanico, si rifiutavadi prendere una decisione precisa: ‘La guerra èproprio orribile’, diceva, ‘qualunque risultatoabbia, sia vittoria sia disfatta, le vite umane ne son

Ruggero Leoncavallo. Caricatura di Enrico Caruso

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sacrificate’. Diametralmente opposto al pacifismodi Puccini fu l’attivismo irruente di Leoncavalloche fu tra i primi firmatari di un documento antite-desco redatto dalla Associazione Artistica Interna-zionale, in seguito al bombardamento di Reims chedanneggiò il tetto della celebre cattedrale gotica.Non solo. Il musicista restituì con sdegno all’impe-ratore Guglielmo II tutte le onorificenze da lui rice-vute pagando caro tale gesto poiché le sue operefurono messe al bando da tutti i centocinquantateatri tedeschi. La Germania infatti era stata sem-pre la sede dei suoi mas-simi successi (il suo‘Roland von Berlin’ glifu commissionato pro-prio dal Kaiser che nu-triva per lui una sinceraammirazione) e la per-dita finanziaria fu note-vole, tanto più che ilcompositore attraver-sava un non florido pe-riodo economico.Leoncavallo fu peròparzialmente risarcitodal fatto che l’OpéraComique per la stagione1915 cancellò dal cartel-lone tutte le opere diPuccini, sostituendolecon opere sue e gli fuanche commissionato uninno, ‘France-Italie’. Inoccasione di una replicaparigina di ‘Pagliacci’ ilfocoso maestro fu rice-vuto con tutti gli onoriaddirittura dal presidente Poincaré. Fu in questoclima patriottico, reso poi ancora più acceso dal-l’entrata in guerra dell’Italia, che Leoncavallo an-nunciò che stava componendo un’opera dal titolo‘Mameli o Alba italica’, ’azione storica in due epi-sodi’. La cosa fece clamore, tanto che Tito Ricordisuggerì a Puccini, per recuperare le piazze francesi,di comporre anche lui un’opera patriottica; ma ilmaestro rispose: ‘Non credo che la proposta sia unrimedio, poi arriverei secondo, dopo lui, e ancheperché non son per queste cose. Partorirei una so-lenne porcheria e questo farebbe più male chebene’. Per Leoncavallo il ‘Mameli’ significava un ritornoall’opera. Da diversi anni, infatti, preferiva dedi-carsi alle operette e alle romanze da salotto più perriassestare il suo traballante bilancio che per motivi

artistici. Come per tutte le sue precedenti opere,Leoncavallo era autore anche del libretto (nel suocurriculum vantava di essersi laureato in Lettere aBologna e di essere stato allievo di Carducci). Perl’occasione si fece aiutare dal librettista GualtieroBelvederi. L’opera fu terminata il 17 febbraio 1916 a Viareg-gio. Fu però rifiutata dall’editore Sonzogno chefino ad allora aveva pubblicato tutte le opere di Le-oncavallo, per la ragione che non voleva alienarsi ifavori dei tedeschi. Lo spartito dell’opera fu depo-

sitato manoscritto allaPrefettura di Milano nel1916 con il ‘Copiryght’(sic!) di R. Leoncavallo.Tutti i diritti erano riser-vati a lui, ma anche tuttele spese, per far frontealla quali dovette ven-dere la sua villa di Bris-sago (Svizzera).

Il debuttoLa prima rappresenta-zione ebbe luogo al Tea-tro Carlo Felice diGenova, il 24 aprile1916.Il cast era ilseguente:Goffredo Ma-meli (Carmelo Alabiso,tenore); Carlo Terzaghi,patriota (Emilio Bione,baritono);Delia Terza-ghi, sua figlia (EugeniaBurzio, soprano); Cri-stina Trivulzio contessa

di Belgioioso (Vida Ferluga, mezzosopran); EnricoDandolo (Attilio Pulcini, baritono); Emilio Dan-dolo (Luigi Orsetti); Luciano Manara (Luigi Ca-nepa); Un sergente austriaco (Carlo Rama).Direttore d’orchestra: Ruggero Leoncavallo, coau-diuvato nella preparazione da Gustavo Savorelli.Le recensioni della stampa furono tutte positive.Molto lodata fu la Burzio, reduce da un grande suc-cesso alla Scala, che cantava per la prima volta aGenova. Il trentaduenne tenore catanese CarmeloAlabiso, specialista nel repertorio verista, fu ap-plaudito per la sua vocalità vigorosa ma capace disuggestive morbidezze. Bione colpì per la sua voce‘maschia e possente’. Il successo dell’opera è documentato dalle nume-rose repliche nei teatri di tutta la Penisola nella sta-gione 1916-17, in ordine cronologico: La Spezia

Ruggero Leoncavallo

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(Duca di Genova), Firenze (Politeama Fiorentino),Livorno (Goldoni), Lucca (Del Giglio), Pisa(Verdi), Siena (Dei Rinnovati), Roma (Teatro Mor-gana oggi Brancaccio), Napoli (Bellini), Pistoia(Politeama Mabellini), Viareggio (Politeama), Fog-gia (Dauno). Il precipitare degli eventi bellici inter-ruppe nel 1917 l’attività teatrale. In una letteraindirizzata a Belvederi, Leoncavallo annuncia cheera in procinto di recarsi a Roma dove prendereaccordi per un film basato sul suo ‘Mameli’.

L’operaLa vicenda si snoda in due episodi: il primo, am-bientato a Milano nella casa del patriota CarloTer-zaghi nell’autunno del 1848; il secondo, nelgiugno 1849, a Roma, ambientato in una casa sulGianicolo, dove infuria la battaglia che, con lasconfitta dei volontari garibaldini, concluse labreve esperienza della Repubblica Romana.L’opera è popolata da patrioti del calibro dei Dan-dolo, di Luciano Manara, della principessa di Bel-gioioso con fascia tricolore e fucile in mano, ma sututti svetta la storia d’amore fra Goffredo Mameli eDelia, figlia di Terzaghi, che raggiunge l’amato sulcampo di battaglia. L’opera si conclude con lamorte del poeta, non ancora ventiduenne, ferito incombattimento. Mentre Mameli muore fra le brac-cia di Delia, si ode di lontano l’inno “Fratelli d’Ita-lia” sostenuto da una suggestiva armonizzazione.La prime due quartine dell’inno compaiono altredue volte nel corso dell’opera. L’opera è in stile verista ma in salsa wagneriana.Rispetto alle ultime opere del maestro napoletano,ricche di atteggiamenti esteriori (‘Edipo re’ e ‘Pro-meteo’), è pervasa da un sincero anelito patriotticoe da una buona vena melodica. Spicca una bellis-sima aria di Mameli (‘Tu sempre a me rimani, opoesia’) un tenero duetto d’amore, e una vibranteromanza di Terzaghi (‘Italia, Italia’…). Dopo il 1917 l’opera non fu più rappresentata. Leragioni, a prescindere dal suo valore, sono da indi-viduare nella stasi dell’attività teatrale nel periodobellico, e forse anche per via di quella insistenzasull’inno di Mameli che troppo sapeva di repub-blica e non era gradito ai Savoia. Infatti l’inno “re-pubblicano” durante l’intero periodo sabaudo(compreso quello fascista) non venne mai eseguito.Solo nel secondo dopoguerra, nel governo De Ga-speri, su proposta del ministro della difesa, il fer-vente repubblicano Cipriano Facchinetti, fuadottato, sia pure provvisoriamente, come inno na-zionale. Con la morte di Leoncavallo, nell’agosto del 1919,

i suoi manoscritti vennero messi all’asta. Fra que-sti, l’unico esemplare della partitura del ‘Mameli’.Il manoscritto autografo, più tardi, fu acquistato daun collezionista americano e prese la via degli StatiUniti. Rimase in Italia una copia manoscritta dellospartito per canto e pianoforte depositata alla Pre-fettura di Milano il 25 aprile 1916, come depositoper il diritto d’autore. Nel 1941 l’editore Mignanidi Firenze pubblicò come “Invocazione all’Italia”,l’aria di Terzaghi con gli stessi versi ma con laquartina finale con nuovi versi inneggianti all’Im-pero. Daniele Rubboli nella sua biografia di Leon-cavallo (‘Ridi pagliaccio’, Maria Pacini Fazzi,Lucca, 1985) parla di una registrazione del 1955con alcune pagine dell’opera eseguite al piano-forte, da cui ebbe ‘l’impressione che Leoncavalloabbia piacevolmente creato musica tesa ad inter-pretare il dramma di un idealista innamorato che,sulle barricate, confonde patria e donna, politica edamore’. Il 27 febbraio 1998, in occasione di una manifesta-zione musicale per la celebrazione della ricorrenzadel cinquantennale della Costituzione italiana orga-nizzata dall’Associazione “La Nota azzurra”, acura del M. Nino Bonavolontà (e dell’autore delpresente saggio, ndr.) , furono eseguite paginescelte dal ‘Mameli’ (Rita Lantieri soprano, CesareZamparino tenore, Alessandro Gaetani baritono,Sergio La Stella pianista; coro Philarmonia diRoma dir. Stefano Cucci). Il M. Bonavolontà vo-leva proporre l’opera all’Ente Lirico di Cagliari manon fu possibile reperire la partitura ritenuta di-spersa.La partitura autografa, unica fonte rimasta del-l’opera, dopo lunghe ricerche, è stata ora rintrac-ciata negli Stati Uniti in una collezione privata:attraverso il microfilm è stata realizzata l’edizionecritica ( spartito, partitura e parti d’orchestra, rego-larmente depositati) ed è stata anche ottenuta l’au-torizzazione all’esecuzione.

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Datemi un inno - quale? - e solleveremo - forse! - gli italiani

Fratelli D’italia... l’italia che resta

di Giorgio Gualerzi

Si è ripetutamente discussodell’Inno nazionale ita-

liano, quel ‘Fratelli d’Italia’ diNovaro-Mameli, anche intempi in cui non v’erano peri-coli di secessioni. Ma ora chela secessione potrebbe dav-vero arrivare, sceglieremo treinni per le tre diverse repub-bliche (il campionario possi-bile è ricchissimo) oppureopteremo per un inno unicodai toni meno bellicosi? E, so-prattutto, Bossi ed i suopi de-vono sapere che alla Scala nel1876, venne rappresentataun’opera dal titolo ‘La lega’.Riusciranno gli Italiani, am-messo che ne abbiano vera-mente intenzione, a festeggiare il 150° anniversariodell’Inno nazionale che ricorre nel 1997? Interro-gativo per nulla retorico a giudicare da come sistanno mettendo le cose nel nostro paese. Tanto percominciare c’è una consistente porzione di ‘fra-telli’ che, lungi dal considerarsi tali,vorrebbero in-vece distinguersi in padani, etruschi (!) e in nonmeglio identificati ‘sudisti’; inoltre, a parte loscarso desiderio di cingersi la testa con elmi (anzielmetti), non soltanto non esiste più traccia alcunadel copricapo di Scipio(ne), ma neppure è auspica-bile un sondaggio per sapere quanti dei presunti‘fratelli’ sappiano realmente chi sia questo fatidicoScipio(ne). Il risultato sarebbe sicuramente scon-

fortante circa il generale li-vello di conoscenza dei fattistorici e dei loro protagoni-sti.Bisogna quindi pensare, fra itanti problemi da risolvere,anche a qualche nuovo innoin sostituzione di quello feli-cemente partorito, la nottefra il 23 e il 24 novembre1847, dalla coppia Mameli-Novaro, e successivamenteadottato dalla Prima Repub-blica.Scarterei il cosiddetto ‘Innodi Garibaldi’, scritto nel1858 da Luigi Mercantini epoi musicato da Alessio Oli-vieri. L’incipit :‘Si scopron

le tombe, si levano i morti’, è francamente imba-razzante.Da un lato infatti si tende a tenere le tombe che giàci sono rigorosamente chiuse con i loro più o menoconturbanti segreti, e dall’altro se ne preparano dinuove per accogliere i vari ‘zombies’ della politicaitaliana. Senza dimenticare infine l’imperiosafrase:’Va’ fuora d’Italia, va’ fuora o stranier’, chesuona minacciosa nei confronti degli extracomuni-tari di ogni fede e razza: farebbe certamente pia-cere a quella porzione di cittadini che mettono indiscussione la ‘fratellanza’ italiana, scontentandoperò al tempo stesso tutti gli altri, che sono la mag-gioranza. Pollice verso quindi per lì’accoppiata

Questo articolo di Giorgio Gualerzi, e gli altri due che seguono, firmati da Loredana Lipperini e da Umberto Pa-droni, apparvero nel 1997 sul mensile ‘Applausi’, diretto allora dal direttore di Music@, a commento di una

delle ricorrenti polemiche sull’Inno nazionale italiano. Oggi, alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia,ci è sembrato opportuno riproporli all’attenzione dei lettori e per il loro valore intrinseco e come stimolo di rifles-sione sugli elementi di identità della nostra nazione, i quali non si limitano all’Inno nazionale o al tricolore ma ri-guardano anche altri più profondi, come l’identità culturale ed artistica del nostro paese che oggi sembraseriamente messa in pericolo, come attestano anche altri articoli, pure presenti nelle pagine seguenti di questo nu-mero, ripresi da importanti quotidiani e che recano le prestigiose firme di Salvatore Settis, Vincenzo Cerami e Gio-acchino Lanza Tomasi. ( P.A.)

Goffredo Mameli

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Mercantini-Olivieri, anche perché l’inevitabilespaccatura sarebbe foriera di ulteriori disgrazie,poiché ‘a parlar male di Garibaldi’ in Italia, c’èsempre da rimetterci. Anche la famosa pagina del‘Nabucco’ - il coro forse più popolare nella storiadel melodramma – che anni or sono sembrò l’alter-nativa più valida al ‘fratelli d’Italia’, oggi ha per-duto molto del suo fascino se paragonato alleistanze dei ‘Verdi’. Se è vero infatti che, ‘inquina-mentum docet’, sarà mai possibile individuare‘clivi’ e ‘colli’ dove ‘olezzano libere e molli l’auredolci del suolo natal’? (non, per esempio, nella ValBormida, dominata dai fumi dell’ACNA, e via di-scorrendo). Naturalmente è sempre disponibile ilcoro ‘Viva Italia!’ che apre ‘La battaglia di Le-gnano’, il cui tono marziale ben si adatta a un pos-sibile inno, anche perché contiene un evidenteaccenno all’unità del paese; ha però il difetto diesaltare la ‘Lombarda invitta Lega’ con l’inevita-bile conseguenza di trasformarsi in un preciso mes-saggio partitico. Lo stesso dicasi per un altro coroverdiano, quello dei crociati (e relative donne) ac-campati presso Gerusalemme in attesa di conqui-stare il Santo Sepolcro. Il messaggio ha certamenteun contenuto più sottilmente capzioso poiché fon-dato su valori ambientali che descrivono ’(le) fre-sch’aure volanti sui vaghi ruscelletti dei pratilombardi! (le) fonti eterne! (i) purissimi laghi! (i)vigneti indorati dal sol!’. Insomma siamo alle so-lite: di mezzo ci sono sempre i lombardi, con tuttociò che il riferimento comporta.Ma allora tanto vale affrontare il problema senzainfingimenti, esaminando l’eventualità che la pa-gina giusta figuri nell’opera ‘La Lega’ di un certoGiovanni Josse, rappresentata alla Scala nel 1876:è vero che l’ambientazione storica riguarda laFrancia dei Valois, ma il titolo resta certamente ac-cattivante. Naturalmente non mancano soluzionialtrettanto degne d’interesse dettate da interessispecifici. Se pensiamo a Rocchetta e all’origine ve-neta della Lega si potrebbe optare per la popolaris-sima ‘Biondina in gondoleta’, oppure, in chiavepiemontese, per ‘La monferrina’.Per quanto riguarda l’Etruria, ovvero il Centro Ita-

lia, inizialmente la spunterebbe senza dubbio qual-che stornellata romana del tipo ‘ Quanto sei bellaRoma’ oppure ‘Lasciatece passa’ semo romani’:entrambe però avrebbero il grave torto di spiacereai cittadini della Padania, ostilissmi a tutto ciò chepuò evocare la ‘capitale corrotta’, anticamera della‘nazione infetta’. Sarà forse meglio ripiegare su unneutro e meno coinvolgente stornello toscano.Per il Sud Italia invece nessun problema. Chi ose-rebbe contestare la scelta di ‘O sole mio’? E’ la

canzone napoletana per antonomasia, che LucianoPavarotti, riprendendo Caruso, ha rimesso prepo-tentemente in auge, fino a imporla, soprattutto al-l’estero, quasi come inno nazionale.L’Italia però è anche una cosa seria, molto seria,anzi grave, una volta tanto contraddicendo la cele-bre massima di Flaiano. Basta guardare tutti igiorni la televisione o sfogliare la stampa quoti-diana e periodica: tribunali e processi, delitti e car-ceri, senza soluzione di continuità, con lacriminalità più o meno organizzata che assurge alruolo, non desiderato ma obbligato, di grande pro-tagonista. Ed ecco ancora una volta gl’inni adattiall’occasione, con il solito Verdi sempre pronto atutti gli usi. La scelta è infatti fra un paio di cori adhoc, con speciale riferimento alla mafia. Dice ilprimo, sul ritmo di un valzerino, affidato a sgherrilombardi: ‘Non v’è buio che il baleno non rischiaridel pugnale; piano entriam con pie’ sicuro, ogniporta ed ogni muro; fra le grida, fra i lamenti, im-perterriti, tacenti, d’un sol colpo in paradiso l’almealtrui godiam mandar. Col pugnal di sangue intrisopoi sediamo a banchettar’.Simpatico progetto per un week-end, cui replica unaltro coro, in questo caso composto di ‘masna-dieri’: ‘Le rube, gli stupri, gl’incendi, le morti pernoi son balocchi, son meri diporti... Gli estremianeliti d’uccisi padri, le grida, gli ululi di spose emadri, sono una musica, sono uno spasso pel no-stro ruvido cuoio di sasso’. Può bastare; ma certa-mente non risolve il problema dell’Inno nazionaledella Seconda Repubblica. Perché allora non pun-tare su ‘O sole mio’? Certo è una splendida can-zone, assai orecchiabile, ma non esibisce quarti dinobiltà e neppure impone il ritmo di marcia, requi-siti che in genere caratterizzano gli inni nazionali.Servirebbe anzi a sanzionare ufficialmente e defi-nitivamente la taccia di ‘canzonettari’ che da de-cenni accompagna gli Italiani; ma forse proprio perquesto può fare da opportuno collante dei loroanimi e delle loro sensazioni, contribuendo a scari-carne le tensioni.Tutto risolto dunque con l’abbagliante sole parte-nopeo al posto dei corruschi elmi di Scipio? E’un’ipotesi sicuramente credibile, con un suo inne-gabile fascino, a meno di non ricorrere in extremisalla ‘Marcia trionfale’ degli Egizi vittoriosi sugliEtiopi, normalmente assurta al ruolo di inno nazio-nale dell’Italia ‘pallonara’. Una spinta decisiva adadottare questa soluzione, politicamenteneutra, potrebbe venire se, ipotesi non del tutto az-zardata, l’Italia dovesse vincere gl’imminenti Cam-pionati del mondo di calcio. Una cosa è certa: nonsarà una finale con l’Etiopia. @

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Non sapeva ilmusicista Mi-

chele Novaro, checon quello che nel1847 si chiamava‘Il canto degli Ita-liani’ sarebbe en-trato in perennecompetizione conGiuseppe Verdi.Nelle mani diMazzini, arbitrodel primo con-corso per un innonazionale, era arri-vato infatti ancheun ‘Suona latromba’, che ilmaestro di Bussetoaveva composto suparole dello stessoGoffredo Mameli.,‘poeta della rivolu-zione’, che avevacollaborato conNovaro. ‘Veda unpo’- era scrittonella lettera d’ac-compagnamento -se le può andarbene, altrimenti lobutti pure nel cestino’. Così fu. Negli anni, il‘Canto degli Italiani’ dovette scontrarsi anche conl’Inno di guerra dei cacciatori delle Alpi’ poi ‘Innodi Garibaldi’ e poi con quel ‘Va’ pensiero’ che gliavrebbe dato filo da torcere con ciclica ostinazione.A dispetto delle critiche (con qualche lode illustrecome quella di Carducci, al quale il futuro ‘Fratellid’Italia’, ‘inumidiva gli occhi’ e metteva brividiper tutte le ossa’), la musica di Novaro divenne uf-ficialmente Inno nazionale degli Italiani dopocento anni, nel 1947, quando alla nazione neore-pubblicana si rese necessario sostituire la ‘Marcia

reale’: ma la desi-gnazione fu, pervolere di De Ga-speri, provvisoria.E non per questionidi estetica: ma per-ché il Pontefice PioXII sospettava uneccesso di anticle-ricalismo nel testodi Mameli. Fattosta che l’Inno haresistito a lungo;pur andando incon-tro a critiche e po-lemiche che,periodicamente, nehanno chiestol’abolizione (anchetramite referen-dum) e la sostitu-zione con ‘Va’pensiero’. E’ senzaesitazione al corodel ‘Nabucco’ chesi riferì, nel gen-naio 1981, lo scrit-tore Giorgio Soavi,che in una lettera aIndro Montanelli,sostenne che ‘Fra-

telli d’Italia’, al confronto con la pagina verdiana,era né più né meno che ‘una caccola’. ‘Caro Soavi- rispose l’ex direttore de ‘Il Giornale’ – un a voltatanto hai detto una cosa sensata’. Non così per ilmusicologo Massimo Mila, che rintuzzava le ac-cuse di ‘fiacchezza’ fatte a Novaro-Mameli, ricor-dando che ‘ il coro del Nabucco è il lamento degliEbrei che languiscono in esilio: perciò comeespressione di giubilo e di robustezza stiamo fre-schi’. Se proprio occorre un nuovo inno, aggiungevaMila, bisogna ricorrere ad una composizione origi-

A proposito delle ricorrenti polemiche sul nostro Inno nazionale

Fratelli D’italia è uNa caccola

di loredana lipperini

Michele Novaro

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nale, scritta ‘da un musicista come Petrassi o Do-natoni o anche da Nono’. Una simile commissionevenne fatta a Luciano Berio ed Edoardo Sangui-neti: ‘ma un Inno nazionale deve essere un pezzodi storia - raccontò Berio - un investimento di emo-zioni: non riuscii a scriverlo e non ci penso oggi.So solo che il nostro inno è uno dei più brutti delpianeta terra’.Ma gli Italiani non illustri, i veri ‘Fratelli d’Italia’come la pensavano? A giudicare dai sondaggi effet-tuati nel 1986 da due trasmissioni Rai ( Portobelloe Oggi & Domani) avevano le idee confuse: in unprimo momento il 52% degli interpellati boccia-rono Novaro-Mameli, mentre una settimana dopoil 56% dei telespettatori suggeriva di non togliereloro né lo scettro né l’elmo di Scipio. Anche fra gliaddetti ai lavori le opinioni furono divergenti:Katia Ricciarelli bruciò d’indignazione quando,nell’ambito dello stesos programma, il maestroGianni Mazza osò proporre l’In no in versionesamba e cha-cha-cha. E Michelangelo Zurletti sipronunciò sull’infondatezza della questione:‘l’Inno è un segno iconico sonoro, il parallelo mu-

sicale della bandiera. Come si può applicare una ri-cerca estetica ad un oggetto che ha funzione deno-tativa?’. Per Guido Ceronetti, scrittore diapocalittici umori, si può e si deve. E’ il 1992, e inItalia rimbalza la polemica innescata in Francia dalmusicologo Marcel About e ripresa dall’AbbéPierre, convinti della necessità di cambiare il testodella troppo sanguinaria ‘Marsigliese’. Ma Ceronetti privilegia proprio il fattore estetico:’Ogni volta che sento le note dell’Inno di Mameli,laspeciale nausea che dà il Brutto, l’0alitare delBrutto sulla faccia, mi visita prontamente’. L’alter-nativa? Ancora ‘Va’ pensiero’. Si schierano con luiBerio, Emanuele Severino, Mario Rigoni Stern.Lucio Villari propone l’Inno a Roma’ di Puccini,Giorgio Bocca evoca provocatoriamente la ‘Marciareale’, il pittore Enrico Baj risuscita addirittura‘Giovinezza’. Ma è doveroso ricordare che aitempi della polemica primigenia un opinionista de‘Il Giornale’, Piero Santerno, aveva optato per ‘unbel pezzo sano, ottimista e risoluto come la Sinfo-nia della ‘Gazza ladra’ di Rossini’. E dire che aTangentopoli mancavano allora undici anni. @

Passy de Paris, 12 giugno 1864

Amatissimo mio Filippo,

è il comm. Buttarini, eletto a deputato ( vostro collegio) poco tempo or fa che vi consegnerà la presente;egli è il miglior amico ch’io m’abbia a Parigi, e voglio che voi lo amiate come amate me, e voglio perDio che fraternizziamo con quella effusione del cuore che è ognora calda negli Italiani, e sebbene alcunimiserabili miei concittadini mi abbian fatta reputazione di codino ignorando gl’infelici che nella miaadolescenza artistica musicai con fervore e successo le seguenti parole: Vedi per tutta Italia/ rinasceregli esempi/ d’ardire e di valor!/Quanto valgan gli Italiani/al cimento si vedrà! e poscia nel 1815, venutoil re Murat a Bologna con sante promesse, composi l’Inno dell’Indipendenza, che fu eseguito con la miadirezione al teatro Contavalli. In quest’Inno si trova la parola Indipendenza, che sebbene poco poetica,ma intuonata da me colla mia canora voce di quell’epoca!, e ripetuta dal popolo, cori etc. destò vivo en-tusiasmo. Fu inventata una storiella relativamente a quest’Inno, che mi sdegnò alquanto: un bello spiritobiografo asserì avere io offerto ( con altra poesia) al generale Stefanini austriaco esso Inno per festeg-giare il suo ritorno! Si è voluto dare a questo tratto un colore di plaisanterie, ma sarebbe questa una vi-gliaccheria di cui Rossini è incapace. Io sono dolce di carattere, ma fiero nell’animo; allorquandoritornò l’austriaco generale in Bologna, io ero a Napoli, intento a comporre un’opera pel teatro SanCarlo: vedete come si compila la storia!!! Per distruggere poi l’epiteto dei codino, dirò per finire che hovestito le parole di libertà nel mio Guglielmo Tell a modo di far conoscere quanto sia caldo per la miapatria e pei nobili sentimenti che la investono. VI scrivo tutti questi particolari e vi do sì a lungo la penadi leggermi, perché ho ragione di supporre che non mi avete in gran concetto politicamente parlando; eonde abbiate in mano un’arma per difendermi, ove venissi attaccato, ed infine per darvi un tantin di tra-stullo!!! Piacciavi credere all’affetto che mi fa felice e ambizioso di dichiararmi tutto vostro affezionato.

