Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema...

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1 Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi» 1. Il valore politico della filosofia. E’ ben noto il motivo per il quale Antonio Gramsci nel Quaderno 11 del 1932-33 afferma «la necessità», per dirla con le sue parole, «di rimettere in circolazione la posizione filosofica di Antonio Labriola che è pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta» i . Con l’opera di Labriola ne va del rapporto tra filosofia e marxismo, nel senso che egli, ben al di là degli scritti sparsi e poco sistematici a tal riguardo di Marx ed Engels, dedica l’attività essenziale del suo pensiero a identificare e definire il marxismo come filosofia, ossia come sistema di pensiero autonomo, che trova unicamente dentro di sé le ragioni della propria fondazione. Gramsci, che è ben consapevole di quanto affermare l’originalità teorica del marxismo significhi combattere sul piano delle idee da un lato contro la riduzione crociana del marxismo a canone storiografico e dall’altro contro la regressione del materialismo storico da concezione complessiva del mondo a materialismo naturalistico e volgare, è su questo assai chiaro: «In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi» ii . Sottolineatura de “il solo” da parte di Gramsci, che va esplicitata in riferimento a un contesto di teoria filosofica e di

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Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi»

1. Il valore politico della filosofia.

E’ ben noto il motivo per il quale Antonio Gramsci nel Quaderno 11

del 1932-33 afferma «la necessità», per dirla con le sue parole, «di

rimettere in circolazione la posizione filosofica di Antonio Labriola che è

pochissimo conosciuta all’infuori di una cerchia ristretta»i. Con l’opera di

Labriola ne va del rapporto tra filosofia e marxismo, nel senso che egli,

ben al di là degli scritti sparsi e poco sistematici a tal riguardo di Marx

ed Engels, dedica l’attività essenziale del suo pensiero a identificare e

definire il marxismo come filosofia, ossia come sistema di pensiero

autonomo, che trova unicamente dentro di sé le ragioni della propria

fondazione. Gramsci, che è ben consapevole di quanto affermare

l’originalità teorica del marxismo significhi combattere sul piano delle

idee da un lato contro la riduzione crociana del marxismo a canone

storiografico e dall’altro contro la regressione del materialismo storico

da concezione complessiva del mondo a materialismo naturalistico e

volgare, è su questo assai chiaro: «In realtà il Labriola, affermando che la

filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è

autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente

la filosofia della prassi»ii. Sottolineatura de “il solo” da parte di Gramsci,

che va esplicitata in riferimento a un contesto di teoria filosofica e di

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filosofia politica non solo italiano e nazionale ma europeo e internazionale,

almeno per chi tenga a mente la prospettiva, oltre che für ewig,

strutturalmente weltgeschitlich del modo di pensare di Gramsci. Per dire

cioè che, nell’ambito del marxismo internazionale, è per Gramsci

essenzialmente all’opera di Antonio Labriola che va riconosciuto un

carattere fondativo quanto a legittimità e autorevolezza del marxismo a

parlare, non solo di modi di rapporti economico-sociali di produzione e di

rivoluzioni storiche e di conflitti tra le classi, ma anche di filosofia, di

verità, di oggettività.

Del resto per Gramsci rimettere in circolazione, con Labriola, la

filosofia è indispensabile perché la categoria forse più riassuntivamente

originale del suo pensiero, quella di «egemonia», appare incardinarsi

sull’identità proprio di politica e filosofia, quale capacità di una classe

egemone di proporre una Weltanschauung, una prospettiva di

universalizzazione, più universale delle classi antagoniste. E non a caso già

nel Quaderno 3 del 1930 la domanda che si pone del «perché il Labriola

non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica» è inserita in

un contesto in cui la filosofia, l’«impostazione del problema filosofico» ha

a che fare, guardando evidentemente all’Unione sovietica, con la creazione

di un nuovo tipo di Stato e di una nuova civiltà, per la quale il marxismo

deve passare dalla fase e dalla forma di mitologia e religione popolare a

quella di una cultura più raffinata e superioreiii.

Ed è il lemma, uno e bino, di «filosofia della prassi» a costituire,

com’è noto, il trait d’union tra Labriola e Gramsci, il concetto che dal

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primo passa nel secondo, per esprimere, con questo nuovo termine,

rispetto a quello più diffuso in area tedesca e più in generale nel milieu

della II Internazionale, di «concezione materialistica della storia»,

l’originalità filosofica di cui si diceva. La mia ipotesi di lettura che in

questa sede vorrei proporre, è che, per cogliere la continuità e la

discontinuità che lega i due autori nell’uso e nella trasmissione di questa

endiadi, di questa coppia concettuale, sia necessario far intervenire la

funzione di una terza categoria che è quella di “idea/ideologia”, la quale

costituisce a mio avviso il terzo indispensabile nel costituire i legami di

senso possibili tra prassi e filosofia.

