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“ LA IMPARZIALITÁ IMPOSSIBILE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE”

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FOGGIA

DOTTORATO IN

DOTTRINE GENERALI DEL DIRITTO (XXIII CICLO)

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

TESI DOTTORALE

IN

DIRITTO AMMINISTRATIVO

L’IMPARZIALITA’ IMPOSSIBILE DELLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE

Tutor: Dottoranda:

Ch.mo Prof. Lucia MURGOLO

Enrico FOLLIERI

__________________________________________

ANNO ACCADEMICO 2009 – 2010

L’IMPARZIALITA’ IMPOSSIBILE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

CAP. PRIMO – INTRODUZIONE: IPOTESI DI LAVORO…...….pag. 5

1. Enunciati, usi, contenuti negativi e positivi del termine “imparzialità”………………………………………………………...pag. 5

2. Imparzialità amministrativa, indifferenza, neutralità, leale collaborazione, equità comportamentale…………………................pag. 13

3. Imparzialità amministrativa, a confronto con imparzialità e terzietà del giudice……………………………………………………................pag. 19

4. La cura dell’interesse pubblico, nell’evoluzione delle diverse concezioni del potere pubblico……………………………….............................pag. 25

5. L’imparzialità impossibile, ma necessaria della pubblica Amministrazione: un concetto ottativo………………………..........pag. 34

CAP. SECONDO – IL PRINCIPIO DELL’IMPARZIALITA’ NEGLI ORDINAMENTI…………………………………………………...pag. 37

1. Cenni storici sul principio di imparzialità nella pubblica Amministrazione……………………………………………………pag. 37

2. L’art. 97 della Costituzione: imparzialità e buon andamento..........pag. 47

3. Il rapporto con i princìpi di legalità, sovranità popolare, tutela dei diritti, eguaglianza e ragionevolezza……………………………………….pag. 52

4. L’imparzialità amministrativa e la Corte Costituzionale……….....pag. 60

5. L’imparzialità nei modelli organizzativi di ordinamenti esteri e nell’Unione Europea………………………………………………...pag. 67

5.1. L’ordinamento anglosassone……………………………………….…...pag. 70

5.2. Il modello negli U.S.A……………………………...……………….......pag. 73

5.3. L’Amministrazione in Francia………………………...…………...........pag. 75

5.4. Il modello in Germania…………………………………..….……..........pag. 76

5.5. In Spagna…………………………………………………..….………...pag. 77

5.7. In Europa…………………………………………………………...........pag. 78

CAP. TERZO – L’IMPARZIALITA’, SECONDO IL CRITERIO SOGGETTIVO……………………………………………………..pag. 81

1. Separazione tra poteri di indirizzo e di gestione……………………pag. 81

1.1. Le riforme della p. A…. …………………………………………….………pag. 89

1.2. Lo spoils system……………………………………….…………….………pag. 95

1.3. I dubbi di legittimità costituzionale……………………...………...............pag. 100

1.4. L’imparzialità impossibile nei ragionamenti della Consulta..….……........pag. 103

2. Imparzialità, riforma del lavoro pubblico, istituti di garanzia………………………………………………………........pag. 114

2.1. Valutazione dei funzionari pubblici…………………………..….........pag. 118

2.2. Etica e deontologia del pubblico funzionario……………….….……..pag. 122

2.3. Incompatibilità, astensione, ricusazione……………………..….........pag. 126

2.4. Il conflitto di interessi…………………………………….….………..pag. 134

3. La p.A. parte processuale e giudice di legittimità dei propri atti…………………………………………………………..……..pag. 147

4. L’imparzialità nelle Regioni e negli enti locali…………….pag. 149

5. La neutralità delle Autorità amministrative indipendenti…………………………………………….…..……...pag. 153

6. Conclusioni sull’imparzialità secondo il criterio soggettivo…………………………………………..………...........pag. 158

CAP. QUARTO – L’IMPARZIALITA’, SECONDO IL CRITERIO OGGETTIVO……………………………………………………..pag. 163

1. Il procedimento amministrativo……………………….…………pag. 163

2. Gli interessi nella ponderazione del procedimento…….………...pag. 176

3. Criteri di imparzialità e corollari del principio nel procedimento………………………………………………………pag. 189

4. L’imparzialità oltre la p.A: l’art. 1 della legge n. 241/199………pag. 197

5. L’imparzialità amministrativa nella giurisprudenza civile, penale, contabile. …………………………………..………....……...........pag. 204

CAP. QUINTO – EVOLUZIONI E APPLICAZIONI DEL PRINCIPIO………………………………………………...……...pag. 214

1. Imparzialità, procedure concorsuali, appalti ………………..........pag.214

2. Imparzialità e autotutela amministrativa…………….…………...pag. 223

3. Imparzialità e accesso documentale…………….………...……...pag. 229

4. Imparzialità, modulo consensuale e attività di diritto privato della p.A………………………………………….………………...........pag. 240

5. Imparzialità, comportamenti e responsabilità civile della p.A…………………………………………………………………pag. 257

CONCLUSIONI………………………………………………….pag. 269

1. Dalla crisi del principio di imparzialità, la crisi sistemica della p.A…………………………………………………………………pag. 269

2. Verso un’imparzialità ragionevolmente possibile…..........pag. 271

3. Imparzialità democratica e legalitaria……………………pag. 273

4. Imparzialità, ambito di definizione della p.A….…………pag. 276

5. Imparzialità, principio propulsivo di riforme istituzionali………………………………………………………...pag. 279

6. Imparzialità, regola del procedimento amministrativo…………………………………………………….pag. 285

7. Imparzialità, tra Stato regolatore e privatizzazioni……….pag. 289

8. Imparzialità e consensualità……………………………...pag. 294

9. Imparzialità e trasparenza amministrativa……...…...........pag. 298

10. Imparzialità come coscienza morale della p.A…...………pag. 302

11. Imparzialità: principio, norma o legal standard.…………pag. 304

Bibliografia………………………………………………..……...pag. 309

CAPITOLO I

INTRODUZIONE: IPOTESI DI LAVORO

Sommario: 1. Enunciati, usi, contenuti negativi e positivi del termine “imparzialità”. – 2. Imparzialità amministrativa, indifferenza, neutralità, leale collaborazione, equità comportamentale. – 3. Imparzialità amministrativa, a confronto con imparzialità e terzietà del giudice. - 4. La cura dell’interesse pubblico, nell’evoluzione delle diverse concezioni del potere pubblico. – 5. L’imparzialità impossibile, ma necessaria della p.A.: un concetto ottativo.

1. Enunciati, usi, contenuti negativi e positivi del termine “imparzialità”.

Il tema dell’imparzialità amministrativa non è tra quelli più trattati dalla dottrina di diritto amministrativo. E le analisi svolte, prevalentemente orientate a individuarne le modalità applicative, non sempre son servite a diradare la caligine che avvolge gli equivoci significati della locuzione. Nondimeno, quel che è stato scritto sull’argomento da costituzionalisti e amministrativisti è un buon dato di partenza per chi voglia affrontare nuovi studi e ricerche.

L’abbrivio dalle elaborazioni dei costituzionalisti può valere a disegnare un quadro referenziale di orientamento, dentro il quale muovere una ricerca che intenda mantenere nell’impostazione un taglio squisitamente amministrativistico. Ciò appare da subito impegnativo, se si considerano due ordini di difficoltà. La prima difficoltà è nel rischio di ripetere compilativamente cose già dette e scritte da costituzionalisti e amministrativisti, la seconda è nella tentazione - cui indulge talora la dottrina – dell’astrattezza dogmatica, consistente nel tenersi lontani dall’incandescente realtà del diritto vivente, per esplorare sentieri di pura logica giuridica, con discorsi e trattazioni di teoria generale.

Se l’astrattezza non aiuta a fare luce sulla pratica applicazione di un principio mai chiarito a sufficienza, come quello dell’imparzialità amministrativa, la ripetitività perpetua tutte le incertezze di analisi e di definizione della dottrina, nonché la genericità di contenuti e di riferimenti della giurisprudenza.

Eppure, il tema dell’imparzialità assume un rilievo che oltrepassa i confini della giuridicità, evocando idee e aspirazioni individuali e collettive. Esaminare il principio in una logica retrospettiva e avulsa dai nuovi bisogni e aspirazioni che si levano dalla comunità globale di oggi, significherebbe non già confrontarsi con l’esistente, ma limitarsi a inutili evocazioni prive di pregio.

Per assicurare un esame compiuto che dia a questo studio il massimo della prospettiva, è opportuno affrontare una duplice disamina, l’una generale, afferente i profili definitori (lessicali, filosofici, di dottrina generale, di ermeneutica giuridica), l’altra più specifica, concernente le novità legislative e giurisprudenziali, le complessità e le antinomie derivanti dall’applicazione del principio nell’alveo dell’organizzazione e dell’agire amministrativo. Tale secondo aspetto vale ad attualizzare il principio di imparzialità, mentre soffermarsi sul primo corrisponde a un’esigenza di coerenza sistematica, nonché alla necessità di illustrare il carattere mutevole che l’imparzialità ha assunto nel quadro delle recenti metamorfosi politiche, istituzionali, economiche dei pubblici poteri, derivanti dai più generali processi di cambiamento socio-culturale.

Lo sforzo teso a rifuggire le tentazioni della ripetitività e dell’astrusità non deve mai portare a eludere i problemi di fondo, come quello di definire al meglio il significato o i significati del termine “imparzialità”, per fare chiarezza sulle interpretazioni e sugli usi applicativi del principio.

L’approccio al tema non può rinunciare all’opportunità dell’abbrivio da analisi lessicali, comparative, intertestuali, caratterizzate dalla distinzione degli enunciati e degli usi della parola “imparzialità”. Una distinzione che può offrire molteplici versanti di utilità teorica e pratica.

Imparzialità è una parola italiana coniata nel secolo XVIII, per indicare la capacità di un soggetto di mantenersi estraneo a interessi di parte e di valutare le cose con obiettività.

È termine nato nel linguaggio della diplomazia e presto adottato dal lessico giuridico. Viene considerato sinonimo di neutralità, lealtà, serena indifferenza, equanimità e va detto che l’indeterminatezza e la genericità dei significati del termine non sono stati di aiuto alla chiarezza dei contenuti giuridici, né alla correttezza degli usi correlati.

