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TESI Per l’esame di I Livello DEL CORSO BIENNALE PER MEDIATORI FAMILIARI SECONDO NORMA TECNICA UNI 11644 EROGATO DALL’ASSOCIAZIONE BRAHMAPUTRA ONLUS E DALLO STUDIO T.d.L. DELLA DOTT.SA ISABELLA BUZZI Titolo: “Effetti della Mediazione Familiare sulla conflittualità genitoriale: strumento preventivo di comportamenti violenti e/o aggressivi dei figli ” Corsista: Emanuela Libralon Data della discussione: 28 Gennaio 2018 Corso riconosciuto da

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TESI

Per l’esame di I Livello

DEL CORSO BIENNALE PER MEDIATORI FAMILIARI

SECONDO NORMA TECNICA UNI 11644

EROGATO DALL’ASSOCIAZIONE BRAHMAPUTRA ONLUS E DALLO

STUDIO T.d.L. DELLA DOTT.SA ISABELLA BUZZI

Titolo:

“Effetti della Mediazione Familiare sulla conflittualità genitoriale: strumento preventivo di comportamenti violenti e/o aggressivi dei figli ”

Corsista: Emanuela Libralon Data della discussione: 28 Gennaio 2018

Corso riconosciuto da

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“ Dalla mia parete pende un lavoro giapponese, di legno, maschera di un cattivo demone, laccata d’oro. Con senso partecipe vedo le vene gonfie della fronte mostrare quanto sia faticoso essere cattivi”

Bertold Brecht

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INDICE

INTRODUZIONE pag 4 Capitolo 1: Separazione e conflittualità pag 6 Capitolo 2: Violenza assistita intradomestica pag 10 e comportamenti dei figli Capitolo 3: Il Bullismo pag. 15 Capitolo 4: Effetto preventivo della mediazione come pag. 21 strumento depotenziante del conflitto Conclusioni pag. 29 Bibliografia e sitografia pag.32

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INTRODUZIONE

Il fallimento di un matrimonio, il “ venir meno di un patto iniziale” , (Francini,

2014) è uno degli eventi più dolorosi che possano accadere nella

vita degli essere umani, anche se lasciarsi “ufficialmente” è costume relativamente

recente, soprattutto in Italia.

Nell’arco degli ultimi 35 anni le separazioni e i conseguenti divorzi hanno subìto un

aumento pressoché costante, (stabilizzandosi solo negli ultimissimi anni)

dando l’illusione di essere passaggio facile e praticamente indolore, proprio perché

così diffuso.

In realtà le cose stanno in modo completamente diverso, perché alla crescita delle

separazioni e dei divorzi non è corrisposta la crescita delle competenze relazionali e

di gestione dell’evento necessarie per poterli affrontare.

Le interminabili cause legali che hanno oberato per anni i tribunali danno una lettura

reale, e implacabile, di come i conflitti che hanno portato alla fine del matrimonio

non solo non si estinguano con la separazione, ma se possibile spesso si amplifichino

con tutto il loro potenziale di rabbia e di dolore.

In presenza dei figli questo carico di emozioni diventa una ulteriore difficoltà

da gestire, poiché la prole spesso assume l’ingrato ruolo di oggetto conteso fra i

coniugi separandi, incrementando il conflitto in una spirale che si autoalimenta senza

apparente via di uscita.

I figli, incolpevoli spettatori di questo dramma, si trovano quindi spesso ad assistere

ad episodi di violenza psicologica, economica -a volte anche fisica- fra i propri

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genitori, senza avere la possibilità di capire, di elaborare, di difendersi.

In seguito a ciò gli stessi figli possono riprodurre in altri ambiti (sociali, scolastici

familiari) comportamenti aggressivi e/o violenti, fino ad arrivare ad attuare atti di

vero e proprio bullismo.

In questo momento così doloroso e difficile, la coppia da sola non è in grado di

affrontare i molteplici problemi che si presentano, e generalmente chiede aiuto a

diverse figure professionali quali avvocati, psicologi, assistenti sociali.

Ognuno di loro cerca di aiutare i coniugi o uno di loro per la parte che gli compete,

ma manca in questo aiuto una visione d’insieme del sistema famiglia, e soprattutto

manca la capacità di aiutare i coniugi a dialogare, a riaprire i canali comunicativi

ormai seriamente compromessi.

Ecco allora che la Mediazione Familiare può diventare uno strumento in più: un

percorso in cui -oltre alla funzione primaria che è quella di far raggiungere il miglior

accordo condiviso possibile fra i coniugi, riguardo il loro futuro e quella della loro

famiglia- la coppia genitoriale apprende come gestire il conflitto, portando in un

luogo sicuro e protetto tutte le loro emozioni e i loro bisogni, imparando a litigare

depotenziando rabbia ed aggressività.

I genitori attraverso il percorso di Mediazione Familiare potranno perciò acquisire

i presupposti relazionali idonei a garantire ai figli una continuità educativa, una

presenza il più possibile serena e amorevole da parte di entrambi, assicurando loro

una crescita equilibrata e stabile, anche nella nuova famiglia riorganizzata.

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CAPITOLO 1

Separazione e conflittualità

La famiglia, intesa come un’organizzazione complessa di relazioni di parentela, è di

per sé scenario –lungo il proprio ciclo vitale- di conflitti di varia natura, che si

snodano a diversi livelli relazionali e che investono la coppia coniugale, i figli, la

relazione genitori-figli, i rapporti con le famiglie di origine. (Gadioli, 2004)

La famiglia, vista come intreccio di storie individuali, relazionali e sociali, è pertanto

chiamata continuamente a conciliare forze di segno opposto nel tentativo di compiere

una sintesi tra la necessaria differenziazione e l’esigenza (vitale per la sua stessa

sopravvivenza) di unità.