2. Prassi e teoria: l’autoconfutazione del materialismo storico.

Se il significato più ampio di «praxis» nei Saggi labrioliani sul

materialismo storico è quello di attività umana in generale, concepita nel

suo insieme di atti di azione e di atti di pensiero, il suo significato più

specifico e fondante nelle medesime pagine è, com’è noto, quello di prassi

lavorativa, quale attività precipua dell’essere umano nel suo emergere e

distinguersi dal mondo naturale e quale forma sociale dell’agire che

precede e subordina, nella legalità autonoma del suo farsi, il momento del

pensieroiv.

La «filosofia della praxis», definita nel Discorrendo di socialismo

come «il midollo del materialismo storico»v, argomenta infatti, come vuole

il materialismo storico-economico di Marx ed Engels contro il

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materialismo solo naturalistico di Feuerbach, che la vita dei singoli e degli

insiemi sociali è caratterizzata essenzialmente e in primo luogo da

quell’agire collettivo che è il lavoro, quale opera dell’uomo che,

costantemente in rapporti determinati con i suoi simili, agisce sul proprio

ambiente naturale per modificarlo e renderlo adatto al soddisfacimento

dei propri bisogni, trovandosi a sua volta costantemente modificato dalle

modificazioni di tale «ambiente artificiale»vi. E qui si potrebbe a lungo

analizzare la teoria dell’agire umano nella storia che è propria del Labriola

premarxista. Come e quanto cioè già nel suo realismo herbartiano ci sia

una compresenza di natura e storia, e quanto l’agire umano cada sempre in

un circolo di condizionamento naturale, a partire da una condizione

animale dell’essere umano. Esemplari in questo senso gli scritti degli anni

1873-1878, Della libertà morale, Morale e religione, Del concetto della

libertàvii, dove c’è un profondo intreccio di determinismo biologico-

fisiologico da un lato e di lenta e complessa ma, alla fine affermantesi e

autonoma, formulazione dell’idea e del valore. Ma non è su questo, sul

nesso di natura e libertà che connota la teoria premarxista dell’agire in

Labriola, che qui voglio fermarmi, quanto invece su l’aspetto più

problematico che in generale una “filosofia” della praxis trascina, a mio

avviso, inevitabilmente con sé.

Se infatti la filosofia della praxis privilegia la praxis in quanto

lavoro come fondamento della vita storica e sociale, affinché di tale

praxis vi possa essere una filosofia – ossia una riflessione e una

sistemazione teorica che non siano esse stesse immediatamente una

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pratica, un lavoro - è necessario che il rifiuto della filosofia rivendicato

da Engels e Marx nell’Ideologia tedesca e nella Sacra famiglia, da Marx

nella Miseria della filosofia, e riaffermato da Engels nel Ludovico

Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca e

nell’Antidühring, venga in qualche modo attenuato e ridimensionato. La

rivendicazione di una «prassi totalmente pratica», quale viene sostenuta

da Marx nella Sacra famigliaviii, e l’abbandono di ogni pratica politica che

s’identifichi con la critica teorica, qual è stato il caso dei Giovani

hegeliani, ha imposto infatti ai due eroi eponimi del comunismo di

concepire l’attività di pensiero in generale e la filosofia in particolare

come l’esito più astratto della divisione sociale del lavoro. Se il lavoro è il

luogo più reale e più vero della realtà, in quanto radicato nella materialità

della vita, tutto ciò che è distinto e si separa da quel luogo primario non

può che essere secondario, sul piano ontologico, e fallace su quello

gnoseologico, appunto perché astratto e lontano da quella dimensione

primaria del senso e della vita. In particolare fallace e mistificante deve

essere la filosofia, che di quell’ambito derivato e secondario di vita

rappresenta l’estremo più astratto e speculativo.

In questa definizione di ciò che sia la filosofia si esplicita, com’è

evidente, quella funzione teorica per eccellenza che per Engels e Marx è

costituita dall’«ideologia», quale falsa coscienza che deforma e capovolge

il mondo, facendo apparire, come aveva teorizzato già Feuerbach, con

l’Essenza del Cristianesimo, ciò che è secondario come primario, e dunque

facendo apparire ingannevolmente per Engels e Marx la vita dello spirito

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come precedente e determinante la vita del corpo e del lavoro: cioè la

produzione dei sistemi d’idee, fondati sulla coerenza del principio di non

contraddizione, come rimuoventi ed occultanti la dialettica della vita reale

fondata sulla lotta e le opposizioni delle classi.

