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“Foibe”: per una “Giornata del ricordo” condivisa da tutti gli italiani “Che gli uomini non imparino molto dalle  lezioni della storia è la più importante  di tutte le lezioni della storia.” Aldous L. Huxley Tre foto in successione che emblematicamente riassumono la tragedia del Confine orientale Militari italiani in posa davanti a partigiani titini fucilati Disegno di esecuzioni in una foiba Una bambina istriana parte per l’esilio 1. La “Giornata Nazionale del Ricordo” I fatti non cessano di esistere solo perché vengono ignoratiAldous Leonard Huxley La “Giornata Nazionale del Ricordo” viene chiamata così, perché si affianca e contrappone alla “Giornata della memoria”. E’ una ricorrenza istituita, su proposta di Alleanza Nazionale e della federazione degli esuli, nel 2004, dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per non dimenticare le migliaia di italiani assassinati dai partigiani titini nel 1943 e nel 1945, nonché l’esodo dei giuliano-dalmati dal 1943 al 1956 e l’intera complessa vicenda del Confine orientale.  Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando al Quirinale lo scorso anno la “Giornata del Ricordo” insieme al Ministro della Cultura Francesco Rutelli, ha consegnato 75 medaglie con diplomi a 75 familiari delle vittime delle foibe. Nell’occasione ha ribadito che “Le foibe furono pulizia etnica” ripetendo parole già espresse in precedenza che avevano suscitato, com’è noto, le proteste del presidente croato Stipe Mesic per il quale avrebbero contenuto “elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico”. Nel chiudere la cerimonia l’on. Napolitano ha poi aggiunto che quello delle foibe è un “riconoscimento tardivo ed è tempo di sanare una dolorosa pagina della nostra storia”, ammonendo che “se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo 

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“Foibe”: per una “Giornata del ricordo” condivisa da tutti gli italiani

“Che gli uomini non imparino molto dalle lezioni della storia è la più importante

 di tutte le lezioni della storia.”Aldous L. Huxley

Tre foto in successione che emblematicamente riassumono la tragedia del Confine orientale

Militari italiani in posa davanti a partigiani titini fucilati

Disegno di esecuzioni in una foiba

Una bambina istriana parte per l’esilio

1. La “Giornata Nazionale del Ricordo”

“I fatti non cessano di esisteresolo perché vengono ignorati”

Aldous Leonard Huxley

La “Giornata Nazionale del Ricordo” viene chiamata così,  perché si affianca e contrappone alla “Giornata della memoria”.  E’  una ricorrenza istituita, su proposta di Alleanza Nazionale e della federazione degli esuli, nel 2004, dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per non dimenticare le migliaia di italiani assassinati dai partigiani titini nel 1943 e nel 1945, nonché l’esodo dei giuliano­dalmati dal 1943 al 1956 e l’intera complessa vicenda del Confine orientale.  Il   Presidente   della   Repubblica   Giorgio   Napolitano,   celebrando   al   Quirinale   lo   scorso   anno   la “Giornata  del  Ricordo”   insieme al  Ministro  della  Cultura  Francesco  Rutelli,   ha   consegnato  75 medaglie con diplomi a 75 familiari delle vittime delle foibe. Nell’occasione ha ribadito  che “Le foibe  furono pulizia  etnica”   ripetendo parole  già   espresse  in  precedenza  che  avevano suscitato, com’è noto, le proteste del presidente croato Stipe Mesic per il quale avrebbero contenuto “elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico”. Nel chiudere la cerimonia l’on. Napolitano ha poi aggiunto che quello delle foibe è un “riconoscimento tardivo ed è tempo di sanare una dolorosa pagina della nostra storia”, ammonendo che “se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo 

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faticosamente costruito può essere considerato per sempre acquisito.” Purtroppo però, registrando quello che è successo durante la “ Giornata  Nazionale del Ricordo” che si è celebrata in Lombardia,  ma un po’ dappertutto anche in Italia, il 10.02.08, c’è da dire che la commemorazione della ricorrenza, lungi dall’essere stata una giornata di concordia e di memoria condivisa per rimarginare quella profonda ferita tra le due comunità, la croata e l’italiana, e tra le forze politiche, ancora una volta si è rivelata, al di là di quanto auspicato dallo stesso Napolitano, un’occasione  per   rialzare   steccati,   rinfocolare  odi   e  divisioni  e  per  assurde   strumentalizzazioni politiche. In Croazia il Presidente Stepi Mesic ha  preso posizione  con una reazione  più controllata  e meno plateale e stizzita rispetto a quella  dell’anno precedente, ma pur sempre di reazione negativa si è trattato, da registrare con disappunto. Anche in Italia del resto le reazioni non si sono fatte attendere e sulla stampa, nazionale e locale, si sono alternate le dichiarazioni di forze politiche, di destra e di sinistra,  che riproponevano quegli  steccati  e  divisioni  ideologiche che tanto hanno avvelenato il dibattito  negli  ultimi   anni.  Solo  per   fare   qualche   esempio:   l’11   febbraio  2008  da   sinistra   si  è affermato che “Le violenze post belliche delle foibe furono la reazione ai crimini del fascismo e al razzismo italiano scatenato contro le popolazioni slave”;  per contro da destra, si è rivendicato “Il merito di aver promosso questa giornata per ricordare i crimini dei comunisti” (1).

1.1 Foibe, nuove polemiche

“Il ricordo di un crimine non crescasull’oblio di un altro crimine” (Predrag Matvejevic, scrittore e slavista).

Gianni Alemanno, primo cittadino di Roma, durante l’incontro avvenuto il 7 novembre 2008 con i cittadini del quartiere Giuliano­Dalmata, ha rinfocolato la polemica sulle “foibe” affermando che “Se la Croazia non riconosce che in quelle terre è stato commesso lo scempio delle foibe non può entrare  nell’Europa Unita”;   inoltre,  riferendosi   alla   “Giornata  Nazionale  del  Ricordo” che   sarà celebrata il 10 febbraio  2009,   ha affermato che “l'opera non è ancora conclusa  perché manca la trasmissione di questa vicenda nei libri di storia”. Le  sue  parole   hanno   suscitato   la   reazione  sdegnata  dello   scrittore   croato   Predrag   Matvejevic, docente di  slavistica alla  Sapienza di  Roma, che ha dichiarato:  “Il  sindaco è  male  informato e difende   le   tracce   del   fascismo   in   Croazia.   Quelli   che   la   pensano   come   lui   sono   i   peggiori nazionalisti croati che attaccano la resistenza jugoslava. I collaboratori del sindaco non lo hanno informato dei testi che abbiamo pubblicato sulle foibe e sulle vittime innocenti italiane. Parlano anche di tutta una gioventù croata e dalmata ammazzata dalle camicie nere di Mussolini. Non si può riconoscere   solo   le   vittime   di   una   parte   dimenticando   quelle   dell'altra.   Voglio   ricordare   ad Alemanno che gli ustascia di Ante Pavelic sono stati addestrati dagli squadristi mussoliniani a Lipari e hanno commesso crimini di guerra fra i più gravi in Europa. Pavelic ha consegnato a Mussolini la Dalmazia e s'è preso una parte di Slovenia. Sono questi ­ ha concluso lo scrittore ­ gli scenari dietro i   quali   si   sono   consumate   le   vendette   reciproche   della   fine   della   Seconda   guerra   mondiale. Sorprende fino a che punto il sindaco di Roma li ignori” (la Repubblica 8 novembre 2008).Cosa emerge dall’insieme di queste reazioni e da quest’ultima ennesima polemica? Che la tragedia delle “foibe” non è ancora, per la Croazia e per l’Italia, momento di unità e di memoria condivisa, ma   sempre   più   occasione   per   rinfocolare   odi   e   divisioni,   e   che  la   strada   dell’unità   e   della condivisione è ancora un processo lungo e faticoso, tutto da costruire. Pertanto se vogliamo che la tragedia del Confine orientale diventi una ricorrenza accettata da tutti, italiani e croati, e che ci sia, come auspica il Presidente Napolitano, una “pacificazione nazionale” tesa a sanare quella profonda ferita è il momento di rimuovere le cause che stanno all’origine di queste divisioni, riflettendo più a fondo e a 360 gradi su questo tragico avvenimento, cominciando a chiederci ad esempio perché la tragedia delle foibe non è  ancora memoria di tutti  e cosa si  potrebbe fare perché  si  affermi un 

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sistema di valori condivisi intorno ai quali gli italiani tutti possano riconoscersi e ritrovarsi.

1.2 “Leggere tutte le pagine della storia!”

“Le pagine meno gloriose del nostro passatosarebbero le più istruttive se solo accettassimo

di leggerle per intero”.

Tvzetan Todorov

Non vi è  dubbio che in  questi  cinque anni la celebrazione della “giornata” ha contribuito  a far superare una prolungata rimozione, ovviando in parte anche ad una certa indolenza degli storici che non   sempre   hanno   studiato   in   maniera   adeguata   quegli   eventi.  Rimane   il   fatto   però  che   la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente e parziale,  sussistono zone d’ombra e aspetti poco lumeggiati;   intorno poi  a  tutta  la complessa vicenda del Confine orientale c’è  bisogno di scavare  ancora e a fondo per la  ricostruzione dei fatti  e per sostituire la storia alla propaganda, restituendo agli avvenimenti la loro reale dimensione. Tutto ciò, ma anche le discutibili motivazioni che   hanno   portato   alla   promozione   della   giornata   da   parte   della   destra   che   l’ha   voluta   in contrapposizione ad altre memorie, per calcoli elettorali e ragioni che poco o nulla hanno a che fare con la verità storica, fa sì che gli animi siano ancora esacerbati e la cerimonia non venga vista come un’occasione di pacificazione.Le  considerazioni  appena sviluppate  in  una  prospettiva   tutta   interna  alla   tragedia  delle  “foibe” danno una spiegazione necessaria, ma non sufficiente a comprendere i motivi che stanno alla base delle resistenze ad accettare una qualsiasi forma di memoria condivisa su questa vicenda, triste e dibattuta. Ben più complesse e profonde sono le ragioni di queste resistenze per cui sarà necessario spingere più  a   fondo  la   riflessione,  allargandola al  passato  nazista  e   fascista,   in  Germania  e   in   Italia,  e riandare all’origine delle cause per comprendere come le vicende storiche che si sono succedute, dal dopoguerra ad oggi, e i tanti luoghi comuni abbiano di fatto inciso in modo diverso nei due paesi per quanto ha riguardato la   pacificazione degli animi e la definizione di una coscienza e di una identità  nazionale. Ciò premesso, va detto che non rientra nell’economia di questo saggio l’analisi dei passaggi storici, delle   ragioni   e   delle   cause   di   ciò   che   è   accaduto   nelle   due   nazioni,   entrambe   coinvolte   da protagoniste   nel   conflitto.   Pur   in   presenza   di   evidenti   analogie,   troppo   complesse,   diverse   e variegate sono le vicende, i protagonisti e le forze politiche in gioco (ad es. la lotta partigiana e i combattenti  della RSI che hanno riguardato l’Italia, ma non la Germania) da non permettere in poche note una trattazione esauriente e storicamente oggettiva. Mi limiterò quindi a parlare della famosa e dibattuta questione del “Passato che non passa” e dei conti non fatti con il proprio passato, affrontata   in  Germania,  ma non  in   Italia,  quanto  meno non  in  maniera  adeguata,  e  dei   luoghi comuni e miti che una certa vulgata storiografica ha alimentato sul fascismo, riproponendomi in questo modo di chiarire alcune delle ragioni che rendono la strada per la costruzione di una nuova identità nazionale condivisa così irta di ostacoli e non facile da percorrere. 

