Tattiche Di Mitopoiesi. Guida Impossibile Al Luther Blissett Project

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Lagado studi Collana di testi universitari diretta da Giuseppe Sertoli & Fabio Cleto

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Tra il 1994 e il 1999, Luther Blissett è stato un enigma. Un simulacro alle cui spalle si è mosso un numero imprecisato diindividui, che ne hanno adottato la metaforica maschera apponendo la sua firma a un eterogeneo ventaglio diperformance, creando attorno al suo personaggio finzionale una notorietà tale da garantirgli piena cittadinanzanell’industria culturale.Nel compiersi di questa parabola, un ruolo determinante è stato giocato dalle innumerevoli esegesi messe in campo damediologi, sociologi, critici d’arte e, ovviamente, giornalisti, i cui sforzi interpretativi sono stati irrimediabilmente cooptatida un oggetto che, segno privo di contenuto, sfuggiva e al tempo stesso assorbiva qualsiasi definizione.Forte di una simile consapevolezza, questo volume non ha l’ambizione di esaurire un territorio di per sé sconfinato.Piuttosto, ne propone una lettura che, facendo leva sul concetto di ‘mitopoiesi’, fornisce gli strumenti per comprendere leragioni della sua stessa inesauribilità, e che traccia le forme di una guida e di una mappa dell’impossibile.

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Lagado studi

Collana di testi universitari diretta da Giuseppe Sertoli & Fabio Cleto

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MARCO TOMASSINI

Tattiche di mitopoiesi

Guida impossibile al Luther Blissett Project

ECIG

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Questo volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lingue, Letterature Straniere e Co-municazione dell’Università degli Studi di Bergamo Progetto grafico e impaginazione di Stefania Consonni Distribuzione CLU I nostri testi sono reperibili in libreria, in rete (www. clu.it, www.ibs.it, www.amazon.it, ecc.) o direttamente presso la Casa editrice ECIG © 2013 Marco Tomassini Si consentono la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta ECIG – Edizioni Culturali Internazionali Genova Via Brignole De Ferrari 9 – 16125 Genova Tel.: 010-2512399/010-2512395 Fax: 010-2512398 e-mail: [email protected] www.clu.it / www.ecig.it I edizione 2013 – ISBN 978-88-7544-300-9 Stampato da CLU – Genova, per conto della ECIG

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Indice Premessa 7

Una vicenda masai 11

Tappa n. 1 – Senso e armonia 19

Tappa n. 2 – Nomi e recinti 27

Tappa n. 3 – Reazioni individuali e individuabili 39

Tappa n. 4 – Rivolta samizdat 51

Tappa n. 5 – Luther Blissett 63

5.1 Alle origini del mito 74

5.2 Strumenti 82

5.3 Le beffe 94

5.4 Comunicazione-guerriglia: i libri e il sito 102

5.5 Nomadismi 106

5.6 Verso il seppuku 116

Conclusioni 131

Post scriptum 133

Bibliografia essenziale 139

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Premessa Tracciare il percorso – uno dei tanti possibili – che alla metà degli anni Novanta portò alla nascita e allo sviluppo del Lu-ther Blissett Project: è questa, in sintesi, la finalità e l’ambi-zione del volume. Un percorso che non si limita al periodo durante il quale si colloca il maggior numero di azioni fir-mate con lo pseudonimo Luther Blissett, ovvero il quin-quennio 1994-1999, ma che cercherà di comprendere l’ana-lisi di fattori sociali e culturali pregressi.

Prima di affrontare l’argomento, si impone però una pic-cola ma essenziale digressione sul senso stesso di un ap-proccio analitico alla questione. Esso implica infatti per l’osservatore una posizione esterna rispetto all’oggetto, det-tata dal compito di considerarne l’intera estensione o, in certi casi, di isolarne alcuni aspetti che portino un contribu-to a un panorama teorico più ampio. A tal proposito, è inte-ressante la sezione che Michel De Certeau dedica del suo L’invenzione del quotidiano all’analisi del procedimento uti-lizzato da Michel Foucault e Pierre Bourdieu nella costru-zione di una ‘teoria delle pratiche’, in cui individua due ‘astuzie’ proprie a entrambi. Tutti e due estrapolano infatti alcune pratiche dal contesto nebuloso della loro esecuzione quotidiana per farne, una volta rese visibili, “lo specchio in

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cui brilla l’elemento decisivo del loro discorso esplicativo”.1 Gli elementi isolati da una totalità nel suo complesso inde-finibile, una volta separati dal loro contesto, vengono cioè utilizzati per decifrare il senso globale di cui sono parte, e solo tale intervento esterno permette di illuminare il ‘sapere insaputo’ che ogni prassi del quotidiano detiene e ignora allo stesso tempo.

Rispetto all’oggetto di questo volume è decisivo quanto scrive De Certeau: nel momento in cui si pretende di parla-re del Luther Blissett Project, infatti, si ha a che fare con qualcosa di estremamente vivo, pratico, si potrebbe dire ‘te-stuale’, nell’accezione con cui Roland Barthes intende il termine testo, ovvero qualcosa che, per sua stessa natura, non è possibile cogliere a pieno al di fuori della sua stessa attuazione, se è vero che “la teoria del Testo non può coin-cidere che con la pratica della scrittura”.2

Ovviamente, con ciò non si vuole affermare che qualsiasi approccio esterno all’argomento di questo volume sia im-praticabile, tutt’altro. Ma il fatto è che procedere isolandone solo alcune caratteristiche, facendone l’architrave di un di-scorso esplicativo, non dà conto della sua natura più intima, per afferrare la quale, piuttosto, occorre affrontarne la com-plessità: non si può parlare delle tattiche con cui Luther bef-fa i media senza considerare i libri di cui è autore o le per-formance che lo vedono come protagonista.

È davvero possibile, allora, un approccio analitico al Lu-ther Blissett Project? Credo che la risposta sia affermativa, nella misura in cui si rinunci alla pretesa di esaurire un tema la cui portata è afferrabile, più che attraverso una qualsiasi

1 Michel De Certeau, L’invention du quotidien (1974), trad. it. di Mario Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro, 2001, p. 107. D’ora innanzi la sigla IQ rinvierà a questo volume.

2 Roland Barthes, Essais critiques (1964), trad. it. di Lidia Lonzi, Saggi Critici IV, Torino: Einaudi, 1988, p. 64.

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PREMESSA

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definizione, tramite l’attiva partecipazione al progetto stes-so. Rinunciando, inoltre, all’ambizione di preservare una posizione esterna al fenomeno che si indaga, facendo pro-pria la consapevolezza di essere, volente o nolente, parte di un unico flusso, che finisce con l’unificare comunicazione e metacomunicazione in una magmatica continuità.

Per concludere, è ancora Michel De Certeau che, analiz-zando la struttura delle narrazioni quotidiane nel contesto delle descrizioni orali dei luoghi, distingue tra l’uso di ‘indi-catori di percorso’ e ‘indicatori di mappa’, intendendo i primi come “una serie discorsiva di operazioni” che per-mettono di vivere uno spazio, e i secondi come “una messa in piano totalizzante delle osservazioni, […] un luogo pro-prio in cui esporre i prodotti del sapere” (IQ, pp. 178-79). La ricerca e le analisi contenute in questo volume ambirebbero pertanto a essere ‘mappa’, sennonché il territorio che do-vrebbero mappare ha una natura così fluida e piena di vorti-ci che, inesorabilmente, le trascina al proprio interno. Esse finiscono così per costituire l’ennesima tappa di un percor-so, quello di Luther Blissett, senza che spetti loro il godi-mento che scaturisce da una partecipazione realmente atti-va e consapevole al progetto. Per porre un argine a una si-mile, frustrante condizione di passività, si è qui deciso di imboccare una strada che, pur comportando il rischio di un’iniziale oscurità, in seguito consentirà di comprendere forse con maggior chiarezza quella che si è definita ‘natura intima’ del Luther Blissett Project. In altri termini, in questo volume si è tentato di articolare un percorso che, comin-ciando da questa premessa e snodandosi attraverso una se-rie di fasi, possa condurre all’effettiva comprensione del suo argomento, ma soltanto una volta che ci si sia lasciati alle spalle le tortuosità del cammino. Solo dopo le curve e le asperità del percorso, la mappa.

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Una vicenda masai Un possibile punto di partenza del cammino è costituito da avvenimenti che, a prima vista, poco o nulla hanno a che fare con Luther Blissett. Fatti che, accaduti diversi anni fa in Kenya, hanno per protagonista una tribù seminomade ma-sai, alle prese con le autorità cittadine della capitale Nairobi.

Ma perché cominciare da qui? Perché, detto della diffi-coltà di iniziare da una salda definizione che ‘mappi’ e cir-coscriva l’oggetto di questo volume, costituendo un valido blocco di partenza per il discorso, diventa necessario decen-trare lo sguardo e prendere spunto da un apparente ‘altro-ve’, che intrattenga con esso rapporti di analogia. Nelle vi-cende che verranno riportate, infatti, si possono cogliere molteplici assonanze con la traiettoria evolutiva e i temi più importanti del Luther Blissett Project. Su di esse, così come vengono riferite e certificate da un autorevole organo di in-formazione, sarà possibile concentrare gli sforzi analitici, con l’obiettivo di decostruirle e, dopo un processo di astra-zione, individuare una serie di tappe che, nel loro insieme, rappresenteranno un peculiare, personalissimo percorso di avvicinamento a Luther Blissett. In ciascuna tappa, infatti, verranno affrontati argomenti che, gradulamente, costitui-ranno gli assi a partire dai quali tracciare la mappa conclusi-va del progetto che lo riguarda. Progetto che, come recita il titolo del volume, si fonda su un modus operandi eminen-temente ‘tattico’, intendendo per tattica “l’azione calcolata

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che determina l’assenza di un luogo proprio” (IQ, p. 73), arte e astuzia del più debole giocata sul campo di un nemico più forte, che, a sua volta, dispone di una strategia, “calcolo o manipolazione dei rapporti di forza che divengono possi-bili nel momento in cui un soggetto dotato di una propria volontà e di un proprio potere – un’impresa, un esercito, una città, un’istituzione scientifica – è isolabile” (IQ, p. 71).

Il 29 agosto 2004, il quotidiano britannico Guardian scri-veva: “Si conclude dunque con una straordinaria vittoria per i Masai il processo che li vedeva opposti al sindaco di Nai-robi Majiwa in rappresentanza delle autorità cittadine della capitale keniota, uscite duramente sconfitte da una querelle giudiziaria che ha appassionato la stampa del paese centro-africano per mesi, a cavallo fra il 1998 e il 1999. Quando il giudice Djibril Diop Agambwe ha emesso la sentenza, un lungo applauso è salito spontaneo dalla folla che gremiva l’aula, a salutare una vittoria il cui significato simbolico va al di là del caso contingente”. Nella vicenda che racconta il Guardian si confrontano infatti tre attori: la tribù semino-made masai, dedita prevalentemente alla caccia e alla pa-storizia; le autorità cittadine e, in particolare, l’ormai ex sin-daco Majiwa; l’imprenditore inglese Guy Mansfield, attivo in vari settori, tra cui quello dello smaltimento rifiuti.

Nel settembre 1998, riporta il Guardian, il Comune della metropoli africana affidò al britannico l’appalto per la crea-zione e la gestione di una discarica, da adibire prevalente-mente allo stoccaggio di copertoni esausti. La gomma che da essi fosse stata ricavata sarebbe quindi stata riutilizzata dallo stesso Mansfield (in società con Majiwa), per la pro-duzione di sandali a basso costo destinati al commercio lo-cale. A seguito di svariate perizie, il sito dell’impianto fu in-dividuato in un’area periferica, fra la baraccopoli di Kibera e la savana. Area che, però, accordi precedenti assegnavano a una tribù di etnia masai, che da anni vi portava al pascolo le

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UNA VICENDA MASAI

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proprie vacche e, fu presto chiaro, non aveva alcuna inten-zione di spostarsi, per non intaccare i rapporti di buon vici-nato con le altre tribù della zona.

Fu così che, dopo un periodo di incertezza, dal nulla comparvero dei documenti che certificavano la disponibilità dei Masai a cedere un’ampia porzione del loro territorio, ricevendo in cambio l’assunzione remunerata di alcuni membri della tribù come guardiani e sorveglianti della di-scarica. E poco importava che una simile offerta implicasse per essi la rinuncia all’attività che, da sempre, regolava i ritmi delle loro esistenze, ovvero la pastorizia seminomade. In pochi giorni il sindaco fece requisire tutti gli animali della tribù, rinchiudendoli nei recinti di alcuni allevatori locali: con il denaro guadagnato dal lavoro presso la discarica, la tribù avrebbe potuto acquistare a prezzo calmierato il latte, il formaggio e la carne di quelle che, un tempo, erano state le sue bestie.

Per qualche tempo tutto funzionò a dovere: i copertoni affluivano numerosi, la loro gomma veniva regolarmente recuperata e stoccata, i Masai trascorrevano le giornate ap-pollaiati alle loro lance, senza dare segni di particolare irre-quietezza. Solo dopo qualche tempo si iniziò a registrare qualche sporadica incursione nei recinti dove erano state ammassate le vacche della tribù, con il chiaro obiettivo di mungerle e portare via il latte ricavato: la maggior parte dei Masai, infatti, dimostrava di non avere alcuna intenzione di utilizzare i propri guadagni per acquistare i prodotti di quelli che, a ogni buon conto, continuavano a considerare i loro animali. Tuttavia, anche di fronte a intrusioni via via più frequenti, le autorità cittadine non presero alcun provvedi-mento, preferendo tollerare le piccole razzie piuttosto che inasprire i rapporti con la tribù. Ma, quando alcune vacche cominciarono a sparire dai recinti, anche su pressione degli allevatori, Majiwa reagì con risolutezza, mandando alcuni

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ranger sulle tracce dei fuggitivi. Questi, nonostante un’otti-ma conoscenza del territorio, non poterono evitare che gli animali lasciassero impronte evidenti sul terreno, permet-tendo agli scout di individuare e recuperare facilmente la refurtiva. Ma i furti non cessarono, provocando il conse-guente inasprimento delle punizioni e l’aumento esponen-ziale della tensione tra Masai e autorità, che sfociò in una serie di scontri e l’arresto di alcuni esponenti della tribù. Di lì a poco, però, lo scenario sarebbe radicalmente cambiato.

Da un giorno all’altro, infatti, non furono più le vacche a scomparire, ma i Masai: l’intera tribù svanì, dandosi alla macchia nella savana senza che nessuno, per diverso tem-po, ne sapesse più nulla. Nel periodo successivo la tensione si allentò, e per qualche tempo non ci furono più furti né sparizioni, con notevole sollievo di tutti. Qualche mese do-po, però, di punto in bianco ben dodici animali letteralmen-te si volatilizzarono. Quando una nutrita pattuglia di ranger fu mandata sul posto, si trovò al cospetto di un insolito sce-nario: invece delle consuete impronte lasciate sul terreno dagli zoccoli delle vacche e dai piedi scalzi dei Masai, sta-volta non c’era altro che una serie continua di tracce, in ap-parenza lasciate da pneumatici di automobile. Non era pos-sibile, quindi, distinguere la direzione di provenienza nè quella di fuga: la conformazione di un battistrada, infatti, a differenza di un piede umano, non consente di distinguere una parte anteriore da una posteriore, rendendo estrema-mente complicata l’individuazione della direzione intrapre-sa dai razziatori. Poi, a ben guardare, c’era un ulteriore dato che rendeva ancora più surreale la situazione: a quanto si sapesse, nessun Masai della tribù era in grado di guidare, e tanto meno possedeva un pick-up.

Non ci fu molto tempo per analizzare lo strano episodio: nelle settimane successive il furto si ripeté così tante volte che quasi tre quarti degli animali furono trafugati, con le

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UNA VICENDA MASAI

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autorità prese a interrogarsi, mattina dopo mattina, sulla direzione del folle intrecciarsi di solchi lasciati nella savana da ruote di varia misura. A dare il colpo di grazia alla pace di Majiwa, dopo qualche tempo gli giunse una citazione uf-ficiale da parte degli organismi di rappresentanza delle tribù locali, che avevano deciso di coalizzarsi per sostenere le ra-gioni dei Masai, adendo le vie legali contro le autorità citta-dine. Il caso ebbe un’eco notevole sulla stampa kenyota, ar-rivando fino alle aule del tribunale di Nairobi. Dove, a se-guito di un processo durato oltre un anno, si era infine data ragione alla tribù masai, che aveva così potuto rientrare in possesso della propria terra e delle proprie vacche.

Ma, al di là degli esiti processuali, a risultare di particola-re interesse in questa sede è la spiegazione materiale del modo in cui i ‘predoni’ masai si erano ripresi i loro animali, confondendo così efficacemente le proprie tracce. Il Guar-dian asserisce che, su espressa richiesta del giudice, un non meglio identificato Masai si fosse fatto avanti, e, una volta di fronte al magistrato, avesse indicato fieramente i suoi piedi. Questi calzavano un magnifico paio di sandali, realizzati ar-tigianalmente dal battistrada delle gomme stoccate proprio in quella discarica che era stata all’origine di tutti i problemi della tribù. La gomma di cui erano fatti, tagliata, lavorata e tenuta insieme da sottili strisce di cuoio allacciate all’altezza delle caviglie, per mesi gli aveva permesso di farsi beffe di ranger e sorveglianti. Certo, “quei sandali non erano belli come le calzature che sarebbero state prodotte dalla mani-fattura di Mansfield”, conclude il Guardian, “ma per correre dietro a una vacca in modo da cancellarne le tracce, si erano rivelati davvero perfetti”.

Questa, dunque, la ‘vicenda masai’, che può essere scan-dita in cinque tappe principali, così come cinque saranno i capitoli della ‘via’ al Luther Blissett Project contenuta in questo volume. Esse prepareranno il terreno all’analisi ap-

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profondita del progetto, permettendo di edificare attorno a esso un’adeguata cornice interpretativa, anche a costo di una prolungata oscurità.

Ma quali sono, nello specifico, le cinque tappe? Innanzi-tutto c’è una situazione iniziale, il grado zero a partire dal quale si origina l’intera dinamica degli avvenimenti. Esso vede l’esistenza di una non meglio identificata tribù masai, la quale, pur con qualche compromesso, riesce a convivere con una grande, caotica città come Nairobi, senza essere fagocitata da una modernità che non le appartiene. Una comunità che è possibile immaginare coesa attorno a una cultura, intendendo il termine cultura come una condizione di sostanziale armonia tra individui, collettività, tradizione e natura, origine di un ‘senso’ che permea indistintamente ogni singolo aspetto della vita. In proposito, è significativo che, scrivendo della tribù, l’autore dell’articolo non faccia mai riferimento a specifiche individualità, considerandola piuttosto nella sua indistinta totalità: tutti sono semplice-mente Masai, parti di un tutto di cui ciascuno partecipa e che a ciascuno conferisce ‘senso’. Un ‘senso’ che regola ogni gesto dei membri della tribù, che lo rinnovano siste-maticamente nei riti e nei cicli alla base della vita semino-made della comunità, espressione di un ‘essere collettivo’ masai a fronte del quale si staglia, simbolicamente, la me-tropoli Nairobi, dal cui caos emergono invece individui dal-l’identità ben definita, intenti a perseguire i propri interessi particolari.

La seconda tappa del percorso si può interpretare come una perdita di senso che si abbatte sulla vita della comunità, dovuta alla rottura del fragile equilibrio su cui si era retta fino ad allora la convivenza tra tribù e città. Questa, infatti, nella figura del sindaco Majiwa, viola l’armonia della vita masai, ostacolando il contatto diretto con due elementi fon-damentali del loro stile di vita: la terra e gli animali. Quando

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UNA VICENDA MASAI

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le autorità locali decidono di collocare la discarica nella loro zona, ai Masai viene infatti impedito di abitare e ‘praticare’ il territorio come avevano sempre fatto, e allo stesso tempo viene interposto tra loro e le vacche un recinto, metaforica-mente scavalcabile soltanto attraverso la mediazione del denaro che è la città stessa a elargire. In questo modo viene spezzata la complessità della cultura della tribù, la cui intera esistenza entra in crisi e perde di significato: smarrire il con-tatto diretto con gli animali e la terra comporta infatti ri-nunciare al nomadismo e alla pastorizia, e tale rinuncia im-plica l’implosione dell’intero sistema di vita masai, perché se il ‘senso’ appartiene a una ‘totalità’, qualora di questa vengano a mancare alcuni elementi è l’intera impalcatura a collassare.

Di fronte a una simile aggressione – è questa la terza tappa del percorso – i Masai, dopo un’iniziale impasse, cer-cano di riprendere in mano il controllo della propria esi-stenza. Dapprima tentando qualche sporadica sortita nei recinti degli animali, quindi scegliendo la strada della razzia e del furto. Entrambe le opzioni, però, risultano fallimentari, non portando ad altro che alla repressione da parte delle autorità cittadine. Un fallimento riconducibile a un eccesso di visibilità, considerata la facilità con cui i ranger riescono a individuare le impronte sul terreno lasciate dai fuggiaschi. Ai Masai, a questo punto, non resta che una soluzione: la fuga nella savana.

Ecco allora il momento più significativo dell’intera vicen-da, la quarta tappa del percorso, l’azione destinata a intro-durre un cambiamento radicale: il ribaltamento tattico della situazione. I Masai, preso atto dell’inefficacia di una lotta combattuta ad armi pari con la città, modificano il proprio modo di portare avanti il confronto: niente più contrapposi-zione netta, ma sfruttamento delle falle presenti nel territo-rio avversario. In altri termini, l’adozione di un agire tattico.

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Ciò diviene possibile nel momento in cui essi riescono a sfruttare a proprio vantaggio gli scarti della città all’origine delle loro tribolazioni, ovvero i copertoni ammassati nella discarica, riutilizzandoli per confondere le tracce la cui visi-bilità, fino ad allora, aveva permesso ai ranger di individuar-li e recuperare la refurtiva. Proprio gli pneumatici che ave-vano causato la ‘perdita di senso’ della vita della tribù, di-vengono ora la materia prima con cui fabbricare i sandali che rendono illeggibili le impronte.

Strettamente connessa alla quarta, la quinta tappa del percorso ruota attorno alla comunicazione reciproca delle esperienze. Risulta evidente, infatti, che per i Masai, affin-ché le tecniche di costruzione e utilizzo dei sandali si dif-fondano, sia imprescindibile raccontare e tramandare le im-prese dei razziatori, in modo che la conoscenza resti sempre in movimento, disponibile a venire calata nei contesti più disparati, arricchita e migliorata dal vissuto di ciascuno. Il risultato certamente strepitoso ottenuto dalla tribù può es-sere raggiunto solo attraverso la partecipazione del maggior numero possibile di individui, e perché ciò avvenga è chia-ramente necessaria una reale condivisione del sapere prati-co alla base del successo.

A concludere la traiettoria della vicenda, un esito che coincide nel cambiamento radicale dello scenario. Anche grazie alla risonanza mediatica degli eventi, infatti, il valore simbolico di quanto accaduto va al di là del pur notevole risultato contingente, divenendo un esempio pratico che, opportunamente rimodellato a seconda dei contesti, indica una possibile via da seguire, mettendo a disposizione ‘stru-menti’ metaforicamente riutilizzabili a ogni latitudine.

Identificate le cinque fasi cui fare riferimento nel percorso che porterà al Luther Blissett Project, non resta ora che in-traprendere il cammino.

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Tappa n. 1

SENSO E ARMONIA La vicenda vissuta dai Masai chiama in causa uno snodo tematico essenziale per arrivare a comprendere il Luther Blissett Project: il concetto di comunità. Cosa definisce una comunità? Cosa la rende una realtà sociale coesa?

Come si è scritto, si può immaginare la tribù africana come un modello di ‘società comunitaria’, insieme di indi-vidui le cui relazioni sono regolate da un plesso di codici culturali, morali e linguistici condivisi, con vincoli e consue-tudini cui ogni membro partecipa. Condivisione e parteci-pazione: le fondamenta di un gruppo aggregato attorno a un modus vivendi, a un senso che organizza la vita dell’inte-ra collettività, armonizzandone i rapporti sociali all’interno e con l’ambiente naturale all’esterno. Un senso che non ha “alcun bisogno della scrittura per dirsi o farsi, poiché trova nella memoria collettiva i principi di organizzazione e i mo-di di apprendimento al tempo stesso”.1 Come scrive Marcel Detienne, “bisogna interpretare questa memoria sociale come attività mnemonica non specializzata che garantisce la riproduzione dei comportamenti della specie umana e, in particolare, ha nei gesti tecnici e nelle parole del linguaggio i mezzi per trasmettere il sapere”.2 Lo storico belga chiarisce qui un punto fondamentale: ciò che tiene insieme la comu-

1 Marcel Detienne, L’invention de la mythologie (1981), trad. it. di Flavio

Cuniberto, L’invenzione della mitologia, Torino: Boringhieri, 1983, p. 48. 2 Ibidem.

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nità è una memoria collettiva dotata di caratteristiche ben precise: organizza i rapporti all’interno della società; si esprime attraverso l’oralità; il suo contenuto si trasmette tramite un linguaggio articolato in gesti e parole.

Una memoria al tempo stesso storica e sociale veicola dunque il sapere che fonda la comunità cui appartiene, coincidendo con quei racconti e quelle leggende che siamo soliti definire miti. Questi, fusi nella memoria collettiva e “tessuti tra la bocca e l’orecchio”,3 nelle cosiddette società tradizionali danno vita alla comunità, essendo a tutti gli ef-fetti ‘parola viva’. Scrive Joseph Campbell: “Il mito ti fa ve-dere la vita come una poesia, una poesia di cui di cui tu fai parte. Intendo un linguaggio che non è fatto di parole, ma di azioni che rimandano alla dimensione del trascendente racchiuso nelle azioni compiute qui e ora, in modo tale che tu ti senta sempre in accordo con l’essere universale. […] Ogni mitologia tratta della saggezza della vita in relazione a determinate situazioni culturali e storiche. Integra l’indi-viduo nella sua società e la società nella natura. Unifica il mondo della natura con il mondo dell’uomo. È una forza armonizzatrice”.4

Una simile concezione del mito non può che partire da una visione estremamente pratica della sua funzione all’in-terno della società, ben lungi dal considerare le sue narra-zioni secondo una prospettiva museale, che le disgiunga dal quotidiano e ne faccia, tutt’al più, oggetto di studio e osser-vazione scientifica. Al contrario: i miti nascono in risposta a necessità concrete dettate da condizioni ambientali esterne, rispondendo al tempo stesso all’esigenza di organizzare i rapporti sociali all’interno del gruppo. In altri termini, il mi-

3 Ivi, p. 107. 4 Joseph Campbell, The Power of Myth (1988), trad. it. di Agnese

Grieco e Vittorio Lingiardi, Il potere del mito, Milano: TEA, 1994, pp. 79-80.

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SENSO E ARMONIA

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to dice all’uomo ciò che può e che deve fare in relazione a una lunga serie di azioni da compiere nella quotidianità, e lo fa perché è il frutto di un processo di simbolizzazione delle pratiche sociali che non passa da un’astrazione di quelle stesse pratiche dal contesto della loro esecuzione, con suc-cessiva esposizione a un’osservazione apprezzatrice estranea e distante, ma le dice attraverso un gesto altrettanto pratico quale quello del narrarle all’interno di un racconto. Se un’azione, un’arte intesa come tekne “al di fuori del suo stesso esercizio è priva di enunciato, il linguaggio deve esserne an-che la pratica. Sarà un’arte di dire: e in essa si esercita preci-samente un’arte di fare in cui Kant riconosceva un’arte di pensare. In altri termini, sarà un racconto. Se l’arte di dire è essa stessa un’arte di fare e un’arte di pensare, può esserne al tempo stesso la pratica e la teoria” (IQ, p. 125).

Accostando quanto si è scritto del mito a quanto De Cer-teau dice a proposito del racconto, si comprende perché en-trambi vadano considerati ‘parola viva’: non descrivono azioni ma le compiono, sono “gesti di equilibrismo ai quali partecipano la circostanza (luogo e tempo) e il locutore stesso, modi di sapersi districare e di dire qualcosa che mo-difica una situazione, ovverosia una ‘questione di tatto’” (IQ, p. 127). Secondo questa concezione, le storie raccontate nei miti si collocano sullo stesso piano delle azioni che gli uomini compiono nel corso delle loro giornate, espressioni di un sapere non disgiunto dalla propria applicazione prati-ca nella realtà, narrando non di archetipi sintetizzati all’in-terno di teorie costruite in base a precetti astratti, ma tro-vando il proprio canale di trasmissione in una continua riat-tualizzazione nel vissuto reale. Il mito non come ‘altro’ della realtà, collocato in un luogo astratto, individuato e identifi-cabile, bensì vivo e circolante al suo interno, nella sua inte-rezza e nella sua complessità. I racconti che esso tramanda si trovano a vivere una duplice condizione di esistenza: da

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un lato appartengono a quella sorta di non luogo che è la memoria collettiva delle società che organizzano e dalle quali vengono a loro volta modellati; dall’altro si manifesta-no nell’atto stesso della loro esecuzione, indicibili al di fuori del loro stesso esercitarsi. L’efficacia del mito, infatti, sta proprio nel suo collocarsi al tempo stesso fuori e dentro la realtà, mostrando ciò che è lecito fare e il modo in cui va fatto, senza che tuttavia il contenuto della narrazione coin-cida con aspetti visibili del reale, la sua dimensione simboli-ca a garanzia della sua credibilità. In proposito è ancora De Certeau a fornire un esempio, riportando gli esiti di uno studio condotto sulla vita di una comunità agricola brasilia-na della zona di Pernambuco (IQ, pp. 46-47), le cui condi-zioni, nel 1974, apparivano disperate, con i contadini umi-liati da una realtà che non sembrava lasciare spazio ad alcu-na speranza di cambiamento. Tuttavia, il gesuita precisa an-che che, fra i membri della comunità, nessuna ‘legittimità’ veniva attribuita alla miserevole realtà socio-economica che li circondava: a essere ‘credibili’, invece, erano le gesta di Frei Damião, santo ed eroe carismatico della regione le cui imprese, tramandate di generazione in generazione, crea-vano uno spazio per la speranza e i desideri di rivalsa, pro-prio perché proiettate in una dimensione utopica. Accades-se pure quel che doveva accadere, prima o poi Frei Damião sarebbe intervenuto a riparare i torti subiti, e ogni gesto di protesta, ogni voce che si fosse levata in opposizione alla realtà contingente, non sarebbe stata altro che l’ennesima manifestazione dell’eroe popolare.

Allo stesso alveo semantico può essere riportato anche il processo di ‘santificazione del territorio’,5 momento decisivo nella fondazione delle società tradizionali e delle loro mito-logie, in cui l’ambiente acquisisce significato e valore attra-

5 Joseph Campbell, op. cit., pp. 124-25.

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verso la progressiva simbolizzazione di un luogo esterno che, da muto e minaccioso, viene reso spazio praticabile, vi-vibile e in armonia con la comunità.6 Perché possa essere conosciuto, il territorio non viene considerato nella sua real-tà sensibile e storica, venendo piuttosto vissuto alla stregua di epifania del mito, luogo in cui un ‘senso’ trascendente si incarna nelle singole manifestazioni del reale, che a loro volta ‘significano’ qualcosa non solo in quanto fisicamente presenti in natura, ma perché capaci di rimandare a una dimensione superiore. Penso per esempio ai miti degli abo-rigeni australiani e alle ‘vie dei canti’ di cui scrive Chatwin: i ‘figli della terra’ ripercorrono nelle vaste distese dell’outback il cammino che gli animali totemici loro antenati percorsero all’alba dei tempi, quando vagando per i deserti diedero vita alla creazione ‘cantando la terra’. Seguendo ciclicamente quei percorsi, gli aborigeni non compiono semplici sposta-menti, ma ripercorrono l’antico cammino sulle tracce dei loro miti, ripetendone il canto e, in tal modo, rinnovando la creazione.