Il conflitto è presente quindi in ogni relazione nel suo divenire, e non è in sé

negativo, ma diventa distruttivo quando travalica il problema che lo ha scatenato per

diventare occasione di discussione sul vissuto di autostima o di potere all’interno

della relazione.

La separazione fra i coniugi è uno dei momenti in cui il conflitto esplode con il

massimo potere deflagrante, soprattutto nei casi in cui sia voluta da uno solo: chi la

vuole rivendica in genere la possibilità di avere un altro futuro; chi la subisce la sente

invece come una mancanza di articolazione sul futuro.

La definitiva rottura del legame di coppia appare così una opportunità per chi

desidera e promuove la separazione, ma assume caratteristiche di impossibilità di

riorganizzare la propria vita al di fuori della coppia (di quella coppia!) per chi è

costretto ad adattarsi ad una situazione non voluta e anzi dolorosamente subìta

e quindi osteggiata.

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Il fallimento della relazione coniugale diventa quindi occasione nella quale il

conflitto mina e destabilizza equilibri apparentemente raggiunti, poiché non è più

solo il conflitto che affonda le proprie radici nella differenza, ma sconvolge

profondamente l’autostima e il vissuto dei coniugi. (Gadioli, 2004)

In questa fase, anche le coppie che avevano impedito l’emergere di ogni possibile

conflitto all’interno della relazione manifestano la loro rabbia e il loro dolore al

massimo della potenza.

La ragione di questa esplosione di sofferenze e recriminazioni è, nella maggior

parte dei casi, da cercarsi nell’errore che si commette spesso quando

si decide di costruire una relazione, che poi sfocerà nel matrimonio:

si cerca nell’altro quello di cui si ha bisogno, si sente la necessità di avere al

nostro fianco qualcuno che colmi i nostri “buchi”, ne prendiamo possesso, perché

senza questo altro non siamo completi, autonomi, risolti. E’ ragionevole quindi

dedurre che se ne va della propria sopravvivenza, si è disposti a tutto, alle peggiori

nefandezze, alle peggiori azioni pur di mantenere legato quel “pezzo di sè” senza il

quale non ci si riconosce.

E’ quindi un momento di passaggio traumatico e di grande incertezza, che investe

tutti i membri della famiglia; situazioni di malessere e di disagio che si stanno

protraendo da tempo senza apparentemente nessun cambiamento nella vita di coppia,

sedate e occultate con perizia, emergono con virulenza quando uno dei due coniugi

dichiara di voler porre fine alla relazione.

E’ come se si rompesse una diga: tutti i piccoli o grandi torti, le offese, i risentimenti,

le dimenticanze, le omissioni, i fraintendimenti diventano oggetto di accuse

reciproche e di ripicche dolorose.

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La coppia non riesce ad andare “oltre” il momento, non ha in genere la capacità di

elaborare il senso di fallimento, il dolore della perdita, lo smarrimento della stessa

idea di identità, poiché tutto dipende dall’essere coppia e se la coppia non esiste più

come potrò esistere io? (Berto-Scalari, 2006)

Tutto diventa pretesto di discussione, di guerra senza esclusione di colpi:

a chi spetterà vivere nella casa di famiglia, come andranno spartiti gli oggetti che fino

a quel momento appartenevano ad entrambi, chi si occuperà degli animali domestici,

e soprattutto: chi si prenderà cura dei figli, e come?

Già, i figli.

I figli in questo passaggio sono spesso coinvolti nella conflittualità genitoriale, non

solo come incolpevoli spettatori di un evento a cui non avrebbero mai voluto

assistere, ma frequentemente vengono strumentalizzati dai propri genitori, che

cercano impossibili alleanze e complicità.

I genitori, troppo concentrati sul loro dolore e sul loro fallimento, non riescono spesso

a comprendere quale evento drammatico sia per i figli la fine della relazione che è

stata la causa, la ragione della loro stessa esistenza. (Moscato, 2014)

Ma i padri e le madri hanno bisogno di sentirsi accettati nel loro ruolo genitoriale, e

ciascuno meglio e di più dell’altro; vengono messi in atto quindi comportamenti che

cercano legittimazione e tentano di screditare il proprio coniuge nel suo ruolo di

genitore, inseguendo consolazione e appoggio da chi dovrebbe invece essere accolto,

rassicurato e confortato.

La presenza dei figli in questo quadro disfunzionale li pone in condizioni di grave

rischio e profonda sofferenza, poiché viene loro richiesto ciò che è impossibile

fare: pretendere di schierarsi con l’uno o con l’altro, o diventare il protettore di chi

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chiede aiuto è fonte per i figli di sentimenti di colpa, inadeguatezza, abbandono,

lealtà e rabbia, tanta tanta rabbia.

In un sistema che sta andando in frantumi, il non saper gestire emozioni e sentimenti

così devastanti da parte di tutti i componenti della famiglia può portare a

manifestazioni di atti di violenza in tutte le sue forme, fino ad arrivare alla vera e

propria aggressione fisica.

E, impauriti all’interno di una cameretta, o impietriti spettatori davanti a queste

rappresentazioni, i figli assistono. E imparano.

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CAPITOLO 2

Violenza assistita intradomestica e comportamenti dei figli

Già nel 1961 uno psicologo canadese, Albert Bandura, dimostrò con il famoso

esperimento della bambola Bobo che il comportamento aggressivo dei bambini

può essere appreso per imitazione: come si ricorderà, dei tre gruppi di bimbi oggetto

dell’esperimento, quello in cui i bimbi furono spettatori di atti e parole violente di un

adulto contro il pupazzo gonfiabile Bobo, fu il gruppo in cui ci fu una incidenza

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nettamente maggiore di comportamenti aggressivi verso il pupazzo, rispetto agli altri

due gruppi che non avevano assistito alle violenze.