2. Il passato che non passa, due diversi approcci in Germani e in Italia

“Nei singoli la follia è una rarità:ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola." F. Nietzsche

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Lo storico tedesco Ernst Nolte, allievo di Heidegger, ha coniato per la Germania l’espressione «die unbewältigte Vergangenheit» (il passato non risolto) per indicare i conti non chiusi con l’orrore del nazismo. Va ricordato al riguardo che fin subito,  dal 1945, gli storici tedeschi hanno studiato con alacrità e rigore, discutendo e polemizzando, liberamente e ferocemente, e hanno prodotto ricche ricerche su quella che considerano la massima tragedia nazionale, sulle sue radici e cause, su come si colloca e si motiva nella storia della nazione, sulle responsabilità individuali e collettive. Nel complesso, la Germania ha saputo, non senza difficoltà e ritardi, regolare  i  propri conti  con il nazismo sotto il profilo   politico   e   storiografico,   al   di   là   di   pochi   anziani   nostalgici   e   malgrado   le   sporadiche esibizioni   dei   macabri   simboli   del   passato   ad   opera   di   frange  neonaziste,   pervenendo   ad  una condanna   senza  appello  del  passato  nazista.   Il   sistema politico  democratico  ha   retto   ad  eventi colossali   e   burrascosi,   come   il   crollo   della   Germania   comunista   e   i   difficili   problemi   della riunificazione; la solidità interna, politica e intellettuale, pur tra tanti problemi, si è mostrata capace di vincere l’importante sfida: ha contrastato e domato il cupo retaggio nazista, ed ha elaborato una memoria condivisa.  Nessun politico di primo piano,  sentimentalmente o politicamente legato  al nazismo,  ricopre oggi   in  Germania  incarichi  a   livello  nazionale nel  Governo;   le  forze politiche democratiche conservatrici sono anzi molto attente  nel condannare il passato nazista e rintuzzare qualsiasi   forma  di   revanscismo  o  antisemitismo   risorgenti.  Valga  per  tutti   il  riferimento  a  due discorsi  memorabili   tenuti  dal   Capo   dello   Stato,   il   conservatore   Horst   Koehler,   durante     la manifestazione del 9 maggio 2005, nel 50° anniversario della Liberazione dal nazismo, e da Angela Merkel, il 9.11.08, nel 70° anniversario della "Notte dei cristalli". Il Capo dello Stato, nell’occasione appena citata, ha affermato: “Noi proviamo vergogna e orrore per allora, e la Germania di oggi ha proprio questa responsabilità  speciale davanti  al  mondo:  tenere viva la memoria del dolore.  Mi appello ai giovani: voltare pagina e cancellare la Memoria non sarà mai ammissibile”.  Allo stesso modo la Cancelliera Angela Merkel, partecipando alle cerimonie in ricordo del pogrom nazista in una delle sinagoghe che vennero distrutte e incendiate, ha ammonito sui rischi di nuove ondate di antisemitismo: “Non possiamo restare indifferenti agli estremisti di destra che marciano verso la porta di Brandeburgo o agli estremisti di destra che vincono seggi in Parlamento”, né  “possiamo restare in silenzio quando i rabbini vengono minacciosamente avvicinati in strada, quando le tombe ebraiche vengono profanate e quando vengono commessi crimini antisemiti. La compiacenza è il primo passo che mette a repentaglio i valori essenziali della nostra democrazia”. Prese di posizione importanti  e decise, assunte non già da dirigenti della sinistra di opposizione, ma dai massimi  esponenti governativi conservatori dell’odierna  Germania.

2.1 I conti con il passato in Italia: il fascismo negato

Ben diversa è la storia delle vicende politiche italiane. Da noi anziché fare i conti con l’orrore del fascismo e le responsabilità, individuali e collettive, di chi ha appoggiato il regime di Mussolini si è lasciata crescere una politica revanscista  e si sono  costruiti miti e luoghi comuni, alimentando la vulgata   che   la  Repubblica   Italiana  è  il   risultato,   politico  e  militare,  non  già   di  una  guerra   di Liberazione,  ma di  una guerra civile  che ha avuto vincitori  e  vinti.  Subito  all’indomani dell’8 settembre, dopo che l’Italia aveva rotto il patto d’acciaio che la legava al nazismo hitleriano e stretto l’alleanza con le forze anglo­americane  iniziando la  lotta unitaria della Resistenza, si cercò di far passare quel fenomeno, tutto italiano, che il prof. Emilio Gentile, tra i maggiori storici del fascismo, noto sul piano internazionale, allievo di Renzo De Felice e interprete del metodo di George Mosse, definisce “defascistizzazione del fascismo”, ovvero lo svuotamento del regime dei tratti liberticidi e la negazione del suo carattere totalitario. Ancora oggi, a 65 anni di distanza dalla caduta del fascismo, viene portato avanti un tentativo che 

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mira a far passare una visione “perdonistica” degli eventi bellici, utilizzando, in modo maldestro e strumentale, anche le ricerche di De Felice citato per circoscrivere le colpe del fascismo alle leggi antisemite e riportare il problema della RSI nell’ambito di un patriottismo in buona fede. Si alimentano così miti e stereotipi del tipo: “il fascismo non fu tutto male”, “se c’è stato San Saba c’è stata Basovizza”, “l’8 settembre morì la Patria”; “chi scelse la Repubblica Sociale di Salò erano giovani pieni di ideali patriottici che non sapevano nulla degli orrori del nazismo e mantennero fede al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”, per cui “i militari di Salò vanno onorati come gli altri badogliani”, “l’esito finale del fascismo con le leggi razziali fu negativo, ma ci furono anche scelte positive per l’Italia di allora”, “Mussolini fu comunque un grande statista” e così via.Sia chiaro, riportando questi luoghi comuni e denunciando questo “svuotamento del fascismo” dai suoi   tratti   illiberali,   non   si   vuole   mettere   in   dubbio   la   fedeltà   alle   regole   democratiche   né dell’onorevole Fini, né di altri esponenti di governo del suo partito; più semplicemente si vuole far notare che, pur essendo il fascismo morto e sepolto, e pur essendo vietata dalla Costituzione e dalla legge   Scelba   del   1952   l’apologia   del   fascismo,   in   Italia   si   possono   ancora,  tranquillamente   e impunemente,   alimentare   miti,   come   quelli   ricordati   in   precedenza,  mentre   persone,   legate personalmente   e   sentimentalmente   al   passato   regime,   possono   occupare   importanti   cariche pubbliche   e   fare   parte   del   governo   ministri   che,   fino   a   poco   prima,   si   professavano   fervidi ammiratori di Mussolini e del suo regime. Nessun  uomo pubblico  in  Germania  oserebbe   fare   affermazioni   sul  nazismo,   come  quelle   che abbiamo riportate e che circolano da noi sul fascismo, tantomeno abbandonarsi all’elogio di Hitler o di altri gerarchi; né persone legate in un modo o nell’altro al passato nazista potrebbero ricoprire incarichi di governo, senza suscitare scandalo e contestazioni. Una cosa del genere non sarebbe immaginabile nemmeno nella Spagna ex­franchista che lo scorso anno  ha  emanato,  per   iniziativa del  governo Zapatero,  una   legge  sulla  Memoria Storica varata dalle Cortes che vieta per la prima volta a 33 anni dalla morte del generalissimo Franco le celebrazioni  in suo onore. La nuova norma parlamentare fa riferimento alla Valle de Los Caìdos per !'importanza simbolica che il luogo da sempre riveste agli occhi dei nostalgici della dittatura (né più né meno come Predappio per i nostalgici del fascismo e di Mussolini): “In nessun punto del recinto, dice la legge, si potranno realizzare atti di natura  politica  che  esaltino   la  Guerra  Civile,   i   suoi  protagonisti   o   il   franchismo”   (la Repubblica 18.11.2008).Eppure anche l’Italia, come la Germania, è un paese politicamente ed economicamente mutato nel profondo rispetto a settant’anni fa: il fascismo è caduto ignominiosamente nel 1945, al pari del nazismo. Come si spiega allora l’anomalia di un paese, nato dalla lotta di Liberazione, con una Costituzione democratica ed antifascista, dove continuano ad avere voce in capitolo gli eredi del partito neofascista e dove ancora è legittimo parlare di “defascistizzazione del fascismo” e da pulpiti autorevoli si tenta di abbellirne la memoria?La ragione sta nel fatto che l’Italia non ha operato quella necessaria riflessione critica, consapevole e spesso dolorosa, che la Germania ha invece saputo fare con il nazismo, come giustamente ricorda il prof. E.  Gentile, non certo storico di parte né tantomeno di sinistra: “E’ il nostro paese, la nostra cultura nazionale, a non aver mai fatto i conti fino in fondo con il totalitarismo fascista. Le recenti sortite del sindaco di Roma e del ministro della Difesa avvengono in un contesto politico e culturale che le legittima, in un terreno favorevole concimato in questi anni da formulazioni e stereotipi diffusi purtroppo anche in parte della storiografia e nel discorso pubblico”  (Il fascismo negato,11.9.08,la Repubblica).La  Germania questi conti con il suo passato li ha fatti, l’Italia no. Da noi il dibattito storiografico risulta ancora condizionato ed inquinato da forme di revanscismo e revisionismo, con il risultato che le vicende legate alla Seconda Guerra Mondiale sono rimesse di continuo in discussione. Non aver chiuso   con   il   nostro   passato   ha   fatto   sì   che   si   accumulassero   steccati,   luoghi   comuni, strumentalizzazioni ideologiche e propagandistiche, stereotipi e miti che maldestramente tendono a 

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minimizzare le colpe della dittatura fascista, a negare l’Olocausto con lo sterminio di milioni di vite umane, a delegittimare la Resistenza e le basi stesse della convivenza democratica, a mettere sullo stesso piano aggressori ed aggrediti equiparando i combattenti della RSI ai partigiani. I   veleni  di   queste   strumentalizzazioni   e  di   questo   “revisionismo”   si   sono   riversati   anche   sulla tormentata  questione  del Confine orientale,  inquinando la ricerca storica e il dibattito politico,  e impedendo di fatto che si facesse la necessaria chiarezza. 