“Il mito è il canto”, scrive Campbell, “passare attraverso il rito, giorno dopo giorno, ci aiuta a non smarrire la stra-da”.7 Il riferimento al canto e alla ciclica ripetitività del rito consente ora di approfondire altri due aspetti decisivi della ‘memoria collettiva’: l’oralità e la sua espressione attraverso un necessario processo di ripetizione e rinnovamento. Nelle società caratterizzate da una tradizione ‘aurale’, proprio la

6 Si fa qui riferimento alla distinzione tra ‘luogo’ e ‘spazio’ formulata da Michel De Certeau, che intende il primo “una configurazione istan-tanea di posizioni [che] esclude […] la possibilità che due cose possa-no trovarsi nel medesimo luogo [essendo ciascun elemento] ‘autono-mo’ e distinto [dagli altri]”, e il secondo “un luogo praticato […] ani-mato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno” (IQ, pp. 175-76).

7 Joseph Campbell, op. cit., p. 127.

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trasmissione ‘dalla bocca all’orecchio’ è garanzia e fonda-mento della vitalità del mito, che è sì memoria di un’intera comunità, avendo senso solo nell’ottica di una partecipa-zione condivisa, ma che al contempo deve essere costante-mente disponibile a venire riadattato, ricontestualizzato, ri-citato e recitato, affinchè, a propria volta, possa dare senso alle esperienze individuali dei singoli. Infatti, soltanto una diffusione di tipo orale consente ai racconti di mantenere quella malleabilità e quell’adattabilità che li rendono dispo-nibili a essere vissuti indistintamente da tutti, rendendo cia-scuno parte del senso complessivo da cui è trasceso ma che, allo stesso tempo, viene rinnovato ogni volta attraverso i gesti e le parole della sua quotidianità. Fissare nella scrittura il mito comporta, al contrario, un’interruzione, una stasi tra la vita dei racconti nel non luogo della memoria e la loro immediata esecuzione nella realtà. D’altra parte, è la natura pratica, pragmatica e quasi gestuale del mito a non consen-tire la sua pietrificazione tra le righe di un testo scritto, pena la perdita della sua efficacia. Viceversa, laddove non inter-viene la fissazione comportata dalla scrittura, i miti man-tengono la propria apertura, sciolti dai lacci di inutili richie-ste di realismo e veridicità, liberi di viaggiare tra le voci della gente, diffusi e recitati dall’attività di figure in possesso delle formule tecniche e dei moduli linguistici che ne permettono la rammemorazione e il canto. Mi riferisco per esempio agli aedi della tradizione ellenica, “maestri di tutte le arti”,8 can-tori di quell’epos che Detienne, citando Havelock, definisce “enciclopedia delle conoscenze collettive, […] complesso di saperi e nozioni senza cui la comunità sarebbe spogliata delle credenze comuni, e insieme di buona parte della pro-pria competenza sociale e tecnica”.9 Oppure ai bardi del

8 Marcel Detienne, op. cit., pp. 40-41. 9 Ibidem.

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mondo celtico, o ai griot delle saghe centroafricane, dei quali nel 1972 l’inviato Alberto Ongaro scriveva che “quando ne muore uno, per l’Africa è come se bruciasse un’intera bi-blioteca europea. Perché i griot sono i depositari della me-moria tramandata, dunque sono gli storici del continente”.10

Il fatto che la memoria mitica trovi nell’oralità il solo ca-nale espressivo adatto a esprimerla, fa sì che la sua soprav-vivenza sia legata a doppio filo a una costante ripetizione: “questa ‘letteratura’ particolarissima […] priva di opere nel senso della nostra cultura filologica, non è fatta per essere letta […]: essa è fatta per essere ripetuta. Più precisamente, essa si produce nella ripetizione, prendendo forma attraver-so quelle che noi chiamiamo varianti di un racconto o diver-se versioni di una medesima storia”.11 Dunque non si tratta soltanto di ripetizione, ma di un ciclo che la fa coincidere con un rinnovamento, poiché quando la memoria mitica viene parlata e messa in atto, se per un verso replica il pro-prio contenuto, per un altro, proprio in virtù della natura orale e fluida della sua trasmissione, si associa a un contesto unico e irripetibile: quello della sua singola esecuzione, una scena fatta di gesti e immagini che crea una situazione de-stinata a rappresentare un unicum.

L’oralità, il ripetersi variando, la proprietà comune: tutte caratteristiche che è possibile ritrovare nell’esempio fornito dall’analisi che Detienne fa del Bagre, che tra i lo-dagaa del Ghana del nord “è insieme cerimonia d’iniziazione e di-scorso che ordina il rituale iniziatico in un insieme unitario di storie”.12 Un corpus di circa dodicimila versi viene tra-mandato di padre in figlio, generazione dopo generazione, senza che la sua recitazione venga affidata a una classe di

10 Alberto Ongaro, 1972. “Costa d’Avorio. Diario di viaggio”, L’Euro-peo, 1 luglio 2004, pp. 53-65.

11 Marcel Detienne, op. cit., p. 53. 12 Ibidem.

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specialisti, poiché “il Bagre è di tutti”.13 Come unico filo conduttore, un intreccio comune alle storie di tutti i membri della tribù, con un numero impressionante di varianti, me-tamorfosi e sfumature che nessuno, però, avverte in modo problematico: “Uno è il Bagre, ma molti i modi di raccon-tarlo”.14 Sulla scorta di questo esempio, si può affermare che la memoria mitica si regoli in base a un’organizzazione omeostatica, raggiungendo un equilibrio dinamico tra so-pravvivenze e innovazioni: “il vaglio delle informazioni vec-chie e nuove è sì compiuto dalla memoria di ciascuno, ma al servizio e sotto il controllo della vita sociale. […] Ad ogni generazione la memoria del gruppo […] riorganizza e rein-terpreta gli elementi precipui del rapporto sociale”.15 Data la natura adattabile e collettiva del mito, ciascuno può farsene interprete e calarlo nel reale attraverso i gesti, il corpo e la voce, garantendone al tempo stesso la continuità e il cam-biamento, ma perché tali modifiche diventino memorabili, degne cioè di essere tramandate dalla voce del gruppo, de-vono venire sanzionate dalla comunità nel suo insieme: “le opere individuali sono tutti miti in potenza, ma solo il loro riconoscimento al livello collettivo può attualizzare la loro miticità”.16

Questi, dunque, i concetti di comunità e mito più utili nel momento in cui si vuole provare a comprendere il Luther Blissett Project, se è vero che “non si [può] comprendere il ‘comunitarismo’ di Blissett senza partire dal concetto di ‘mi-topoiesi’, creazione di mito”.17

13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 52. 16 Ivi, p. 57. 17 Luther Blissett, Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, Torino: Einau-

di, 2000, p. 11. D’ora innanzi la sigla TP rinvierà a questo volume.

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NOMI E RECINTI “Fa la sua comparsa una distanza che è insieme volontà di rifiuto e sentimento di rottura, ma sempre a partire da ciò che rende possibile la critica delle storie della tribù: ossia dalla scrittura, una sorta di altrove, luogo altro donde si par-la e si scrive il discorso sulla tradizione. […] L’interpre-tazione ha inizio con lo spazio grafico che mette la molte-plicità sotto gli occhi”.1 Così scrive Marcel Detienne a pro-posito dell’atto di trascrivere i racconti di una memoria au-rale. Un atto che, come prima conseguenza, comporta l’in-dividuazione, l’asportazione e l’astrazione del corpus mito-logico dal tessuto del reale, separandolo dal ciclo continuo della sua ripetizione, compromettendone l’efficacia e fis-sandolo in un’unica versione – quella considerata ‘autenti-ca’ – che lo sottrae all’opacità delle mille, possibili variazio-ni. Infatti, dal momento in cui una tradizione orale viene scritta, viene portata alla luce e resa visibile la pluralità co-stitutiva delle sue narrazioni, facendone emergere la natura apparentemente contraddittoria e lo scarso (o nullo) reali-smo. Ma, come si è accennato nel capitolo precedente, è impensabile parlare di contraddizioni tra le diverse varianti di uno stesso racconto mitico, visto che le sue versioni po-tenziali sono tante quante i membri della comunità entro cui circola, e, parimenti, la non aderenza al dato reale è condizione fondamentale della sua validità simbolica, in vir-

1 Marcel Detienne, op. cit., p. 94.

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tù della quale esso può veramente dirsi di tutti ed essere ri-vissuto ovunque e in qualunque momento.

Di fronte alla smaccata irrazionalità del mito una volta scritto, la reazione dell’osservatore esterno varia da una di-vertita curiosità a un violento scandalizzarsi, che non può non portare a una condanna di ciò che viene inesorabil-mente giudicato come il frutto di una superstizione ‘altra’ rispetto ai criteri di razionalità moderni e illuministici, in ba-se ai quali far luce, interpretandola, sul significato che si presume nascosto dietro l’apparente assurdità della voce narrata. Messi in pagina i racconti mitici diventano visibili, e tale visibilità implica lo smarrimento della forza propria del simbolo, che, invece, per assolvere la propria funzione deve sempre rimandare a una dimensione trascendente. In simili condizioni i miti, non esercitandosi più nel reale, non solo non dicono più il vero, ma finiscono con l’essere solo delle favole dettate dall’ignoranza, bisognose di un intervento esterno che ne sveli un significato celato dietro un senso letterale. Questo è il processo che può considerarsi tipico di ogni società, una volta che il sapere orale tradizionale che le appartiene viene fissato sulla pagina scritta. Scrivendo delle origini della mitologia greca intesa come scienza dei miti, Detienne riporta l’esempio del logografo Ecateo di Mileto e del filosofo Senofane. Il primo, di una generazione antece-dente all’altro, introduce le sue Genealogie con questa for-mula: “Ecateo di Mileto così dice: queste storie io le scrivo come a me sembrano essere vere, perché i racconti dei greci mi appaiono molteplici e risibili”.2 In pratica, rispetto al rac-conto orale che ne avrebbe fatto un aedo, il logografo sce-glie di dare la versione di alcune storie partendo da un pun-to di vista guidato da un criterio di verosimiglianza, in mo-do da scongiurare la contraddittorietà emersa dall’analisi

2 Ivi, p. 94.

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delle tante varianti degli stessi miti, che, sottoposti al suo sguardo, non possono non farlo sorridere. Ma se, per certi versi, Ecateo si pone già nelle vesti di osservatore della tra-dizione, di cui critica le contraddizioni, per altri vi rimane all’interno, dato che il suo ruolo di fabbricatore di racconti consiste nel dare un’ulteriore versione del mito, di cui non si suppone ancora la falsità, ma che si decide di narrare un’altra volta, sia pure nel modo più verosimile possibile. Ben diverso, invece, è l’atteggiamento di Senofane, che con-danna senza appello l’intero corpus mitologico, la cui folle irrazionalità può venire neutralizzata solo attraverso una spiegazione che la illumini. Il filosofo non dà nuove versioni dei racconti, ma, parlando in prima persona al di fuori della tradizione, introduce il momento dell’interpretazione, figlia di una distanza e di un sentimento di scandalo che allonta-nano il corpus orale come ‘altro da sé’. La conclusione di Marcel Detienne è che “né l’incredibile né l’irrazionale so-no, in sè stessi, territori reali: essi sono l’ombra proiettata dalla ragione o dalla religione di circostanza”.3

Ma se la dialettica tra il mito inteso come memoria collet-tiva fondata su una trasmissione orale, e la messa in pagina che ne rende visibile l’aspetto formale consentendone l’interpretazione, ha rappresentato una costante nel corso dei secoli presso tutte le culture in cui si sia affermata la prassi della scrittura, è possibile identificare un luogo e un momento storico precisi che hanno visto per la prima volta l’equilibrio propendere con decisione in favore del secondo termine del rapporto, assistendo alla nascita di una vera e propria ‘scienza del mito’: l’Europa tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo. Da principio considerati espressio-ne dell’ignoranza curiosa attribuita alle cosiddette civiltà primitive, e identificati in un secondo momento con tutto

3 Ivi, p. 158.

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ciò che di folle e indecente andava estirpato da una società bisognosa di essere riformata, con l’avvento dell’era moder-na i racconti del mito suscitano un sentimento al tempo stesso di attrazione e repulsione, diventando oggetto di stu-dio privilegiato di uomini di scienza che avvertono il dovere morale di interpretarli. Il mito viene considerato un settore a sé stante, una categoria astratta, un territorio di caccia esposto agli sguardi sempre più analitici di uomini che non solo si considerano estranei alla tradizione che incarna, ma che lo studiano come “l’incredibile contrapposto alla cre-denza religiosa, l’irrazionale in antitesi alla ragionevolezza, il selvaggio come rovescio del viver civile. Insomma: l’as-sente, l’arcaico, la demenza rimossa”.4 Sotto gli occhi vigili dei nuovi interpreti, il mito, in rappresentanza di un sapere fluido, condiviso e molteplice, viene il più possibile delimi-tato e reso inoffensivo attraverso la pagina scritta, proprio nei secoli in cui si è soliti collocare le radici della modernità, segnata in modo indelebile da quella che De Certeau indi-vidua come la prepotente ascesa del ‘mito della scrittura’ (IQ, pp. 198-219). Intendendo infatti per mito “un discorso frammentato che si articola sulle pratiche eterogenee di una società e le articola simbolicamente” (IQ, p. 198) e per scrit-tura “l’attività concreta che consiste nel costruire, su uno spazio proprio, la pagina, un testo che esercita un potere sull’esteriorità da cui è stato inizialmente isolato” (IQ, p. 198), la tesi del filosofo francese è che si sia verificato, per la prima volta, un ‘ribaltamento’, a seguito del quale un’atti-vità pratica come quella scritturale ha finito con l’assumere le peculiarità proprie del mito, riarticolando l’intera orga-nizzazione delle società occidentali secondo il modello, di-venuto simbolico, delle proprie caratteristiche: non più una memoria condivisa che trascende e dà senso al singolo, ve-

4 Ivi, p. 34.

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nendone a propria volta vivificata e rinnovata, bensì produ-zione ex novo di teoria, tesa a trasformare il reale in base alla volontà riformatrice dell’individuo. La struttura delle società occidentali avrebbe così progressivamente abban-donato la sua natura comunitaria, resa coesa da un discorso ricevuto, per riorganizzare l’intero panorama delle proprie attività in base ai tre aspetti fondamentali della prassi scrit-turale: una pagina bianca, un testo e una realtà da cambiare (IQ, pp. 198-99). Il primo inteso come luogo separato dalla complessità del reale, pronto a ospitare il gesto cartesiano del soggetto che vi esercita la propria volontà e il proprio controllo attraverso lo sguardo. Il secondo come il sistema ordinato inscritto sulla pagina, “artefatto di un altro mondo, non più ricevuto ma fabbricato” (IQ, p. 198), sul cui modello ridisegnare una natura passiva rispetto all’intervento del-l’uomo. Il terzo, infine, come la materia silenziosa e inerte su cui inscrivere la razionalità del testo.

È la storia raccontata da uno dei libri più rappresentativi della modernità, il Robinson Crusoe di Defoe, in cui appare “l’isola che ritaglia un luogo proprio, la produzione di un sistema di oggetti attraverso un soggetto padrone, e la tra-sformazione di un mondo naturale” (IQ, p. 201), conquista-to a partire dal progetto che il protagonista scrive innanzi-tutto sulle pagine del proprio diario, la prima, metaforica isola sulla quale esercitare la propria volontà e il proprio controllo.

Secondo De Certeau, l’affermazione della scrittura come pratica mitica è accompagnata dal manifestarsi di un altro avvenimento che caratterizza la modernità, ossia l’erosione di un messaggio cosmico, di una parola identificatoria che, rivissuta dal credente nella comunità, gli consente di trovare una collocazione e un senso al suo interno. “Semplificando la storia, potremmo dire che prima dell’epoca moderna, dunque fino al XVI e XVII secolo, la Scrittura parla. Il testo

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sacro è una voce, insegna […], è l’avvento di un voler dire di Dio che attende dal lettore (o meglio dall’ascoltatore) un voler capire da cui dipende l’accesso alla verità. […] La mo-dernità si forma scoprendo a poco a poco che questa Parola non si comprende più. […] La verità non dipende più dall’attenzione di un destinatario che si compenetra nel grande messaggio identificatorio. Sarà piuttosto il risultato di un lavoro – storico, critico, economico. Deriva da un voler fare” (IQ, pp. 201-02).

Ciò che appartiene alla tradizione, a una memoria collet-tiva, poco a poco si ritrae, di fronte all’avanzata dei sistemi elaborati a partire da una cesura netta rispetto alla comples-sità del reale, e ciò produce come conseguenza un affievo-lirsi dei legami che tengono insieme la comunità, legami di tipo mitico e simbolico. A tale ripiegamento si affianca la maturazione di un nuovo tipo di soggetto moderno, che non può più trovare il fondamento della propria individuali-tà in un messaggio condiviso e ‘totale’, ma è costretto a ela-borare un linguaggio che gli consenta di ritagliarsi il proprio luogo in un reale inerte, muto e disposto a essere ‘recintato’. Infine, perché la pratica scritturale con le sue leggi e i suoi impianti teorici possa divenire mito, è necessario un ultimo, fondamentale passaggio: deve potersi dire ‘credibile’, deve cioè ‘parlare in nome del reale’, articolandolo e modellan-done l’aspetto a immagine della propria razionalità. Se, in-fatti, i racconti circolanti nella memoria collettiva di una comunità si caratterizzano per una natura pratica, essendo concretamente riattualizzati nei corpi di individui che, attra-verso la propria fisicità, rinnovano il mito nel quotidiano e nel rito, rendendolo in tal modo ‘credibile’, risulta chiaro che, affinché i codici elaborati a partire da un’esenzione ri-spetto al reale possano venire altrettanto ‘creduti’ e dare forma alla società, devono ‘inscriversi’ sul corpo dei suoi membri, facendo sì che la realtà stessa ne confermi la veri-

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dicità: “il discorso normativo funziona solo se è già divenuto un racconto, un testo articolato su una realtà che parla in suo nome, ovvero una legge istoriata e storicizzata raccontata dai corpi” (IQ, p. 214). Le procedure che permettono l’in-carnazione della legge scritta sono identificabili con quelle pratiche disciplinari e mediche che, sviluppatesi nel corso degli ultimi quattro secoli, hanno portato a un’intestazione dei corpi sempre più evidente, con il duplice effetto di ren-dere il reale conforme al testo, e, contemporaneamente, di appagare il bisogno di essere riconosciuti, facendosi segni all’interno di un codice, cui si aderisce attraverso un con-tratto che, ancora secondo De Certeau, sarebbe portatore di una proposta che recita: “dammi il tuo corpo e io ti do un senso, ti faccio nome e parola del mio discorso” (IQ, pp. 214-15). Ciascuno contribuisce, attraverso un corpo intestato da un nome riconoscibile, alla riproduzione di un testo di cui, tuttavia, non può più dirsi interamente proprietario, poiché in una società modellata in base al ‘mito della scrittura’ non trova spazio una memoria condivisa, essendo ognuno pa-drone solo della porzione di linguaggio prodotta nell’isola-mento della propria ‘pagina bianca’. Il sapere collettivo, la conoscenza, le storie, i racconti e tutto ciò che fonda una comunità e vive nell’immediatezza dell’oralità viene ‘recin-tato’, in quanto oggetto di studio o proprietà di un indivi-duo che, tramite la scrittura, ne fa la propria creazione, mar-chiata da un nome che ne impedisce la circolazione, la ripe-tizione e il rinnovamento. “Qui lavorare significa scrivere”. “Qui si comprende solo ciò che è scritto” (IQ, p. 198). Sa-rebbero queste le inscrizioni che De Certeau collocherebbe sull’immaginario frontone del tempio della modernità.

Laddove si afferma il mito della scrittura, dunque, ogni testo non può non essere concepito che come una creazione ex nihilo di un soggetto unico, il cui lavoro è frutto di una volontà che si pone al di fuori di un sapere ricevuto, e una

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sua proprietà particolare, dalla quale il prossimo viene escluso dall’interposizione del simbolico ‘recinto’ rappre-sentato dal nome proprio: “se posso leggere questi autori, so anche che non posso ri-scriverli […], e questa consape-volezza un po’ triste basta a separarmi dalla produzione di quelle opere, nel momento stesso in cui la loro lontananza fonda la mia modernità (essere moderni non significa forse essere realmente coscienti del fatto che non è possibile ri-cominciare?)”.5

Se si può affermare che l’avvento della modernità segni l’ascesa del soggetto creatore e della prassi scritturale, è al-trettanto vero che essa si accompagna a una sostanziale modifica del modo in cui i racconti e i saperi vengono fruiti, con l’ascesa della lettura silenziosa e solitaria. Attività inevi-tabilmente secondaria rispetto alla creatività generatrice dell’autore, la cui figura assume connotati – lo rileva Michel Foucault nel celebre saggio Che cos’è un autore? – radical-mente differenti rispetto a quelli appannaggio dell’auctor medievale, più artigiano che ‘autore’ in senso moderno: “Un chiasmo si è prodotto nel XVII o nel XVIII secolo; si è cominciato a percepire i discorsi scientifici per se stessi, nell’anonimato di una verità stabilita o sempre di nuovo dimostrabile; è la loro appartenenza ad un insieme sistema-tico che conferisce loro garanzia, e non la referenza all’in-dividuo che li ha prodotti. […] Ma i discorsi letterari non possono più essere accolti se non sono dotati della funzio-ne-autore: ad ogni testo di poesia o di invenzione si do-manderà da dove viene, chi l’ha scritto, in quale data, in quali circostanze o a partire da quale oggetto”.6

5 Roland Barthes, op. cit., p. 64. 6 Michel Foucault, “Qu’est-ce qu’un auteur?” (1969), trad. it. di Ce-

sare Milanese, “Che cos’è un autore?”, in Id., Scritti letterari, Milano: Feltrinelli, 1996, p. 10.

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Anche Foucault, quindi, sottolinea quanto ormai venga considerato ‘credibile’ solo il risultato dell’osservazione scientifica fondata su una distanza apprezzatrice, e quanto i testi non scientifici vengano raggruppati in ambiti anch’essi ben individuati, quali la letteratura o l’arte. In questo nuovo scenario, il nome d’autore svolge una funzione classificato-ria, istituendo fra i testi “rapport[i] di filiazione o di autenti-ficazione degli uni attraverso gli altri”,7 e facendo sì che essi diventino “parola che deve essere ricevuta in un certo modo e che, in una data cultura, deve ricevere un certo statuto”.8 Con l’affermazione del ‘mito della scrittura’, infatti, anche i discorsi che non appartengono propriamente all’ambito scientifico vengono classificati all’interno di precise categorie, che con il passare del tempo vanno incontro a una sempre maggiore autoreferenzialità, la lontananza dal reale a ga-rantire una presunta purezza che finisce, però, con il limi-tarne la circolazione, il rinnovamento, e, soprattutto, quella funzionalità pratica che, invece, sarebbe prerogativa del mito. Il quale, in una comunità, è ammantato di credibilità pro-prio perché assente, potenzialmente trasgressivo nei con-fronti di tutto ciò che è visibile e contingente, e perciò desti-tuito di qualsiasi, reale autorevolezza. Proprio per questo motivo, il ruolo giocato dall’attribuzione di un testo a un autore è di fondamentale importanza: “i testi, i libri, i di-scorsi hanno cominciato ad avere realmente degli autori (invece che personaggi mitici, invece che grandi figure sa-cralizzate e sacralizzanti) nella misura in cui l’autore poteva essere punito, vale a dire nella misura in cui i discorsi pote-vano essere trasgressivi”.9 Non a caso, l’introduzione delle prime forme di regolamentazione nella diffusione dei testi,

7 Ivi, p. 8. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 9.

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collocabili anch’esse attorno al XVII secolo, è attribuibile da un lato all’esigenza delle gilde di librai di vedere garantiti i propri interessi commerciali, messi a repentaglio dalla stampa, dall’altro alla necessità dei governanti di assicurarsi un affidabile strumento di censura, che, attraverso la con-cessione di monopoli di durata pressoché illimitata agli stampatori, portasse questi ultimi a ostacolare la circolazio-ne di testi considerati una minaccia per l’ordine costituito: “Si è iniziato a considerare i testi alla stregua di azioni, va-lutandone le loro ricadute concrete, nell’esatto momento in cui si è cominciato a redigere sistemi normativi in cui si trat-tavano al contempo la censura e i diritti degli stampatori. […] Da quando diritto d’autore e censura vennero concepiti nell’ottica di regolamentare l’attività di stampa, è pratica-mente impossibile considerarli separatamente”.10

Mark Rose spiega come nell’Inghilterra del XVII secolo, pur non essendo ancora pensabile attribuire a un autore dei diritti connessi al concetto di proprietà intellettuale, non andando questi al di là del possesso materiale del mano-scritto originale, fosse comunque usuale pubblicare anche il nome dello scrittore accanto a quello dello stampatore, pro-prio allo scopo di condividere le eventuali responsabilità penali. Per arrivare all’affermazione di un primo esempio di proprietà intellettuale, nel Regno Unito si dovette attendere la prima metà del Diciottesimo secolo, sulla scia di un lungo dibattito che vide protagonisti del calibro di Milton, Locke, Addison e Defoe, tutti schierati in difesa del diritto degli au-tori di vedersi riconosciuta la paternità dell’opera, in contra-sto con le pretese monopolistiche degli stampatori. Due erano le principali argomentazioni addotte dagli scrittori:11

10 Mark Rose, Authors and Owners: The Invention of Copyright, Cam-

bridge: Cambridge University Press, 1993, p. 9. Traduzione mia. 11 Ivi, pp. 30-39.

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innanzitutto, se un autore poteva essere punito per il con-tenuto del suo libro, era lecito che potesse godere dei bene-fici della sua proprietà, quali i proventi della vendita e della diffusione; in secondo luogo, si stava affermando con sem-pre maggior forza una visione del testo come vero e proprio ‘parto’ del suo creatore, ‘padre’ della sua opera, con il plagio a configurarsi come vera e propria forma di ‘rapimento’. Un’altra similitudine assai sfruttata paragonava la futura proprietà intellettuale al possesso della terra: definito il con-cetto di proprietà “quel possesso dispotico e solitario eserci-tato da ogni uomo sulla sua terra, in assoluta autonomia dalle pretese di qualsiasi altro essere vivente”,12 il lavoro in-tellettuale del singolo si prefigurava come una pratica auto-noma e isolata tanto quanto quella del contadino che disso-dava il proprio campo, per dare forma a una natura pronta a trasformarsi in un luogo sul quale, proprio in ragione del suo sforzo produttivo, all’individuo sarebbe stato consentito un dominio assoluto. È il mito della scrittura portato alla sua piena maturazione: non più ascolto di una parola ricevuta, ma produzione di un testo; non più armonia tra individui e tra questi e l’ambiente, ma possesso parziale esercitato dal singolo soggetto; non condivisione ma esclusione, una re-cinzione del sapere così come della terra.

12 Ivi, p. 7. Traduzione mia.

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REAZIONI INDIVIDUALI E INDIVIDUABILI La terza tappa – il terzo momento che scandisce la vicenda dei Masai – segna un’esasperazione della situazione e una radicalizzazione del conflitto con il potere e la ‘modernità’ rappresentati dal sindaco Majiwa e dall’intera città di Nai-robi. Tanto che, alla tribù, non resta che darsi alla macchia e sparire nella savana. Analogamente, con il passare dei se-coli, quel ‘mito della scrittura’ considerato da De Certeau il fondamento dell’era moderna letteralmente esplode, con-formando in base alle proprie procedure ogni singolo aspet-to del quotidiano, la cui complessità si frammenta in miriadi di ‘recinti’. Procedendo in un’incessante definizione di stra-tegie, che permettono a ciascuno di delimitare e controllare luoghi separati dal reale, l’‘economia scritturale’ (IQ, p. 222) si estende fino a colonizzare ogni aspetto dell’esistenza, fi-no a quando nelle società occidentali qualsiasi contatto di-retto con il suo divenire si fa sempre più difficile, essendo ovunque presente la mediazione di un codice astratto. Que-sto si identifica e sovrappone a tal punto al reale da risultare pressoché indistinguibile da esso, non potendo fare altro che replicare e legittimare incessantemente se stesso. È il processo che De Certeau vede nel funzionamento celibe delle macchine fantastiche partorite dall’immaginazione di Marcel Duchamp e Kafka: “miti di una reclusione nelle operazioni di una scrittura che si forgia indefinitamente e incontra sempre e soltanto se stessa. […] Produzioni che hanno del fantastico non già per l’indecisione di un reale

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che farebbero apparire alle frontiere del linguaggio, bensì per il rapporto fra i dispositivi di produzione di simulacri e l’assenza d’altro. Queste finzioni romanzesche o iconiche raccontano che non vi è, per la scrittura, né entrata né uscita, ma sol-tanto l’interminabile gioco delle sue fabbricazioni. Il mito dice il non-luogo dell’avvenimento o un avvenimento che non ha luogo – se qualsiasi evento è un’entrata o un’uscita. La macchina produttrice del linguaggio è avulsa dalla storia, scevra dalle oscenità del reale, assoluta e senza rapporto con l’altro celibe” (IQ, pp. 216-17).

Diviene così estremamente difficile per il soggetto speri-mentare il reale nella complessità del suo fluire, senza la mediazione di simulacri la cui pervasività è tale da rendere inevitabile il rapporto quotidiano con essi. Se, infatti, un si-mulacro è “ciò che diviene il rapporto del visibile col reale quando cade il postulato di un’immensità indivisibile del-l’essere (o degli esseri) nascosto dietro le apparenze” (IQ, p. 264), il parere di De Certeau è che oggi si sia portato alle estreme conseguenze il ribaltamento già avvenuto con l’av-vio dell’era moderna e l’affermazione del ‘mito della scrittu-ra’: se tra il Sedicesimo e il Diciottesimo secolo diventa cre-dibile non più ciò che trascende il reale in un messaggio e in una memoria generatori di senso, ma ciò che è scritto e dunque visibile, con l’attuale, massiccia proliferazione dei mezzi d’informazione si ha la vera e propria ‘istituzione’ della realtà. Che, di conseguenza, non potrà che avere con-sistenza simulacrale: “un doppio rovesciamento […] avviene con la modernità, nata un tempo dalla volontà di osserva-zione che lottava contro la credulità e si fondava su un con-tratto fra la vista e il reale, trasforma ormai questo rapporto e dà a vedere precisamente ciò che bisogna credere. La fin-zione definisce il campo, la natura e gli oggetti della visio-ne” (IQ, p. 263). L’informazione innerva l’intero tessuto so-ciale, organizzando la vita dei suoi componenti fin negli

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aspetti più minuti, fondandosi su un meccanismo autorefe-renziale in base al quale vengono di continuo messi in cir-colo racconti volti a ridefinire i contorni del reale. Resi cre-dibili dalla continua citazione da parte degli stessi media che li veicolano, e da una recitazione che, nel quotidiano, vede i loro fruitori nella duplice condizione di destinatari e attori al tempo stesso. Ciascuno contribuisce al costante ri-prodursi del meccanismo celibe che regola la società con-temporanea, facendone sempre un’esperienza parziale, li-mitata allo spazio che il singolo è in grado di conquistarsi: “Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un corso comune, in cui l’unità della vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzial-mente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, compiuta, nel mondo autonomizzato dell’immagine, in cui il bugiardo ha mentito a se stesso. Lo spettacolo in genera-le, come inversione concreta della vita, è il movimento au-tonomo del non-vivente”.1

La frammentarietà del reale, che accompagna la portata globale del sistema ‘spettacolare’ di cui parlano le tesi de La società dello spettacolo, porta a una sempre più marcata divi-sione della continuità dell’esperienza in settori, categorie astratte e isolate rispetto a una totalità in divenire. A tal proposito, l’evoluzione subita dal concetto di ‘arte’ è em-blematica: partito dal designare un saper fare artigianale le-gato a delle pratiche, è oggi giunto a rappresentare un valo-re assoluto e autonomo. Così disgiunto dalla complessità del reale, non può che andare incontro a un’autoriflessività

1 Guy Debord, La Société du Spectacle (1967), trad. it. di Paolo Salva-

dori e Fabio Vasarri, La società dello spettacolo, Milano: Baldini & Ca-stoldi, 2001, p. 53.