Questo esperimento, nonostante sia datato, è ancora oggi citato con frequenza a

sostegno della tesi che la violenza si impara.

In un lavoro dei primi anni ‘80, Scaparro e Roi analizzarono alcuni casi di minori

reclusi a causa dei più svariati reati presso il carcere minorile C. Beccaria di Milano.

Lo studio delle famiglie di provenienza ci restituisce un’immagine di situazioni

famigliari in cui la violenza è sempre presente, accompagnata a volte da degrado e

abusi.

In tempi più recenti diversi studiosi hanno parlato di violenza assistita intrafamiliare

dimostrando come ciò possa portare in alcuni casi a comportamenti violenti sia nel

bambino che assiste, che nel futuro adulto. (Zangrillo, 2016 – Moscato, 2014 -) .

Non sempre è così, per fortuna, ma è innegabile quindi che relazioni familiari

disfunziali, problematiche, altamente conflittuali possano diventare un humus fertile

su cui nascono e si sviluppano comportamenti disturbati e aggressivi/violenti dei

figli.

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, il momento della separazione è

momento di grandissima conflittualità nella maggioranza dei casi, tale da indurre i

coniugi, preda di emozioni e bisogni forti ed incontrollati, ad episodi di vera violenza

domestica.

Non è necessario infatti arrivare alla vera e propria violenza fisica verso l’altro perché

si possa parlare di violenza assistita intradomestica.

Il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso

dell’Infanzia) definisce infatti violenza assistita intrafamiliare “qualsiasi atto di

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violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica compiuta su una figura di

riferimento o su altre figure significative, adulti o minori; di tale violenza il bambino

può fare esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo)

indirettamente (quando è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti” .

Il conflitto che esplode al momento della rottura del patto coniugale mette in scena

generalmente il peggio di entrambi i genitori, offrendolo alla vista del figlio e

suggerendo inconsapevolmente esempi comportamentali distruttivi o auto-distruttivi.

Un padre che “taglia i viveri” alla moglie colpevole di voler porre fine al matrimonio,

obbligandola a continue umiliazioni per elemosinare il necessario per mandare avanti

la famiglia; o una madre che offende il coniuge con i peggiori epiteti, che

coinvolgono anche la famiglia d’origine, vomitando in ogni occasione rabbia e dolore

per l’abbandono; o un genitore che si lascia andare a gesti violenti come

spaccare piatti, rovesciare tavoli, o distruggere album di foto familiari che ricordano

momenti felici che non ci saranno più; tutti questi pessimi comportamenti dei

genitori suggeriscono ai figli che vi assistono, o che ne hanno comunque conoscenza,

modelli di condotta umana estremamente negativi. (Moscato, 2014)

Non solo, poiché non va dimenticato che i genitori in conflitto generalmente cessano

di assolvere la loro funzione educativa, soprattutto quella normativa: i coniugi sono

troppo impegnati nella gestione del loro conflitto, e preda di sensi di colpa,

per dedicare parte della loro energia e del loro tempo nel salutare conflitto con i figli.

La prole viene assecondata in ogni suo desiderio, e generalmente si evita di

contraddirla troppo apertamente. Oppure, all’estremo opposto, i genitori diventano

estremamente severi e rigidi, pretendendo quell’ordine e quelle regole che non

riescono più ad avere nella loro relazione coniugale.

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Tutto questo si ripercuote inevitabilmente nei comportamenti dei figli; nella

percezione del figlio il legame fra i genitori è di fatto irreversibile (irreversibile più

che indissolubile), quindi la fine di quel legame mette a repentaglio

la sua stessa sopravvivenza. (Moscato, 2014)

Di Blasio (Psicologia del bambino maltrattato 2000) ha evidenziato come l’assistere

a qualsiasi forma di violenza domestica possa compromettere lo sviluppo del

bambino, danneggiando le più diverse aree: adattamento e competenze sociali,

problemi comportamentali come p.e. un deficit nel controllo degli impulsi,

problem solving, abilità cognitive, apprendimento scolastico.

Il primo campanello d’allarme di questo tsunami che sta travolgendo i figli è in

genere un calo del rendimento scolastico; possono poi comparire ansia,

inquietudine, a volte depressione. O disturbi fisici quali mal di testa, dolori

addominali, disturbi del sonno.

In casa i figli attuano il più delle volte la tecnica del silenzio, evitando qualsiasi

pretesto che possa far scatenare litigi furiosi fra i genitori.

Ma al silenzio domestico corrisponde in genere aggressività sociale, per lo più

verso il gruppo di pari, poiché lo stress subìto deve in qualche modo essere scaricato,

e ciò accade maggiormente fuori dal contesto familiare. (Ricci, 2014)

Bimbe, e in misura maggiore bimbi che non avevano mai manifestato aggressività

verso i compagni di scuola -o di attività extrascolastiche- diventano violenti,

prepotenti, prevaricatori, bugiardi, opportunisti.

A volte si rendono responsabili di episodi di crudeltà verso gli animali, e anche

questi possono essere una spia del malessere profondo che sta colpendo questi

bambini o ragazzi.

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Assistere alla violenza domestica intrafamilare si configura quindi come fattore di

alto rischio per ciò che concerne sia l’area psico-fisica che quella relazionale.

Vissuta dai figli con totale impotenza, la violenza assistita difficilmente potrà essere

elaborata: quell’uomo che ha appena rovesciato il tavolo mandando in frantumi tutto

quello che c’era sopra, è la stessa persona che mi ha insegnato a nuotare con amore e

pazienza; quella donna che insulta e umilia mio padre e i miei nonni è la stessa che

mi ha coccolato quando mi sono svegliato in preda agli incubi. (Zangrillo, 2016 –

Francini, 2016)

I figli che sono esposti a modalità relazionali fortemente conflittuali o

violente saranno pertanto ostaggio di processi di identificazione assai disfunzionali:

l’identificazione potrà avvenire nei confronti del genitore vittima, inducendo

atteggiamenti di passività e di sottomissione nelle relazioni; oppure -più

frequentemente- con il genitore prevaricante/violento, riproducendo

comportamenti vessatori e modalità relazionali aggressive, centrate sull’esercizio del

potere e sullo svilimento e umiliazione dell’altro nei rapporti affettivi e/o sociali.