Gioacchino Rossini

Non si può dire che Gioacchino Rossini fosse contrario al Risorgimento, certo però che non ne fu ze-lante sostenitore ; eppure, tutte le volte che gli fu rinfacciato, protestò. Come in questa lettera, speditada Parigi nel 1864 ed indirizzata al suo amico palermitano Filippo Santocanale, avvocato, patriota edeputato liberale.

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Simbolo dinamico ed espressivo che interpreta edà ala al sentimento patriottico identificato nel-

l’identità nazionale, l’Inno nazionale ha conosciutola propria fioritura moderna nella stagione in cuil’idea di nazione - tanto di moda da Napoleone inpoi - prendeva di volta in volta corpo ed ascen-deva istituzionalmente sull’onda di forti, quantomalriposte speranze popolari: stagione che in Eu-ropa ha coinciso variamente con gran parte del se-colo scorso. Oggi l’inno nazionale lo si ascolta perlo più in occasione di importanti competizionisportive, e lo si associa alle passatoie granata sro-tolate sulle piste d’aeroporto nei programmi dellevisite di stato. Non altro, o quasi. La Francia haeletto a proprio inno, nell’incandescenza della Ri-voluzione, una gagliarda canzone d’armi, ‘La Mar-sigliese’, composta, tra le tante, pure in una nottedell’aprile 1792, febbrile per schioppettate e ispira-zione, da Claude-Joseph Rouget de Lisle, e prestodiffusa fra le torme che marciavano - ‘Aux armes,citoyens!’ - verso i noti radiosi, e un po’ sanguino-lenti, destini. La ‘Marsigliese’ è ancora oggi il piùcelebre inno nazionale, con il ‘ God Save theKing’, l’inno inglese dalle movenze in qualchemodo salmodianti, nato mezzo secolo avanti(1745); esso è quindi l’antesignano degli inni; lasua notorietà deriva anche dal fatto che esso vieneeseguito di frequente, in ogni occasione pubblicacui presenzia un membro della famiglia reale: ipresenti Allora si levano e si volgono verso l’augu-sto intervenuto. E’ forse il caso di ricordare la tra-scrizione pianistica - letteralmente ‘ad usumDelphini’ - realizzata ed eseguita da Vladimir Ho-rowitz quando, a Londra, dedicò uno dei suoi ul-timi concerti al principe Carlo. L’origine di ‘GodSave the King’ risale al patrimonio collettivo ditradizioni popolari e si perde nel tempo; la versionemoderna deve la propria prima diffusione ad operadelle trascrizioni di Th. A. Arne e di Ch. Burney.Di origine illustre per autore è l’attuale inno tede-sco ‘ Einigkeit und Recht und Freiheit’, di FranzJoseph Haydn, che la Repubblica federale di Ger-mania - lo aveva già adottato nel 1922 – ripristinònel 1950. Il testo di A.H.Hoffmann von Fallersle-ben ( ‘Deutschland, Deutschland uber alles’) del1841, oggi è ripreso nella sola terza strofa. La ri-flessiva, austera melodia haydniana - che l’autoretenne sempre in alta considerazione tanto da utiliz-

zarla nel ‘Poco adagio, cantabile con variazioni’del ‘Quartetto per archi op.76 n.3’( 1797) – costituìper ben oltre un secolo l’Inno dell’Impero asbur-gico: il Kaiserlied fu composto da Haydn su sugge-rimento del Conte di Saurau, Primo Cancelliereimperiale, e conobbe un’ampia, meritata celebrità.Oggi, invece, l’inno austriaco adatta un testo diPaula Peradovic a una melodia attribuita a Mozart,‘Land der Berge’, pubblicata postuma, ma che èstata probabilmente composta da un framassonedel grande salisburghese.L’inno portoghese è ‘ A portoguena’, un testo di H.Lopes de Mendoca su musica di Alfredo Keil(1890); mentre, almeno fino al ritorno di Juan Car-los, in Spagna veniva suonato ‘l’Himno de Riego’,un testo di sapore repubblicano di autore ignotoadattato attorno al 1860 ad un motivo di Albeniz daun non meglio identificato Huerta. In Belgio si canta la ‘Brabanconne’, composta nel1830, nel periodo delle sommosse per l’indipen-denza dell’Olanda, da Francois van Champenhoutsu un testo del francese Jeneval. I Fiamminghihanno adottato il medesimo inno belga in una loroversione.Antichissimo è l’inno olandese ‘Wilhelmus vanNassouwe’ , un testo solo attribuito a M. van St.Aldegonde su una melodia di autore ignoto , pre-sente nell’intavolatura per liuto di Adrian ValeriusNeder-Landtsche Gedenck-Clank ( 1626) adottatoufficialmente nel 1932.Il testo dell’inno norvegese - ‘Sì, amiamo questopaese’ – è del poeta nazionale Biornstjerne Bjor-son, tanto stimato da Edvard Grieg, messo in mu-sica da Rikard Nordraak, e adottato nel 1864. L’inno svedese - ‘Grande, libero, rupestre Nord’ -testo di R. Dybeck su melodia tradizionale, non èstato mai ufficialmente adottato.Più antico è l’inno reale danese - ‘Re Cristianostava sull’albero maestro’, 1779 - mentre di pocoposteriore è il testo di H. Harries sulla melodia‘God Save the King’ ufficialmente adottato.L’inno finlandese è ‘Maamme’, testo di J.L.Runen-berg ( 1846), musicato da Fredrik Pacius (1848).La Grecia vanta l’ìinno più lungo:158 strofe com-poste nel 1823 da D. Solomos e musicate nel 1828da Nikolaos Mantzaros. Re Giorgio I elesse ‘ Ti riconosco dalla spada’ a inno nazionale nel 1864. @

Notizie e curiosità sugli inni nazionali di vari paesi

l’europa caNta cosìdi umberto padroni

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Fra il materiale relativo all’opera Mameli diRuggero Leoncavallo vi è un “Riassunto di

varie biografie e studi” sul patriota. Si tratta di 24pagine scritte in un quaderno a righe la cui grafiasembra proprio quella del compositore, conservatonello stesso faldone in cui furono racchiuse lebozze dell’opera e la partitura autografa. Leonca-vallo cita puntigliosamente anche le fonti consul-tate: la monografia su Mameli di Gino Docci (G.M. – Studio storico letterario, Imola 1910), l’arti-colo di A.G. Barrili (G.M. nella vita e nell’arte, inNuova Antologia , 1909), gli Scritti inediti curatida Barrili (Genova, Tipografia sordomuti, 1902) ela commemorazione di G. M. di G. Carducci (Za-nichelli, Bologna).Non solo: vi sono anche appuntirelativi ad altri personaggi da inserire nell’operatutti protagonisti delle “Cinque giornate” di Milanocome Carlo Terzaghi, Enrico ed Emilio Dandolo,

Luciano Manara nonché la Principessa CristinaBelgioioso. Il “riassunto” comprende anche ampiecitazioni delle poesie di Mameli utili evidente-mente per essere inserite eventualmente nell’opera,dove la giovane Delia Terzaghi, invaghitasi delpoeta, legge con commozione i suoi versi inneg-gianti all’amore e alla Patria. Leoncavallo comincia dalla famiglia di origine. Ilpadre di Goffredo, Giorgio Mameli ufficiale di ma-rina (raggiunse il grado di vice ammiraglio), appar-teneva ad una famiglia cagliaritana “nobile manon di larga fortuna”. Sposò Donna Adelaide (dettaAdele) dei Marchesi Zoagli (antichissima stirpe ge-novese che contò nel passato vari consoli delloStato e due Dogi); a lei spettò la cura della casa edell’educazione dei figli. Essa, come varie donne genovesi del tempo, pococorriva alla moda, alle feste e diporti, ma dedita

Vita Di MaMeli scritta Da leoNcaVallo

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per contro alla vita di pensiero, aveva conosciutoin teneri anni Giuseppe Mazzini che (come dice ilDocci) le aveva forse mormorato la prima parolad’amore, quando essa fanciulla non sapeva cosafosse l’amore, quando egli, adolescente, non cono-sceva che cosa fosse il sacrifizio. Poi egli si eravotato ad una idea e la donna ubbidendo all’altruivolontà più che al sentimento proprio era andatain sposa ad un altro. E fra loro era rimasta una mi-stica comunione di anime. Da ciò si intuisce comeAdele fosse intimamente compresa del pensieromazziniano e disponesse l’animo del bimbo all’am-mirazione dell’uomo di cui aveva intuito il genioed al quale sentivasi moralmente avvinta dalla co-munità di ricordi. Da Giorgio e Adele nacquero sei figli: Goffredo(nel 1827 secondo il Barrili; nel 1828 per ilDocci), Giov.Battista e Nicola, e tre femmine: Eu-lalia (morta bambina), Angelina e Luisa spentesi inetà giovanile. Il racconto di Leoncavallo proseguecol curriculum di studi del giovane Goffredo.Goffredo andò giovinetto alla scuola degli Scolopidove era il Rev.do Padre Muraglia che tenera-mente lo amò fra i suoi allievi e fu da lui ricam-biato. Le scuole degli Scolopi, al contrario deiGesuiti, erano informate a principi di libertà editalianità. Dal dotto prete Goffredo imparò a co-noscere Virgilio e Dante nonché Parini, Foscolo eLeopardi mentre in casa non mancavano le operedi Goethe, Schiller, Byron, Lamartine e VictorHugo ancora in voga. Studiò d’autori in scuola,studiò amor patrio in casa. Goffredo compose i suoi primi versi poco più chetredicenne esordendo con ‘L’inno alla poesia’ cherisente dello stile di Felice Romani e del Monti.Nel 1842 scrisse l’Ode a Luigi dei Fieschi nellaquale freme la protesta popolare contro la prepo-tenza aristocratica.Ma fu nell’anno 1845 che più si occupò di poesia.Come gli adolescenti di allora aveva cominciatoad amare la patria comprendendone le miserie e leaspirazioni. Ciò si scorge nei poemi ‘Il giovaneCrociato’ e ‘La battaglia di Marengo’. […]L’amore fu per lui l’esplosione italianamente solle-cita di sentimento e fantasia come in tutti i poetiveri.Quanto alla poesia amorosa:Tutti i suoi versi d’amore sono d’indole platonica edi sentimento profondo. Cantò per varie fanciullegenovesi ma quella che si ebbe i versi più caldi fula bellissima vicina di casa della quale parla nelcarme ‘Un’idea’ , amor di finestra come quelli diLeopardi. Di questa vicina ignora il nome, o al-meno lo nasconde gelosamente perché nello svol-

gersi delle canzoni d’amore per la bionda scono-sciuta si vede che egli era arrivato a conoscerla eda farsi conoscere. Sino a che l’idillio finisce trista-mente quando la bionda adorata va sposa ad unaltro come si legge nella poesia ‘Un angelo’.Tutto il lavoro poetico e letterario di Mameli siconcentrò negli anni 1844-46, dopodiché gli avve-nimenti politici travolsero la sua breve esistenza.Interessanti sono le annotazioni di Leoncavallo suquel periodo storico:Gli animi dei patrioti disillusi dopo i colpi del 21 edel 33, la Carboneria quasi dispersa nell’esilio.Solo la Giovine italia brillava come una stella nelbuio firmamento. Esso è uno di quei bei sogni di li-bertà nati dal carcere nella fortezza di Savona, alcospetto del cielo, del mare e delle Alpi lontane. Èun grande sogno di un solitario deluso e fidente:Giuseppe Mazzini. Il simbolo da lui scelto un ra-moscello di cipresso, la parola d’ordine “Ora esempre”. La malinconica pianta forza un romanti-cismo fiacco che piega gli animi a un’inerte con-templazione d’infecondi ideali. Il trattato di Viennaaveva ridesto l’amore per la perduta libertà. Leo-pardi naufragava nel mare dell’Infinito. Mazzini,Pellico, Maroncelli e Ferretti veleggiano nellostesso mare pregando e combattendo.E su MameliEgli diventa il cantore del romanticismo democra-tico mazziniano. Suo ideale è il “dovere per il do-vere”, il sacrificio per la redenzione della patria esi farà interprete fedele dell’uomo la cui divisa ita-liana era “Unità, Libertà, Indipendenza, la suadottrina la liberta basata sulla repubblica. […]Quel Dio vero che è in mezzo al popolo, che pro-tegge le buone spade , sospinge alla rivendicazionenazionale, benedice le bandiere sventolanti e tutti imorti caduti sull’altare della patria dei quali acco-muna il sangue con quello dei martiri caduti per lafede. Tutto ciò canta il Mameli nelle sue patriotti-che brevi serie di versi a cui si intreccia qualcheserto d’amore e si chiude ben presto nel 49 quandol’ultimo canto ha già segnato l’agonia del poeta ela morte della Repubblica. (Domenico Carboni)

Nell'autunno del 1847, Goffredo Mameli scrisse il testo deIl Canto degli Italiani. Dopo aver scartato l'idea di adat-

tarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre lo inviò al mae-stro Michele Novaro, che scrisse di getto la musica, cosicchél'inno poté debuttare il 10 dicembre, quando sul piazzale delSantuario di Oregina fu presentato ai cittadini genovesi e a varipatrioti italiani in occasione del centenario della cacciata degliaustriaci. Era un momento di grande eccitazione: mancavano pochi mesial celebre 1848, che era già nell'aria: era stata abolita una leggeche vietava assembramenti di più di dieci persone, così ben3000 persone ascoltarono l'inno e l'impararono.

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Non è la prima volta che scriviamo che il Governo di destra, questo Governo, vuol letteralmente far mo-rire di fame la cultura e lo spettacolo in Italia. Vogliamo ripeterlo ancora una volta, dopo aver letto la

circolare ‘applicativa sull’erogazione delle anticipazioni 2010 a favore dello Spettacolo dal vivo’ (datata 22febbraio 2010) del Direttore generale del Ministero, Salvatore Nastasi, nella quale si legge che ‘tali disposi-zioni, restrittive, ovvio! - sono state poste a tutela dell’Amministrazione, soprattutto in un anno, quale il2010, in cui - per generali esigenze correlate al contenimento della spesa pubblica e nel rispetto delle normestabilite in seno all’Unione Europea – la Legge finanziaria ha notevolmente ridotto gli stanziamenti al FUS’.Insomma il Ministero, che evidentemente vuol guadagnarsi la palma di ministero ‘virtuoso’, ritiene di rispet-tare i paletti dell’ Unione Europea, raschiando ancora di più i fondi di cultura e spettacolo (FUS) che que-st’anno dovrebbero attestarsi - sta al loro buon cuore!- poco al di sopra dei 400 milioni di Euro e che già inquesta misura sarebbero causa del disastro economico italiano, figurarsi se venissero aumentati anche solo dipoco. Ora, dunque, l’Italia sarebbe salva grazie ai tagli del FUS. Se poi, a causa della diminuita attività cultu-rale e di spettacolo in tutta Italia, cominciassimo a veder calare le presenze turistiche legate a tale settore,beh, il problema si esaminerà a tempo debito. Naturalmente non conta se i lavoratori dello spettacolo ver-ranno licenziati; per il ministero ed il governo si tratta di lavoratori speciali, non lavoratori come tutti glialtri, lavoratori per hobby, quasi un lusso il lavoro per loro. Naturalmente il governo confonde o assimilaquesti lavoratori a Simona Ventura, Michele Santoro, Fabio Fazio, Milly Carlucci ecc... oppure pensa sol-tanto a Riccardo Muti e Claudio Abbado, a Salvatore Accardo e Maurizio Pollini , a Ennio Morricone e Ni-cola Piovani. Certo, se tutti questi, e qualcuno ancora fra loro che non abbiamo nominato, mettessero i loroguadagni in un fondo comune, con tale fondo si potrebbe sostenere lo spettacolo italiano senza problemi. Ilfatto è che lo spettacolo non sono loro. Non sono soltanto loro. I lavoratori dello spettacolo sono strumentisti,coristi, attori, tecnici, autori, sono alcune centinaia di migliaia di persone che finirebbero sul lastrico, se l’at-tività delle istituzioni nelle quali lavorarono si riducesse all’osso.Dunque non c’è via di uscita, se il Ministero deve attenersi, per la Legge Finanziaria, alle norme dell’UnioneEuropea e se i paperoni dello spettacolo non hanno alcuna intenzione di devolvere tutto quello che guada-gnano in un anno, per tenere in vita lo stesso mondo che da anni li nutre così bene?No, qualcosa da fare per tenere in vita un settore che rappresenta l’Italia agli occhi del mondo, che all’Italiaha conservato quel che di buono c’è ancora nell’immagine della nazione, c’è ancora. Cioè? Perché non si eli-minano le caste di cui pullula la nostra cara Italia? Recenti inchieste giornalistiche ne hanno messe in lucealcune delle più costose per le casse pubbliche, nonostante che abbiano come beneficiari pochissimi cittadini.E se eliminando le caste, non si raggiungesse ancora la cifra sperata per alimentare il FUS? Allora si potreb-bero eliminare le 650.000 circa ‘auto blu’, gli Stati Uniti ne hanno appena 70.000, che costano ogni anno alpaese un miliardo e duecento milioni di Euro, solo per far stare comodi a sedere i potenti. L’ ha richiamato direcente anche la Corte dei Conti. Ancora non ci siamo? Beh, da tempo ci viene detto, con apparente convin-zione, che le Province vanno abolite, innanzitutto per loro stesse, perché in molti campi non sanno che fare,incuneate fra Regioni e Comuni. Che se le si abolissero, in un sol colpo, avremmo risparmiato alcune decinedi miliardi ogni anno; non bastano ancora? Allora dimezziamo il numero dei Parlamentari e della pletora diconsiglieri regionali e comunali che si danno stipendi da paese di bengodi, anche queste oggetto di promesseelettorali da alcune legislature - e con tale riforma risparmieremmo in stipendi ( per loro ed i loro assistenti)pensioni, benefit, personale ( basta entrare nei palazzi del potere con una qualsivoglia mansione, anche la piùumile, per ‘sistemarsi’ per tutta la vita!). Eliminiamo i privilegi di cui godono i presidenti delle due camere,anche dopo che il loro mandato è terminato da un pezzo ( uffici, macchine di servizio, segreteria). E poi cisarebbero anche gli sprechi di denaro pubblico, davvero vergognosi. Quasi ogni giorno la benemerita ‘ Stri-scia la notizia’ - o anche ‘Report’, settimanalmente - ci fa vedere monumenti infiniti di sprechi: strade, tron-coni di autostrade, scuole, ospedali, palestre, laghi artificiali, tribunali, costruiti e mai aperti, che vannolentamente in malora. E si tratta di miliardi su miliardi di Euro. Altro che i 400 milioni di Euro del FUS. Cisono voragini in Italia, nelle quali anche Bertolaso ha paura di metterci il naso. Allora non prendetevela conla cultura e lo spettacolo che già tirano la cinghia da parecchio, e solo a forza di sacrifici, riescono a faronore al nostro paese. Ma, forse, ancora per poco! @

NoN aFFaMate la cultura!

Per salvare l’identità nazionale via caste, sprechi e privilegi

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Claudio Abbado - 17

clauDio aBBaDo torNa Nel suo ex teatro MilaNese

Appena arrivato alla Scala, nel maggio del2005, uno dei primi pensieri è stato ripor-

tare Claudio Abbado nel suo teatro. Ho colti-vato quasi ogni giorno questo progetto. Cisiamo incontrati spesso, senza risultati. A voltemi sono detto: non verrà mai. Ma anch’io sonotestardo. Per me si trattava di riprendere il filodi un rapporto che mi aveva portato attorno aun tavolo con lui e Peter Brook, a Aix-en-Pro-vence, per far nascere un “Don Giovanni” che- credo - ha lasciato il segno nella storia del-l’interpretazione. Nel suo inseguimento della perfezione, Clau-dio Abbado è sempre un artista in fuga, e i casidella vita lo hanno reso più di tutti un maestroraro. Di qui l’attesa spasmodica per questo ri-torno. Nella prefazione del libro che la Scala ha dapoco aggiornato e ripubblicato, ho ricordato letre linee costanti che reggono il pensiero e l’at-tività di Claudio Abbado: la sua “contempora-neità”; la sua vocazione a creare nuoveorchestre con giovani talenti di ogni parted’Europa; il dialogo alla pari con i registi. Miriconosco soprattutto nella terza. Abbado ha sempre scelto i suoi dialoganti diteatro senza badare a rischi, senza mai consi-derarli un’ombra per sé e il suo lavoro. E, unavolta chiamato un regista, sempre grande,spesso grandissimo, ne ha sempre condiviso lescelte nel bene e nel male. Alla Scala, Claudio Abbado ha speso diciottodei suoi anni migliori, ha creato molti spetta-coli storici e ha soprattutto imposto, in anticiposui tempi, l’idea del far musica ‘con’ il Teatro.È l’idea che ha sempre ispirato il mio lavoro eche oggi sto cercando di affermare qui a Mi-lano. La Scala di oggi si riconosce molto nellaScala degli anni di Abbado. Il 4 e il 6 giugno non è un’opera che ce lo ri-porta sul podio, bensì una Sinfonia, la ‘Resur-rezione’, che come tante di Mahler chiede peròforze immense e trattiene un teatro sommerso.E soprattutto, fu dirigendo (a memoria) questaSinfonia che Claudio Abbado debuttò allaScala nel 1965, trentaduenne. Iniziava una stagione che i concerti di giugnotornano a far vivere, come se il tempo nonfosse passato.