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sempre più marcata, inavvicinabile senza quella che Bene-detti definisce “mediazione delle poetiche”, ovvero dell’in-sieme delle ragioni astratte cui spetta il compito di designa-re l’artisticità di un’opera, considerata il risultato dell’inten-zionalità artistica di un autore: “la poetica […] è la media-zione concettuale che permette al fruitore di avvicinarsi al testo come a qualcosa che è dotato di valore artistico. […] Nessun approccio ai testi è più possibile senza un riferi-mento alla poetica, implicita o esplicita, consapevole o in-consapevole, che rende artisticamente significativa la singo-la operazione, e di conseguenza, senza un riferimento al-l’autore che se ne suppone essere il soggetto”.2 Ne conse-gue che, nel moderno modo di concepire l’arte, non si tratta più di esprimere, condividere e partecipare a un senso com-plessivo, ma di valutare la creatività di un autore e l’ori-ginalità della sua opera. È così possibile per l’individuo creatore modellare ex nihilo la materia grezza, pronta a farsi luogo dell’espressione di un autore che ne custodisce il sen-so, portatrice di un valore che sta proprio nel suo essere nuova, unica, irripetibile, apparentemente distinta dal mon-do che la circonda.

L’affermarsi di criteri quali originalità, creatività e geniali-tà, procede di pari passo alla progressiva svalutazione di tutto ciò che, in qualche modo, è legato alla sfera della con-divisione e della ripetizione. Se, infatti, è l’intenzionalità ar-tistica o l’ispirazione a guidare la mano dell’artista, sarà di qualche pregio solo ciò che viene prodotto dal suo genio, creazione unica pregna di un senso che vi viene impresso dall’autore insieme al marchio del suo nome, mentre ciò che è legato a contenuti e a meccanismi formali riconoscibi-li, non può che essere considerato qualitativamente inferio-

2 Carla Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura

cancellata, Milano: Feltrinelli, 1999, p. 43.

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re. Mi riferisco, per esempio, alla distinzione tra opere d’autore e opere di genere, queste ultime giudicate di ridot-to valore artistico proprio perché più diffuse tra il pubblico, connesse alla ripetizione di intrecci già in parte noti e spes-so realizzate in modo da rendere inscindibile il legame dei contenuti con la loro realizzazione formale. L’arte moderna attribuisce più valore alla novità e alla riflessione concettua-le piuttosto che all’elaborazione tecnica, i cui vincoli e le cui ripetizioni vengono considerati alla stregua di convenzioni, e in quanto tali contrapposte all’originalità assoluta del ge-nio. Non a caso, in ambito letterario il genere considerato tipicamente moderno è il romanzo, la cui caratteristica prin-cipale sarebbe, paradossalmente, proprio quella di “mutare continuamente i propri temi e la propria forma”,3 essendo libero di accogliere i contenuti più disparati senza le costri-zioni di un’organizzazione formale vincolante.

Un ulteriore esempio di quanto, nelle società occidentali, l’intera organizzazione della realtà venga modellata in base alle procedure proprie di un’‘economia scritturale’ basata su una razionalizzazione astratta, è rappresentato dalla “tra-sformazione del fatto urbano nel concetto di città” (IQ, p. 146), ovvero dall’elaborazione, a partire dal Sedicesimo se-colo, di progetti legati a un urbanesimo utopico, che con il passare del tempo incontrano una realizzazione sempre più diffusa e concreta. È ancora De Certeau a scrivere che la cit-tà instaurata dal discorso utopico e urbanistico si basa su una triplice operazione, che prende il via dall’isolamento di uno spazio proprio, in vista del quale l’organizzazione razio-nale deve eliminare “tutte le interferenze fisiche, mentali e politiche che la comprometterebbero” (IQ, p. 147); prose-gue con la “sostituzione di un non-tempo, o di un sistema sincronico, alle resistenze inafferrabili e ostinate delle tradi-

3 Ivi, p. 117.

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zioni”(IQ, p. 147); si conclude con “la creazione di un sog-getto universale e anonimo che è la città stessa. La città, allo stesso modo di un nome proprio, offre così la capacità di concepire e costruire lo spazio a partire da un numero finito di caratteristiche stabili, isolabili e articolate l’una sull’altra” (IQ, p. 147). Si costituisce così un sistema rigido, improntato alla funzionalità, che apparentemente non lascia al soggetto altra possibilità se non quella di muoversi lungo rotte pre-stabilite. In tal modo sembra definitivamente compromessa l’unità tra il soggetto e l’ambiente, un tempo ‘praticabile’ in virtù della comune partecipazione a un senso che trascen-deva sia l’individuo sia il territorio. Che ora, nella sua forma astratta di città, diviene per lo più muto e anonimo, organi-smo asettico e funzionalista con il quale pare impossibile instaurare un rapporto armonioso.

Ma, anche a fronte di una diffusione tanto capillare del ‘mito scritturale’, i racconti non escono affatto di scena. An-zi. La loro, più che una scomparsa, è infatti un’atomizza-zione. Pur non rivestendo più una funzione centrale nel fondare il senso che legava in un’unica complessità sogget-to, comunità e territorio, essi riemergono ai margini dei luo-ghi istituiti dalle strategie conquistatrici di spazio: “Qualcosa d’altro parla ancora, e si presenta ai padroni sotto le figure diverse del non lavoro – il selvaggio, il folle, il bambino, la donna – e in seguito […] sotto forma di una voce o di grida del popolo escluso dalla scrittura. Ecco allora che una parola riaffiora o permane, ma come qualcosa che sfugge a un’eco-nomia socioculturale, all’organizzazione di una ragione, alla diffusione della scolarizzazione, al potere di una élite e, in-fine, al controllo della coscienza illuminata” (IQ, p. 225).

Negli interstizi, nelle ombre del quotidiano, nella vita di tutti di i giorni, ritorna in una versione frammentata ciò che non lavora alla riproduzione indefinita del modello scrittu-rale, in quanto folle o deviante rispetto ai suoi criteri razio-

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nali, legato a una dimensione comunitaria in cui rimane la possibilità di partecipare a un senso condiviso. I legami fa-migliari, quelli che si instaurano tra gruppi di amici e tra questi e quartieri, associazioni, circoli, oratori, centri sociali, l’underground della produzione e della sperimentazione artistica: tutti sono espressioni della sopravvivenza ai mar-gini di un senso e di una non meglio definibile vitalità. Tut-tavia, è ancora De Certeau a ricordare che “anche se dislo-cata, l’enunciazione messa a parte – o trattata come un resi-duo – non può essere dissociata dal sistema degli enunciati” (IQ, p. 227). Ecco il punto fondamentale di questo terzo ca-pitolo: non è in realtà possibile considerarsi al di fuori del dominio della scrittura, e anche ciò che pare esserlo viene comunque codificato come ‘altro da sé’. Ogni voce e ogni gesto che, in apparenza, evadano la funzionalità del codice, proprio perché agiti in contrasto alla sua pervasiva presen-za, vengono inevitabilmente ricondotti al suo interno, con l’attribuzione di uno status che, benché deviante, è di fatto equivalente a qualunque altro. Segno all’interno di un lin-guaggio.4 Tutto avviene con la forma di un moto che lega al tempo stesso repulsione e attrazione, per cui dapprima la posizione di ciò che trasgredisce l’ordine della produzione scritturale viene messo a distanza perchè assurdo, indecente o fantastico: “definire attraverso la favola la posizione del-l’altro (selvaggio, religioso, folle, infantile o popolare) non significa soltanto identificarlo con chi parla (fari), bensì con una parola che non sa ciò che dice. […] La distanza da cui proviene la voce estranea è così trasformata, surrettiziamen-te, nello scarto che separa la verità nascosta (inconscia) del-la voce dall’illusione della sua manifestazione” (IQ, p. 228).

4 Si veda Roberto Bui, Transmaniacalità e situazionauti. Senza il cyber-

punk l’insurrezione dei corpi tra le luci e le ombre del reticolo multimediale, Bologna: Synergon, 1994.

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Il passo successivo, però, consiste nella ricodificazione dell’‘altro deviante’, attraverso una traduzione che, come accade nel caso del mito e della sua interpretazione, lo illu-mini rendendolo leggibile, visibile e, quindi, controllabile. “La voce fa scrivere” (IQ, p. 228): tutto ciò che emerge ai margini, vivo, delinquente o deviante rispetto alla consue-tudine, finisce per attirare lo sguardo del meccanismo auto-riproducente del codice, che semplifica e fa luce su tali esperienze pur essendo condannato, per la stessa natura del suo funzionamento, a non poterle mai esaurire del tutto at-traverso la scrittura: “come se il discorso si costruisse per effetto e occultamento di una perdita che è la sua condizio-ne di possibilità, come se il senso di tutte le conquiste scrit-turali fosse quello di far proliferare dei prodotti che si sosti-tuiscano a una voce assente, senza mai arrivare a catturarla, a ricondurla nel luogo del testo, a sopprimerla come estra-nea. Detto altrimenti, la scrittura moderna non può trovarsi nel luogo della sua presenza” (IQ, p. 228).

A ben guardare, si tratta di un’esperienza simile a quella vissuta dai Masai che tentano di riappropriarsi dei loro ani-mali, mettendo in atto delle sortite all’interno dei recinti che li rinchiudono: le loro fughe hanno breve durata, i tentativi appaiono sporadici e velleitari, le impronte sono riconosci-bili e la direzione della loro fuga è facilmente individuata. In queste condizioni, per quanto lontano possano spingersi, alle autorità cittadine che li controllano è sufficiente aumen-tare la sorveglianza, intensificare le ricerche e, infine, ritro-varli da qualche parte nella savana, pronti a venire ricon-dotti entro i luoghi giudicati più appropriati: i recinti per le vacche, le riserve (o la prigione) per gli esseri umani.

Un ulteriore parallelismo può essere rintracciato anche nei tentativi di rinnovare la scena artistica messi in atto dai movimenti d’avanguardia tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, con tutta l’iniziale forza d’urto di provocazioni

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che, efficacemente, misero a nudo il meccanismo celibe dell’arte contemporanea. Ma, come si sa, le critiche alle convenzioni e agli aspetti mercantili delle istituzioni artisti-che persero, dopo un breve lasso di tempo, gran parte della loro carica dirompente e corrosiva, per venire riaccolte nel grembo dello stesso sistema che volevano rifondare. Codifi-cate entro ‘movimenti’ in tutto e per tutto analoghi a quelli già digeriti, legittimati e commercializzati dal mondo del-l’arte, avendo relegato la propria furia contestativa entro una dimensione che, di fatto, era ancora pienamente artisti-ca, e in quanto tale astratta, teorica e autoriflessiva. Incapa-ce di incidere davvero nel reale: “La separazione tra la teo-ria e la pratica fornisce la base centrale del recupero, della pietrificazione della teoria rivoluzionaria in ideologia, che trasforma le esigenze pratiche reali (i cui indici di realizza-zione esistono già nella società attuale) in sistemi d’idee, in esigenze della ragione. […] I concetti più corrosivi vengono allora svuotati del loro contenuto, rimessi in circolazione, al servizio dell’alienazione mantenuta: il dadaismo a rovescio. Diventano slogan pubblicitari”.5

Anche nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe è rintracciabi-le una parabola simile a quella vissuta tanto dai Masai quanto dai movimenti d’avanguardia d’inizio Novecento. Infatti, quando il naufrago protagonista del libro scorge “l’impronta […] di un piede nudo sulla spiaggia” (IQ, p. 221), che segnala la presenza di ‘qualcuno invisibile’, che ‘non ha luogo’, il suo turbamento è tale da mandare in crisi l’intero ordine razionale che, pazientemente, aveva conferi-to all’intera isola. Robinson è terrorizzato, di fronte a ciò che De Certeau definisce ‘lapsus nel linguaggio’, “presenza dell’assenza […], traccia di qualcosa che non è là e non ha

5 AA.VV., Internazionale Situazionista. 1958-69, Torino: Nautilus, 1994,

p. 55.

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luogo (come il mito). […] Ciò che lascia una traccia e passa non ha un testo proprio. Si può dire solo attraverso il di-scorso del proprietario, e si colloca solo nel suo luogo. La differenza ha come linguaggio solo il delirio interpretativo – sogni e bizzarrie – di Robinson stesso” (IQ, p. 222). Di fron-te all’‘altro assente’, che con tutta evidenza abita e altera la sua stessa isola, al naufrago non rimane altro che definire ‘selvaggio’ il proprietario dell’impronta: “la denominazione non è più in questo caso, come in altri, la rappresentazione di una realtà; è un atto performativo che organizza ciò che enuncia. […] Così come si scomunica nominando, il nome del selvaggio crea e definisce a un tempo ciò che l’economia scritturale situa fuori di sé” (IQ, p. 222). Perché Robinson ritrovi calma e razionalità, sarà necessario che il corpo tan-gibile che ha calcato l’orma sulla sabbia si renda visibile: so-lo allora, all’‘altro’ sarà possibile attribuire un’identità e un luogo proprio nel sistema-isola concepito dal protagonista.

Per concludere, è possibile affermare che, di fronte al-l’imperante presenza di un’‘economia scritturale’, gli spazi di libertà per i singoli individui si aprano ai margini, negli interstizi e nei coni d’ombra del quotidiano, dove, pur ri-manendo all’interno dell’organizzazione complessiva del sistema, è ancora possibile giocare in modo tattico. Spesso con attività gratuite, “cacce di frodo” (IQ, p. 19), giochi d’astuzia non finalizzati a una capitalizzazione, pratiche in-dicibili che non si fissano in luoghi ma che manipolano e al-terano quelli già esistenti, sopravvivendo nel non luogo del-la memoria e manifestandosi solo al momento opportuno. Tra di essi, va sicuramente menzionata la prassi della lettu-ra, con il suo dare senso al testo e la produzione di ciò che Barthes definisce ‘indicibilità del godimento’, sperimentato a partire da una partecipazione alla realizzazione del testo

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stesso.6 Ma se “leggere significa peregrinare in un sistema imposto (quello del testo), analogo all’organizzazione fisica di una città o di un supermercato” (IQ, p. 238), si può dire anche che un’altra fonte di libertà nel quotidiano derivi dal percorrere i luoghi imposti dalla moderna urbanistica, de-scrivendo tra le loro maglie traiettorie imprevedibili, che gli conferiscano significati nuovi, intimi e inattesi, in ‘enuncia-zioni pedonali’ che attualizzano in modo poetico e discon-tinuo parti di un ordine che, una volta praticato, diviene an-che vivo: “Lo spazio geometrico degli urbanisti e degli ar-chitetti sembra valere come il senso proprio costruito dai grammatici e dai linguisti per poter disporre di un parame-tro normale e normativo cui riferire le derive del figurato. In realtà, questo luogo proprio (senza figura) resta introvabile nell’uso corrente, verbale o pedonale; è solamente la finzio-ne prodotta da un uso anch’esso particolare, quello, meta-linguistico, della scienza che assume la sua singolarità pro-prio attraverso questa distinzione” (IQ, p. 155).

6 Roland Barthes, Le Plaisir du texte (1973), trad. it. di Lidia Lonzi, Il

piacere del testo, Torino: Einaudi, 1999, p. 104.

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Tappa n. 4

RIVOLTA SAMIZDAT Un’ulteriore, imprescindibile tappa nel percorso di avvici-namento al Luther Blissett Project è costituita dal contributo di riflessioni ed esperienze prodotto da alcuni movimenti (ma, come si vedrà, il termine rischia di essere improprio) che, nel corso del Novecento, si sono concentrati sulla criti-ca radicale alle strutture assunte dalle odierne società occi-dentali. Una contestazione che, quasi sempre, ha preso spunto da un’articolata analisi delle condizioni sociali, poli-tiche e culturali dominanti, venendo però mossa a partire da posizioni il più delle volte inedite. Con Stewart Home, possiamo definire l’eterogeneo insieme di pratiche messe in campo da tali ‘movimenti’ tradizione samizdat,1 termine di origine russa originariamente utilizzato per designare “una tradizione di dissidenza e auto-organizzazione, i cui parte-cipanti hanno spesso agito documentando al tempo stesso le proprie azioni”,2 ma sfruttato dall’autore inglese per rife-rirsi ai cosiddetti ‘movimenti utopici’ dello scorso secolo, che rivolsero le proprie critiche ai fondamenti della società moderna rigettando qualsiasi collocazione in ambiti rigida-mente circoscrivibili, a cominciare da quello artistico. “Nel XX secolo, quanti aderivano ai principi utopici si sono mossi

1 Stewart Home, The Assault on Culture: Utopian Currents from Lettrism

to Class War (1988), trad. it. di Luther Blissett, Assalto alla cultura. Cor-renti utopistiche dal lettrismo a class war, Bertiolo: AAA Edizioni, 1993.

2 Ivi, pp. 127-28.

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tra arte, politica, architettura, urbanistica e tutte le altre spe-cializzazioni conseguenti alla separazione. Gli Utopisti vo-gliono creare un nuovo mondo dove tali specializzazioni non esisteranno più”.3 In altri termini, tali movimenti diede-ro vita a un tentativo di recuperare un legame con la vita intesa nella sua interezza, cercando di superare distinzioni considerate i prodotti e gli strumenti attraverso cui una so-cietà alienante riproduce indefinitamente se stessa e i propri modelli di comportamento. Né arte né anti-arte, dunque, l’una considerata categoria autoreferenziale, l’altra mera contestazione dei suoi dogmi, priva di un’effettiva capacità di intervenire su di essi per provocarne la definitiva defla-grazione. Si trattava, invece, di superare simili distinzioni, attraverso una caleidoscopica gamma di performance dall’aspetto ludico, rituale o apparentemente folle, in grado di coinvolgere integralmente chi vi prendeva parte: “I mo-vimenti samizdat, essendo utopici, cercano di intervenire in tutti gli ambiti di vita; l’anti-professionismo del samizdat lo fa comunque propendere per le iniziative culturali e politi-che, e lo tiene alla larga dalla seria indagine scientifica. Ma la società occidentale favorisce le specializzazioni, e ogni volta che un movimento samizdat perde il suo dinamismo viene relegato in un ambito settoriale di contestazione”.4

Rintracciate le influenze determinanti nelle riflessioni e nelle opere di Sade, Fourier, Isidore Ducasse, William Morris, Alfred Jarry e Antonin Artaud, Home riconosce a Dada e alla sua rivolta iconoclasta il merito di aver aperto la strada a Lettrismo, Situazionismo, Fluxus, mail art, punk e Neoismo. Esso viene investito del ruolo di precursore dei movimenti successivi soprattutto per la tensione anti-artistica, anti-letteraria e anti-poetica che ne contraddistinse la ‘fase eroica’,

3 Ivi, p. 16. 4 Ivi, p. 129.

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caratterizzata da un’inesausta ricerca di spontaneità, dina-mismo e partecipazione, che non poteva nè voleva rimanere confinata nei limiti angusti dell’arte istituzionale. Che, in quanto categoria autonoma, rappresentava una delle tante forme astratte da far detonare con la forza della propria fu-ria esplosiva e nichilista, da indirizzare verso tutto ciò che costituiva una cristallizzazione delle energie vitali e dello spi-rito, “il quale mai deve essere imprigionato nella camicia di forza di una regola, sia pure nuova e diversa, ma sempre dev’essere libero, disponibile, sciolto nel continuo movimen-to di se stesso, nella continua invenzione della propria esi-stenza”.5 Dada non produsse opere, bensì gesti, azioni e per-formance, compiute “in qualsiasi direzione del costume, della politica, dell’arte, dei rapporti”,6 mirando alla provocazione e allo scandalo, contaminando, rimescolando e riciclando il già esistente, scuotendo certezze e mettendone a nudo le ipocrisie. Di fronte alla pretesa originalità della creazione artistica, vennero così proposti i primi merz di Kurt Schwit-ters, ‘pittura dell’immondizia’ fatta di pezzi di legno, ferro, latta, buste, tappi, piume di gallina, sassi, chiodi e biglietti del tram; al genio autoriale si preferirono le tautologie dei ready made di Duchamp e Picabia; la seriosità dell’arte tradi-zionale venne irrisa dai graziosi mustacchi che facevano bella mostra di sé sulla riproduzione della Gioconda.

L’intensa carica dirompente e anarchica di Dada, oltre che nelle azioni e nelle contaminazioni, si espresse anche nel linguaggio dei suoi manifesti, in pagine che Mario De Micheli definisce “di un’eccitante novità, esplosivi, nervosi, insolen-ti, sorprendenti. Umori filosofici, satirici, buffoneschi, lirici si confondono con una tensione intellettuale vera, con un’ansia

5 Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano:

Feltrinelli, 2000, p. 156. 6 Ibidem.

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autentica che dà alla disinvoltura verbale di Tzara una forza reale tutt’altro che scandalistica”.7 Il tutto accompagnato da una costante, coerente tensione all’autodistruzione, estrema manifestazione di libertà e definitivo rifiuto delle logiche autoreferenziali dell’arte. Che, tuttavia, il ‘movimento’ non riuscì del tutto a scansare, venendo in larga misura ‘recupe-rato’ all’interno del sistema ufficiale dell’arte.

A ogni buon conto, fu facendo tesoro di simili esperienze che prese il via ciò che Home definisce tradizione samizdat, con il Lettrismo prima e l’Internazionale Lettrista e quella Situazionista a partire dai primi anni Cinquanta. Fu già in ambito lettrista, infatti, che vennero elaborati i concetti di ‘psicogeografia’, ‘urbanismo unitario’ e détournement, che successivamente furono arricchiti dalla riflessione e dalla pratica situazioniste. Per ‘psicogeografia’ si deve intendere una tecnica di esplorazione urbana finalizzata allo “studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico […] sul com-portamento affettivo degli individui”,8 con una decisa com-ponente di gioco e lo scopo di individuare “le forme più adatte di decostruzione di una particolare zona metropoli-tana” (TP, p. 152), per dare un senso nuovo all’apparente rigidità delle sue costrizioni e delle sue traiettorie, istituendo con esse rapporti affettivi sempre diversi e aprendovi delle falle attraverso uno straniamento costante. Detto altrimenti, impostando con i luoghi della città un rapporto tattico e consapevole. Strumento essenziale nella pratica psicogeo-grafica è la deriva, “tecnica di passaggio veloce attraverso vari ambienti”,9 passaggio decisivo lungo il percorso che avrebbe condotto all’utopistico ‘urbanismo unitario’, modo

7 Ivi, p. 157. 8 Sergio Ghirardi, Non abbiamo paura delle rovine. I situazionisti e il no-

stro tempo, Roma: DeriveApprodi, 2005, p. 39. 9 AA.VV., Internazionale situazionista, cit., p. 13.

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del tutto nuovo di vivere da parte del cittadino il proprio rapporto con la città, e, più in generale, con la propria quo-tidianità. Infatti, se la metropoli contemporanea era consi-derata emblematica e pervasiva manifestazione dell’aliena-zione contemporanea, il recupero del controllo attivo e co-sciente dell’ambiente urbano avrebbe condotto gli individui a un cambiamento decisivo nell’intero panorama delle loro attività: “il principale successo dell’attuale pianificazione delle città è di far dimenticare la possibilità di ciò che noi chiamiamo urbanismo unitario, vale a dire la critica vivente, alimentata dalle tensioni di tutta la vita quotidiana, di que-sta manipolazione delle città e dei loro abitanti. Critica vi-vente vuol dire stabilire delle basi per una vita sperimentale: aggregazione di persone che creano la loro propria vita su luoghi attrezzati a loro misura”.10

Si trattava pertanto di creare ‘vuoti’ nell’ordine funziona-le dei luoghi imposti, per poi organizzare coscientemente le forme e i modelli in base ai quali si desiderava vivere, senza determinazioni rigide e pietrificate. Per aprire questi “buchi positivi”,11 era necessario esercitarsi nella prassi del détour-nement, definibile come “plagio di elementi estetici pre-esistenti e […] loro integrazione in una costruzione superio-re”,12 oltre che come “metodo di straniamento che modifica il modo di vedere oggetti o immagini comunemente cono-sciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova, inconsueta relazione”.13 L’obiettivo, quindi, era la manipolazione tattica di elementi preesistenti, confe-rendo loro un senso sempre nuovo e inatteso, perseguendo lo scopo di rimettere in circolo tutto ciò che fosse considera-

10 AA.VV., Situazionismo, cit., p. 75. 11 Ivi, p. 76. 12 Stewart Home, op. cit., p. 32. 13 AA.VV., Internazionale situazionista, cit., p. 13.

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to fisso e immutabile, ridandogli vita attraverso usi che, a propria volta, avrebbero dovuto rifuggire la staticità e rinno-varsi costantemente. Sua conseguenza inevitabile, il ribal-tamento del modo di concepire il ruolo dell’autore in quan-to creatore di opere originali, ideate a partire da una di-sgiunzione rispetto al reale e proprietà su cui vantare diritti: per essere vivo, e quindi partecipato, tutto doveva rimanere fluido, dinamico e disponibile a mille contaminazioni: “le idee migliorano, il senso delle parole ne partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta”.14 Inutile quin-di parlare di ‘possesso’ o ‘originalità’: con la prassi del détournement si scavalca qualsiasi recinzione, superando ogni separazione.

Queste e molte altre riflessioni vennero sviluppate so-prattutto dopo la costituzione dell’Internazionale Situazio-nista, avvenuta nel 1957, e sempre più riguardarono l’intera struttura della società occidentale. Postulandovi infatti la diffusione capillare di un modello ‘spettacolare’ fondato sul-la ‘separazione’, ovvero sulla passività degli individui e sulla loro incapacità di intrattenere con la vita un rapporto creati-vo e non mediato, la rivoluzione avrebbe dovuto prendere piede nel quotidiano: “la vita quotidiana è la misura di tut-to: del compimento o del non compimento delle relazioni umane, dell’organizzazione del tempo vissuto, delle ricer-che dell’arte [e] della politica rivoluzionaria “.15 Se quella del quotidiano rappresentava la sfera entro cui si realizzava la colonizzazione dello ‘spettacolo’, essa sarebbe stata il terre-no sul quale si sarebbe giocata la partita del détournement, straniando ciò che era imposto e riorganizzandolo in base ai

14 Ivi, p. 51. 15 AA.VV., Situazionismo, cit., p. 81.

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propri desideri. Era nella quotidianità che si sarebbe potuto tentare di andare oltre le specializzazioni e le divisioni, cer-cando di ristabilire un contatto con la vita intesa nella sua complessità fluida e opaca. In essa, infine, sarebbe stato possibile mettere in pratica la ‘costruzione delle situazioni’. Definita ‘situazione’ “momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collet-tiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti”,16 si trattava di détournare i luoghi in cui veniva frammentato il quotidiano, per poi riorientarli in direzione dei propri desi-deri, ripristinado con essi un contatto immediato che parte-cipasse di un senso nuovo e complessivo, coinvolgendo in-dividui e ambiente al di là di qualsiasi distinzione.

Risulta evidente, a questo punto, quanto l’agire situazio-nista mirasse alla totalità, rifiutando di essere confinato en-tro un ambito, come quello artistico, che ne avrebbe irrime-diabilmente minato la possibilità di intervenire concreta-mente nel reale: “Si tratta ora di realizzare l’arte, di costruire effettivamente, a tutti i livelli della vita, ciò che in preceden-za non ha potuto essere altro che illusione o rimembranza artistica, sognati e conservati unilateralmente. Non si può realizzare l’arte se non sopprimendola. Tuttavia, in contrap-posizione allo stato presente della società, che sopprime l’arte rimpiazzandola con l’automatismo di uno spettacolo ancor più gerarchico e passivo, non si potrà realmente sop-primere l’arte se non realizzandola”.17

Eliminare l’arte come categoria autonoma, facendola de-tonare nel quotidiano: un progetto che, in quegli stessi anni, veniva elaborato anche da un altro movimento: Fluxus. Come il Situazionismo, infatti, Fluxus perseguiva l’obiettivo di porre fine alle separazioni tra arte e vita, soprattutto at-

16 AA.VV., Internazionale situazionista. 1958-69, cit., p. 13. 17 AA.VV., Situazionismo, cit., p. 152.

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traverso performance ed eventi che coinvolgevano ambiente, performer, pubblico, suoni e immagini entro totalità irripe-tibili. Non producendo opere ma gesti, che, a loro volta, non implicavano un’osservazione distaccata, ma interpellavano il pubblico e lo coinvolgevano integralmente. Lo stesso Fluxus manifestò un forte interesse nei confronti dell’architettura e delle arti applicate come il design industriale, l’ingegneria e la grafica, con il desiderio di intervenire concretamente nel-la realtà sociale allo scopo di trasformarla, tramite pro-grammi d’azione che prevedevano, oltre alla vendita di pubblicazioni Fluxus, picchetti, dimostrazioni, sabotaggi e danneggiamenti, rivolti in particolar modo contro il sistema dei trasporti e quello delle comunicazioni via posta.

Proprio il sistema postale ebbe una notevole importanza per l’intero mondo che ruotava attorno alle esperienze Flu-xus, permettendo una fitta rete di scambi tra i suoi compo-nenti americani ed europei, costituendo un terreno assai fertile per sperimentazioni quali l’invenzione di timbri e la stampa di francobolli decorativi, da utilizzare in sostituzione di quelli ufficiali. È ancora Stewart Home a individuare nelle esperienze maturate nel contesto del fluxworking il nucleo decisivo per la successiva affermazione del network della mail art, il cui fondatore – Ray Johnson – proprio in Fluxus affondava le proprie radici artistiche. Il nucleo del suo lavo-ro consistette in lettere cui venivano allegati disegni, colla-ge, timbri e ghirigori tracciati non con l’obiettivo di produr-re oggetti d’arte destinati alla vendita, ma di spedirli ad amici e conoscenti, ai quali venivano regalati. Ben presto si creò attorno a Johnson una vera e propria rete di contatti, che in pochi anni coinvolse qualche migliaio di persone, impegnate in una vorticosa giostra transnazionale di spedi-zioni. Vi prendeva parte chiunque lo desiderasse, nessun requisito artistico era richiesto né alcuna coerenza formale, così come assente era ogni pretesa che non fosse quella di

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una gioiosa comunicazione a basso costo di idee e contenu-ti: un altro esempio pratico di allegra abolizione delle no-zioni di opera e autore.