2.2 I luoghi comuni che condizionano la ricerca storica sulla tragedia del Confine orientale

Per comprendere perché la tragedia delle “foibe” continua ancora a dividere, sarà utile fare qualche riflessione  sul   senso  e   sui   limiti  di  questa   tendenza   revisionistica  che,   riconsiderando  in  nome dell’accertamento storico i nodi cruciali del secondo conflitto mondiale, tende di fatto a falsarli. Di seguito verranno presi in esame alcuni di questi miti (“l’8 settembre 1943 morì la Patria”; “chi scelse la Repubblica Sociale di Salò erano giovani pieni di ideali patriottici e non sapevano nulla degli orrori del nazismo, mantennero solo fede al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”, per cui “i militari di Salò vanno onorati come gli altri badogliani”)  tenendo presenti le ricerche condotte da due storici di vaglia: Emilio Gentile sul fascismo e Claudio Pavone  sulla Resistenza. Prima   però   di   affrontare   alcune   delle   problematiche   che   questa   tendenza  revisionistica  sulla “defascistizzazione del fascismo” porta avanti, inquinando il dibattito e ritardando il  formarsi di una   memoria   condivisa,   s’impone   una   riflessione   sul   termine   stesso,   sul   suo   uso   e   sul   suo significato, distinguendo tra un revisionismo legittimo e uno illegittimo e scorretto. Il   lavoro dello storico è  per  sua natura e vocazione  quello  di “revisionare”.  Che senso avrebbe altrimenti studiare documenti e fonti, ogni volta che ne emergono di nuovi o che vengono proposte nuove   e   diverse   letture   sulla   base   di   fondati   ragionamenti   o   dell’evolversi   della   storiografia? Rivedere a posteriori le cose fa parte del mestiere dello storico e, in questo senso, il revisionismo è pratica normale per ogni studioso che voglia portare un contributo di chiarificazione e completezza al dibattito in corso. Ma un revisionismo a priori, quasi una sorta di filosofia della storia o scuola e procedura scientifica, non ha nulla a che fare con la storiografia.  E’ tutt’altra cosa. “La libertà dello storico”  ­ dice Pavone ­  “ha un limite. Ed è l’accertamento dei fatti. Occorre in questo senso guardarsi dalle molte recenti tendenze a ridurli alla loro rappresentazione o a negarli, come nel caso della Shoah. Negare la shoah appunto non è fare storia (...) Ci sono delle regole. C’è un limite oltre  il  quale da attività   intellettuale il  revisionismo decade a mero strumento di lotta politica.  Accade,   appunto,   con   i   revisionisti   e   i   negazionisti   della  Shoah”.  Lo   stesso   discorso possiamo farlo per i  falsi miti e i luoghi comuni che una certa storiografia alimenta sul fascismo.«In Italia” ­ dice il prof. Gentile ­ “è stato cancellato tutto quello che il fascismo ha rappresentato come   distruzione   della   democrazia  e  umiliazione   della   collettività.   La   de­fascistizzazione   del fascismo nasce da un totale travisamento di quello che il regime è stato. A quest'offuscamento non è estranea la cultura antifascista. Per molti anni è prevalsa a sinistra l’immagine d'un regime venten­nale sciolto come un castello di carte, una ‘nullità storica’ con cui in sede storiografica s'è comincia­to a fare i conti troppo tardi. A destra gli umori hanno oscillato tra la caricatura e l'indulgenza, fino alla tesi del fascismo modernizzatore: un'interpretazione che dura tuttora”. 

2.2.1 Giovani in buona fede

Uno  stereotipo invalso in articoli e interviste è che “coloro che scelsero la Repubblica Sociale di Salò erano giovani in buona fede, pieni di ideali patriottici che rimasero fedeli al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”.Ci si chiede: “E’ questa una tesi sostenibile?”. Sembra proprio di no. E’ lo storico Emilio Gentile a portare   sull’argomento   un   contributo   essenziale   e   chiarificatore:  “Una   delle   caratteristiche   del 

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fascismo fin dalle origini fu quella di negare l'esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto   la   patria   di   coloro   che   aderirono   al   fascismo.   Anche   soggettivamente   il   patriottismo fascista fu liberticida. E’ Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che  lo  Stato fascista avrebbe diviso  gli italiani in tre categorie:  gli  indifferenti, i simpatizzanti e i nemici. Questi ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si  parte da queste premesse, non c'è più una patria degli italiani: c'è solo la patria dei fascisti. Per i   seguaci  del  duce,  Amendola e Sturzo non sono  italiani.  E’  questa  stessa  logica  che  nel  1938 conduce Mussolini ad affermare che gli ebrei sono estranei alla razza italiana e per questo devono essere discriminati”.  E per ciò  che concerne la  strumentalizzazione che  viene fatta  di  De Felice   il  cui nome è  spesso citato per giustificare la riduzione del male del fascismo alle leggi antisemite e ridimensionare il problema della Rsi al patriottismo in buona fede, Gentile aggiunge: “De Felice  sulle   leggi   razziali  scrive che  la   responsabilità  maggiore   fu  di  Mussolini,  della   sua ‘incosciente   megalomania’   di   trasformare   gli   italiani   ‘in   nome   di   principi   e   ideali   che   erano negazione di ogni principio e ogni ideale’ (…) La tragica conclusione del fascismo è nelle sue stesse premesse e nella sua logica, nella sua sostanza antidemocratica e liberticida, nella sua mancanza di rispetto per i valori più elementari della personalità umana". Anche su Salò  si espresse in modo inequivocabile, attribuendo alla RSI l'origine della guerra civile. Non sono opinioni assolutorie sul fascismo.”(nota)L’8 settembre non è morta quindi la Patria degli italiani, crollava e moriva quella di Mussolini e del fascismo; mentre il vecchio regime affondava nel fango, ebbe inizio la lotta di Liberazione da cui nascerà la nuova  Costituzione e la nuova Italia democratica repubblicana. Piero Calamandrei, uno dei più grandi giuristi del ’900 e membro della commissione dei 75 alla Costituente, proprio per questo ha scritto la famosa epigrafe che recita: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove  furono  imprigionati,  nei  campi  dove  furono  impiccati.  Dovunque è  morto un   italiano  per riscattare   la   libertà   e   la   dignità,   andate   lì,   o   giovani,   col   pensiero,   perché   lì  è   nata   la   nostra Costituzione”.

2.2.2 Partigiani e Repubblichini sono uguali

Un altro luogo comune è che “I morti della seconda guerra mondiale: partigiani e repubblichini di Salò sono tutti uguali” perché avrebbero combattuto su trincee contrapposte, ma simmetriche e tutti i morti meritano rispetto. Da più parti si è parlato e si continua a parlare, anche in questi giorni, di “sangue dei vinti”, di “onore dei vinti”, di riconoscimento morale e giuridico dei combattenti RSI con apposita legge del Parlamento italiano. E’ il caso di ricordare al riguardo che già nel 2005 Alleanza Nazionale aveva presentato in Senato una proposta di legge, che equiparava i militari di Salò ai partigiani. Si disse allora che il provvedimento doveva tendere alla pacificazione, a sessant’anni dalla fine della guerra, dimenticando che i  “repubblichini” erano già  stati  amnistiati  nel  1947 dall’allora Ministro della Giustizia, il comunista Palmiro Togliatti, riammessi nei posti di lavoro e nella vita civile.Ma qual è il senso della proposta di legge presentata in Parlamento dalla destra? Corrado  Augias   rispondendo ad  alcuni   lettori   indignati   su   la  Repubblica  del  22   febbraio  2005 scrive: “La proposta di legge che equipara ai partigiani chi combatté per la Repubblica di Salò non riguarda solo i superstiti di quella tragica stagione della nostra storia. La manovra è subdola e non si limita  al   riconoscimento  morale  e  pratico  per  chi,  nei   fatti,  operò  come ausiliario  delle   truppe naziste, comprese le operazioni di rastrellamento, le torture, le stragi. Dietro ai riconoscimenti in­dividuali c'è la rivalutazione dell'ultima fase disperata e crudele del fascismo, comprese le istitu­zioni che la rappresentarono. Il disegno ha il fine ultimo di equiparare sotto ogni aspetto i combat­tenti  delle due parti, incrinando così il patto antifascista sul quale è stata  scritta la Costituzione che regola la vita dei singoli e delle istituzioni”.

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Recentemente,   a   seguito   delle  parole   pronunciate  da  Alemanno  a   Porta   San   Paolo  durante   la commemorazione  per il 65° anniversario della Difesa di Roma, quando ha definito male assoluto le leggi razziali, ma non il fascismo che le aveva promulgate, s’è riacceso lo scontro sul passato regime che ha visto su posizioni diverse il Ministro della Difesa Ignazio La Russa e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Farei un torto alla mia coscienza ­ ha detto il Ministro   ­ se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della RSI, soggettivamente e dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo­americani e meritando quindi il rispetto pur nella differenza di posizioni di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d’Italia”. Napolitano per contro ha parlato del “duplice segno della Resistenza: quello della ribellione, della volontà di riscatto, della speranza di libertà e di giustizia di tanti giovani che combatterono nelle formazioni partigiane sacrificando in non pochi la loro vita; e quello del senso del dovere, della fedeltà   e   della   dignità   che   animarono   la   partecipazione   dei   militari,   compresa   quella   dei seicentomila deportati nei campi tedeschi che rifiutarono l’adesione alla Repubblica di Salò”. Due visioni distinte della storia: una che omaggia i militari dell’esercito della Repubblica sociale italiana, l’altra che ricorda come vero simbolo della Resistenza chi rifiutò l’adesione alla repubblica di Salò e per questo fu deportato.L’affermazione del Ministro della Difesa ha provocato imbarazzo nel Presidente della Repubblica e indignazione tra le forze politiche di opposizione, ma anche tra gli “addetti ai lavori”  tra cui lo storico Giovanni De Luna che ha detto:  “Il fatto che La Russa abbia scelto per il suo strappo la celebrazione dell'8  settembre e   il   ricordo dello  scontro sostenuto a  Porta  San Paolo da patrioti italiani contro le truppe tedesche configura poi un paradosso che segnala anche un sinistro corto circuito tra la memoria storica di questo paese e le istituzioni che lo rappresentano. Un ministro della Repubblica celebra le vittime di quello scontro, considerato la data d'inizio della Resistenza, elogiando quelli che si schierarono con i loro carnefici! Sembra quasi un tragico sberleffo”. Tant’è che lo stesso Fini,  Presidente della Camera e  leader del partito cui appartiene anche La Russa, riferendosi alle polemiche scoppiate dopo le dichiarazioni del Ministro e del Sindaco di Roma ha preso le distanze dalle loro dichiarazioni affermando: ”Sicuramente ci sarà stato da parte di alcuni assoluta buona fede, ma è  doveroso dire che non era equivalente stare da una parte o dall’altra. C’era chi combatteva dalla parte giusta, dalla parte della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale e chi stava dall’altra parte”.La   presa   di   posizione   del   Presidente   della   Camera   ha   trovato   d’accordo   l’ex­Presidente   della Repubblica Carlo Azeglio  Ciampi che   in  un’intervista  concessa  al  quotidiano  Il  Messaggero al giornalista  che gli domandava come valutasse la messa a punto di Fini che tra l’altro dava atto al Presidente di avere lavorato per “raggiungere una memoria condivisa”, ha risposto: “Fini è stato chiarissimo. Le sue parole hanno messo fine ad un’inutile polemica (…) il chiarimento sulla RSI e sul fascismo era necessario perché ­ come ho sempre sostenuto ­ si può riconoscere che alcuni tra i cosiddetti ragazzi di Salò  erano in buona fede, ma ciò non toglie che la loro scelta fu sbagliata perché   si   trovarono   a   combattere   accanto   ai   nazisti,   a   coloro   che   il   presidente   tedesco  Rau   a Marzabotto definì "le iene vestite di nero". Sono distinzioni facili eppure necessarie da fare”. E il giornalista di rimando: “Dunque Presidente Ciampi,  si procede lungo la via che Lei ha sollecitato in   tutto   l'arco   del   settennato   di   un   pellegrinaggio   nella   memoria   per   arrivare   ad   una   vera pacificazione nazionale”. “Sì. Anche in occasione delle recenti polemiche dopo l'anniversario di Porta San Paolo ho ricordato che, un conto è la valutazione di quanto è avvenuto durante la seconda guerra mondiale e un altro conto è quanto avvenuto dopo l’8 settembre del  1943 o ancora meglio, dopo il 25 aprile 1945. Da questo momento è cominciato  il processo lungo, tortuoso, ma ormai è da considerare concluso. Sono passati più di sessant’anni, siamo ai figli dei figli. Ecco perché le parole di Fini sono importanti”.