Stéphane Lissner per Music@

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Si comincia solitamente dall’inizio una storia.Ovvio. Ma si può anche cominciare dalla fine,

nel raccontare il ritorno di Claudio Abbado allaScala, il prossimo 4 e 6 giugno, dopo 24 anni di as-senza, con la ‘Sinfonia n.2’ di Gustav Mahler, ‘Ri-surrezione’. Intanto è stato cancellato il concertoche Pappano con l’Orchestra e Coro di Santa Ceci-lia avrebbero dovuto tenere a Milano, il 9 maggio,con la medesima Sinfonia ‘Resurrezione’ di Ma-hler. Due ‘resurrezioni’ in poco più d’un mese sonoapparse troppe; forse, meditando che il Padreternonon può far miracoli a comando, uno dopo l’altro.La trasferta ceciliana era stata decisa da un annoalmeno, il programma per lo sbarco di Abbado soloqualche mese fa, dopo aver scartato un’altra sinfo-nia mahleriana ancor più elefantiaca e dispen-diosa. Chi ha preso tale decisione, certamente nonha preso una bella decisione. E questi non è Pap-pano, e forse neanche l’Accademia - anche se Ab-bado, a fine marzo, vi ha diretto tre concerti con lasua Orchestra ‘Mozart’. La decisione, deve averlapresa il vertice scaligero; a voler parlar chiaro, sispiega con l’evitare di far ombra al noto direttoreche ritorna nella sua Milano, alla Scala, dopo tanti

anni; mentre, a voler essere diplomatici, si dice peropportunità e cortesia, sebbene non riusciamo a ca-pire di quale opportunità o cortesia si tratti.

Questa cancellazione (dall’Accademia preci-sano: è stato rinviato al 2011!), comunque la

si voglia considerare, non è una bella storia. Ag-giungiamoci anche la voglia di gigantismo allabase della scelta delle ben nota sinfonia di Mahler,per confermarci nell’idea che questo ritorno noncade sotto una stella propizia, anche a tralasciare ilfatto che volevano piantare una foresta in PiazzaDuomo a Milano - follia! follia! - per interrarvi unaparte, benché minima, dei 90.000 alberi che Ab-bado ha preteso come compenso per il suo ritornoalla Scala ( 90.000 alberi il compenso di Abbado;ma il costo complessivo del suo ritorno qual è? Si-curamente ben al di sopra di una costosa messin-scena!).Proviamo a raccontare ora l’addio di Abbado allaScala, più esattamente la sua uscita dal teatro. Per-chè Abbado lasciò La Scala e perché ora si dà alsuo ritorno una valenza così forte? A ben riflettere,la ragione per cui Abbado lasciò la Scala, dopo di-ciotto anni di regno, è opposta a quella per cui

Claudio Abbado torna a dirigere l’Orchestra della Scala

uN MilaNese a MilaNodi pietro acquafredda

Claudio Abbado con Luigi Nono e Maurizio Pollini

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Claudio Abbado - 19

Muti, dopo vent’anni di permanenza nel massimoteatro lirico, ha preso, di recente (2005), la stessadecisione: allora come ora è stata l’orchestra a met-tersi di traverso. Nel caso di Abbado, perché il di-rettore, allora all’apice del successo internazionale,stava più tempo fuori che a Milano, e l’Orchestradi questa disattenzione si era risentita; nel caso diMuti , per la eccessiva presenza/pressione del di-rettore sull’orchestra scaligera. Muti, a differenza di Abbado, è stato quel che hada intendersi un vero direttore musicale; ha lavo-rato con l’orchestra per mesi, ogni stagione, ed i ri-sultati sono sotto gli occhi di tutti. Abbado laallargato il repertorio scaligero, mosso da una cu-riosità che Muti non ha manifestato in egual mi-sura, anche per una diversa concezione dellaconduzione del massimo teatro lirico; concezioneche non ha mancato spesso di esprimere e purerealizzare, almeno nella dozzina d’anni, in coppiacon Fontana, prima che l’uno e l’altro uscisserosbattendo la porta. Eppure Muti ha fatto più benedi Abbado all’Orchestra. Certo l’epoca abbadianaalla Scala è stata un’ epoca di grandi opportunità,di idee, collaborazioni, aperture superlative. Inutilenegarlo, come è impossibile negare che da Muti edAbbado - fratelli/ coltelli - e dal loro lavoro duratoquarant’anni circa, sono dipesi il prestigio ed ilnome della Scala per quasi mezzo secolo. Abbadoarrivò nel 1968 alla Scala, chiamatovi da Ghirin-ghelli. Sì, da lui. Lavorò bene, benissimo, soprat-tutto sotto la sovrintendenza Grassi - l’età d’orodella Scala - che durò solo cinque anni ( nel ’77,Paolo Grassi divenne presidente della Rai e lasciòla Scala), e proseguì nella sovrintendenza Badini.Ma dall’inizio degli anni Ottanta, Abbado aumentònotevolmente i suoi impegni all’estero, trascurando- se così si può dire - La Scala; e questo l’Orche-stra non glielo perdonò. Anche con Badini, negliultimi anni, i rapporti non erano proprio idilliaci.Badini aveva delegato al giovane Fontana i rap-porti con il direttore, per il settore artistico; Ab-bado voleva da Badini la creazione di una strutturache il sovrintendente non gli diede, forse ancheperché non poteva dargliela (Alla luce di tali fattirisulta inspiegabile come mai, Abbado abbia chia-mato Badini a Bologna a lavorare per la Mozart. Oforse è assai semplice: Badini era bolognese e dun-que introdotto in città; la sua ultima orchestra è fi-nanziata da Roversi Monaco, bolognese, oltre adavere la residenza a Bologna). Abbado chiamò alavorare nella direzione artistica, Cesare Mazzonis( lo ha voluto ora di nuovo al suo fianco, alla mortedi Badini, per l’Orchestra Mozart) ecc... Il cammino di avvicinamento di Abbado alla Scala,

data ormai da parecchi anni. Dapprima solo fitti-zio, perchè Abbado mai e poi mai sarebbe tornatoalla Scala, finchè c’era Muti ( se poi con la sua Or-chestra Mozart andrà ad inaugurare il prossimo Fe-stival di Ravenna, regno incontrastato di CristinaMuti, non vuol dire assolutamente nulla! Pura fin-zione, perché i due sono caratterialmente incompa-tibili e dove c’è uno non c’è l’altro), una volta viaMuti dalla Scala, teoricamente il cammino di avvi-cinamento era avviato. Anche gli inviti, apparente-mente accorati, ma certamente non sinceri,rivoltigli all’indomani della grave malattia (nel2000), perchè tornasse alla Scala, erano dettatiesclusivamente da ragioni di opportunità, per nonavere sulla coscienza il rimorso di non aver fattopace con Abbado neppure in circostanze così dolo-rose, quasi tragiche. Poi arriva Lissner alla Scala; il quale dichiara chenei suoi primi pensieri è lavorare per il ritorno allaScala di Abbado ( Lissner ha dichiarato qualcosa disimile, anche se non del tutto convinto, in relazionea Muti; ma il direttore l’ha prontamente contrad-detto, aggiungendo che a Salisburgo, dove Lis-sner si era recato ad ascoltare il suo ‘Otello’, nonera neppure andato a salutarlo in camerino). Nonche il ritorno di Abbado possa rappresentare lasvolta che Lissner per la Scala sembra attenderedal cielo; mentre, per ora, l’ha messa nelle manituttofare ed indaffaratissime del ‘direttore scali-gero’ Barenboim. Lissner, a detta di acuti osservatori, nella sua pro-grammazione, sembra gabellare l’internazionali-smo della programmazione e dei direttori ospiti,con il ruolo storico di custode della grande tradi-zione che ha da sempre avuto la Scala e che nel-l’epoca Muti ha di fatto svolto; come anche peraltro verso, molto più defilato, ha perseguito anchenell’epoca Abbado, con aperture talvolta eccessivesebbene comprensibili, secondo il suo punto divista. Quel giorno sarà, nonostante tutto, un giornoparticolare; ad applaudire Abbado ed a fargli festa,ci saranno forse alcuni di quegli strumentisti chefurono causa della sua uscita non indolore di unquarto di secolo fa; ma, passata la festa, nulla saràcambiato. Tutto come prima. Qualcosa potrebbe cambiare se Abbado decidessedi tornare alla Scala, con un incarico simile aquello di Barenboim, per qualche anno; ma ciò nonaccadrà per tante ragioni. Anche per quella vocinache circola insistentemente, secondo la quale pros-simo direttore della Scala sarà il giovane ed ine-sperto Gustavo Dudamel, invece dell’ espertissimoed ancor giovane Antonio Pappano che per quelruolo è il candidato ideale. @

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20 - Claudio Abbado

Il Maestro Abbado, hada poco terminato una

prova; qualche minutoprima era ancora sulpodio. Un rapido salutovia alle domande.Se esiste, che dimen-

sione ha il margine di

creatività che lei è di-

sposto ad affidare al-

l'esperienza viva della

prova?

È estremamente difficile stabilire l'entità del mar-gine di invenzione durante il lavoro di prova,anche se non si esclude un minimo di improvvisa-zione. La prova è invece necessaria, indispensabiledirei, per acclarare questioni musicali, tecniche, eper fare in modo che i musicisti si ascoltino traloro, mirando ad una condizione evolutiva.La vera improvvisazione si realizza invece nel mo-mento del concerto: è nel corso del concerto che sideve essere ‘liberi’ per fare musica.D'accordo: un'orchestra fa musica in ogni sua occa-sione di lavoro, ma durante le prove l'attenzione èpiù rivolta alla cura di determinati particolari, alladefinizione di problemi tecnici, più propriamentestrumentali.Lei dirige dal 1958: osservandosi dal di fuori

può precisare i termini o le tappe che oggi ri-

tiene determinanti alla maturazione della sua

personalità artistica?

Intanto ho avuto la for-tuna di potere avvici-nare e collaborare conmusicisti di assoluto ri-lievo, come Rudolf Ser-kin, musicistagrandissimo, con ilquale ho fatto moltis-simi concerti e realiz-zato numerosi dischi:con lui ho imparato

davvero molto. Ma anche da molte altre collabora-zioni ritengo di aver tratto materia per quella co-stante, anche se inavvertibile, evoluzione, che nelsuo processo non è puntualizzabile ma che si puòperaltro definire concretamente. Nel mio lavoroascolto sempre con attenzione, criticamente, performulare idee sempre nuove: penso alla collabora-zione con Maurizio Pollini ad esempio, con AlfredBrendel...Rudolf Serkin doveva essere qui in questi

giorni.

Sì. Purtroppo Rudolf è ammalato e abbiamo riman-dato concerto e disco ad un'altra data, più avanti.Direi che è il musicista che mi ha aiutato in misuramaggiore: da lui ho imparato forse più che da altriproprio grazie alla sua grande libertà di concepireil discorso musicale; il suo fare musica porta in séil senso di coscienza realmente libera. Quando sipensa a Mozart è inevitabile, sembra, pensare aduna costruzione di classica compostezza: ebbene, il

Da Milano a Ferrara. Intervista a Claudio Abbado

io NoN ho pauraQuesta intervista, pubblicata nell’estate del 1989 su Piano Time, racconta del-

l’esperienza viennese, del nuovo regno italiano di Claudio Abbado, e della sfidalanciata dalla storica Ferrara (con ‘Ferrara Musica’ e con la residenza della ‘Mahler

Chamber Orchestra’) dopo la sua uscita dalla Scala.di umberto padroni

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Claudio Abbado 21

suo Mozart è straordinariamente lirico, libero:trovo tutto ciò infinitamente bello...Swarowsky, chi era costui? Si sa invece che lei

fu il suo più illustre allievo.

È stato un grandissimo didatta. Non grande diret-tore, ma un uomo di vasta cultura che sapeva faregiungere a destinazione le cose. Non conoscevasolo la musicae la conosceva bene - ma anche laletteratura, l'arte figurativa, la storia del pensiero:cosa abbastanza normale a Vienna, città di grandecultura. Swarowsky affermava però che occorreevitare di prendere alla lettera tutto ciò che vieneinsegnato. ‘Io insegno per tutti - diceva: per gliidioti e per coloro che vogliono e hanno gli stru-menti per capire’. È necessario però disporre ditanto sale in zucca da potere selezionare ciò che ègiusto ritenere, da ciò che va lasciato. E secondome alcune sue proposte erano da evitare, come l'ec-cessiva tendenza alla formulazione matematica: in-dubbiamente la musica implica una dimensionematematica, ma questa va presto superata. E poiparlava male di tutti (sorride); tranne che di Tosca-nini. Parlava male di tutti: di Furtwaengler, di Wal-ter. Naturalmente io ascoltavo in silenzio: hosempre adorato Furtwaengler, l'ho sempre conside-rato uno dei più grandi musicisti del nostro tempoe avevo le mie ragioni per non essere d'accordo.Fino a un paio di generazioni avanti la sua, i di-

rettori venivano fuori dalle orchestre. Ora non

sembra più così: si impara, e dove, la direzione

d'orchestra?

Come le dicevo, Swarowsky, ad esempio, è statoun grande insegnante, mentre io non so insegnare.Il problema me lo pongo ogniqualvolta un giovane- e capita spesso - viene da me a chiedere indica-zioni in tal senso: il massimo che posso dire è diseguire il maggior numero di prove e di ascoltarecon grande attenzione. Nel mio lavoro con la Euro-pean Community Youth Orchestra o con la GustavMahler Jugendorchester - il principio istitutivo è lostesso - mi capita sovente di sollecitare i giovani,che esercitano con alta professionalità, ad ascoltaree ad ascoltarsi l'un l'altro; questo è molto impor-tante è una disponibilità rara. E insomma un se-greto, un facile segreto, ed è un segreto di cui sipuò verificare la positività anche nella vita: quantisiamo a sapere ascoltare? Pochi. Ricordo Elias Ca-netti che, in un suo libro, confessava: ‘Sono com-mosso fino alle lacrime: finalmente ho incontratoun uomo disposto ad ascoltarmi...’. Anche qui, so-prattutto qui, direi, si ripropone la differenza traudire e ascoltare...In quale direzione si sviluppa il suo repertorio

per quanto attiene alla musica contemporanea ?

Cosa ha attirato, negli ultimi tempi, la sua at-

tenzione?

Per riferirci alla musica contemporanea mi sembraindicativo quanto è stato realizzato a Vienna nelFestival ‘Wien Modern’, inaugurato l'anno scorso eche presenterà, ogni anno, quattro o cinque compo-sitori; il pubblico potrà così prendere contatto conopere significative del nostro tempo, attraverso let-ture certamente attendibili. L'anno scorso furonoinvitati Boulez, Nono, Ligeti, Kurtag e Rihm. Lescelte che faccio conducono sempre a problemi digusto; spesso mi si chiede perché non dirigo Puc-cini: a me Puccini piace, ma trovo più interessantedirigere e proporre, non so, ‘Fierrabras’ di Schu-bert, ‘Wozzeck’ di Berg o ‘Kovancina’ di Musor-gskij, meno conosciute ma di altissimo valoremusicale. Sono scelte, le mie, fortunatamente li-bere, dalle quali non è escluso il mio gusto.Si tratta di una legittima autonomia. Parlando

con direttori di teatri d'opera dell'area tedesca

emerge spesso una particolare attenzione per le

attese, quando non si tratta di esigenze, dei loro

pubblici. Come valuta eventuali segnalazioni dei

viennesi?

È logico che si stabilisca un rapporto tra un organi-smo artistico produttivo come quello che io dirigoe la cittadinanza: diverso da quanto accade in Ita-lia. A Vienna tutta la città partecipa alla nostra atti-vità, alla nostra vita. Vede, l'Italia, per carità, vantauna antichissima civiltà, è un paese molto ricco dicultura però, in fondo, se per un sondaggio siferma la gente per la strada e si chiede come com-binare la Nazionale di calcio, tutti hanno delle pro-poste, sono tutti commissari tecnici; a Vienna,invece, tutti sanno come deve essere composto ilcast del ‘Ring’ e generalmente con vera compe-tenza.Nella composizione di un cast lei mira ad una

omogeneità timbrica delle voci, spesso difficile,

o preferisce puntare sull'efficienza, sulla pre-

stanza dei cantanti?

Talvolta abbiamo realizzato dischi dal vivo e lascelta è necessariamente caduta su cantanti legati acerti caratteri richiesti dalla scena, e magari non sitratta delle voci più belle. Tutto dipende dalle con-dizioni della registrazione: se dal vivo, come il no-stro ‘Wozzeck’, o in studio, dove i criteri possonoessere orientati verso altri valori, come quelli cuilei accennava all'inizio.Il futuro della fruizione musicale sembra identi-

ficarsi progressivamente nella produzione disco-

grafica. Nel suo ruolo di direttore lei non sente

disagio nei confronti delle manipolazioni, tal-

volta manifestamente pesanti, dell'ingegneria

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del suono?

Non direi che il pubblico vada allontanandosi dalconcerto, anche se la diffusione del disco non hamai toccato - prima d'ora - i livelli attuali: c'è sem-pre la possibilità di scegliere, ed io noto che i con-certi sono sempre più affollati, ritengo anche inItalia; ma a Vienna, a Berlino, nei paesi dell'Est -siamo andati a Praga, a Budapest con la Mahler Ju-gendorchester - ho sempre notato un pubblico nu-merosissimo ed entusiasta...Accorso a vedere Claudio Abbado...

No, a sentire musica, per fortuna, e trovo questomolto positivo. Per quanto riguarda la realizza-zione del disco, in tutti i suoi momenti, devo direche io lavoro da molti anni con la struttura dellaDeutsche Grammophon, con uomini che hanno ungrande rispetto per la musica e per la partitura. La-voriamo insieme - si tratta di una vera collabora-zione - al fine di trovare un equilibrio ottimalenella dinamica strumentale, nel prodotto fonico emusicale dell'orchestra: proprio come accade insala. Quando, qualche rara volta, si dia il caso diun'alterazione, di un effetto fine a se stesso, di unarbitrio, io chiedo, che sia corretto e che si ripri-stini attentamente la lezione rispettosa dell'origi-nale.Da oltre dieci anni lei coltiva la magnifica Or-

chestra Giovanile della Comunità Europea;

Zubin Mehta, con cui ho parlato il mese scorso

a Firenze, ne è entusiasta. La chiama: l'Orche-

stra di Claudio, con molto affetto...

E’ nata con me... ora però esiste anche la MahlerJugendorchester formata da giovani austriaci, ceco-slovacchi, ungheresi, della Germania dell’Est chepoco tempo fa sono venuti a Berlino Ovest per laprima volta a lavorare: una cosa che sembrava im-possibile politicamente, e invece ha funzionato(sorride).Questi Giovani si raccolgono attorno ad un

grande direttore d'orchestra, fanne una pre-

ziosa esperienza, si formano, e se ne vanno por-

tando con sé la qualità: merce ormai rara.

Come lavora con questi organici?

Lavoro benissimo e sono anche molto interessato:intanto perché questi giovani hanno con ciò variepossibilità di far musica insieme in uno spirito as-solutamente diverso da quello corrente, non ancoraguastato dai sindacati, dai problemi economici - silavora tutti gratuitamente, senza alcuna retribu-zione: c'è invece il guadagno artistico, che è quellorealmente importante, poiché in assenza di esso illavoro futuro, professionale, sarà sempre stentato,aleatorio - e soprattutto trovo che con loro si puòlavorare molto liberamente senza costrizioni, senza

alcun limite - non solo di tempo: possiamo lavorarecome e quanto vogliamo - con apertissima disponi-bilità; non sono abituati al calcolo meschino e limi-tativo: insomma credono assolutamente in quelloche fanno. E sono bravissimi. Anzitutto sono il ri-sultato di una selezione operata su quattro-cinque-mila audizioni e la scelta stabilisceautomaticamente un livello molto alto; le realizza-zioni, poi, testimoniano la qualità dei complessi,sia nei concerti - tutti di grande successo, coi di-versi direttori - sia nei dischi. ‘Eine Alpensinfonie’di Strauss, ripresa a Bolzano con la direzione diJames Judd, un disco di grande vitalità e tranquilla-mente competitivo, e vorrei aggiungere i ‘Gurre-Lieder’ di Schoenberg, registrati l'anno scorso aBerlino dal vivo: ho sentito il nastro qualchegiorno fa ee devo dire che mi è parso migliore di tutti i dischiattualmente in circolazione.I teatri, luoghi d'arte, sono ambienti in cui si

scatenano - non solo sul palcoscenico - forti pas-

sioni, e sembrano conservarne, in qualche

modo, le vibrazioni; chi ci lavora non può non

avvertire una sensibilità per tutto ciò. Lei rico-

nosce questa caratteristica un po' animistica dei

legni, degli spazi teatrali?

L'atmosfera di un teatro è un dato quasi palpabile,è una componente importantissima; sono stato diciotto anni allaScala, un teatro che ha un carisma particolarissimo e credo di sapere a cosa lei intendealludere. Ma io preferisco legare queste impres-sioni all'organizzazione di un teatro; oggi, aVienna, dove lavoro già da tre anni, c'è - oltreun'orchestra stupenda come quella dei Wiener Phil-harmoniker e un coro magnifico - un'organizza-zione veramente superiore, frutto di una mentalitàorganizzativa, ma non solo, diversa: tant'è vero cheoggi stiamo programmando per il 1993 e, volendo,si possono fissare cose per il 1997: si tratta dieventi francamente inconcepibili in Italia, no? e aVienna si respira l'atmosfera inconfondibile di unagrande tradizione; in questo teatro hanno lavoratostabilmente musicisti come Mahler, Strauss, Fur-twaengler, Boehm, Karajan: sono presenze signifi-cative...Diciotto anni alla Scala, e, a proposito della sua

città, qualche giorno fa, lei è torto a Milano con

la sua orchestra giovanile è stato tributato un

successo al calor bianco: la stampa più autore-

vole ha parlato ‘di un pubblico che non dimen-

tica’. Cosa c'è nel suo futuro?

Nel mio futuro c'è un intenso lavoro a Vienna; oggiè la mia città e la mia casa; abito a Vienna e ci vivo

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Claudio Abbado 21

molto bene.con i Wiener Philharmoniker ho un'in-tesa straordinaria, felice e seguiteremo a lavorareinsieme. A Milano io sono andato: e lei può capirequanto mi piaccia tornarvi, e ci torno spesso... tor-nerò anche a lavorare con i Wiener e con l'Orche-stra giovanile, certamente; ma io sono impegnato aVienna fino al 1997...Un periodo ampio e sarà un lavoro fruttuoso...

Lo spero.E’ di ieri la notizia secondo cui Karajan è di-

missionario a Berlino: sarà iniziato, in relazione

a ciò, un regale gioco degli scacchi.

A me questi giochi non interessano, come non mi è

mai interessato ciò che si suole definire con il ter-mine ‘carriera’. Reputo Karajan un grandissimo ar-tista e mi auguro che egli seguiti a dirigere,comunque, questa orchestra; sicuramente conti-nuerà a dirigere le migliori orchestre del mondo,che sono poi i Wiener e i Berliner: su ciò non hodubbi e il riconoscimento, mi sembra, universale.Quali sono i suoi interessi, o le sue passioni mu-

sicali di questo periodo? Ci sono scoperte, recu-

peri?

