ANTONIO LEONARDO VERRI PENSIONANTE DE’ SARACENI · DI AUGUSTO BENEMEGLIO Premessa …Ed ad un...

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ANTONIO LEONARDO VERRI PENSIONANTE DE’ SARACENI DI AUGUSTO BENEMEGLIO Premessa …Ed ad un certo punto , in quel Salento addormentato, decentrato, periferico, pieno di sogni polverosi , dove mai nulla accadeva se non quel continuo fisso battito verso i cieli , in quel Salento vedovo dell’orfismo del conte Comi di Lucugnano , travestito da Giovanni Della Croce ; vedovo del lirismo surreal- ermetico barocco spagnolo di Bodini e del simbolismo raffinato di Pagano,

Transcript of ANTONIO LEONARDO VERRI PENSIONANTE DE’ SARACENI · DI AUGUSTO BENEMEGLIO Premessa …Ed ad un...

ANTONIO LEONARDO VERRI

PENSIONANTE DE’ SARACENI

DI AUGUSTO BENEMEGLIO

Premessa

…Ed ad un certo punto , in quel Salento addormentato, decentrato, periferico,

pieno di sogni polverosi , dove mai nulla accadeva se non quel continuo fisso

battito verso i cieli , in quel Salento vedovo dell’orfismo del conte Comi di

Lucugnano , travestito da Giovanni Della Croce ; vedovo del lirismo surreal-

ermetico barocco spagnolo di Bodini e del simbolismo raffinato di Pagano,

geniale raccoglitore di gatti neri e cicche metafisiche (“non si può fare a meno

dei sognatori, o dei conoscitori della volta del cielo, come non si può fare a

meno dei librai e dei barboni”) , alla fine degli anni ’70 apparve un nuovo

profeta , il Pensionante de’ Saraceni , un contadino di Caprarica di Lecce, alto,

barbuto, con un occhio strabico e dall’eloquio incespicante. Era anche lui un

irregolare , un maledetto, uno di quei “giocatori da superbisca” con la stecca , il

gessetto e la sigaretta tra le labbra , sempre ai limiti del crollo nervoso, “ma

disposto a giocarsi tutto nel giro di pochi minuti”. Si buttò a capofitto nella

letteratura, una full immersion di Vittorini , Pavese , Calvino , Gadda, Bodini,

Sinisgalli, Scotellaro , Beckett, Jonesco, Whitman , Queneau , Joyce , i maudit

francesi , fin quando capì che il “ladro di fuoco” rimbaudiano era lui: “A suo

carico sono l’umanità , e perfino gli animali; egli dovrà far sentire , palpare,

ascoltare le sue invenzioni; se quello che porta da laggiù ha forma darà forma;

se è informe , darà l’informe. Trovare una lingua , un linguaggio universale”.

E’ tutto lì il problema. E quindi dovrà accettare le sue insidie, addentrarsi in

quella foresta di significati per riemergere con immagini figurali, nuovi

linguaggi, strumenti avanzati, amalgama incosciente di dati,suoni, colori, segni,

oggetti, che non avrebbero trovato mai una sistemazioni definitiva . La sua

opera si sarebbe nutrita continuamente di tutti i materiali possibili della realtà e

dell’irrealtà , forse sarebbe servita a qualcosa, a qualcuno, o forse non sarebbe

servita a niente. Comunque , lui , questo pensatore liquido e feroce , questo

pensatore humoresque e tragico , che sentiva la necessità di una memoria

fedele, e che era in ogni storia , - sasso , cristallo, salmone azzurro, cane ,

cervo, capriolo , vanga e trivello, fucina e gallo bianco voglioso di galline -

avrebbe accettato di ferire e farsi ferire dalla realtà. Quello che è certo, disse, è

che scrivere non è un mestiere innocente . “Per un narratore, - dice Salvatore

Colazzo -per quanto sappia trattenere il respiro, sono troppe le crepe, le ferite:

in lui la parola tende a moltiplicarsi ancora –“echi. Echi, solo echi”-, diventa

concrezione che cresce e si autoalimenta, spurgo forse…”

Del resto , Dio acceca chi vuole e illumina chi vuole, a colpi di luce sbieca. Noi

, da oggi, dice, dobbiamo finirla sia con le seghe celesti che con la teoria degli

amministratori della polvere che si moltiplica in modo impressionante. E

continuò a coltivare , fino all’ultimo respiro, l’impossibile sogno di chiudere il