La lingua inglese, per fare un confronto appropriato, dispone di una molteplicità di termini, tutti traducibili in italiano con “imparzialità”, ma ciascuno avente un significato specifico e tecnico: neutrality, fairness, candour, dispassion, impartiality. La parola fairness, in particolare, che rimanda all’antica concezione aristocratica e razzistica degli anglosassoni (la superiorità dei biondi sui bruni), è utile a individuare nella “posizione superiore” il criterio soggettivo di riconoscimento dell’imparzialità. La Impartiality anglosassone, invece, è un concetto di filosofia morale, che identifica un principio di giustizia, a tenore del quale le decisioni sono prese sulla base di criteri obiettivi. Il sistema di Common Law non impone esplicitamente al public officer, gravato della speciale cura degli interessi pubblici, di orientare il proprio agire alla impartiality, che tra i legal standards è uno dei più dinamici e flessibili ed è collegato, in via quasi esclusiva, al concetto di justice, rappresentando una forma di perseguimento della giustizia sostanziale.

Meno specifico e tecnico è l’uso del termine impartialité nella lingua francese, sovente associato a sinonimi come neutralité, obiectivité, equité, droiture, integrité, justesse. Nella definizione del lessico francese, la impartialité è l’assenza di un partito preso, l’attitudine alla distanza, l’eliminazione della soggettività dal giudizio. In Francia, l’imparzialità era considerata tra gli obblighi degli agenti reali sin dal 1302, ma è solo nel 1949 che essa viene elevata a principio generale dell’ordinamento.

Anche il termine tedesco Unparteilichkeit ha molteplici significati ed è traducibile con imparzialità, neutralità, obiettività (Neutralitat, Objectivitat). Tra i sinonimi, si annoverano altresì i termini Unvoreingenommenheit, Gerechtigkeit, Uberparteilichkeit, quest’ultimo riferibile alla condizione di chi è supra partes, che denota l’influenza del diritto romano sull’ordinamento germanico, nell’attitudine a considerare l’imparzialità una qualità propria della condizione del soggetto supra partes.

Specificità identitarie e culturali sono rinvenibili anche in altre definizioni e traduzioni da lingue straniere dei termini indicanti l’imparzialità ma, abbandonando i confronti interlinguistici, è il caso di approcciare, d’ora in avanti, il significato, ovvero i significati della parola italiana, nel lessico del diritto costituzionale e del diritto amministrativo.

La locuzione “imparzialità amministrativa”, a parere di un’attenta dottrina ricognitiva, ha un duplice contenuto: 1) negativo, vale a dire l’imparzialità intesa come orientamento a non discriminare e a non compromettere gli interessi dei soggetti coinvolti nell’azione dei pubblici poteri; 2) positivo, vale a dire l’imparzialità come valutazione equanime ed esauriente di tutti gli interessi suscettibili di incisione da parte dei pubblici poteri, onde evitare che le determinazioni da questi assunte siano parziali o sbilanciate in favore di taluni piuttosto che di altri.

Il divario tra un’imparzialità negativa (intesa come non discriminazione degli interessi) e una positiva (intesa come promozione globale ed equanime degli interessi) prefigura un’ambivalenza, tale da allargare e restringere il contenuto definitorio del principio, obbligando l’interprete a connetterlo ad altri principi costituzionali, come l’eguaglianza, la ragionevolezza, la proporzionalità, la legalità, la salvaguardia dei diritti, fino a farne una sorta di ipostasi di essi, alla quale conformare sia l’organizzazione che l’azione della p.A. nel suo complesso.

Tra gli scopi del presente studio vi è quello di verificare la compatibilità dogmatica (anche in relazione al principio di buon andamento), nonché l’utilità applicativa dell’anzidetta distinzione tra imparzialità negativa e positiva.

In dottrina, vi è un’ulteriore distinzione concettuale, quella tra imparzialità interna ed esterna: la prima riguarderebbe l’assetto dei pubblici uffici, la seconda atterrebbe al rapporto tra pubblica Amministrazione e privati. Questa è, probabilmente, una classificazione meno utile sotto l’aspetto ermeneutico, perfino impropria, atteso che non è affatto vero che l’assetto dei pubblici uffici abbia valenza solo interna e non anche esterna, né che il rapporto della p.A. con altri soggetti sia tutto negli aspetti esterni all’esercizio del potere pubblico, piuttosto che negli interna corporis.

A detta classificazione è preferibile - ad avviso di chi scrive - quella che distingue profili (o criteri) soggettivi e oggettivi dell’imparzialità, vale a dire l’imparzialità vista nei soggetti che costituiscono la p.A., cioè nell’organizzazione, nonché l’imparzialità considerata oggettivamente, nelle relazioni della p.A. con altri soggetti, nei procedimenti amministrativi, nell’agire amministrativo. La distinzione tra aspetti soggettivi e oggettivi dell’imparzialità appare tecnicamente più corretta di quella tra aspetti interni ed esterni.

Nel corso di questo studio, si esaminerà l’imparzialità amministrativa, prima secondo il criterio soggettivo, poi secondo il criterio oggettivo. L’antefatto logico è che tra soggettività e oggettività della p.A. non vi sia uno iato incolmabile: il soggetto pubblico si estrinseca nella propria attività e le attività pubbliche risentono della qualità di chi le pone in essere. Esaminando l’imparzialità amministrativa secondo il criterio soggettivo, si dirà della separazione tra poteri di indirizzo politico e compiti di gestione, dei modelli organizzativi della p.A., nonché degli istituti che, dentro l’organizzazione, garantiscono l’imparzialità amministrativa. Esaminando l’imparzialità amministrativa secondo il criterio oggettivo, si dirà del procedimento amministrativo, della ponderazione di interessi nel procedimento e dei criteri e corollari applicativi dell’imparzialità.

Per meglio comprendere l’imparzialità amministrativa, per definirne i contenuti, è opportuno, preliminarmente, operare raffronti con concetti, criteri e principi analoghi o contigui, evidenziandone debitamente le differenze.

2. Imparzialità amministrativa, indifferenza, neutralità, leale collaborazione, equità comportamentale.

Sebbene l’imparzialità, nei suoi contenuti, sembra riflettere quella che è stata definita una “banalità concettuale”, nel portato assiologico essa rivela un’apprezzabile importanza, non fosse altro che per il fatto di non potersi concepire un sistema amministrativo pubblico realmente moderno e democratico, che sia privo di un’imparziale conformazione organizzativa e operativa.

Volendo rinvenire nell’ordinamento il preciso riferimento, si deve richiamare quanto previsto dall’art. 97, primo comma, della Costituzione, ai sensi del quale <>.

Al di là di questa laconica menzione, non è dato ritrovare nella Carta Costituzionale ulteriori esplicitazioni o precisazioni, donde la necessità di ovviare, attraverso elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali.

Come già osservato, non sempre chiarificatore si è rivelato l’ausilio interpretativo al riguardo offerto dalla dottrina, benché alcuni apporti di essa siano stati utili, esprimendo persino un’apprezzabile sensibilità ai mutamenti che la società e l’ordinamento hanno subito nel corso degli anni. Invero, quello dell’imparzialità è principio fortemente ed intimamente connesso con l’humus socio-politico di una moderna democrazia occidentale, quale è la Repubblica italiana.

Per non lasciare nulla di inesplorato, ai fini della completezza della indagine, si ritiene opportuno partire da una definizione negativa del principio di imparzialità (cosa esso non è), procedendo a distinzioni che mostrino in controluce il contenuto del principio in esame, mediante un confronto con i concetti di indifferenza, neutralità, lealtà, equità e altri simili.

C’è chi ha detto che l’imparzialità è un <>. Ebbene, l’imparzialità amministrativa può anche postulare una imperturbabilità di animo del funzionario pubblico, ma non può mai essere considerata mera “indifferenza” agli interessi coinvolti dall’azione della p.A.

L’indifferenza, intesa come mancato orientamento nella scelta dinanzi a un’alternativa, è concetto logico-matematico, economico, letterario, filosofico, e, da qualche tempo, viene anche elaborato, non senza qualche fatica, come principio di diritto amministrativo.

In materia urbanistica, ad esempio, il “principio di indifferenza” costituiva un limite al potere comunale di localizzazione e zonizzazione edilizia, fino a che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2003, lo ha espunto dall’ordinamento, riconoscendo che la p.A. ha il potere di scegliere le localizzazioni più adeguate, differenziando le valutazioni sull’idoneità dei siti. In tema di accordi sostitutivi del provvedimento, il Consiglio di Stato, IV Sezione, con la decisione 12 novembre 2009 n. 7057, ha affermato che la finalità dell'art. 11 comma 5 della legge 7 agosto 1990 n. 241 è quella di riservare al giudice amministrativo la cognizione piena (estesa, cioè, anche ai diritti) dell'esercizio della funzione amministrativa, anche se esercitata con il modulo convenzionale, anziché unilaterale e autoritativo, di talché detta norma consacrerebbe il “principio dell'indifferenza”, al fine dell'attribuzione della pertinente capacità giurisdizionale, dello schema giuridico formale con il quale viene concretamente esercitato il potere autoritativo, sancendo la regola per cui è riservata al giudice amministrativo la cognizione dell'esercizio delle funzioni pubblicistiche, anche quando concretamente espletate con il modello convenzionale, in alternativa a quello unilaterale. Il “principio di indifferenza”, dunque, nel diritto amministrativo sarebbe, per il Consiglio di Stato, interno all’assoluta equivalenza del modulo consensuale, rispetto all’esercizio unilaterale della potestà autoritativa.

In disparte da tali particolari accezioni, l’indifferenza è da ritenersi attitudine totalmente estranea ai princìpi che regolano l’organizzazione e l’azione della p.A., in specie all’imparzialità, che, anzi, può essere definita come l’esatto contrario dell’indifferenza, in quanto essa postula un’attitudine della p.A. alla premurosa cura dell’interesse pubblico e di altri interessi collettivi e dei singoli. La pubblica Amministrazione rinviene tradizionalmente la sua stessa ragion d'essere nella finalità del perseguimento dell'interesse pubblico, proprio in funzione del quale sono predisposte le differenti forme e modalità di intervento dei poteri pubblici. La p.A. opera scelte e non rimane mai indifferente – o almeno non dovrebbe - dinanzi alle alternative che le si offrono nella decisione, di guisa che l’imparzialità amministrativa può essere considerata come la modalità razionale, selettiva e differenziante – tutt’altro che indifferente - della cura degli interessi pubblici, collettivi e privati.