Mah, sono sempre in cerca: è ovvio che i miei inte-ressi siano concentrati sulle partiture attualmenteaperte sul leggio: ieri abbiamo iniziato, a Vienna,le prove di ‘Elektra’ di Strauss; si tratta della miaprima opera straussiana e questo lavoro mi entusia-sma. In questa che è tra le sue massime opere,

Strauss mostra una sensibilità particolarissima -siamo nel 1906 - per quei motivi che forse sono an-cora solo nelle intenzioni di musicisti come Mahlere Schoenberg, i quali proponevano a Vienna un di-scorso radicalmente nuovo. Dopo Vienna, dove ri-marrà in repertorio, porteremo ‘Elektra’ aSalisburgo, l'agosto prossimo. Come le dicevo, leopere che scelgo di dirigere evidentemente hannoper me una particolare valenza, indipendentementedalle scuole, dalle aree, o periodi, e mi ci appas-siono: può essere il ‘Simone’ di Verdi, una Sinfoniadi Mozart, o di Mahler, può essere un'opera diBerg, di Beethoven, di Schubert - un autore che

adoro - o di Musorgskij. Cosa sopravviverà - se sopravviveremo - nella

musica del Novecento storico?

Secondo me, ciò che è accaduto a Vienna all'iniziodel secolo ha indicato e indica la via che - per for-tuna e non per caso - è stata seguita, nella sua evo-luzione a tratti rivoluzionaria, da Schoenberg,Berg, Webern, e spinta avanti da Boulez, Nono, Li-geti e da altri nostri autori. Darmstadt è stato unepisodio assolutamente costruttivo su questo trac-ciato, che per me è assolutamente lineare. Ricorda?Quando noi nel dopoguerra ascoltavamo quelli cheallora erano considerati compositori ‘moderni’come Bartók, Hindemith, Prokofiev e la Scuola diVienna, definivamo la loro opera globalmentecome ‘musica moderna’. Oggi, mentre alcuni sono

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diventati dei ‘classici’, si nota in modo molto vivola differenza, ad esempio, tra Hindemith e Schoen-berg. Hindemith vanta un proprio valore, ma il di-scorso che egli ha animato si chiude con la suaopera, mentre la linea feconda di futuro ha seguitola strada che sappiamo.Maestro Abbado, è più difficile - in prova o du-

rante un'esecuzione - un attacco convincente o

una cadenza realmente conclusiva?

Mah, vede, in generale io tendo a superare questiproblemi - senza peraltro considerarmi al di sopra -in relazione alla situazione nella quale opero: se la-voro con un solista, se c’è una presenza in palco-scenico, io partecipo ai loro problemi e mi mettonei loro panni; collaborando positivamente, aiu-tando - in altre parole - il musicista che lavora conme, io mi metto più efficacemente al servizio dellamusica, che è il fine ultimo. In questo processo èfatale dimenticare, superare, i propri problemi. Chemalgrado tutto permangono; ma, in fondo, per mela tecnica ha un'importanza minima: fondamentale,invece, è la realizzazione organica del discorsomusicale, da cui emergono le ragioni della musica,e se l'orchestra è legata, convinta, e tutti respiranoinsieme, problemi come quelli cui lei accennavatrovano automaticamente una loro soluzione otti-male.Cosa la rattrista maggiormente nella vita, o nel-

l'arte?

Io tendo a non riconoscere limitazioni di sorta,quindi molto raramente mi imbatto in situazioniche possano creare noie. Provo pena invece per co-loro che producono occasioni negative, o che fannomale. Nella vita sono sempre alla ricerca di puntidi approdo costruttivi e lavoro perché la validitàpotenziale di una situazione si concretizzi positiva-mente. Detesto quindi chi considera pessimistica-mente un'opportunità, fino a negarne la possibilitàdi realizzazione. Non conosco l'espressione ‘questonon si può fare’, anche se mi rendo conto delle dif-ficoltà che l'uomo incontra nella vita quotidiana:solo un imbecille è sempre positivamente e sorri-dentemente ottimista; ma molti limiti, mi creda, seli fissa, e talvolta se li impone, egli stessoUn episodio importante nella sua carriera?

Come le dicevo prima non ho mai pensato alla car-riera e direi anzi che, per fortuna, non ho mai avutouna carriera. Di episodi importanti e belli ne hovissuti molti, e stanno tutti qui dentro... ma è diffi-cile, ora non saprei... forse potrei dirle del giornoin cui un grande artista come Rudolf Serkin, dopoavere suonato con me, per la prima volta, un ‘Con-certo’ di Mozart mi disse che sognava di realizzareinsieme tutti i ‘Concerti’ di Mozart: quella fu una

delle frasi più belle, più gratificanti che mi sianomai giunte. Oppure quando, i Wiener Philharmoni-ker mi hanno proposto di realizzare, in concerto ein disco, tutte le ‘Sinfonie’ di Beethoven, o quandoi Berliner mi proposero di fare tutto Brahms;quando cioè l'orchestra stessa - e non il manager,l'organizzazione - ti viene a chiedere di realizzarecicli così importanti, che fanno parte profonda-mente della loro più radicata tradizione, è l'onorepiú alto ch possa toccare a un direttore, è il ricono-scimento di un merito reale. E questo fa infinita-mente piacere...L'impegno politico e sociale. Lei è uomo pub-

blico e le sue posizioni hanno certamente peso

ed efficacia. Da alcuni anni molte cose sono

cambiate: nella sua coscienza c'è ancora spazio

per temi che sembrano non coincidere più con

quelli che arroventavano la convivenza due de-

cenni fa?

Le posizioni che io ho preso e di cui mi sono as-sunto la responsabilità tempo fa, e che riprendereioggi, erano sempre in difesa dei giovani e perl'avanzamento della società civile in generale.Qualche volta sono state manipolate ed utilizzatescorrettamente da certi partiti per fini che si disco-stavano dalle mie intenzioni. Io tengo a sottoli-neare di non essere mai stato membro di alcunpartito e di aver preso decisioni personali in asso-luta libertà ed autonomia, perché pensavo, adesempio, che fosse giusto, nel '68, aprire la Scalaai giovani ed agli studenti e portare la musica nellefabbriche per diffondere un patrimonio indiscuti-bilmente collettivo e non proprietà di una élite.Questo pensavo e penso tuttora.Come mai Ferrara?

Quello che stiamo cercando di fare a Ferrara - nonsolo il lavoro con la Chamber Orchestra of Europe,la loro residenza qui, il nuovo Festival: è significa-tivo, però, che la scelta delle ubicazioni sia cadutasu Berlino e Ferrara, e non su Roma; ma Ferrara, ècittà di grande dove si possono fare cose moltotanti - è soprattutto la creazione di una scuola perpreparare i giovani al loro lavoro dei prossimi anni,all'attività in orchestra.In Italia c'è la tendenza ad illudere i giovani pro-spettando loro, a tutti, una’attività solistica, quandosi sa molto bene che solo uno su cento, o meglio,mille emergerà, come è emerso Heifetz. C'è un'ot-tima iniziativa a Fiesole, una anche a Saluzzo, maqui in Italia si può fare molto di più, e in questoquadro vorremmo trovare una forma di collabora-zione con questi ed altri centri per migliorare -come sempre - allargare e collegare le iniziative aformule diverse. Bisogna lavorare: con fiducia. @

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Ritratti - 25

BruNo MaDerNa (1920-1973). uN ritratto

Anni Quaranta:

alla ricerca di un linguaggio

Nel 1940 il ventenne Maderna si diploma in com-posizione al Conservatorio di S. Cecilia di Roma,dove ha studiato per tre anni con il severo Alessan-dro Bustini. A quegli anni risale una delle sueprime composizioni compiute e mature, Alba, pervoce di contralto ed orchestra d'archi (1939) sutesto di Vincenzo Cardarelli, poeta crepuscolaredell'inquietudine e della disperazione per il quale lavita è perpetua attesa nella solitudine, costante vi-gilia di qualcosa che deve ancora accadere. Il testodi Alba ben esemplifica tale poetica ma rappre-senta altresì uno dei rari momenti in cui il poetasembra trovare pace, sebbene sofferta e sospesa. Ilgiovane Maderna fa musicalmente suoi questi temie nonostante la diversità di immagini presenti nellalirica di Cardarelli, egli li trasfonde in un tratta-mento musicale complessivamente omogeneo incui solo a tratti emerge un dualismo fra la parte vo-cale e quella degli archi, quasi a simbolizzare una

dicotomia esistenziale che nel nostro compositoreapparirà in maniera compiuta nel corso degli anniSessanta. Puccini, Barber, Hindemith sono alcunedelle suggestioni che vengono in mente all'ascoltodi questo bellissimo brano d'esordio. Maderna ri-torna poi a Venezia per seguire, nel 1941-42, il“Corso Internazionale di perfezionamento percompositori” tenuto da Gianfrancesco Malipiero alConservatorio Benedetto Marcello di Venezia, dicui era anche direttore. Contemporaneamente pro-segue gli studi di direzione d'orchestra all'Accade-mia Chigiana di Siena con Antonio Guarnieri. Aquesto periodo risale la composizione del Concertoper pianoforte e orchestra (1941), la cui partituramanoscritta completa è stata ritrovata solo di re-cente. Negli anni Quaranta Maderna è dunque alla ricercadi un proprio linguaggio e di una propria tecnica, ei suoi molteplici orientamenti si possono facil-mente individuare nei modelli dello Stravinskijrusso, di Bartók, dell'impressionismo francese, maanche di Hindemith, di cui possedeva e conosceva

Due recenti ritrovamenti e le successive pubbliche esecuzioni di opere perdute diBruno Maderna: il Concerto per pianoforte (1941) e il Requiem (1946),

consigliano una riflessione sulla sua figura di compositore, direttore e protagonista della vita musicale.

di Nicola Verzina

Maderna con Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen

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bene il trattato di composizione in tedesco. Ma ilcompositore veneziano si guarda bene dal lasciarsifacilmente sedurre dalla poetica e dai modelli for-mali del Neoclassicismo, e questo nonostante pro-prio negli anni Quaranta collabori con Malipieroall'edizione critica di diverse partiture di musicabarocca veneziana. Testimonianza importante diquesta pluralità di riferimenti sono due lavori del1946: le Liriche su Verlaine e l'appena “riesumato”Requiem per soli, cori e orchestra (archi, ottoni, 3pianoforti), ritrovato da Veniero Rizzardi ed ese-guito in prima assoluta nel novembre 2009 alla Fe-nice di Venezia. Nelle Liriche su Verlaine ilcompositore è interessato soprattutto al binomiospiritualità-passione, che caratterizza l'intera operapoetica di Verlaine e che Maderna intende tradurremusicalmente attraverso una fine ricercatezza me-lodica e un preziosismo timbrico, sia nel tratta-mento vocale che pianistico, secondo la lezione diRavel e di Debussy. Nel Requiem, opera monu-mentale e in certo modo ricapitolativa dal punto divista musicale ed esistenziale dopo la fine della Se-conda Guerra Mondiale, Maderna sfoggia la suavastissima cultura musicale. Numerosi i riferimentirintracciabili: la tecnica dei cori spezzati veneziani,ancora Hindemith, Stravinskij, la musica sacrafrancese (Fauré, Duruflé, Poulenc), la coralità ope-ristica romantica. Sul finire degli anni Quaranta av-viene l'importante “svolta seriale” di Maderna,grazie alla conoscenza di Hermann Scherchen, chea Venezia nel 1948 tiene un “Corso di perfeziona-mento per direttori d'orchestra” e che Maderna fre-

quenta insieme a Nono. Questo incontro sarà fon-damentale per Maderna per l'approfondimentodella conoscenza dei compositori della Secondascuola di Vienna, di cui Scherchen era uno specia-lista. Si tratta dell'inizio di un sodalizio umano emusicale fra i tre musicisti e che porterà i due gio-vani veneziani ad abbracciare la tecnica di compo-sizione con i dodici suoni prima e il serialismointegrale poi. Maderna si accosta dunque ai proce-dimenti compositivi dodecafonici di cui si riappro-pria ripensandoli in maniera individuale econiugandoli con la tecnica canonica e le tecnichecontrappuntistiche antiche (tecnica della mutazioneseriale, la denominerà egli stesso), anche sullaspinta della lezione etico-musicale di Dallapiccola,con il quale, insieme a Nono, egli intrattiene inquesto periodo un profondo rapporto umano e arti-stico. Nascono così importanti lavori come le Treliriche greche per soprano, coro e strumenti(1948), la Fantasia e fuga (B.A.C.H. Variationen)per due pianoforti (1948), gli Studi per il “Pro-cesso” di F. Kafka per soprano, recitante e orche-stra (1950).

Anni Cinquanta:

serialismo integrale e

sperimentazione elettroacustica

Gli anni Cinquanta sono dominati da due filoni diricerca nella produzione di Maderna: da un lato losviluppo e l'approfondimento della tecnica dodeca-fonica e l'approdo ad una concezione “veneziana”

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o “espressiva” del serialismo integrale; dall'altra laricerca tecnologica riguardante la musica elettroa-custica realizzata allo Studio di Fonologia dellaRAI di Milano insieme a Luciano Berio. Musica sudue dimensioni per flauto e nastro magnetico(1952) è la prima composizione di musica cosid-detta “mista” della storia della musica occidentale,un brano in cui per la prima volta la dimensioneacustica di uno strumento tradizionale viene acco-stata alla dimensione tecnologica. Maderna si poneseriamente il problema di come risolvere la que-stione del dissidio fra due dimensioni musicali cosìdiverse fra loro e lo risolve utilizzando per la parteelettroacustica lo stesso suono del flauto registrato,come materiale da rielaborare su nastro magnetico.Ne viene fuori una sorta di immagine deformata, dialter ego del flauto che si confronta con se stesso econ l'angoscia, all'epoca seriamente avvertita, diuna presunta minaccia nei confronti della musicatradizionale ad opera della musica elettronica, maalla quale Maderna ovviamente non credeva..A differenza della concezione “astratta” e “geome-trica” che Boulez e Stockhausen ci presentano delserialismo multiparametrico nella prima metà deglianni Cinquanta, mediante una lettura “deformata”dell'ultimo Webern, il serialismo integrale mader-niano si configura da subito come “discorsivo” ecarico di riferimenti extramusicali, filosofici, poli-tici, sociali e culturali, tali da farlo intendere noncome esclusiva ricerca nell'ambito dello sviluppodella tecnica compositiva tout court, ma soprattuttocome elemento propulsore di sviluppo musicale edi “impegno” in senso lato, secondo l'idea di cul-tura e di arte che Gramsci aveva elaborato nei suoiscritti e a cui Nono e Maderna all'epoca facevanoriferimento. Si vuole affermare cioè l'idea che lamusica, anche quella più difficile e complessa tec-nicamente, oltre ad essere autonoma ricerca com-positiva e formale, possa anche essere linguaggio estrumento di denuncia, di espressione di idee, disentimenti, di valori con funzione civile e sociale.A tal proposito emble-matica è Vier Briefe(Quattro lettere) unacantata per soprano,basso e orchestra del1953. Si tratta di un la-voro che utilizza i testidi quattro differenti let-tere (Condannato amorte della Resistenza,Commerciale, Kafka aMilena, Gramsci allamoglie) secondo il mo-

dello della composizione-testimonianza di Un so-pravvissuto di Varsavia di Schoenberg. Vier Briefeaprirà la strada a Nono per la composizione delCanto sospeso (1956), i cui testi saranno tratti dalettere di condannati a morte della Resistenza euro-pea.Negli anni Cinquanta Maderna prosegue l'appro-fondimento delle possibilità tecniche ed espressivedella musica elettroacustica ed elettronica. L'este-tica dello Studio di Fonologia di Milano (Berio eMaderna) è caratterizzata soprattutto dall'elabora-zione di un materiale musicale di origine acustica(suoni strumentali e vocali), a differenza dellascuola parigina di Radio France (Schaeffer eHenry) che predilige suoni di natura concreta, edello Studio della Radio di Colonia, dove predo-mina un approccio seriale basato sulla sintesi ditimbri nuovi (Stockhausen). I lavori più importantidi questo periodo sono: Notturno (1956), Syntaxis(1957), Continuo (1958), basato sulla trasforma-zione progressiva di un unico suono di flauto.Punto di arrivo di questa fase di ricerca con ilmezzo elettronico è Dimensioni II (Invenzioni suuna voce) del 1960, che utilizza un testo compostoesclusivamente da fonemi, appositamente creati dallinguista Helms e recitati da Caty Berberian, e suc-cessivamente rielaborati e sottoposti da Madernaad una serie di trasformazioni prima di essere fis-sati su nastro.

Anni Sessanta e Settanta:

teatro musicale, melodia, alea, forma

Negli anni Sessanta con Hyperion (1964-1970)Maderna è impegnato alla realizzazione di unanuova idea di teatro musicale, che, rifiutando lavecchia concezione psicologica e narrativa, prendele mosse dalla lezione del teatro espressionista diSchoenberg e Berg, coniugata con la visione bre-chtiana del teatro di situazioni e dello strania-mento. Hyperion non è un'opera nel senso

tradizionale, ma un uni-verso in progress, un“grande affresco mobile”composto da differenti par-titure che assumono una fi-sionomia complessivasempre differente inognuna delle undici realiz-zazioni, sceniche o da con-certo, proposte daMaderna. L'idea poeticache permea Hyperion, dinatura prettamente dialet-

Maderna con Luciano Berio, nello Studio di fonologia della Rai di Milano

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tica, è tratta dall'omonimo romanzo epistolare delpre-romantico Hölderlin ed è rappresentata dal dis-sidio insanabile fra l'individuo, l'artista, (incarnatodal flauto) e il mondo che lo circonda, simboliz-zato dall'orchestra o dai suoni stranianti della mu-sica elettronica: è l'eterno quesito sul ruolo e lafunzione dell'arte nella società attuale. La dimen-sione melodica vi gioca un ruolo fondamentale,poiché incarna un'idea di soggettività in crisi nel-l'era post-industriale. Per essa Maderna ha coniatoil termine di aulodia, di canto monodico per stru-mento ad ancia, l'aulos di ellenica memoria, nel-l'immaginario maderniano rappresentato dal flautoe dall'oboe, veicoli di questo ideale e ormai impos-sibile canto archetipico, specchio di un'armonia edi una bellezza perdute per sempre: Concerto peroboe n. 1 (1963), Concerto per violino (1969),Grande aulodia per flauto e oboe soli con orche-stra (1970). La drammaturgia di Hyperion si rea-lizza all'interno della musica, come già in DonPerlimplin (1960), lavoro radiofonico in cui il pro-tagonista viene impersonato dal flauto, che invecedi comunicare con la parola utilizza i suoni. La seconda metà degli anni Sessanta vede fiorireuna serie notevolissima di partiture orchestrali e diconcerti solistici che testimoniano un grande domi-nio della scrittura e dell'orchestrazione, oltre chedell'affinamento delle qualità direttoriali, versantesul quale Maderna sarà sempre più spesso impe-gnato. Molte di queste partiture sono il frutto dellamessa a punto di problemi di carattere composi-tivo, al centro dell'interesse dei compositori della

sua generazione, che riguardano la macroforma, iltimbro complesso, l'alea, la tecnica dei gruppi:Concerto per oboe n. 2 (1967), Quadrivium per 4percussionisti e 4 gruppi d'orchestra (1969), Aura(1972), Biogramma (1972), Ausstrahlung per vocefemminile, flauto, oboe, grande orchestra e nastromagnetico (1971) su testi di poeti indiani e per-siani. Nelle ultimissime opere, grazie all'affina-mento della sua personale tecnica aleatoria,Maderna mette a punto una concezione modularedella macroforma, con cui l'opera si ridefinisce inmaniera diversa ad ogni esecuzione, e ciò grazie altrasferimento di un principio prettamente seriale, lapermutazione, dalla microstruttura alla macrostrut-tura: Venetian journal (1972), Concerto per oboen. 3 (1973), Satyricon (1973). Ciò è possibile inquanto Maderna è il principale esecutore della pro-pria musica e dunque il processo compositivo perlui in qualche modo continua e si compie durantel'esecuzione. L'alea non rappresenta per Madernala negazione della forma ma la sua glorificazione.Il compositore veneziano si spegne prematura-mente all'età di 53 anni nel 1973, a causa di un tu-more. @

*Nicola Verzina è curatore dell'Archivio Madernadell'Università di Bologna. Insegna Storia dellamusica per didattica presso il Conservatorio G. B.Pergolesi di Fermo. Ha scritto numerosi saggisulla musica del Novecento, fra cui una monogra-fia dedicata a Bruno Maderna edita dalle edizionil'Harmattan di Parigi.

Concerto per pianoforte e orchestra

Datato 1941, venne eseguito per la prima volta il 22 giugno 1942 a Venezia, presso il Conservatorio B. Marcello. La serata siintitolava Dell'arte del comporre; al pianoforte Gino Gorini diretto da Ettore Gracis, l'orchestra, non menzionata nella locan-

dina della serata, era probabilmente quella del Conservatorio. La partitura completa di quest'opera, considerata perduta fino apochi anni fa, è stata miracolosamente ritrovata pochi anni fa a Verona da Carlo Miotto, fra le carte del lascito della sua inse-gnante, la pianista veronese Bianca Coen, amica di Maderna. Ad essa il compositore nel 1946 aveva affidato la partitura perchéfosse proposta a Benedetti Michelangeli per un'esecuzione durante il suo debutto a Londra, dove viveva il fratello della Coen;l'idea però non andò in porto. La parte originale autografa del pianoforte è invece posseduta dall'Archivio Maderna di Bologna, alquale era stata donata dallo stesso Gorini. Dopo la composizione e la prima esecuzione Maderna trascrive il lavoro per due piano-forti, allo scopo di realizzare un'esecuzione da camera da registrare (ai pianoforti Maderna e Gorini) su nastro di cartone, per po-terlo poi diffondere più facilmente presso diverse sedi concertistiche. Il progetto non fu poi realizzato ma la versione per duepianoforti fortunatamente è sopravvissuta. La partitura originale di questa versione è stata ritrovata un paio di anni fa nel FondoGorini della Fondazione Cini di Venezia. Il Concerto per pianoforte e orchestra, della durata di poco più di dieci minuti, è carat-terizzato da una grande libertà e spontaneità creativa che al contempo però rivela piuttosto chiaramente quali fossero i gusti e gliorientamenti stilistici del ventenne Maderna di ritorno a Venezia da Roma fresco di diploma: l'impressionismo prezioso e colori-stico di Ravel coniugato con le sperimentazioni metrico-ritmiche di Stravinskij e Bartók; e ancora il modalismo e l'armonia perquarte, il riferimento ad Hindemith; vi si ravvisa addirittura, più evidente nella versione per due pianoforti, il richiamo al piani-smo macchinistico di matrice futurista; e, non ultimo, un gusto per il jazz, stilema che il giovane Maderna aveva frequentato du-rante il periodo romano anche grazie all'amicizia con un religioso italo-americano appassionato di jazz. L'impressione che siricava dall'ascolto di questo lavoro è quella di un compositore, sebbene giovanissimo, molto ben informato su ciò che avveniva inEuropa a livello di ricerca musicale e che dopo i rigorosi anni di studio, sente il bisogno di respirare una boccata d'aria nuova.Sorprendente a parere di chi scrive è la “scrittura temporale” messa in atto in questo lavoro, fatta di dilatazioni, di contrazioni, diun tempo oggettivo e misurato degli orologi, o, al contrario, di un tempo soggettivo e psicologico più statico e relativo. A deter-minare ciò contribuisce il tipo di relazione che si instaura fra il solista e l'orchestra (o il 2° pianoforte), che non è un rapporto ditipo dialettico, ma neanche dialogico, quanto piuttosto di compenetrazione e di sintesi.