La riduzione radicale di ciò che è prassi umana al lavoro, quale

criterio fondante sia il materialismo storico che la lotta per il comunismo,

non può che ridurre contemporaneamente ogni spazio distinto per la

produzione teorico-culturale, relegandola allo spazio invece opposto della

mistificazione e del capovolgimento. Non si badi nel senso dell’illusione,

dell’apparenza soggettiva, bensì nel senso dell’apparenza oggettivamente

dovuta alla separazione e alla lontananza del lavoro intellettuale dal lavoro

manuale. Con la conseguenza, però, che questa diventa l’aporia, la

contraddizione principale e autoconfutantesi dello stesso materialismo

storico, giacché l’esclusione della filosofia dell’ambito della verità

impedisce alla stessa filosofia del materialismo storico di costituirsi come

pretesa di scienza e di verità. Accade cioè che nella filosofia della prassi

la valorizzazione estrema della prassi, svalutando completamente la

filosofia, rende impossibile la filosofia della prassi medesima. Vale a dire

che il marxismo, nel momento stesso in cui pretende di affermare la legge

del conoscere come un’astrazione dall’agire lavorativo, si costituisce

contraddittoriamente come eccezione della legge stessa.

3. La storia tra scienza ed arte

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Ora, è noto che Labriola nei suoi Saggi sul materialismo storico

non ha mai riflettuto sul problema della filosofia nel suo rapporto con il

marxismo in questa formulazione esplicita e consapevole. Ma è tutta la

tessitura concettuale dei suoi Saggi, la sua riflessione articolata e

sistematica sul materialismo storico, come l’intero ed ampio suo percorso

di studioso prima dell’avvicinamento al marxismo, a porre la questione del

rapporto tra le «opere degli uomini» e le «forme della coscienza» e a

porlo in un modo tale da sottrarlo al nesso di estenuazione e di

svuotamento reciproco, di opposizione dialettica tra valori contrari, di

«dislivello ontologico»ix, come è stato ben detto, che connota prassi

economico-materiale e forme ideologiche dall’altro nei classici del

marxismo. Perché la peculiarità del marxismo di Labriola sta proprio, io

credo, nella tensione e nello sforzo di concepire in modo diverso la

questione delle idee, nel tentativo, assai inquieto e tormentato, di

sottrarre tale questione al nesso oppositivo valore-disvalore o, se si vuole,

di «struttura» e «sovrastruttura», per ricollocarla e ripensarla in un

ambito di distinzione e compresenza, senza differenziazioni assiologiche,

rispetto all’agire economico. Il fattore che Labriola mette in campo, per

compiere questa operazione nel corpo teorico del marxismo, gli viene

offerto da tutto il suo passato di studioso pre-marxista ed è la scienza, o

meglio sono quelle scienze storiche, a muovere sopratutto dalla psicologia

dei popoli e dalla psicologia individuale, ma anche dall’etnologia e dalla

linguistica storica e comparata, dalla storia del diritto e delle istituzioni

politiche, che Labriola ha coltivato in modo assai approfondito, nella

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frequentazione costante della cultura tedesca a lui contemporanea,

durante il trentennio che dagli anni ’60 va agli anni ’90x. Da quella assidua

frequentazione, che lo ha fatto partecipare intensamente del grande

dibattito tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, il Labriola

degli anni ’70 e ’80 ha tratto il convincimento che la storiografia è studio

di avvenimenti sempre determinati e specifici, è descrizione sempre

idiografica mai riducibile a leggi generali schematiche e predeterminate;

ma studio che si compie appunto attraverso le scienze, attraverso un

regredire minuzioso dai condizionati alle condizioni, dagli effetti alle

cause, che mette in campo un sapere fatto di ricorrenze e di analogie, di

ripetizioni e legalità, un sapere cioè che usa causalità consolidate e non

accidentali. «La storia è sempre determinata, configurata, infinitamente

accidentata e variopinta. Essa ha combinatoria e prospettiva – scrive in

Del materialismo storico – […] chi narra si trova di continuo a fronte di

cose, che paiono disparate, indipendenti e per sé stanti. Cogliere l’insieme

come insieme, e scorgervi i rapporti continuativi di serrati accadimenti,

ecco la difficoltà»xi.

La storia come arte e, insieme, come scienza, come narrazione di

eventi particolari ma attraverso la luce di schemi generalizzanti, di

causalità e di forme genetiche ripetute: ossia come messa in campo,

proprio per l’esattezza e la concretezza del suo scopo individuante, delle

scienze dello spirito, senza escludere le scienze della natura, quali la

biologia e la fisiologia, visto che la natura, essendo per Labriola un fare e

un prodursi, è essa stessa storia. Questo è il percorso che dallo

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storicismo, profondamente fecondato di empirismo, di Bertrando