Mondo dentro un libro, “un libro – scrive Astremo - infinito, fatto di parole

meravigliose, splendenti, in continuo accumulo, in continuo divenire,

attraverso un’azione di lavoro sul linguaggio quasi scientifica, mai

sconclusionata, fortemente sentita”

1. Parole di carta

Oggi Antonio Leonardo Verri avrebbe compiuto sessant’anni, se – come scrive

Maurizio Nocera nel suo “Antonio, Antonio, o dell’amicizia”, Il Laboratorio,

Lecce, 2003 - un poemetto, un lamento alla Garcia Lorca - non gli avessero

spezzato le ali “all’incrocio del bivio dell’amore , /sul quinto ulivo della strada/

attraversata dalla civetta vecchia malridotta/ e cornuta pure”. Era il 9 maggio

1993 e quella morte , per un incidente stradale , pose fine ad un movimento

letterario salentino importante , ad un Gruppo d’avanguardia che aveva creato

lo stesso poeta di Caprarica di Lecce circa vent’anni prima, con “Caffè Greco”

e “Pensionante de’ Saraceni” (fogli volanti di poesia che si vendevano ai

passanti , ai semafori , a cento lire o anche a meno ) , partendo dal suo piccolo

paese, un microcosmo , una sorta di Macondo salentina , centro dell’universo.

Ma “forse la morte non porta via tutto”, aveva scritto lui in occasione della

prematura scomparsa di un altro poeta salentino , il magliese Salvatore Toma,

che lui stesso aveva scoperto, (se ne andava in giro, col lanternino , a cercare i

suoi simili, i “selvaggi” come Edoardo De Candia, Claudia Ruggeri, Anna

Maria Massari , gente lunare , inadatta a vivere su questa terra). Ma chi era

Verri, questo fabbricante di armonie , questo cercatore di parole che non

sapeva parlare ( balbettava) senza una “lingua di carta”, ma sapeva usare l’arte

suprema della parola che illumina senza farsi troppo capire? Era , appunto, un

mago di parole , “ parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte

strani momenti della mia vita, che molti dicono povera” , parole che riusciva a

infilare nei ripostigli più segreti, un prestigiatore che le srotolava nei tappeti

più colorati , le faceva cantare con voce di violino o contrabbasso ; “perverso

amante del neologismo sfinterico, - scrive Astremo - per la necessità vitale di

costruire un mondo possibile alternativo, fatto di grafemi, fonemi, lessemi

dotati di una loro autonomia”, Verri era uno che con le parole scriveva il

mondo, le cose , i desideri , le attese, le speranze, la vita, ma anche la morte,

quel viaggio verso l’oro e il buio che sapeva essere prossimo . E allora

cominciò a sotterrare i suoi sogni.( “Ho solo vuoti , solo amarezze,

sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare

con le Pasque e i Natali al posto giusto”) . Le parole , (la sua lingua di carta ) ,

forse avevano perduto la fluidità, l’allegria , la magia , il loro potere

divinatorio, non riusciva più a trovarle , gli restavano nelle mani, “nelle

palme congiunte “ Quelle storie di carovane piene di tagli di luna adriatica e di

confusione di luce e di blu che tutti chiamavano mare erano un groviglio di

respiri, sensazione di ambra e corallo, l’abbraccio forte del padre, il bacio sulla

bocca , il gesto veloce della mano piena di dubbi, lame scure e aperte , il

sentimento di sconfitta, il senso di pesantezza, l’inciampo. Le parole ormai non

lo consolavano più delle sue fatiche immani, delle perdite, rinunce, sfinimenti ,

bruciature, ferite . Aveva il vecchio cuore “tagliato a spicchi , non ancora del

tutto sbrecciato , inesploso, il solito vicariante corpo squassato dai vecchi soliti

colpi di tosse , il solito inverno ( col solito lardo, con le solite cotiche , col

solito vino) , il solito mattino che cola dall’argento dei cavoli e l’urgenza di

ogni cosa …E il correre stolto , e il correre continuo , con ali bianche , quasi

senza corpo , verso il solito albero d’oro , verso il solito vecchio profumato

Eldorado”