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2.2.3 L’etica della responsabilità

Ma   anche   su   questo   stereotipo   della   “buona   fede”,   come   ha   riconosciuto   lo   storico   Gentile bacchettando   il   ministro   La   Russa,   bisognerà   fare   chiarezza   una   volta   per   tutte:  “Per   capire storicamente si deve considerare anche la buona fede. Ho scritto anch'io sul patriottismo nella R.S.I. Ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica! Se avesse vinto Mussolini e il Fuhrer, che ne sarebbe stato di questi patrioti idealisti e non fascisti? Che fine avrebbero fatto in un nuovo ordine dominato da Hitler,  ancor più   totalitario,  razzista e nutrito d'odio feroce? Anche i responsabili dei campi di concentramento nazisti come Rudolf  Höss, il comandante di Auschwitz, professarono d'essere bravi padri di famiglia e sinceri amanti della patria. Forse lo pensavano anche i guardiani dei gulag”. (Nota)Non basta giudicare le buone  intenzioni, accanto all’etica dell’ intenzione c’è da tener presente anche l’etica della responsabilità . Il metro di valutazione non può essere la sola  buona fede, occorre valutare anche le conseguenze morali che le decisioni assunte e le azioni potrebbero avere nei confronti degli altri e del mondo in genere. Non è ininfluente  per chi valuta i fatti storici e per la morale la causa per la quale si lotta , se si è aggrediti o aggressori,  se si combatta  dalla parte giusta o da quella sbagliata, se si lotta per il rispetto della dignità umana o per la “rottura d’umanità”, come quella rappresentata dalla tragedia  di Auschwitz!  “Si dice sempre ­ dice Pavone nell’intervista  a Repubblica 17 febbraio 2007 ­ che la storia non si fa con i se. E invece si fa anche con i se. Che servono proprio a capire la drammaticità di certi momenti della storia umana, quando si giocano partite fondamentali”. Anche Gentile si chiede: “Cosa sarebbe successo se avesse vinto Hitler?” Lo storico inglese Ian Kershaw  ha provato ad immaginare un diverso corso degli avvenimenti con Hitler padrone assoluto d’Europa, il Giappone che domina l’Asia e nessun ebreo superstite. (Il Sole 24 ore  25 maggio 2008. nota  Non è un mistero del resto che per Himmler, come rivela una recentissima biografia (Peter Longerich Heinrich Himmler: Biographie, ed. Siedler di Monaco), se il Terzo Reich avesse vinto la guerra, la Shoah avrebbe dovuto essere solo il primo passo nella politica di pianificazione dei genocidi e degli stermini, successivamente sarebbe toccato al popolo slavo, agli omosessuali, agli handicappati, alle persone considerate asociali (gli "Untermenschen”), ossia ogni persona, categoria o gruppo etnico e sociale classificato dalla tirannide e dalla sua ideologia come "subumano".“Quello che trovo  inaccettabile – dice Pavone riferendosi al tentativo di equiparare i combattenti della RSI ai partigiani ­ è mettere le due parti che allora erano in lotta, fascisti e antifascisti, sullo stesso piano, considerare equivalenti le due poste in gioco. Questo è un falso storico che diventa falso civile e morale. Ciò non impedisce di studiare le motivazioni di chi ha combattuto dalla parte di   Salò,   si   deve   farlo.   Si   capisce   cosa   pensavano,   si   trova   la   buona   fede   dei   singoli.   Ma l’equiparazione dei due fronti combattenti è un’altra cosa”.Colpisce,  a  mio avviso,   lo   squallore,   il  vuoto di  pensiero e  di  coscienza  civile,   la  povertà   che contraddistingue il dibattito politico su quella che è stata la più grande tragedia del secolo scorso. A tale proposito varrà la pena richiamare quanto ebbe a rispondere il partigiano di Giustizia e Libertà, Vittorio Foa, da poco scomparso, all’ex repubblichino Giorgio Pisanò, Senatore della Repubblica, eletto nelle fila del Movimento Sociale Italiano di Almirante,  durante un programma televisivo. Nell’occasione il Sen. Pisanò, porgendo la mano all’On. Foa gli disse: "Siamo tutti uguali, partigiani e legionari della RSI; abbiamo combattuto con onore, amavamo tutti il nostro paese, la Patria, tutti i morti sono uguali e meritano rispetto". L’On. Foa stringendogli la mano ribatté:  “È vero, abbiamo tutti combattuto e ci furono combattenti che lo fecero con onore da una parte e dall’altra, ma sta attento! Perché   tu dici  abbiamo tutti  degli   ideali,  siamo tutti  per  la Patria...  però  sta attento: se vincevate voi, io sarei ancora in prigione dove mi trovavo insieme a tanti altri come me;  poiché  

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abbiamo vinto noi, tu sei Senatore della Repubblica. Questa è la differenza”.( ) Ho voluto richiamare questo scambio di battute, perché nell’episodio è racchiuso il significato più profondo   e   forse   più   difficile   della   democrazia:   il   partigiano   Foa,   pur   rispettando   Pisanò,   il combattente fascista dell’ “altra parte”, rifiutò di essere considerato uguale, perché la democrazia accoglieva i  suoi oppositori  nelle  istituzioni,  mentre  il   fascismo li  aveva mandati   in galera o al confino. Sarà bene ricordare a chi parla dell’onore dei vinti, che l’onore non può essere concesso a chi ha tradito la patria, ha offeso la dignità  degli uomini, si è macchiato, alleandosi con il nazismo, di crimini orrendi contro l’umanità. Inoltre è il  caso forse di ricordare a coloro che calpestarono e negarono ogni libertà  e ogni pietà  che, con la rinascita dello Stato di Diritto,  la Repubblica ha garantito  anche a  loro gli stessi diritti  di ogni altro  libero cittadino,  tant’è  che Giorgio Pisanò, combattente della RSI ed alleato dei nazisti, ha potuto continuare a fare politica attiva, come altri del suo movimento, seguitare a scrivere, a dirigere riviste  e diventare tranquillamente senatore della Repubblica   Italiana,   per   ben   cinque   legislature,   e   godere   dell’immunità   parlamentare, quell’immunità revocata al deputato Antonio Gramsci, processato e lasciato marcire in carcere dal regime fascista.Per ultimo, è  necessario fare chiarezza anche in merito all’affermazione che “I morti sono tutti uguali e meritano pietà e rispetto”. E’   vero:   la   morte  di   un   uomo,   di   qualsiasi   uomo,   deve   indurre   in   ognuno   di   noi   pietà, commiserazione e compassione, senza dimenticare però, come dice Calvino, che “gli uomini sono certamente tutti uguali davanti alla morte, ma è la storia (…) che li divide in vittime e carnefici”. C’è  una  bella  differenza   tra  chi  è  morto  da  fascista,  collaborando con  i  carnefici  nazisti  nello sterminio di milioni di persone, e chi è morto combattendo da partigiano a fianco delle vittime per salvarle dalle camere a gas e per restituire al mondo libertà e democrazia. Spetta  alla  nuova Italia   fare  quello  che ha fatto  la  Germania che ha ora  ritrovato  la  sua  unità: ricostruire ciò  che ancora le manca,  un senso di appartenenza e coesione nazionale fondato sui migliori valori  della sua storia e della sua tradizione, preludio al tanto discusso e non realizzato "superamento del passato" che non ha mai cessato di opprimere le nostre coscienze di italiani. Lo esige se non altro,  e  lo  rende comunque possibile,   l'elevato livello di  evoluzione e  maturità democratica di cui ha dato prova in questi anni la parte più avvertita e democratica dell’Italia che si ispira ai valori della Costituzione, valori ai quali ha fatto riferimento, con i giovani di AN, per la prima   volta   anche   l’On   Gianfranco   Fini,   dando   prova   della   sua   maturità  democratica   e dell’evoluzione compiuta in questi anni:  “La destra politica italiana e a maggior ragione i giovani devono senza ambiguità dire che si riconoscono in alcuni valori della nostra Costituzione: libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Valori che hanno guidato e guidano la destra e che sono, a pieno titolo, antifascisti”.