La imparzialità non è neppure neutralità. Con il termine “neutralità” si usa, ormai, indicare la impermeabilità del potere amministrativo alle influenze del potere politico. Tale qualità non appartiene alla p.A., perché essa dipende funzionalmente dall’indirizzo politico. Semmai, la neutralità è riferibile, come si vedrà più oltre, a particolari istituzioni quali sono le Autorità amministrative indipendenti. Pertanto, l’imparzialità amministrativa postula, anziché escludere, un’Amministrazione pienamente orientata dall’indirizzo politico, che ad esso deve conformarsi.

Un’ulteriore distinzione va operata tra l’imparzialità amministrativa e la leale collaborazione. La lealtà, principio di derivazione romanistica, è sicuramente una pre-condizione soggettiva, si direbbe quasi psicologica, dell’imparzialità amministrativa, ma non si identifica con essa.

Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, il principio di leale collaborazione è quello che si attua attraverso forme di coordinamento fra Stato, Regioni ed enti locali: esso rappresenta un’esigenza imprescindibile per perseguire il buon andamento della «complessiva pubblica Amministrazione». Secondo un’originaria impostazione del giudice delle leggi, le forme di coordinamento tra i diversi livelli istituzionali della Repubblica verrebbero ad essere una sorta di anello di congiunzione fra i principi di leale collaborazione e quelli di imparzialità e buon andamento.

Ma, è la stessa Corte a riconoscere – in pronunce meno datate - che la configurazione del principio di leale collaborazione quale corollario del principio di imparzialità e buon andamento conduce necessariamente a interpretazioni estensive e fuorvianti (ad esempio, in relazione alle intese o alle garanzie che accompagnano i poteri sostitutivi dello Stato sulle Regioni). L’individuazione del fondamento del principio di leale collaborazione nell’art. 97 Cost. viene così abbandonata dalla Corte Costituzionale, che oggi preferisce ancorare il principio predetto all’art. 5 Cost.

Tale tendenza, affermatasi a partire dalla giurisprudenza costituzionale di cui alle sentenze 10 febbraio 1997 n. 19 e 18 luglio 1997 n. 242, consente oggi di tenere distinta, sul piano ermeneutico, la buona amministrazione dalla leale collaborazione.

Nondimeno, è vero che la p.A. deve sempre mantenere un comportamento leale verso il cittadino, di guisa che il concetto positivo di imparzialità amministrativa, cui si è fatto già cenno in precedenza, può identificarsi, volta per volta, con il dovere di soccorso procedimentale, con la cooperazione nel partenariato tra pubblico e privato e con il rispetto dei principi di buona fede e tutela dell’affidamento, nei rapporti tra p.A. e privati interessati.

L’imparzialità amministrativa può manifestarsi, dunque, nella lealtà, nella buona fede, nella correttezza, nell’accuratezza, nell’equità di comportamento, ma si tratta di epifenomeni, figure sintomatiche, parametri che non aggiungono nulla al contenuto concettuale dell’imparzialità amministrativa e sono riferibili prevalentemente all’agire del pubblico funzionario, quando esso è conforme alle norme di legge, ai regolamenti, alle regole deontologiche.

Tali figure sintomatiche forniscono dell’imparzialità amministrativa quel concetto “frammentato” che la dottrina ha stigmatizzato - ritenendolo svalutato e sterile - ma restano comunque importanti per identificare l’imparzialità nelle sue concrete applicazioni.

Restando in tema di comparazioni - prima ancora di inoltrarsi nella disamina della normativa costituzionale di cui al citato art. 97 Cost. - si ritiene opportuno e utile stabilire un confronto tra l’imparzialità amministrativa e l’imparzialità del giudice, quale prevista dall’art. 111 comma secondo della Costituzione.

3. Imparzialità amministrativa, a confronto con imparzialità e terzietà del giudice.

L’ordinamento riserva ai magistrati una disciplina del tutto particolare, comportando l’imposizione di speciali doveri, vale a dire l’imparzialità e l’indipendenza, da considerare anche come regole deontologiche, ai sensi degli artt. 101 comma secondo e 104 della Costituzione, e persino la limitazione del diritto di iscriversi ai partiti politici, a norma dell’art. 98 comma terzo della Costituzione.

I princìpi di terzietà e imparzialità della giurisdizione sono stati poi rimarcati ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, talché, nell’innovato art. 111, comma secondo, della Costituzione <>. Dunque, l’imparzialità e la terzietà del giudice occupano un posto centrale tra i princìpi del giusto processo, in carenza dei quali le regole e le garanzie processuali si svuotano di significato.

L’imparzialità è connaturata all’essenza stessa della giurisdizione, come si desume dal diretto collegamento del principio evocato con quello contenuto nel comma primo dell’art. 111, in virtù del quale <>, di guisa che non può esistere giusto processo se alla decisione non si pervenga mediante <>.

I termini “imparzialità” e “terzietà” riferiti alla giurisdizione, rappresentano due attributi della giurisdizione, che sono complementari tra loro. La lettura più corretta per l’individuazione dell’effettivo significato dei termini anzidetti è fornita all’interprete dall’esame dei lavori parlamentari, dai quali emerge la precisa volontà di ricondurre la terzietà alla <>, o meglio ordinamentale del giudice, che deve essere equidistante dalle parti processuali, nonché l’imparzialità alla <>, nel senso che il giudice non può essere condizionato da interessi o pregiudizi nella formazione del proprio decisum.

Nella terzietà e nell’imparzialità del giudice è riposta la maggiore garanzia funzionale del diritto alla difesa e, più in generale dei diritti oggetto del giudizio, ivi comprese le libertà individuali.

A ben vedere, dall’immediato confronto, emerge una sostanziale e irriducibile differenza tra il principio di terzietà del giudice e la posizione soggettiva della p.A., la quale non è mai “terza” ed è sempre “parte” in una relazione, che si qualifica come rapporto intersoggettivo, interorganico, interistituzionale, sia che intercorra tra organi di indirizzo politico e uffici di gestione, sia che si svolga all’interno dei detti organi o uffici, sia che colleghi le diverse istituzioni pubbliche tra loro, sia che colleghi la sfera pubblica al cittadino.

Viceversa, tra l’imparzialità amministrativa e l’imparzialità del giudice emergono analogie e differenze.

In entrambi i principi costituzionali, l’imparzialità si atteggia ad equanimità, correttezza, accuratezza, serenità di decisione. Ma, se la decisione del giudice non deve mai essere condizionata da interessi, quella della p.A., invece, è sempre suscettibile di condizionamenti, atteso che non può prescindere né dall’influenza dell’indirizzo politico, né tampoco dalla valutazione e ponderazione dei concreti interessi coinvolti nel procedimento.

Dal confronto emerge, dunque, che la p.A. è sempre “parte”, mentre il giudice è sempre “terzo”, di guisa che sembrerebbe che la vera imparzialità sia solo quella del giudice, mentre la “imparzialità di parte” della p.A. sia da reputarsi quale mera contraddizione in termini, atteggiandosi quasi a ossimoro giuridico.

Tale conclusione può essere rivisitata, se non proprio ribaltata, sol che si consideri, da una diversa prospettiva, la struttura intima delle modalità di esercizio del potere giudiziario, in parallelo a quella del potere amministrativo.

Della struttura del potere giudiziario tratta, con profondità di pensiero, Luigi Ferrajoli, nel celebre saggio dal titolo “Diritto e Ragione”, laddove evidenzia che princìpi fondamentali quali i diritti di libertà, la tolleranza politica, i limiti dei poteri dello Stato, l’indipendenza giudiziaria, concepiti dal pensiero giusnaturalistico come princìpi di ragione, poi incorporati nelle moderne Costituzioni liberal-democratiche, nella forma di garanzie penali e processuali, restano valori largamente irrealizzati, proprio in ragione della struttura e delle particolari modalità operative del potere giudiziario.

Lo studio “Diritto e Ragione” del Ferrajoli è un’acuta analisi dei meccanismi del potere giudiziario.

Uno di tali meccanismi è la “denotazione” (o verificazione) giuridica, che dovrebbe essere pura interpretazione della legge, diventa invece forzatura, estensione, dilatazione, contrazione della norma, secondo i casi e le convenienze. L’accertamento dei fatti, a dire del Ferrajoli, non può limitarsi alla verificazione di essi, ma deve spingersi fino alla controprova, cioè alla falsificazione, applicando lo schema che Karl Popper configura per le scienze esatte. Per essere veritiero, l’accertamento deve spingersi oltre la linea della falsificabilità della ricostruzione del fatto.

C’è poi il potere di “connotazione”, che è il discernimento equitativo - come lo definisce il Ferrajoli - la sussunzione del fatto sotto lo schema astratto della fattispecie. Qui, se un rischio si paventa, è quello della mancanza di equità, è la disparità di trattamento tra casi giudiziari simili o uguali, ovvero la forzata omologazione di casi diversi.

Infine, il Ferrajoli analizza il potere di “disposizione”, che egli ritiene il più pericoloso, quello con il quale il giudice compie la sua valutazione etico-politica. La disposizione trasforma il giudice in interprete della pubblica opinione, strumento dei mass-media, grande inquisitore, castigatore di costumi, arbitro degli equilibri sociali e politici. Il Ferrajoli ammonisce: la degenerazione dei poteri di denotazione, accertamento e connotazione porta inevitabilmente alla dilatazione del potere di disposizione.

La correzione dell’eccesso degenerativo del potere dispositivo sta proprio nell’imparzialità del giudice, nella sua serenità, nella ragionevolezza, nel distacco dall’ambiente in cui giudica. Imparzialità e ragionevolezza si incontrano sul limitare della crisi dei sistemi giuridici, essendo il rimedio alle patologie manifestantisi nel profondo divario tra garanzie dei diritti fondamentali e funzionamento effettivo delle istituzioni.

Sorge spontanea la domanda se il triplice potere di “denotazione”, “connotazione” e “disposizione”, quale descritto e analizzato nel saggio del Ferrajoli sulla giustizia, sia riscontrabile, mutatis mutandis, anche nell’esercizio del potere amministrativo.