Spaventa conduce Labriola, per dirla molto en gros, attraverso il realismo

idealistico di Herbart e le scienze dello spirito che ne derivano, al

marxismo come filosofia scientifica della storia. Un percorso che non

passa attraverso Hegel, se non inizialmente, ma assai più attraverso gli

studiosi herbartiani e neokantiani delle scienze della cultura e che perciò

sfocia, coerentemente, nella messa da canto del metodo dialettico e nel

privilegio del metodo genetico e nell’indagine morfologica. Appunto in una

ricostruzione di genesi delle forme, la quale fosse capace di ritessere

ogni volta la catena di mediazioni che dalla sfera materiale di vita degli

esseri umani procede alle forme culturali in cui quelli se la raffigurano e

l’esprimono, e che, in senso inverso, restituisca il modo in cui il diritto e

le istituzioni politiche, le credenze religiose, la produzione letteraria,

scientifica, filosofica reagiscono e condizionano sulla materialità della

vita, perché le idee, le forme di coscienza «sono anch’esse la storia -

come scrive in Del materialismo storico -. Questa non è la sola anatomia

economica, ma tutto quello insiememente che cotesta anatomia riveste e

ricovre, fino ai riflessi multicolori della fantasia»xii. Perché è solo questa

relativa autonomizzazione e liberazione delle forme di coscienza dal

riduzionismo oppositivo di struttura e sovrastruttura che consente per

Labriola una storiografia, la quale, come diceva nella prelezione su I

problemi della filosofia della storia, «sia atta a dare perfetto rilievo alle

differenze» e non «si abbandoni perciò al gusto di caratterizzare per

negazioni e antitesi»xiii.

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Eppure a mio avviso tale operazione, d’innestare e di sovrapporre

sulla teoria scientifica della storia di Engels e Marx con il suo altissimo

tasso di determinismo ed economicismo le scienze storiche dello spirito,

al fine di una valorizzazione più articolata e distinta dei vari ambiti, non

economici, della prassi umana si risolve in un esito fortemente

problematico, anzi aporetico. Giacchè, se è indubbiamente vero che tutto

il percorso dei Saggi è connotato dallo sforzo di sottrarsi al riduzionismo

economicistico, pure quello sforzo finisce col riaffermare costantemente

il primato dell’economico e della prassi come agire lavorativo e materiale,

secondo quanto scrive esplicitamente nel Discorrendo. «Dalla vita al

pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal

lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e

non da questo a quello. […] In questi pensieri è il segreto di una asserzione

di Marx, che è stata per molti tempi un rompicapo, che egli avesse, cioè,

arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che

alla se movenza ritmica d’un pensiero per sé stante (- la generatio

aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la se movenza delle cose, delle

quali il pensiero è da ultimo un prodotto»xiv. Nel senso che per quanto

Labriola versi tutte le sue strumentazioni concettuali acquisite

precedentemente, tutte le sue metafore organico-biologiche, genetiche

ed epigenetiche, nella cornice teorica del materialismo storico, sta il

fatto che ricostruzione critica delle forme del vivente nella loro varietà

biologica, sociale e culturale, da un lato, e assunzione del lavoro dall’altro,

come tipologia fondamentale del creare e dare forma, rimangono termini

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ed ambiti non omogenei e riducibili: l’uno nella molteplicità delle sue

formazioni, l’altro nella sostanziale univocità della sua configurazione. Per

dire cioè che nel Labriola premarxista la filosofia della storia significa

l’esigenza di trovare delle sistematicità, delle invarianti, che valgano come

criteri – si potrebbe dire anche canoni - di ordinamento del corso, sempre

vario, della storia in una connessione, essa stessa variabile e molteplice, di

tali invarianti. Laddove nel Labriola marxista la filosofia della storia è

obbligata, malgré sois, a precipitare e costringere la molteplicità di quelle

forme in una gerarchia ordinata secondo un senso fisso ed univoco. E che

proprio nell’impossibilità di rendersi padrone di tale costrizione consista

tutta la passione ma anche la sostanziale inquietudine e il peregrinare

discorsivo, talvolta eccessivo e ripetuto, di Antonio Labriola; che proprio

nell’assai aporetica intenzione di voler tenere insieme il suo passato di

studioso idealistico di filosofia morale e di storia delle idee e delle

mentalità con il suo presente di teorico del marxismo e di militante del

socialismo stia cioè una delle ragioni dell’intensificarsi progressivo del

tratto intrinsecamente polemico della sua personalità. Insomma

l’«epigenesi» delle forme rimane ed appartiene a un ambito ontologico-

concettuale eterogeneo ed irriducibilmente altro da quella della relazione

di opposti proprio dell’ontologia dialettica. Per cui l’endiadi, una e bina, di

filosofia della prassi si rivela, a ben vedere, come una bipolarità invece

repulsiva e contraddittoria.