3. Fare chiarezza sulla tragedia delle “foibe”

Tornando alla questione delle “Foibe” che è propriamente l’oggetto di queste riflessioni, mi pare di poter dire che, anche in questo caso specifico, i tempi sono ormai maturi per sgombrare il campo da stereotipi, polemiche e mistificazioni. Nella consapevolezza però che tutto ciò potrà avvenire se si prende atto, a livello politico e civile, delle cause che stanno all’origine di questa tremenda tragedia. Sarà  opportuno cominciare una buona volta,  anche per  quanto riguarda  il  versante  del  Confine orientale, a ripercorrere con animo sgombro da passioni politiche la strada della riflessione e della rivisitazione   storica,   la   più   oggettiva   possibile,   e   accingersi   ad   operare   una   forma   di   “catarsi individuale e collettiva”. E questo vale per tutti, per le nazioni e per le forze politiche,  all’interno delle due comunità, la croata e l’italiana. La Croazia deve abbandonare la “vulgata” che i morti erano   tutti   fascisti   caduti   nel   corso   dei   combattimenti   con   i   partigiani,   o   criminali   di   guerra giustiziati;  per contro  la  destra   italiana,  smettendo una certa  propaganda di  origine neofascista, 

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dovrà riconoscere le cause e ammettere le responsabilità per i crimini perpetrati dal fascismo; allo stesso  tempo smettere  di  parlare  di  “genocidio  nazionale”  e  dare  seguito  all’affermazione   fatta dall’on  Fini   il  14.03.1998  a  Trieste,   in  un  dibattito   con   l’on.  Violante,   che   invitava  a   “leggere interamente   tutte   le   pagine  della   storia”.  Che   significa   però  veramente   tutte,   senza   omissioni, affrontando per intero e a tutto campo la complessa tematica della tragedia del Confine orientale: l’eredità del fascismo e della guerra, le “foibe” e l’esodo delle popolazioni dall’Istria. Occorre liberarsi insomma da zavorra e ciarpame, sgomberando il terreno da slogan, luoghi comuni e   falsi   problemi   che  oscurano   la   verità   dei   fatti   e   che  una   certa   destra   ripropone   in   maniera ricorrente  quando   sostiene:   “se   c’è   stata  San  Sabba,   c’è   stata  Basovizza”  o  dice   “se   vengono estradati i criminali nazisti bisogna estradare anche quelli comunisti, che hanno commesso i crimini delle foibe”; ma anche smettere con i tentativi, nemmeno tanto velati, di affiancare o contrapporre alla “Giornata della memoria” la“Giornata Nazionale del Ricordo”.Come si possono equiparare tanto per fare un esempio o accomunare tra loro due tragedie tanto diverse, pur se storicamente connesse, come San Sabba e Basovizza?

3.1 La “Risiera di San Sabba” e le “Foibe di Basovizza”: due violenze diverse compiute in due distinti contesti storici.

LA RISIERA DI SAN SABBA A TRIESTE

                                                                                                  La stanza delle “microcelle”

                              LA FOIBA DI BASOVIZZA

La   Risiera   di   San   Sabba   oggi:   parte   dell’edificio   del molino con l’impronta del   forno crematorio distrutto dai nazisti prima di fuggire.

La Risiera di  San Sabba a Trieste fu l’unico campo di sterminio nazista in Italia   dotato   di   forno   crematorio. L’edificio  era stato  trasformato in  un vero e proprio  lager  con  tutte   le  sue tragiche caratteristiche: ampi cameroni con   file  di   letti   a   castello,   stanze  di tortura,   piccole   celle   in   cui   il prigioniero era costretto a rimanere in piedi. A San  Sabba vennero rinchiusi ebrei,   partigiani   slavi   o   italiani: moltissimi vennero giustiziati e i loro corpi cremati; altri vennero inviati nei lager   in   Austria,   Polonia,   Germania ecc..

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  IL MONUMENTO DELLA FOIBA DI BASOVIZZA

Come ha ricordato a Trieste il Presidente Ciampi nel maggio 2002, nel bel mezzo delle polemiche sulle due distinte manifestazioni che si erano tenute nelle due differenti località, tristemente note, in occasione del  25 aprile  e  che avevano  diviso   i   triestini,   “la  Risiera  di  San Saba e   le  Foibe di Basovizza sono simboli di due violenze diverse, entrambe esecrande, ma compiute in due contesti storici differenti e noi dobbiamo però conservarne la memoria”.  C’è differenza e non poca, fra  il disegno sistematico di sterminio propugnato dal nazismo di cui la Risiera di San Sabba è una pagina dolorosa, e le orribili violenze nazionalistiche scatenate alla fine di una guerra devastante. Bisogna imparare a parlare delle Foibe di Basovizza, senza parlare di San Sabba, anche perché non va   dimenticato  che   nelle   “foibe”   erano   finiti   in   precedenza,   durante   l’occupazione   fascista,   i partigiani titini, e poi, durante la dura repressione comunista, gli italiani. Come osserva  Pierluigi  Pallante:  “Non  furono soltanto  gli   italiani   a   subire   la  dura   repressione dell’esercito di Tito o delle formazioni paramilitari che lo affiancavano. Slavi di diverse etnie, che avevano collaborato con i tedeschi o che avversavano il nuovo regime comunista, subirono sorti ben 

Questa tristemente nota voragine non è una dolina carsica, ma il pozzo di una miniera scavata all’inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri nella speranza di trovarvi carbone, che però non venne trovato. Nessuno si prese la briga di coprire l’apertura. Nel 1945 si trasformò in un luogo di esecuzioni sommarie da parte dei partigiani comunisti di Tito. Nel 1980 il pozzo di Basovizza e la foiba n. 149 vennero riconosciute quali “monumenti di interesse nazionale”.

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peggiori (i morti furono decine di migliaia) come gli ustascia croati o i domobranci sloveni” (1).Un’altra  mistificazione  ricorrente  è  che  ogni  volta  si   riesce  ad assicurare  alla  giustizia  qualche criminale nazista, subito si chiede alla magistratura italiana, quasi a voler pareggiare il conto, di far estradare   qualche   criminale   dell’ex­Jugoslavia.   La   cosa   si   è   verificata   di   recente   a   seguito dell’estradizione del boia di Bolzano, Seifert, quando da più parti si è reclamata l’estradizione dei criminali delle foibe.  (Si veda al riguardo quanto scrive in una lettera pubblicata sulla Stampa del 19.02.08 un suo lettore, Piero Barone: “fino ad ora la magistratura italiana ha dimenticato questi crimini,  che devono essere giudicati  alla pari  di   tutti  gli  altri,  anche se sono passati   tanti  anni. Potremo un giorno chiedere l’estradizione anche per questi criminali?”).Il mio parere è che si debba fare chiarezza sull’intera questione, l’impressione infatti è che spesso se ne  parla  senza  averne un’esatta  cognizione,  ma soprattutto  sorvolando sui  crimini  commessi   in Jugoslavia dal fascismo e dai suoi fiancheggiatori e collaborazionisti (2). Si dimentica ad esempio che nel 1946 la Jugoslavia protestò vibratamente con l’Italia che non aveva accolto la richiesta di estradizione di 40 nostri cittadini accusati di crimini di guerra commessi sul suolo jugoslavo, dei quali era stato chiesto l’arresto e la consegna alle autorità jugoslave (3).  Invece di dare seguito alle richieste jugoslave,  il  Governo Italiano adottò  nella circostanza una politica dilatoria, assecondato in questo dal Ministero degli Esteri inglese e dal Governo americano che nel 1946 avevano concordato nel dire che “la giustizia richiederebbe di consegnare questi criminali, ma motivi  di   sicurezza  spingono nella  direzione  opposta”.  Di   fatto   l’Italia  negò  l’estradizione  alle autorità jugoslava (4) con il risultato che non solo i criminali non vennero estradati, ma “Nessuno dei   responsabili   italiani   dei   crimini   di   guerra   commessi   dai   fascisti   [in   Jugoslavia]   fu   mai condannato” e nel giugno 1951 “con un cavillo giuridico la magistratura militare chiuse con un nulla di fatto tutte le istruttorie” (5). Su questa questione è tornato di recente Il Corriere.

Le due immagini che riproduciamo qui di seguito sono assurte a simbolo delle due distinte tragedie: La “Giornata della Memoria” e il “Giorno del ricordo”.

   Il lager di Auschwitz II­ Birkenau. L’ingresso principale    detto :“Portone della morte”;                                                                                        Il logo della tragedia delle foibe

La parola fine va messa anche all’assurda equiparazione tra “Giornata della memoria” e “Giornata del   Ricordo”,   facendo   cessare   le   strumentalizzazioni   a   fini   politici   e   di   parte   con   il   volersi impossessare della ricorrenza per non parlare della Shoah o quello che è peggio per mettere sullo stesso piano  i due eventi, quasi a voler dire che se ci sono stati eccidi commessi dai nazifascisti ci sono   stati   anche   quelli   commessi   dai   “comunisti”   in   una   “miserabile   contabilità   dei   morti”. Purtroppo chi  ha  voluto  la  “Giornata  Nazionale  del  Ricordo” non si  è  preoccupato  tanto delle vittime e degli sfollati, quanto di usare le “foibe” per fare lotta politica, nel significato peggiore 

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della parola. Auschwitz   e   le   “foibe”  sono   due   realtà  distinte,   ognuna   delle   quali   incommensurabile   e incomparabile per natura, dimensioni, tragicità e, soprattutto, unicità. Vanno  ricordate  giustamente,  ma ognuna a se stante,  quando è   il  momento, come ha  dichiarato qualche anno fa al Corriere della Sera il triestino Claudio Magris: “senza il ridicolo bisogno, quasi di correggere il ricordo dell’una col ricordo delle altre. O viceversa, quando diciamo che Auschwitz era un orrore è grottesco precipitarsi a dire che i gulag e le foibe erano mostruosi o viceversa, come se ciò non fosse ovvio. E’ indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici di parte e legandole all’attualità politica”. Va anche aggiunto  che una certa  “vulgata storiografica”  e  alcune  forze di  sinistra non possono continuare  a giustificare gli  eccidi delle  “foibe” presentandoli  unicamente come la “reazione ai crimini del fascismo e al razzismo italiano”, perché “Certamente c’è una parte di verità in questa affermazione,   ma   questa   analisi   di   per   sé   corretta,   dice  Pierluigi  Pallante,   non   spiega   tutto   il fenomeno: trascura infatti, oltre alla dimensione internazionale del problema, il legame tra vicende giuliane e criteri di costruzione del comunismo in Jugoslavia”(6). 