In proposito, un’altra serie di esperienze è decisamente emblematica, oltre che legata a doppio filo al Luther Blissett Project: quella connessa all’uso dei cosiddetti ‘nomi multi-pli’. Nato già nell’ambiente del Dada berlinese, il primo ve-ro e proprio multiple name vide la luce alla metà degli anni Settanta, a opera della rivista Blitzinformation, che pubblicò un appello che invitava tutti a “diventare Klaos Oldan-burg”:18 Chi aderiva, compilava e spediva un modulo a un determinato indirizzo, vedendosi assegnare un numero di discendenza da affiancare al nome proprio ‘Klaos Oldan-burg’, che si sarebbe quindi moltiplicato un indefinito nu-mero di volte. Alla base del progetto c’era, evidentemente, la scelta di rinunciare alla propria identità, firmando le pro-prie azioni con un nome collettivo, in una prassi destinata a venire raffinata e migliorata nel contesto di Generation Po-sitive, movimento lanciato da un gruppo di anarco-artisti punk londinesi sul finire del 1982. La proposta, rivolta a tut-ti i gruppi musicali della scena underground, fu quella di adottare il nome unico White Colours, mentre tutte le rivi-ste e le fanzine sarebbero state pubblicate con l’intestazione Smile. Così facendo, la notorietà raggiunta dalle singole band si sarebbe moltiplicata, arricchita dall’alone di mistero che circondava la ‘vera’ – ma inesistente – formazione dei White Colours.

Il caso più noto di ‘nome multiplo’, però, fu quello di Monty Cantsin, che prevedeva la creazione di una ‘pop-star aperta’: “l’idea era che chiunque potesse usare questo nome per un concerto e che, se abbastanza persone lo avessero fatto, Monty Cantsin sarebbe diventato abbastanza famoso,

18 Ivi, p. 95.

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e quindi artisti sconosciuti avrebbero potuto adottare quel-l’identità e garantirsi un pubblico”.19 Alla base del progetto, la volontà di sfruttare il passaparola e i mezzi di comunica-zione per diffondere la fama di una ‘pop star’, la cui noto-rietà, però, sarebbe stata ‘partecipabile’ da chiunque. Veniva così messo in discussione il luogo per eccellenza: l’identità individuale.

Per completare il quadro dei ‘movimenti’ samizdat, in questo stringato riassunto non può mancare una sintetica citazione relativa punk di fine anni Settanta. A differenza dei ‘movimenti’ di cui si è scritto finora, il punk, almeno nella sua fase iniziale, fu spontaneo e ignorante, ma ciò non impedì che, nel suo contesto, si sviluppassero pratiche for-temente innovative, a partire dalla radicale messa in discus-sione della distanza che separava il pubblico dai gruppi che suonavano sul palco, resi tangibili e posti sullo stesso piano di chi li ascoltava.

Con il punk, inoltre, si diffuse un’etica do it yourself in virtù della quale gente che non aveva mai avuto la possibili-tà di frequentare corsi musicali, era ora pienamente legitti-mata a esibirsi in pubblico, senza contare il nutrito panora-ma di autoproduzioni, costellato di etichette indipendenti e fanzine fotocopiate: la pratica autonoma e creativa aveva la precedenza su qualsiasi canale ufficiale o commerciale.

Plagio, rifiuto della creatività, critica alla nozione di ‘au-tore’: sono tutte caratteristiche proprie anche dell’ultimo ‘movimento’ samizdat di cui scrive Home. Si tratta del Neoi-smo, forse il più estremo, sicuramente il più paradossale tra quelli fin qui sintetizzati. Nato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, esso recepì la lezione del Situazioni-smo, della mail art e di Fluxus, portandola alle conseguenze più radicali. Lo stesso termine ‘Neoismo’ venne coniato a

19 Ivi, p. 97.

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partire dalla fusione del prefisso ‘Neo’ e della desinenza ‘ismo’: essendo questa tipica di gran parte delle definizioni attribuite ai movimenti artistici, da sempre ne incarnava la chiusura attorno a una determinata poetica. Un ‘ismo’, per-tanto, rappresentava un’astrazione rispetto alla prassi. Ap-ponendovi il prefisso ‘Neo’, si intese portare al parossismo la pretesa ‘novità’ di questi movimenti artistici, mettendo alla berlina un approccio critico che, da sempre, li collocava lungo un’ipotetica traiettoria diacronica, rivolta indefinita-mente al progresso e all’innovazione, come se ciascuno co-stituisse una fase assolutamente originale rispetto alle pre-cedenti, arroccata attorno a un numero definito di caratteri-stiche poetiche e formali. Il Neoismo rappresentava così il punto più estremo e paradossale di questa presunta evolu-zione, costituendo un ‘movimento’ la cui opera migliore non era altro che l'anti-neoismo, la cui unica poetica consi-steva nella ricerca fine a se stessa dell’innovazione, di qua-lunque natura essa fosse. Ivi compreso l’abbandono del movimento stesso: “rotture e scismi sono essenziali alla mia concezione di Neoismo – ed ogni match di pubbliche ingiu-rie fra un ex-Neoista e gli altri membri del gruppo vale do-dici dozzine di grandi opere d'arte. In sostanza, ciò a cui dovrebbero aspirare tutti i Neoisti è una virulenta rottura con il movimento. Abbandonare il Neoismo è la sua realiz-zazione”.20 Evidentemente, non esisteva alcuna ‘teoria neoi-sta’, dato che “ogni cosa fatta all'insegna del Neoismo – dallo scrivere una poesia o una lettera, fino a rilasciare un’intervista a un quotidiano o a un qualsiasi giornale – de-ve essere considerata una performance che in quel momen-to è una parte della performance di un movimento artistico

20 “Lettera aperta al Network Neoista e al grande pubblico”, scritta da

Stewart Home e disponibile online nel sito <www.lutherblissett.net>.

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chiamato Neoismo”.21 Pertanto, si può dire che il Neosimo fosse un vero e proprio anti-movimento, visto che qualsiasi gesto poteva contaminarlo e qualsiasi definizione calzargli, in una flessibilità assoluta che, se per certi versi portava alle estreme conseguenze l’autoriflessività dell’arte contempo-ranea, per altri ne costituiva l’opposto, l’effettiva nemesi di qualsiasi creatività artistica: “per riassumere, la performance Neoista consiste solo di atti che diffondono il virus del Neoismo”.22

21 “Primo manifesto della performance neoista e della performance

del Neoismo”, anch’esso scritto da Stewart Home e disponibile nel sito <www.lutherblissett.net>.

22 Ibidem.

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Tappa n. 5

LUTHER BLISSETT Superate le prime tappe del percorso, non rimane che af-frontarne l’ultimo tratto, quello che finalmente condurrà al Luther Blissett Project. Per farlo, si può fare ancora appello alle esperienze vissute dai Masai, e in particolare al modo in cui sono riusciti, dopo mille peripezie, ad avere la meglio su chi li aveva privati di terra e animali. Come vincono i Ma-sai? La risposta è semplice: sparendo. La tribù raggiunge il proprio obiettivo nel momento in cui rinuncia a un con-fronto in campo aperto contro un nemico meglio equipag-giato e in grado di elaborare strategie più efficaci. Compreso questo, i Masai smettono di cozzare contro i recinti che ne respingono gli assalti, decidendo piuttosto di scivolarvi al-l’interno attraverso le fessure: iniziano cioè a combattere in modo tattico, evitando di capitalizzare i risultati ottenuti e giocando su una continua mobilità nel campo avversario, di cui sfruttano a proprio vantaggio tutte le possibili debo-lezze. Nel loro caso, come si è visto, a risultare determi-nante è il ‘colpo’ sferrato utilizzando i copertoni dismessi, abilmente trasformati nello strumento che gli permette di diventare invisibili, confondendo gli sguardi delle autorità ed eludendone il controllo. Un’azione di pura tattica, in-somma. Non dissimile da quella che, a migliaia di kilometri di distanza e in un contesto cronologico, sociale e culturale radicalmente diverso, un gruppo di individui mise in atto alla metà degli anni Novanta: “Tra gli anni Ottanta e No-vanta del XX secolo d.C. un imprecisabile network di artisti

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senza opere, attivisti post-politici, operatori di media indi-pendenti come radio, BBS, ecc., nauseati dalle obsolete tec-niche e strategie di comunicazione ancora in auge presso un immobile movimento e una scena europea tanto poco vi-vace da ricordare il teatro da camera espressionista, decisero di darsi metaforicamente alla macchia, avvolgersi di leg-genda, scommettere sul meraviglioso” (TP, p. 11).

Come riportato nei precedenti capitoli, lo scenario nel quale si trovavano a vivere gli appartenenti a questo non meglio definibile network, si caratterizzava per la capillare diffusione dei luoghi prodotti dall’onnipresente ‘economia scritturale’, ‘recinti’ che limitavano la possibilità di vivere la realtà nella sua opaca complessità, in cambio di un possesso e di una definizione parziali. Alla profonda insoddisfazione per lo status quo, si accompagnava la comune conoscenza, e spesso l’esperienza in prima persona, dei precedenti mo-vimenti samizdat. C’era poi la consapevolezza che qualsiasi spinta contestativa che ambisse a collocarsi al di fuori dei meccanismi scritturali dominanti, inevitabilmente si sarebbe rivelata illusoria, venendo presto o tardi ricodificata e recu-perata all’interno del sistema stesso: non si poteva evitare di giocare sul campo dell’avversario. Era inoltre più che nota la capacità dei mezzi di comunicazione di dare vita a realtà simulacrali, e allo stesso tempo se ne sperimentava la forza deterritorializzante, capace di eludere le tradizionali distin-zioni per aprirsi a un orizzonte decentrato di comunicazione globale, in reti di scambi un tempo impensabili. Infine, era comune la certezza della sopravvivenza ‘interstiziale’ di margini di movimento, di spazi e possibilità disponibili a essere sfruttate dalle invenzioni tattiche di ciascuno, sebbe-ne parcellizzate nei coni d’ombra del quotidiano. In un si-mile contesto “non fu necessario riunire alcun comitato centrale: semplicemente si decise (tale forma impersonale sarebbe risultata fatidica, poiché avrebbe dato forma a tutte

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le azioni a venire) di usare il potenziale dei nuovi media e il loro imminente impatto su quelli tradizionali, allo scopo di lanciare un nuovo prodotto, una merce intangibile, immate-riale: un mito di lotta comune a tutte le tribù e comunità di rivoltosi” (TP, pp. 11-12). Creare un mito, dunque, capace di mettere a frutto le risorse del territorio, raccogliendo at-torno a sé una comunità dalle caratteristiche del tutto pecu-liari, adeguate all’attuale contesto socioculturale, modellate sulle sue asperità e pronte a cogliere le possibilità che si fos-sero di volta in volta manifestate.

Prima di tutto, però, era necessario dare un nome al nuo-vo mito. La scelta cadde su quello di un modesto calciatore inglese di origine giamaicana, che aveva militato – con scar-sissima fortuna – nelle fila del Milan nella metà degli anni Ottanta: Luther Blissett, giocatore dalle performance così disastrose da essere sospettato di ‘sabotare’ scientemente la propria squadra.

Su un piano organizzativo, si sarebbe dato vita a un nuo-vo multiple name, sulla scorta di esperienze che, come si è visto, già in passato erano state sperimentate in contesti prevalentemente legati al mondo della musica under-ground, con l’obiettivo di creare ‘reputazioni aperte’ delle quali gruppi poco noti si sarebbero potuti servire per attirare l’attenzione di media e pubblico.

Ma cosa significava ‘puntare sul mito’? E, soprattutto, perché decidere di farlo? Perché esso aveva caratteristiche che, a tutti i livelli, ne facevano una ‘risposta tattica’ perfet-tamente adeguata a un contesto dominato dall’‘economia scritturale’, frammentato in una molteplicità di luoghi propri che gli fanno assumere connotazioni simulacrali. Riassu-mendo quanto scritto nel primo capitolo, infatti, il mito è assente, invisibile, manifestandosi solo nell’atto medesimo della sua esecuzione, avendo una natura pratica (è ‘arte di dire’ e ‘arte di fare’ allo stesso tempo) che fa sì che esso ab-

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bia senso solo nell’ottica di una partecipazione condivisa. Perché ciò sia possibile, perché sia vivo, il mito non ha una struttura rigida, ma si fonda su una fluidità che lo rende di-sponibile a essere costantemente riattualizzato, ripetuto, contaminato e rinnovato, poiché fa parte di una memoria collettiva che è patrimonio di un’intera comunità, all’inter-no della quale nessuno è legittimato a dirsi custode di una sua corretta interpretazione. Il mito dice ciò che è possibile fare in un determinato ambiente, insegna come lo si può vivere e praticare, conferendogli un senso che vale per una data comunità, coesa attorno alla propria memoria.

La prima, notevole novità introdotta dal Luther Blissett Project sta proprio nell’ambizione di fondare una comunità basata su un complesso di saperi ed esperienze condivise, senza che, però, questa risulti identificabile in un numero limitato di caratteristiche, o all’interno di un territorio circo-scritto. Detto altrimenti, viene concepito un modello decen-trato di comunità, non chiuso all’interno di un luogo isolato da un punto di vista ideologico o ambientale, ma disponibi-le ad accogliere e a essere contaminato da chiunque scelga di farne parte. Una comunità capace di unire le eterogenee esperienze di persone che, insoddisfatte del sistema scrittu-rale dominante, scelgono di rifiutarne il continuo processo di frammentazione, l’individuazione entro ‘recinti’ definiti, per condividere conoscenze e pratiche, contribuendo, pro-prio in virtù delle differenze individuali, all’espansione e alla fluidità di un network che si fa tanto più efficace nella lotta quanto meno risulta individuabile entro la rigidità di schemi fissi. Quella di Luther Blissett è, infatti, una comunità diffu-sa a livello internazionale, e pertanto è impossibile situarla geograficamente all’interno di confini precisi, così come lo è il tentativo di collocarla entro un numero limitato di pre-supposti teorici o ideologici: la magmaticità e l’indetermina-

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tezza sono suoi caratteri ineliminabili, e rendono inutile la stessa identificazione di chi ne fa (o ne ha fatto) parte.

Affinché sia preservata la sua fluidità e superata qualsiasi distinzione, anche la memoria e il mito attorno a cui si coa-gula la nuova comunità blissettiana devono essere altrettan-to fluidi. Il progetto Luther Blissett, pertanto, viene concepi-to senza un nucleo centrale di verità cui attenersi, un rigido canovaccio da rispettare che funga da struttura o program-ma cui fare riferimento nell’azione, e se già il mito tradizio-nale conosce tante varianti quanti sono coloro che vi credo-no, Luther è privo anche di quell’intreccio minimo che co-stituisce il tema sul quale fondare l’intero arco delle possibili variazioni. Niente segreti da svelare, nessun mistero su cui fare luce: Luther Blissett si realizza in pura partecipazione, e qualunque azione, gesto, performance, manifesto o pubbli-cazione venga firmata con il suo nome, diventa parte del suo mito, arricchendolo e costituendone un ulteriore tassel-lo. Non a caso, dal momento del lancio del progetto, nel 1994, una mole impressionante di manifestazioni di Luther Blissett si sussegue in Italia e in svariate altre nazioni, coin-volgendo un po’ tutti i settori della cultura: dalla pubblica-zione di fanzine, libri e fumetti underground, alla realizza-zione di brevi film e brani musicali; dalle performance tea-trali, alle micidiali beffe mediatiche; dalle campagne di con-troinformazione alle derive psicogeografiche: tutto ha con-tribuito alla diffusione, all’evoluzione e alla crescita espo-nenziale della fama di quella che, nel tempo, ha assunto i contorni di una inquietante e nebulosa leggenda. Di questa, tutto è noto fin dall’inizio: già a partire dai primi manifesti firmati Luther Blissett, la sua natura di ‘identità multipla’ è stata immediatamente esplicitata, insieme al suo obiettivo di rappresentare un mito globale, potenzialmente universa-le, non individuabile nel ristretto ambito di un’innocua con-testazione. Come nel caso del Neoismo, il mito di Luther

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Blissett, rifiutando di coagularsi entro luoghi specifici e man-tenendosi aperto a ogni uso che lo rinnovi e contamini, si realizza nel paradosso di poter essere ‘sé e il contrario di sé’, senza distinzioni tra vero e falso, senza che nessuno possa ergersi a giudice o censore di ciò che viene agito in suo no-me: tutto può ambire a ‘essere Luther Blissett’.

Critica radicale alla società; enfasi sul valore pratico del progetto; rifiuto di una collocazione nella ‘prigione dell’ar-te’; desiderio di cambiamento radicale a partire dal quoti-diano: sono tutti punti di un programma in cui non si defi-niscono linee guida o poetiche, ma che esprimono la volon-tà di vivere esperienze su un terreno ben più complesso. E qui entra in scena quella che si può considerare la vera e propria ‘svolta tattica’ operata da Luther Blissett. La fluidità, la non-individuabilità che lo caratterizza, non devono esse-re lette come un tentativo di scongiurare un eventuale ‘re-cupero’ da parte di un sistema ‘spettacolare’, tutt’altro. Co-me si è scritto, in chi partecipa al Luther Blissett Project è ben chiara la consapevolezza che non si possa evitare di giocare sul campo di un avversario potente, radicato e on-nipresente, incarnato dal modello scritturale che permea le società occidentali. Di conseguenza, non ci si attesta in un illusorio ‘altrove’, un underground sostanzialmente incapa-ce di incidere in profondità nel reale e, alla lunga, funziona-le alla riproduzione dello status quo. Piuttosto, si decide di ‘esplodere’ nel sistema, contaminandolo con le proprie spo-re, diffondendovisi come un virus invasivo nei confronti del quale le cure usuali risulteranno tutte inefficaci: “Non sol-tanto Blissett ha un aspetto multiforme e un comportamen-to imprevedibile, egli è dotato di un potere che gli permette di sconfiggere l’avversario senza afferrarlo e stringerlo, gli basta fotterlo dolcemente (è una malattia a trasmissione sessuale) e infettarlo. E, appestandolo, lo guarisce. In questo si differenzia completamente tanto dal tipo paranoico del

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potente, preoccupato da mille insidie, quanto dal modello maniacale di eroe, alla continua ricerca di pericoli. […] Blis-sett […] attira a sé i suoi nemici, non li va a cercare, e lo fa per mostrare a tutti la loro vulnerabilità” (TP, p. 46).

Rinunciando a obiettivi parziali e contingenti, Luther porta il proprio attacco alla totalità della cultura main-stream, mosso dalla duplice volontà di riappropriarsene e, al tempo stesso, esserne recuperato, poiché è solo da una posizione interna che inquadra la concreta possibilità di condurre efficacemente le proprie azioni. Se Luther Blissett è, infatti, solo un nome, una firma, una sorta di contenitore vuoto, concepito proprio per non essere identificato con al-cun tipo di identità, fisica o concettuale che sia, diventa pos-sibile ‘riempirlo’ con tutto ciò che si desidera, definendolo e plasmandolo in base al flusso in costante divenire dei propri desideri, senza andare incontro ai veti di una qualche cen-sura e senza tener conto di eventuali barriere.

Così, Luther Blissett si dà al plagio continuo, specchian-dosi di volta in volta nelle parole e nelle opere degli autori più disparati, dando loro forme nuove e inaspettate, spiaz-zando le attese, détournando verità e certezze, contaminan-dole, facendole vivere e circolare, restituendole all’opacità e attribuendogli un senso disponibile a essere rimesso in gio-co in qualsiasi momento. Se ci si pensa, è un moto che por-ta a una riappropriazione simile a quella perpetrata dai Ma-sai, se si sostituisce all’obiettivo costituito da animali e terra quello rappresentato dal binomio cultura e vita, inteso nella sua validità più generale. Grazie all’invisibilità, che la tribù ottiene riciclando i copertoni e Luther adottando un’identità multipla, entrambi sono in grado di valicare i recinti che li tengono all’esterno, per riprendersi finalmente ciò che ha senso solo se è possibile stabilirvi un contatto diretto. Nel caso di Luther Blissett, i recinti da oltrepassare o divellere sono rappresentati da tutto ciò che impedisce una libera cir-

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colazione di corpi e saperi: dall’urbanistica funzionalista alla proprietà intellettuale, dall’arte museificata ai diritti vantati da autori di genio su opere del cui significato vengono con-siderati padroni. L’idea è che tutti, quotidianamente, con-tribuiscano alla produzione, all’innovazione e alla diffusione di un sapere e di una cultura da cui, tuttavia, vengono si-stematicamente esclusi, delle quali non possono dirsi vera-mente partecipi, chiusi all’interno del recinto della propria identità e allo stesso tempo resi spettatori più o meno passi-vi di ciò che diventa proprietà altrui. È il processo che ha luogo con la progressiva affermazione di un’‘economia scritturale’: “l’isola costituita dalla pagina è un luogo di transito in cui si opera un’inversione industriale: ciò che vi entra è un ricevuto, ciò che ne esce è un prodotto. Le cose che vi entrano sono gli indici di una passività del soggetto in rapporto a una tradizione; quelle che ne escono, i segni del suo potere di fabbricare oggetti. L’impresa scritturale […] trasforma o conserva all’interno ciò che riceve dall’e-sterno e crea nello spazio interiore gli strumenti di una ap-propriazione dello spazio esteriore. Immagazzina ciò che preseleziona e si dota dei mezzi per espandersi. Combinan-do il potere di accumulare il passato e quello di conformare ai suoi modelli l’alterità dell’universo, ha un carattere capitali-sta e conquistatore” (IQ, p. 199).

Con il progetto Luther Blissett, nome multiplo, mito e pseudonimo multiuso, si decide di fare a meno, o meglio di far esplodere il nucleo stesso che permette il riprodursi infi-nito dei un simile sistema scritturale: l’identità. Se Luther non è altro che un nome, un segno, un contenitore vuoto, alle sue spalle ci può essere tutto e nulla al tempo stesso. Non essendo interessato a forme di possesso parziale, e non dovendo difendere alcuna posizione, è libero di distendersi sul reale al di là di ogni recinzione, arrivando in potenza a potersi sovrapporre a esso completamente. Tutto è détour-

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nabile e plagiabile, tutto può essere rimesso in circolo, in un inesauribile movimento tattico, senza che nulla vada incon-tro a una nuova fissazione, diventando parte di una memo-ria disponibile a essere veramente condivisa da chiunque lo desideri, e della quale ciascuno può legittimamente dirsi partecipe: “L’industria dello spettacolo integrato e del co-mando immateriale mi deve dei soldi. […] E ciò che l’industria dello spettacolo integrato mi deve, lo deve ai molti che io sono e me lo deve perché io sono molti. Da questo punto di vista possiamo accordarci quindi per un compenso forfettario generalizzato. Non avrete pace finché non avrò i soldi! MOLTI SOLDI PERCHÉ IO SONO MOLTI: REDDI-

TO DI CITTADINANZA PER LUTHER BLISSETT!” (TP, pp. 83-84) Perché rimanga fluida e in movimento, è necessario che

la memoria collettiva di Luther Blissett si diffonda il più possibile, percorrendo tutte le strade che le si aprono di fronte, per contaminare porzioni sempre più estese di cultu-ra mainstream. Quindi non si sceglie solo di combattere sul terreno dell’avversario, ma si cerca di espandervisi il più possibile: più la conoscenza del progetto si irradia, più set-tori del reale possono essere détournati; più persone vi par-tecipano, più Luther Blissett si arricchisce e si rinforza; più si fa molteplice, meno è individuabile. L’esperienza del pro-getto si configura allora come l’ossessiva ‘presenza di un’assenza’, analoga a quella che getta nel panico Robinson Crusoe di fronte all’impronta dell’ ‘altro invisibile’. Tra il 1994 e il 1999 Luther appare con frequenza crescente, dalle pagine dei quotidiani locali a quelle delle testate nazionali, dalle radio alle pubblicazioni underground, dalle librerie ai convegni, dalle mostre alle performance di strada: tutto contribuisce a diffondere il suo messaggio, che invita a prendere parte al progetto e fa leva su una continua auto-storicizzazione, che, fin da subito, chiarisce gli scopi del progetto e il suo carattere aperto.

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Come ogni mito che si rispetti, anche Luther Blissett fa vedere ‘ciò che si può’ fare’ in un determinato ambiente, e nel suo caso questo coincide con la società contemporanea. Per farlo mostra le tecniche utilizzate e gli effetti delle pro-prie scorribande, tutte attentamente documentate e firmate con il marchio del proprio nome. In tal modo viene costrui-ta una reputazione, che cresce azione dopo azione anche grazie al massiccio contributo degli organi di informazione, con cui Luther gioca spesso e volentieri, attirando la loro attenzione e servendosene per diffondere il proprio virus. Chi adotta la sua identità agisce nell’opacità del quotidiano e firma le proprie azioni con il nome multiplo, e le tracce del suo passaggio immancabilmente destano l’attenzione dei media, attratti dal fascino misterioso della ‘creatura multi-pla’, assente, strana, incomprensibile e inquietante: subi-scono, insomma, quella ‘pulsione scopica’ di cui si è scritto nel terzo capitolo, dovuta alla fascinazione e alla repulsione per il trasgressivo e il deviante, che Luther conosce bene e sfrutta a proprio vantaggio. Nel corso di trasmissioni televi-sive e sulla carta stampata fioriscono così le interpretazioni più fantasiose dell’insolito fenomeno, e tra le varie defini-zioni che gli vengono attribuite si affermano quelle di ‘ter-rorista mediatico’ e ‘terrorista culturale’, cui spesso seguono comunicati che, firmati dallo stesso Blissett, rivendicano azioni o fomentano il dibattito, senza mai censurare alcuna interpretazione del progetto, per quanto bizzarra essa sia. D’altra parte, i media non fanno altro che il gioco di Luther Blissett: non avendo questi verità o segreti da nascondere, qualsiasi lettura non solo può dirsi corretta, ma ne diffonde ulteriormente il messaggio e ne accresce l’indeterminatezza. In altri termini, il potere.

Ma la presenza di Blissett non è soltanto mediatica, es-sendo prima di tutto pratica, fisica, corporea. Chi ne assume l’identità, metaforicamente spogliandosi della propria, ripe-

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te ciò che fanno i membri delle comunità tradizionali, ovve-ro fa rivivere il mito attraverso il proprio corpo, partecipan-do di una memoria da cui viene trasceso e che, tuttavia, manipola e rinnova. Anche nel caso di Luther Blissett, quindi, a fare da collante della comunità è una memoria condivisa, che, riattualizzata nel quotidiano, è coglibile nel-l’atto medesimo della sua esecuzione, in una partecipazione che la contamini ogni volta. In quanto mito, anche Luther Blissett non è ‘altro’ rispetto al reale, ma vive nel corpo, nei gesti e nelle parole di chi sceglie di praticarlo: non è teoria ma prassi, non essendo possibile relegarlo entro i confini di un settore specifico. Non avendo un nucleo, un centro ne-vralgico attorno a cui si costituisca un’impalcatura teorica, può sovrapporsi al reale nella sua totalità, rendendosi indi-stinguibile da esso e dalla sua magmatica complessità: chi agisce adottando l’identità di Luther Blissett è Luther Blis-sett, e ciò che viene marchiato con il suo nome ne diventa automaticamente parte, in un unico flusso dal quale non è possibile discernere il vero dal falso. L’assenza di un’iden-tità, fisica o teorica, fa sì che qualsiasi azione, testo o defini-zione venga attribuita a Luther Blissett sia destinata a me-scolarsi a un flusso indistinto alla cui sorgente è impossibile risalire, coincidendo il progetto con un continuo sgorgare che è possibile cogliere solo nel preciso istante in cui avvie-ne. Si può soltanto nutrire l’illusione di risalirne la corrente, per poi accorgersi immancabilmente di trovarsi ancora a valle, alla foce, e per quanto ci si sforzi di suddividere, orga-nizzare e analizzare, si finisce sempre con l’aggiungere, complicare o ripetere. È lecito parlare del progetto, scriverne o tentare di organizzarne i materiali, e se ne può persino dare una lettura che lo interpreti, ma la pretesa di porsi nel-le vesti di osservatore esterno resta sempre illusoria, venen-do ogni metacomunicazione risucchiata nel gorgo creato da Blissett. È certamente possibile un’analisi del progetto, ma

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gli esiti saranno del tutto diversi rispetto a quelli ottenuti, per esempio, dagli studi etnografici condotti sui miti tradi-zionali: non trovandosi in esso alcun nucleo di verità che lo identifichi, Luther può essere tutto, e di questa totalità tutto può essere scritto, purchè non si abbia la pretesa di esaurire un argomento per sua stessa natura inesauribile, e non si nutra il desiderio di darne una lettura definitiva. Si oscilla continuamente tra la dimensione del reale e del fantastico, ed entrambe si fondono nel Luther Blissett Project, per il quale ogni sistema che lo inquadri e lo interpreti è corretto, costituendone però soltanto l’ulteriore, parziale versione, indipendentemente dalla serietà dell’approccio o dalla di-stanza che si pensa di frapporre fra sé e l’oggetto delle pro-prie analisi. Qualunque cosa si dica di Luther Blissett, si fi-nisce col dare solo un’altra versione del mito: o una ripeti-zione tautologica di qualcosa che è già stato detto ed è evi-dente fin da subito, o una lettura destinata a modificarne ulteriormente i connotati.

Pertanto, questo stesso volume non può che fare propria la consapevolezza di non poter evitare di collocarsi all’in-terno del progetto che dovrebbe idealmente ‘mappare’, non rappresentando nulla di più che l’ennesima lettura, né più né meno rigorosa di qualsiasi altra, di un fenomeno che viene a sua volta inevitabilmente modificato da ciò che è scritto fra le sue pagine. Come per un mito in una tradizio-ne aurale: nessuna verità, nessuna certezza, ma il gusto di ripetere e raccontare l’ennesima versione di una storia affa-scinante. 5.1 Alle origini del mito

Sulla scorta di quanto scritto finora, dovrebbe essere chiaro come il tentativo di leggere il Luther Blissett Project secon-do una prospettiva lineare, lungo una sequenza di manife-

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stazioni che, a partire da un’origine certa, si succedano in modo diacronico e corente, ciascuna aggiungendo un nuo-vo tassello al progetto, rischi di non essere affatto proficuo. Come non lo sarebbe quello di rintracciare l’autore o la pre-sunta versione originale di un mito. Inutile affannarsi, allo-ra, e scegliere, delle innumerevoli storie che vedono prota-gonista Luther Blissett, le più note, le più emblematiche o, semplicemente, le più intriganti. Magari appoggiandosi agli stessi resoconti che ‘lui stesso’ ha realizzato e disseminato, dando vita a uno sforzo di costante auto-storicizzazione che, alle azioni e alle performance, faceva sempre seguire rivendicazioni e racconti che ripercorrevano l’accaduto, con l’obiettivo di diffondersi quanto più possibile nel reale e far sì che sempre più persone decidessero di assumere l’iden-tità multipla. Un costante gioco di specchi, insomma, in cui l’immagine di Blissett finiva col riflettere indefinitamente se stessa, secondo modalità che verranno analizzate più accu-ratamente nei capitoli che verranno. In questa sede, essen-do impossibile risalire con esattezza alle origini del proget-to, e avendo a disposizione una gran mole di materiale fir-mata dallo stesso Blissett, ci si limiterà a raccontare nuova-mente, ri-citandole, alcune delle vicende di cui fu al con-tempo protagonista ed esegeta, senza la pretesa di cercarne una veridicità di fatto introvabile, e rinunciando al tentativo di esaurirne la complessità. D’altra parte, non essendo pos-sibile muoversi da una prospettiva esterna rispetto a Luther, e non essendo disponibile una ‘teoria’ che ne rispecchi l’identità, non si può che ripeterne e rinnovarne le singole manifestazioni, valide nel loro non essere altro che versioni parziali del mito, del quale rappresentano le concrete epifa-nie nel reale.