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Anniversario Scarlatti - 29

Due intermezzi

La ricostruzione delle mie avventure scarlattianesarebbe incompleta se a questo punto trascu-

rassi di inserirvi la narrazione di due gustosi epi-sodi. Dopo avere intitolato ‘Intermezzi polacchi’ icapitoli di ‘Due vite in una’ dedicati ai rapportidegli Scarlatti con Maria Casimira Sobieski, ex re-gina di Polonia, potrò parlare di intermezzo ma-giaro-meneghino per la prima delle due esperienzeche emergono dalla memoria. La mia intensa partecipazione all’attività inizialedel palermitano Gruppo Universitario Nuova Mu-sica e alle prime Settimane di Palermo mi fece en-trare in cordiali rapporti con il professore PaoloRuzicka, indimenticabile responsabile delle Edi-zioni Suvini Zerboni. Diversamente da tanti prota-gonisti di quelle esperienze, affetti da monomaniaavanguardistica, Ruzicka stravedeva per i “suoi”autori, ma senza che questo gli impedisse di rico-noscere che c’era altra musica degna d’attenzioneoltre a quella “nuova” per definizione, ma dellaquale alcuni professionisti del malcontento - illustrio aspiranti a esserlo - incominciavano a teorizzarel’invecchiamento…Conterranei del professore, Liszt e Bartók gode-vano di collocazione privilegiata nel ristrettoOlimpo di un’ortodossia musicale estranea al-l’avanguardia; in quella che Ruzicka doveva consi-derare una sorta di preistoria della musica,particolare considerazione era riservata a Dome-nico Scarlatti, forse perché caro al Bartók concerti-sta (sulla cui coscienza grava però la deludenterevisione di alcune Sonate). Forse desideroso di at-taccare in una delle sue roccaforti editoriali CasaRicordi, in quegli anni nettamente soccombentenell’area più avanzata della modernità, Ruzickaconcepì il disegno di una nuova edizione integraledelle Sonate di Scarlatti, chiamata a dare definitivasepoltura alle vecchie raccolte di Longo, alle qualigià nel 1953 Kirkpatrick aveva dedicato un coster-nante necrologio.Senza rivelarmi il sensazionale motivo della con-vocazione, Ruzicka m’invitò a Milano, dove ebbila gradita sorpresa di trovarmi faccia a faccia con

Giorgio Pestelli, il quale da pochi anni aveva datoalle stampe la sua tesi di laurea, dedicata alle So-nate di Scarlatti. Discutemmo a lungo il progettoche stava a cuore al promotore della riunione, mami vidi costretto a frenare gli entusiasmi buttandosul tappeto un paio di novità che colsero di sor-presa i miei interlocutori: in Francia la pubblica-zione di un’integrale era imminente, se nonaddirittura in atto (l’editore Heugel l’aveva affidataalle cure arcicompetenti di Kenneth Gilbert) e aMilano Casa Ricordi cercava di parare la botta sal-vando la faccia senza sacrificare troppo la finanza.Mi risultava che il culto della lesina aveva indottoquei feudatari del melodramma a prendere in con-siderazione persino il vandalico progetto di riutiliz-zare le lastre della vecchia edizione, grattando viatutto l’arsenale di legature, di segni d’espressione edi diteggiature che il revisore aveva sovrappostosenza economia al testo originale. In caso di so-pravvivenza del progetto Ruzicka, poi, subordi-navo la mia partecipazione a una correzione di tiro– almeno simbolica – da parte di Pestelli, il qualeaveva avanzato riserve che non mi sentivo di con-dividere su alcune ipotesi di Kirkpatrick.Non furono le mie remore, comunque, a far naufra-gare il progetto: in via Berchet il buonsenso dei re-sponsabili artistici aveva sconfitto la taccagneriadei guardiani della finanza e presto Emilia Fadini,una clavicembalista-musicologa italiana perfetta-mente all’altezza del compito, sarebbe stata incari-cata di curare per la Ricordi una nuova edizionecritica delle Sonate. Non posso chiudere questa pa-rentesi senza rilevare con piacere che le divergenzed’opinione emerse a Milano non hanno lasciatoombre nei miei rapporti con Pestelli: qualche annodopo quell’incontro Ruzicka rievocava enfatica-mente ‘la memorabile tenzone scarlattiana’ e inquesta espressione mi piace cogliere un riferimentoa costumi cavallereschi remoti dall’aggressivitàcon la quale studiosi anche valorosissimi si sonoimpegnati a demolire ferocemente - e spesso irra-gionevolmente - l’opera dei loro predecessori (e,nella quasi generalità, quella dei loro contempora-nei non affiliati a certe massonerie). Nello speci-fico, posso vantarmi di aver scritto testualmente:

Amarcord Scarlattiano

roMaNzo Di uN roMaNzo iidi roberto pagano

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30 - Anniversario Scarlatti

«Il non condividere metodo e conclusioni del sag-gio giovanile che Pestelli dedicò alle Sonate diScarlatti non può impedirmi di riconoscere la fon-datezza di molte intuizioni in esso contenute e lafelicità di certi spunti: elementi che mi inducono adeplorare sinceramente l’atteggiamento rinuncia-tario di un così intelligente collega nei confronti diuna ricerca che continua a procedere e che si av-vantaggerebbe enormemente dell’esperienza da luimaturata.»

Primi mugugni

Posso ora riprendere la ricostruzione delle mievicissitudini partendo dalla pubblicazione di

quella strenna natalizia 1972. Gli immancabili sa-pientini, le cui attività ho già avuto occasione diparagonare alle postpluviali emersioni di lumachedal terreno fangoso, non tardarono a reagire all’ol-traggio che mamma RAI aveva fatto a qualche gio-vane speranza della musicologia capitolinaaffidando a un ignoto terrone un compito local-mente ambito. Il M° Ottavio Ziino mi informò diquesti malumori e un paio di cordiali colloqui conArnaldo Morelli – al quale non mi sognerei di ap-plicare l’etichettatura di ‘clericus lugens’ - mi con-sentirono di acquisire informazioni e dati che,sviluppati in ricerche successive, sarebbero statimessi a profitto dodici anni più tardi. Ho appenaricordato il fortunatissimo sbocco di una mancatarecensione e registro al mio attivo le valutazionipositive di Reinhard Strohm e di Malcolm Boyd,ma le insoddisfazioni romane non erano rimastesenza conseguenze in quanto nel 1975, quando sitenne a Würzburg un importante “ColloquiumAlessandro Scarlatti”, nessuno ritenne che l’autoredell’unica biografia del musicista apparsa a sessan-t’anni di distanza da quella del Dent potesse contri-buire utilmente alla discussione. L’Editore del mio nuovo saggio era interessato allacoincidenza con l’Anno della Musica e le mietroppe occupazioni di allora non mi lasciavanomolto tempo da dedicare alle ricerche necessarie;era indispensabile, per esempio, approfondire al-cuni dettagli dell’esperienza italiana di Haendel, aiquali precedentemente non avevo dedicato tuttal’attenzione e lo studio che meritano. In passatoEmilia Zanetti (appena giubilata nel 1984 dal ruolodi direttrice della Biblioteca del Conservatorio diSanta Cecilia) si era dedicata con passione all’ar-gomento e sapevo che una conversazione con leimi avrebbe offerto utili scorciatoie. Approfittaiquindi dell’invito a far parte della giuria di un con-corso pianistico che si svolgeva a Roma per antici-

pare di un giorno il mio viaggio, con l’intenzioned’incontrare la signora Emilia per ricavare da unaconversazione con lei le informazioni che la suaprofonda conoscenza dell’argomento mi facevanoprevedere esaurienti.L’inizio dei miei rapporti con la studiosa che ri-cordo con commossa simpatia non era stato dei piùpromettenti: nel 1959 avevo ottenuto dal M° Teren-zio Gargiulo, direttore del Conservatorio di Pa-lermo, un ‘incarico di fiducia’ che mi fece rientrareda docente di storia della musica e da bibliotecarionell’istituto nel quale avevo avuto la rara fortuna distudiare sotto la guida di quell’umanista che fuFabio Fano la disciplina che ora ero chiamato a in-segnare. Napoletano devoto a Santa Chiara oltreche a San Gennaro, il maestro Gargiulo mi spiat-tellò in faccia che la “fiducia” inizialmenteespressa era stata da lui accordata alle calde solle-citazioni di Vincenzo Mannino e Antonio Trom-bone, i quali avevano generosamente appoggiato lamia candidatura senza essere stati miei insegnanti:avrebbe preferito chiamare a Palermo FrancescoPastura, suo compagno di studi a Napoli e solo ildesiderio di non separarsi dalla vecchia madreaveva indotto il biografo-principe di Bellini al granrifiuto. Allo scadere del primo anno d’insegnamento nonc’era posto per la “fiducia”: le disposizioni mini-steriali imponevano che l’incarico fosse messo aconcorso e che della commissione chiamata a va-gliare le domande facesse parte un titolare dellostesso insegnamento. L’allora striminzito organicodel Conservatorio di Palermo rendeva necessario ilricorso a una soluzione ‘continentale’ e il cumulocon la direzione della biblioteca complicava ulte-riormente le cose; non mi è difficile immaginareche Gargiulo scegliesse di ambientare a Roma lacelebrazione del rito per sottrarsi a prevedibilipressioni contrapposte di colleghi e amici in favoredi candidati napoletani da lui poco apprezzati. Hogià ricordato che il Maestro Ferro mi aveva calda-mente incoraggiato a dedicarmi allo studio dellavita e delle opere di Alessandro Scarlatti, ma le ri-cerche da me intraprese tardavano a dare frutti sod-disfacenti; in breve, gli unici “titoli” che poteipresentare in appoggio alla mia domanda furonoalcuni articoli di critica musicale e le note illustra-tive scritte per i programmi di sala dell’Associa-zione Amici della Musica di Palermo succedendonel 1955 a Ottavio Tiby, quando la sua tragicamorte creò un vuoto che il prestigio internazionaledello studioso faceva ritenere difficilmente colma-bile. C’era comunque l’anno di servizio prestato inConservatorio, durante il quale avevo fatto il possi-

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Anniversario Scarlatti - 31

bile per non deludere la fiducia del direttore e deimiei coraggiosi mallevadori; riuscii nell’intento sealle giuste perplessità espresse da Emilia Zanetti difronte all’esiguità della mia documentazione Gar-giulo rispose esprimendo l’elevatissimo voto chemi assicurava l’idoneità.

Une folle journée

La sera del mio arrivo a Roma ero invitato acena da Mr. Buckley, il funzionario del British

Council che aveva reso possibile la partecipazionedi uno splendido coro universitario inglese all’ese-cuzione di ‘Oedipus Rex’ che Gabriele Ferro di-resse a Gibellina, a ridosso del cretto di Burri.Dopo avermi offerto un aperitivo Buckley lasciòcadere nella conversazione un “Ha sentito? E’morta la Zanetti” che mi gettò nella più nera co-sternazione, tanto evidente da indurre l’ospite achiedermi premurosamente se volessi affogarla inun secondo Martini…Il giorno dopo la componente razional-fatalista delmio carattere mi venne in soccorso: dato che unabreve riunione preliminare era fissata per mezzo-giorno, potevo precipitarmi di buon mattino alConservatorio per consultare schedari e raccolte diperiodici, alla ricerca di materiale utile. Un cortesecommesso mi chiese se volessi conoscere il nuovodirettore. Certo che volevo: avrei potuto ricavarnealmeno una parte delle scorciatoie che ritenevo an-date in fumo. Introdotto nell’ufficio, non svenniper puro miracolo: la Zanetti sedeva alla “sua”scrivania, che Domenico Carboni, suo successore,aveva avuto il riguardo di cedere all’illustre visita-trice. Chissà cosa avrà pensato la signora del-l’esplosione di entusiasmo che non riuscii a celare:sapendo che la riunione prevista non mi avrebbeimpegnato a lungo, le chiesi se le facesse piacerepranzare con me dal Bolognese. L’invito fu accet-tato e a tavola seppi insinuare l’interrogatorio in uncontesto disinvolto, non senza farmi un dovere digiustificare, alla fine del pasto, l’insistenza dellemie richieste di dettagli e chiarimenti: ricorrere aun autentico oracolo era stata provvidenziale op-portunità, data l’impellente necessità in cui mi di-battevo, aggravata dal progressivo attenuarsi dellemie facoltà mnemoniche…Sorridendo, la signora Emilia si compiacque del-l’ovvio riconoscimento, ma credetti che l’avven-tura avesse toccato i vertici della comicità quandotentò di rincuorarmi a proposito dei problemi dimemoria ricorrendo a un esempio sorprendente-mente improprio:-“Non se ne preoccupi: uso da tempo un preparato

svizzero che fa autentici miracoli…”-“Sarà così gentile da indicarmene il nome?”-“…Mah… non lo ricordo.”Stentai a frenare il riso, ma il meglio doveva an-cora venire: -“Le dispiace chiedere al cameriere di chiamare untaxi? Vorrei andare a trovare Buckley…” In questo genere di situazioni confesso di avereuna fortuna sfacciata, che mi porta casualmente aconoscenza di cose che dovrebbero restarmiignote: Piazza del Popolo rigurgita di taxi in sostae se donna Emilia avesse fatto due passi senza ma-nifestare la propria intenzione mi sarei perso il det-taglio che assicura all’episodio un irresistibilefinale da ‘pochade’. La sera stessa telefonai a Buc-kley:“So che oggi entrambi abbiamo incontrato unmorto; ignoro se il gioco del lotto rientri tra le abi-tudini britanniche, ma io non resisto alla tenta-zione di rischiare una cifretta sull’ambo 31 – 47.” Lungi dall’attribuire un senso di funesta premoni-zione ai falsi annunzi di morte, un’antica credenzali vuole forieri di longevità e la storia descrive per-sonaggi di riguardo ben soddisfatti della delusioneche una tempestiva smentita procura a loro nemicipalesi e occulti. In tempi remoti la lentezza e le dif-ficoltà di comunicazione favorivano equivoci delgenere, ma ben più frequente era la diffusione d’in-fondate notizie riguardanti vittorie o miracoloseguarigioni. Probabilmente Emilia Zanetti non seppe mai di de-tenere un record in materia, data la sua lunghissimasopravvivenza alla notizia che ventisei anni orsono la diede per scomparsa improvvisamente. Re-centemente, quando Agostino Ziino ebbe la corte-sia di chiedere un mio contributo alla ‘Festschrift’che alcuni estimatori avevano deciso di dedicarealla studiosa, la più che veneranda età della cele-brata mi aveva distolto dalla tentazione di rievo-care la ‘folle journée’ che oggi mi è stato caroricostruire in sede più appropriata. La mia lunga esperienza di manager e di membrodi giurie e commissioni variamente importanti miha costretto a esprimere voti e giudizi che la co-scienza mi dettava sfavorevoli a certi candidati. Ilnumero d’inimicizie collezionate in quarant’anni diattività contrasta in modo appariscente con il ri-spetto che continuo a tributare al giudizio inizial-mente formulato su di me dalla signora Zanetti: unrispetto remoto da certe recenti proclamazioni dimartirio che vedo sin troppo spesso cinicamenteavallate e sposate da ignoranti e arroganti detentoridel potere politico. Ho già ricordato con soddisfa-zione l’inalterato equilibrio delle mie relazioni con

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32 - Anniversario Scarlatti

Giorgio Pestelli e mi fa piacere aggiungere che iprogressi della mia carriera furono accolti con par-tecipe simpatia da Emilia Zanetti, la quale nonperse mai occasione per informarsi dei miei studiscarlattiani: né in persone così civili né in me erarimasta traccia degli imbarazzanti episodi dai qualii nostri rapporti avevano preso avvio.

Siena: una gloriosa tradizione

recentemente tradita

Nel 1985 l’Anno della Musica, dedicato dal-l’UNESCO alla celebrazione del tricentenario

della nascita di Bach Haendel e Scarlatti junior, sirifletté in una serie memorabile di convegni e diconcerti, preziose occasioni di confronto critico edi verifica cui i responsabili attuali delle principaliistituzioni musicali italiane si manifestano aller-gici. Emblematico l’atteggiamento dell’AccademiaMusicale Chigiana che in tempi recenti, preoccu-patissima di ‘modernizzarsi’, ha ignorato due im-portanti ricorrenze scarlattiane, ma venticinqueanni or sono colse al volo l’occasione per rinver-dire una sua cospicua benemerenza culturale. Nel1939, su suggerimento di Casella e GianfrancescoMalipiero il conte Chigi Saracini aveva dato sto-rico avvio alle Settimane Musicali Senesi con lamanifestazione che ha restituito a Vivaldi il ruoloche gli compete nella musica strumentale barocca.Dopo il memorabile esordio, l’anno successivo laChigiana seppe superare certe difficoltà determi-nate dallo stato di belligeranza e poté ripetere ilfortunato esperimento dedicando la seconda Setti-mana agli Scarlatti. Nel 1985 l’illuminato mece-nate era morto da vent’anni ma la Fondazione allaquale aveva lasciato in eredità il proprio patrimo-nio era diretta da Guido Turchi, degnissimo succes-sore di Casella. In collaborazione con la SocietàItaliana di Musicologia e con l’Università di Na-poli, la Chigiana ebbe il merito di organizzare unconvegno che, grazie al prestigio dei membri delComitato Scientifico (Fadini, Pestelli, Petrobelli,Turchi, Agostino Ziino), seppe attirare a Siena glistudiosi più in vista nell’area scarlattiana del mo-mento. Fummo tutti sbalorditi dall’assenza di Pe-stelli che, arroccato nel suo singolare Aventino,fece sapere di non poter togliere quei pochi giorni avacanze delle quali aveva gran bisogno.Non mancarono manovre sotterranee, delle qualiebbi sentore fin nella decentrata Palermo così vi-cina allo “Hic sunt leones” delle antiche carte geo-grafiche. Confesso orgogliosamente di avere spesocon successo il credito accordatomi da Nino Alba-rosa, allora Presidente della Società Italiana di Mu-

sicologia, e da Agostino Ziino per ottenere chefosse invitato Joel Sheveloff, critico spietato diKirkpatrick e pertanto paventato come pericolosoguastafeste. Pur accusato di una sorta di Kirkpa-trick-dipendenza tutta da verificare, ritenevo – e hocontinuato a dimostrarlo, vedremo in seguito – cheun incontro di veri esperti non possa né debba es-sere progettato all’insegna del consenso prefabbri-cato. Fui premiato nelle mie aspettative, dato cheBoyd sollevò pacate obiezioni all’interpretazionedi alcuni dettagli delle fonti principali e Gilbert eFadini le riconobbero immediatamente fondate.Quando venne il turno di Sheveloff mi trovai tan-genzialmente coinvolto in un esplosivo ‘happe-ning’: la mia relazione precedeva quella deltemutissimo Buffalo Bill nella sessione presiedutada Pieluigi Petrobelli, il quale fungeva anche daeccellente traduttore simultaneo. Man mano cheJoel snocciolava senza troppe perifrasi le sue os-servazioni spietatamente circostanziate, la colloca-zione tribunizia riservata al mio ruolodeuteragonistico mi costringeva a ostentare unaimpassibilità messa a dura prova dagli ‘a parte’ diPetrobelli, il quale rivolgeva a se stesso trepidanti“Questo mica lo posso tradurre!”, sussurrati inmaniera da me perfettamente udibile e premessialle parafrasi abilmente edulcorate dei brani piùscottanti del testo… Con buona pace di chi paventava le polemiche, ilConvegno di Siena segnò un risultato notevolis-simo, come lo stesso Sheveloff riconobbe accom-pagnando il consuntivo da lui cosìpessimisticamente intitolato con il breve ma signi-ficativo correttivo che mi fa piacere citare testual-mente:“Su invito del relativo Comitato Scientifico, hopartecipato a un convegno intitolato ‘DomenicoScarlatti e il suo tempo’, occasionato dal tricente-nario e sponsorizzato dall’Accademia Chigiana diSiena, in collaborazione con la Società Italiana diMusicologia e con l’Università degli Studi di Na-poli. Molte delle mie frustrazioni sono uscite inqualche modo ammorbidite dal gran numero dicontributi di specialisti che hanno evidentementedeciso di fare del 1985 un anno scarlattiano sulmodello di quello che il 1950 fu per Bach. Nelleannotazioni e nel testo che segue mi riferirò,quando sarà più opportuno, a questi notevoliscritti e all’essenza degli insegnamenti che ho po-tuto ricavarne .”La scorribanda occasionata dall’Anno della Musicasi sarebbe conclusa all’inizio di dicembre a Nizza,dove la Société de Musique Ancienne organizzòun’interessante serie di concerti e di incontri du-

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Anniversario Scarlatti - 33

rante i quali gli studiosi invitati comunicammo i ri-sultati di tredici ‘Recherches’ non circoscritte al-l’ambito strettamente musicale. Memorabili leesibizioni clavicembalistiche di Scott Ross (Presi-dente onorario della manifestazione), Kenneth Gil-bert, Christophe Rousset, Laura Alvini(particolarmente ammirata al fortepiano); molto in-teressante la testimonianza del cembalaro WilliamDowd e lo stesso direi della ‘Messa de Aránzazu’presentata dal revisore Miguel Alonzo Gomez, sela scadente qualità della registrazione video nonavesse sciupato il godimento della scoperta. Ho già deplorato il ritardo con cui sono pubblicatigli atti di convegni scientifici che si vorrebberonati per offrire immediata conoscenza dello stato diavanzamento delle ricerche: una lunga esperienzacontinua a farmi leggere inequivocabilmente alte-rati – persino nelle conclusioni critiche - i testi di

una serie d’interventi, rispetto alle versioni che hoavuto occasione di ascoltare dal vivo durante i con-vegni. Il ritardo nella pubblicazione degli atti rela-tivi favorisce questa pratica che mi rifiuto digiudicare ‘politicamente corretta’; se penso poi allafrenetica lotta contro il tempo che caratterizza losvolgimento delle riunioni e il conseguente stran-golamento del dibattito, posso solo chiedermi senon sarebbe il caso di articolare diversamente iconvegni, inviando preventivamente il testo di tuttii contributi ai relatori invitati e trasformando l’in-contro in una tavola rotonda dal vivo. Gli inter-venti esterni di durata preventivamente fissataandrebbero salvaguardati, lasciando però all’auto-rità del presidente di turno la facoltà d’interrom-pere le quasi immancabili esibizioni di pretesispecialisti in cerca di notorietà a buon mercato. @

Errata Corrige Nella puntata iniziale il riferimento alle recenti polemiche che mi hanno deciso a mettere su cartaquesti ricordi ha visto sacrificata l’organizzazione cronologica della narrazione; prima di ripren-derne il filo mi sembra necessario colmare una lacuna provocata da un incidente tipografico che hadeterminato la volatilizzazione di una ventina di righe del testo che mi preme inserire. A pag. 17 delprecedente numero di Music@, il secondo capoverso del testo, prima colonna, subito dopo “ La sca-denza natalizia non ammetteva ritardi e...” va inserito il testo che segue, corretto, fino a “ cartaceaattestazione di stima (R.P.)

...” benedico la ragionevolezza che mi dissuase dall’assurda tentazione di gareggiare con il Dent, in-superato autore di un saggio monografico sul compositore e sulla sua musica che a un secolo dallapubblicazione resta opera di riferimento negli studi scarlattiani. Remo Giazotto, responsabile culturaledel settore, accettò la mia richiesta di sviluppare al possibile l’elemento biografico e integrò il paio dicentinaia di pagine da me firmate con un corposo capitolo dedicato da Lino Bianchi agli oratori diAlessandro e con una monumentale catalogazione della sterminata produzione del musicista, portata atermine brillantemente da Giancarlo Rostirolla, ingiustamente escluso in copertina dal meritatissimoruolo di autore.Prevalentemente destinato a importanti uomini politici e alti burocrati non necessariamente interessatiall’argomento, il libro ebbe circolazione anomala e assai limitata. Non fui troppo contento del vivoapprezzamento manifestatomi da un medico di grido, quando appresi che aveva potuto procurarsi ilvolume chiedendolo in dono a un politico di altissimo bordo, che lo lasciava confuso tra i settimanalia rotocalco, in pasto ai postulanti che attendevano di essere ricevuti. Non mancarono recensioni posi-tive in periodici di grande diffusione e mi fa particolare piacere ricordare quella firmata dall’alloragiovanissimo Paolo Isotta su L’Espresso; il diffusissimo settimanale ne aveva dato incarico a personaadeguatamente qualificata, che in privato non mi aveva lesinato elogi del tipo «Hai scritto un libro ve-ramente “inglese”», senza poi riuscire a trovare il tempo o l’inchiostro necessari alla trasformazionedell’espressione verbale in cartacea attestazione di stima”.