Quando il suo grande corpo da antico messapo , la sua barba intinta

nell’inchiostro saraceno , quella perfetta scultura di contadino che sa di terra

senz’acqua rocce cardi spine sudore fatica sangue, quella figura di orco

tenero e barocco che accarezza i bambini , grumi di carne e sangue tremanti e

singhiozzanti, nelle sue manone impacciate , si è ormai ridotto a cadenza di

memorie accartocciate , e lo spirito gli sollecita la fine eterna , eccolo vedere

con estrema lucidità l’inizio e la fine , eccolo pensare , magari per un attimo,

che avrebbe potuto essere l’essere dell’essere solo che “amore lo avesse colpito

bene alle viscere ,al momento giusto” . In fondo , - aveva ragione il vecchio

Totò Franz Toma - è bastato un fanciullo tenero e furente, pieno di irrisioni ,

deliri, sogni e incantamenti , come Rimbaud , a sconvolgere tutta la letteratura

occidentale. E’ stato lui per primo a cercar scampo dall’ipocrisia e dalla

menzogna , a rigettare la logica che presiede tutto il nostro sistema di pensiero

e di forma , a ritrovare nel primordiale , nel selvaggio l’impatto bruciante e

puro con il vero. E’ stato lui a risvegliare la parola dalla sua tradizionale

funzione evocativa e simbolica, per ravvivarla e immedesimarla con la cosa

presente. Tutte cose che il poeta di Maglie sapeva per istinto e a suo modo

aveva imitato il grande “Rembò” ( entrambi erano morti giovani , per eccesso)

, e che lui , invece , il vecchio “Ar”, ormai quarantaquattrenne , aveva tentato

di mettere in pratica, ma forse non c’era riuscito. Lo avrebbero ricordato ,

soprattutto, ( così scrive sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” Raffaele Nigro,

scrittore di fama consolidata , e suo adepta al tempo della “rivoluzione Verri”)

come grande organizzatore culturale, carismatico tessitore di una nuova trama

di fili rosso Salento, in cui –dice Salvatore Colazzo - venivano scoperti ( o ri-

scoperti) personaggi geniali variamente creativi, alimentati da una cultura

complessa, antica, misteriosa, capaci di dialogare col mondo, rivoluzionari,

sovversivi per interiore esigenza di esplorare l’aperto, il diverso, l’oltre; angeli

terribili della parola, del colore, del suono che incarnavano l’inquietudine, la

disperazione , l’irrisione, la luce e l’ombra , lo stupore delle cose e il furore

distruttivo che è insito nella creatività. Le riunioni , le celebrazioni, i riti di

questa setta iniziatica che mescolava un po’ tutto, psicanalisi, letteratura,

pittura, folklore , politica, avvenivano spesso presso il Mocambo di Sternatia ,

in cui si beveva fino allo stordimento, all’obnubilamento. Ed erano queste le

conseguenze dell’amore per l’arte e la poesia, cose per nulla innocenti, dice

Verri, che creano una serie di sbandati, di vagabondi in cerca di spigolature

nei prati dell’infinito, scompiglio, singhiozzo , dolore e un mare di silenzio.

Niente di nuovo, del resto, disse una volta . A volte mi pare che quel che scrivo

sia già accaduto…

2. Guisnes e la Betissa.

Forse prima di morire ricordò quando tornava a cavallo coi trofei della città di

Guisnes , e spaziando già nel rigo , nei segni, non riusciva a contenere la sua

lussuria e la sua baldoria , e rapiva una donna coi capelli di tabacco , le punte

del seno scure come more, gli occhi di rondine . E beveva nella tazza antica

della sua mente cercando il sapore avvelenato e forte della storia che

tracimava, Cretesi Messapi Spartani, Bizantini, Saraceni, Turchi , e la perpetua

città di Guisnes , là davanti , al traguardo dei novanta gradi , insieme a Nocera

, fotografati da Bevilacqua in una sfida grottesca; ecco le ombre di Guisnes

(alias Gardignano) che si gonfiano e si avvolgono e dilatano, complottano ,

radendo i muri…

Verri ha sempre cercato il pericolo, come un rabdomante cerca l’acqua. Anzi,

era lui stesso che creava il pericolo, sceglieva il sentiero più stretto , e portava

sulle sue spalle tutta la montagna molliccia di Guisnes, che era poi il peso di

tutta la terra, una vecchia ruota niente di più…”Alzo la terra , non mi serve

sapere l’ora , forse non mi serve capire perché un mugnaio scriva una

cosmogonia o un fornaio un trattato sulle forme…” Oppure provava ad

assaltare il cielo , a balzare verso il cielo , a drizzare la schiena in un volo

disperato , come aveva visto fare a un pianista negro al pub di Maglie, ma non

c’era niente da fare . Non c’era mai riuscito . Non ci sarebbe mai riuscito. Lui

era angelo da pollaio , come quello di Marquez . Le ali ce l’aveva , ma non

servivano. Avrebbe continuato ad andare in giro come un disperato , per altri

inferni, sempre pieno di strazi , sguardi di vetro e di cieli ricolmi di stelle da far