3.1 Dare un senso agli eventi storici

Alle vicende luttuose va dato un senso e i caduti vanno collocati in un contesto storico che non può essere quello  della miserabile e confusa contabilità  dei  morti  o di  un loro confinamento  in  un indistinto mattatoio della storia. Come dice  lo   storico  Ganapini  dell’Università  di  Bologna “non possiamo ricordare  con  giusto rispetto chi è morto vittima innocente o anche chi è morto colpevole carnefice, se non sappiamo le circostanze le cause le scelte che l’hanno condotto a quel passo”. Quando si parla della tragedia del Confine  orientale  occorre   ricordare  che   i  crimini  perpetrati  dai   fascisti   e   loro  collaborazionisti durante l’occupazione della Jugoslavia; e quelli dei partigiani comunisti di Tito dal 1943 al 1945, durante l’epurazione titina, rimangono pur sempre crimini, chiunque li abbia commessi; non vanno né giustificati, né tanto meno analizzati con l’ottica dell’oggi, né isolati dalla loro cornice storica, ma studiati attentamente e collocati nel loro contesto internazionale.  “Ho accolto con soddisfazione la  decisione con cui   il  Parlamento Italiano ha  istituito  la Giornata Nazionale del Ricordo. Essa consente di commemorare con continuità una grande tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Il mio pensiero è rivolto con commozione a coloro che perirono in condizioni atroci nelle Foibe, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945; alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia. Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni.  Tanta  efferatezza   fu   la   tragica  conseguenza  delle   ideologie  nazionalistiche  e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono. Tutti i popoli europei ne hanno pagato il prezzo. Da allora sono trascorsi sessant'anni e si sono avvicendate tre generazioni. E' giunto il momento che i ricordi ragionati  prendano   il   posto  dei   rancori   esasperati.   I   principi  di  dignità   della  persona,  di rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei diritti delle minoranze sono il fondamento dell'Unione Europea. L'integrazione realizzata fra i nostri Paesi permette a tutti gli europei di condividere   un   unico   spazio   di   democrazia   e   di   libertà.   In   questa   nuova   realtà   unitaria contrassegnata dall'abolizione fisica delle frontiere, italiani, sloveni e croati possono guardare con fiducia ad un comune futuro, possono costruirlo insieme: consolidando innanzitutto una convivenza in cui la diversità  è  il  fattore di arricchimento reciproco, in cui le radici  e le tradizioni di ognuno vengono rispettate nella loro pari dignità. Auspico, in questo spirito, che la   Giornata   del   l0   febbraio,   ispirata   a   sentimenti   di   riconciliazione   e   di   dialogo,   lasci 

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un'impronta nella coscienza di tutti noi: italiani, europei, cittadini di un mondo che solo una rinnovata unità di ideali e di intenti democratici potrà rendere veramente migliore” (Roma, 9 febbraio  2005.   Il  Presidente  della  Repubblica,  Carlo  Azeglio  Ciampi,   in  occasione  della Giornata Nazionale del Ricordo).Quando si affrontano fatti e problematiche di carattere storico è bene tener presente un’elementare considerazione  “di  metodo”:  “Non  isolare  un evento per  quanto atroce  dal  contesto storico  più ampio”. Il diverso contesto in cui i fatti si sono svolti è la chiave per evitare di mischiare tutto in un unico calderone. In relazione al problema delle foibe, l’acquisizione storiografica forse più importante degli ultimi anni è quella che afferma che “il fenomeno delle foibe non è pienamente comprensibile se si rimane all’interno delle logiche che muovono la storia italiana del tempo”(7). Il professor Pallante ricorda giustamente che: “Una reale comprensione del problema nella sua complessità  e  in  tutte  le sue implicazioni   richiede   che   esso   sia   sottratto   alla   dimensione   locale   e   inserito   in   un   contesto internazionale più ampio: la questione nazionale in Italia e nella penisola balcanica, in Europa e nel mondo, gli assetti postbellici e le ambizioni egemoniche delle potenze della ‘grande alleanza’ nel secondo dopoguerra, le difficoltà e i problemi della costruzione dello Stato socialista jugoslavo, le speranze di realizzare in Italia trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, alimentati  dall’avanzata  dell’Armata  Rossa e  dai   successi  dell’esercito  di   liberazione   jugoslavo. Difficile è quindi il compito di chi vuole in primo luogo cercare di conoscere e capire la tragedia delle “foibe”e l’altra dolorosa vicenda dell’esodo di oltre duecentocinquantamila italiani dall’Istria e da Fiume, con tutto il carico di sofferenze dovuto allo “sradicamento di una comunità dalla sua terra d’origine” (8). Ma questo è un passo necessario se si vuole rimarginare la ferita e cercare di dare alla giornata il senso di una ricorrenza storica condivisa. “Se l’obiettivo della Giornata Nazionale del Ricordo”, come è stato affermato “è quello di contribuire a ricostruire un senso per la vicenda nazionale”, non possiamo isolare una catena di fatti o un singolo fatto, e giudicare solo questi. Forse è bene ricordare a tal proposito che l’art. 1 della legge istitutiva della “giornata” non parla solo di “foibe”; dice che La Repubblica ha istituito la “Giornata Nazionale del Ricordo” al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe; dell’esodo dalle loro terre di istriani,   fiumani  e  dalmati  nel   secondo dopoguerra  e  della  più   complessa  vicenda del  Confine orientale”. Con questa formulazione il legislatore non ha inteso sottolineare che gli avvenimenti sono legati da un rapporto di causa e effetto, piuttosto ha voluto invitarci a non isolare le vicende, bensì studiarle nella   loro  interezza e  complessità,  perché   tutte  hanno inciso ed hanno avuto un peso  in questa tremenda tragedia. Non è compito della storia né assolvere né condannare, e quindi non può né deve essere asservita a fini di parte, ma limitarsi ad esaminare i fatti freddamente e con distacco per capire le ragioni che hanno  portato  allo   sviluppo  di  certi   avvenimenti,   in  modo che  entrino  a   far  parte  della  nostra identità e divengano storia condivisa per la formazione delle nuove generazioni. “Bisogna cambiare storia” come dice Raoul Pupo “perché quella che ha coperto l’intera frontiera orientale nelle fasi finali del conflitto è stata la storia della Jugoslavia e del suo movimento partigiano, impegnato in una lotta che era ad un tempo guerra di  liberazione ed affermazione nazionale,  guerra civile e rivoluzione” (9). 

3.2 L’Italia e il Confine orientale: Il regime fascista e l’occupazione slovena.

“Di fronte a una razza inferiore e barbaracome la slava non si deve seguire la politica

 dello zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero,

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 il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possono sacrificare 500.000 slavi barbari

 a 50.000 italiani”Benito Mussolini, 1920

Non rientra nell’economia di questo mio contributo analizzare la complessa cornice storica europea sopra  delineata,   più   modestamente   mi   propongo   di   esaminare  alcune   questioni   allo   scopo   di depurare   questa   tragedia   dalle   troppe   strumentalizzazioni,   dai   luoghi   comuni   e   dai   silenzi, cominciando a pormi, e quindi a rispondere ad alcune domande: “Qual era il quadro storico politico dell’Italia nel suo Confine orientale? Quale quello della Venezia Giulia, dopo l’8 settembre? Che cosa  sono  le   foibe?  Quale   fu   la  dimensione  dell’Esodo? Quali   i  problemi  di   insediamento  dei profughi?”.La storiografia ha messo in luce, per quanto riguarda il versante orientale, l’intreccio di questioni che già si addensavano su quest’area all’interno dell’impero asburgico, cui  in seguito si aggiunsero: la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale a seguito dell’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e la sua politica; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941; l’operare, dopo  l’8  settembre,  della  “Zona di  operazioni  Litorale  Adriatico”  alle  dirette  dipendenze  della Germania. La politica di Tito, volta ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia, si inserì   in questo quadro   incandescente   in   cui   gli   odi   fra   nazionalità   erano   portati   all’estremo.  Da   qui   i   traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.

             Il generale Mario Roatta “I ribelli devono essere trattati non secondo la 

formula del dente per dente, ma bensì da quella testa per dente” (Circolare 4 emanata dal  generale Mario Roatta, comandante della 2a armata dell’esercito di occupazione in  Jugoslavia).

   

   

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3.3 L’Incendio della Casa del popolo sloveno a Trieste

Il 13 luglio 1920, anche per sabotare le trattative diplomatiche   italo­jugoslave   sulla   questione   di Fiume   e   dei   confini   tra   i   due   paesi,   i   fascisti incendiarono   lo  Slovenski  Narodni  Dom  (Casa del   popolo   sloveno),   simbolo   della   comunità slava a Trieste. Ecco come Boris Pahor, scrittore triestino   di   madre   lingua   slovena   narra,   con struggenti   parole,   l’evento   in   “Necropoli”,   lo splendido libro, che racconta la sua tragedia di ex deportato nei lager nazisti:  “Al bambino a cui era capitato   in   sorte   di   partecipare   all’angoscia   della  propria   comunità   che   veniva   rinnegata   e   che  assisteva   passivamente   alle   fiamme   che   nel   1920 distruggevano  il   suo   teatro nel   centro di  Trieste,  a  quel bambino era stata per sempre compromessa ogni  immagine  di   futuro.   Il   cielo   color   sangue   sopra   il  porto,   i   fascisti  che dopo aver cosparso di  benzina  quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi  attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel  suo animo infantile,   traumatizzandolo.  E quello  era soltanto l’inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò  a essere considerato colpevole,  senza sapere contro  chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che  lo  si  condannasse per   l’uso della   lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a  conoscere   il   mondo.   Tutto   divenne   ancora   più  mostruoso  quando  a  decine  di  migliaia  di   persone 

furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti del cimiteri. Ed ecco che  quella soppressione, durata un quarto di secolo, raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo  l’individuo a un numero.” (10) 

“Quella del Confine orientale” – ha scritto Guido Crainz – “è una storia di lungo periodo che viene delineata dallo scrittore istriano Fulvio Tomizza, ne La miglior vita”. Del resto già nel 1947, il grande storico di origine istriana Ernesto Sestan nel bel libro  Venezia Giulia.   Lineamenti   di   una   storia   etnica   e   culturale  tratteggiava   l’inasprirsi   dei   nazionalismi ottocenteschi e poi le responsabilità del fascismo. “Un fascista giuliano, che sarà poi ministro di Mussolini”   annotava   Sestan,   “ha   riassunto   così   il   programma   di   snazionalizzazione:   ‘Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (...) Bisogna togliere i maestri slavi dalle   scuole,   i  preti   slavi  dalle  parrocchie’”.   I  più,   tra  gli   italiani,  “applaudirono o  assentirono tacendo”.  E nel 1928 il  ministro Giulio Italico vomitava parole di odio: ”Colui che non accetta l’italianità dell’Istria e della Dalmazia finirà nelle foibe” (11).

Proclama degli squadristi di Dignano (vicino Pola)

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Non   va   dimenticato  che   il   collaborazionista filo­nazista   Ante   Pavelic,   divenuto   dittatore della Croazia dopo l’occupazione tedesca, e le sue   bande   criminali   ustascia   che   hanno massacrato  comunisti,   serbi,   ebrei,   sono  state addestrate   per   anni   in   Italia,   a   Lipari,   dai fascisti italiani e sono ritornate a Zagabria sui camion di Mussolini. C’è una memoria che non può  essere  svilita, perché questo è l’humus in cui   poi   sono   maturati   i   crimini.   In   questo quadro irrompe la guerra e nel 1941 si assiste all’occupazione   della   Jugoslavia   da   parte   di Germania,   Italia   e   Ungheria.   Quella aggressione   congiunta,   osserva   la   storica Marina   Cattaruzza,   “implicava   per   il   popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione”. 