‘Domenico Scarlatti: Tercentenary Frustrations’ in The Musical Quarterly 71 (1985), pp. 399-436; 72 (1986), pp. 90-119.\1\\11

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34 - Nino Carloni

Il terremoto del-l’anno scorso ha

creato nell’opinionepubblica europea uninteresse grazie alquale la città del-l’Aquila ha mostratoal mondo l’immaginedi città massacratanelle sue bellezze arti-stiche e urbane, mapronta a riprendere ilcammino con la tena-cia e la laboriosità ca-ratteristiche deimontanari. In Italia eall’estero, le numerose istituzioni culturali e artisti-che aquilane, chiamate a esibirsi per le circostanzee nei luoghi più diversi, hanno sempre riscosso unsuccesso legato, insieme, al sentimento di solida-rietà per la città colpita e all’ammirazione per uncentro di provincia ricolmo non soltanto di bel-lezze naturali, di un sorprendente patrimonio ur-

bano nonché di mo-numenti e tradizioniillustri, ma anche disolide realtà culturalie artistiche. In questacornice, la musica hasvolto un ruolo ege-mone per il numero ela qualità delle mani-festazioni che hannoaccompagnato igiorni del dolore, rit-mando per lunghimesi la vita della po-polazione e dei soc-corritori. Il vertice

della lunga catena di incontri musicali è stato ilconcerto memorabile nel quale Riccardo Muti hadiretto, dopo tre giorni di fervidissima concerta-zione, un complesso sinfonico di cento strumentistie un coro di duecento voci, con la generosa parteci-pazione del soprano Teresa Romano, del bassoIldar Abdrazakov e del baritono Alessandro Valen-

Nino Carloni. L’inventore della Musica a L’Aquila

il coraGGio Dell’utopiaSocietà ‘ Barattelli, Istituzione Sinfonica Abruzzese, Solisti aquilani, Conservatorio‘Casella’. La nascita di tutte le istituzioni musicali aquilane si deve all’avv. Nino Car-loni che, a cent’anni dalla nascita, la sua città ricorda e ringrazia, con concerti , in-

contri, mostre,pubblicazioni ed un grande convegno internazionale che si svolgerà a novembre.

di Walter tortoreto

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Nino Carloni 35

tini, davanti al Presidente della Repubblica Napoli-tano e alle massime autorità dello Stato, della Re-gione e della Città. Orchestra e coro eranocomposti esclusivamente da forze musicali aqui-lane, con l’Orchestra Sinfonica Abruzzese, I SolisiAquilani, l’Orchestra Giovanile Abruzzese, il Con-servatorio di musica “Casella”, l’Istituto Gramma,e i migliori elementi di quattro associazioni corali:un miracolo laico per una città prostrata dal disa-stro, con gli abitanti dispersi in tutta la regione efuori regione, con tutte le strutture artistiche e cul-turali prive di sede, suppellettili, mezzi, risorse.Questo “miracolo” è stato possibile perché dal1945 al 1987 un sognatore, l’avvocato Nino Car-loni, ha lavorato tenacemente e luminosamente perservire la musica nel modo e con le caratteristichepresenti soltanto nelle grandi metropoli musicali.Dal primo concerto tenuto all’Aquila il 27 maggio1945, tra le macerie della guerra ma nel rinnovatospirito di libertà, alla trionfale serata di RiccardoMuti, avvenuta il 6 settembre 2009, dinanzi a unpubblico di settemila spettatori tornati nella lorocittà, come le tartarughe vanno a deporre le uova ocome i salmoni risalgono alle sorgenti della lorovita. Il filo che ha sempre legato gli avvenimentimusicali dell’Aquila, intrecciandoli alle miglioriesperienze di tutto il mondo, è stato il coraggio del-l’utopia da cui Nino Carloni si è lasciato guidaresenza tentennamenti.L’Aquila, appollaiata alle falde del Gran Sasso, èun capoluogo di regione che supera di poco 70.000abitanti. Sembra dunque incredibile la serie di pri-mati che la città ha conquistato nell’arduo mondodello spettacolo, con istituzioni eccellenti nel tea-tro, nel cinema, nella musica, e con percentuali al-tissime di presenza agli spettacoli, quasi ogni annoai primi due/tre posti. La conquista di tali primati sideve a Nino Carloni, il quale creò nel 1946 una so-cietà di concerti (l’ormai notissima Società aqui-lana dei concerti “Barattelli”) che s’imposeimmediatamente all’attenzione europea in virtùdelle linee guida imposte al notabilato locale: gliinterpreti migliori in assoluto nel mondo; le musi-che di tutti gli stili, di tutti i tempi, di tutti i paesi,senza alcuna preclusione; massimo spazio per lamusica moderna e contemporanea e colloquio di-retto e costante con i compositori viventi; musicaeseguita nei luoghi deputati ma anche in tutti glispazi possibili, purché decorosi (cortili di palazzipatrizi, chiese, scuole e università, fabbriche, sa-loni di palazzi pubblici); un circolo giovanile fi-nanziato dalla “Barattelli” ma con gestione artisticae amministrativa autonoma; collegamento con altreespressioni artistiche (poesia, pittura, architet-

tura…); decentramento di molti concerti nelle fra-zioni dell’Aquila e nei paesi d’Abruzzo… in-somma, tutto quello che fu teorizzato e in partepraticato dopo il ’68, Carloni lo avviò all’Aquila enel suo territorio fin dagli anni Cinquanta. Eglioffrì L’Aquila come ribalta a giovani e giovanis-simi di talento destinati alla gloria: Quartetto Ita-liano (che spesso preparava i programminell’Auditorium della “Barattelli”, ricavato da unacasamatta d’un bastione del forte spagnolo) e Mau-rizio Pollini venuto all’Aquila subito dopo avervinto il Premio Chopin a Varsavia, per ricordarequalche nome. Non meno costruttivo fu l’impegno per dotare ilterritorio aquilano e abruzzese di strutture produt-tive. Dopo la “Barattelli” del 1946 e sulla sua so-lida base, Carloni ottenne l’istituzione delConservatorio di musica (dapprima sezione stac-cata di Santa Cecilia con la direzione di Renato Fa-sano poi sede autonoma diretta da GherardoMacarini Carmignani); creò con Vittorio Antonel-lini I Solisti Aquilani, in precedenza complessodell’Ente Premi Roma con la direzione artistica diGiampaolo Chiti; creò tra il 1970 e il ‘74 l’Istitu-zione Sinfonica Aquilana (in seguito Abruzzese)con un’orchestra inizialmente diretta da GianluigiGelmetti; realizzò molti altri complessi (complessoBarattelli poi Officina Musicale specializzata nelrepertorio contemporaneo; Trio dell’Aquila; Quar-tetto Barattelli; Filarmonici Abruzzesi…) vissutipoco tempo e sciolti per mancanza di finanzia-menti, ma assai operosi durante gli anni di attività.Un’idea lungimirante, purtroppo non sostenuta daicollaboratori e quindi di breve durata, fu la crea-zione di un teatro musicale da camera, con strut-ture mobili che potevano essere spostate assieme aiprotagonisti e al piccolo organico strumentale ne-cessario per l’esecuzione del repertorio sei-sette-centesco. Si aggiungano mostre, cicli di conferenze(la prima tenuta da Roman Vlad nel 1946), conve-gni, festival e un numero impressionante di altreiniziative. Di rilievo furono le due edizioni del fe-stival internazio-naleMusicarchitettura,dedicate rispetti-vamente al Canada(1982) e alla Re-pubblica Demo-cratica tedesca(1984); ognuno diquesti paesi portòall’Aquila e inAbruzzo una parte

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36 - Saggi

considerevole della sua produzione musicale (con-certi, teatro, danza, complessi da camera), con imigliori artisti del momento e mostre particolari:pittura, cinema espressionista, architettura per lamusica ecc. Boicottata l’edizione dell’86 da dedi-care al Giappone, Carloni non ebbe più le forze fi-siche per proseguire. Cominciava a manifestarsi ilmale che lo avrebbe strappato alla musica e allavita il 20 settembre 1987.Era nato il 23 marzo 1910 in una famiglia della so-lida e spartana borghesia di provincia. Aveva stu-diato all’Aquila, a Livorno (Accademia Navale), aRoma (Giurisprudenza alla Sapienza). Aveva stu-diato musica a Napoli, città di sua moglie: piano-forte con Gennaro Napoli e composizione conIacopo Napoli. A Roma la sua casa fu, oltre al-

l’Università, l’Augusteo con i suoi concerti, minu-ziosamente descritti e commentati nelle lunghe let-tere inviate alla fidanzata, poi moglie. Avvocato diprestigio, mise le sue straordinarie competenzeprofessionali anche al servizio della musica e fu,con il senatore Mascagni, tra i protagonisti del di-battito che portò alla legge Corona. Cittadino con ilsenso dello stato, volle che la musica fosse il ce-mento più solido con il quale costruire la città.“Aedificavit urbem” si legge nel cartiglio dell’an-gelo musicante scelto come logo della Società: “hacostruito la città”, forse memoria dell’operina perragazzi di Hindemith, ‘Wir bauen die Stadt’. Oggiquel motto è il nobile scopo del dopo terremoto, davivere con il ritmo serrato che Carloni diede allesue costruzioni musicali. @

Per gentile concessione, riproduciamo la lettera che Gianni Letta ha inviato all’avv. Fiorella Car-

loni che, a nome della Società Barattelli, ha invitato il Sottosegretario Letta a far parte del Comi-

tato d’Onore per le celebrazioni del centenario della nascita di Nino Carloni.

Cara Fiorella,senza nulla togliere al prestigio con cui ha esercitato la professione forense o alla passione con

cui ha fatto politica, non c’è dubbio che il nome di Nino Carloni rimane legato alla Musica e alla Cul-tura: è il segno e il simbolo, quasi un ‘marchio di garanzia’, di quella ‘Società dei Concerti’ cheaveva fondato e grazie alla quale la città dell’Aquila fu proiettata ai vertici della graduatoria delleIstituzioni Musicali d’Europa.Anch’io l’ho conosciuto per la musica, prima che per il resto, e anch’io ne conservo un ricordo legatosoprattutto a quella dimensione culturale e a quell’impegno appassionato. Un ricordo che è tanto piùcaro perché sostenuto dalla Sua umanità e dalla Sua simpatia. Com’è per tutti quelli che l’hanno in-contrato.L’altra Sua passione era la Sua città. Aquilano, tenace e convinto, innamorato della storia, delle tradi-zioni, dei monumenti, dell’Arte che ha saputo difendere e valorizzare come pochi. Ricordarlo e cele-brarlo nel centenario della nascita è un doveroso atto d’omaggio che L’Aquila e l’Abruzzo Glidebbono, per quello che Lui ha dato alla città e alla regione.Ma oggi, dopo il 6 aprile, quella celebrazione assume anche un significato più alto e più profondo.Lui che, in un’altra stagione, fu il simbolo della ricostruzione culturale dell’Aquila, può e deve diven-tare il simbolo della rinascita dopo il terremoto. Oggi, come allora, convinti che non ci può essere ri-costruzione materiale senza aver prima ricostruito quel tessuto culturale e quel clima spirituale chesono le fondamenta su cui poter fruttuosamente edificare il futuro di una comunità.E celebrare un personaggio come l’Avvocato Carloni può aiutare ad evocare quella forza, a rico-struire quel clima e a stimolare quell’impegno. Per chi ancora ricorda e per chi, invece, apprende soloora dal racconto di chi quella stagione ha vissuto e a quell’impresa ha partecipato. Perché la storia diuna città è fatta di uomini e monumenti, di palazzi e di opere, di sentimenti e tradizioni, di cultura edi emozioni.E’ questa l’anima che L’Aquila deve ritrovare e che anche il ricordo di Nino Carloni aiuterà a rintrac-ciare. Da parte mia, poter dare anche un piccolo contributo, lo considero un onore e un privilegio. Ecco perché accolgo con intima soddisfazione l’invito a far parte del Comitato d’Onore, lieto di met-termi sin d’ora a Sua disposizione per tutto quello che riterrà utile ed opportuno.Con un grazie sincero ed un saluto affettuoso nel ricordo di Suo Padre.

Gianni Letta

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Saggi - 37

Pubblicati dall’editore veneziano Ricciardo Amadino

Vespri Delle MeraViGlie

Il Monteverdi fa stampare una Messa da cappellaa sei voci di studio et fatica grande, essendosi

obbligato maneggiar sempre in ogni nota per tuttele vie, sempre più rinforzando le otto [dieci, in re-altà, ndr.] fughe che sono nel motetto ‘In illo tem-pore’ del Gomberti [Nicolas Gombert, ndr.] e fastampare unitamente ancora di Salmi del Vesperodella Madonna, con varie et diverse maniere d’ in-ventioni et armonia, et tutte sopra il canto fermo,con pensiero di venirsene a Roma questo autumnoper dedicarli a Sua Santità...” [i due corsivi nonsono nell’originale, ndr.].Chi poteva essere tanto interessato alla produzionemusicale ‘sacra’ di un musicista attivo presso lacorte di Mantova, da richiedere così circostanziate notizie? Lo era il cardinale Ferdinando Gon-zaga, residente a Roma e destinatario dell’informa-tiva spedita da Mantova il 26 luglio 1610? Ilmittente della lettera Bassano Cassola, cantore evicemaestro di cappella, non lo chiarisce. Quellalettera , più che sollecitata dal destinatario, avevaverosimilmente un sug- geritore, non occulto eneppure disinteressato, nella persona dello stesso Monteverdi che di lì a poche settimane, fatta stampare la bella raccolta ‘mariana’ presso l’editore veneziano Amadino, sarebbe par tito alla volta di Roma per offrirla personalmente aldedicatario il papa Paolo V, nella speranza di trarre da quel viaggio qualche concreto benefi cio per sée per suo figlio Francesco, per il quale il genitoreaspirava ad un posto nel Se minario Romano, alfine di assicurargli un tranquillo avvenire, più cheper vera vocazione ‘Franceschino’ aveva allorapoco più di dieci anni; mentre per sé Monteverdisognava la nomina a maestro di una delle importanti cappelle musicali romane, anche della stessaSistina, una volta sciolto da vincoli maritali, perchéda poco vedovo, e perciò libero da qualsiasi impe-

dimento giuridico per aspirare a quell’incarico.Della sua grande perizia nella musica sacra, lad-dove si fosse presentata una concreta possibilità distabilirsi definitivamente a Roma, avrebbe fattofede proprio quella raccolta, fresca di stampa (ladedica reca la data del I settembre 1610), che lolaureava sommo compositore “sacro” negli stili po-lifonico, concertante e solistico.Il viaggio ebbe effettivamente luogo tra settembree ottobre di quel medesimo 1610, ma nessuna dellesue aspirazioni fu soddisfatta e Monteverdi, pergiunta, non venne neppure ricevuto da Paolo V, no-nostante le lettere commendatizie recate con sé.Costretto perciò a tornare a Mantova a mani vuote,si mise in cerca di un’altra occasione propizia; laquale giunse tre anni dopo, alla morte del Maestrodi cappella della Basilica di San Marco in Venezia,Giulio Cesare Martinengo. La Serenissima, otte-nute dai suoi ambasciatori ottime referenze suMonteverdi candidato alla successione, il 19 ago-sto del 1613 lo insediò solennemente come Mae-stro di cappella in San Marco, incarico onorato pertrent’ anni esatti, fino alla fine della sua vita. La raccolta musicale pubblicata dall’Amadino, allaquale accennava il cantore ducale Cassola nella sualettera del luglio 1610, conteneva, a suo dire, dueblocchi di composizioni, ambedue destinati ai ritidella liturgia cattolica solenne: la Messa e l’Ufficiodelle Ore, di cui il Vespro, costituisce la parte piùimportante e maggiormente esemplificata sotto ilprofilo musicale nel corso dei secoli; ambedue, adetta dello stesso Cassola, costruiti sopra cantifermi: un mottetto polifonico del Gombert nel casodella Messa; il Canto gregoriano ( toni salmodiciper i cinque salmi ed il Magnificat, e la relativa in-tonazione dell’inno ‘Ave Maris Stella’), nel casodel Vespro. Messa e Vespro, infine, basati sulleparti cosiddette fisse (Ordinarium) dei rispettivi

Quattro secoli fa, a Venezia, Monteverdi pubblicava unasua opera liturgica - Vespro (1610) - ricca di straordinarie in-venzioni; ancorata al passato, gregoriano, protesa al futuro

della musica concertante. Uno o più ‘Vespri’ dedicati allaVergine Maria?

di pietro acquafredda

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riti; le quali, limitandoci al Vespro, sono - dopo laconsueta intonazione: Deus in adutorium meum in-tende,…- cinque salmi, l’inno (Ave Maris Stella,per la liturgia delle feste mariane) e il Magnificat.Ma nel Vespro monteverdiano del 1610, secondo1’ edizione dell’ Amadino, fra le parti fisse compa-iono alcune composizioni che sollevano non pochiinterrogativi sull’identità e sui singoli componentidella raccolta. Prima di entrare nel dettaglio del Ve-spro, in particolare nelle questioni tuttora irrisoltedella sua conformazione, val la pena rammentareche del Vespro non esiste una partitura generale,essendo stato stampato - secondo il costume dell’epoca - in parti staccate: otto fascicoli: sette (unaciascuna per le parti della composizione): Cantus(soprano), Sextus (soprano II), Altus, Tenor, Quin-tus (tenore II), Bassus, Septimus (basso II); e l’ot-tava per il Bassus generalis. Le parti strumentalierano riportate, a seconda dei corrispondenti regi-stri, negli stessi fascicoli destinati alle voci; e per-ciò sul Bassus generalis correva la sola nota del“continuo”, salvo i casi in cui Monteverdi, deside-rando suggerire precise realizzazioni del mede-simo, lo arricchì con brandelli di partitura o passischematici della stessa. Partiamo dal frontespiziodell’edizione a stampa. Gli otto fascicoli hannoidentico frontespizio, il quale, nel fascicolo del‘Cantus’, recita: “ SANCTISSIMAE/VIRGINI/MISSA SENIS VOCIBUS/ AD ECCLESIASTI-COS CHOROS /AC VESPERAE PLURIBUS/DECANTANDAE,/ CUM NONNULLIS SACRISCONCENTIBUS, ad Sacella sive Principum Cubi-cula accomodata. OPERA/ A CLAUDIO MONTE-VERDE/ nuper effecta/ AC BEATISS. PAULO VPONT. MAX. CONSECRATA. Venetijs, ApudRicciardum Amadinum. MDCX.” (“Alla Santis-sima Vergine/ Messa a sei voci/ per i cori ecclesia-stici/ e Vespri da cantarsi a più (voci)/ con alcuniSacri Concenti / adatti alle cappelle ed alle cameredei Principi/ opera di Claudio Monteverdi/ da pococomposta/ e consacrata al beatissimo Paolo V Pon-tefice Massimo/ Venezia presso Ricciardo Ama-dino. 1610».Sul verso del frontespizio la lunga devota dedica alPapa e la data: Venezia, 1 settembre 1610, che cosìinizia: “ Res quasdam Ecclesiasticas modulis Mu-sicis concinendas, quum in luce emittere vel-lem…” ( volendo io dare alla luce alcune coseecclesiastiche da cantare sui modi musicali…”), laquale sembra anticipare quanto si legge a pag. 9del Bassus generalis, avanti l’attacco del ‘Dominead adiuvandum’: “Vespro della Beata Vergine da

concerto, composto sopra canti fermi”, intestazioneche, a sua volta, richiama alla lettera quanto prean-nunciato dal cantore Bassano Cassola al cardinaleFerdinando Gonzaga: «salmi del Vespero della Ma-donna, con varie et diverse maniere d’inventione etarmonia, et tutte sopra il canto fermo». Ci si po-trebbe domandare come mai il Cassola, annun-ciando la stampa del ‘Vespro’ monteverdiano, neciti solo i salmi. La risposta potrebbe essere che isalmi sono magna pars del Vespro, cinque su settenumeri, dai quali resterebbero esclusi solo l’Inno‘Ave Maris Stella’ ed il Magnificat; e dunqueavrebbe indicato la parte ( più rilevante) per iltutto. Resta da esaminare a fondo la stampa del-l’Amadino per venire a capo dell’esatta identifica-zione del Vespro monteverdiano, lasciando fuori laMessa che non presenta, invece, analoghi pro-blemi. Tolta la Messa, il frontespizio sembra dircichiaramente che il restante contenuto della stampaè costituito da due blocchi: il Vespro ed i SacriConcenti. Il problema sarebbe perciò solo appa-rente se questi due blocchi, chiaramente distinti nelfrontespizio, non comparissero intrecciati ed inter-calati, nella pagine dell’edizione dell’Amadino.Cioè a dire quelli indicati dal Monteverdi come‘Sacri Concenti’, distinti dal Vespro vero e proprio(comprendente tutte le parti dell’ Ordinarium, ecomposte ‘sopra canti fermi’), compaiono nellastampa fra un salmo e l’altro, il che ha fatto con-cludere a più d’uno studioso che quei « sacri con-centi» andavano intesi come ‘obbligatori’ sostitutidelle antifone dei salmi, al momento della previstaripetizione dopo il canto del salmo, e, di conse-guenza, come parti ‘integranti’ del Vespro del1610. Se poi i testi dei ‘Sacri concenti’( più preci-samente: mottetti solistici o dialogici – ‘motetto aduna voce’ è il termine che lo stesso Monteverdi,nell’edizione dell’Amadino, usa per ‘Pulchra es’ ,primo dei cinque ‘Sacri concenti’) non appartene-vano tutti alla liturgia vespertina mariana ufficiale,non doveva meravigliare più di tanto in un’epocain cui gli arbitrii liturgici erano all’ordine delgiorno, come desumiamo dai frequenti richiami al-l’ordine spediti da Roma all’indirizzo di cattedralie cappelle nobiliari di un certo prestigio, e comeavrebbero potuto far supporre i privilegi dellaChiesa “ducale” di Santa Barbara in Mantova, nelcaso in cui si fosse dimostrato che ad essa Chiesaducale fosse rivolta l’importante e complessaopera; ipotesi scartata quando si è presa cono-scenza della liturgia ‘privilegiata’ della BasilicaDucale, attraverso i relativi libri liturgici.