male. Per ogni abbraccio, per ogni nuova forma di luce e d’amore non

avrebbe ottenuto altro che risucchi ritmati , colpi in gola , rantoli , coltellate al

cuore. Era Rimbaud , con la sua dolcezza mortale e l’insolente pietà , alle

prese con le vocali, con una grossa vocale (che passione!) ; o un architetto che

costruiva le sue città invisibili , luoghi speciali , paesaggi urbanistici dove

liberare viaggi e fantasia . Geometra, musicista, pittore, aviatore , era uno

scrittore intento a dare un’ombra inclinata al testo, al suo progetto di scrittura ,

il famoso “declaro”, il declarus di Fra Senisio il siculo che nel ‘300 aveva

scritto uno straordinario atlante linguistico. Aveva detto che non sarebbe

morto se non avesse scritto il declaro, la summa della sua scrittura , della sua

poetica, della sua ragione artistica , della sua stessa esistenza . Lì c’era tutto un

magico equilibrio di contrari e un solido riparo all’amore per sua madre e la

sua terra. “Stefan ha un Declaro per la testa, libro di libri, di parole e basta, un

declaro che pretende il sacrificio, la scancellazione di qualsiasi cosa. E allora il

corpo viene invaso da parole; più le parole crescono e più il corpo si ritrae,

diventa l’ombra di una mano sopra il foglio”.

Affannato, insoddisfatto, annota, riscrive con foga il Gran Libro , opera con

dubbi incertezze tormenti angosce timori e tremori , non sa veramente di che si

tratti ; sa solo che è quello il suo impegno su questa Terra , questa mostruosa

e affascinante “Betissa” , questa donna – scrive Fabio Tolledi- dalla fica

dentata , marchingegno e divina creatrice , abnorme ammasso di carne e di

luridume , di strabiliamento e di desiderio, di miasma e di profumo, di

seduzione assoluta e di orrore , che è compresenza ambivalente della madre e

della terra madre .

3. Vi lascio la città

Sa che deve lasciare tutto , e lo dice , con la sua lingua di carta , Vi lascio la

città, proprio non mi va di scrivere , non posso continuare a concepire nelle

immensa bocca di questo libro, vi lascio la città , è tutta vostra , una volta era

rossissima , porosa e si rifletteva nel mio occhio strabico , nelle mie

misurazioni, nelle mie balbuzie , nelle mie ire orgogli , brutture , timori

pianti…Vi lascio la città , consumate quel che vi pare , non ci sarà più

pomeriggio né domenica sul mio declaro , non ci saranno più le mie grida , né

le vostre, ora non ci possiamo più capire. Guissnes è così rossa e putrida che

solo riesco ad alzare la terra …vi lascio la città , non siamo più credibili …il

libro è vuoto come un imbuto come un fondo blu…Prendetevi la città se volete

rincorrere il gran libro che io non ho potuto fare , perché era utopistico, e

perché non avevo più tempo...

Ma il suo peccato era molto più grave e non gli verrà perdonato. Aveva cercato

di saccheggiare gli spazi del cielo , gli spazi del dio geloso , di rovesciare , con

il suo arco , l’iddio geloso. (Mi portai nella cella una ragazza viva dal seno

duro e l’anca delicata simile ad una viola fiorentina. E le chiesi d’insegnarmi

un po’ d’orizzonte e vidi le mani del tempo che viveva attaccato ai muri della

mia città, udii le voci e la linfa dei tronchi che vi scorrevano dentro).

Sa che occorrono molti scontri con i mulini a vento affinché uno decida di

ammettere la realtà. E la realtà è “che un artista non fa ciò che vuole , ma ciò

che può”. Ma non ha rimpianti . Non è più tempo di rimpianti per questo

inguaribile e invincibile visionario, “ In fondo ogni parola è adorabile , anche

la sciocca, la usata , che tutto sia un miracolo, la neve il pane la madre Otranto

il rossore le fughe i marchingegni della notte le ragazze mulacchione le

scoperte la scrittura il Turco dolce e un candore che non finirei di

raccontare…” Sembra quasi un addio del giovane Holden.