La risposta è banalmente e semplicemente positiva, sol che si consideri che la p.A., quale espressione del potere esecutivo, applica la legge e, per farlo, deve interpretarla (denotazione), deve adattare il caso concreto alla fattispecie astratta (connotazione), infine deve decidere il caso, provvedendo in via amministrativa (disposizione). Vi è, dunque, una sostanziale analogia nelle modalità di esercizio dei poteri giudiziario e amministrativo, nella struttura (se non nella funzionalità) di essi, di guisa che l’imparzialità amministrativa diventa assimilabile a quella del giudice e questa a quella, molto più di quanto non appaia a un esame superficiale.

Nell’imparzialità amministrativa vi è l’antidoto agli abusi e alle deviazioni del potere amministrativo, così come nell’imparzialità del giudice c’è la garanzia del giusto processo. Nell’una e nell’altra, fanno da sfondo principi e valori di massimo rango costituzionale, come la sovranità democratica, le libertà, i diritti fondamentali, l’eguaglianza, la ragionevolezza.

In un noto pamphlet dal titolo “L’arte del dubbio” il magistrato, nonché scrittore pugliese Gianrico Carofiglio afferma che, per regolare il giudizio quando la prova non supera il limite del ragionevole dubbio, occorre non tanto la ragionevolezza, quanto piuttosto il distacco dalle cose e persino il senso dell’umorismo. In tale ottica, i contorni giuridici dell’imparzialità del giudice (e, per analogia, quelli dell’imparzialità amministrativa) sembrano quasi dileguare, al punto che l’imparzialità stessa rivela inaspettatamente qualità di dote umanistica, piuttosto che di principio regolatore o di attitudine giuridica.

4. La cura dell’interesse pubblico, nell’ evoluzione delle diverse concezioni del potere pubblico.

Si è detto che la pubblica Amministrazione attende, per definizione, alla cura dell’interesse pubblico, talché la natura della sua attività è tendenzialmente “parziale” e “selettiva”.

La p.A. rinviene, tradizionalmente, la sua ragion d'essere nella finalità del perseguimento dell'interesse pubblico, proprio in funzione del quale sono predisposte le differenti forme e modalità di intervento dei poteri pubblici.

La p.A., che opera continuamente scelte dinanzi alle alternative che le si offrono nella decisione, deve farlo in modo razionale e imparziale, di guisa che l’imparzialità amministrativa può essere definita e considerata come forma e modalità razionale della cura degli interessi pubblici.

Si è, altresì, affermato che la p.A. non è mai “terza”, essendo essa “parte” in una relazione, che può qualificarsi come rapporto intersoggettivo, interorganico, interistituzionale, sia che intercorra tra organi di indirizzo politico e uffici di gestione, sia che si svolga all’interno dei detti organi e uffici, sia che colleghi le diverse istituzioni pubbliche tra loro, sia che colleghi la sfera pubblica al cittadino.

Uno dei primi studiosi del <> fu Federico Cammeo, che, partendo dalla definizione dei diritti pubblici amministrativi come diritti di supremazia (jura in eminentia) appartenenti allo Stato, definì il rapporto giuridico amministrativo come un rapporto asimmetrico e sbilanciato, tra una posizione di potestà o supremazia, quella dello Stato, e una posizione di mera soggezione e di dovere, quella del cittadino portatore di interesse. Tale asimmetria non avrebbe mai reso possibile che un interesse pubblico fosse recessivo e quindi sacrificabile dinanzi a un interesse privato, ancorché quest’ultimo fosse meritevole di tutela.

La posizione di superiorità fa dello Stato un soggetto portatore degli interessi di parte pubblica e, nel contempo, un soggetto supra partes, proprio in ragione del fatto che esso attende alla cura dell’interesse pubblico considerato eminente e prevalente rispetto agli interessi privati.

In tale ottica, lo Stato è di per sé imparziale, sempre che rispetti la legge, perché esso agisce da sovrano e da giudice dei propri affari, intervenendo, da una posizione di superiorità, sulle posizioni e sui rapporti giuridici sottostanti.

Allorché l’idea dello Stato centralizzato e monoclasse (superiorem non recognoscens) cede progressivamente il campo a una idea pluricentrica, multiculturale, democratica, pluriclasse, nonché internazionalistica degli ordinamenti pubblici, la prospettiva cambia radicalmente.

L’evoluzione delle forme statuali (e, più in generale, dei poteri pubblici) influenza, in modo determinante, sia il concetto di interesse pubblico, sia quello di rapporto giuridico amministrativo, modellando, in conseguenza, il principio dell’imparzialità amministrativa.

L’avvento dello Stato pluriclasse – che in Italia precede di qualche tempo la Costituzione repubblicana – muta profondamente la situazione globale. Divengono interessi dello Stato anche interessi tra loro confliggenti, assumono maggior peso e importanza gli interessi degli enti pubblici territoriali e viene introdotta, come giuridicamente riconosciuta, la categoria degli interessi collettivi. Lo stesso interesse privato individuale diventa più rilevante e significativo nella ponderazione che deve darne la p.A.

L’interesse pubblico viene sezionato nelle sue componenti, mentre nascono interessi pluriqualificati, cioè contemporaneamente pubblici (in quanto affidati a un ente pubblico), collettivi (cioè riferibili a un ente o gruppo esponenziale) e privati (perché costituiscono bene della vita di soggetti privati).

Crescono per numero e qualità le situazioni nelle quali a un interesse individuale o collettivo accede un interesse pubblico e nasce la categoria dei diritti privati funzionalizzati (come i diritti di proprietà e di impresa), mentre numerose attività private finiscono sotto la direzione pubblica o il pubblico controllo.

Lo Stato non si identifica più soltanto con l’organizzazione pubblica, ma anche con la collettività, di guisa che funzioni pubbliche diventano tutte le attività orientate alla cura di interessi, in ragione della norma che attribuisce pubblici poteri a un soggetto pubblico o privato. Infatti, una novità importante è data dalla legislazione speciale che conferisce a soggetti privati l’esercizio di pubbliche funzioni o di servizi pubblici, anche in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale e, per contro, rende possibile che del diritto privato si dia un’amministrazione pubblica.

L’imparzialità amministrativa, in un sistema di interessi di varia natura e in relazione dialettica tra loro e di rapporti giuridici diversamente qualificabili come pubblici o privatistici - a prescindere dal fatto che uno dei soggetti del rapporto sia o meno soggetto pubblico - diventa principio di difficile comprensione e di ancor più difficile applicazione.

Risulta evidente, dunque, l’influenza determinante e conformatrice che le diverse concezioni dello Stato e dei poteri pubblici hanno avuto e tuttora hanno sull’evoluzione del principio di imparzialità amministrativa.

Nella dottrina amministrativa dei primi del ‘900, prevaleva l’idea che il potere amministrativo, perseguendo i fini propri dello Stato <>, dovesse essere connotato come “parte”, in contrapposizione al potere del giudice, che è supra partes.

In tale ottica, l’imparzialità amministrativa si identificava con il mero rispetto della legge, operando sull’azione amministrativa dall’esterno. L’imparzialità amministrativa, pertanto, si identificava con la legalità e il semplice rispetto della legge era ritenuto idoneo, di per sé, a limitare l’arbitrio degli organi amministrativi.

Il dibattito dottrinale, muovendosi lungo gli assi e con gli orientamenti del pensiero giuridico del ‘900 - permeato da riflessioni di ordine sociologico ed economico - si è poi sviluppato in diverse direzioni, come quella di ritenere che i poteri pubblici siano gravati di importanti doveri di solidarietà sociale, ovvero, per contro, che lo Stato debba mantenere uno spessore “minimo”, lasciando al mercato economico la maggiore libertà di crescita e di espressione. In tali ottiche, l’imparzialità amministrativa, nel suo significato ‘negativo’ (di non discriminazione) diventa il criterio-guida di un sistema pervaso da scelte politiche, ovvero, in alternativa, un metodo che mira a sottrarre all’influenza politica l’amministrazione degli interessi pubblici, collettivi e privati, fino al punto di evolvere verso la diversa forma della “neutralità”, tipicamente propria delle Agenzie e delle Authorities, mutuate dal modello anglosassone, ovvero dell’ombudsman, mutuato dal modello nord-europeo.

Diversamente, vi è chi predilige l’imparzialità amministrativa come corollario del principio di eguaglianza, vale a dire l’imparzialità nel suo significato ‘positivo’ di criterio di parità nel trattamento degli interessi di soggetti privati incisi dall’azione amministrativa. A ridosso di tali diverse visioni permangono le particolari concezioni e i diversi modi di intendere l’interesse pubblico e il rapporto giuridico amministrativo, che si sono evoluti, modificando i peculiari caratteri, proprio nel passaggio dallo Stato monoclasse a quello pluriclasse. Uno dei detti caratteri era ed è la <>: è indubitabile che le astratte sfere di attribuzione continuino ad essere previamente stabilite dalla legge. Nondimeno, va sottolineato che, già da alcuni decenni, le Amministrazioni si muovono, con attitudine creativa, nell’ambito di funzioni e servizi non predeterminati dalla legge. Per ciò che concerne un secondo carattere – quello della <> dell’interesse pubblico - non v’è dubbio che si tratta di una connotazione ancora attuale. La tutela dell’interesse pubblico continua ad essere <>. Il carattere dell’indisponibilità si spiega agevolmente con il principio di doverosità dell’azione amministrativa che, a sua volta, trova estrinsecazione nella locuzione “funzione amministrativa”, che indica la modalità di esercizio finalizzato del potere pubblico . Quel che occorre sottolineare è, da un lato, che la funzione amministrativa posta in essere da soggetti pubblici non deve più necessariamente svolgersi attraverso i tradizionali moduli autoritativi, potendo invece estrinsecarsi in accordi procedimentali o strumenti negoziali di diritto privato; dall’altro, che l’attività amministrativa non necessariamente deve - come già in passato rilevato dalla dottrina - essere posta in essere da soggetti pubblici, ben potendo essere realizzata da soggetti privati, sia in forma singola che associata.