Come accade nel bullismo.

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CAPITOLO 3

Il bullismo

Se si cerca il termine bullismo nel più diffuso motore di ricerca su Internet, appaiono

circa 2.890.000 risultati. Se proviamo invece a ricercare le parole violenza assistita i

risultati saranno soltanto circa 359.000.

Questo semplice test dà un’idea inequivocabile di come sul bullismo si stia ponendo

moltissima attenzione perché fenomeno in crescita e percepito come molto

preoccupante.

In realtà episodi di prevaricazione fra pari sono sempre esistiti; nel libro “CUORE” di

Edmondo de Amicis, classico per l’infanzia scritto alla fine dell’800, appare il

personaggio di Franti che incarna perfettamente il prototipo del bullo; durante il

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servizio di leva obbligatorio (abolito nel 2004) era consuetudine che i militari

prossimi al congedo sottoponessero le reclute ad ogni tipo di vessazioni ed

umiliazioni, a volte anche violente (fenomeno questo conosciuto sotto il nome di

nonnismo).

Ma è negli ultimi anni che è cambiata profondamente la percezione di questi

fenomeni, e la soglia di tolleranza verso tali atti di prevaricazione e sopraffazione

volti all’emarginazione e all’umiliazione della vittima.

Nella realtà odierna, due sono gli aspetti che hanno contribuito a creare un forte

allarme sociale, e sono l’età dei protagonisti, in quanto ormai bulli e vittime si

trovano già nei primi anni della scuola primaria, o elementare, e l’apparire –con

l’avvento di Internet- del cosiddetto cyber-bullismo, ovvero il ripetersi delle

dinamiche prevaricatorie attuate mediante gli strumenti della rete.

Storicamente, il primo a parlarne e a coniare la definizione di bullismo è stato Dan

Olweus, uno psicologo svedese che fu professore di Psicologia all’Università di

Bergen in Norvegia. (Olweus, 1993)

Il bullismo, secondo Olweus, è “la prevaricazione e la vittimizzazione, ricorrente e

ripetuta nel tempo, di una persona, o gruppo di persone, esposta ad azioni offensive

da parte di uno o più compagni”.

In Italia è stata Ada Fonzi, professore di Psicologia presso l’Università di Firenze,

la studiosa che ha pubblicato la prima ricerca sul fenomeno del bullismo,

somministrando un questionario anonimo ad un campione di 1.379 alunni delle

ultime 3 classi delle scuole elementari.

I dati ottenuti, pubblicati nel 1995, sono stati sconcertanti, tanto da essere pubblicati

sui media come esiti di una “ricerca shock”.

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I risultati pubblicati rappresentavano una realtà italiana in cui i livelli di incidenza del

fenomeno apparivano notevolmente elevati, doppi rispetto all’Inghilterra e tripli

rispetto alla Norvegia, pur confermando alcuni dati qualitativi (bullismo diretto e

indiretto) 1) in linea con quelli degli studi di Olweus, Sharp e Smith.

Oggi, l’ultima indagine Istat sul bullismo (2015) parla di più del 50% dei ragazzi che

dichiara di aver subito nell’ultimo anno qualche episodio offensivo, non rispettoso

e/o violento da parte dei compagni di scuola o altri ragazzi/e.

Le prepotenze più comuni consistono in offese, parolacce, insulti, derisioni per

l’aspetto fisico o il modo di parlare, diffamazione, esclusioni per le proprie opinioni,

aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni.

Maschi e femmine sono ugualmente coinvolti, ma con modalità differenti: le

femmine non usano generalmente la violenza fisica ma preferiscono attuare la tecnica

dell’isolamento, della emarginazione sociale della vittima designata, mentre i maschi

prediligono la forza fisica come manifestazione della loro superiorità.

Non si contano oggi gli interventi mirati a contrastare il bullismo, con campagne

e progetti studiati appositamente per cercare di riconoscere il fenomeno e i suoi attori,

e tentare quindi di ostacolarlo.

La scuola, teatro principe di queste manifestazioni, sta cercando di attrezzarsi

proponendo corsi di aggiornamento rivolti agli insegnanti ed incontri di

sensibilizzazione fra gli studenti, studiando anche percorsi alternativi di risoluzione

del problema. 2)

Pochi sono però gli interventi che cercano di prevenirlo, poiché risulta senza dubbio

1) per bullismo diretto si intende quella forma che si articola in prepotenze fisiche o verbali che parte dal prevaricatore e si rivolge direttamente alla vittima. Nel bullismo indiretto, invece, la vittima è intrappolata in dicerie e atteggiamenti di esclusione che la condannano all’isolamento.

2) Uno di questi è il progetto “Invece di giudicare” di cui Mauro Julini è il promotore, che ha l’obbiettivo di sensibilizzare gli studenti alla conoscenza dello strumento della mediazione.

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molto più difficile e faticoso tentare di capirne la ragione, l’origine e la causa.

La maggioranza degli studi che hanno cercato di creare un profilo del bullo lo

descrive in genere come soggetto con una buona considerazione di sé, ben integrato

nel gruppo dei coetanei, e privo di empatia nei confronti delle vittime.

Ma perché fare il bullo?

Se si cercano di comprendere in profondità le ragioni che spingono a questi

comportamenti, bisogna esaminare il problema partendo da una prospettiva che

prenda in considerazione famiglia, scuola e società.