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Ci fu , nel lontano passato, chi intese giustificarel’estraneità ‘mariana’della maggior parte dei testidei Sacri Concenti, basandosi sull’annotazione ap-posta da Monteverdi nell’edizione a stampa, sulBassus Generalis, dove - come abbiamo già detto -si legge “ Vespro della beata Vergine da concerto”,dando per scontato ciò che scontato non è affatto ecioè che esistesse all’epoca di Monteverdi unadoppia pratica del Vespro, una ‘liturgica’ ed una‘da concerto’; e che in un Vespro ‘da concerto’ogni arbitrio fosse a maggior ragione consentito;laddove, invece, quella espressione monteverdianasta ad indicare lo stile ‘concertante’ del Vespro, di-stinto nettamente dalla Messa, in stile ‘contrappun-tistico severo’, e dai Sacri Concenti, che sononello stile solistico ‘ da camera’.Dunque i Sacri Concenti - basandosi su una lectio‘facilior’ della edizione veneziana, sarebbero dellealternative ‘obbligatorie’ alla ripetizione delle an-tifone gregoriane già ascoltate prima di ciascunsalmo - costume peraltro assai diffuso. Non solo,questa interpretazione sarebbe confermata dal fattoche Monteverdi, se li aveva messi in quella posi-zione, voleva dirci che li considerava parte inte-grante del Vespro e nello stesso ordine disuccessione seguito dall’autore che è quello pro-gressivo in base al numero di voci impiegate; diconseguenza, secondo tale ipotesi, se li si espun-gesse dal Vespro, ma anche se, semplicemente, sicambiasse l’ordine di esecuzione ne andrebbe dimezzo l’integrità musicale del Vespro, comel’aveva disegnato Claudio Monteverdi. Siamo arri-vati al cuore del problema esegetico della configu-razione del Vespro monteverdiano del 1610. Se sieseguono, alternate alle rispettive antifone grego-riane che la stampa monteverdiana non riporta , leparti fisse (Ordinarium) del Vespro ( Responsorioiniziale, i cinque salmi, l’Inno’ Ave Maris Stella’ eil Magnificat, tutte costruite sopra canti fermi gre-goriani e in stile concertato) si interpretano fedel-mente le intenzioni di Monteverdi, oppure viene amancare qualcosa alla completezza del Vespro ?Forse le ragioni che indussero Monteverdi a confe-zionare e pubblicare l’interessante raccolto può re-carci qualche utile aiuto esegetico. E’ lecitoipotizzare che, volendo presentare al ponteficePaolo V un saggio della sua maestria, il musicistaabbia inserito nella raccolta anche brani che servi-vano solo a far vedere come egli maneggiasse abil-mente i diversi stili compositivi in uso nella musicasacra, senza preoccuparsi della loro congruità conil rito liturgico? In fondo, sia l’autore che il dedica-

tario, Paolo V, non avrebbero avuto nessun pro-blema ad identificare sia il Vespro che la Messa,ambedue composti delle sole parti fisse (Ordina-rium), com’era costume consolidato da secoli, edambedue identificabili anche sotto il profilo stili-stico, perchè costruiti sopra canti fermi. Inoltrel’ordine con cui compaiono nella stampa i cinqueSacri Concenti (per la verità quattro: Nigra sum’,‘Pulchra es’, ‘Duo Seraphim’, ‘Audi Coelum’; conl’aggiunta della ‘Sonata sopra Sancta Maria’) innumero crescente di voci impiegate, dovrebbe in-durre a pensare che il loro inserimento e soprattuttol’ ordine di comparizione, anche ammesso cheMonteverdi li abbia intesi come possibili sostitutidelle antifone alla fine dei salmi, sia risoluzione as-sunta in previsione della organizzazione del conte-nuto della edizione ( e perciò anche nell’ipotesi chenoi rigettiamo, quella cioè che vorrebbe far rien-trare nel Vespro, il Deus in adiutorium i cinquesalmi, l’inno ed il Magnificat ma anche i cinqueSacri Concenti) l’ordine di successione potrebbeanche cambiare. A questo punto dobbiamo porci ladomanda cruciale relativa all’identificazione delVespro monteverdiano. E se li si omettessimo tuttio in parte, i Sacri Concenti, l’integrità del Vespromonteverdiano risulterebbe compromessa o sa-rebbe sempre e comunque salvaguardata, in basealla consolidata consuetudine che vuole Messe eVespri musicali consistere nelle sole parti fisse(Ordinarium) di ambedue i riti liturgici, e che,oltre tutto, nel Vespro nonteverdiano appaionostrettamente legate dal medesimo stile ‘concer-tante’, e dalla medesima costruzione sopra ‘cantifermi’? Né va omesso che la consuetudine di into-nare della Messa e dei Vespri le sole parti fisse, hafatto sì che Messe e Vespri potessero essere cantatiin più di una festività liturgica - nel nostro casonelle infinite feste dedicate alla Vergine Maria, pre-viste dalla liturgia cattolica; mentre invece, l’into-nazione contemporanea delle parti ‘fisse’(‘Ordinarium’) e di quelle cosiddette ‘mobili’(‘Proprium’ delle singole festività) avrebbe legatoquel gruppo di composizioni, concepito unitaria-mente, ad una specifica festività, limitandone per-ciò l’uso ad una sola festività dell’anno liturgico.Per tornare al problema dell’identificazione delVespro monteverdiano, c’è anche un altro elementoche ci fa propendere per la tesi ‘difficilior’, da pre-ferirsisempre seconda la migliore pratica esegetica,per la quale esso consisterebbe nelle sole parti del-l’Ordinarium. A dispetto delle apparenze, ci fa-rebbe dire l’aurea regola esegetica. L’edizione

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dell’Amadino, infine, ha anche un secondo ele-mento che lo assimila ad un catalogo, ad un florile-gio di composizioni ‘ad Vesperas’, fatta eccezioneper la compattezza ed unitarietà dell’Ordinarium, ecioè la presenza di un Magnificat secondo, diversodal primo, e non solo per l’assenza dei ritornellistrumentali, a proposito dei quali, nella stessa edi-zione, all’altezza del primo salmo, Dixit Dominus,si legge ‘ Li ritornelli si ponno sonar e anche trala-sciar secondo il volere’.

L’edizione di Ricciardo Amadino ( 1610)

1. Domine ad adiuvandum. ‘Sex Vocibus et sexInstrumentis si placet’.(È la risposta al celebrante che in apertura del Ve-spro canta ‘Deus in adiutorium meum intende’. Levoci rispondono in stile omofonico, mentre glistrumenti propongono, rielaborata ma riconoscibi-lissima, la fanfara della ‘Toccata’ che apre l’Orfeo,fatto rappresentare nel 1607 e stampare nel 1609).2. Dixit Dominus. Salmo. ‘Sex vocibus et sex in-strumentis, si placet’.‘Li Ritornelli si ponno sonaret anco tralasciar secondo il volere’. ( E’ il salmo109, primo dei cinque dell’ordinario dei Vespri perle festivitò della Beata Vergine. E’ composto soprail quarto tono salmodico; le quattro coppie di ver-setti sono separate da brevi ritornelli strumentaliper i quali una nota dell’autore avverte che si pos-sono anche tralasciare, seconod il volere). 3. Nigra sum. ‘Motetto ad una voce’.(Il primo dei Sacri Concenti inserito fra i Salmi. Iltesto, tratto dal biblico ‘Cantico dei Cantici’, è affi-dato ad un a voce sola, tenore, con accompagna-mento del semplice contionuo dell’organo. E’l’unico testo che compare nella liturgia vespertinadelle feste dedicate alla Vergine, anche se non fra ilprimo e secondo Salmo, come appare in questaedizione. Monteverdi ne adotta una versione piùlunga di quella in uso nella liturgia, perché viu in-corpora il testo di un’altra antifona mariana. E’ ilprimo dei brani non costruito ‘sopra canti fermi’gregoriani; Monteverdi, nel classificarlo, adotta ladizione ‘motetto’, assai curiosa per un brano cheavrebbe dovuto sostituire la ripetizione dell’ anti-fona gregoriana fra i salmi).4. Laudate Pueri. Salmo.‘A 8 voci sole ne’l Or-gano’.(Salmo 112, composto sopra l’ottavo tonosalmodico gregoriano).5. Pulchra es. ‘A 2 voci’. ( Tratto anche questo dal‘Cantico dei Cantici’ e destinato a due voci di so-prano, è il secondo dei brani non costruito ‘sopra

canti fermi’).6. Laetatus sum. Salmo.‘A sei voci’( e continuo,organo) (Salmo 121, terzo del Vespro, costruitosopra l’ottavo tono salmodico gregoriano, traspor-tato però alla quarta superiore).7. Duo Seraphim. ‘Tribus vocibus’( e continuo,organo). ( Tratto dal ‘Libro di Isaia’ e, nella se-conda parte, dalla Prima Lettera di San Giovanni’.Affidata inizialmente a due tenori, dalle parole ‘Tres sunt’ in poi si unisce una terza voce, ‘altus’.Terzo dei brani non costruito sopra ‘canti fermi’gregoriani, non appartiene alla tradizione liturgicao devozionale mariana, semmai a quella trinitaria).8. Nisi Dominus. Salmo.’A dieci voci’.(Si tratta del Salmo 126, composto sopra il quintotono salmodico. Le dieci voci sono distribuite indue cori).9. Audi coelum.’Prima ad una voce sola, poi nellafine à sei voci’. (Il testo non appartiene alla tradi-zione biblica o patristica, bensì alla ricca tradizionedevozionale. La prima parte è per una voce sola(tenore) alla quale risponde «in Echo» una secondavoce, anche questa di tenore. Nella parte del Bas-sus generalis v’è l’indicazione di ‘Forte’ e ‘Piano’rispettivamente per il primo tenore e per il secondoche risponde in eco. La seconda parte è, invece, asei voci come avverte la stampa:’Qui entrano lealtre cinque parti a cantare’).10. Lauda Jerusalem. ‘A Sette voci’.(Salmo 147, quinto del Vespro della Beata Vergine,composto sopra il terzo tono salmodico, a due cori.La ripetizione del canto fermo del tono salmodicoè messa in particolare evidenza durante l’interosalmo).11. Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis.(È a 9 parti: la parte vocale, affidata al Cantus -‘parte che canta sopra la sonata a 8’- intona 11volte l’invocazione alla Vergine, sempre con lastessa melodia, come si usa nelle litanie da cui ètratta.Gli 8 strumenti sono così specificati: ‘Violinoda brazzo I ; Violino da brazzo II; Cornetto I; Cor-netto II; Trombone o vero viola da brazzo - Violada brazzo –Trombone -Trombone doppio’). 12. Ave Maris Stella. ‘Hinno Ave Maris. à 8’ .(È l’Inno del Vespro della Beata Vergine, costruito-come i cinque salmi- sull’omonimo inno grego-riano, ma con la tecnica della melodia gregorianaarmonizzata, composto da sette strofe: la prima el’ultima affidate ad un doppio coro, di quattro vociciascuno; la seconda e la terza per coro a quattrovoci; la quarta, la quinta e la sesta destinate, in-vece, a voci soliste. La melodia si ripete sempre

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identica per tutte le strofe dell’inno).13. Magnificat. ‘A sette voci, e sei instrumenti’.(Composto sopra il primo tono salmodico traspor-tato alla quarta superiore, è diviso in dodici epi-sodi, affidati ad organici vocali-strumentalidifferenti, come prescrive, episodio dopo episodio,il Bassus generalis. Ai sei strumenti base prescrittiall’inizio altri se ne aggiungono nel corso delbrano).14. Magnificat. ‘A 6 voci’. (Composto, come il precedente, sopra il primotono salmodico trasportato alla quarta superiore ediviso in dodici episodi prevede, a differenza diquello, il solo accompagnamento del continuo del-l’organo, per la cui realizzazione il Bassus genera-lis suggerisce i registri. È la versione semplificatadel precedente; o, se si vuole, il primo è la versionepiù solenne di questo secondo).

Uno o più Vespri di Monteverdi

nella raccolta del 1610?

Veniamo ora alle varie ipotesi formulate nel tempodagli studiosi. Tre almeno. Prima ipotesi. La più restrittiva. Il Vespro ( 1610)è composto esclusivamente dalla risposta (‘Do-mine ad adjuvandum me festina’) all’intonazione‘gregoriana’( ‘Deus in adjutorium meum intende’)- non va sottovalutata la modalità ‘gregoriana’dell’introduzione del celebrante, in quanto avvial’alternanza fra gregoriano e stile concertante perle parti dell’Ordinarium dei Vespri - dai cinqueSalmi, dall’Inno Ave maris stella e dal Magnificat.Le quali parti presentano, inoltre, una forte unitàstilistica e compositiva: stile concertante ed im-piego del ‘cantus firmus’ gregoriano. Sebbenepossa apparire la più restrittiva, questa interpreta-zione è quella che apre al Vespro monteverdiano lapiù ampia possibilità di impiego. E i Sacri Con-centi? Monteverdi li avrebbe inseriti nella raccoltasolo per dimostrare ai suoi estimatori, ma anche aisuoi detrattori, che sapeva maneggiare ogni stile dicomposizione, compreso quello del canto da ca-mera solistico, impiegato nei Sacri Concenti, di piùlargo impiego nel melodramma e nella musica dacamera profana, senza per questo volerli conside-rare parti integranti del suo Vespro (1610).Seconda ipotesi. Questa seconda considera il Ve-spro formato da tutte le parti che nella stampa dell’Amadino appaiono dopo la Messa, sulla cui identi-ficazione, per fortuna, non v’ è ombra di dubbio.Perciò dal ‘Domine ad adiuvandum me festina’,

fino al ‘Magnificat’ tutto è da considerare facenteparte del Vespro e tutto va eseguito, e nell’ ordinein cui si presenta (ad eccezione del secondo Ma-gnificat, che del primo rappresenta solo un’alterna-tiva ). Ciò porterebbe a dire che se non si eseguonotutti i ‘concenti’, compresa la ‘Sonata sopra SanctaMaria’, od anche uno solo di essi, si attenta al-l’unità del Vespro monteverdiano. Sembra questal’ipotesi esecutiva abbracciata, ad esempio, da que-gli interpreti che prima dei cinque salmi e del Ma-gnificat opportunamente inseriscono le antifonegregoriane che costituiscono, nel loro assieme, leparti mobili (o Proprium del Vespro).Terza ipotesi infine. Il Vespro monteverdiano ècomposto dalle parti fisse del corrispondente ritomariano; mentre i concenti costituiscono un reper-torio dal quale il maestro di cappella può attingereora uno ora l’altro per questa o quella festività ma-riana, come sostitutivo della ripetizione dell’ anti-fona gregoriana. Perché Monteverdi non ha messotutti i sacri concenti alla fine del Vespro canonico?Il dubbio è legittimo. Forse perché intendeva sug-gerire non tanto la successione od il numero com-plessivo, quanto semplicemente che ciascuno diessi apparteneva a quel repertorio, dal quale cavaread libitun una novità da offrire fra le parti fisse che,anche nelle festività solenni, sono sempre uguali. Come accadeva nell’analogo repertorio dellaMessa, dove si cantavano le parti fisse di una delletante Messe polifoniche, aggiungendovi, in specialioccasioni, un mottetto di nuova fattura. È evidenteche in sede concertistica - come oggi è possibilefare - si possa comunque eseguire l’intera raccolta,senza porsi il problema liturgico-musicale del-l’identificazione del Vespro. Ma se si vuole chel’esecuzione concertistica sia il più vicino possibilea quella liturgica - obiettivo non solo lodevole, maauspicabile - allora tale problema non può esseresempre eluso, neppure in sede concertistica.Ed ora una quarta (nostra) ipotesi.

Quell’edizione a stampa potrebbe perfino essere larappresentazione di “un” Vespro di Monteverdi,così come forse (?) venne eseguito in una occa-sione solenne ed in tempi assai prossimi alla suapubblicazione, con il dispendio di mezzi previstofra parti corali, solistiche e strumentali. Ma non per questo deve necessariamente conside-rarsi “il” Vespro di Monteverdi, pubblicato a Vene-zia nel 1610. Il quale, più verosimilmente ed arigor di logica e tradizione, è composto delle soleparti costruite sopra canti fermi ed in stile concer-tante.

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la patria Della culturaDoVe MaNca la cultura

Della culturaCultura, cronache dall’asteroide Italia

L'asteroidde Italia si è perso nello spazio. Di-mentichi del pianeta in cui fino a ieri abbiamo

vissuto, sempre meno ci confrontiamo con gli altri,sempre più serriamo le finestre, chiudiamo achiave non le porte, ma i nostri occhi.Attardato in un thatcherismo-reaganismo di ma-niera, chi ci governa sbandiera le superiori ragionidella crisi per giustificare i tagli a ogni investi-mento in cultura, dai musei alla scuola elementare,dalla musica alla ricerca. Senza sospettare, a quelche sembra, che quella retorica aziendalistica è ob-soleta (a cominciare dall'America di Obama) per-ché si è infranta contro i problemi che ha creato,inclusa la crisi finanziaria in cui navighiamo avista. Senza nemmeno immaginare che i Paesi piùavvertiti (come gli Usa) investono in cultura preci-samente per reagire alla crisi, per preparare unastagione più favorevole giocando d'anticipo, pun-tando sulla cultura perché crea innovazione, favori-sce lo sviluppo, promuove democrazia eresponsabilità. La "sinistra", troppo occupata a rincorrere la Legae Berlusconi sul loro stesso terreno in un cupio dis-solvi per definizione perdente, non muove un ditoper correggere il tiro, anzi lietamente contribuiscea spingere l'asteroide ulteriormente fuori orbita. Al-legria di naufraghi.Vincenzo Cerami sull' Unità e Gioacchino LanzaTomasi sul Sole hanno lapidariamente osservatoche alla sinistra (come del resto alla destra)«manca la cultura della cultura». Non è un gioco diparole. Cultura della cultura vuol dire (sul pianetaTerra) riflettere, anzi sapere che le attività artisti-che, la creazione letteraria, la ricerca scientifica,iprogetti museografici, la scuola hanno una fun-zione alta e insostituibile nella società. Sono, anzi in Italia furono, luoghi di consapevo-lezza e di educazione alla creatività, alla democra-zia e ai valori civici e identitari: il cuore di quellacapacità di crescita endogena che i migliori econo-misti individuano come uno stimolo potente all'in-novazione e all'occupazione non di quei settorispecifici, ma di una società nel suo insieme. Ep-

pure destra e "sinistra" troppo facilmente concor-dano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esi-genze dell'Economia di Crisi e all'InevitabileFederalismo (del quale ultimo, peraltro, nessunoindugia a calcolare i costi devastanti). Allargando le braccia, e magari fingendo di vergo-gnarsi, si tagliano le spese in cultura, dando perscontato che beni culturali, teatro, ricerca siano op-tional a cui dedicare solo il superfluo (che non c'èmai).Quasi un anno è passato da quando Baricco haaperto su Repubblica (24 febbraio 2009) un'ampiadiscussione sugli investimenti in cultura. In tempidi crisi, questa la sua tesi, non si può pensare che lacultura sia finanziata con fondi pubblici. È arrivatoil momento di scegliere. Basta soldi di Stato al tea-tro, puntiamo sulla scuola e la televisione, le solecose che contino «nel paesaggio che ci circonda»(per la loro dimensione di massa). Quanto al teatro, all'opera lirica e così via, «megliolasciar fare al mercato e non disturbare», tanto piùche «se non sono stagnanti, poco ci manca». Ergo:non tagliare fondi a musica e teatro, ma spostarliintegralmente sulla scuolae la televisione, «il Paesereale è lì». Proposta volutamente provocatoria, chea destra come a sinistra fu presa troppo spesso allalettera, suscitando qualche esultanza di troppo (peresempio, dei ministri Brunettae Bondi). Proviamo dunque, prendendola alla lettera, a farcia voce alta due domande. Prima domanda: oltre ascuola, televisione e teatro, quale è il posto di altre"voci", come ricerca, università, musei e monu-menti? Anch'essi non fanno più parte del Paesereale? Dobbiamo (a “sinistra” come a “destra”) ve-stire il cilicio e chiedere al governo, flagellandoci,di indirizzare anche quelle già scarse risorse su te-levisione e scuola? “Spostate quei soldi”, scrivevaBaricco, e intendeva quelli del teatro: ma siamo si-curi che per una delle “voci” della cultura si pos-sano usare sempre e solo i soldi di altre "voci"della stessa natura? Perché non possiamo dire: “spostate soldi” sullacultura, ma prendendoli da opere costose e dannosecome il minacciato Ponte sullo Stretto, dal cosid-detto salvataggio Alitalia che ha borseggiato il con-

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tribuente, o riducendo i costi della Tav (il quadru-plo, per chilometro, che in Francia)? Lista, inutiledirlo, che può allungarsi a piacimento. E perchénon proviamo a recuperare anche solo in parte lagigantesca evasione fiscale, in cui l'Italia detiene ilrecord mondiale (300 miliardi l'anno di imponibilenon dichiarato secondo il Corriere della Sera ). Ameno che l'evasione non sia “in sintonia con l'in-timo sentimento di moralità”, come dichiarò Berlu-sconi in un discorso alla Guardia di Finanza (11novembre 2004).Seconda domanda: ma in quale Paese al mondo siè mai dovuto scegliere fra scuola e musica, fra tele-visione e teatro? Perché non è possibile promuo-vere tutte le attività culturali? Negli Stati Uniti,persino i biglietti per andare all'opera sono deduci-bili dal reddito (e in tal modo indirettamente finan-ziano il teatro). Ha mille volte ragione Baricco dichiedere più soldi per la scuola e una decente Tvpubblica che recuperi (se mai è possibile) il de-grado culturale che proprio la televisione, privata epubblica, va consolidando. Ma i tagli degli ultimianni (con governi d'ogni segno) a beni culturali eteatro non si sono tradotti in vantaggi né per la Tvné per la scuola. Incrementare le risorse dellascuola è essenziale; ma perché farlo strappando ri-sorse ad altre "voci" del già magrissimo panieredella cultura? Se nell'asteroide Italia queste do-mande trovano così poche voci convinte, a destraesattamente come a "sinistra", è perché vi manca lacultura della cultura. Celebrando i funebri ritualidella crisi, tappandoci gli occhi davanti all'eva-sione fiscale e agli sprechi in spese pubbliche nonnecessarie anzi dannose, dovremo veder morirel'opera lirica o il museo che in Italia sono nati, e in-tanto prosperano sul pianeta Terra, da Berlino aNew Yorka Melbourne? Dovremo assistere impo-tenti alla devastazione del paesaggio culturale ita-liano (e, non dimentichiamolo, allacementificazione del paesaggio reale)? A quel chepare, anche la "sinistra" ha innalzato a principio su-premo quello che Keynes chiamava «l'incubo delcontabile», e cioè il pregiudizio secondo cui nullasi può fare, se non comporta immediati frutti eco-nomici. «Invece di utilizzare l'immenso incrementodelle risorse materiali e tecniche per costruire lacittà delle meraviglie, abbiamo creato ghetti e bas-sifondi; e si ritiene che sia giusto così perché "frut-tano", mentre - nell'imbecille linguaggioeconomicistico - la città delle meraviglie potrebbe"ipotecare il futuro"». E Keynes continua: questa«regola autodistruttiva di calcolo finanziario go-verna ogni aspetto della vita. Distruggiamo le cam-pagne perché le bellezze naturali non hanno valore

economico. Saremmo capaci di fermare il sole e lestelle perché non ci danno alcun dividendo». Sor-gerà mai, nell'asteroide Italia, una sinistra capacedi capire che chiudere teatri e musei sarebbe comefermare il sole e le stelle?

Salvatore Settis

(La Repubblica, 18.2.2010)

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Incultura

Gli orchestrali che hanno suonato nel concertodi Capodanno alla Fenice di Venezia, avevano

nel taschino della giacca un nastro tricolore. Èstato un segno di protesta per i pesanti tagli alleFondazioni liriche inferti dal governo. Perché il na-stro bianco, rosso e verde? Per ricordare agli ita-liani che si sta uccidendo una loro grandeeccellenza di prestigio mondiale: la musica.Al di là della specifica e annosa questione deglienti lirici, mai risolta, nel vedere quella sorta diumiliata decorazione appesa agli occhielli dei mu-sicisti, mi sono chiesto subito qual è il punto divista del mio partito, del PD, sull’argomento, e so-prattutto se il nuovo assetto messo in piedi daD’Alema–Bersani ha un qualche interesse per laCultura e per l’Arte del nostro Paese. Rispondosenza esitazione: no, non ha alcun interesse per laCultura e per l’Arte, perché, né più né meno delladestra, non possiede la cultura della cultura. La no-stra classe al potere proviene dalla ex piccola bor-ghesia, tradizionalmente sottoculturale quando nonsmaccatamente anticulturale. Sia per Tremonti cheper Bersani la cultura è un passatempo, un hobbydi cui si può fare a meno in tempo di crisi econo-mica. Addolora che il PD, sull’argomento culturanon abbia nulla da dire.Mi servirebbe molto più spazio per dimostrare conobiettività che il Pd, buttando a mare la cultura, faun errore di pesanti dimensioni. Dimostra di volerstaccare la spina da ciò che lo collega alla realtàpiù profonda degli italiani, e che non tiene più ingiusta considerazione gli studiosi e gli artisti delnostro Paese, da sempre appartenenti, in maggio-ranza, all’area della sinistra. Il Pd consegna il suopiù prezioso capitale ad altre forze politiche (Ah,se Di Pietro fosse meno piccolo borghese!). Sonoconvinto che se il Pd perde per strada l’Italia del li-bero pensiero, non gli resta che il mero, burocra-tico, tristissimo conto delle tessere.