In merito a quest’ultimo aspetto, emerge con chiarezza il venir meno di un terzo carattere dell’interesse pubblico: quello della <>, ben potendo il pubblico interesse essere perseguito e realizzato anche da soggetti privati. E l’indagine sulla nozione dell’interesse pubblico non potrebbe dirsi esaurientemente svolta, ove non si facesse riferimento a un quarto carattere fondamentale di esso, il carattere della <>. L’interesse pubblico, infatti, costituisce un’entità a realizzazione progressiva e, da un punto di vista generale, l’introduzione di tale carattere si giustifica agevolmente in considerazione dell’attualizzazione del principio di legalità nel sistema amministrativo. Tale principio, lungi dall’operare in un’accezione meramente formale, ha acquisito progressivamente una valenza sostanziale; la legge, infatti, oltre a indicare il fine pubblico astratto da realizzare, indica i princìpi costituzionali (di buon andamento e imparzialità), i criteri (di pubblicità, trasparenza, economicità, efficacia ed efficienza), nonché le regole sul contenuto e sulla forma dell’azione amministrativa teleologicamente orientata. Esiste – si può dire - un unico interesse pubblico all’imparzialità e al buon andamento della p.A., che si materializza come progetto condiviso, capace di coinvolgere cittadini e Amministrazioni, in quanto trattasi di comune obiettivo, verso il quale non possono non tendere sia i soggetti pubblici che i privati.

In un panorama così delineato, assumono particolare rilievo le regole procedimentali per la determinazione dell’interesse pubblico, in quanto è proprio nel procedimento amministrativo che l’Amministrazione individua il concreto assetto dei plurimi interessi in gioco. E’ quella la sede in cui l’Amministrazione procedente, all’esito di un’attività di acquisizione, ponderazione e composizione di interessi, provvede in concreto con l’emanazione dell’atto. E’ quella la sede in cui l’imparzialità di un’Amministrazione portatrice di interessi di parte cerca costantemente la sua impossibile realizzazione.

5. L’imparzialità impossibile, ma necessaria della pubblica Amministrazione: un concetto ottativo.

Nel più recente dibattito filosofico – politico, si fa strada un orientamento di pensiero, definito “deconstruction”, a tenore del quale concetti come verità, obiettività, imparzialità sono inutilizzabili e impraticabili nel linguaggio giuridico e politico, in quanto essi non risultano idonei a produrre alcun significativo cambiamento culturale e sociale: ne consegue che siffatti concetti sono da considerare politicamente non corretti. Certa dottrina – per fare un esempio riferito all’ordinamento italiano - vede nell’indeterminatezza del principio di imparzialità amministrativa una delle ragioni della crisi della p.A. e dello stesso diritto amministrativo, nonché la ragione per la quale sia il potere legislativo che quello giudiziario invadono sempre più frequentemente il campo del potere esecutivo e della p.A., esautorandolo.

Che l’imparzialità sia un principio impraticabile, cioè privo della possibilità di concreta attuazione nel sistema giuridico è l’ipotesi di lavoro, l’assunto di partenza del presente studio, ma non vuole esserne la tesi finale. E’ pur vero che un sistema giuridico basato sui diritti e costruito sulla “promessa” di un eguale trattamento di tali diritti da parte dei poteri pubblici è sempre garanzia di un accettabile programma politico, in qualsiasi Costituzione liberal-democratica. È evidente che la forza del principio di imparzialità rimane inespressa, se esso non entra nella pratica quotidiana dell’agire amministrativo, di talché vien quasi fatto di dire che “imparzialità” è un’espressione ottativa, che rivela e manifesta un desiderio, un’attesa, una legittima aspirazione dello Stato a dare (e di ciascun cittadino a ricevere) un trattamento equo, egalitario e solidale, nell’esercizio dei pubblici poteri (e nel contatto con essi). Ma, è altresì evidente che l’imparzialità non può non porsi quale principio fondante di un sistema di diritti garantiti, essendo l’imparzialità stessa il riflesso allo specchio dell’eguaglianza formale e sostanziale.

L’imparzialità amministrativa, intesa in senso positivo, è l’eguaglianza vista dal lato della pubblica Amministrazione quando questa, sul piano formale, riconosce a tutti eguale dignità sociale e applica per tutti la legge in egual modo, mentre, sul piano sostanziale, si sforza di <>. L’imparzialità, anche intesa in senso negativo, può dimostrare insospettabili qualità mimetiche, ogni volta che si trasforma, adattandosi, nel principio della parità di trattamento, nel principio di non discriminazione, nel principio di pari opportunità e negli altri principi e criteri giuridici che, dentro il sistema giuridico amministrativo, sono i corollari dell’eguaglianza formale e sostanziale.

L’imparzialità è ragionevolezza, la quale a sua volta è un parametro costituzionale ricavato in via interpretativa dal principio di eguaglianza, ma più ancora costituisce il criterio generale di legittimazione dell’intero sistema del diritto. Cosa vi è di più ragionevole di una pubblica Amministrazione equanime e imparziale? Cos’altro serve alla p.A., se non la ragionevolezza, per applicare la medesima misura in situazioni uguali (o assolutamente omologabili tra loro), ovvero un metro diversificato e proporzionato per trattare in modo diverso situazioni che simili non sono, se non all’apparenza? L’imparzialità è, dunque, proporzionalità, buon senso, misura, accuratezza, correttezza, equità comportamentale. Una dote umanistica, prima che un principio regolatore o un’attitudine giuridica. L’imparzialità è quasi la coscienza morale dell’Amministrazione, che nel rapporto asimmetrico, sperequato, sproporzionato del potere pubblico con gli “altri”, pone il principio della responsabilità alla base della libertà dell’azione amministrativa.

CAPITOLO II

IL PRINCIPIO DELL’IMPARZIALITA’ NEGLI ORDINAMENTI

Sommario: 1. Cenni storici sul principio di imparzialità nella pubblica Amministrazione. – 2. L’art. 97 della Costituzione: imparzialità e buon andamento. – 3. Il rapporto con i princìpi di legalità, sovranità popolare, tutela dei diritti, eguaglianza e ragionevolezza. - 4. L’imparzialità amministrativa e la Corte Costituzionale. – 5. L’imparzialità nei modelli organizzativi di ordinamenti esteri e nell’Unione Europea. - 5.1. L’ordinamento anglosassone. – 5.2. Il modello negli U.S.A. – 5.3. L’Amministrazione in Francia. – 5.4. Il modello in Germania. – 5.5. In Spagna. – 5.6. In Europa.

1. Cenni storici sul principio di imparzialità nella pubblica Amministrazione.

La storia del diritto amministrativo - in Italia e altrove - coincide in larga misura con la storia della pubblica Amministrazione, che è storia di classi dirigenti pubbliche che avrebbero potuto o dovuto essere imparziali nella cura degli interessi delle comunità amministrate e, invero, non sempre lo furono.

C’è una evoluzione del principio, dai primordi ad oggi, che può essere definita come graduale riallocazione dell’imparzialità dal livello politico al livello burocratico del governo della cosa pubblica, quasi che gli organi di indirizzo politico si siano prima appropriati degli apparati della struttura amministrativa pubblica, abbiano accettato le regole di legalità e di imparzialità, per poi respingerle, fingendo di volersi disinteressare della gestione amministrativa e di lasciarla nelle mani delle burocrazie professionali. Il presupposto concettuale dell’intermittente evoluzione consiste nel ritenere che un’Amministrazione depurata dall’influenza politica sia più imparziale. Si tratta, invero, di una grossolana mistificazione, sulla quale si fonda, peraltro, il concetto fuorviante di separazione tra politica e gestione. Ma, è anche – se si vuole - il portato di una lunga evoluzione storica degli ordinamenti europei.

Nel Basso Medioevo, la sfera di governo esterna del Sovrano (comando militare, affari internazionali, alta politica) veniva indicata dai giuristi bolognesi con il termine di gubernaculum: tali poteri erano esclusiva prerogativa del Sovrano stesso, della sua Corte, nonché dei capi militari o dei plenipotenziari da esso direttamente incaricati. Viceversa, la sfera dei rapporti giuridici tra Sovrano e sudditi era indicata con il vocabolo di jurisdictio. Tali poteri spettavano al Sovrano, nonché, per delega o per attribuzione diretta, ai suoi funzionari e magistrati. La funzione di <> era una modalità di estrinsecazione del potere che si identificava con il potere pubblico. <>, così recitava una glossa del Digesto commentato dai giuristi Irnerio e Bartolo da Sassoferrato.

Verso la fine del Medioevo, vennero scorporate dall’ambito della jurisdictio le funzioni di rilievo costituzionale facenti capo alla persona del Principe e ciò diede l’abbrivio alla progressiva distinzione tra poteri del Principe (imperium o potestas Principis) e poteri degli apparati (jurisdictio, in senso proprio), questi ultimi qualificati sempre più come un misto di poteri amministrativi e giurisdizionali, affidati a funzionari-giudici o a magistrati-amministratori. Tale modello di organizzazione politica viene definito dagli studiosi “Stato giurisdizionale” o Justizstaat, costituendo storicamente una sorta di crisalide nella formazione dello Stato moderno.

Il Principe agiva ex absoluta potestate, mentre il magistrato traeva dal rispetto dell’ordo judiciorum, cioè dalle forme rituali e procedimentali a cui era tenuto, il potere di <>, con piena efficacia imperativa.

In questa originaria distinzione è contenuta in nuce la divaricazione del percorso storico della moderna Amministrazione: da un lato l’assoluta potestà, il grazioso arbitrio del Principe (potere politico), dall’altro la soggezione del pubblico funzionario alle regole e alle procedure (potere burocratico). Con una distinzione ulteriore: che l’imparzialità nel Sovrano si presumeva sempre sussistente e coincidente con le sue virtù e qualità personali di clementia e prudentia, mentre nel funzionario pubblico essa postulava il rispetto dell’ordo judiciorum, cioè delle regole di comportamento e dei riti giudiziari.

Nel ‘700, la crescita sociale delle comunità amministrate e la ramificazione degli apparati di potere porta a una specializzazione della funzione giurisdizionale in senso proprio, rispetto a quella pubblico-amministrativa. Prima in Gran Bretagna, poi negli altri Stati europei, i magistrati (intesi come giudici e componenti delle assisi giudiziarie), preposti al compito di risolvere le controversie legali, si distinguono progressivamente in modo sempre più netto dai funzionari pubblici, intesi questi ultimi come i rappresentanti delle burocrazie professionali dello Stato. Ciò avviene non senza tensioni, perché tra corti giudiziarie e funzionari regi si scatenano frequenti conflitti e contese per la definizione delle rispettive competenze.