Il contesto sociale attuale trasmette sempre più frequentemente messaggi in cui la

violenza serve per primeggiare, per dominare, per avere successo.

Gli esempi degli adulti sono pessimi in qualsiasi contesto: nello sport e alla guida

delle auto, nei talk-show in televisione e in politica, i bimbi e i ragazzi assistono e

apprendono l’aggressività verbale e fisica, molto spesso senza che queste vengano

mediate e contestualizzate dagli adulti di riferimento. 3)

Gli orizzonti esterni non forniscono pertanto un modello comportamentale

sano e rispettoso dell’altro; ma nemmeno all’interno della scuola si può contare

su un ambiente attento alle dinamiche emotive degli allievi.

In un mondo come quello scolastico, finalizzato ormai all’esito performante e

al fare, è sempre più difficile trovare docenti che si impegnino ad essere:

presenti, attenti ai sentimenti e alle proiezioni dei loro studenti, desiderosi di costruire

un vero legame emotivo con loro.

In molti casi nemmeno le famiglie oggi riescono ad essere esempi di relazioni in cui

3) Violenza negli stadi; risse fra automobilisti; urla, offese e ingiurie nelle trasmissioni televisive; tafferugli in Parlamento sono solo alcuni degli esempi

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il rispetto, la comprensione e l’ascolto attento dell’altro fungano da base nei rapporti

fra i loro componenti.

Olweus per primo, e poi molti altri (Bowers 1995, Berdondini e Smith 1996) hanno

cercato di studiare le caratteristiche “tipo” delle famiglie dei bulli evidenziando

come nella maggioranza dei casi si trattasse di famiglie con frequenti conflitti fra

genitori, litigi violenti, scoppi d’ira; oppure famiglie che non avevano saputo

riconoscere ed accogliere i figli, creando così quella solitudine interiore che ha

bisogno di attenzione e di accettazione per tacitarsi, e che il bullo trova nel gruppo

che lo segue e lo ammira.

“Dietro ad ogni bullo c’è una famiglia di bulli” ; oggi è questa la denuncia che fa

Marilyn Campbell, professore nella Faculty of Education della Queensland

University of Technology.

Secondo la Campbell i comportamenti appresi in famiglia vengono riproposti nella

relazione con il coetaneo per apprendimento o per identificazione: il bambino o il

ragazzo che ha assistito a scene di violenza o di aggressività fra i suoi genitori tenderà

a riprodurre questi comportamenti a scuola o nel suo ambiente, o diventando bullo

prevaricatore o diventando vittima.

A distanza di decenni dai primi test di Bandura, quindi, gli studiosi confermano oggi

che il bullismo è un comportamento acquisito e non innato.

Il bullo, in sostanza, utilizza la violenza e l’aggressività come modalità sistematica

del controllo altrui perché ha appreso l’incapacità di confrontarsi con gli altri e di

stare nelle relazioni conflittuali.

l bullismo non è solo un'ingiustizia, quanto una incompetenza conflittuale e

socio-relazionale: in sostanza il bullo non sa litigare. (Novara e Regoliosi, 2007 )

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E può essere aiutato solo se l’intera famiglia viene aiutata a comprendere gli errori

dei propri comportamenti e a sviluppare relazioni familiari e sociali positive.

Di quale strumento possono avvalersi allora i genitori che stanno separandosi per

imparare a stare nel conflitto, creando insieme una prospettiva che vada oltre il

momento cronico del dolore e della rabbia? (Francini, 2014)

La Mediazione Familiare.

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CAPITOLO 4

Effetto preventivo della Mediazione come strumento depotenziante del conflitto

La coppia che osservo durante diverse sedute di tirocinio è composta dalla moglie,

avvocato, e dal marito, ingegnere; hanno 3 figli e la volontà di giungere alla

separazione è stata della moglie. Si è innamorata di un altro uomo, ha confessato la

relazione al coniuge e ha ammesso l’impossibilità di continuare a stare con lui.

Una famiglia normale, in cui i coniugi si sono amati e certamente continuano ad

amare i loro figli. Apparentemente non c’è mai stata violenza all’interno di questa

famiglia, eppure durante le sedute la rabbia e il dolore del marito esplodono con

violenza: proferisce minacce -anche di morte- nei confronti del rivale, sminuisce,

umilia e ridicolizza la moglie. Non può, non riesce ad accettare l’idea della

separazione.

Mi chiedo quante volte è capitato che queste scene si siano svolte a casa, magari

anche di fronte ai figli, e come si siano sentiti i ragazzi. Se è accaduto immagino il

loro smarrimento e la loro paura.

In un’altra occasione una coppia diversa, composta da due avvocati con 2 bimbi

ancora piccoli, racconta che durante una lite furiosa il marito ha rovesciato un tavolo

addosso alla moglie, senza fortunatamente procurarle ferite o danni; riferiscono che i

bambini non erano presenti, ma immagino che nel momento del rientro a casa

avranno visto gli esiti della lite e si saranno fatti chissà quali domande.

Un’altra coppia, entrambi psicologi, pur non lasciandosi mai trasportare dall’ira

durante le sedute, racconta con grande dolore di comportamenti disturbati dei loro

piccolissimi bimbi, nonostante la massima attenzione che entrambi pongono nella

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loro relazione con la prole, o fra di loro in presenza di essa.

In tutti i casi la Mediatrice riconosce, accoglie e restituisce i bisogni e le

emozioni dirompenti dei coniugi e riesce sempre meglio e con sempre maggiore

efficacia a far comprendere alle coppie quanto sia importante che tutto quello che li

tormenta e li impaurisce, che li addolora o li fa infuriare venga portato in seduta,

dove sanno di poter trovare una terza persona non giudicante ed equiprossima che li

possa comprendere, ed aiutare ad elaborare un progetto costruttivo per la loro

vita futura e per la loro nuova famiglia riorganizzata.