Per giustificare una simile scelta, ci si può rifare ancora una volta a Michel De Certeau e Marcel Detienne. Quando il primo scrive del metodo utilizzato dal secondo per parlare

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dei miti greci, scrive che egli “ha scelto deliberatamente di raccontare. Non usa le storie greche di cui si occupa per trattarle in nome di qualcosa di diverso da esse. Rifiuta la cesura che le trasformerebbe in oggetti di conoscenza, ma anche in oggetti da conoscere, caverne in cui misteri rimasti in ombra attenderebbero che l’investigazione scientifica ne spieghi il significato. Non presume che dietro tutte queste storie vi siano dei segreti il cui progressivo disvelamento gli assegnerebbe, in cambio, il ruolo di interprete. Questi rac-conti, poemi e trattati sono per lui già delle pratiche. Dicono esattamente ciò che fanno. Sono il gesto che significano. […] Per dire ciò che dicono non vi è altro discorso che il lo-ro stesso. […] Il racconto non esprime una pratica. Non si accontenta di dire un movimento. Lo compie. Lo si com-prende per tanto se si partecipa alla danza. Così avviene in Detienne. Egli racconta le pratiche greche recitando le storie greche” (IQ, pp. 129-30).

Se Luther Blissett si presenta come un mito dei giorni nostri, espressione di una memoria che, assente, elude qualsiasi confine e si manifesta sia attraverso una concreta partecipazione, sia in una costante auto-riflessione, il modo più adatto per affrontarne la materia è forse quello di basar-si su ciò che Luther Blissett stesso dice di sé, raccontandolo di nuovo ed essendo consapevoli di non poter portare alla luce alcuna verità, né di poter mappare un territorio poten-zialmente sconfinato. Nessuna ‘blissettologia’, dunque, ma nuove versioni delle singole epifanie del mito, al di là di ogni distinzione tra reale e fantastico.

Rispetto alla propria nascita, nel suo Totò, Peppino e la Guerra Psichica 2.0 Luther scrive che il progetto, diffuso in diverse nazioni, in Italia iniziò a essere praticato a partire dal 1994, per svilupparsi in un arco di cinque anni e conclu-dersi dicembre 1999, data che non ne avrebbe segnato la fine bensì il passaggio, come si vedrà, ‘ad altre forme di lot-

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ta’. La maggior parte di coloro che vi parteciparono “rien-travano nella tipologia del lavoratore immateriale e/o atipi-co (programmatori, web designers, operatori culturali, grafi-ci, copy writers, traduttori, lavoratori del terzo settore, lavo-ratori autonomi di seconda generazione, popolo delle parti-te Iva, ecc.). […] Le nuove e sempre più diffuse figure del lavoro vivo create dall’estendersi delle tecnologie informati-che – abituate a lavorare in rete, a produrre comunicazione sociale, a collaborare (come del resto richiede il modo di produzione post-fordista) – sono le più vicine a un’espe-rienza di Gemeinwesen. Nelle pieghe del nuovo lavoro va formandosi una comunità allargata che vive con crescente insofferenza l’espropriazione, a opera di parassitiche multi-nazionali, della ricchezza che essa produce, ricchezza anche immateriale, relazionale, emotiva” (TP, p. 21).

Alle origini del progetto, dunque, una profonda insoddi-sfazione per le condizioni che caratterizzano la vita con-temporanea, di fronte alle quali la risposta che viene tentata ha un carattere comunitario e globale. Non a caso viene uti-lizzato il termine marxista Gemeinwesen, ‘essere comune’, a indicare “la dimensione collettiva della vera comunità uma-na, che non s’identifica con alcuna comunità esistente (Ge-meinschaft) o gruppo limitato, ma con la molteplicità e la ricchezza delle relazioni che il proletariato avrebbe potuto e dovuto creare nella stessa cooperazione sociale capitalistica, una volta gettata via la limitata forma borghese, oltre co-munità fittizie quali la cittadinanza, e oltre la stessa lotta di classe. La Gemeinwesen è il principio comunitario che non si rapprende in una data Gemeinschaft, perché la comunità è comunità degli umani, e va scoperta nell’intera Specie” (TP, p. 20).

Ma, affinché potesse dirsi tale, occorreva che la nuova comunità si coagulasse attorno a una mitologia, della quale ciascuno avrebbe dovuto potersi sentire partecipe. E perché

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una simile genesi avesse luogo, sarebbe stato sì necessario fondarla sulle caratteristiche ancestrali dei miti tradizionali, sulla loro forza simbolica e sulla loro natura pratica, ma sa-rebbe stato parimenti decisivo che la comunità si basasse su elementi di un sapere realmente diffuso e condiviso, al di là del bagaglio culturale individuale e oltre ogni possibile di-stanza spaziale o ideologica. Bisognava, in altri termini, dare vita a un mito i cui archetipi fossero davvero comprensibili e manipolabili da tutti e ovunque. Ovvero, archetipi ‘pop’: “Mitopoiesi, dicevamo: saccheggiare e riadattare un patri-monio antichissimo di miti e archetipi comuni a tutte le so-cietà umane, poi rielaborato nell’arte e nella cultura di mas-sa. Trovare alcune figure topiche, risalendovi dal cinema, dal fumetto e dalla letteratura seriale (di genere), per poi produrne una sintesi, basata su un massimo comune de-nominatore: una reputazione intesa come opera aperta, co-stantemente rimanipolabile, basata sul maggior numero possibile di ritocchi e interventi soggettivi” (TP, p. 12).

Da queste parole, è evidente quanto il progetto non fosse pensato per chiudersi in una nicchia elitaria, tendendo piut-tosto alla propria ‘esplosione’ nel mainstream. Questo, quindi, andava riassorbito e riciclato entro contesti nuovi, dando vita a combinazioni inattese che ne spiazzassero i significati e ne contaminassero i contenuti. Soprattutto, era la cultura che si è soliti definire ‘di genere’ a rappresentare il terreno ideale sul quale elaborare i modelli delle proprie tat-tiche: letteratura seriale, cinema d’azione, fumetti e telefilm erano – e sono tuttora – diffusi in modo capillare nell’im-maginario collettivo globale, permeato a tutti i livelli dal lo-ro linguaggio e dalle loro trame, comprensibili indistinta-mente da chiunque, a prescindere da barriere geografiche o culturali. Elaborare gli archetipi del nuovo progetto mito-poietico su simili basi, avrebbe avuto come risultato una maggior accessibilità al mito, poiché ne avrebbe reso imme-

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diata la comprensione e facilitato la partecipazione. Rispetto a qualsiasi astrazione teorica, le imprese degli eroi da fu-metto o telefilm, così come le avventure dei romanzi di cap-pa e spada, non solo erano più conosciute al grande pubbli-co, ma anche meno gravate da pretese artistiche e autoriali, sfruttando i meccanismi della serialità e basandosi su un sa-pere prevalentemente artigianale: tutte caratteristiche che rendevano questo tipo di cultura perfettamente adeguata alle mire di Luther Blissett, che vi poteva compiere le pro-prie scorribande indisturbato, attingendovi a piene mani, straniando e ‘specchiandosi’ nei suoi contenuti, riassorbiti continuamente nel suo flusso magmatico.

Tra gli archetipi cui Luther stesso fa riferimento per defi-nire la natura delle proprie imprese, il primo è quello del folk hero (o Waldganger), eroe popolare le cui gesta ripercor-rono in ogni tradizione il pattern delle avventure di Rama contenute nel Ramayana. Da questo modello vengono fatte discendere le altre figure di folk hero diffuse tra numerose popolazioni, tutte varianti di un’unica vicenda che vede nel Waldganger “colui che si dà alla macchia, il-ribelle-che-va-nel-bosco e da lì combatte contro un potere usurpatore” (TP, p. 13). Un po’ quello che accade alla tribù masai, o al Frei Damião di Michel De Certeau: “che quest’eroe sia realmente esistito o meno, i racconti delle sue gesta sono sempre stati materia di manipolazione collettiva, per dare una speranza di rivalsa e una temporanea consolazione a una limitata Gemeinschaft, il più delle volte una classe con-tadina oppressa da tiranni e feudatari di origine straniera” (TP, p. 14).

Tuttavia, la guerriglia condotta dall’eroe popolare nel bo-sco – è ancora lo stesso Luther Blissett a ricordarlo – non si esaurisce in una serie di trappole, agguati e rapidi combat-timenti, ma si arricchisce di un metodico lavoro di “propa-ganda nera e sabotaggio della macchina comunicativa del

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Potere” (TP, pp. 15-16). In pratica, una puntigliosa guerri-glia semiologica. Per questo motivo, il secondo archetipo rintracciato da Blissett è quello del trickster, l’imbroglione mitologico complementare ed essenziale alla figura del folk hero, a cui conferisce l’astuzia e l’intuito necessari per svela-re e mandare a monte gli intrighi del nemico. Tra i prece-denti mitici si fa riferimento “all’Anansi delle leggende afro-caraibiche, o all’Eulenspiegel della cultura popolare tedesca” (TP, pp. 15-16), anche se il modello probabilmente più effi-cace è quello individuato in un film di genere, “pietra milia-re del moderno gongfupian hong-konghese” (TP, pp. 15-16). Il film, datato 1971, è Fist of Fury, e il suo protagonista è un eroe popolare della Cina degli anni Venti, Chen Zhen, in-terpretato per l’occasione da Bruce Lee. La trama è piutto-sto semplice: Chen è uno studente di arti marziali a cui vie-ne assassinato il maestro dal perfido Suzuki, corrotto kara-teka dai baffi a manubrio. Di questi, l’eroe di vendica ucci-dendo tutti gli sgherri, quindi dandosi alla macchia e “fa-cendo della città il suo bosco” (TP, pp. 15-16), con l’obiet-tivo finale di affrontare in duello lo stesso Suzuki. “Per fare questo, ricorre a trucchi, travestimenti e ovviamente al suo micidiale gongfu” (TP, pp. 15-16).

Gli archetipi di genere rintracciati per delineare la figura del trickster, però, sono nulla a confronto di quelli che defi-niscono la terza e ultima figura mitologica incarnata da Blis-sett: quella dello stranger. Lo straniero è colui “che compare come dal nulla in un territorio lacerato dai conflitti, e ricor-rendo alle armi del doppio gioco e della guerra psicologica risolve una situazione di grave collasso socio-culturale. Questo straniero non sembra avere passato né futuro, ed è estraneo alla gemeinschaft locale” (TP, pp. 16-17). Luther lo descrive come una variabile impazzita, un eroe popolare che, abbandonata la propria comunità di riferimento, si in-sinua in un territorio dove nessuno lo conosce, infiltrando-

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ne i poteri fino a provocare l’implosione delle parti in con-flitto. Di questo archetipo Blissett rintraccia la discendenza nel contesto della produzione di genere, ritrovando il mo-dello delle sue azioni nel film La sfida del samurai, in cui Ku-rosawa costruisce la sua storia attorno alle azioni di un ano-nimo protagonista, nel contesto di una lotta spietata tra clan rivali. Come si sa, al regista giapponese si sarebbe ispirato Sergio Leone, quando nel 1963 girò il celebre Per un pugno di dollari, in cui Clint Eastwood, “barba incolta, sudicio pon-cho, cigarrillo sbavato e mordicchiato” (TP, pp. 17-18), in-terpretava la parte di uno straniero di cui nessuno sapeva nulla, in una cittadina dilaniata dal conflitto tra due bande rivali, risolto grazie all’abilità del protagonista tanto nel doppio gioco quanto nel maneggiare la pistola.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, il modo in cui Luther Blissett percorre le strade del genere e del pop, fa-cendo leva sulla propria mancanza di identità per riappro-priarsi e ‘riempirsi’ di tutto ciò che desidera, in un’indisso-lubile e continua fusione tra scrittura e lettura: tutto ciò che legge diviene immediatamente suo, straniato in una nuova produzione di senso. La fluidità che ne caratterizza il pro-getto gli consente di scavalcare qualsiasi recinto, di eludere ogni sorveglianza, di assorbire tutto ciò che tocca: archetipi pop e mitologici confluiscono nel suo gorgo e contribuisco-no a definirne l’identità con la stessa autorevolezza di un’e-laborazione teorica o filosofica. Per questo motivo, avendo a che fare con Luther Blissett si ha spesso l’impressione di trovarsi di fronte a una colossale cospirazione: il moltipli-carsi delle sue apparizioni nei contesti più disparati, induce nell’osservatore esterno la sensazione paranoica di vederne ovunque le tracce. Dappertutto sembra spuntare la sua fir-ma, o fare capolino il volto che qualche partecipante al pro-getto ha deciso di dargli, ottenendolo attraverso un proces-so di morphing di vecchie fotografie degli anni Quaranta, e

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paradossalmente tutti questi strani riferimenti sono Luther Blissett, indipendentemente dal fatto che qualcuno abbia pensato di apporvi il marchio della ‘creatura multipla’. Nel momento stesso in cui legge Luther in qualche anfratto del reale, infatti, l’osservatore cessa immediatamente di essere tale, per venire risucchiato nel grande gioco di Blissett, poi-ché la sua malleabilità elimina qualsiasi distanza tra esterno e interno: ‘leggere’ Luther, attribuirgli un’azione o anche solo ipotizzare che qualcosa, qualunque cosa, intrattenga con esso un legame, significa dare un altro tocco, aggiunge-re un’ulteriore pennellata al suo poliedrico ritratto. Ovvero, volenti o nolenti, si contribuisce a realizzarlo.

Il modo migliore per non cadere preda della presunta co-spirazione ordita da Luther Blissett, allora, consiste nel-l’acquisire la consapevolezza di poter ‘muovere i fili’ in pri-ma persona, smettendo di cercare oscure origini o miste-riose verità per partecipare attivamente all’evoluzione del progetto. Una volta che si è preso atto della costitutiva im-possibilità di risalire a una fonte certa, si è infatti liberi im-mergersi nel flusso di storie, immagini e leggende che sono tutte legittimamente parte di Luther Blissett, senza che nes-suna, nemmeno la più seria, la più ‘scientifica’ o la più vero-simile, ne costituisca la colonna portante. 5.2 Strumenti

Ma come agisce, in concreto, Luther Blissett? In che modo riesce a essere ‘recuperato’? Quali sono, insomma, i suoi strumenti?

Una volta introdotto il progetto, è ora giunto il momento di trattare delle tecniche e dei mezzi di cui Luther si è servi-to per raggiungere i suoi scopi. La tribù masai adotta uno stile tattico nel momento in cui smette di opporsi frontal-mente alle autorità cittadine per darsi alla macchia, volgen-

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do a proprio vantaggio gli scarti di quella stessa discarica che, impostagli da un potere esterno, era all’origine delle sue traversie. Lo stratagemma dei copertoni, riutilizzati in forme spiazzanti agli occhi dei ranger, è assolutamente de-cisivo: in questo capitolo si vedrà da quali simboliche disca-riche Blissett ha attinto gli strumenti per la sua personale lotta di riappropriazione. Questa, innanzitutto, è stata con-dotta a partire da una metodica ‘guerriglia culturale’, secon-do una definizione che è ancora lo stesso Luther a fornirci. Il termine ‘guerriglia’ viene usato per designare un modo di combattere proprio di chi ‘non ha potere’, avendo tutto da perdere in un confronto a viso aperto, dovendo perciò or-ganizzare il proprio agire in base a una continua mobilità portata sul terreno dell’avversario, di cui si sfruttano le de-bolezze per volgerle a proprio favore. L’esempio storico più lampante viene dalla guerra condotta dalla Francia in Viet-nam, finita in una disfatta per un esercito che, secondo le parole di Ho Chi Min, si comportava ‘come un elefante fatto a brandelli da una tigre’, che dopo ogni colpo si rifugiava nel fitto della foresta, in attesa dell’occasione successiva. “Riempire i vuoti ed evitare i pieni”,1 scrive Sun Tzu ne L’arte della guerra, citato in più di un’occasione dallo stesso Blissett al momento di descrivere i propri metodi. Un con-cetto espresso da molti strateghi orientali, capace di sinte-tizzare con efficacia l’essenza di un agire tattico messo in pratica da diverse discipline marziali, per le quali è fonda-mentale sfruttare la forza, la massa e l’impeto dell’avver-sario per metterlo a tappeto. Calcolare pregi e difetti del nemico, valutare attimo per attimo la situazione contingen-te, essere pronti a cogliere l’occasione da girare a proprio vantaggio, sotto qualunque forma si manifesti, farne tesoro

1 Sun Tzu, L’arte della guerra. Tattiche e strategie nell’antica Cina, trad.

it. di Riccardo Fracasso, Milano: TEN, 1994, p. 68.

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e tornare a vigilare in attesa della prossima mossa, di un al-tro colpo da sferrare con velocità e precisione. La chiave di tutto, perno che consente, grazie a una leggera spinta, di capovolgere i rapporti di forza precedenti, è l’‘occasione’, la falla che si apre nella fortezza nemica, il fianco lasciato sco-perto dall’avversario, da colpire senza esitazioni e con l’obiettivo di produrre la maggior quantità di danni possibi-le. Chi ‘non ha luogo’, chi non è dotato dei mezzi o del po-tere per elaborare strategie fondate sul possesso di uno ‘spazio proprio’, chi sceglie la guerriglia invece del confron-to muscolare, chi insomma gioca in modo tattico, deve ne-cessariamente basare il proprio agire sull’attesa delle condi-zioni che gli permettano di sfruttare le caratteristiche del-l’avversario, il black out nelle difese nemiche da cui trarre il massimo profitto possibile. L’occasione, il kairos, non può venire preparata, ma si presenta come un’opportunità irri-petibile, e quanto più è approfondita la conoscenza delle caratteristiche del terreno su cui si decide (o su cui si è co-stretti) a combattere, tanto più aumentano le possibilità di cogliere l’opportunità nell’attimo stesso in cui si manifesta. Quanto più si accumulano esperienza e memoria di azioni passate, tanto più si è in grado di riattualizzare un simile patrimonio nel più breve tempo possibile e con la maggior quantità di effetti. Questi, a loro volta, modificheranno il luogo sul quale si producono, andando ad arricchire di un altro ricordo, di un'altra storia, il complesso di una memoria che continua a non avere luogo, per manifestarsi unicamen-te al momento opportuno. Una memoria che, per essere ef-ficace, deve mantenersi fluida, mobile e aperta a ogni possi-bile contaminazione, preservando una composizione fatta di tante singole esperienze, che non la chiudono attorno a una verità o una teoria fissa e immutabile, ma la rendono malleabile, adattabile alle situazioni e ai contesti più dispa-rati. Si tratta delle stesse caratteristiche che, nel primo capi-

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tolo, si sono attribuite al mito nelle comunità tradizionali: anch’esso insegna come ‘praticare’ un ambiente senza fis-sarsi in una sola versione, conservando una fluidità che gli permette di essere condiviso e riutilizzato quotidianamente da ciascuno. È un sapere pratico, espressione di una memo-ria partecipata che trascende il visibile e vive nella dimen-sione temporale della sua trasmissione di generazione in generazione, salvo prendere corpo nel reale nell’atto mede-simo della propria esecuzione. È, infine, disponibile a venire contaminato, non ‘capitalizzando’ i propri risultati, ma per-dendoli subito dopo ciascuna manifestazione, mantenendo-li in vita solo nella memoria che arricchiscono.

L’agire tattico, la guerriglia, si fonda quindi sulla media-zione svolta dalla memoria tra un’iniziale rarefazione di energia e una finale moltiplicazione degli effetti, attraverso l’esplosione del sapere accumulato nell’attimo stesso in cui si presenta l’occasione: “la coincidenza fra la circonferenza indefinita delle esperienze e il momento puntuale della loro ricapitolazione sarebbe dunque il momento teorico dell’oc-casione. […] Da sempre l’occasione dà lo sgambetto a qual-siasi definizione, poiché non è isolabile da una contingenza né da un’operazione particolare. Non è un fatto dissociabile dallo stratagemma che lo produce. Inscrivendosi in una se-rie di elementi, essa ne distorce i rapporti” (IQ, pp. 132-33).

Scrivendo a proposito degli stratagemmi propri di un’arte del racconto, De Certeau identifica nella loro natura pratica l’“arma assoluta, quella che assicura a Zeus la supremazia sugli dei. È un principio di economia: col minimo di energia si ottiene il massimo risultato” (IQ, p. 132). Lo schema con cui il gesuita sintetizza il meccanismo tattico dello strata-gemma, parte da una iniziale condizione di scarsa energia, per sopperire alla quale si rende necessario un certo inve-stimento di sapere-memoria, che a sua volta fa sì che il tempo impiegato per portare a segno il colpo sia inversa-

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mente proporzionale alla quantità di esperienza accumulata in precedenza. Il cerchio si chiude con la constatazione che più si è pronti a sfruttare il kairos, più incisivi saranno gli ef-fetti prodotti dallo stratagemma (IQ, p. 132).

Un luogo, visibile e definito, viene così modificato e di-storto dal risultato altrettanto visibile ottenuto dal colpo portato da una memoria invisibile, la cui azione si concentra nell’attimo dell’occasione propizia, passata la quale essa ri-torna a una dimensione esclusivamente temporale.

Rispetto al Luther Blissett Project, il sistema di luoghi in cui si decide di condurre la propria ‘guerriglia’ è, chiara-mente, quello dell’intero panorama culturale, dall’arte alla comunicazione di massa. Il sottobosco in cui ci si muove, invece, è rappresentato da un lato dall’opacità del quotidia-no, sfruttando i margini di manovra che esso consente, dal-l’altro dal mondo della produzione underground di libri, musica, fanzine e fumetti. In un simile sottobosco Luther si ritira, ma non con l’obiettivo di restarvi confinato, bensì con lo scopo di studiare il ‘nemico’, attendere il momento pro-pizio e, quindi, balzare allo scoperto portando i propri colpi nel modo più efficace possibile, con l’obiettivo di pubbliciz-zare la fama di Blissett e, al contempo, détournare le più va-ste porzioni possibili di cultura.

Nella propria cassetta degli attrezzi, oltre alle esperienze dei movimenti anti-artistisici, Luther ha un ampio bagaglio di tecniche, utilizzate durante il secolo scorso nei contesti più svariati. Mi riferisco a un vasto repertorio di “pratiche che hanno tentato e tentano di produrre effetti sovversivi attraverso interventi nei processi comunicativi”,2 che vanno dallo sniping, tecnica di straniamento dei contenuti di insegne,

2 AA.VV., Handbuch der Kommunikationsguerrilla. Jetzt helfe ich mir selbst (1997), trad. it. di Mirna Campanella e Elena Modolo, Comunicazione-guerriglia. Tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all’oppressione, Roma: DeriveApprodi, 2001, p. 40.

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monumenti o manifesti, al cosiddetto billboard banditry, ri-volto in particolare contro i cartelloni pubblicitari; dal sub-vertising, che stravolge il senso delle usuali strategie promo-zionali del marketing, al collage e al montaggio di matrice dadaista; dal camouflage al crossdressing per arrivare a beffe colossali ai danni dei mezzi di informazione. Tutte pratiche che, in qualche modo, spiazzano nella forma e nel contenu-to i messaggi trasmessi, metaforicamente ‘appropriandose-ne’ e, spesso, mettendone a nudo le contraddizioni e le ipo-crisie. Introducendo nel flusso abituale della comunicazione variabili irridenti, gratuite e creative, lontanissime dalle ca-noniche esigenze di funzionalità e produttività.

È in un simile contesto che Luther Blissett elabora la propria ‘guerriglia culturale’, alla cui pratica contribuiscono due momenti differenti: quello della guerriglia mediatica e quello della cosiddetta comunicazione-guerriglia. Si tratta di due ‘stili di combattimento’ differenti, il primo basato sullo sfruttamento tattico della pervasività, delle logiche e dei meccanismi celibi dei mezzi di comunicazione di massa, il secondo sulla diffusione ‘in positivo’ del proprio messaggio, che attraverso una molteplicità di canali – per lo più appar-tenenti al mondo delle produzioni indipendenti e under-ground – contestualizza, pubblicizza e storicizza le azioni compiute. È, ancora una volta, il medesimo Luther Blissett a darne conto, definendo guerriglia mediatica “metodo omeo-patico di difesa dall’ingerenza/presenza dei media nell’im-maginario collettivo e nella nostra vita” (TP, p. 31). Utilizza-re i media per diffondere la propria immagine, rifiutare ogni residua passività per darsi, invece, alla ‘costruzione’ attiva e consapevole delle notizie, gettando ai giornalisti esche troppo appetitose perché sia possibile dir loro di no, e quin-di portare alla luce il carattere simulacrale delle verità veico-late ogni giorno da radio, stampa e televisione: tutto questo è guerriglia mediatica, ovvero una “pratica ludica che esorciz-

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za in quanto tale la disinformazione esercitata dai mass media e ne ridimensiona ai nostri occhi il potere. […] Essa è la realizzazione di un gioco all’inganno reciproco, una for-ma di cooptazione dei media in una trama impossibile da cogliere e da comprendere, una trama che fa cadere i mass media vittime della loro stessa prassi. Pura arte marziale: usare la forza (e l’imbecillità) del nemico rivolgendogliela contro” (TP, p. 24).

Un agire puramente tattico, insomma, alla cui base si trova la profonda conoscenza di un ‘territorio’ costituito dai meccanismi che regolano il funzionamento dei media, a cominciare dall’attrazione di questi per ciò che è ‘strano’, insolito, misterioso, per non dire perverso o indecente. Un fattore che, per il progetto, gioca un ruolo decisivo, rendendo possibile l’elaborazione di ‘colpi’ che sfruttano tale curiosità come occasione per richiamare l’attenzione dei giornalisti. D’altra parte, non si tratta d’altro che della ‘pulsione scopi-ca’ che muove l’etnografo illuminista descritto da Detienne,3 o il Robinson Crusoe di Defoe, attirato e turbato al tempo stesso dalla presenza di una traccia che appartiene all’‘altro assente’. Per suscitare l’attenzione dei media, allora, occorre disseminare tracce, agire concretamente nel reale e nel quo-tidiano e gettare l’esca, dando il via alla catena di interpre-tazioni e contro-intepretazioni. È fondamentale, però, che almeno l’esca iniziale sia tangibile e osservabile da parte degli operatori dell’informazione, costituendo il nucleo veri-ficabile della notizia. Chi partecipa al progetto, assumendo l’identità di Blissett, lo fa quindi agire nel reale ‘prestando-gli’ il proprio corpo, facendo sì che la creatura concepita per essere mito non rimanga reclusa nell’ambito del fantastico, ma si sovrapponga alla realtà, incidendo in essa attraverso un processo di ‘incarnazione’ nei partecipanti, rendendo

3 Marcel Detienne, op. cit., p. 32.

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indistinguibile, come avviene con i miti tradizionali, il con-fine tra le dimensioni del reale e dell’immaginario.

Per scoprire il fianco dei media, per capire dove affondare i colpi e cogliere il momento opportuno, è necessario un calcolo preciso delle condizioni che si presentano di volta in volta, al fine di comprendere con la maggior esattezza pos-sibile dove posizionare l’esca, in modo che il giornalista di turno sia convinto “di avere il controllo assoluto sul mate-riale a disposizione […] crede[ndo] di esserci arrivato da so-lo” (TP, p. 30). Inoltre, per selezionare adeguatamente il tipo di traccia da lasciare, viene messo in atto un meticoloso stu-dio del sistema informativo locale, mix di stampa istituzio-nale, canali di comunicazione underground, circoli e salotti.

Allo studio meticoloso del territorio, dunque, segue l’in-dividuazione della falla, dell’occasione da sfruttare a proprio vantaggio, che di solito gioca con quegli argomenti che atti-rano in modo quasi irresistibile la stampa, ingolosita di volta in volta da macabri ritrovamenti, presunti riti di magia nera, misteriose sparizioni di eccentrici esponenti del mondo dell’arte radicale. In questo modo i media, messi di fronte all’apparente evidenza di notizie vendibili e pruriginose, reagiscono mettendo in moto un complesso meccanismo fatto di inchieste, sondaggi e reportage, che spesso inter-pretano il fenomeno avvalendosi del supporto di esperti, che con la pretesa di analizzare i fatti, inquadrandoli entro spiegazioni accettabili, contribuiscono a fomentare e a dif-fondere teorie, definizioni e letture che, con i loro oggetti, non hanno nulla a che vedere. Accanto a questo vorticoso susseguirsi di interpretazioni, che costruiscono una sorta di ‘impalcatura simulacrale’ fondata su fatti di per sé falsi, ini-ziano a circolare voci, dicerie e sussurri, che viaggiano di bocca in bocca amplificando l’eco delle vicende, arricchen-dole di elementi ben al di là delle azioni materialmente compiute da chi, col nome di Luther Blissett, dà il via

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all’intera concatenazione di eventi, che in più di un’occa-sione si riproducono in modo autonomo rispetto al detta-glio iniziale con cui tutto è cominciato. A loro volta, i gior-nalisti sfruttano la ridda di dicerie non verificabili per soffia-re ancor più sul fuoco, fino a edificare vere e proprie realtà simulacrali, nelle quali il confine tra vero e falso si fa sempre più sfumato, alimentando leggende che sovente valicano i confini locali per diffondersi sull’intero territorio nazionale.

A questo livello, tuttavia, simili beffe resterebbero fini a se stesse, niente più che divertenti trovate per chi le ha ideate e misteriose storie per chi le ha diffuse o vi è incap-pato, sospese nello sconfinato limbo delle tante notizie stra-vaganti che occupano per un certo periodo le pagine dei giornali, salvo sparire una volta esaurito il loro potenziale di notiziabilità. È per questo motivo, quindi, che diventa fon-damentale un passaggio successivo: quello della rivendica-zione, ossia della ‘firma’, da parte di Luther Blissett, che ar-riva nelle redazioni di giornali e televisioni quando l’atten-zione sulle vicende da lui stesso innescate è all’apice. In questi comunicati Luther non si limita a dichiararsi autore delle beffe in questione, ma punta il dito sulla poca accura-tezza dimostrata dagli organi di informazione nel vaglio e nella verifica delle fonti, mettendo in ridicolo le interpreta-zioni più deliranti e, più di una volta, spostando l’attenzione su tematiche marginali o normalmente poco presenti nei palinsesti quotidiani. Inoltre, è evidente come anche la sola pratica di simili tecniche, di cui vengono svelati i retroscena, suggerisca in modo esplicito un uso alternativo dei mezzi di comunicazione, dei quali vengono messi in luce i meccani-smi. Spesso, nel rivendicare le proprie azioni, Blissett ‘si mostra’, invita a partecipare al progetto, si dichiara nel suo essere contenitore vuoto, dice il suo non avere segreti, il suo essere pura presenza, oppure ritrae se stesso nelle vesti più stravaganti, attribuendosi scopi seri o strampalati, affer-

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mando tutto e il contrario di tutto, senza che nessuno di questi ritratti possa considerarsi inautentico. I media, dal canto loro, danno spazio a queste rivendicazioni, indagando e approfondendo il ‘caso Blissett’ alla ricerca di verità che, come si è visto, finiscono inevitabilmente col trovare, senza tuttavia riuscire a esaurire né a decodificare il progetto, trat-tandosi né più né meno di ulteriori versioni del mito, desti-nate a essere spiazzate da altre performance del nome mul-tiplo. Inoltre, tali letture non fanno altro che ripetere ciò che lo stesso Luther scrive di se stesso tra le righe di altre riven-dicazioni, tra le pagine di svariate pubblicazioni, nel corso di programmi radiofonici, in un ossessivo gioco di specchi che assume i contorni di un’intricatissima trama che pare celare misteriose cospirazioni. Di fatto, contribuendo all’unico obiettivo che sta a cuore a Blissett: diffondersi nel reale, esplodere nel mainstream.