Né potrebbe essere diversamente, visto che il concetto marx-

engelsiano di praxis, nel suo radicarsi e concludersi nell’agire economico

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materiale, nasce, secondo quanto si diceva, come antagonistico e non

mediabile con quello di idea, coniugabile propriamente solo come ideologia

e falsa coscienza e visto che proprio la rivendicazione che Labriola fa nei

suoi Saggi della filosofia della prassi come una filosofia della storia

poggia sulla rivendicazione costante che l’agire economico, marxianamente

inteso, costituisce il principio unificatore di ogni variare storico, e valga in

tal senso, appunto, come principio propriamente filosofico. Così se nei

Saggi è costantemente affermata la necessità di una ricostruzione

genetica e circostanziata del divenire storico, volgendo gli strumenti delle

scienze specialistiche della cultura e della natura a comprendere di volta

in volta l’emersione, la variazione, la rottura che una nuova forma nei più

diversi campi del vivere sociale introduce, pure la caratterizzazione

determinante della «tendenza al monismo»xv che Labriola attribuisce alla

filosofia della prassi gli impone una visione di fondo organicistica della

realtà storica come complesso di fenomeni che si costruiscono

unitariamente attorno alla centralità di un modo economico di produzione.

Non che l’equazione tra materialismo storico e centralità della

prassi-lavoro, organizzata in uno specifico modo di produzione, non abbia

positive e significative ricadute nell’opera di Labriola. Sopratutto

nell’interpretazione del presente e nell’accorta e penetrante

consapevolezza che Labriola mostra di aver conseguito della natura, della

funzione e dell’articolazione del Capitale: attraverso pagine, in cui il

pensatore cassinate testimonia, con un’ampiezza di sguardo e con una

lucidità che ben pochi hanno poi avuto, la dialettica che stringe i diversi

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piani, tra sfruttamento e occultamento, tra produzione, circolazione e

distribuzione, del modo di produzione moderno fondato sul plusvalore e

sulla sua appropriazionexvi. Dato che la contraddizione tra capitale e

lavoro è per lui organica, non accidentale, e dunque non risolvibile

attraverso pretese giustizie redistributive e che l’antagonismo, la lotta

l’opposizione tra capitalisti e venditori di forza-lavoro rimane la chiave di

volta per intendere la società modernaxvii. Ma è appunto un lato, a mio

avviso positivo, della valorizzazione che Labriola ha fatto del monismo del

materialismo storico che va limitato al solo giudizio sulla società borghese

moderna e contestualizzato nella lotta politica che Labriola ha condotto

nell’ambito del nascente movimento operaio italiano, cercando di volgere

in chiave, diciamo per semplificare, “rivoluzionaria” la cultura e la politica

irriducibilmente evoluzionistica e positivistico-riformistica della dirigenza

del Partito Socialista. Giacché fuori della società moderna, e del suo farsi

in essa struttura onnivora e dominante la produzione di Capitale, la

dottrina del materialismo storico ricade in quella sua contraddizione

fondativa e intrinseca, di cui s’è detto più avanti, che la rende incapace di

pensare se stessa e che per tale sua aporeticità finirà di consegnare la

riflessione di Labriola sul marxismo come filosofia della storia in generale

alle insidiose, se non insuperabili, obiezioni e difficoltà, opposte al

materialismo storico da Benedetto Croce. Volendo dire, anche qui assai

schematicamente, che nel confronto prima assai ravvicinato e poi

nell’idealità dei pensieri che s’è consumato tra Labriola e Crocexviii, di così

grande rilievo per la storia della cultura e della politica in Italia, come

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Labriola ha ben potuto imputare all’edonismo e all’individualismo

marginalistico di Croce, nell’ambito della scienza economica, la sostanziale

impossibilità di comprendere il Capitale di Marx, così il secondo ha

legittimamente colpito al cuore, a mio avviso, la concezione materialistica

della storia nella sua impossibilità di elevarsi coerentemente a teoria.

4. La prassi in Gramsci come produzione autoriflessa di soggettività

Nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci l’espressione

«filosofia della praxis» compare dal 1932 per indicare, com’è noto, il

materialismo storico o la filosofia del marxismo, non solo per evidenti

motivi di aggiramento della censura carceraria, ma alla scopo, ben più

intrinseco, di sottolineare e rivendicare, in continuità con l’opera di

Labriola, lo spessore e l’autosufficienza filosofica del marxismo,

evidenziandone, anzitutto, la non riducibilità alla tradizione classica del

materialismo filosofico. Ma questa riproposizione dell’espressione

labrioliana cade nel Gramsci carcerario nel quadro di una estremizzazione

di senso, che conduce a una originale innovazione rispetto alla semantica

originaria del lemma in questione.