Mi domando cosa sarebbe successo se queste coppie non avessero deciso di

intraprendere un percorso di Mediazione Familiare, e le risposte che mi do lasciano

spazio ad ipotesi poco confortanti.

Ricordo cosa è accaduto quando io ho deciso di separarmi, quali sono state le reazioni

del mio allora marito, e le mie repliche a queste. Sinceramente ammetto con me

stessa che l’eventuale presenza dei figli ( che noi fortunatamente non avevamo)

avrebbe arginato di poco le nostre azioni di allora, anzi, sarebbe stata un elemento

ulteriore di scontro, con quali conseguenze è facile supporre.

§§§§§§§§

La Mediazione Familiare arriva in Italia alla fine degli anni ’80 con la costituzione

delle prima significative esperienze (Associazione GeA di Milano, Centro GeS di

Torino) sull’onda della diffusione e dei risultati ottenuti negli Stati Uniti, grazie al

grande lavoro di John Haynes e James Coogler.

L’obbiettivo che si pone fin dall’inizio è quello del “ raggiungimento del miglior

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risultato possibile in termini di autodeterminazione della coppia attraverso l’utilizzo

delle tecniche della negoziazione ragionata in cui il mediatore svolge il ruolo di

traduttore, in grado di restituire alla coppia la sua capacità contrattuale”.

(Haynes-Buzzi 2012).

Uno strumento quindi che utilizza le tecniche della negoziazione e che tanti ottimi

risultati ha ottenuto nei casi di dispute civili e commerciali.

Non c’è però nulla in queste parole che lasci intendere come questa sia uno strumento

che si occupi anche e soprattutto di emozioni e di bisogni, poiché la fine di un

matrimonio è cosa ben diversa da un litigio fra vicini di casa; e di come insegni alla

coppia a stare nel conflitto e a non farsene travolgere, con esiti a volte nefasti.

Molto spesso le coppie in procinto di separarsi si rivolgono al Mediatore perché spinti

dal desiderio di concludere in fretta possibilmente senza l’intervento degli avvocati,

dalla volontà di essere loro a trovare l’accordo senza delegare a terzi le decisioni che

riguardano la loro famiglia; dalla speranza di spendere meno rispetto ad un iter

classico e, non da ultimo, capita che chi subisce la separazione e propone la

mediazione abbia frequentemente la segreta illusione di trovare nel Mediatore un

alleato che riporti il coniuge “sulla retta via”.

Dal Mediatore ci si aspetta aiuto nella suddivisione patrimoniale ed economica, nella

gestione dei turni di cura dei figli, ma nessuno, o pochissimi, si rivolge ad esso

perché insegni loro a gestire i conflitti, a capire come litigare bene senza che il

conflitto diventi distruttivo, ma “cogliendone le potenzialità evolutive che spesso

restano congelate all’interno di una dinamica di competizione fra i coniugi”. (V.

Gadioli, 2004).

Eppure la gestione del conflitto potrebbe, dovrebbe essere una delle ragioni principali

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per decidere di intraprendere il percorso della Mediazione Familiare.

Il grande potenziale di questo strumento sta nell’agire nella normalità: la mediazione

non è terapia di coppia, perché la separazione non è una malattia e nemmeno un

disturbo del comportamento. Pur essendo un momento doloroso della vita di una

famiglia, come tutti i momenti dolorosi la separazione (e il divorzio) ha in sé un dopo

che i coniugi in conflitto non riescono a vedere: tutto si ferma in un immagine fissa

ed eterna di lei/lui che rompe il legame, o di lui/lei che lo rende impossibile.

Ma non è il conflitto in sé che impedisce l’andare oltre, è la mancanza di disponibilità

d’ascolto e l’impossibilità di vedere l’altro da un altro punto di vista che rende tutto

immobile e fisso. (Francini, 2014) Nella rabbia e nel dolore.

Il Mediatore però sa come mettere in relazione quelle parti –i coniugi- così distanti

fra loro, apparentemente cristallizzati, congelati con i loro rimpianti e le loro

aspettative; sa quali tecniche utilizzare per riconoscere, accogliere e restituire i loro

bisogni e le loro emozioni; conosce il modo per aiutarli ad immaginare il loro futuro;

riesce a condurre i coniugi ad una nuova organizzazione della famiglia.

Il Mediatore sa stare nel conflitto, e il risultato finale non porterà ad ottenere un

vincitore e un vinto, non ci sarà chi ha ottenuto risultati migliori e più convenienti,

come avviene affidandosi agli Avvocati, ma chi vince sarà l’intero nucleo familiare,

con una nuova forma e una nuova organizzazione.

La coppia in Mediazione, guidata dalla professionalità del Mediatore, trova dentro di

sé -spesso con sorpresa- le risorse e la creatività necessarie per trovare un accordo, il

proprio accordo; e la scoperta di poter immaginare qualcosa di nuovo e di diverso è

fonte di profonda gratificazione, e di spinta a procedere sul quel cammino che non è

senza via d’uscita come appariva.

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La “traduzione” che il mediatore compie incessantemente per permettere ai coniugi di

capire il vero significato di quello che si dicono, di quello che provano, diventa

pertanto un ponte che può rimettere la coppia nuovamente in comunicazione; il

mediatore diventa il co-costruttore di una nuova trama.

Il conflitto e ciò che ne deriva, in questo cammino viene inevitabilmente circoscritto,

dapprima con difficoltà poi sempre più agevolmente, e le tecniche di emporwerment e

di recognition che vengono utilizzate durante le sedute portano i partecipanti ad

essere “più calmi, più aperti e onesti, organizzati e decisi.” (Heynes-Buzzi, 2012) 1)

Il mediatore ricorda continuamente ai confliggenti che il matrimonio può finire, ma la

genitorialità è per sempre; attraverso il genogramma da’ forma a queste parole, e

l’immagine che mostra alla coppia è altamente simbolica: il trattino che teneva legato

i coniugi può spezzarsi, ma quello che li lega ai figli è indissolubile.