Così, tra il 1994 e il 1999, le apparizioni di Luther si mol-tiplicano in modo quasi esponenziale, parallelamente alle letture di cui viene fatto oggetto, diffondendo la sua fama di ‘terrorista mediatico’ al punto tale che egli si vede attribuire azioni che nessuno degli aderenti al progetto aveva mai messo in pratica, né tanto meno rivendicato: “tanto per esemplificare il potere di suggestione che una leggenda, un mito, può esercitare, è sufficiente rivelare che alcune delle più clamorose beffe di Luther Blissett ai danni dei media non sono mai state rivendicate da Luther Blissett e in alcuni casi non sono mai state progettate come tali, ma sono state attribuite al Multiplo dagli stessi operatori dei media. La paura di cadere in una trappola di Blissett è stata in alcune occasioni così forte da far gridare al lupo! anche quando del lupo non c’era traccia. Pura arte marziale: quando l’avversa-rio diventa il nemico di se stesso, quando metti a segno un colpo senza muovere un dito, allora sai di avere la vittoria in tasca” (TP, pp. 34-35).

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Attraverso la prassi della ‘guerriglia mediatica’, chi parte-cipa al progetto gioca dunque con il potenziale dei media, ne sfrutta le debolezze al momento opportuno, produce l’effetto di pubblicizzare la fama del nome multiplo e, poi, torna nell’ombra senza capitalizzare i risultati, lasciando il campo al mistero: un agire tattico che permette al mito di Luther Blissett di prendere sempre più piede, di sovrapporsi in più punti al reale e di assumerne via via la consistenza, guadagnando alla sua reputazione un peso specifico cre-scente apparizione dopo apparizione, beffa dopo beffa, azione dopo azione. Con il nome multiplo vengono firmate molteplici manifestazioni, che tuttavia rimangono irriduci-bili a un’unica teoria, a un’identità che ne definisca un mo-dus operandi individuabile una volta per tutte. Luther sfrut-ta l’occasione nel preciso luogo e istante in cui essa si pre-senta, ma la stessa natura fluida che lo caratterizza impedi-sce che tali esperienze rappresentino qualcosa di più che varianti di un racconto, versioni locali di un mito, ricordi di una memoria che si riattualizza solo nell’istante medesimo della sua esecuzione pratica. Dunque da un lato Luther ri-mane rigorosamente ‘assente’, e dall’altro moltiplica la pro-pria presenza utilizzando la capillare pervasività dei media, attraverso i quali diffonde le proprie spore. Di azione in azione, Blissett diventa più ambiguo; di apparizione in ap-parizione, si rende più famoso e partecipato; più viene ‘pra-ticato’, più affina le proprie tecniche; più è pronto a cogliere le occasioni che gli si presentano, più ‘devastanti’ sono gli effetti del suo agire. Luther Blissett diviene in tal modo vera e propria ‘memoria collettiva’, sapere tecnico e fluido di-sponibile a essere contaminato, costruendosi come un co-stante accumulo di singoli racconti, episodi che non vengo-no (e non vanno) letti alla luce di una verità superiore o oc-cultata, ma solo per quello che sono, ovvero versioni di un unico mito, che costituiscono il patrimonio di esperienze

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pratiche che, secondo le parole di De Certeau, ‘fanno ciò che dicono’. Solo così, infatti, la memoria mantiene una mobilità che la dispone a ulteriori, potenziali usi, che a loro volta le garantiscono un’infinita vitalità.

È a questo punto che entra in scena la seconda compo-nente della guerriglia culturale prevista dal Luther Blissett Project: la comunicazione guerriglia. Come si è scritto in pre-cedenza, si tratta di una serie di attività complementari ri-spetto a quelle annoverabili come guerriglia mediatica, ser-vendosi non dei media mainstream, ma dei canali tradizio-nali del sottobosco underground, sempre allo scopo di dif-fondere e ‘storicizzare’ il verbo blissettiano. Attraverso un vasto panorama di pubblicazioni, manifesti, fanzine, riviste, programmi radiofonici, e, non ultimo, uno sconfinato sito-archivio, la memoria del progetto viene tramandata, aggior-nata e contaminata. Molti dei testi diffusi tramite questi ca-nali hanno l’aspetto e le funzioni di vere e proprie ‘cassette degli attrezzi’, tra i cui scomparti le azioni del Luther Blis-sett Project vengono ricostruite e contestualizzate sotto forma di racconti, con un prologo che introduce la vicenda e fornisce dettagli tecnici riguardo il modo in cui è stato pre-parato lo scenario dell’azione, e un’estesa rassegna stampa, spesso integrata da chiose sarcastiche che ridicolizzano la dabbenaggine dei giornalisti.

Si tratta quindi di tante, singole storie, il cui senso deriva dal loro accumularsi e susseguirsi, in un flusso fatto di mo-menti che costituiscono, legittimamente, molteplici sfuma-ture del medesimo mito, che li arricchisce e trascende allo stesso tempo. Sono ciò che De Certeau definisce ‘racconti’, e, di conseguenza, uniscono indistintamente pratica e teo-ria, mostrando come e cosa ‘si può fare’ entro un sistema di luoghi propri, in questo caso rappresentato dai media, senza astrarre alcun precetto dal contesto della loro esecuzione. Non a caso, non vi è alcuna censura né separazione tra gli

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articoli di giornale, nessuna divisione tra interpretazioni corrette o scorrette: tutte contribuiscono all’evoluzione del progetto, e tutt’al più possono essere fatte oggetto di diver-titi sberleffi da parte di chi, con il nome di Luther, raccoglie scrupolosamente il materiale che lo riguarda. Luther Blissett assume pertanto la forma di memoria aperta, fatta di episo-di privi di un cardine centrale, la cui dinamicità la manten-gono viva e riutilizzabile dall’eventuale lettore, in virtù di una natura pratica che rifiuta di essere confinata negli ambi-ti specialistici dell’arte o della letteratura. Nessuna pretesa artistica, nessuna astrazione teorica: quello di Blissett è un sapere tecnico, da condividere e utilizzare nel quotidiano quando se ne presenti l’occasione.

La prassi della ‘comunicazione guerriglia’, però, non si compone soltanto delle ricostruzioni delle beffe elaborate da Blissett, ma di un ampio spettro di attività, che copre le più classiche campagne di contro-informazione, la pubbli-cazione di riviste, fumetti e sticker, il cinema, la musica, il teatro e la deriva psicogeografica, in un continuo susseguirsi di azione e comunicazione. Chi partecipa al progetto agisce con il nome di Luther nel quotidiano, spiazzandone i luoghi, riappropriandosene, contribuendo a evolverne la memoria e, quindi, pubblicizzando le performance. In questo modo la fama di Blissett cresce, i racconti delle sue gesta si diffondo-no, il repertorio delle sue tecniche si arricchisce e i media, dal canto loro, si trovano dinnanzi a un’immensa quantità di materiale, alla cui espansione finiscono col contribuire. 5.3 Le beffe

Non rimane ora che concentrarsi sulle manifestazioni con-crete di Luther Blissett. Inutile premettere, evidentemente, che una classificazione dell’intero corpus di materiali che lo riguarda risulterebbe impossibile. Meglio selezionare, allora,

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solo alcune delle sue molteplici epifanie, scegliendo quelle che meglio mettono in luce il modus operandi del progetto, facciano esse parte della ‘guerriglia mediatica’ o della ‘co-municazione guerriglia’. Procedendo con ordine, un buon punto di partenza è costituito dalle sue celebri ‘beffe’. Dal Resto del Carlino, ediz. nazionale, giovedì 19 ottobre 1995:

Allarmante missiva al nostro giornale fa scattare le indagini

HO L’AIDS, INFETTO PER VENDETTA

L'autrice della lettera: sono un’ex studentessa costretta a prostituirsi a Bologna

Sono una ragazza di 24 anni, nata in una città del nord Ita-lia, da una famiglia normale. Fino a poco tempo fa la mia vita era quella di tutti i ragazzi della mia età: frequentavo l’università con discreto profitto, nella mia vita avevo sem-pre pensato di fare la giornalista. Due anni fa a causa di un incidente stradale, cui era seguito un ricovero in ospedale, subii una trasfusione di sangue. Dalle analisi seguenti risul-tò che ero affetta dal virus HIV. Poiché il mio tipo di vita era sempre stato normale, ben lontano da comportamenti a ri-schio (tossicodipendenza, rapporti occasionali) ho dedotto, e il decorso della malattia lo ha confermato, di essere stata oggetto di una trasfusione di sangue infetto. Questa scoper-ta ha sconvolto la mia vita e quella dei miei familiari, che hanno rifiutato questa situazione. Mi sono rivolta alle strut-ture pubbliche che, anche se erano la causa del mio male, non hanno fatto nulla di pratico per aiutarmi. A questo punto ho subito un forte esaurimento nervoso, da cui mi sono risollevata soltanto quando ho individuato il modo per sfogare la mia rabbia/disperazione verso la società, colpevo-le di avermi infettato e RIFIUTATO. Mi sono trasferita qui a Bologna, dove non mi conosceva nessuno e ho cominciato a

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prostituirmi, ricevendo i clienti nel mio appartamento in centro. Questa attività mi permette di aver denaro a suffi-cienza per curarmi e per mantenere un buon tenore di vita ma soprattutto mi consente di scaricare almeno parte della mia rabbia. Infatti da circa un anno ho deciso di utilizzare, nei rapporti con i clienti, preservativi da me precedente-mente forati in modo da trasmettere il virus a queste perso-ne abbiette che non trovano niente di meglio che pagare una ragazza per i loro piaceri. Nell'ambiente ho saputo che questa abitudine è assai più diffusa di quanto pensassi. Questo mi ha aperto gli occhi, e per questo forse mi sono convinta a scrivere ad un giornale diffuso come il Resto del Carlino, per far sì che altre persone non debbano passare quello che ho passato io, provando il dramma di scoprirsi infettati dall'AIDS. Scusandomi poiché non mi firmo per in-tero, sarà facile capire il motivo di questa mia scelta. L.B. Ecco un esempio di ‘guerriglia mediatica’, che rielabora una celebre leggenda metropolitana4 diffusa alla metà degli anni Ottanta. Nella Bologna del 1995, fu Luther Blissett ad ap-propriarsene e arricchirla di una nuova variante, sfruttando tecniche che avrebbe utilizzato in molte altre performance.

Il terreno sul quale giocare questa partita gli era noto fin nei dettagli. La colonna bolognese del progetto, infatti, co-nosceva molto bene l’abitudine del Resto del Carlino di pub-blicare, spesso in forma anonima, lettere intime e confes-sioni dei lettori, “descrizioni stereotipiche del disagio socia-le”5 sulla base delle quali le chiose degli esperti e i pezzi dei giornalisti dipingevano spaccati della società, con cui il

4 Si veda, per esempio, Paolo Toselli, Storie di ordinaria falsità. Leg-gende metropolitane, notizie inventate, menzogne: i falsi macroscopici rac-contati da giornali, televisioni e Internet, Milano: Bur, 2004, pp. 67-69.

5 Comunicato del 20 ottobre 1995, disponibile online nel sito <www. lutherblissett.net>.

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giornale vantava un canale diretto. A quanto è lo stesso Blissett a scrivere, tali confidenze avevano un carattere spesso lacrimevole, descrivendo casi la cui drammaticità o la cui extra-ordinarietà li rendevano particolarmente appetibili e notiziabili da parte del quotidiano, tanto da rendere plau-sibile il sospetto che, se non di falsi, fossero il frutto della totale mancanza di attenzione riservata dai redattori alla ve-rifica delle fonti, nonché di un’assoluta assenza di scrupoli. Individuato così il punto debole su cui puntare, Luther colse l’occasione per rimettere in circolo la vecchia leggenda, con-fezionandola in modo tale da risultare irrinunciabile agli oc-chi del giornale, attratto da una vicenda i cui argomenti ri-spondevano a tutti i requisiti di bizzaria, scabrosità e mor-bosità richiesti da un lato per stimolare l’interesse dei letto-ri, dall’altro per dare il via alla consueta giostra di interpre-tazioni pseudopsicologiche. Le previsioni di Luther Blissett si rivelarono tutte fondate: la lettera arrivò in redazione, e, come certifica l’articolo (riportato integralmente), venne immediatamente pubblicata, con ampio corredo di com-menti da parte di sociologi, grafologi, infettologi e crimino-logi. Così, per qualche giorno, le pagine del Resto del Carlino ospitarono ipotesi e analisi, che fomentarono il diffondersi della notizia e la conseguente ondata di allarmismo, ali-mentando dibattiti sulla base di un episodio dalla consi-stenza puramente simulacrale. La tensione crebbe per qual-che tempo, e nessuno sembrò accorgersi che, in calce alla lettera, Luther Blissett aveva apposto le proprie iniziali, for-nendo un indizio che, gli fosse stata prestata un po’ d’atten-zione, avrebbe rivelato fin da subito il vero autore della mis-siva, considerato che, già da un anno, le sue manifestazioni si moltiplicavano nel bolognese e dintorni. In ogni caso, una volta raggiunto l’apice del clamore e dello scandalo, pun-tuale giunse in redazione la rivendicazione della beffa da parte di Blissett, che non si limitava a svelare il falso, ma

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puntava il dito contro la dabbenaggine del quotidiano, ac-cusato di pubblicare senza la minima accortezza qualsiasi notizia, pur di mettere in scena rappresentazioni della realtà che assecondassero le posizioni della testata su politica e società. In altri termini, veniva messo a nudo il meccanismo celibe in base al quale, quotidianamente, la realtà viene prodotta ex novo, a partire da operazioni di tipo scritturale: “L'ipotesi di Luther è che non siano false solo le […] lettere [della ragazza], ma anche molte di quelle normali, opera di un vero e proprio antitrust di cervelli interno al giornale dell'Emilia, che ha il compito di CREARE gli umori e le fru-strazioni della gente... Sarà per questo che appena ricevono una lettera vera la incorniciano e ci imbastiscono sopra un affaire sproporzionato? Ma la cosa più importante è che il gioco continua, chiunque può INVENTARSI i nuovi scoop del Carlino per i prossimi giorni: basta aver letto qualcosina sulla grafologia (qualsiasi libro di Klages va bene), stare at-tenti a battere i refusi giusti, inanellare con accortezza i giu-sti luoghi comuni”.6

Attraverso questa e tante altre beffe, Luther non solo evidenziava quanto le pretese di veridicità e aderenza al reale del giornale si riducessero a poco più che illusioni, ma suggeriva esplicitamente un modo alternativo e ‘paritario’ di rapportarsi ai media, dei quali diveniva possibile ‘appro-priarsi’ attraverso la costruzione attiva e consapevole degli scoop destinati a occuparne le pagine. Inoltre, egli accresce-va e propagava la propria fama di terrorista culturale, ser-vendosi sia dei giornali che cadevano nelle sue trappole – i quali, una volta ricevuta la sua rivendicazione, la utilizzava-no come spunto per ulteriori approfondimenti circa l’iden-tità di Blissett, evidentemente a tutto vantaggio dello stesso Blissett – sia delle rielaborazioni fatte circolare dai parteci-

6 Ibidem.

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panti al Luther Blissett Project. Uno schema, questo, utiliz-zato in molti contesti e con numerose varianti, ma comun-que riassumibile come segue: un’azione nel reale stimola l’attenzione dei media, disseminando esche tangibili ma fit-tizie sulle cui basi vengono costruite complesse quanto fan-tasiose esegesi; queste, fondandosi su prove e assunti privi di referenti concreti, finiscono con l’alimentare la produzio-ne di simulacri, confluendo in un magma indistinto di co-municazione e metacomunicazione; rispetto a esso, la ‘fir-ma’ di Blissett, sotto forma di rivendicazione delle beffe, produce il triplice effetto di mettere a nudo i meccanismi autorefernziali che spesso regolano la condotta dei media, diffondendo la notorietà del nome multiplo e suggerendo possibili usi alternativi dei mezzi di comunicazione. Con-clude la sequenza la successiva messa in forma narrativa dei materiali che hanno contribuito alla buona riuscita della beffa, che in tal modo divengono essi stessi componenti di un’unica memoria mitica, dalla quale chiunque può attinge-re e che chiunque può contaminare.

Ne costituiscono una testimonianza due episodi che, estrapolati dal corpus blissettiano e sintetizzati, ritraggono Luther nelle vesti di provocatore e ‘terrorista mediale’.

La nascita dell’Orrorismo

Tra la primavera e l’estate del 1994, alcuni giornali bologne-si, tra i quali spicca ancora Il Resto del Carlino, si videro re-capitare una gran quantità di lettere indignate, vergate da cittadini scandalizzati dai continui, macabri ritrovamenti di interiora animali alle fermate degli autobus, nei parchi pub-blici, nei parcheggi e in molti altri luoghi della loro città. Tra gli autori delle missive, c’era addirittura chi sosteneva di es-sere stato testimone della truculenta performance di un gio-vane attore teatrale, che, in pieno centro storico, avrebbe inscenato un violento attacco di convulsioni, gettandosi a

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terra e lasciando scivolare dalla propria camicia sbottonata un sanguinolento intestino di vitello: nacque così “il feno-meno che i giornalisti battezzeranno Orrorismo” (TP, p. 25), con l’ampio coinvolgimento di noti docenti di storia dell’arte, sociologi e psicologi. Il dibattito sul senso da attri-buire ai ritrovamenti si protrasse per settimane, così come le ipotesi sui possibili precedenti e i tentativi di comprenderne e spiegarne il potenziale valore artistico, il tutto mentre continuava incessante il flusso di lettere nelle redazioni, che arricchivano la vicende di sempre nuovi dettagli e sfumatu-re. Naturalmente, col passare del tempo l’Orrorismo di cui parlavano i giornali assunse contorni via via più definiti, ma, proprio nel momento in cui sembrava essere stata trovata una chiave di lettura accettabile, che inquadrava le sue tru-culente manifestazioni nell’ambito dei movimenti artistici più radicali, arrivò da parte di Blissett l’improvvisa e impla-cabile rivendicazione: in un comunicato stampa si svelava che il cosiddetto Orrorismo non era mai esistito, e che le uniche azioni effettivamente compiute erano state la per-formance dell’attore e l’abbandono di qualche scarto di ma-celleria in un parco pubblico. Le stesse decine di lettere dei presunti cittadini indignati si rivelarono una montagna di falsi, scritti e spediti dagli orroristi medesimi: insomma, al-l’elaborazione di una ‘teoria orrorista’ avevano pensato solo ed esclusivamente i giornali. “Prova generale di sistema: quello che puoi fare con qualche francobollo e un passaggio in macelleria”. (TP, p. 25) Messe nere a Viterbo

Prendendo spunto da casi di cronaca che avevano suscitato vere e proprie ondate di panico morale, tra il 1996 e il 1997 la colonna laziale del Luther Blissett Project architettò una colossale e articolatissima beffa, basata sui turpi riti cui mi-steriose congreghe avrebbero dato vita nelle campagne del

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viterbese. Tutto ebbe inizio quando una serie di telefonate anonime e criptici messaggi murali misero sull’avviso le for-ze dell’ordine, che, nel corso di alcuni sopralluoghi, tra bo-schi e chiese sconsacrate rinvennero presunti resti di messe nere, di fatto paccottiglia accuratamente disseminata da Lu-ther Blissett medesimo. Nel frattempo venne coinvolta an-che la stampa locale, alla quale fu recapitata una gran quan-tità di lettere firmate da cittadini che, oltre a segnalare con dovizia di particolari ulteriori tracce del passaggio dei sata-nisti, annunciavano la fondazione di un ‘comitato per la sal-vaguardia della morale’. La tensione crebbe di mese in me-se, giungendo al culmine quando un anonimo videoamato-re spedì ad alcuni telegiornali regionali e a Studio Aperto una videocassetta contenente un filmato girato di nascosto du-rante un consesso satanista, cui subito venne dato ampio risalto mediatico, con tanto di violenta condanna nei con-fronti di quel poco che si intuiva dal video. Sì, perchè in ef-fetti la registrazione non mostrava quasi nulla: le riprese erano mosse e lo schermo quasi sempre nero, e solo a tratti appariva un lumicino in lontananza, mentre in sottofondo si poteva intuire una cupa cantilena in latino, drammatica-mente interrotta dalle grida disperate di una ragazza. Ma tant’è, i tg non si posero troppe domande e mandarono in onda il filmato, anche perché questo era accompagnato da un verosimile quanto accorato messaggio dell’autore, che, fra l’altro, si scusava per la scarsa qualità delle immagini, imputabile alla necessità di tenersi sufficientemente a di-stanza per timore di essere scoperto. Tuttavia, passata una settimana dalla trasmissione del video, ecco la svolta: TV7, settimanale del Tg1 condotto da Gianluca Nicoletti, mostrò lo stesso filmato, ma con un’integrazione: “gli ingredienti sono gli stessi: buio, lumicino, cantilena, urla. Ma la teleca-mera si avvicina sempre di più, fino a entrare nella piccola costruzione, dove sta avendo luogo la messa nera: ci sono

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alcune figure incappucciate, intorno a un fuoco. D’un tratto si tolgono i cappucci e si gettano in una sfrenata tarantella, mostrando un poster di Luther Blissett” (TP, p. 27). Insom-ma, nel corso della trasmissione fu svelata l’intera architet-tura della beffa, e venne fuori che tutte le lettere, i messaggi sui muri, lo stesso ‘comitato per la salvaguardia della mora-le’, naturalmente oltre ai resti delle presunte messe nere, erano tutti falsi firmati Luther Blissett. Come si è scritto, queste e innumerevoli altre beffe vengono rielaborate dallo stesso Luther, che nelle sue pubblicazioni e nel sito ricostruisce il contesto delle vicende, riportando scrupolosamente tutti gli articoli che se ne sono occupati, corredati da chiose e commenti che, non censurando mai alcuna intepretazione, per quanto bizzarra o strampalata possa essere, vengono utilizzati per armonizzare l’etero-geneo materiale raccolto, riorganizzato in una molteplicità di racconti brevi. La loro struttura e il loro contenuto evi-denziano quanto la natura fluida di Luther Blissett faccia sì che alla sua costruzione finisca col contribuire qualsiasi in-terpretazione ne venga data, e quanto la pretesa di mante-nere un posizione esterna rispetto al suo mito si riveli, una volta di più, illusoria. 5.4 Comunicazione-guerriglia: i libri e il sito

Catalogare l’insieme delle manifestazioni blissettiane è im-presa ardua anche per lo stesso Blissett: “non finiamo mai di sorprenderci di fronte all’allungarsi del curriculum e al-l’arricchirsi dell’opus di Luther. Un calcolo ottimistico po-trebbe rivelarci che solo il 40% della produzione blissettiana è stato affidato a supporti cartacei durevoli come libri o rivi-ste” (TP, p. 45). D’altra parte, è di fatto impossibile preten-dere di fissare entro coordinate definite le eterogenee epifa-

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nie di un’esperienza destinata, per sua stessa natura, a sfuggire a qualsiasi classificazione.

Non si può, però, trascurare l’importanza che per Luther ha rivestito l’attività di costante auto-storicizzazione, perse-guita attraverso radio, fanzine, riviste, newsletter e, soprat-tutto, libri e siti internet, organizzati in base a caratteristiche che ne fanno strumenti decisivi per chiunque desideri avvi-cinarsi al progetto.

Il riferimento va in particolare a Mind Invaders, pubblica-to da Castelvecchi nel 1995; a Totò, Peppino e la Guerra Psi-chica, edito nel 1996 per i tipi di AAA, e alla sua versione 2.0 pubblicata da Einaudi; all’enorme sito-archivio LutherBlis-sett.net. Ovviamente, le pubblicazioni che a vario titolo si sono focalizzate sulla ‘creatura multipla’ sono molte di più, tra quelle scritte e curate da Luther Blissett medesimo, quel-le che sulle sue imprese hanno dibattuto, quelle alla cui ste-sura ha partecipato, quelle che ha plagiato e quelle, infine, che ha scritto sotto forma di ‘falsi’. Tuttavia, il sito e i libri citati hanno un’organizzazione che sembra riflettere la na-tura stessa della memoria blissettiana: privi di un cardine centrale da un punto di vista concettuale e narrativo, si strutturano in base al continuo accostamento del materiale, suddiviso in tanti comparti monotematici. Nel flusso etero-geneo dei contenuti che vi confluiscono, compaiono i rac-conti delle azioni di ‘guerriglia mediatica’, i manifesti, i vo-lantini, le descrizioni di performance teatrali o psicogeogra-fiche, gli sticker, le immagini, le riletture di libri e film: cia-scuno elemento delinea un tratto in più della sfuggente fi-sionomia di Blissett.

I libri e il sito-archivio assumono pertanto l’aspetto di ve-ri e propri ‘gorghi’, entro cui viene risucchiata indistinta-mente una parte significativa di ciò che contribuisce a evol-vere e ad arricchire la memoria di Luther, e, pur non poten-dola esaurire, ne mostrano molteplici manifestazioni. Da un

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lato, quindi, tanto il sito quanto Mind Invaders e Totò, Peppi-no e la Guerra Psichica svolgono la funzione di ‘cassette degli attrezzi’, mostrando come sia possibile ‘praticare’ i luoghi più disparati, offrendo contenuti organizzati in brevi rac-conti e non in astratti saggi teorici, perché possano a loro volta essere rivissuti e contaminati. Dall’altro, invece, essi assumono le sembianze di grandi ‘stanze degli specchi’, in cui l’immagine distorta di un unico soggetto viene riflessa su tutti i lati, senza che mai compaiano le stesse fattezze, in un gioco di continue metamorfosi nel quale non c’è alcun originale a cui far risalire le infinite deformazioni.

Più nello specifico, Mind Invaders è definito nel sottotito-lo Manuale di guerriglia e sabotaggio culturale, e tra i nove ca-pitoli di cui è composto si affrontano temi legati alla mito-poiesi e agli scopi del progetto, all’uso del multiple name e alle tecniche di ‘guerriglia mediatica’, trattati in forme che vanno dall’intervista, al saggio, al racconto. Si tratta di una delle prime forme di auto-storicizzazione di Luther Blissett, che fornisce dettagli anche circa le origini del titolo, ispirato al nome che nei primi anni Ottanta venne dato a una ‘rock band simulacrale’, i cui inesistenti brani furono più volte re-censiti su riviste di settore grazie alla fama che gli anonimi autori del progetto erano riusciti a creare attorno al gruppo, limitandosi alla diffusione di false interviste, gadget e mate-riale informativo: “grazie a questa impressionante sequela di panzane e all’appoggio di alcune fanzines e di bands vere che li citavano nelle interviste o inserivano il loro nome nei credits dei dischi, i Mind Invaders ebbero i loro album im-maginari recensiti più volte – in tutta serietà – da alcune ri-viste del settore (su tutte Rockstar, che all’epoca aveva una certa importanza e diffusione)”.7

7 Luther Blissett, Mind Invaders, Roma: Castelvecchi, 1995, p. 24.

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Un’altra caratteristica del libro è la rigorosa assenza di copyright, concreta manifestazione dell’assoluta volontà di Luther Blissett di rendersi manipolabile e partecipabile da chiunque.

Privo di copyright è anche Totò, Peppino e la Guerra Psi-chica, vera e propria antologia di materiali dal Luther Blis-sett Project: “Totò, Peppino e i fuorilegge. Totò, Peppino e le fa-natiche. Totò, Peppino e la dolce vita. Totò, Peppino e la mala-femmina. Totò e Peppino divisi a Berlino. Miracoli da millesi-ma replica della copia della copia della copia più rovinata, magiche introspezioni da fondo di magazzino, esperienze medianiche dovute alla deperibilità dell’acetato di cellulosa. Totò e Peppino hanno messo radici nell’immaginario mul-timediale italiano, perfettamente a loro agio nella società dell’avanspettacolo creata dall’immagine della nostra costi-tuzione materiale. Abitano il paesaggio del mito, sono pro-tagonisti di storie ri-manipolabili, ri-decosruibili, infinita-mente replicabili fino a sfiorare il grado zero del significato. Nel corpus delle loro opere sempre più aperte, possiamo trovare tutto ciò che ci serve. […] La leggenda di Luther si è sviluppata, arricchita e deformata negli stessi anfratti e fen-diture dello spettacolo, nelle stesse pieghe e addirittura nel-le stesse fasce orarie di palinsesto occupate dai fantasmi di cui sopra. È dunque inevitabile andare a cercare consonan-ze, analogie, parallelismi, ed è bello forzare le interpretazio-ni: sfido chiunque a non leggere nella trama del suddetto Totò, Peppino e i fuorilegge un’allegoria del Luther Blissett Project!” (TP, p. 47).

Diviso in tredici sezioni, dedicate alla psicogeogrfia, alle beffe, al teatro, ai manifesti, alla radio e a molti altri settori, nel libro si ha una manifestazione tangibile del carattere eterogeneo del progetto, e gli specchi che riflettono i tanti volti di Blissett si moltiplicano, se possibile, ancor più che in Mind Invaders.