Tutte queste cose Verri le ha scritte , in vent’anni di giornalismo letterario e di

editoria alternativa , di sperimentazione linguistica e creativa, e altre ne aveva

nella mente, insieme a colori, profumi e musica felice, l’odore del pane, il

ritornar leggero a volare, le coltellate di luce, la fuga per la vittoria, la sabbia ,

la fatica , la barriera dei propri occhi, la fica , il sentimento dei muretti a secco,

l’emozione della mani segnate del padre, delle rughe della madre, foreste

palazzi e risate , le sciocchezze , le bevute , i prati e un po’ d’orizzonte per

vedere odalische e cammelli e distese di sabbie roventi, da quel gran Saraceno

che era. Avrebbe voluto reincarnarsi nel Galateo ( al secolo Antonio De

Ferrarsi) , che aveva saputo interpretare stupendamente, alla grande nel suo

“Fabbricante d’armonia”, un’umanista che ritrova se stesso e la sua identità nel

ritorno nella sua terra, fra la sua gente. Un brano davvero esemplare: "La

gente, qui, per me, come vi dicevo, ha il colore del mare, ha l'andatura di

un'onda, il cuore negli occhi, un corpo azzurrato, perfetto...è stupenda questa

gente...anche nel dolore, anche quando urla, quando impreca...: questa gente ha

l'umore di questa terra, cresce con essa, ad essa confida i suoi mali, le sue

gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze... Qua si impreca alla morte, come

vi dicevo, si grida...i paesi, qui, parlano con le campane, con le campane si

annuncia un po' tutto - e il suono spande la sua ombra su distese di fieno e due

vecchi sulla chiesa sono una carezza d'infinito: l'infinito si può scovare

dappertutto in questo, e ogni cosa, ogni persona, ha un suo particolare stupore,

dolore... Succede così anche a me...”

Ci rimangono i suoi lavori, da “Il pane sotto la neve” a “ La Betissa, storia

composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora “ (un testo – scrive

Tolledi , di una densità poetica assoluta , di una densità altra che poco ha a che

fare con l’intonaco putrido delle identità salentine , con la biacca plastificata

della morte da depliant turistica di cui in questi ultimi anni abbiamo

immellassato i nostri occhi e ciò che resta del nostro cuore ) , da “Fabbricante

d’armonia ( la ricordata biografia del Galateo) alla “Cultura dei Tao” (

“folletti dell’aria con dentro il salentino mao e il veneto bao) da Il naviglio

innocente a Il suono casual, da Bucherer l’orologiaio (postumo) a “ I trofei

della città di Guisnes”, (che taluni considerano il suo capolavoro , “un libro

troppo importante per la letteratura italiana d’oggi”, un libro che evoca

Calvino, Kafka , Gadda e Wells, con una storia allusiva e angosciosa del

mondo di domani , con dentro un sacco di cose nuove , il pastiche del

linguaggio sperimentale, magmatico , vischioso, con le manipolazioni del

dialetto, le architetture e l’urbanistica che sorregge una città tutta mentale , un

libro che forse troverà gloria tra cinquant’anni, quando si avvererà la sua

profezia) , al Quotidiano dei Poeti (“Cominciate, poeti, a spedire fogli di

poesia/ ai politici, gabellieri d’allegria) , impresa utopistica, folle, che si

realizzò e diede a Verri e al Salento due settimane di notorietà nazionale , tutte

opere che solo grazie alla grande ostinazione , allo sforzo , alla venerazione e

all’amore profondo del gruppo di amici che hanno creato la Fondazione Verri ,

che tengono in piedi uno spazio e una biblioteca - archivio dove sono confluite

le sue carte , oggi abbiamo la possibilità di leggere , di apprezzare e valutare.

Alcune di esse sono diventate quasi oggetto di culto, come ad esempio i due

grandi, enormi volumi curati da Maurizio Nocera, il mitico “Quotidiano dei

Poeti” e “Pensionante de’ Saraceni” , che non era un saraceno a pensione ,

alias Verri, no. Ma un ignoto collaboratore del pittore Carlo Saraceni , che

lavorava a Roma nei primi del seicento. “Verri ha significato per molti di noi –

scrive Eugenio Imbriani – il piacere di incontri impensati con personaggi e

cose elevati e curiosi, come il pittore di cui amava il nome e la storia e al quale

ha intitolato forse la parte più cospicua della sua attività editoriale…” Ma

Verri ( lo sappiamo ) amava giocare con le parole , amava le ambivalenze , e

nel nome del pittore seicentesco , nel suo ignoto umile pensionante aveva visto

come un lampo una figurazione un destino, una profezia , e vi si era

rispecchiato , aveva fatto clic, un’istantanea con quella polaroid che aveva

nella sua mente e fissato il quadro, per sempre. Roma, 6 aprile 2009 Augusto Benemeglio