Questo percorso diventa quindi fondamentale per togliere carburante al motore del

conflitto, per ridimensionarlo, per sottrarre un po’ alla volta quella potenza distruttiva

che i coniugi, se lasciati soli, continuano invece ad alimentare.

In mediazione marito e moglie sono costretti a fare continuamente un “bagno di

realtà” che li pone di fronte a quelle che sono le conseguenze dei loro comportamenti:

tutto ciò che dicono o fanno in presenza dei figli, soprattutto il farsi la guerra, si

ripercuoterà –mai come in questo momento- nel futuro dei loro bambini.

La funzione del Mediatore quale “agente di realtà” è unica nel suo genere, e

1) Empowerment ha come scopo la restituzione agli individui del senso dei loro valori, dell’energia e della capacità di gestire i problemi della vita. Recognition significa rendere le parti capaci di vedere il punto di vista dell’altro, capire come definisca il problema e perché persegua quella decisione

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indispensabile per trasformare “io sono contro di te” nel “siamo comunque ancora e

sempre due genitori”.

Inevitabilmente questo cammino e questa consapevolezza porteranno a mutare i

comportamenti della coppia, soprattutto davanti ai figli, con i quali i genitori

sapranno mettersi in relazione in modo nuovo: non più come marito e moglie, ma

mantenendo il loro ruolo genitoriale, fatto di presenza, autorevolezza, accoglimento e

amore.

L’aggressività, i ricatti, il rancore e le recriminazioni verranno circoscritti sempre più

nello spazio e nel tempo della seduta di mediazione, permettendo ai genitori di

riacquistare lucidità ed equilibrio nella gestione della vita quotidiana, e di

conseguenza anche nella gestione degli aspetti pratici della separazione.

I coniugi potranno quindi prendere coscienza della loro responsabilità genitoriale,

ponendo fine all’idea del diritto alla genitorialità, convinzione narcisistica questa che

antepone i loro bisogni di riconoscimento e approvazione rispetto a quelli della prole.

(Moscato, 2014)

In questo senso si può senz’altro riconoscere alla Mediazione Familiare una funzione

educativa, pedagogica, dando a questo termine il significo etimologico di insegnare,

formando e sviluppando il potenziale di ciascuno di noi.

Alla coppia verranno forniti gli strumenti per poter sostenere i figli nel momento del

dolore, lasciando sullo sfondo i propri rancori e i torti subiti: saranno in grado di

permettere alla prole di elaborare il lutto della perdita, contenendo l’ansia provocata

dalla famiglia che muore (Berto-Scalari, 2016).

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Se ai figli viene permesso di piangere disperatamente o di arrabbiarsi, se si risponde

alle loro domande con autorevolezza ed amore, se si rassicurano con comportamenti

congrui e coerenti, se si immagina con loro il nuovo assetto familiare, la o le nuove

case, i figli sapranno di potersi fidare ancora dei genitori, sapranno che esisterà

sempre un porto sicuro dove rifugiarsi nel momento del bisogno, e soprattutto si

libereranno dal senso di colpa che li fa ritenere spesso i responsabili di quello che sta

accadendo.

La fine del legame fra i propri genitori è senza dubbio un evento che i bimbi non

vorrebbero mai nemmeno immaginare; ma il divorzio fra mamma e papà è qualcosa

che può essere superato senza segni indelebili se l’ambiente che li circonda continua

ad essere protettivo e a fornire loro le sicurezze necessarie alla loro crescita emotiva e

cognitiva.

Non più testimoni dello smarrimento e del dolore, della paura e della rabbia dei

propri genitori, i figli potranno imparare da questi gli esempi positivi che vengono

loro forniti: la capacità di rialzarsi, la sincerità delle emozioni, l’assunzione di

responsabilità e l’ingegno nel trasformare una crisi in una opportunità.

Accolti e rassicurati, riconosciuti e guidati, non sentiranno pertanto la necessità di

manifestare all’esterno del contesto familiare emozioni distruttive che li tormentano;

non diventeranno vittime o persecutori nella vana ricerca di attenzioni, o di

contenimento.

Se la separazione o il divorzio dei genitori rappresenta comunque una caduta degli

dei, in cui i genitori si rivelano persone e non la “bussola della loro anima”, il

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separarsi insieme accettando la mediazione di un esperto permetterà ai figli di far

rimanere intatta la speranza di un amore duraturo. In questo modo, nel lasciarsi con

rispetto e speranza, un amore per sempre è stato comunque rispettato: quello per i

figli. (Parsi, 2006)

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CONCLUSIONI

In un mondo ideale, quello che una volta i bimbi immaginavano grazie alle fiabe

dove si viveva “tutti felici e contenti”, e che oggi è rappresentato dagli spot

pubblicitari, la famiglia è un insieme di relazioni dove tutto funziona perfettamente;

nessuno grida, si arrabbia, piange. Nessuno si lascia.

Mamma e papà sorridono sempre, e fuori dalla finestra di casa lo sguardo vaga su

orizzonti e paesaggi ameni e rassicuranti.

Ma la realtà è un’altra cosa, ed è fatta oggi da famiglie sempre più in difficoltà, che si

arrabattono con ritmi forsennati che lasciano poco tempo al confronto, dove i coniugi

hanno comunque aspettative altissime perché non si vuole rinunciare alla favola;

dove l’analfabetismo emozionale e l’enormità degli stimoli che ci sommergono

quotidianamente mandano in corto circuito le relazioni, i rapporti familiari soprattutto

quelli coniugali.