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Ma, ben più ricco di qualsiasi volume e accessibile in cin-que differenti modalità, che consentono approcci di tipo tematico, cronologico, casuale, facilitato o sonoro, il sito-ar-chivio LutherBlissett.net ingloba una serie sterminata di ma-nifestazioni di Luther Blissett, comprendendo al suo interno gli stessi Mind Invaders e Totò e Peppino, i cui contenuti sono scaricabili gratuitamente (così come tutti i materiali all’in-terno del sito). Posto che, naturalmente, neppure quest’ul-timo può pretendere di esaurire il progetto, chiunque desi-deri avvicinarvisi vi trova una tale mole di informazioni da appagare e allo stesso tempo stimolare qualsiasi curiosità, salvo correre il rischio di perdersi nella miriade di racconti, articoli, comunicati stampa, saggi, interviste, suoni e imma-gini offerti dal sito, che non presenta chiavi di lettura o inte-laiature teoriche, ampliandosi piuttosto per accumulo. Ogni manifestazione di Luther Blissett vi assume le sembianze di una scatola cinese, nella quale alle azioni (di qualunque tipo esse siano, dalla pubblicazione di un libro alla descrizione di una performance psicogeografica) seguono ‘reazioni’ – sot-to forma di recensioni, commenti o interpretazioni – che a propria volta contribuiscono ad arricchire di nuove sfuma-ture i caratteri dell’azione stessa. 5.5 Nomadismi

È proprio dai libri e dal sito a essere tratti molti dei conte-nuti riportati in questo capitolo, scelti in quanto momenti focali nel processo di costruzione del mito di Luther Blissett. Il materiale da cui sono stati attinti ha un carattere assai eterogeneo, tanto da un punto di vista formale quanto con-tenutistico, essendo stato raccolto e organizzato da Luther sia per pubblicizzare la propria fama, sia, come nel caso del-le beffe mediatiche, per mostrare la possibilità di vivere in modo ‘altro’ e creativo il territorio e i suoi luoghi, tramite

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racconti che parlano di modalità gioiose di praticare il quo-tidiano. Questo, occorre ricordarlo, passa sì attraverso una costante auto-storicizzazione, che assorbe ogni tentativo di metacomunicazione, ma si realizza innanzitutto nella pras-si, nell’azione, nella partecipazione a una memoria colletti-va che, prima di ogni altra cosa, è finalizzata al raggiungi-mento di pura e semplice gioia, al soddisfacimento intimo di ciascun partecipante, al godimento fugace e indicibile che può provare solo chi sfrutta l’occasione di ‘essere Luther Blissett’, cogliendo la possibilità di divenire parte di un ‘con-dividuo’. La comunità blissettiana è fatta di persone che scelgono di condividere esperienze ed emozioni sul ter-reno della realtà, da un lato arricchendo le molteplici mani-festazioni della ‘creatura multipla’, dall’altro sperimentando nuove e stimolanti possibilità, che gli permettono di pla-smare porzioni della loro stessa esistenza grazie a una con-dotta che si può definire ‘nomadica’. Essere Luther Blissett vuol dire farlo vivere, muovere, agire attraverso il proprio corpo, ‘incarnarne l’assenza’, scavalcare i ‘recinti’ al di là dei luoghi e delle distinzioni e, quindi, percorrere il reale con l’atteggiamento del nomade, ovvero di colui che non può che agire in modo tattico, privo di potere e preso in un con-tinuo movimento, che gli consente di appropriarsi di qual-siasi cosa, salvo perderla l’istante successivo.

La volontà di incidere in profondità il reale, il rifiuto di circoscrivere le proprie azioni entro ambiti definiti, il desi-derio di un cambiamento radicale e complessivo di un inte-ro sistema, avvicinano evidentemente il Luther Blissett Pro-ject ai movimenti che, citando Home, si sono definiti samiz-dat, e in particolare al network della mail art, al Neoismo e al Situazionismo. Di quest’ultimo, in particolare, Luther riuti-lizza e rinnova la prassi psicogeografica, riattualizzandola nel contesto delle realtà urbane degli anni Novanta, a parti-re dal presupposto dell’onnipresente diffusione di un siste-

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ma di luoghi, entro il quale ciascuno è costretto a muoversi seguendo traiettorie predefinite, che nella metropoli con-temporanea costituiscono i veri ‘recinzioni’ all’interno delle quali viene confinata l’esperienza di ciascuno: “La metropo-li postmoderna, infatti, non è più identificabile in veri e propri territori, essa è composta più che altro da traiettorie; con la crisi della cittadinanza, del territorio di diritto, l’uomo non possiede che i suoi tragitti (sempre gli stessi!), il suo diritto diventa un diritto traiettoriale. L’uomo possiede le proprie traiettorie ma non la terra su cui si sposta. […] La metropoli postmoderna è dunque una metropoli traiettoria-le, una metropoli senza luoghi, extraterritoriale, in cui agi-sce invisibilmente […] il puro comando dello spettacolo” (TP, p. 149).

È in questo contesto che si colloca l’agire tattico e noma-de di Blissett: facendo leva sulla conoscenza dei meccanismi che regolano il funzionamento delle logiche urbanistiche, li si usa a proprio vantaggio, spiazzandone il senso abituale e ‘praticandole’ al fine di costruire ‘cartografie del desiderio’, di volta in volta aggiornabili tramite la partecipazione col-lettiva di tanti Luther alla realizzazione di esperienze condi-vise e significative per l’intera comunità. Attraverso la com-partecipazione ‘si legge’ e si vive la città, con tutti i suoi luo-ghi e le sue traiettorie predefinite, facendole assumere con-figurazioni momentanee radicalmente ‘altre’, dotate di sen-so per tutti coloro che, facendo parte della comunità, ne hanno condiviso l’effimera realizzazione.

In sostanza, più partecipanti al Luther Blissett Project so-cializzano i propri desideri, e a partire da ciò percorrono la metropoli tracciandone una spiazzante, effimera mappatu-ra, istituendo con la città un rapporto nuovo, che le conferi-sce significati altrettanto nuovi: “La psicogeografia post-gravesiana formula di continuo nuove ipotesi cartografiche per l’interpretazione dello spazio urbano. Ipotesi che privi-

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legiano la metodologia dell’allineamento e che fondono la propria tecnica attingendo dalle culture più disparate. Gra-ves si rifà spesso alle linee del drago della geomanzia cine-se, alle vie dei canti degli aborigeni australiani, alle linee di Nazca peruviane e soprattutto alle linee dei prati, le note ley-lines dell’antica Britannia” (TP, p. 156).

In questa cornice va quindi inquadrata la cosiddetta ‘guerra psichica’ condotta da Luther Blissett: attraverso la partecipazione collettiva e la condivisione delle sensazioni, l’architettura e le traiettorie della metropoli cessano di esse-re luoghi intangibili, per venire riutilizzati entro percorsi che, per il solo fatto di vedersi attribuire un senso, finiscono con l’impregnarsene. In altri termini, viene perseguita la ‘depro-priazione dei luoghi’, ovvero la loro momentanea riappro-priazione – immediatamente seguita dalla perdita – da parte di coloro che li ‘praticano’, con l’obiettivo di ristabilire un contatto diretto con l’ambiente urbano, al di là di ogni sepa-razione.

In un simile processo, Luther non si avvale soltanto delle tecniche psicogeografiche, ma mette in piedi rave party, fe-ste nomadi, détournament murali fatti di tag e graffiti, per-formance spiazzanti e rappresentazioni teatrali, trasforman-do l’intero scenario metropolitano in uno spazio vivo e aperto: in una parola, ‘praticabile’. Il tutto con il coinvolgi-mento di riviste (come Transgressions. Rivista internazionale di esplorazione urbana e Luther Blissett. Rivista Mondiale di Guerra Psichica e adunate sediziose) che storicizzano le azioni proponendo nuove sperimentazioni, e di programmi radio-fonici come Radio Blissett, che, soprattutto a Roma e a Bolo-gna, svolse un ruolo diretto nell’organizzazione e nella con-duzione delle derive metropolitane.

Come nel caso delle beffe, anche per le performance blis-settiane non resta, a questo punto, che fare degli esempi,

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desumendoli ancora una volta dal materiale messo a dispo-sizione dallo stesso Luther. Il bus Neoista

Era in linea con Radio Blissett il gruppo di persone che, nel giugno del 1995, a Roma, diede vita a uno dei più noti esempi di ‘festa nomade’, organizzata da Luther “per la ri-codificazione ludica dello spazio urbano, [...] contro il caro biglietti [...] e per il teletrasporto pubblico e gratuito” (TP, p. 160). L’appuntamento fu fissato alle tre del mattino in Piaz-za del Verano, dove circa un centinaio di partecipanti salì sull’autobus 30 Notturno dichiarando che, tutti e cento, avrebbero pagato un solo biglietto: quello di Luther Blissett. Questi, nelle vesti di unico individuo presente alla serata, “ha chiesto in radio di pompare la musica e ha ballato, be-vuto, fumato, pomiciato, tirato coriandoli, giocato a pallone per circa venti minuti, mentre l’autobus seguiva il suo per-corso abituale raccogliendo gente alle fermate” (TP, p. 160). Quando verso le tre e venti una pattuglia di polizia costrinse i cento Luther a sloggiare dall’autobus, la ‘creatura multipla’ non si perse d’animo, riorganizzandosi di lì a poco su un altro mezzo pubblico (il 29 Notturno), salvo venire nuova-mente fermata dopo una decina di minuti, questa volta in un clima di forte tensione, dal momento che tutti i parteci-panti alla festa rifiutarono di essere identificati con un nome diverso da quello di Luther Blissett. “Alla fine, verso le 5.00 del mattino, Luther Blissett risulta introvabile, ma una ven-tina di persone che si trovavano da quelle parti vennero identificate dalla polizia”.8

8 “Festa nomade sull’autobus notturno. Gli scarafaggi sparano su Luther Blissett”, disponibile online nel sito <www.lutherblissett.net>.

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Il rapimento del professor Lutér Blissette

Anche l’Università fu teatro delle azioni blissettiane. Una delle più celebri ebbe ancora luogo a Roma, nell’aprile del 1995, quando Luther fu invitato da un professore di antro-pologia culturale a intervenire in una lezione sullo spaesa-mento dell’io nell’esperienza psicogeografica, invito accolto alla condizione di poter soddisfare un capriccio performati-vo. Così, il giorno della lezione, un’aula stracolma fu scon-volta dall’irruzione di tanti Blissett a volto coperto, impu-gnanti armi giocattolo: dopo un rapido proclama, il com-mando rapì il professore (portandolo al bar, dove fu costret-to a offrire un caffè ai tanti Luther presenti), lasciando gli studenti del tutto attoniti e incapaci di reagire. “Uscendo poi dalla sala e trattenendo ulteriormente l'accademico, ho potuto constatare, essendomi precedentemente infiltrato fra gli studenti, la loro destabilizzazione cerebrale al ritrovarsi soli nell’aula ad adorare catatonicamente il feticcio/cattedra senza riuscire a fare altro, svelando così il rapporto da essi instaurato con l'evento/lezione come spettacolare e dotato di elevata tossicità” (TP, p. 163). Passata qualche settimana, cominciò a circolare una voce secondo cui, con il proposito di sabotare le imminenti elezioni universitarie, un gruppo di militanti appartenenti a un collettivo politico ormai sciolto avesse rapito un professore francese di nome Lutér Blisset-te, e si arrivò a costituire un comitato di controinformazione per la liberazione di Lutér Blissette, scioltosi solo molto tempo dopo con lo svelamento del caso.

Il Teatro Situazionautico

È questa un’esperienza concepita a partire dal 1995 e porta-ta avanti soprattutto in Emilia Romagna, a stretto contatto con altri giovani gruppi teatrali. Per dar conto delle sue azioni ci si può rifare a quanto scritto da un membro dello

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stesso Teatro Situazionautico, Riccardo Paccosi, dai cui bra-ni emerge con evidenza tanto il legame del progetto con il samizdat, quanto la netta continuità con l’agire tattico di Lu-ther Blissett. Come spunto iniziale si può partire dagli even-ti che, quello stesso anno, ebbero luogo durante il Festival di Santarcangelo, rassegna annuale di gruppi teatrali emer-genti la cui gestione era allora affidata a Leo De Berardinis, che ne aveva inaugurato l’edizione scrivendo un articolo dal titolo: Riaprire il pianoforte di Cage: “Ci si riferiva a un con-certo di John Cage durante il quale questi si limitò a sedersi al piano e chiudere il coperchio della tastiera; quindi, laddo-ve Cage aveva riassunto tutte le conseguenze delle rivolu-zioni teatrali e musicali del Novecento, facenti piazza pulita dell’Arte, del principio estetico, della concezione idealistica che vedeva l’opera d’arte come qualcosa di trascendente il dato materiale, Leo proponeva di recuperare quel principio, ricollocare l’Arte nell’iperuranio e l’Artista sul piedistallo: questo, appunto, il significato di riaprire il pianoforte di Ca-ge” (TP, p. 111).

Insieme a questo tipo di impostazione, emblematica se-condo Paccosi di una dilagante tendenza reazionaria in campo artistico, viene criticato anche l’intero panorama del teatro di ricerca ufficiale, lontano da “tutta una situazione molteplice e vitale tra i giovani teatranti, i quali portano avanti i propri percorsi nonostante l’assoluta inaccessibilità di spazi per provare e per realizzare messinscena” (TP, p. 111). Scrivendo di queste collettività attoriali, Paccosi insiste su alcuni termini che racchiudono il senso dell’esperienza del Teatro Situazionautico, caratterizzato da un’organizza-zione ‘rizomatica’, dalla volontà di creare concatenamenti tra attori, pubblico e ambiente, dalla capacità e dall’obiet-tivo di dare vita a continue deterritorializzazioni trasfor-mando le varie comunità attoriali in vere e proprie ‘macchi-ne desideranti’: “questa comunità spontanea si costituisce

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secondo una modalità rizomatica, ovvero un insieme di li-nee che si incrociano e si connettono in maniera variabile e molteplice, senza un centro di riferimento stabile. […] Non è imperniata su figure di artisti individuali, ma su concate-namenti, cioè su campi di relazione che effettuano una co-munità spontanea all’interno della quale percorsi di ricerca, tecniche, idee e progetti circolano in maniera orizzontale” (TP, p. 111).

Il primo concatenamento è quello che coinvolge i vari gruppi teatrali in un’unica, magmatica e mobile realtà, al di là delle rigide distinzioni dovute all’appartenenza a questa o quella compagnia, e puntando sulla ricerca di un percorso comune fondato sull’effettiva condivisione di tecniche e co-noscenze.

A un secondo livello, anche l’attività degli attori viene re-golata in funzione di una ricerca del concatenamento tra le tante singole azioni: “in un insieme di attori, ciò che impor-ta non è la sommatoria delle azioni individuali di ognuno, ma l'insieme di impulsi interni ed esterni, la molteplicità che costituisce ogni singola azione. Anche quando dettata da una poetica egocentrica o narcisista, non si ha mai azio-ne scenica individuale, ma solo azione scenica in quanto concatenamento, fatto collettivo”.9 Tale azione scenica non viene certamente concepita nell’isolamento di un palco, di-stante da un pubblico passivo e confinato tra le mura di un luogo deputato alla sua rappresentazione: al contrario, le performance del Teatro Situazionautico evadono queste di-stinzioni per riversarsi in strada, a stretto contatto con la gente, che con le sue reazioni, i suoi gesti e le sue parole viene coinvolta nel flusso dell’azione stessa: “Le azioni sce-niche vengono […] sviluppate in luoghi diversi: strade,

9 Riccardo Paccosi, “Il Teatro Situazionautico Luther Blissett”, dispo-

nibile nel sito <www.lutherblissett.net>.

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piazze, autobus, supermercati ecc. inglobandone le caratte-ristiche e trasformandole in elementi costitutivi dell'azione stessa. Ciò inevitabilmente tende alla modificazione degli usi quotidiani dello spazio urbano, che viene, quindi, deter-ritorializzato. L’ambiente cittadino è quello più usato per-ché presenta una ricca possibilità di sfruttare situazioni di-verse e perché principalmente è il luogo dei percorsi co-stretti e limitati (casa-lavoro-divertimenti) dove diventa alieno tutto ciò che esce da questi. Così proprio tra questi percorsi il Teatro Situazionautico s’insinua con azioni sceni-che, prevalentemente costituite da una componente ludica e gioiosa, che coinvolgano emotivamente e talvolta fisica-mente il pubblico”.10

A un terzo livello, il concatenamento si esprime nella ri-cerca di una nuova totalità, uscendo fisicamente dai recinti che confinano queste esperienze entro luoghi fissi e deter-minati, e in qualche modo riappropriandosi (ma solo per perderli l’istante successivo) degli spazi cittadini e del pub-blico, coinvolti e spiazzati nel contesto di una magmatica complessità. Le azioni sceniche del Teatro Situazionautico diventano così happening unici e irripetibili, gli attori corro-no per le strade della città, usano i suoi edifici, coinvolgono i suoi abitanti e creano gioiose linee di fuga rispetto al senso abituale dei luoghi e delle traiettorie: diventano ‘macchine desideranti’, ovvero ‘macchine da guerra senza guerra’, pu-ro movimento affermativo. Per ‘macchine da guerra’, Pac-cosi intende reazioni negative allo status quo, nichilismo e rabbia scagliate violentemente contro i confini e i limiti di un sistema che impone rigide separazioni, territorializza-zioni contro le quali azioni individuali e individuabili sono destinate a non produrre alcun cambiamento. Il teatro delle

10 Riccardo Paccosi, “Save the planet kill yourself”, disponibile nel si-

to <www.lutherblissett.net>.

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‘macchine desideranti’ mette in pratica una soluzione diver-sa, tattica: utilizza tutta l’energia e la forza propulsiva delle comunità attoriali non per opporsi, ma per inglobare i terri-tori, rendendole fluide e quindi in grado di utilizzare, mani-polare e rimettere in gioco i luoghi esistenti entro nuove combinazioni, usandoli in base ai propri desideri: “Deside-rio inteso come pienezza, energia condivisa e priva di un fine che non sia quello di stare dentro il campo d’imma-nenza del desiderio stesso. Possiamo parlare di estasi, per-ché no? Una percezione estatica dei concatenamenti, dell’evento in quanto tale, dell’energia dionisiaca che con-nette gli eterogenei, le molteplicità. […] Ecco dunque che gli attori avevano svolto in realtà un lavoro di costituzione di una macchina desiderante, la quale però all’interno dello spazio normalizzato e museificato del paese, creava una li-nea di fuga, rompeva il codice assegnato alla piazza, alle strade, ai corpi, effettuava deterritorializzazione, funzionava come macchina da guerra. Pertanto: un piano costitutivo di macchina desiderante e un piano effettuale di macchina da guerra” (TP, p. 117).

Questi ultimi capoversi si riferiscono a quanto accaduto a Santarcangelo, quando le compagnie giovanili cui si è ac-cennato decisero di seguire il Teatro Situazionautico nell’in-vasione della cittadina, inscenando una lunga serie di azioni che spiazzarono strade e abitanti, coinvolgendoli in una giostra di performance che, fino a tarda notte, si svolsero parallelamente al festival ufficiale. Tutto ebbe inizio con la pacifica irruzione al convegno d’apertura, con la distribu-zione di un volantino intitolato Basta con la museificazione!, che recitava, tra l’altro: “anziché un’Arte con l’a maiuscola, solo da contemplare, occorrerebbe parlare di arti che circo-lino in modo orizzontale e possano essere non solo fruite ma anche agite da tutti; […] la nostra critica non è rivolta unicamente al Festival di Santarcangelo: l’abbiamo scelto in

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quanto esso si è eletto ad emblema e rappresentanza di ciò che è ricerca teatrale in Italia” (TP, p. 113). Dopo un vivace dibattito con Leo De Berardinis e la distribuzione di un se-condo volantino dal titolo L’Arte è la continuazione della mor-te con altri mezzi firmato da Luther Blissett, fu lo stesso Pac-cosi a salire sul palco per annunciare le iniziative del Teatro Situazionautico: “Chi vorrà vedere dell’Arte, non so se ne troverà; chi invece è interessato a vedere attori capaci di creare delle intensità, delle energie, dei concatenamenti tra comunità attoriale e pubblico, forse capiterà nel posto giu-sto. Noi non sappiamo se siamo in grado di aprire il piano-forte di Cage, siamo senz’altro capaci di tagliarne dei pez-zettini e distribuirli” (TP, p. 113). 5.6 Verso il seppuku

La maggior parte delle manifestazioni di Luther Blissett di cui si è scritto finora, da un punto di vista cronologico si col-locano tra il 1994 e il 1997, periodo durante il quale beffe mediatiche, performance e attività di auto-storicizzazione gli guadagnarono una sempre più solida fama di ‘terrorista culturale’. Tuttavia, a partire dal 1997 alcune cellule del pro-getto iniziarono a mettere in pratica nuovi usi del mito, in qualche misura capitalizzandone la notorietà per portare attacchi sempre più diretti e mirati al mainstream, non più basati soltanto sullo sfruttamento delle falle nella strategia avversaria, ma facendo leva sulla propria stessa forza, che, nel caso di Blissett, coincideva con il peso e la spendibilità della sua reputazione. Attenzione: una simile scelta non comportava in alcun modo l’abbandono dell’agire tattico. Anzi, ne costituiva un arricchimento, essendo l’ennesima svolta imprevedibile di uno ‘stile di lotta’ mai uguale a se stesso. Infatti, a differenza dei rigidi canoni imposti a un’a-zione di tipo strategico, la manipolabilità della tattica, la sua

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disponibilità a sfruttare qualunque occasione nel momento stesso in cui si presenta, la rende tanto aperta da permetter-le di cambiare forma e tecniche di combattimento in qual-siasi istante: se lo si ritiene opportuno e vantaggioso, la flui-dità di un approccio tattico può anche adottare metodi stra-tegici. Il tutto senza alcuna contraddizione, perché il punto nodale resta cogliere il kairos, il momento opportuno, e se questo rende proficuo portare attacchi frontali in campo aperto, sarà giusto e necessario adeguarvi il proprio stile di combattimento. D’altra parte si è gia visto come, grazie alle sue doti di adattabilità e malleabilità, Luther riesca a essere contemporaneamente sé e il contrario di sé, inglobando nel suo flusso ogni genere di opposizione. Inoltre, anche dopo il 1997, simili capitalizzazioni della fama di Blissett non comportarono in alcun modo la scomparsa di azioni di ‘guerriglia’ sferrate a partire dall’ombra della macchia, ri-manendo il nome di Luther sempre e comunque disponibi-le agli usi e alle contaminazioni più disparate. Di conse-guenza, prendere il 1997 come data di riferimento per que-sta svolta è una scelta del tutto arbitraria, al fine di parlare di alcune delle tantissime manifestazioni blissettiane, che da un lato ne mostrano una volta di più l’inesauribile varietà dispositiva, dall’altro precedono le due fondamentali opera-zioni battezzate coi nomi di Dien Bien Q e Seppuku.

Il terreno scelto per iniziare a sfruttare il peso della fama di Blissett è quello della controinformazione, nel quale Lu-ther si sveste dei panni del seminatore di panico mediatico e culturale per portare alla luce temi particolarmente scot-tanti, spesso all’origine di panico morale. Se, quindi, con le beffe agli organi di informazione Blissett si era servito delle loro debolezze per ‘riappropriarsene’ e metterne a nudo i meccanismi celibi, ora passava direttamente all’attacco rea-lizzando dettagliate controinchieste, che svelavano un altro genere di meccanismi: quelli relativi alla costruzione delle

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‘emergenze’: “Chiamiamo emergenza una continua ri-definizione strumentale del nemico pubblico da parte dei poteri costituiti. Grazie all’emergenza, agli occhi della fan-tomatica opinione pubblica viene resa accettabile non solo la violazione ma la vera e propria sospensione delle libertà formalmente sancite dalle costituzioni e dalle carte dei diritti umani. Accettabile? Di più: necessaria e auspicabile al fine di difendere la democrazia”.11

Le campagne emergenziali prese in esame da Luther, negli anni, coinvolsero massicciamente gli organi di infor-mazione e l’ordinamento giuridico, ricorrendo a innovazio-ni tecnologiche utilizzate a fini di controllo e sorveglianza sempre più molecolarizzati. Nella propria attività di con-troinformazione, Luther porta alla luce le procedure e le tecniche utilizzate nel processo di costruzione dell’emergen-za, all’interno di volumi in cui alle analisi circostanziate del-le varie vicende si accompagnava una gran quantità di dati, assemblati in veri e propri cut up insieme a lunghi estratti di articoli di giornale. Queste pubblicazioni, proprio per la fa-ma che Luther si era guadagnato con le sue azioni, attiraro-no a loro volta l’attenzione dei media, venendo recensite, accompagnandosi ad assemblee, conferenze e comunicati stampa, suscitando polemiche, e, talora, essendo seguite da strascichi giudiziari, facendo sì che Blissett acquistasse una consistenza corporea fino ad allora sconosciuta, che non coincise, però, a con una ‘personalizzazione’ del progetto. Lasciate che i bimbi vengano a Luther

Definito da Repubblica “un salutare antidoto all’isteria col-lettiva”,12 la prima campagna di controinformazione con-

11 Luther Blissett, Nemici dello Stato. Criminali, mostri e leggi speciali nella società di controllo, Roma: DeriveApprodi, 1999, p. 1.

12 Bernardino Campello, “Pedofilia, attenti agli isterismi. Il nuovo

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dotta da Luther Blissett si concretizzò in un volume pubbli-cato nel 1997 da Castelvecchi, col titolo Lasciate che i bimbi. Pedofilia: un pretesto per la caccia alle streghe. Come è facile intuire dal sottotitolo, tanto il tema affrontato quanto le tesi sostenute sono decisamente urticanti. Anzi, sembravano “fatt[e] apposta per suscitare scandalo, esecrazione, fastidio, disgusto. Non fosse altro perché espone sul banco degli im-putati proprio i costruttori dell’opinione pubblica – giornali e tivù –, che con la faccia e le parole di circostanza, sulla caccia al pedofilo hanno infilato una quantità di idiozie”.13 Posto che nel libro non vi è traccia di apologia del reato in questione, si tratta in sostanza di un saggio-inchiesta, che, fondandosi su un dettagliatissimo repertorio di dati, costi-tuisce un autentico invito al buon senso e alla cautela, una reazione alle gogne mediatiche e giudiziarie, cui erano state sottoposti individui la cui vita era stata rovinata da campa-gne di informazione fondate su accuse poi rivelatesi infon-date. In continuità con quanto avvenuto con le beffe, quin-di, anche in questo caso veniva messa a nudo la natura ‘si-mulacrale’ di certe impalcature mediatiche, troppo spesso edificate su quanto di turpe e indecente affiora dal quotidia-no, troppo poco scrupolose nella verifica delle informazioni, troppo incaute nella formulazione di condanne definitive.

Il caso che, nel libro, viene affrontato con maggior dovi-zia di particolari è quello del satanista Marco Dimitri, leader della setta dei Bambini di Satana, “arrestato il 1 gennaio 1996, tenuto in carcere per oltre un anno prima di un pro-cedimento dove verrà processato con l’accusa di violenza carnale e con quella, molto più infamante, di aver costretto

Luther Blissett”, la Repubblica, 1 dicembre 1997, disponibile nel sito <www.lutherblissett.net>.

13 Rudi Ghedini, “Lasciate che i bimbi vengano a Luther”, Zero in condotta, 21 novembre 1997, disponibile nel sito <www.lutherblissett. net>.

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un bambino di tre anni a un rituale satanico”.14 Accuse da cui, in seguito, verrà pienamente assolto, a dimostrazione – è questa la tesi sostenuta da Blissett – dell’inconsistenza dell’equivalenza automatica tra satanismo e pedofilia, ovve-ro tra una forma di devianza lecita (per quanto discutibile), e un reato penale disgustoso (ma non provato), come una serie di campagne di dis-informazione avevano cercato di sostenere, sfruttando l’‘altro’, l’indecente, l’orribile, per ca-valcare quelle Luther medesimo definisce ondate di panico morale.

Anche prescindendo dai controversi argomenti affrontati, la pubblicazione di Lasciate che i bimbi era destinata a essere seguita da una lunga scia di polemiche, sfociate a loro volta nelle aule di un tribunale. Come gli altri libri blissettiani, in-fatti, anche questo era privo di copyright, venendo messo gratuitamente a disposizione in rete da diversi siti, scarica-bile e manipolabile da chiunque volesse approfondire o an-che solo accostarsi al suo contenuto.

Di fronte alla proliferazione di questo testo scabroso, il PM dell’accusa decise di querelare per diffamazione l’editore Castelvecchi, Luther Blissett (nella figura di un suo membro storico), nonché gli ISP Cybercore e 2mila8 ComunicAzione, rei di aver contribuito a un’amplificazione planetaria dei contenuti del libro (gli avvocati dell’ex PM parlarono di oltre centomila contatti solo nel corso del 1997). La richiesta pre-vedeva oltre quattrocentocinquanta milioni di lire di risar-cimento, il sequestro delle copie in circolazione, e, soprat-tutto, il taglio dei passaggi che, nel libro, erano ritenuti dif-famanti. Insomma, si equiparava il no-copyright a una ‘li-cenza di uccidere’, nonché la figura dei provider a quella di direttori responsabili dei media tradizionali, dando la stura

14 Ibidem.

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a un lungo dibattito fatto di assemblee, incontri e conferen-ze che ebbero come tema la libertà di espressione online.

Nemici dello Stato

Esce nel marzo del 1999, per DeriveApprodi, Nemici dello Stato. Criminali, ‘mostri’ e leggi speciali nella società di control-lo: “Loro malgrado, sono nemici dello Stato tutti quelli che si trovano sulla sua strada. I più appetibili candidati a diven-tare nemici dello Stato sono quei singoli e quei gruppi il cui comportamento può essere rappresentato […] come una fonte di pericolo per la convivenza democratica – ad esem-pio, in passato intere sottoculture giovanili (gli skinheads, i ravers etc.) sono state demonizzate per rendere accettabile l'imposizione di leggi speciali il cui bersaglio erano in realtà le libertà civili nel loro complesso”.15

Come nel caso precedente, si tratta di una saggio scritto in forma di controinchiesta, incentrato sulla situazione ita-liana a partire dagli anni Settanta, e capace di ricostruire una lunga sequenza di casi che hanno coinvolto organi di informazione, politica e magistratura. Riassumendo, a parti-re dalla già citata definizione di ‘emergenza’, la tesi princi-pale dell’intero volume è espressa già nella sua introduzio-ne: “Le emergenze servono a introdurre nuove forme coer-citive nella divisione sociale del lavoro, o tutt’al più a pre-servare quelle già esistenti. […] In Italia, dagli anni Settanta in avanti, il metodo di governo è consistito interamente in un avvicendarsi di emergenze. In questo paese esiste da sempre una complicata dialettica dell'incostituzionalità, al cui interno l'emergenza ha stabilito una propria retorica, un compiuto ma fluido sistema di metafore, un peculiare modo di cristallizzarsi nel diritto scritto e nel costume nazionale”.16

15 Luther Blissett, Nemici dello Stato, cit., p. 1. 16 Ibidem.

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Puntare il dito contro chi viene indicato come potenziale pericolo per lo Stato, scatenare campagne mediatiche al fine di fomentare panico morale nell’opinione pubblica, quindi varare leggi e provvedimenti che, in sostanza, sanciscano il mantenimento dello status quo: seguendo questo schema Luther Blissett dà la propria lettura di oltre vent’anni di sto-ria italiana, sostenendo tesi che stimolano dibattiti e rifles-sioni, dando l’ennesima prova della sua natura assoluta-mente poliedrica, e dimostrando – una volta di più – di tro-varsi a proprio agio anche nell’uso degli strumenti della controinformazione.

In un certo senso, preparando il proprio ‘assalto finale’ alla cultura mainstream, atto estremo di sfruttamento della propria fama e ultimo, grande stratagemma del suo percor-so tattico: Dien Bien Q.