Viene così a formarsi un apparato autonomo, la pubblica Amministrazione, la quale dietro alla figura del Sovrano esercita poteri propri, che inizialmente sono poteri di polizia in senso lato, cioè di organizzazione della vita civile. Mentre si approfondisce il solco tra affari di giustizia e affari di polizia, anche il rapporto tra gouvernement ed administration tende viepiù a differenziarsi.

La Rivoluzione francese accentua il fenomeno della separazione tra Giustizia e Amministrazione, non quello dello sganciamento delle burocrazie pubbliche dal potere politico. Ciò in quanto l’Amministrazione statale – in Francia e poi in quasi tutti gli Stati dell’Europa continentale - viene vista come un unicum, senza distinzioni tra il livello politico e quello amministrativo, anche per effetto di un insorgente egalitarismo che, minando alle basi il classismo aristocratico, induce a livellare e amalgamare tra loro gli organi elettivi politici e le burocrazie professionali.

Nondimeno, la consapevolezza dell’omogeneità strutturale e della rilevanza dei due livelli di governo si raggiungerà molto dopo, se è vero che, ancora nel 1848, lo Statuto albertino del Regno Sabaudo non menzionava affatto la burocrazia e, all’art. 5, dettava: <>.

Inoltre, l’istituzione di nuove figure burocratiche come quella del Prefetto del Re – figura di impronta napoleonica posta al confine tra la politica e l’amministrazione – conforma e struttura il potere esecutivo in modo più complesso, tale da fornire quasi l’apparenza di una falsa neutralità e di un buon governo della cosa pubblica fondato sull’imparzialità dei funzionari.

Il principio di separazione dei poteri dello Stato, enunciato da Montesquieu e codificato dalle Costituzioni rivoluzionarie, porta a escludere che il potere esecutivo (inteso come unità di potere politico e burocratico) sia sottoposto al potere giudiziario, nonché ad affermare che il potere esecutivo e quello giudiziario siano entrambi soggetti al dominio della legge.

La prima conseguenza di tale impostazione è che il potere esecutivo (sia politico che burocratico) viene sottoposto al vaglio della legalità, ma tale controllo non è affidato al libero sindacato dei giudici, bensì filtrato dalle guarentigie amministrative, ovvero consegnato all’autodichìa speciale interna (il cosiddetto “contenzioso amministrativo”).

Altra conseguenza è che la progressiva omogeneizzazione di organi politici e burocratici della p.A. produce l’uniformazione delle prassi e delle regole di condotta: l’imparzialità del Governo politico – intesa come equanime rispetto delle leggi - diventa regola di legalità, allo stesso modo dell’imparzialità della pubblica Amministrazione.

Se una contraddizione o una carenza vi è, essa è ravvisabile nella mancanza di un controllo giurisdizionale sugli atti della p.A., proprio nella fase storica in cui l’Amministrazione sarebbe, in astratto, più vincolata al rispetto delle leggi. Altra anomalia è ravvisabile nella mancanza di un’adeguata tutela per il privato, proprio nella vigenza di nuove Costituzioni e ordinamenti che riconoscono al suddito dello Stato il nuovo rango di cittadino e al cittadino, in via generale, la piena garanzia dei diritti e delle libertà.

Dopo il periodo napoleonico, occorrono circa cinquant’anni per far sparire dall’ordinamento francese la norma che affidava alla stessa Amministrazione il potere di decidere se consentire o meno che un’azione di responsabilità intentata contro uno dei suoi agenti potesse essere esperita di fronte all’Autorità giudiziaria (le cd. guarentigie). La cultura liberale nel XIX secolo erode il mito dell’intangibilità del potere esecutivo e fa cadere progressivamente prima le guarentigie, poi il contenzioso amministrativo.

Fu Tocqueville, reduce dai viaggi in Inghilterra e in America, tra i primi a criticare in modo veemente le vecchie istituzioni amministrative di impronta napoleonica. Evidentemente, negli ordinamenti di Common Law era impensabile che ci fossero aree di tutela dei diritti del cittadino o di responsabilità pubblica, sottratte al sindacato giurisdizionale e ciò suggestionò non poco la curiosità del viaggiatore Tocqueville.

Man mano che la giustizia si riappropria del pieno controllo sulla organizzazione e sulle attività della p.A., il principio di imparzialità diventa uno dei parametri più importanti di detto controllo.

In Italia, l’abolizione del contenzioso amministrativo avviene a ridosso dell’unificazione nazionale del 1861. Infatti, la legge abolitrice del contenzioso amministrativo (L.A.C.) è un allegato della legge unificatrice degli ordinamenti pre-unitari. Il testo normativo dell’allegato E della legge 20 marzo 1865 n. 2248, abbandonando il vecchio modello francese della separazione dei poteri e mutuando un modello belga, afferma il principio di unità della giurisdizione, nonché la regola del controllo giurisdizionale sugli atti della p.A. che incidono su <>.

Il contenzioso con la p.A. acquista un carattere giurisdizionale, ma da esso resta escluso il campo degli affari oggetto del potere discrezionale, cioè degli affari di <>.

L’art. 13 della L.A.C. affida al Consiglio di Stato la decisione dei conflitti di attribuzione tra Governo e magistratura, talché la giurisprudenza formatasi dopo il 1865 riduce sensibilmente l’area di influenza della giurisdizione del giudice ordinario. La legge 31 marzo 1877 n. 3761 trasferisce in capo alla Corte di Cassazione il potere di decidere i conflitti, nondimeno l’area di influenza della giustizia civile sull’Amministrazione tende a mantenersi in un ambito ristretto, lasciando in un’ampia zona grigia gli interessi non tutelati in via giurisdizionale.

Sennonché, dall’abolizione del contenzioso amministrativo si evolve gradualmente verso la formazione di una seconda giurisdizione. Il confine tra la tutela dei diritti e la tutela delle posizioni soggettive diverse dai diritti induce il legislatore a consacrare il dualismo tra giustizia civile e <>.

La cosiddetta legge Crispi (31 marzo 1889 n. 5992) di istituzione della quarta Sezione del Consiglio di Stato, poi confluita nel testo unico approvato con il R.D. 6 giugno 1889 n. 6166, attribuisce alla Quarta Sezione, di nuova istituzione, le funzioni giurisdizionali in materia di interessi legittimi.

Nasce così in Italia il giudice speciale amministrativo, che si occupa della legittimità degli atti amministrativi, intendendo per legittimità non solo il rispetto della legge, ma anche il rispetto dei principi di congruità logica, ragionevolezza e imparzialità amministrativa, che formano il nucleo delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, vizio di legittimità concettualmente elaborato dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato.

L’imparzialità, con l’avvento della giurisprudenza amministrativa, non è più identificabile con il ritualismo o con il formalismo giuridico delle azioni amministrative, quanto piuttosto con la capacità della p.A. di adeguare ragionevolmente le forme dell’azione amministrativa alla diversità delle situazioni.

Mediante le figure sintomatiche dell’eccesso di potere, in particolare mediante la verifica del rispetto del principio di imparzialità, il giudice amministrativo penetra nel sancta sanctorum della discrezionalità amministrativa, accedendo al sindacato pieno della legittimità degli atti amministrativi, non solo di quelli adottati dagli uffici burocratici della p.A., ma anche degli atti degli organi elettivi politici.

Lo Stato amministrativo creato da Cavour e da Crispi in Italia sopravvive fino al periodo fascista e persino dopo. Non è il regime fascista a rendere preponderante l’influenza della politica sugli apparati della p.A., perché la riforma Cavour del 1853 aveva già determinato un robusto accentramento dell’Amministrazione intorno ai Ministeri, rendendo l’attività amministrativa interamente controllabile dal Governo. Ed anche il Governo Crispi, dopo il 1887, aveva proseguito sulla strada della statalizzazione e dell’accentramento. E ciò avveniva mentre gli intellettuali liberali di fine Ottocento chiedevano a gran voce la separazione della politica dall’amministrazione.

Ai primi del Novecento, il ministro Giovanni Giolitti appesantisce di molto la dipendenza della burocrazia ministeriale dal Governo, facendo, in particolare dei Prefetti un forte strumento di condizionamento politico della società.

Il Marxismo ideologico si mostra ostile alle burocrazie statali, mentre il Fascismo non fa che accentuare il legame di dipendenza della burocrazia dalla politica, determinando una sensibile riduzione delle garanzie di imparzialità nell’esercizio dell’azione amministrativa.

Nella prima metà del Novecento, in Italia e in Europa, si configura in tutta la sua drammaticità la contraddizione tra l’imparzialità e la legittimazione politica dell’Amministrazione, efficacemente definita da Max Weber come un vero e proprio “dilemma” dello Stato. Infine, con la caduta del regime fascista, la Costituzione repubblicana introduce significative novità nell’apparato pubblico amministrativo, dando peraltro al principio di imparzialità il rango di norma costituzionale.

L’imparzialità è una qualità della p.A., intesa come organizzazione (soggettivamente) e come azione (oggettivamente), ma né la Costituzione, né la legislazione italiana forniscono una benché minima definizione di cosa sia la p.A.; la norma primaria tarderà a dare indicazioni di massima sul concetto, almeno fino al D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, che all’art. 1 comma secondo si cimenterà in una elencazione degli apparati e degli organismi rientranti nel concetto di p.A., offrendo così una prima definizione dell’ambito operativo dell’imparzialità intesa in senso soggettivo, nonché fino all’introduzione dell’art. 22 primo comma lett. e) della legge 7 agosto 1990 n. 241, che invece indicherà nel procedimento amministrativo l’ambito operativo dell’imparzialità in senso oggettivo.

2. L’art. 97 della Costituzione: imparzialità e buon andamento.

Nelle Costituzioni “brevi” dell’Ottocento, l’Amministrazione era considerata mera componente del potere esecutivo, priva di rilevanza propria, sia come organizzazione che come funzione, talché essa era ritenuta non meritevole di entrare in un’apposita previsione costituzionale.