Non perché manchino nei Quaderni definizioni dell’attività pratica,

della praxis, riconducibili immediatamente all’atto della produzione, del

lavoro, quale intervento e azione dell’uomo sulla materia e sulla natura,

quale cioè «forma d’unione attiva tra l’uomo e la natura»xix. Come quando,

rifiutando sia l’estremo di una visione idealistica della storia che quello di

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un economicismo riduzionista, Gramsci scrive: «né il monismo materialista

né quello idealista, né ‘Materia’ né ‘Spirito’ evidentemente, ma

‘materialismo storico’, cioè attività dell’uomo (storia) [spirito]xx in

concreto, cioè applicata a una certa ‘materia’ organizzata (forze materiali

di produzione), alla ‘natura’ trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto

(praxis), ma non dell’’atto puro’, ma proprio dell’atto ‘impuro’, cioè reale nel

senso profano della parola”xxi. Ma perché, a ben vedere, la praxis storica

che fondamentalmente interessa la riflessione di Gramsci nei Quaderni è

quella che concerne, non tanto la produzione materiale di oggetti o beni

economici, quanto la produzione di soggetti, quali soggettività storiche

collettive, capaci di inaugurare, con una trasformazione rivoluzionaria, un

nuovo modo di vita e di civiltà. Sottolineando che tale nuova concezione

del contenuto e della funzione di ciò che sia la prassi storica si attua in

Gramsci a mezzo di un peculiare e determinante mutamento di paradigma

che egli impone alla nozione marx-engelsiana dell’«ideologia», la quale nei

Quaderni passa da una definizione di senso negativa ad una positivaxxii.

Appunto perché in Gramsci «ideologia» non è più sinonimo di falsa

coscienza, bensì di funzione strutturalmente costitutiva, in senso

positivo, conoscitivo, «gnoseologico» come egli scrive, della coscienza

individuale e collettiva.

Nell’ambito di questa profonda rielaborazione del marxismo sono

le Tesi su Feuerbach di Marx che acquistano agli occhi di Gramsci un

grande rilievo, tanto da tradurle egli stesso in italiano e da poter

affermare già alle prime battute della sua riflessione sistematica su

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marxismo e filosofia iniziata nel Quaderno 4 nel 1930 (Appunti di

filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie) a proposito della «nuova

costruzione filosofica» di Marx che «già nelle tesi su Feuerbach appare

nettamente questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia»xxiii.

Nel breve scritto marxiano del 1845 ciò di cui si tratta è, com’è noto, la

delineazione di una filosofia che risolva l’Ente nell’Agito, l’Essere

nell’Attività umana: che faccia cioè principio costruttore e mediatore di

senso per l’intera realtà l’attività pratica degli esseri umani. Tale filosofia

sottrae ogni autonomia e consistenza d’essere alla natura, o agli oggetti

quali enti esistenti indipendentemente dall’essere umano (come teorizza

per Marx invece il vecchio materialismo, compreso quello di Feuerbach),

per trovare in ogni realtà la tessitura e l’intervento dell’uomo, quale

attore pratico e fabbrile. Ed è proprio l’affermazione, così assoluta e

perentoria, di tale tessitura umana della realtà (anche di quella

apparentemente extraumana), è proprio tale risolversi dell’ontologia in

un’antropocentrismo pratico e fabbrile, a consentire a quel Marx di fare i

conti con il suo passato di giovane hegeliano, illuminato e radicale, che

aveva precedentemente confidato nella critica delle idee e nell’efficacia

della lotta ideologica. Giacché, se l’Ente è l’Agito, anziché l’Essente per sé

o l’Intuìto e il Conosciuto, ciò che vale, per cambiare il mondo, è la prassi e

non la teoria: appunto una prassi rivoluzionante o rovesciante (umwälzende

Praxis), com’è definita da Marx, che intervenga primariamente, anziché

sulle idee e le forme della coscienza, sulle forme invece dell’agire e del

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produrre pratico degli esseri umani, rimettendo sui piedi ciò che, in quel

mondo fabbrile, è rovesciato e invertito.

Gramsci, militante e teorico del comunismo, accoglie, ovviamente,

delle Tesi marxiane tale definizione di rivoluzione come prassi, ma

tornandovi a far giocare alla filosofia e alla lotta delle idee un ruolo

singolarmente centrale e irriducibile. Di fronte all’interpretazione data da

Benedetto Croce delle Tesi su Feuerbach nelle Conversazioni critiche,

secondo cui Marx «non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la

filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con

l’attività pratica»xxiv, egli , come scriverà nel 1932 nel Quaderno 10, vi

trova invece una «rivendicazione di unità tra teoria e pratica»xxv. La loro

questione centrale è infatti a suo avviso quella di una filosofia che si

faccia completamente pratica, ossia che si traduca in una volontà e in una

morale di massa: «il carattere della filosofia della praxis è [….] quello di

essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera

unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea,

ma ‘generalizzate’ nella realtà sociale».xxvi Vale a dire che se la filosofia

ha nella sua tradizione storico-disciplinare il compito, per definizione, di

dare sistemacità e unità alla complessità del reale, la filosofia della praxis

ha come compito quello di unificare un ceto subalterno, traducendolo da

un insieme atomistico e corporativo, in un soggetto collettivo, capace di

unificare ed egemonizzare, a partire dalla propria unità, un’intera società.