Dien Bien Q

Pubblicato nel febbraio del 1999 da Einaudi, Q si apre con queste parole: “Fuori dall’Europa, 1555. Sulla prima pagina è scritto: Nell’affresco sono una delle figure di sfondo. La grafia meticolosa, senza sbavature, minuta. Nomi, luoghi, date, riflessioni. Il taccuino degli ultimi giorni convulsi. Le lettere ingiallite e decrepite, polvere di decenni trascorsi. La moneta del regno dei folli dondola sul petto a ricordarmi l’eterna oscillazione delle fortune umane. Il libro, forse l’unica copia scampata, non è piú stato aperto. I nomi sono nomi di morti. I miei, e quelli di coloro che hanno percorso i tortuosi sentieri. Gli anni che abbiamo vissuto hanno sep-pellito per sempre l’innocenza del mondo. Vi ho promesso di non dimenticare. Vi ho portati in salvo nella memoria. Voglio tenere tutto stretto, fin dal principio, i dettagli, il ca-so, il fluire degli eventi. Prima che la distanza offuschi lo sguardo che si volge indietro, attutendo il frastuono delle

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voci, delle armi, degli eserciti, il riso, le grida. Eppure solo la distanza consente di risalire a un probabile inizio”.17

Molto più delle precedenti esperienze di controinforma-zione, Q rappresenta la vera e propria forma di capitalizza-zione dell’autorevolezza che Luther si era guadagnato nel corso della sua quinquennale attività nel panorama media-tico e culturale italiano. Ma, allo stesso tempo, esso costitui-sce il suo capolavoro di tattica, capace di sfruttare l’occa-sione più ghiotta: quella di entrare nella fortezza del nemico dalla porta principale, nel ventre di un cavallo di Troia dal quale fuoriuscire nottetempo per insediarsi definitivamente all’interno delle mura, con lo scopo di minare poco a poco le fondamenta della città. Dalla foresta si Sherwood al castello di Nottingham: in Totò, Peppino e la Guerra Psichica 2.0 que-sto decisivo passaggio del progetto viene letto facendo rife-rimento al mito di Robin Hood, in grado di entrare nel ca-stello dell’odiato sceriffo dopo anni di guerriglia boschiva. Similarmente, una cellula del Luther Blissett Project, dopo un’intensa attività nella macchia, sfruttò il peso della fama di Blissett per “installarsi sull’altopiano e continuare a colpi-re dall’interno” (TP, p. 41), incuneandosi definitivamente nel mainstream per diffondervi i propri agenti patogeni, por-tatori di novità nello scenario culturale.

L’occasione per questo ultimo ‘colpo’ si presentò quando un grosso editore come Einaudi diede a Blissett carta bianca per la pubblicazione di un romanzo, che a ragione si sup-poneva avrebbe attirato l’attenzione dei media e del pubbli-co, se non altro per la reputazione dell’autore: “Ciò che tutti si sarebbero aspettati da Blissett in questo campo era un agilissimo romanzo ipercontemporaneo, magari fantascien-tifico, in cui le solite nuove tecnologie e gli hackers avrebbe-ro giocato il ruolo dei protagonisti assoluti. Quello che è

17 Luther Blissett, Q, Torino: Einaudi, 1999, p. 1.

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stato proposto è una spy story di seicentocinquanta pagine, ambientata nel XVI secolo, che va in totale controtendenza rispetto a quanto prodotto dalla narrativa italiana negli ul-timi anni” (TP, p. 40).

Il primo valore spiazzante, allora, sta nella trama: sullo sfondo dell’Europa della metà del Cinquecento, due perso-naggi si muovono inseguendosi tra le pieghe della Storia, attraverso un continente che sta conoscendo l’avvento della modernità, sconvolto dalla riforma luterana, squassato dalle rivolte contadine guidate dal magister Thomas Müntzer, dalle guerre di religione e dalla ribellione anabattista. Un’Eu-ropa che, allo stesso tempo, assiste alla nascita della stampa e all’affermazione delle potenti famiglie di banchieri, ve-nendo turbata dalla circolazione di misteriosi libri maledetti, mentre loschi affari vengono condotti tra i moli delle città mercantili olandesi e le torbide calli veneziane: “quanto al XVI secolo, lo abbiamo scelto perché è il secolo in cui nasce il moderno, e tutto ciò che oggi sta marcendo: l'Europa, la comunicazione di massa, gli apparati di polizia, il capitale finanziario, lo Stato. E poi, come dice nel romanzo il libraio Pietro Perna: puttane, affari, libri proibiti e intrighi papali. C'è forse qualcos’altro che dà sapore alla vita?”.18

È la vicenda di un uomo senza nome, o meglio, di un uomo con tanti nomi (“Adesso mi volto quando mi chia-mano Gustav, mi sono abituato a un nome che non è più mio di qualunque altro”19), la cui esistenza è segnata da un continuo, inesauribile movimento, che lotta sposando in-numerevoli cause destinate ad altrettanto innumerevoli sconfitte, senza che ciò scalfisca la sua tempra di ribelle, un

18 Loredana Lipperini, “Luther Blissett siamo noi”, la Repubblica, 6

marzo 1999, disponibile nel sito <www.lutherblissett.net>. 19 Franco ‘Bifo’ Berardi, “Q & particules”, Tempòs, 3 luglio 1999, di-

sponibile nel sito <www.lutherblissett.net>.

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empito vitale che va al di là delle singole utopie, che gli im-pone di immergersi completamente in una Storia fatta di umili e figure di sfondo.

E poi è la storia del suo alter ego, Q (iniziale di Qoelet, il libro dell’Apocalisse), nemesi del protagonista al servizio del potere, scaltra spia che modella la propria vita come una costante reazione negativa al movimento propositivo del-l’avversario, intenta a prevenire o disinnescare ogni cono d’ombra che attiri la sua attenzione. Se il primo si muove, combatte, si sporca nel fango del quotidiano, cercando di sabotare il potere per realizzare utopie, il secondo non pro-pone, non sogna, in sostanza non agisce ma reagisce, met-tendo la propria incredibile scaltrezza al servizio di una con-tinua restaurazione dello status quo. Salvo scoprirsi, alla fi-ne dei suoi giorni, vecchio e solo, in fondo senza nome tan-to quanto il protagonista, disposto a farsi usare da questi in vista di un ultimo, grande colpo.

Non è difficile, allora, considerare il libro un’articolata al-legoria del Luther Blissett Project, ed è significativo che un simile compito spetti a un romanzo denso, corale, ricco di vicende che si intersecano. Non è un’astratta ‘blissettologia’ a fare da summa al progetto, ma un’opera narrativa i cui racconti, una volta di più, ‘parlano da soli’. È l’ennesima prova della volontà di Luther di mantenersi mito, raccon-tando se stesso e le sue storie rimanendo al tempo stesso opaco, immergendo il lettore nell’apnea di una narrazione di genere, ricca, dettagliata e insieme nebulosa, una scatola piena fin quasi a scoppiare, dove confluiscono elementi provenienti dallo hard boiled, dalla spy story, dal romanzo di cappa e spada a quello storico, dal thriller al racconto d’av-ventura, dal giallo al noir: “Abbiamo affrontato una narra-zione impegnativa, corale, in cui s'intrecciano sottotesti e sottostorie. È questo che ci piace, è questo che deve fare la letteratura: raccontare storie, produrre mito. Non ne pos-

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siamo più di raccontini basati su un’unica idea, e spesso nemmeno su quella, che si riducono a esercizietti di stile, libercoli pseudo-autobiografici e generazionali. Roba da cento paginette. L’ondata minimalista finirà, deve finire. Anzi, è finita. È dimenticata”.20

Q, dunque, è un romanzo che punta sulla densità dei contenuti e dell’intreccio, rifuggendo sperimentalismi per raccontare una storia piena, soddisfacente, dalla quale ci si separa a fatica, attraverso uno stile secco, intenso e sincopa-to. Uno stile che sembra intagliare a colpi di scalpello la gran quantità di materiale grezzo utilizzata per dare forma alla storia, selezionato da quelle infinite risorse di temi, vi-cende e personaggi che sono da un lato il genere e dall’altro la Storia. Riserve i cui contenuti vengono per lungo tempo studiati, scremati, ricombinati, quindi dirozzati in bottega fino al raggiungimento del risultato finale. Per questo libro, Luther ricorre a un sapere condiviso fatto di archetipi uni-versalmente noti, per riassemblarli entro un contesto che li rimette in gioco senza velleità artistiche, ossessioni per l’ori-ginalità o ardite scelte di poetica, ma con l’unico obiettivo di raccontare una buona storia. Nella convinzione che le sto-rie, così come i miti, servano, arricchiscano, uniscano e sia-no utili nella vita di tutti i giorni, perchè il racconto ‘fa ciò che dice’.

D’altra parte, sarebbe stato arduo associare Q a un autore di genio o a un artista. Specie dopo che, in un articolo di Loredana Lipperini su Repubblica pubblicato il 6 marzo 1999, Luther Blissett si era svelato, attraverso un’intervista ai quattro autori del libro, accompagnata da una foto di gruppo: “Gli autori sono quattro e sono nel Luther Blissett Project fin dai suoi esordi. Hanno accettato di svelarci i pro-pri nomi, ai quali non intendono dare peso. […] Hanno tra i

20 Loredana Lipperini, “Luther Blissett siamo noi”, cit.

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ventisei e i trentacinque anni. Vivono a Bologna: qualcuno lavora nel terzo settore e nell’industria culturale, uno fa il buttafuori in locali e centri sociali della città. Fine della bio-grafia. I nostri nomi, dicono in un’intervista che resta rigo-rosamente collettiva, hanno pochissima importanza, e ancor meno le nostre storie individuali. Siamo il team che ha scrit-to Q, ma allo stesso tempo siamo meno dello 0,04% del Lu-ther Blissett Project”.21

Quattro membri storici del progetto venivano così allo scoperto, rivelando la natura collettiva dell’autore di Q. Giustamente, i quattro non si identificavano con Luther Blissett, affermando di rappresentare solo una piccola fra-zione dei tanti che si erano serviti del suo nome multiplo, la cui attività di ‘guerrigliero’ mediatico e culturale continuava in modo indipendente dalla loro decisione di venire allo scoperto.

Ma, sul piano squisitamente letterario, emersero subito altre domande: come era stato possibile che, a scrivere un libro dallo stile tanto compatto quanto fluido, fossero state addirittura otto mani? “È come per un combo jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali. Ma un altro esempio possibile è la realizzazione di un vi-deogame: ci sono sempre almeno una ventina di nomi ac-creditati come autori. C'è forse differenza tra un romanzo e un software interattivo? Del resto, da anni Blissett dice che la scrittura e la creazione sono in tutto e per tutto progetti collettivi, le idee non possono avere proprietà, il genio non esiste, c'è solo una Grande Ricombinazione”.22

Evidentemente, il reperimento dei materiali, lo scambio di idee e impressioni, la collaborazione e quindi la scrittura

21 Ibidem. Il titolo dell’articolo (“Luther Blissett siamo noi”) ha rice-

vuto poi una piena smentita dagli autori di Q. 22 Ibidem.

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venivano intese come parti di un unico lavoro artigianale, nel quale tutte le componenti, anche le più ripetitive e mo-notone, avevano avuto uno stesso peso in vista del risultato finale: un lavoro in bottega al quale, nella fattispecie, aveva-no cooperato quattro persone, affiatate e consce dei propri compiti individuali. Per loro, l’esperienza di scrittura di Q era stata assimilabile a quella vissuta da chi aveva partecipa-to al Luther Blissett Project: nessuno poteva dirsene pro-prietario, ma ciascuno aveva contribuito ad arricchirlo.

Tuttavia, l’uscita allo scoperto dei quattro ebbe anche al-tre conseguenze. Se, infatti, Blissett aveva reso, negli anni, onnipresente la propria ‘assenza’, gli autori di Q, una volta emersa la propria ‘presenza’ (ovvero, la loro identità), im-mediatamente la facevano sparire, dichiarandone l’irrile-vanza. Se il volto sottoposto a morphing di Luther era ap-parso ovunque, il loro sarebbe comparso una sola volta, e mai più; se Luther aveva parlato, discusso e firmato comu-nicati, loro, da quel momento in avanti, non avrebbero qua-si mai usato il proprio nome di battesimo, né personalizza-no un’intervista; se Luther aveva mille possibili biografie, delle loro si sarebbe saputo solo lo stretto necessario. Tanto che, alle presentazioni di Q, preferirono mescolarsi al pub-blico in platea piuttosto che impossessarsi della scena, così come, durante l’edizione annuale del premio Strega, assi-stettero da spettatori alla premiazione del loro libro. Tutto ciò continuando a spostare l’attenzione sul contenuto del romanzo. Sul quale, tra altro, non gravava alcun diritto d’autore (come per le altre pubblicazioni blissettiane), ve-nendo messo a disposizione online ed essendo introdotto da formula copyleft. Un’innovazione notevole, specie se si tiene conto dell’anno di pubblicazione – il 1999 –, il fatto che, ad adottarla, fu una grande casa editrice, e che, contro ogni previsione, dopo pochissimo tempo il libro raggiunse tirature eccellenti, con oltre dodici edizioni e più di duecen-

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tomila copie vendute. Insomma, la formula copyleft era il si-gillo dell’opera blissettiana: essendo il libro una grande ri-combinazione artigianale di un sapere condiviso, i suoi con-tenuti non venivano bloccati da un unico, dispotico proprie-tario, bensì rimessi in circolo. E, perciò, tenuti in vita.

Seppuku

L’introduzione, datata dicembre 1999, della seconda edi-zione di Totò, Peppino e la Guerra Psichica, si chiude con la celebre frase di Cary Grant: “Meglio andarsene un minuto prima, lasciandoli con la voglia, piuttosto che un minuto dopo, avendoli annoiati”.

La domanda, a questo punto, è la seguente: era possibile, per Luther Blissett, morire? Poteva, qualcuno, staccare la spina al mito, allo scadere del piano quinquennale iniziato nel 1994? La risposta, va da sé, è negativa: all’alba del 2000 non fu Luther a fare seppuku, bensì i membri storici del pro-getto, cioè chi ne aveva utilizzato il nome per almeno cin-que anni.

“C’è un’enorme differenza tra seppuku e harakiri: lo ha-rakiri consiste nel mero sventramento; il seppuku prevede che, dopo lo sventramento, un secondo officiante decapiti il suicida”.23 Furono dunque le colonne del progetto a fare seppuku, per evitare fossilizzazioni e permettere ad altri di prendere il loro posto. In tal modo, se da un lato le molte-plici manifestazioni del mito di Blissett avrebbero continua-to a rappresentare un enorme bagaglio di esperienze a cui poter fare riferimento, dall’altro sarebbero state arricchite da nuove tattiche, messe in atto da chi, da quel momento in avanti, avesse deciso di adottare il nome multiplo, contri-buendo alla metaforica decapitazione dei vecchi membri del

23 Luther Blissett, “Ultimo!”, 27 dicembre 1999, disponibile sul sito <www.lutherblissett.net>.

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progetto. Luther Blissett, simbolicamente, eludeva così l’ul-timo, possibile ‘recinto’: quello della sua stessa sopravvi-venza. Si trattava, in fondo, dell’azione tattica più estrema, se si considera che una condizione di ‘guerriglia’ perma-nente avrebbe inevitabilmente contraddetto la costitutiva fluidità dell’agire blissettiano, il suo saper cogliere il mo-mento opportuno, sferrare il colpo decisivo e, subito dopo, sparire nuovamente nella macchia. Perchè un’azione tattica deve sapersi mantenere mobile, essere pronta ad adattare il proprio stile di lotta a nuove condizioni e a nuovi terreni, essendo disposta ad abbandonare celermente le posizioni conquistate e, perché no, a venire superata, affinchè si pos-sa passare a nuove fasi dello scontro. Deve, insomma, esse-re disposta a ‘darsi la morte’: “Non esiste un piano che pos-sa prevedere tutto. Altri solleveranno il capo, altri diserte-ranno. Il tempo non cesserà di elargire sconfitte e vittorie a chi proseguirà la lotta. […] Possano i giorni trascorrere sen-za meta. Non si prosegua l’azione secondo un piano”.24

24 Luther Blissett, Q, cit., p. 643.

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Conclusioni È d’obbligo a questo punto un’ammissione: quanto pro-messo in apertura del volume non si è avverato. In fondo al percorso, una mappa del Luther Blissett Project resta un’il-lusione. Forse, allora, è meglio sfruttare queste conclusioni per fare qualche breve accenno alle mete raggiunte da alcu-ni di coloro che, tra il 1994 e il 1999, vissero in prima perso-na il ‘percorso’ di Blissett, mettendone a frutto la reputazio-ne per ‘inocularsi’, possibilmente contribuendo a modificar-lo, nell’orizzonte della produzione culturale italiana.

Il riferimento va, per esempio, al collettivo Wu Ming, ate-lier narrativo metaforicamente partorito dal cavallo di Troia di Q, bottega artigianale di mitopoiesi, destinata a rinvigori-re una memoria comune sulla cui base fondare un nuovo impegno.

Proseguendo sulla scia tracciata da Q, i nomi di battesi-mo dei quattro autori sono noti da ben oltre un decennio, ma, ancora una volta, ‘non hanno importanza’: “la scelta di ricorrere al marchio Wu Ming risponde all’esigenza di prati-care un anonimato ambivalente, inteso come presenza con-tinua presso le comunità di lettori, trasparenza nei confronti delle reti sociali e al tempo stesso rigetto delle logiche del-l’Apparizione”.1 Estremamente presenti tra i lettori, dispo-nibili al contatto diretto tanto nel corso di incontri, presen-

1 Wu Ming, giap!, Torino: Einaudi, 2003, p. 10.

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tazioni o dibattiti, quanto per via telematica, e allo stesso tempo lontani anni luce da qualsiasi inquadramento: Wu Ming è stile, contenuto e ‘presenza’ fuse in un unico fluire, che rende impossibile distinguere le storie, le sceneggiature, i brani musicali, dalle campagne d’informazione e dal so-stegno diretto a una serie di cause.

L’esperienza di Wu Ming rappresenta, probabilmente, l’effetto più evidente, anche a distanza di tempo, nato dal-l’azione del Luther Blissett Project, rappresentando una realtà sempre più consolidata, capace di mantenere, però, la propria dinamicità, imboccando i sentieri più disparati e continuando a raccontare storie che aiutano ad “attraversa-re il deserto”.2 Testimonianza concreta degli effetti terapeu-tici del virus di Blissett nel tessuto culturale italiano.

2 Ivi, p. 9.

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Vittore Baroni & Piermario Ciani Blissett Stamps, 1995

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Vittore Baroni & Piermario Ciani Blissett Stamps, 1995 Multiple Names, 2001

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Post scriptum L’ammissione che apre le Conclusioni, sopra, non è in verità completa. Manca di un tassello non trascurabile. L’articolo del Guardian del 2004 che ha aperto questo volume, e su cui si fonda il suo percorso analitico, è infatti un falso.

Falso nella misura in cui non è mai stato pubblicato dal Guardian o da alcun altro quotidiano, nè scritto da alcun giornalista. Falso perchè incentrato su episodi inventati di sana pianta, per quanto, forse, verosimili. In compenso, lo stratagemma dei copertoni è vero, o quantomeno dotato di un referente reale: alcuni Masai, in Kenya, indossano san-dali realizzati recuperando copertoni in disuso. Anche il lo-ro uso, per quel che se ne sa, non è poi tanto dissimile da quello descritto. Si racconta, infatti, che qualche volta le cal-zature artigianali vengono utilizzate dai loro proprietari per rubarsi a vicenda gli animali, facendone ‘sparire’ le tracce nella savana.

Insomma, i contenuti del presunto articolo sono un col-lage di elementi parzialmente veri, completamente falsi o soltanto verosimili. Ma perché scriverlo? Ecco, lo racconto. Al primo motivo ho già fatto cenno nell’introduzione: avevo bisogno di una ‘struttura’ solida, che mi consentisse di avvi-cinarmi al Luther Blissett Project in modo più agevole e si-curo di quanto avrei potuto fare se fossi partito dal materia-le che Luther stesso metteva a disposizione. Considerati gli obiettivi di questo volume, infatti, fondare un discorso arti-

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colato in logiche sequenze di rapporti di causa-effetto sullo scivolosissimo terreno rappresentato dalle mille, contraddit-torie manifestazioni di Blissett, sarebbe stato impensabile. Senza contare che io stesso fui preda per lungo tempo della ‘sindrome cospiratoria’ di cui ho parlato: vedevo riferimenti a Luther Blissett ovunque, nel frame di un film, tra le pagine di un libro, nelle strisce di un fumetto. Tutto sembrava col-legato, ogni elemento pareva rimandare a una trama supe-riore e inesauribile, e in un simile caos scegliere un punto fermo, un trampolino dal quale prendere lo slancio, era sem-plicemente impossibile. Ripeto: non potendo cominciare da una specifica epifania di Luther Blissett, e sapendo che ogni tentativo di dare un’interpretazione del progetto sarebbe stato inevitabilmente risucchiato nel gorgo da esso creato, non potendo essere altro che un’ennesima variante delle im-prese della ‘creatura multipla’, avevo bisogno di un ‘percor-so parallelo’, che, almeno inizialmente, si snodasse indipen-dentemente da Blissett, permettendomi di parlarne a partire da una posizione esterna. Per quanto illusoria essa fosse.

Così decisi: mi sarei servito di un elemento che, apparen-temente, nulla aveva a che fare con Luther, usandolo come ‘passerella’ sulla palude delle sue manifestazioni, in cui ve-rità e finzione si mischiano incessantemente. In tal modo avrei potuto darne una lettura personale, senza venir im-mediatamente coinvolto nella moltiplicazione di specchi con-naturata al progetto, a causa della quale del nome multiplo diventa possibile dire tutto e il contrario di tutto. Restando ben consapevole che anche la mia passatoia non sarebbe sta-ta nulla più che un’ulteriore versione del mito, e che prima o poi sarebbe sprofondata nel suo magma. Però, prima che ciò accadesse, forse grazie a essa sarei riuscito a scrivere del perché questo sprofondare sarebbe stato inevitabile.

Per quale motivo, allora, non utilizzare un vero articolo di giornale, scritto da qualche giornalista professionista? L’idea

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mi ha tentato a lungo. Tuttavia, ogni qual volta mi sembra-va di aver trovato il pezzo giusto, ai miei occhi febbrili così smaccatamente e inconsapevolmente ancorato al progetto, ecco che sempre incappavo nello stesso problema. Avrei sì potuto servirmente sotto forma di citazione, ma la mia let-tura era comunque destinata a restare ‘aggiuntiva’, artificio-sa, ‘seconda’ rispetto all’effettualità degli eventi riportati.

Di segno opposto era la difficoltà derivante dall’utilizzare un racconto: che lo scrivessi di mio pugno apponendovi la mia firma, o ne scegliessi uno di qualcun altro, esso sarebbe sta-to irrimediabilmente ‘falso’, irreale, e la mia interpretazione sarebbe risultata forzosa tanto quanto nel caso precedente.

E se fossi ricorso a un articolo scritto e siglato di mio pu-gno? Neanche a parlarne, il risultato restava lo stesso. E poi c’era la questione della credibilità, non essendo io né uno scrittore né un giornalista accreditato e sorretto da un appa-rato di autorità.

Per farla breve, c’era un problema di ‘recinzioni’: potevo appropriarmi del senso che la mia condizione di lettore mi consentiva di individuare tra le righe di un testo, ma non mi era davvero possibile farne mio il contenuto, non mi era concesso riscriverlo e, esultante, gridare: “Ecco Luther Blis-sett!!!”. A chiudermi fuori dal ‘recinto’, sia il dovere di citar-ne l’autore, sia quello di creare una discontinuità formale tra il testo dell’articolo o del racconto e la mia verbosissima prosa, frapponendovi degli apici che, inesorabilmente, lo avrebbero separato da me e dalla mia lettura. Anche se io, fra quelle righe, leggevo davvero Luther Blissett, indipen-dentemente dagli intenti del loro autore.

Non pensai davvero di gettare la spugna, ma ci andai vi-cino. Poi, d’un tratto, l’illuminazione. Avrei optato a mia volta per un agire tattico. Perché non sfruttare a mio van-taggio proprio ciò che rendeva ‘reale’ un articolo di giornale,

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impedendomi allo stesso tempo di appropriarmene all’in-terno di questo volume?

Visto che, a quanto pareva, un pezzo risultava credibile nella misura in cui era attribuito a un giornalista accreditato, e a un organo di informazione autorevole, realizzai che tali caratteristiche non dovevano necessariamente essere vere, ma che, in quanto autore di questo volume, mi sarebbe ba-stato sostenere che lo fossero. Mi sarebbe stato sufficiente mettere in piedi una storia tutto sommato verosimile, fa-cendo appello a esperienze personali, vicende lette tra le pagine di cronaca e un po’ d’immaginazione, riassemblan-do il tutto in un’operazione di bricolage. Quindi, avrei sem-plicemente sostenuto che quanto scritto fosse la sintesi di un articolo pubblicato da un serio quotidiano – meglio se inglese, considerati i trascorsi coloniali del Kenya –, che ne avrebbe garantito e avvalorato la veridicità. Infine, potevo dare vita a una vicenda che, punto per punto, ricalcasse le tappe del sentiero che consideravo necessario percorrrere per ‘arrivare’ a Luther Blissett. Qualunque cosa avessi scrit-to, qualunque analisi avessi fatto, allora, si sarebbe collocata sulla scia delle vicende di cui avevo reso protagonisti i Ma-sai, mescolandosi nello stesso flusso della precedente narra-zione, amalgamando comunicazione e metacomunicazione in un unico racconto, al cui interno si sarebbero fuse verità e finzione, pratica di osservazione e oggetto di studio.

Così facendo, avrei raggiunto un duplice scopo. Innanzi-tutto, come è evidente, avrei potuto modellare in tutta libertà un collage di materiali, letture ed esperienze, dandogli la for-ma di una sintesi che avrebbe risposto adeguatamente alla mia esigenza di trovare un punto di partenza utile ad affran-carmi, almeno all’inizio, dal gioco di specchi blissettiano.

In secondo luogo, avrei avuto l’opportunità di mettere in pratica a mia volta gli insegnamenti di Luther Blissett, riat-tualizzandone alcune tecniche e, più in generale, il modus

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operandi: avrei utilizzato le marche che sanciscono l’auten-ticità di un testo – in questo frangente, l’attribuzione al Guardian – al fine di rendere possibile credere nell’effet-tualità dei suoi contenuti, una volta assemblati secondo le mie esigenze. Avrei non solo eluso, ma giocato con le stesse ‘recinzioni’ che, fino a quel momento, mi avevano impedito di servirmi di ciò di cui avevo bisogno, dando forma, con-cretamente, a una piccola porzione di reale, per poi edificar-vi il mio discorso metacomunicativo.

Ovvio: perché quest’ultimo avesse senso, distinguendosi da una comune lettura di un normale articolo di giornale, sarebbe occorso un ultimo passaggio. Al termine dell’ana-lisi, avrei dovuto rendere esplicito l’intero meccanismo su cui era stata fondata, in una sorta di personalissima ‘riven-dicazione’ della mia piccola performance tattica. Ecco allora la funzione di questo ‘post scriptum’. Che mi ha permesso di dare, sia pur in corpore vili, una dimostrazione di come sia possibile servirsi degli strumenti messi a disposizione da Luther Blissett, in un certo senso rivivendone la mitopoiesi.

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Wu Ming, giap!, Torino: Einaudi, 2003

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LAPUTA & LAGADO

catalogo

Stefania CONSONNI, Linee, intrichi, intrighi. Sull’estetica di William

Hogarth, 2003 Laputa 1, pp. xv-216, 36 illustrazioni, ISBN 978-88-7545-976-2

Carmen LAFORET, Nada, a cura di Marco Succio, 2004 Lagado opere 1, pp. 240, ISBN 88-7544-002-6

Victor J. BANIS, Spine Intact, Some Creases: Memoirs of a Paperback Writer, edited and introduced by Fabio Cleto, 2004 Laputa 2, pp. xxiv-406, 287 illustrazioni, ISBN 978-88-7544-022-0

Giovanni BOTTIROLI, Le incertezze del desiderio. Scritti brevi su strate-gia e seduzione, 2005 Laputa 3, pp. x-322, 116 illustrazioni, ISBN 978-88-7544-057-3

Robert Louis STEVENSON, The Annotated Dr Jekyll and Mr Hyde, ed-ited with an Introduction and Notes by Richard Dury, 2005 Lagado opere 2, pp. xviii-248, 77 illustrazioni, ISBN 88-7544-030-1

Fabio CLETO, Per una definizione del discorso camp, 2006 Lagado studi 3, pp. vi-338, ISBN 88-7544-062-X

Luisa VILLA (a cura di), Emilio Salgari e la grande tradizione del roman-zo d’av-ventura, 2007 Laputa 4, pp. xii-300, 10 illustrazioni, ISBN 978-88-7544-092-3

John MILTON, Paradiso riconquistato, introduzione, traduzione e note di Daniele Borgogni, 2007 Lagado opere 4, pp. lii-236, 18 illustrazioni, ISBN 978-88-7544-118-0

John DOUTHWAITE & Domenico PEZZINI (eds.), Words in Action: Diachronic and Synchronic Approaches to English Discourse, 2008 Laputa 5, pp. xxxii-450, ISBN 978-88-7544-135-7

Francesca PASQUALI, Spettri d’autore, 2008 Laputa 6, pp. 150, ISBN 978-88-7544-158-6

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Laura SANFELICI, Lingue, culture, identità. Los latinos negli Stati Uni-ti e la questione della lingua, 2008 Lagado studi 5, pp. 152, ISBN 978-88-7544-131-9

Luisa VILLA, “For honour, not honours”. Studio sulle rappresentazioni del conflitto anglo-sudanese, 2009 Laputa 7, pp. 16+182, 20 illustrazioni, ISBN 978-88-7544-166-1

Michele CROESE, “E guerra e morte”. Monteverdi traduttore del Tasso, 2009 Laputa 8, pp. xii+174, ISBN 978-88-7544-180-7

Renato RIZZOLI, Il teatro del capitale. La costruzione culturale del mer-cato nel dramma di Shakespeare e dei suoi contemporanei, 2010 Laputa 9, pp. 306, ISBN 978-88-7544-205-7

Ben JONSON, La congiura di Catilina. Testo inglese a fronte. Intro-duzione, traduzione e note di Domenico Lovascio, 2011 Lagado opere 6, pp. lxxxvi+336, ISBN 978-88-7544-219-4

Daniela Francesca VIRDIS, Serialised Gender: A Linguistic Analysis of Femininities in Contemporary TV Series and Media, 2012 Lagado studi 7, pp. 210, ISBN 978-88-7544-250-7

Fabio CLETO, Opale violetto verdeoro. Uno studio su Ronald Firbank, 2012 Lagado fuoricollana, pp. 276, ISBN 978-88-7544-274-3

Michele SALA, Differently Amusing: Mechanisms, Types and Modes of Humour, 2012 Lagado studi 8, pp. 224, ISBN 978-88-7544-263-7

Stefano ROSSO, Rapsodie della Frontiera. Sulla narrativa western contem-poranea, 2012 Lagado studi 9, pp. 154, ISBN 978-88-7544-266-8

Paolo BARCELLA, Emigrati italiani e missioni cattoliche in Svizzera (1945-1975), 2012 Lagado studi 10, pp. 180, ISBN 978-88-7544-268-2

Stefania M. MACI, Tourism Discourse: Professional, Promotional and Digital Voices, 2013 Lagado studi 11, pp. 356, ISBN 978-88-7544-288-0

Marco TOMASSINI, Tattiche di mitopoiesi. Guida impossibile al Luther Blissett Project, 2013 Lagado studi 12, pp. 148, ISBN 978-88-7544-300-9

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Finito di stampare nel mese di novembre 2013

da CLU --- Genova per conto della ECIG

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