L’occupazione tedesca e fascista della Slovenia fu di una ferocia inaudita, come hanno documentato ricerche storiche serie: “con la distruzione e l’incendio di interi villaggi e l’uccisione di tutti gli abitanti:  vecchi,  donne e  bambini”.  Ricorda  Pallante  nel  già  citato   studio:  “Nel  verbale  di  una riunione dell’XI Corpo d’armata, indetta il 26 giugno 1942 dal generale Mario Robotti, al punto 5° del   promemoria   si   dice:   ‘Ricordarsi   che   i   risultati   si   potranno   dedurre   solo   dai  morti  ribelli. Concezione dei nostri superiori: a qualunque costo deve essere ristabilito il dominio ed il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e distrutta la Slovenia’” .  “Durante   i  29 mesi  di  occupazione   italiana   (1941­43),  nella   sola  provincia  di  Lubiana   furono giustiziati 900 partigiani e circa 5.000 civili, come ostaggi o durante i rastrellamenti. Altri 7.000 sloveni morirono di stenti, malattie e maltrattamenti nei campi di concentramento, in Italia e nella Jugoslavia occupata (Arbe, Gonars, Visco, Monigo, Renicci, ecc.)  (12)

3.4 La Venezia Giulia dopo l’8 settembre: i delitti dei partigiani di Tito: le “foibe” 

Per   un   breve   periodo  dopo   l’8  settembre 

Militari e civili arrestati dai comunisti jugoslavi a Trieste nel maggio del 1945.

Bambini jugoslavi nel campo di internamento di Arbe (isola della Dalmazia), 1942

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sono i partigiani jugoslavi a tenere campo in Istria e qui si registra la prima esplosione di violenze contro gli italiani. I Tedeschi avevano occupato i capoluoghi di Trieste, Pola e Fiume, ma avevano trascurato  l’entroterra   dell’Istria   dove   confluirono   precipitosamente   le   formazioni   slave   che occuparono alcune località instaurando ovunque poteri popolari. Cominciarono così gli arresti di squadristi, gerarchi locali, rappresentanti dello Stato, dal podestà ai carabinieri agli ufficiali postali; si   colpiva   chiunque   fosse   stato   coinvolto   nell’amministrazione   italiana   fascista,   odiata   per   le prevaricazioni,   il   fiscalismo,   la   politica   forzata   di   italianizzazione.   Fu   creato   un   tribunale rivoluzionario che condannò a morte molti dei processati. In questo contesto si colloca la tragedia delle foibe. La   foiba   (fossa)   è   un   tipo   di   voragine  naturale   profonda,   con un’apertura  larga pochi  metri,  a  forma di   imbuto rovesciato,  sul fondo della quale si  trova un inghiottitoio;  un fenomeno  carsico molto   diffuso   in   Istria.   In   questa   cavità   la   popolazione   usava gettare di tutto, generalmente tutto ciò che non era più utile o che era ritenuto pericoloso per la salute. Gettare un uomo nella foiba significava  quindi   trattarlo  come rifiuto.  La  più   conosciuta  è   la foiba di Basovizza, di cui già si è detto, sopra la città di Trieste; simboleggia la seconda tragedia della Venezia Giulia e dell’Istria compiutasi tra il 1943 e il 1945.Le foibe sono state un crimine; hanno rappresentato il “tentativo di far   fuori   gli   italiani   per   ridurre   l’italianità   di   queste   zone”.   In questo   senso   Napolitano   ha   ragione   quando   parla   di   “pulizia   etnica”.   Nelle   foibe   i   partigiani jugoslavi   gettarono   i   corpi   di   migliaia   d’italiani   ritenuti   oppositori   del   disegno   annessionista perseguito  dal  maresciallo  Tito:  ex   fascisti,   semplici  cittadini,  ma  anche  partigiani  “bianchi”  e persino sloveni e croati anti­comunisti. Le vittime, dopo essere state torturate ferocemente, venivano legate tra loro con filo di ferro, fucilate sull’orlo della cavità e fatte cadere all’interno, qualcuna era ancora viva. Si stima che le vittime, tra foibe, altre forme di esecuzioni, e campi di detenzione, siano state almeno diecimila. Nella primavera del 1945 centinaia di militari della RSI, fatti prigionieri dai soldati di Tito, furono passati per le armi, migliaia d’altri morirono nei campi di prigionia.

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Il recupero di alcune salme in una foiba istriana nel 1944

Ricordo che io e Kardelj andammo in Istria a organizzare la propa­ganda anti italiana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate chequelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero.

Ma  bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ognitipo. Così fu fatto”.

Milovan Djilas, 1991.

3.5 L’epurazione titina: l’esodo dei giuliano­dalmati

Tra  il  1944 e  la   fine degli  anni  Cinquanta,  alla   frontiera  orientale  d’Italia,   in  conseguenza  del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 con cui l’Istria e le isole del Quarnaro venivano annesse alla Jugoslavia, l’esercito di Tito iniziò un processo di epurazione politica che costrinse più di un quarto di   milione   di   uomini,   donne   e   bambini,  in   prevalenza   italiani   che   costituivano   la   grande maggioranza della comunità giuliano­dalmata, a fuggire dalle loro case e dai luoghi che erano stati 

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le loro storiche residenze. Questo massiccio spostamento venne   chiamato   ­   come   ricorda   Pupo   ­   dai   giuliani dell’epoca   “Esodo”,   termine   di   evidente   ascendenza biblica per sottolineare che un intero popolo, con le sue articolazioni   sociali,   le   sue   tradizioni   e   i   suoi   affetti, fosse stato cacciato dalla propria terra. La meta istintiva degli esuli fu naturalmente l’Italia .Un ruolo  importante nel   trasferimento dei  profughi  da Pola a Venezia ed Ancona lo svolse il piroscafo Toscana: 

“una delle poche unità efficienti di cui dispone la nostra marina, capace di duemila posti letto con brandine a castello e dotata di ambienti medici per il pronto soccorso e l’infermeria e la nave ideale per   trasferire   una   popolazione   di   ogni   età,   psicologicamente   provata   e   spesso   fisicamente   in difficoltà. (...) Sul Toscana si imbarca un’umanità sofferente, che ha scavato in fronte il senso della sconfitta” (13).

Così una esule di Pola, A. M. Nelida, ricorda il viaggio a bordo del Toscana:  “Ci imbarchiamo di sera, di nuovo grigio, pioggia, gelo, silenzio, scialli, ombrelli. Scendiamo nella stiva. Qualcuno, per non pensare e non parlare, tira fuori le carte e una bottiglia di vino. I pensieri e i dolori sono troppo grandi: c’è bisogno di alcol per farli tacere. E la notte stivati come sardine in scatola in tre file di cuccette l’una sopra l’altra, centinaia di uomini, di donne e di bambini che fingono di dormire e fingono di non piangere, tutti resi uguali dallo stesso dolore  e dalla stessa paura ...”(14).Istintivamente   il   popolo  che   si   spostava   cercava   di dirigersi   verso   l’Italia,   ma   ciò   non   sempre   si   rivelò possibile   per   difficoltà,   politiche   ed   economiche.   Le 

prime erano riconducibili alle scelte contraddittorie delle autorità di governo che consideravano la questione dell’esodo non “politicamente corretta”. Per gli esuli che “hanno pagato per tutti il conto della seconda guerra mondiale (...) non è stato fatto tutto il possibile se è vero, come purtroppo è 

vero, che l’allora rappresentante del   Governo   Militare   Alleato, Harold   MacMillan,   un   giorno disse   ai   nostri   governanti:   “La colpa è tutta vostra. Siete voi che non   volete   salvare   la   Venezia Giulia”. In effetti, la questione di Trieste   era   un   argomento scabroso per  i nostri  governanti di allora (De Gasperi lo definirà un ‘tormento’) (15). Ma accanto alle   difficoltà   politiche,   a rendere   difficile   l’accoglienza, c’erano   le   condizioni economiche  di   un   Paese  uscito devastato dalla guerra, con pochi mezzi e pochi fondi da destinare ai profughi. La maggioranza dei profughi si 

            Principali località italiane dove sorsero i campi profughi

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stabilì e cercò di rimanere in Italia dove però saranno considerati paradossalmente, se non proprio stranieri,   ospiti   indesiderati;   gli   altri,   non   trovando   posto,   furono   costretti   a   cercare   fortuna oltreoceano (soprattutto nelle Americhe, in Australia e nella Nuova Zelanda).L’Italia purtroppo non era preparata, né politicamente né economicamente, a ricevere i profughi. Forme di accoglienza furono approntate tardi e non sempre in modo organico ed efficiente.  La comunità friulana fu smembrata in vari campi profughi e la permanenza in situazioni precarie si protrasse per anni. Complessivamente furono allestiti centoventi campi, sparpagliati un po’ in tutte le regioni, ricavati da campi di concentramento smantellati, da caserme abbandonate e a volte in rovina con le camere tramezzate da legno e cartoni per ricavarne stanze, da stabilimenti industriali dismessi dove pesanti coperte di lana separavano lo spazio di una famiglia da quello di un’altra, da chiese  e  altri   ricoveri  di   fortuna   in  cui   trovarono  rifugio,  oltre  agli  esuli  giuliani,  anche  quelli provenienti  dalle ex colonie africane e dal Dodecaneso:  profughi  di  guerra e sinistrati.  Ancora nell’estate del 1963,  8.493 esuli giuliano­dalmati risultavano ospitati in quindici campi profughi dislocati sul territorio nazionale.Le fonti di cui disponiamo concordano nel descrivere l’impatto terribile degli esuli con la realtà dei campi, fatta di miserie, privazioni, carenze igieniche, assoluta mancanza di intimità. Ricorda una testimone ospite  per  qualche   tempo  in  un  campo nei  pressi  di  Bergamo:  “Il  campo era  un  ex manicomio. Si era divisi solo dalle coperte. Puzzolente, che quell’odore l’ho avuto per anni nel naso. E la povera gente [...] Allora quando siamo arrivati, era con noi anche la zia A. di F., ho aperto. ‘Signora, quanti siete?’ Ho detto ‘Mi pare 32’. Oddio, altri 32 disgraziati. E’ tanto brutto signora, non vede?’ Con le coperte, chi urla di notte, chi piange, è una roba... E il mangiare era una cosa orribile, peggio delle bestie. E’ venuto il Sindaco e questa signora è andata con la gamella fin sotto al naso: ‘Provi a mangiarlo Lei signor Sindaco, questo mangiare, lo mangi!’ [...] Vicino a me era un bambino slavo, pieno di pidocchi, tutta la notte sopra di me” (...) (16).

Le due immagini fotografano le condizioni drammatiche nei campi profughi :   ­ un bambino gioca negli angusti spazi; 

  ­ esuli in fila per mangiare nel campo  profughi di Brescia, 1949. 

 

 

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  “Tutto   il   cuore   della   città   era   là,   in   quei   saluti,   in   quelle   raccomandazioni,   in   quegli   addii:   tutto   il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni del popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “i va, i va e noi restemo: anche se imbarchemo tuta la cità...  sempre alegri e mai passion” diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andè andè  fioi, feghe onor a Trieste!” raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare fra commenti e rimpianti: “Nonnina su la se movi!”.Ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!” (G. Stuparich, Trieste emigra, in il Lavoratore, 1° agosto 1955) (17).