Vincenzo Cerami

(L’Unità, 3.I. 2010)

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44 - Letto sulla stampa

Destra e sinistra per me pari sono:

manca a tutti la cultura della cultura

Un paio di settimane fa Vincenzo Cerami, scrit-tore, come si è firmato umilmente sull'Unità,

si è chiesto se “il nuovo assetto messo insieme daD'Alema-Bersani abbia un qualche interesse per lacultura e per l'arte del nostro Paese”. E la riposta èstata: “Senza esitazione: no. Perché la sinistra népiù né meno della destra non possiede la culturadella cultura”. A una persona della mia generazionequesta constatazione è giunta come conferma delmalessere in cui si trova più di un elettore della si-nistra. L'intervento di Cerami prendeva le mosse da unaprotesta ormai endemica dei dipendenti delle fon-dazioni lirico-sinfoniche. Ma il problema non èquello di difendere 6mila fra i più tutelati dipen-denti pubblici della nostra repubblica - tanta è l'oc-cupazione del comparto - quanto di ripercorrerecosa ha significato la parola cultura nel Pci deglianni Sessanta.Quando veniva varato lo statuto dei lavoratori, lasinistra intera soffriva di un ritardo progettualenella comprensione dello sviluppo industriale.L'analisi marxiana del plusvalore risaliva alle ori-gini della fabbrica reso possibile dalla macchina avapore. L'industria offriva ai compratori prodotti inquantità impensabile al tempo dell'artigianato. Ilprofitto era certo, come lo è stato di recente il pro-fitto nelle tecnologie informatiche. Donde la teoriadi un plusvalore assicurato che andava ridistri-buito. Al diffondersi delle tecnologie si entra nel-l'era della concorrenza. Ora la fabbrica può fallire,e stiamo attraversando una congiuntura dovespesso fallisce. Lo statuto dei lavoratori si è appog-giato su queste premesse. La tutela a prescinderedall'esistenza del plusvalore. Le conseguenze,come ritardo storico, sono sotto gli occhi di tutti.Differente era invece la presenza della sinistra nelcampo culturale. Essa discendeva dalla tesi dell'in-tellettuale organico gramsciano. Il rapporto con gliintellettuali e gli artisti si trasformò in un laborato-rio di fermenti critici, di partecipazione al valorespeculativo dell'attività artistica. La sinistra, nelconnaturato anticonformismo della ricerca arti-stica, nella denuncia del mondo mercificato portataavanti dalla scuola di Francoforte, trovò allora so-stegno per affrancarsi dal fondamentalismo, peruscire dalla logica degli schieramenti che divide-vano l'Europa. La presenza di Giorgio Napolitanoalle prime di Nono e Abbado testimoniava l'atten-zione della sinistra a un mondo non omologato, lasperanza che l'arte potesse anche correggere la po-

litica, la deriva di un politica tentata dalla sola ri-cerca del consenso.Si cercava allora uno spirito nelle cose, la storiadella creatività artistica era la storia del diverso.Era la storia di singoli e di gruppi che attestavanola nostra ansia metalinguistica o magari metafisica.Si leggevano le grandi storie delle civiltà: Hui-zinga, Chastel, e poi Panofsky e Gombrich. Si ci-tava Mondrian: “Nessun pittore ha dipinto unalbero perché ha visto un albero, ma perché havisto come altri pittori hanno dipinto un albero”.L'universo fisico non soddisfa la nostra cono-scenza, e senza una ricerca continua su quel chel'universo fisico ha rappresentato nella storia del-l'uomo non si rende giustizia alla sua natura duale:soggetto alla legge della causa ed effetto, ma aquesta contestualmente ribelle.Nell'Italia telecraticamente governata, come di-rebbe Vanni Sartori, cosa resta della nostra anticaillusione? A sinistra poco o niente. Quando il sin-daco di Bologna (Bologna!) sceglie come assessorealla Cultura Nicoletta Mantovani, seconda mogliedi big Luciano si capisce che la serie delle vittorieelettorali di Berlusconi non è conclusa. Venditoreimpareggiabile e inimitabile, ha costretto l'avversa-rio a battersi sul proprio terreno. Cosa propone l'as-sessore alla Cultura? Un memorial concertisticoPavarotti che si incaglia in un mare di impicci. For-tuna vuole che in questi giorni radio Classica abbiatrasmesso un Trovatore anni Settanta con Pavarottidal Met diretto da James Levine. Ho risentito lavoce adorata, il suono e la scansione di Lucianoprima dell'ippica e dei concerti connessi. Il sindacoafferma che la Mantovani sarà un mago deglieventi. Ma non sa quello che fa. Mentre Berlusconisa quel che fa quando mette in campo la Carfagna.In tanto grigiore al ministero per i Beni culturali sivive una stagione bonapartista senza che la sinistrase ne accorga. Vi è un manager per la gestione eco-nomica delle antichità e belle arti, la gestione dellefondazioni liriche è data a vari manager che nonhanno alcuna idea del prodotto da smerciare, inbarba anche alla legge che parla quantomeno diesperti del settore, e si parla di una riforma senzasognarsi di effettuare una ricognizione sulla ge-stione dello spettacolo musicale nei principali paesidella comunità europea. Dati e cifre sono scomodi. Nel 2009 le sofferenzedelle fondazioni sono a quota 290 milioni, dati for-niti dal ministro nella audizione in Senato, masempre 28 ore lavorative a settimana per i profes-sori d'orchestra. Quando le ore lavorative delle or-chestre sono 20 per le file e 16 per le prime partialla Scala ed altrove.

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Eppure in tanto grigiore Milano si distingue.Quando la Scala riuscì a perdere in un sol colpo ilpiù italiano dei grandi direttori d'orchestra e il ma-nager più lodato dell'area socialista, Berlusconi,cui fa difetto la prudenza della parola, affermò cheper lui il pozzo senza fondo della Scala potevaanche andar a farsi benedire. Ma Bruno Ermolli sifece dar la delega, riempì d'acqua il pozzo (7-10milioni di perdita l'anno e molto più in apporto ca-pitale) e invece di prendere un manager decise cheil sovrintendente sarebbe stato scelto fra i grandiprofessionisti europei. Stéphane Lissner potrà pia-cere o non piacere, ma quando impagina un con-certo in onore di Placido Domingo propone ilprimo atto della Walküre con Nina Stemme, la mi-glior voce wagneriana del momento, e lo dirigeDaniel Barenboim. A Verona il concerto Domingodi luglio era stato una rassegna di arte varia. LaLega veronese continua a pensare che l'Arena so-cialpopolare sarà fonte di reddito. Ma in pochi annila moneta buona scaccerà la cattiva. Verona sarà un

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luogo di dopolavoristi e Salisburgo continuerà acrescere. E poi vi è sempre la trahison des clercs.Mimmo de Masi conosce McLuhan meglio di me,ma non vede nella frase “il mezzo è il messaggio”un segnale d'allarme. Ne fa anzi la propria lineaoperativa. Inaugura l'auditorio di Niemeyer a Ra-vello con la fanfara dei carabinieri e prosegue conun concerto di Lucio Dalla. Il deprecato governoanche nel dir no qualche volta ha le sue buone ra-gioni. Ha detto no al grande evento per il Forumdelle Culture.Nel mentre a Napoli si susseguono le riunioni diassociazioni, istituzioni, cooperative e categorieper stabilire la quota che toccherà a ciascuno delmega evento da tre miliardi e oltre. Ogni consi-gliere di circoscrizione attende e contratta la pro-pria quota, e, non per malizia, ma per purastatistica ambientale, se qualcuno fra questi è con-tiguo ai Casalesi va bene lo stesso.

Gioacchino Lanza Tomasi

(Il Sole 24 Ore, 17.I.2010)

Caro direttore del “Fatto Quotidiano”,la maggioranza di centrodestra nel CdA della Rai e il suo incredibile direttore (o normalizzatore) generale non solo

hanno accettato di imbavagliare il servizio pubblico durante la campagna elettorale, ma non rispondono nemmeno allesollecitazioni e agli appelli perché l’azienda usi più correttamente le entrate del canone (1,6 miliardi di euro l’anno, nonbruscolini). Assieme a Luigi Manconi per il Comitato per la Bellezza e a Beppe Giulietti per Articolo 21 mi sono per-messo di riproporre indirizzandolo al presidente Garimberti, al direttore generale Masi e agli otto consiglieri l’appellosottoscritto alcuni anni fa da oltre duecento operatori (dalla A di Accardo alla V di Vlad) affinché l’emittente di Statoridia spazio alla musica, all’arte, al teatro, alla cultura insomma, oggi particolarmente neglette. La riproposizione pren-deva spunto dal successo incontrato dalla puntata di “Che tempo che fa” dedicata da Fabio Fazio alla grande musica, conBaremboim e Abbado e da quello, inatteso, di un documentario su Assisi della medioevista Chiara Frugoni. In seguito loshare è stato anche più alto per le puntate di “Che tempo che fa” dedicate a Josè Carreras e soprattutto a Claudio Abbado.Perché non provarci di più?Per la musica, paradossalmente, Mediaset ha una rubrica di un’ora – il Loggione, di buona fattura – la domenica mattina,mentre la Rai non offre nulla di simile, “Palcoscenico” è sempre più rattrappita, non c’è un magazine dedicato allo spet-tacolo di qualità. Negli stessi Tg, andati in pensione alcuni specialisti di cultura e beni culturali (penso a Fernando Ferri-gno del Tg3, a Nino Criscenti di Rai3 o a Tina Lepri del Tg2), ci sono buchi evidenti. Nulla di paragonabile ai tempi incui la Rai realizzava il concorso Maria Callas (lanciando col vincitore Ildar Adbrazakov altri venti cantanti in carriera),trasmetteva numerose opere e concerti, produceva lo speciale in due puntate su Maurizio Pollini (Criscenti e Cappelletto)oppure lo straordinario “Verdincanto”, condotto da Michele Mirabella, con 10.000 coristi, molti dei quali bambini, ve-nuti da tutta Italia al Palalottomatica a cantare insieme alcune arie (Purcell, Mozart, Verdi) imparate dal maestro Simino-vich via internet, satellite, ecc. La Rai aveva regalato alle scuole, nell’anno verdiano 2001, ben settemila parabole. Ebbene, hanno fornito risposta, anche circostanziata, al nostro appello soltanto il presidente della Rai Paolo Garimberti ei due consiglieri espressi dall’area di centro sinistra Nino Rizzo Nervo e Giorgio Van Straten. Dagli altri componenti delCdA – Bianchi Clerici, De Laurentis, Gorla, Petroni, Rositani, Verro – e dal direttore generale Mauro Masi neppure unbiglietto di ricevuta, neppure un generico saluto. Nulla di nulla.Né ha avuto esito più fortunato la richiesta alla Rai di trasmettere, nei giorni successivi alla desolante vicenda di Ro-sarno, il film di Pietro Germi “Il cammino della speranza” (1952), sceneggiato da Fellini e Pinelli, nel quale si raccontal’odissea di un gruppo di migranti italiani i quali cercano di entrare clandestinamente in Francia. Era un modo efficace difar capire ad una platea vasta di utenti, di giovani in particolare, un pezzo di storia, di quando noi italiani eravamo i“neri” che entravano clandestini, a decine e decine di migliaia, nei Paesi europei più sviluppati o negli Stati Uniti. Il filmdi Germi infatti rientra, ancora per poco, nei diritti della Rai. Anche in questo caso, zero risposte. Questa è la Rai di oggi,di tutto di meno, quasi zero. E un confronto sempre più desolante con le consorelle pubbliche europee. Per dirne una:ARD, tedesca, ha sei orchestre sinfoniche e BBC tre. Grazie dell’ospitalità, un saluto amichevole

Vittorio Emiliani (Il Fatto Quotidiano, 27 III 2010 )

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precisazioNi

Angelo Balducci, nell’ interrogatorio dei giudicifiorentini ha dichiarato che suo figlio, Filippo,

trent’anni, ancora senza lavoro sicuro, e che avevaaperto una scuola di musica evidentemente chiusa,ha trovato lavoro, con un contratto ‘presso il Con-servatorio di Santa Cecilia’. Balducci padre haconfuso il Conservatorio romano con l’omonimaAccademia, presso la quale, invece, suo figlio Fi-lippo ha effettivamente un incarico di collabora-zione a termine, della durata di un anno - scadenzaluglio 2010 - con un compenso mensile di 2.000,00Euro (come hanno pubblicato i giornali), presso ladirezione artistica dell’Accademia, per progetti ri-guardanti la musica sacra (di cui il programma ge-nerale dell’Accademia non fa menzione alcuna) eil prossimo ‘Belcanto Festival’ 2010 (in svolgi-mento a settembre, ma del quale ancora non si co-nosce il programma), specificamente per lecelebrazioni dell’Unità di Italia, previste dal festi-val. Musica per Roma ha precisato che FilippoBalducci non ha mai lavorato per detta società,come qualcuno ha scritto, bensì per ’Accademia diSanta Cecilia.Filippo Balducci, secondo l’Accademia di SantaCecilia, vanta specifica competenza nel campodella musica sacra, come attestano il suo Diplomadi Organo, conseguito presso il Pontificio Istitutodi Musica Sacra, e la Laurea in Teologia conse-guita presso la Pontificia Università Lateranense;ed anche una pubblicazione, edita dalla LibreriaEditrice Vaticana nel 2000, in occasione del Giubi-leo, in coppia con Fabrizio Terrone, dal titolo:“Musiche sacre rinascimentali in uso nella Chiesadi S. Giovanni Battista de’Fiorentini in Roma”(Suo padre Angelo, all’epoca, era a capo dellacomplessa macchina organizzativa del Giubileo). Quanto alle celebrazioni musicali per l’Unità d’Ita-lia - previste anche all’interno del prossimo ‘Bel-canto Festival’ e per le quali lavora FilippoBalducci - l’Accademia di Santa Cecilia, in colla-borazione con la Presidenza del Consiglio dei Mi-nistri, lo scorso gennaio, ha presentato il calendarioufficiale. Alla presentazione, oltre al prof. Cagli,Presidente dell’Accademia, erano presenti gli altripartners del progetto, e cioè il dott. Carlo Feltri-nelli (Fondazione Feltrinelli) ed il prof. GiuseppeVacca (Istituto Gramsci). Mentre l’invito per ilconcerto inaugurale delle celebrazioni, affidatoalla Banda dell’Esercito, lo scorso 3 febbraio, par-tiva con le firme congiunte di Bruno Cagli, ‘So-vrintendente dell’Accademia’ e di Mauro Della

Giovampaola, ‘Direttore Generale dell’Unità Tec-nica di Missione per i 150 anni dell’Unità d’Italia’,in carcere (Angelo Balducci, padre di Filippo, ePresidente del Consiglio dei Lavori Pubblici, era iltitolare del troncone ‘romano’ dei grandi lavori daeffettuare per tale ricorrenza). Stando comunque alle intercettazioni telefoniche, èal Direttore generale dello Spettacolo dal vivo,dott. Salvatore Nastasi, che fu segnalato il giovaneBalducci ; e il Presidente-Sovrintendente dell’Ac-cademia di Santa Cecilia, prof. Bruno Cagli, solle-citato, lo ha materialmente assunto, con contrattodi ‘collaborazione professionale/progetto’.

appelli

Salviamo l'IRTEM. L’Istituto di Ricerca per il Tea-tro Musicale è condannato a scomparire. I sempremaggiori tagli alle sovvenzioni non permettono piùdi continuare a svolgere l’attività di ricerca e didiffusione iniziata ben venticinque anni fa. Le no-stre ricercatrici hanno già perso il loro lavoro ed ilprezioso materiale audiovisivo e multimediale cu-stodito negli archivi dell’Istituto rischia fortementela dispersione. Chiediamo ai nostri amici e sosteni-tori di dimostrarci la loro solidarietà inviandociuna email, o firmando questo appello. Email efirme saranno inoltrate ai referenti del Ministerodei Beni culturali e del Comune di Roma. Ringra-ziamo e salutiamo tutti gli studiosi, i ricercatori, ilpubblico che ci sono stati preziosi interlocutori intutti questi anni. Il Presidente Carlo Marinelli,anche a nome dei soci, delle ricercatrici e dei colla-boratori ( www.irtem.it)

lettere

Caro direttore, uno studia anni ed anni per raggiun-gere una meta, mette in gioco sogni, ambizioni,passioni, sentimenti , macina note, tante note spe-rando che servano a regalare emozioni e ad eserci-tare la professione di musicista... poi,all’improvviso, fuori dell’amato conservatorio, siritrova da solo ad affrontare la realtà che non cono-sceva affatto. Che fare allora per non gettare alleortiche l’amato strumento ed anni ed anni di stu-dio? Le scrivo, direttore, per raccontarle di unabella esperienza (‘I Leoncini d’Abruzzo’) nata dal-l’intraprendenza di alcuni e radicata in un centrodella nostra meravigliosa ed attiva provincia, Pe-scina, in provincia dell’Aquila.Il Circolo Musicale Banda ‘I Leoncini d’Abruzzo’,è un’associazione nata a Pescina (L’Aquila) nel

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1986 ad opera del . M. Ezio Di Luzio e del presi-dente Antonio Botticchio , sulle orme della cele-berrima “Leonessa d’Italia”, gruppo musicale sortonel 1801(il più antico gruppo bandistico abruz-zese).Testimone battesimale fu l’indimenticato edamatissimo Severino Gazzelloni il quale, ascol-tando una loro esibizione, rimase sorpreso e ne au-gurò il successo. Da allora, l’Orchestra di fiati deiLeoncini d’Abruzzo guidata dal M° Paolo Alfano ecomposta in grande percentuale da elementi diplo-mati al Conservatorio di musica “A. Casella” diL’Aquila, si è affermata conquistando nel 2002 ilprimo premio al Concorso Internazionale ‘Città diMalgrat De Mar’ (Spagna), nel 2003 il premiodella critica alla Maratona Internazionale ‘Città diPraga’ (Repubblica Ceca), nel 2005 il primo pre-mio al Concorso Nazionale ‘Città di Scandicci’ (Fi-renze), e nel 2009 il Primo premio e la Medagliad’Argento del Presidente della Repubblica, al Con-corso Nazionale ‘Città di Laino Borgo’ (Cosenza).Il gruppo viene periodicamente ‘rafforzato’ attra-verso l’attività formativa e di perfezionamentodella scuola di musica presente all’interno dellastessa associazione ( vi hanno insegnato Jan VanDer Roost, Cosè Alcacer Durà, Antonio Ruggeri,Basilio Sanfilippo). Testimonianza della propria at-tività resta fissata in alcuni CD realizzati esclusi-vamente con l’autofinanziamento. L’orchestra èstata più volte invitata in trasmissioni Rai (RAI 1,RAI 2, RAI 3) e le sue registrazioni trasmesse daemittenti radiofoniche, come Radio Vaticana.Quello dei Leoncini d’Abruzzo rappresenta unesempio per tutti i giovani musicisti che con la de-terminazione, la perseveranza ed il sacrificio conti-nuo, riescono ad emergere al di fuori delle grandirealtà.Nell’organizzazione logistica, fondamentalel’appoggio fornito dall’amministrazione comunaleche, offrendo l’uso di locali in cambio di periodi-che esibizioni, ha permesso la nascita di una vera epropria scuola di musica che oggi conta un centi-naio di allievi. All’associazione possono iscriversimusicisti ma anche chiunque voglia parteciparealla sua attività. L’Associazione bandistica èiscritta all’A.N.B.I.M.A. (Ass. Naz. Bande Ita-liane) presieduta dal Cav. Carlo Monguzzi. Con ilpassare del tempo, molti allievi della scuola di mu-sica di Pescina, hanno proseguito e portato a ter-mine gli studi presso i conservatori di musica,accrescendo quindi, grazie al loro contributo, il li-vello artistico dell’associazione che nel tempo si èconsolidato, ed ha allargato la sua attività . Accantoalla scuola di musica ed alla banda sono nati uncoro folkloristico, un coro di voci bianche, due en-sembles di musica d’insieme e, fiore all’occhiello,

l’Orchestra di fiati composta da 50 musicisti.Grazie dell’attenzione.sono sicuro che la nostraesperienza potrà servire di esempio anche ad altri.

Paolo Alfano

Mostre

Il Conservatorio di Praga , fondato nel 1808, el'Università di Carlo, fondata nel 1348, sono i piùantichi istituti culturali e di pubblica istruzionedell' Europa centrale (solo il Conservatorio di Pa-rigi, fondato nel 1798, è più antico di quello diPraga che ha avuto fra i suoi direttori A. Benevitz eA.Dvorak). Il Conservatorio di Praga svolge in-tensa attività anche all'estero ( la sua Orchestra sin-fonica ha vinto alcuni anni fa il Primo premio delconcorso internazionale 'Herbert von Karajan' aBerlino). Sono nella memoria di tutti i concertidell' Orchestra sinfonica del Conservatorio diPraga al Teatro La Scala di Milano, in Vaticano, aNapoli, Bari, Palermo, ecc. Inoltre, tutti i membridella Filarmonica ceca, dell'Orchestra sinfonica diPraga, dell' Orchestra della radio e di celebriquartetti, si sono diplomati al Conservatorio diPraga che, nel triennio 2008-2011, ha avviato unaserie di manifestazioni concertistiche ed espositiveper festeggiare i primi due secoli dalla fondazione.La mostra, che ne racconta attraverso le immaginila storia, approda questo mese in Italia, e oltre Bre-scia e Napoli, verrà ospitata al Conservatorio 'Ca-sella' dell'Aquila, dove sarà visibile durante tutto ilmese di maggio. La mostra è stata già presentata aParigi, Londra, Mosca, New York, Bratislava, Var-savia, Zagabria. Per il vernissage aquilano, il 4maggio, concerto cameristico con musiche di au-tori boemi, affidato, congiuntamente, a strumenti-sti dei due Conservatori, praghese ed aquilano.

Il 3 aprile è morto Maurizio Pratola, nostro collega, chesvolgeva da anni con grande competenza il ruolo di bibliote-cario del Casella. Maurizio, che abbiamo cosciuto bene ed alquale ci legava una bella amicizia resa più forte dalla co-mune passione per i libri e la ricerca, era un fine, intelligenteed aggiornatissimo musicologo, specializzatosi nello studioed esecuzione della musica antica. Noi stessi ne abbiamospesso sfruttato tale sua competenza nei consueti regolari in-contri in biblioteca; come anche i tanti allievi e colleghi chea lui si rivolgevano per ricevere consiglio su una ricerca.Maurizio era gentile e dava sempre il consiglio giusto peravviare od approfondire uno studio, specie poi nel suo set-tore. La malattia ce lo ha tolto, ancora giovane: alla famigliaed anche a noi. L'ultima volta che lo abbiamo incontrato,poco più d'un mese prima della sua scomparsa, alla nostradomanda relativa alla sua salute, ha risposto, accennando unsorriso: passiamo oltre! Ciao Maurizio, ti saluta tutto il Ca-sella ( P.A.) @

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conservatorio ‘alfredo casella’Direttore Bruno Carioti

Via Francesco Savini 67100 L’Aquila tel: 0862/22122

Music@Bimestrale di musica Anno V. N.18. Maggio-Giugno 2010

Direttore: Pietro AcquafreddaProgetto grafico e Impaginazione: Barbara Pre

consultabile sul sito: www.consaq.it Versione online: Alessio Gabriele

Redazione: [email protected]

hanno collaborato a questo numero:Domenico carboni, stéphane lissner , roberto pagano, Walter tortoreto, Nicola Verzina

abbiamo ritrovato (piano time, applausi ) e ripubblicato scritti di:Giorgio Gualerzi, loredana lipperini, umberto padroni

letto sulla stampa : (la repubblica – l'unità – il sole 24 ore, il Fatto Quotidiano)

salvatore settis, Vincenzo cerami, Gioacchino lanza tomasi, Vittorio emiliani

Documenti: circ. Min.(n.2367 del 20. ii. 2010) anticipazioni 2010 spettacolo dal vivo

Music@è una produzione del

Laboratorio teorico-pratico di ‘Tecniche della Comunicazione’ del Conservatorio ‘Alfredo Casella’

Lettere al direttore. Indirizzare direttamente a: [email protected]

Impaginazione e Stampa:Tipografia GTE - Gruppo Tipografico Editoriale - L’Aquila Zona ind.le Loc. San Lorenzo - 67020 Fossa ( AQ) Tel.0862.755005-755096 - Fax 0862 755214 - e-mail: [email protected]

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