Viceversa, nelle Costituzioni democratiche europee del Novecento, alla disciplina dei diritti e delle garanzie si aggiunge la costituzionalizzazione delle forme e dei doveri del potere esecutivo e, più in generale, dello Stato, nonché dei meccanismi di difesa e di partecipazione dei cittadini e degli utenti dei servizi amministrativi.

Il principio di imparzialità amministrativa trova un riconoscimento nell’art. 97 comma primo della Costituzione italiana, dove si afferma che <>.

Il secondo comma dell’art. 97 reca un’ulteriore specificazione del principio di imparzialità, laddove precisa che <>.

Pertanto, l’imparzialità, con il buon andamento, costituisce principio generale e basilare dell’organizzazione dei pubblici uffici, che direttamente incide sulla regolazione e sul funzionamento dell’azione amministrativa .

Sennonché, la previsione costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento non è stata propriamente il frutto di un ampio e approfondito dibattito costituzionale. Nella prima sessione della seconda sotto-commissione, furono approvate le disposizioni che poi formarono la base degli artt. 97 e 98, ma con esclusivo riferimento ai rapporti di pubblico impiego e senza alcun cenno esplicito ai concetti di imparzialità e buon andamento. Qualche cenno al principio costituzionale fu fatto, nella seconda commissione Forti, dall’ On. Piga, presidente della seconda sotto-commissione, che fece menzione del problema della <> e della necessità di realizzare al meglio il <> e la <>. La prima proposta era di inserire in un comma dell’art. 91 l’avvertenza che <>. Fu il comitato di redazione a formulare, in seconda battuta, il principio dell’art. 97 primo comma, intendendolo come premessa alle disposizioni di dettaglio discusse dalla sotto-commissione e come loro fonte giuridica. La norma rifluì nel primo comma dell’art. 97 e fu approvata, sia pure con qualche perplessità e riluttanza.

Dal dettato costituzionale si evince che il principio di imparzialità è destinato a vivere in stretta simbiosi associativa con quello di buon andamento. Inizialmente, le due espressioni parevano formare una sorta di endiadi, che integrava il significato complessivo della “buona amministrazione”. La portata dell’endiadi fu per lungo tempo sottovalutata, al punto da farne una regola generale di organizzazione dei pubblici uffici, ma priva di un preciso contenuto giuridico.

È una lettura di quei princìpi mai del tutto superata, se è vero che ancora oggi, le giurisprudenze – in specie quelle civile, penale e contabile - e certa dottrina considerano l’imparzialità e il buon andamento concetti giuridici di carattere indeterminato, piuttosto che vere e proprie norme: essi sarebbero mere clausole generali, legal standards flessibili, che fungono da filtro tra la disciplina normativa e la realtà sociale, conferendo dinamicità al sistema giuridico.

Viceversa, nelle interpretazioni datene dalla giurisprudenza costituzionale e da quella amministrativa, l’imparzialità si apprezza come principio di parità di trattamento e diventa concetto e principio diverso dal buon andamento, inteso come principio direttivo del merito amministrativo.

L’imparzialità viene interpretata come regola giuridica che conforma l’azione esterna, il buon andamento viene letto come principio di efficienza e buona amministrazione che opera sul versante organizzatorio interno alla p.A. In tale ottica, l’imparzialità sarebbe un principio giuridico che può essere azionato anche in via giurisdizionale, mentre il buon andamento sarebbe soltanto un principio organizzatorio non <>. Ma, vi è anche chi ritiene che il principio del buon andamento sia – alla stregua dell’imparzialità - una regola azionabile, non solo in sede di giurisdizione di merito del giudice amministrativo, ma pure come indizio dell’eccesso di potere.

Un significativo ripensamento, persino una rivalutazione dell’imparzialità amministrativa avviene ad opera della giurisprudenza costituzionale e della dottrina che connettono il principio di imparzialità amministrativa a importanti valori costituzionali, quali la legalità e la democrazia, accentuando il solco di distinzione di esso dal principio di buon andamento, che – sulla scorta delle indicazioni di autorevole dottrina - tende invece a conformarsi viepiù come principio di congruenza tra mezzi e fini, proporzione tra risorse e risultati, cioè quale cornice costituzionale dei principi di efficienza, efficacia, economicità, adeguatezza, coordinamento, partecipazione, semplificazione, sia dell’organizzazione che dell’azione amministrativa.

Quelli che erano due scialbi concetti giuridici, di carattere generale e scarsamente operanti, differenziandosi tra loro, sono divenuti, nel tempo, importanti riferimenti delle giurisprudenze e delle dottrine costituzionaliste, amministrativiste e gius-contabili, nonché parametri tecnici di valutazione dell’azione amministrativa, utili e finanche necessari per accertare la giustezza del procedimento, ovvero i livelli di responsabilità degli agenti della p.A. e per misurarne, da prospettive diverse, gli assetti, le potenzialità, le posizioni, le prestazioni o performances. Esiste – ad avviso di autorevole dottrina - un interesse pubblico unico al buon andamento della p.A. (ma, si potrebbe aggiungere, anche all’imparzialità), che si materializza come progetto condiviso, capace di coinvolgere cittadini e Amministrazioni, in quanto comune obiettivo, verso il quale non possono non tendere sia i soggetti pubblici che i privati.

Alcune recenti tendenze normative, ascrivibili alla <> e alla <>, sembrano voler perseguire il buon andamento disgiunto dall’imparzialità: questo si traduce in uno snaturamento funzionale del binomio, che qualcuno – ritenendo il buon andamento essere un principio-mezzo rispetto al fine dell’imparzialità – ha definito serendipity o <>.

Resta comunque stretta la connessione tra i due princìpi, che fa prediligere la definizione positiva dell’imparzialità (intesa come equanime valutazione e promozione degli interessi) a quella negativa (intesa come non disparità di trattamento), anche in considerazione dell’evoluzione avuta dal principio di legalità nell’ordinamento democratico.

3. Il rapporto con i principi di legalità, sovranità popolare, tutela dei diritti, eguaglianza e ragionevolezza.

L’imparzialità amministrativa storicamente nasce prima dell’ordinamento democratico moderno, ma – come già visto - in un sistema autocratico essa si identifica con le virtù del Principe, mentre nel moderno Stato di diritto coincide pressappoco con il principio di legalità formale, a tenore del quale alla p.A. è vietato ciò che la legge proibisce ed è viceversa consentito quel che la legge espressamente prevede. Sennonché, tra il limite negativo e quello positivo dell’azione amministrativa, permangono ampi spazi di potere insindacabile (o di mero arbitrio) esercitabile da parte dell’Amministrazione pubblica.

Invero, proprio la democrazia conferisce vitalità e nuovi significati al principio di imparzialità amministrativa, atteso che, quando la sovranità popolare rovescia il rapporto di legittimazione tra la fonte dei pubblici poteri e gli organi che li esercitano, i poteri pubblici sono più vincolati dalla legge e devono rendere conto di ciò che fanno al cittadino-sovrano, che è anche il destinatario degli atti adottati nell’esercizio di quei poteri. Il principio di legalità, componente basilare dello Stato di diritto, nelle moderne democrazie conserva un permanente rilievo, essendo impensabile che vi sia democrazia senza legalità.

Tuttora, si dibatte su quale sia il fondamento del principio di legalità nella Costituzione italiana. La sua vigenza è riconducibile ai molteplici riferimenti della Carta costituzionale: all’art. 3 (cioè al principio di eguaglianza formale), all’art. 3 unitamente all’art. 97 (eguaglianza, riserva di legge per i pubblici uffici, imparzialità), agli artt. 13 e 23 (diritti di libertà e riserva di legge per i doveri di prestazione del privato), all’art. 76 (esercizio non delegabile della funzione legislativa), all’art 101 (indipendenza dei giudici e loro sottoposizione alla legge), agli artt. 1 e 113 (sovranità popolare e tutela giurisdizionale dei diritti).

Storicamente, il principio di legalità afferma la basilare acquisizione per la quale la legge rappresenta titolo, fondamento e limite interno all’esercizio dei poteri delle pubbliche Autorità, distinguendosi così dalla legalità come dovere del soggetto privato di osservanza della legge e come limite esterno alla sua autonomia. Il principio di legalità comporta la soggezione dei pubblici poteri alla legge e rappresenta una tecnica di limitazione del potere e di sottoposizione di esso a regole e a controlli, anche giurisdizionali. Così inteso, il principio assume un <> di soggezione dei pubblici poteri alla legge, che li limita e vincola, non solo quanto alle forme, ma anche quanto ai contenuti. Viceversa, vi è un <> del principio ed è quello più antico, a tenore del quale Stato di diritto è qualunque ordinamento in cui i pubblici poteri siano conferiti dalla legge ed esercitati nelle forme e con le procedure da questa stabiliti.

Il significato “debole” del principio di legalità rinvia all’imparzialità intesa in senso soggettivo (cioè come organizzazione), peraltro rimarcando la riserva di legge di cui al primo periodo dell’art. 97 primo comma della Costituzione: <>. Il significato “forte” della legalità, invece, è quello che si lega all’imparzialità amministrativa intesa in senso oggettivo (cioè come azione amministrativa): invero, la funzione finalizzata del principio di legalità sostanziale consiste nel porre su un piano di parità i destinatari dell’azione amministrativa, stabilendo in modo generale e astratto come essa debba svolgersi. Nella meticolosa e astratta descrizione che la legge dà delle modalità di esercizio del potere pubblico risiede la maggiore garanzia dell’imparzialità dell’agire pubblico. Una pubblica Amministrazione che, nel dettaglio, fa esattamente ciò che la legge dispone che faccia è la <> spinta all’estremo, fino a identificarsi con la perfetta imparzialità.

Ma, è anche vero che la legge non esaurisce tutte le garanzie democratiche e di giustizia, perché prima della legge, c’è la Costituzione, prima della Costituzione ci sono i diritti fondamentali e la democrazia. E nel sistema costituzionale ogni potere pubblico deriva dalla sovranità popolare. Ne consegue non solo che il rapporto tra legge e Amministrazione deve essere considerato come un modo di esercizio della sovranità popolare nei confronti del potere pubblico, ma anche che l’atteggiarsi in concreto della sovranità popolare incontra sempre un limite nella Costituzione e solo in essa. Non a caso, l’art. 1 comma secondo della Costituzione recita: <>.