3.6 L’emigrazione oltreoceano

Non minori furono i disagi e i problemi di discriminazione che incontrarono quanti furono costretti ad emigrare oltreoceano in Australia, nelle Americhe o in Nuova Zelanda. “Spesso le difficoltà linguistiche concorrevano a rendere più duro l’impatto con il nuovo mondo. Erano   spesso   costretti   a   lavorare   in   condizioni   climatiche   disagevoli,   con   turni   di   lavoro massacranti”,   come   si   può   leggere   nella   testimonianza  di   un   esule   emigrato   in  Australia,   che riportiamo qui di sotto: “Era duro soprattutto per le condizioni climatiche. Non esisteva orario fisso; più si lavorava più si prendeva. Di solito si lavorava di notte perché di giorno faceva troppo caldo. Prima di cominciare a tagliare la canna si incendiava per via dei serpenti. Ma io ho tagliato anche la canna fresca e quella si lascia aprire con maggiore facilità”(18).“Oggi a distanza di tanti anni è difficile capire“, come dice R. Pupo, “se sia stata più amara la sorte di chi, dopo lunghe odissee, si ritrovò scaraventato dall’altra parte del mondo, ovvero di coloro che si spostarono in fondo solo di pochi chilometri, perché trovarono rifugio a Trieste e rimasero lì per un mezzo secolo, condannati a guardare ogni giorno le loro case nitide oltre un braccio di mare che sembra un lago, nelle quali non sarebbero mai più   tornati”; ma ad ogni buon conto, chiudendo queste   mie   considerazioni   sull’Esodo,   penso   che   si   possa   concordare   con   C.   Magris   che   in un’intervista rilasciata al “Piccolo”, di Trieste, il  5 ottobre 1987, affermò : “I profughi hanno dato nel   complesso   un   grande   esempio   di   dignità,   di   apertura,   di   moderazione   e   tolleranza,   di intelligenza, pagando essi soli una colpa che ricade su tutta l’ Italia”.

4. Per una memoria non più divisa, ma  condivisa e per  un “25 aprile” di tutti gli italiani

Con   le   riflessioni   che  precedono  si  è  cercato  di   riassumere   il   dramma  del  Confine  orientale, dall’occupazione fascista della Jugoslavia all‘eredità della guerra con le foibe e l’esodo dei giuliano­dalmati. L’intento era di offrire in particolare ai giovani studenti del liceo “E. Cairoli” di Varese, elementi di riflessione per la loro formazione con un approccio metodologico storico sereno, oggettivo, unitario, non parziale e settario. La domanda è: Che fare? E’ possibile ridare dignità a un anniversario per troppo tempo dimenticato? Che cosa si può fare per avere una memoria condivisa della tragedia delle foibe e di tutta la complessa vicenda del Confine orientale e della Resistenza italiana? Sarà possibile elaborare una memoria condivisa su un tragico evento, per troppo tempo dimenticato, come quello delle “foibe”, se saremo capaci, come dice Enzo Collotti   nel saggio Le tragedie del  confine orientale di “restituire le coordinate storiche di queste laceranti vicende e chiamare con il loro nome senza eufemismi e senza tabù i comportamenti di individui, ceti, gruppi sociali, parti politiche”(...). Questa è una fase necessaria, che “fa parte di un processo di crescita di una coscienza civile  democratica,  che  dalla   consapevolezza  degli  errori,   delle  violenze  e  delle   ingiustizie  del passato deve trarre alimento e ispirazione per una definitiva inversione di rotta (...). 

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“Dobbiamo prendere parte senza reticenze per la costruzione di un futuro che, senza dimenticare gli orrori del passato, anzi facendo tesoro di quella esperienza, si apra ad orizzonti nuovi nel rispetto reciproco   delle   nazionalità   in   nome  di   una   comune   umanità   e   del   comune   rispetto   dei   diritti umani”(19). La costruzione di una  memoria condivisa ed accettata sarà possibile solo prendendo coscienza che siamo, come dice G. Crainz,  “in presenza di una storia lunga di un complesso intrecciarsi di dolori e   lacerazioni,   che   si   possono   comprendere   appieno   solo   ponendo   a   confronto   punti   di   vista differenti,   facendo   dialogare   culture   diverse   e   opposte   memorie,   che   in   questa   storia   si   sono sedimentate, al di qua e al di là dei confini, che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Su questo fronte bisogna lavorare e dare spazio a quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia, che sono ancora allo studio e di cui si è parlato anche recentemente. Ma gli atti simbolici diventano reali solo se vengono accompagnati da processi culturali in grado di coinvolgere in profondità società, scuola, Istituzioni, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo lontani da un confronto di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime   e   che   permetta   a   ogni   comunità   nazionale   di   riconoscere   anche   le   proprie responsabilità”(20).Non si può però dimenticare che se oggi possiamo parlare liberamente di “Risiera di San Sabba e “foibe”, esprimendo opinioni diverse e contrastanti, lo dobbiamo al 25 aprile, alla Resistenza e alla Liberazione, e a tutti quei patrioti che sono morti per ridare a tutti gli italiani, senza distinzione di appartenenza politica, la libertà e la democrazia. “Noi grazie alla Resistenza”, come ha ricordato qualche anno fa il Presidente Ciampi, “possiamo guardare alla nostra storia e al futuro con la serenità  che ci deriva dalle istituzioni nazionali ed europee  che abbiamo saputo  costruire”.  E  nella   recente   intervista  al  Messaggero  riafferma con forma questa sua convinzione:"Tutti gli uomini che siedono in Parlamento   devono  confermare la loro adesione ai principi della Costituzione. Sono  considerati democratici proprio perché aderiscono a quei valori e a questi principi. La Costituzione è più viva che mai e ­ non dimentichiamolo mai ­ nasce dalla Resistenza. Ho sempre ricordato che c'è un filo rosso che unisce ili Risorgimento, la Resistenza  e la Costituzione”.Purtroppo  il  25 aprile non è  stato mai festeggiato dagli  esponenti governativi del centrodestra, alcune affermazioni fatte di recente dal Presidente della Camera On. Fini fanno bene sperare. Ma perché è così importante che tutti gli esponenti di   opposizione e di maggioranza festeggino il 25 aprile? Perché questa data è al contempo il giorno in cui gli italiani hanno restituito dignità e onore al   loro paese ma anche l’inizio di una nuova stagione di  libertà  e di  democrazia:  è   la giornata fondativa della nostra Repubblica. Nel 25 Aprile,  come ha scritto Piero Calamandrei,  affondano le radici   la  nostra democrazia,   la nostra Repubblica e la nostra Costituzione. Perché questa è la festa della Liberazione e anche della pacificazione nazionale sancita nei valori e nei principi contenuti nella Costituzione repubblicana, che, per la prima volta nella storia italiana, afferma la pienezza dei diritti di libertà per tutti, senza distinzione di razza, di sesso, di censo, di credo politico e religioso. Bisogna  però   che   la  politica,   tutta   la   politica,   riacquisti   una  visione  alta   dell’etica  pubblica   e dell’etica della coerenza e della responsabilità capace di recuperare valori collettivi condivisi. E’ necessario    che ciò  avvenga al  più  presto e solo allora si  potrà   trasformare  il  25 aprile   in  una giornata di tutte le memorie; e solo così l’auspicio del Presidente Napolitano di avere un nuovo “patriottismo   nazionale”   e   una   memoria   condivisa   da   tutti   gli   italiani   potranno   realizzarsi concretamente. 

                                                                           Romolo Vitelli                                  (già docente di storia e filosofia al liceo classico “E. Cairoli “ di Varese

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Note1 JacopoVenier, del PDCI, al quotidiano la Repubblica dell’ 11.02.08;   Maurizio Gasparri di Alleanza Nazionale  ibidem “La tragedia delle “foibe”, Pierluigi Pallante, Editori Riuniti, 2006  pag. 117 ).   Molti sono i diari e i memoriali di guerra scritti da militari italiani presenti che documentano le atrocità commesse dai fascisti  e dai  collaborazionisti  sulle popolazioni.  Chi volesse approfondire l’argomento ha una ricca bibliografia   in proposito da consultare: mi limito a segnalare il volume “Pagine di Storia “rimosse”, La politica e i crimini di guerra dell’Italia fascista in Jugoslavia di Enrico Vigna, “Santa messa per i miei fucilati”, di don Pietro Brignoli . Edizioni Arterigere­ Esse Zeta, Varese, 20053 ibidem. pag 92  4 ibidem pag. 92.5 C. Silvestri, Dalla Redenzione al fascismo. Trieste 1918­1922, Del Bianco  1996, pag 60.6 La tragedia delle “foibe”, cit. pag 1187  Raul Pupo, L’eredità del fascismo e della guerra: dalle foibe all’esodo dall’Istria, in “Fascismo Foibe Esodo, Atti del convegno  del XIII Congresso dell’Aned, Trieste 23.9.2004, pag. 1008  La tragedia delle “foibe” cit. pagine 13­149  Fascismo Foibe Esodo, cit. pag. 10010  Boris Pahor, “Necropoli”, Fazi editore, 2008, pag.43In un articolo su Sole 24 ore e in una  intervista usciti dopo la redazione di questo mio lavoro Pahor torna sull’incendio del centro culturale sloveno e più in generale sulla questione delle Foibe. Ecco ampi stralci dell’intervista a la Repubblica: “Bruciarono il centro culturale   sloveno.   Un   palazzo   grandioso,   in   pieno   centro,   costruito   sotto   l’Austria,   con   sale   studio,   biblioteche,   un   grande teatro...Bruciò per venti ore...I carabinieri non intervennero e i fascisti tagliarono le pompe ai vigili del fuoco....Tutta la città salì sulle colline per vedere l’incendio dall’alto” e sulla lingua dice “Ci tolsero la lingua. Ci cambiarono i cognomi. Krizman divenne Crociato. Vodopivec, Bevilacqua .(...) Da un giorno all’altro dovetti essere italiano senza capire perché (...) Questa assurdità mi mise addosso un male di vivere tremendo. Piangevo di rabbia, non riuscivo a studiare. Papà mi aiutava come poteva col suo vocabolario Italiano­ tedesco, s’immagini con che risultati. Facevo errori, il maestro rideva di me, mi sentivo umiliato. Non avevo nemmeno il coraggio di tornare a casa dopo la scuola. (“Memoria il professore che riporta a galla la storia rimossa dagli italiani”, il venerdì di Repubblica, 14.03.2008).11 Traggo queste interessanti riflessioni dalla pagina di cultura de la Repubblica del 10 febbraio 2007, Foibe, le ferite nascoste;12 La tragedia delle foibe cit. pag.4013 G. Oliva, Profughi pagg. 42/143, Mondadori  14. A. Petacco, l’Esodo,   pag. 166  Mondadori 15, A. Petacco cit. pag. 18216 Pupo, cit,  pag 20917 ibidem,  cit, pag. 22618 ibidem, pag23519 “Fascismo, Foibe Esodo, ct.20 la Repubblica del 10 febbraio 2007, Foibe, le ferite nascoste, cit.