Nella società odierna –altamente urbanizzata- non esiste quasi più quella rete di

relazioni familiari e sociali che fungevano da supporto al nucleo famigliare: la

famiglia patriarcale, le associazioni, i partiti, gli oratori –sempre meno frequentati-

non svolgono più la funzione di confronto, contenimento e aiuto.

La famiglia è sola, e all’interno di ogni nucleo anche ogni componente è spesso

solo, in balìa di eventi che è incapace di gestire, ma che anzi nasconde accuratamente

per non mostrare la propria vulnerabilità.

Nel momento della separazione i coniugi mostrano spesso il peggio, dicevamo nel

primo capitolo, e spesso anche chi dovrebbe aiutare (per esempio le famiglie di

origine) li sobbilla per non farli apparire perdenti.

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E con quali conseguenze lo abbiamo visto precedentemente.

Ma abbiamo anche visto che la Mediazione Familiare sa entrare nei conflitti tra i

coniugi che decidono di separarsi, sa immergersi nel flusso delle relazioni

costruendo una relazione empatica ancorata alla realtà. (Francini, 2016)

A differenza del percorso giudiziario, che con il suo linguaggio e i suoi riti,

finisce con rinforzare il conflitto e l’animosità della coppia, penalizzando i figli, là

dove dovrebbero essere invece salvaguardati, la Mediazione Familiare pone

per contro la prole al centro di tutto: è da lì che si parte ed è lì che si deve

arrivare. L’imposizione giudiziaria infatti non risolve né compone il conflitto,

poiché la legge non può prendersi in carico il riconoscimento delle strategie e dei

bisogni dei contendenti e non è in grado quindi di dare risposte soddisfacenti ai mille

problemi che tormentano la coppia che decide di separarsi.

La stessa cosa accade con il percorso psicoterapeutico, che serve senz’altro per

aiutare a comprendere le origini e le cause dei comportamenti che hanno portato alla

fine del matrimonio, ma che agisce in termini di valutazione e di diagnosi, e

soprattutto non dà ai coniugi gli strumenti per affrontare nella pratica quello che sta

accadendo.

Ritengo pertanto che le potenzialità proprie del percorso di Mediazione siano enormi;

non c’è un professionista che sappia evitare da subito e con fermezza la confusione

fra i ruoli di genitore e coniuge, che conosca il diritto di famiglia e le più importanti

norme fiscali, che conosca le tecniche di negoziazione; e sopra ogni cosa che sappia

rivestire con tanta abilità il ruolo dell’artificiere: colui cioè che sa disinnescare

ordigni esplosivi.

Riuscire a “togliere a un fenomeno nocivo la sua potenzialità di pericolo; ridurlo o

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farlo cessare” –come recita il vocabolario Garzanti alla voce disinnescare- è senza

dubbio la maggiore abilità del Mediatore, e la più importante.

Togliere al conflitto coniugale la sua potenzialità di pericolo permette di ottenere

risultati positivi nel breve e nel lungo periodo.

Ed è questa, a parer mio, la ragione per la quale sarebbe auspicabile che lo strumento

della Mediazione Familiare avesse una diffusione capillare sul territorio, così da

permettere che la sua conoscenza diventasse accessibile a tutti.

Coppie che sanno lasciarsi bene, grazie all’operato del Mediatore significa infatti

contenere i casi di violenza all’interno della famiglia, sia fra i coniugi (pensiamo ai

cosiddetti femminicidi), sia per quel che riguarda i conseguenti comportamenti

violenti e aggressivi dei figli; con innegabili vantaggi per tutto il tessuto sociale.

Nei programmi scolastici ed educativi attuali non c’è (per ora, si spera) nulla che

possa dare alle nuove generazioni un’educazione emotiva e affettiva tale da ridurre al

minimo le conseguenze degli errori che inevitabilmente si commettono

nell’intrecciare relazioni sociali, amicali, amorose, famigliari.

In assenza di strumenti preventivi si ci deve pertanto attivare per intervenire con

sempre maggiore frequenza con l’obbiettivo di contenere i danni; e la Mediazione

Familiare è, e lo sarà ancora di più, uno dei punti cardine di questo obbiettivo.

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Bibliografia a sitografia

1) F. Scaparro – G. Roi “La maschera del cattivo” ed. Unicopli 1984

2) V.Gadioli “Risorse e limiti del conflitto familiare” in “Il conflitto e la Mediazione” -Quaderni del Centro Servizi Scuola e Famiglia- 4/2004

3) G. Francini “Il dolore del divorzio “ ed. Franco Angeli 2014

4) F. Berto – P. Scalari “Fili spezzati” ed. La Meridiana 2016

5) V. Cigoli “Intrecci familiari” Raffaello Cortina editore 1997

6) P. Di Blasio “Psicologia del bambini maltrattato” ed Il Mulino 2000

7) J.Haynes – I. Buzzi “ Introduzione alla Mediazione Familiare” ed. Giuffrè 2012

8) M.R. Parsi - M.B. Toro “Onora il figlio e la figlia” Salani Editore 2006

9) M.T. Moscato “Crisi del processo educativo nel conflitto familiare. Una lettura pedagogica” https://encp.unibo.it/article/download/4509/39

10) V. Cigoli, C.Galimberti, M.Mombelli “Il legame disperante” Raffaello Cortina editore 1988

11) M. Ricci “Bambini invisibili: la violenza assistita intrafamiliare” www.movimentoinfanzia.it

12) E.M Bianchi, V.Rossi, B.Urdanch “Nessuno nasce bullo! Bulli si diventa” www.didatticainclusiva.loescher.it

13) 14) “Bullismo? Nasce in famiglia” www.opsonline.it/psicologia

15) S.Cosimi “Il bullismo si impara (e si subisce) in famiglia” www.wired.it