La filosofia della praxis è pratica perché genera e porta sul piano

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dell’iniziativa storica una soggettività collettiva unificata che fa della sua

unità l’orizzonte d’universalizzazione di un intera composizione sociale.

Questo processo di produzione di una soggettività collettiva, in cui

Gramsci vede il significato più proprio della praxis, come agire che attua

per un gruppo sociale il passaggio dalla non-storia alla storia, dall’essere

oggetto passivo d’egemonia altrui all’essere soggetto attivo d’egemonia,

trova il suo fulcro nell’ideologia, nel confronto e nella lotta delle ideologie.

Per Gramsci gli uomini non possono non avere ideologie, in quanto è solo

attraverso il loro tramite che hanno esperienza e danno senso al mondo.

Solo attraverso le «forme ideologiche», anche qui rovesciando il senso

della Prefazione marxiana alla Critica dell’economia politica del 1859, gli

uomini possono infatti diventare, per Gramsci, consapevoli del loro

conflitto sociale e risolverlo. Ed è dunque fondamentalmente nella

capacità di produrre da parte di un gruppo sociale un principio di

universalizzazione più ampio e coerente di quello del gruppo sociale

antagonista che si gioca, di fondo, la questione dell’egemonia.

Fuoriesce dai limiti di questo mio intervento approfondire come

per Gramsci si costruisca un’ideologia egemonica e come questa possa

produrre una nuova soggettività storica, come per Gramsci cioè si dia un

inconscio ideologico, legato alla passività economicistica delle classi

subalterne, che deve essere necessariamente elaborato, come questo

implichi il rapporto tra intellettuali organici e gruppo sociale e come

soprattutto un’ideologia egemonica implichi in Gramsci un piano

tendenzialmente organico e totalitario, l’«elaborazione di una coscienza

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collettiva omogenea» che esclude ogni interpretazione che pure

forzatamente si è voluta dare, negli ultimi anni, di Gramsci come teorico

della democrazia e del relativismo dei valori. Qui mi preme solo ricordare

la vera e propria dislocazione ontologica che sul piano della struttura

dell’essere sociale originariamente concepita da Marx ed Engels questa

diversa teorizzazione dell’ideologia comporta nell’articolazione del

sistema gramsciano: la società civile diventa l’ambito della produzione del

consenso e della lotta per le ideologie, ed è il luogo per eccellenza

dell’iniziativa storica e politica, mentre l’ambito economico propriamente

detto viene abbassato a una sfera dell’agire pressocché naturalistica,

caratterizzata, non dalla dimensione qualitativa della volontà etico-

politica, ma da una dimensione quantitativa, misurabile con una esattezza

propria delle scienze naturali. E’ una rivalutazione fondamentale del piano

sovrastrutturale che Gramsci esprime, com’è noto, nella definizione di

«blocco storico». Ed è appunto da qui, da questa diversa teoria della

prassi e della sovrastruttura ideologica rispetto ai classici del marxismo,

che io credo vada riaffrontata la questione del rapporto Gramsci-Croce e

dell’anti-Croce di Gramsci.

Perché ciò che, in conclusione, voglio dire è che quanto transita da

Antonio Labriola ad Antonio Gramsci è, a mio avviso, il passaggio dalla

filosofia della prassi alla filosofia come prassi e che in questa

modificazione del nesso filosofia-prassi assume rilievo più preciso

l’«Anti-Croce di Gramsci», dove ciò che è di fondo in questione è il

confronto tra due diverse teorie della soggettività e della libertà. Da un

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lato la concezione crociana della soggettività come individuale e

presupposta libera alla storia attraverso il circolo delle quattro forme

apriori dello spirito, e dall’altro la concezione gramsciana di una

soggettività storica che è collettiva e totalitaria rispetto a se stessa, o

non è, e che non è mai presupposta, ma sempre posta, posta in essere da

un processo di liberazione intellettuale e morale. Così se nel confronto sul

materialismo storico tra Labriola e Croce l’elaborazione critica del

secondo si mostra superiore all’argomentare del primo, vista

l’impossibilità strutturale, io credo, di concepire una filosofia della

prassi, Gramsci fuoriesce da questa aporia spiazzando l’avversario e

assegnando al materialismo storico un campo di gioco completamente

nuovo, concependolo non più come teoria della causazione economica nella

storia ma come teoria dello svolgimento storico in quanto alternarsi di

soggettività collettive egemoniche, indagate nel loro trapassare dal non-

essere della subalternità all’essere dell’iniziativa e dell’azione storica.