Nel rapporto effettivo tra legittimazione istituzionale, consenso sociale ed esercizio del potere pubblico, la funzione politica riferibile alla volontà popolare deve fornire costante copertura all’atteggiarsi in concreto del pubblico potere e al suo esercizio.

Ciò induce a ritenere che non vi possa essere pubblica Amministrazione – intesa come struttura del “potere esecutivo” – se manca l’aggancio di essa alla democrazia, mediante un livello di rappresentanza elettiva, che esprima l’indirizzo politico.

La legge presuppone e, nel contempo, salvaguarda il principio di sovranità democratica: si tratta di un vincolo conformativo indicato dalla dottrina con l’espressione di <>.

Importanti corollari della sovranità democratica intesa come legalità-indirizzo sono il principio di non sottrazione dei poteri pubblici ai meccanismi di controllo democratico, la non esclusione degli organi elettivi politici dal novero degli organi della p.A., nonché l’indeclinabile ossequio - da parte degli organi politici della p.A. - dei doveri e degli obblighi che incombono generalmente in capo a tutti gli uffici pubblici, ivi compreso il dovere dell’imparzialità.

La sovranità democratica interagisce con l’imparzialità soggettiva, regolando il rapporto tra l’indirizzo politico e la gestione amministrativa, nonché con l’imparzialità oggettiva, promuovendo le molteplici forme di partecipazione attiva e coinvolgimento del cittadino nelle attività amministrative.

Quanto alla tutela dei diritti, va detto che proprio la funzione eminentemente garantista dell’art. 113 della Costituzione - di protezione giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive lese da atti amministrativi – contribuisce, in altro modo, ad ampliare i contorni del principio di legalità, facendo di esso un vero e proprio principio di <>.

La legalità-garanzia, in certo modo, si identifica con l’imparzialità oggettiva, cioè con l’attitudine della p.A. a prendersi cura degli interessi dei cittadini e delle comunità amministrate.

Ma, nel sistema costituzionale, la declinazione garantista della legge è insufficiente, se si considera che la tutela dei diritti e la partecipazione democratica possono operare anche contro la legge.

Se un atto dell’Autorità pubblica – ancorché conforme alla norma di legge - è comunque lesivo di una posizione giuridica soggettiva, in quanto non trova nell’ordinamento norme sufficienti a delimitare il corretto esercizio del potere, allora si possono configurare, in ipotesi, diverse conseguenze: 1) che le norme attributive del potere pubblico siano impugnabili, per la violazione dei princìpi e delle norme costituzionali; 2) che l’esercizio del potere sia comunque da considerarsi illegittimo, ancorché non propriamente illegale; 3) che il rapporto tra legge e organizzazione amministrativa sia pubblicamente censurabile, perché non conforme alla funzione della legge quale strumento di governo e di direzione dell’Amministrazione da parte del popolo.

Tali evenienze incrociano e intersecano tra loro legalità, imparzialità, sovranità popolare, tutela dei diritti, in un modo che rende alquanto difficile la distinzione definita tra un principio e l’altro, nonché la delimitazione dell’operatività di ciascun principio.

Per meglio dire, tale distinzione è consentita, ma solo dal sapiente uso della razionalità, prima ancora che della ragionevolezza giuridica.

Ecco perché nell’orientamento ermeneutico della Corte Costituzionale e della dottrina è stato elaborato, in via interpretativa – mediante la deduzione dal principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione - il “principio della ragionevolezza”, inteso quale criterio prevalente dell’esercizio dei pubblici poteri, strumento di controllo giurisdizionale e fondamentale indirizzo per il corretto esercizio dei pubblici poteri.

Eguaglianza significa, infatti, trattare in modo eguale le situazioni eguali e in modo ragionevolmente differenziato le situazioni differenti. La stessa definizione – riferita all’organizzazione pubblica e all’agire amministrativo – potrebbe essere data, in via generale, del concetto di imparzialità, intesa in senso soggettivo e oggettivo.

La ragionevolezza - che è principio architettonico del sistema giuridico - è altresì logica formale, sensibilità sociale, umanesimo, esperienza, capacità di argomentazione, tecnica di comunicazione, bilanciamento di interessi, proporzionalità, giudizio di idoneità e di conformità, metodo di ricerca della verità.

La ragionevolezza riferita a un soggetto è la posizione di chi assume una prospettiva generale e possiede tutte le informazioni e le capacità di ragionamento necessarie.

Sennonché, il criterio interno di razionalità dell’agire amministrativo appare, a un esame più approfondito, come intrinsecamente diverso e persino incompatibile rispetto al criterio di razionalità dell’agire non funzionale dell’autonomia privata.

In ciò, a dire di alcuni, risiede la ragione della non eliminabilità del potere autoritativo come tratto essenziale della funzione pubblica, vale a dire nella diversità qualitativa tra la ragionevolezza quale fondamento logico dell’eguaglianza intesa come pariteticità dei rapporti privatistici e la razionalità complessa posta a base strutturale dell’egalitarismo asimmetrico dei poteri pubblici.

Si può tradurre questo concetto, affermando che l’imparzialità soggettiva – cioè l’organizzazione pubblica regolata dalla legge - è in qualche modo il portato di quella oggettiva, cioè dell’agire amministrativo improntato alla razionalità complessa.

Lo speciale rapporto tra imparzialità e ragionevolezza – che, come si vedrà, è presente anche in altri ordinamenti - è stato oggetto di riflessioni e di considerazioni da parte della Corte Costituzionale, giudice delle leggi ed arbitro dei conflitti tra soggetti costituzionali.

4. L’imparzialità amministrativa e la Corte Costituzionale.

È merito della giurisprudenza costituzionale l’aver definito quali siano le coordinate dell’assetto costituzionale dell’organizzazione amministrativa, indicando, in un ben delineato quadro referenziale di orientamento, le norme sulle fonti dell’organizzazione (cioè, gli artt. 1, 5, 33 ultimo comma, 97 comma primo, 114 e segg.), le norme che enunciano i princìpi materiali dell’organizzazione amministrativa (gli artt. 5, 28, 52 comma terzo, 97 e 98), le norme sui rapporti tra la p.A. e gli altri poteri e apparati dello Stato (gli artt. 87 e 95), nonché le norme che regolano l’organizzazione dei pubblici servizi (gli artt. 32, 33, 34, 38, 41, 43 e 47).

All’interno di tali coordinate, la Corte ha acquisito, strada facendo, una grande consapevolezza dell’importanza del principio di imparzialità sia per l’organizzazione, che per l’attività della pubblica Amministrazione.

Nel primo quinquennio di funzionamento della Corte, l’art. 97 primo comma della Costituzione viene pressoché ignorato. Poi, di fronte all’incertezza interpretativa che circonda l’art. 97 primo comma, la Consulta timidamente prova a definire il principio e lo fa nei generici termini di parità di trattamento di casi uguali. Inoltre, lo ricollega al regime pubblicistico dello status di funzionario, facendone un elemento di caratterizzazione delle finalità dei pubblici uffici e associandolo ai meccanismi di ineleggibilità, incompatibilità, astensione, ricusazione dei pubblici ufficiali.

Man mano, la Consulta riconosce il valore precettivo della norma costituzionale sotto il profilo soggettivo (in una lettura strutturale della regolazione dell’apparato amministrativo) e oggettivo (in una lettura sostanziale della regolazione dell’esercizio della funzione amministrativa).

L’imparzialità influisce sul corretto uso della risorsa umana nella p.A., nonché sulle competenze, attribuzioni e responsabilità dei pubblici funzionari, di guisa che certi assetti organizzativi appaiono incongrui, quando, ad esempio, non consentono al cittadino di conoscere chi sia il funzionario che si occupa dei suoi affari.

Risente del principio anche la composizione dei collegi amministrativi: se questi hanno la funzione di comporre interessi, diventa incostituzionale, per violazione dell’imparzialità, la norma che prevede in seno al collegio (di una commissione ministeriale) la rappresentanza di una sola associazione di categoria, negando l’apporto di associazioni ugualmente rappresentative.

L’esigenza di una ricerca dei corretti meccanismi strutturali di esercizio del potere porta la Corte a identificare l’imparzialità con la neutralità e l’obiettività degli apparati amministrativi, talché il principio funge da garanzia per il raggiungimento di un adeguato livello di obiettività dell’azione amministrativa.

Per la Corte, è illegittima la composizione delle commissioni di concorso pubblico che includa troppi rappresentanti del personale pubblico designati dalle organizzazioni sindacali, i quali sono per definizione espressione di interessi non riconducibili a valori di carattere neutrale e distaccato.

Il principio di imparzialità influisce anche sulle modalità di investitura nei collegi e negli uffici pubblici, in relazione alla non sufficiente obiettività o neutralità del soggetto che procede alla nomina o elezione.

La Consulta si spinge fino a verificare gli effetti giuridici derivanti dall’applicazione dell’imparzialità come norma, affermando, in un primo momento, che essa costituisce il contenuto di un dovere funzionale, la cui violazione comporta la lesione non di situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela, ma di interessi della comunità nel suo insieme indifferenziato. Viola i princìpi di imparzialità e buon andamento l’istituzione di uffici pubblici di cui non siano indicati specificamente i compiti, nonché la irrazionale distribuzione del personale fra varie carriere e il regime differenziato di responsabilità tra funzionari di enti diversi. Il principio viene anche invocato per rimarcare l’incompatibilità del cumulo di certe funzioni, nonché a fondamento del distinto riparto di attribuzioni amministrative, ad esempio nel caso in cui l’Amministrazione competente a decretare un’espropriazione per pubblica utilità sia la medesima che successivamente beneficia dell’atto ablatorio.

Di qui a una valorizzazione dell’interesse legittimo come traduzione in termini giuridici dell’interesse all’imparzialità amministrativa, il passo è alquanto breve. Così, volgendosi all’esame dell’attività della p.A., la Consulta elabora la teorica del <>, ricavandola dalla pratica applicazione del principio di imparzialità, oltre che dall’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione.

La Corte, in una serie di decisioni, esclude l’ipotesi di una costituzionalizzazione del principio del giusto procedimento, ma ne afferma il valore di principio generale dell’ordinamento: se è vero, infatti, che la Costituzione non cita espressamente il procedimento amministrativo, è altresì vero che ciò non autorizza a escludere il fondamento costituzionale dell’istituto.