Quanto per altro questa traduzione del marxismo dall’oggettivismo al

soggettivismo storico, nel confronto serrato con le teorie del soggetto

del neoidealismo italiano di Croce e di Gentile, corra, poi, il rischio di

estremizzarsi, a sua volta, in una teoria della causazione idealistica della

storia, consegnando improvvidamente l’intera storia del marxismo politico

e filosofico italiano del ‘900 a un marxismo senza Capitale, - quanto cioè

l’antropologia antinaturalistica di Gramsci lo abbia reso profondamente

inabile a vedere e a mettere a tema la trama del capitalismo come quella

«seconda natura» di cui tanto ci parla la pagina di Marx - è qualcosa che

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ho argomentato altrove ed è questione che in questa sede non può essere

ovviamente affrontataxxvii. Qui posso solo concludere, affermando che il

pensiero di Gramsci non sarebbe potuto mai giungere alla sua

originalissima concezione autoriflessiva e terapeutica della prassi, quale

produzione di una soggettività attraverso la messa in campo di

un’egemonia ideologica e filosofica, - non sarebbe mai potuto giungere

alla sua teoria dell’ideologia -, senza il lavoro assai travagliato di Antonio

Labriola sullo statuto delle idee nella teoria del materialismo storico e

sulla dignità del marxismo come filosofia.

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i A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p.1507. ii Ibidem, iii “Si può dire della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura” (A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 309). iv Cfr. l’Introduzione (Il marxismo di Antonio Labriola) di F.Sbarberi ad A.Labriola, Scritti filosofici e politici, Einaudi, Torino, 1973, p.LXXVI. v A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, a cura di R.Finelli, Ediesse, Roma, 1997, p.86. vi «La storia è il fatto dell’uomo, in quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può creare un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com’è, e come via via si modifica, è l’occasione e la condizione del suo sviluppo» (A.Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul materialismo storico, a cura di V.Gerratana e A.Guerra, Editori Riuniti, Roma, 1964, p.89. vii In A.Labriola, Opere, III, a cura di L. Dal Pane, Feltrinelli, Milano, 1962. viii «Il vero movimento però non va a finire nella teoria pura, cioè astratta, come vorrebbe la critica critica, ma in una prassi totalmente pratica, la quale non si curerà in alcun modo delle categorie categoriche della critica» (K.Marx-F.Engels, La sacra famiglia, tr. it. di A.Zanardo, Editori Riuniti, Roma, 1967, p.201. ix G.Sasso, Gramsci e l’idealismo (Appunti e considerazioni) , in «La cultura», 3, 2003, p.363. x Cfr. su ciò S.Poggi, Introduzione a Labriola, Laterza, Bari, 1981; B. Centi, Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Dedalo, Bari, 1982; Id., Metodo genetico

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e strutture morfologiche nei Saggi di Antonio Labriola, in Antonio Labriola filosofo e politico, a cura di L.Punzo, Guerini e Associati, Milano, 1996, pp.269-305. xi A.Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, op. cit., p.155. xii Ivi, p.85. xiii A.Labriola, I problemi della filosofia della storia, in Scritti filosofici e politici, op. cit., p.19. xiv A.Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p.86. xv Ivi, p.100. xvi Cfr. ivi, pp.62-64. A tal riguardo rinvio alla mia introduzione, Autonomia e legittimità del socialismo, ivi, pp.9-43. xvii Cfr. l’Introduzione di F.Sbarberi ad A.Labriola, Scritti filosofici e politici, op. cit., p. LXIX-LXXI. xviii Cfr. A.Labriola, Postscriptum all’edizione francese di «Discorrendo di socialismo e filosofia» , in Id., Saggi sul materialismo storico, op. cit., pp.283-292; B.Croce, Come nacque e come morí il marxismo teorico in Italia (1895-1900) (1938) , in Materialismo storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli, 2001, pp.265-305. xix A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.473. Sul lemma “filosofia della prassi” nel Gramsci dei Quaderni cfr. F.Frosini, Filosofia della praxis, in Le parole di Gramsci, a cura di F.Frosini e G.Liguori, Carocci, Roma, 2004, pp.93-111. xx Variante interlineare nel manoscritto gramsciano. xxi Ivi, p.455. xxii Su questo “rovesciamento” che Gramsci compie della tradizione teorica dei classi del marxismo rimando alla mia introduzione, Una soggettività immaginaria, all’edizione da me curata di L.Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma, 1997, pp.IX-XXXII; e al testo di D.Ferreri, Inattualità di Gramsci , in Aa. Vv., Percorsi della ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio C., 1990, pp.197-213. xxiii Ivi, p.424. xxiv B.Croce, Conversazioni critiche. Serie prima, Laterza, Bari, 1924², pp.299.. xxv A.Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p.1270. xxvi Ivi, p.1271. xxvii Mi permetto di rinviare ai miei saggi, «Universale concreto e universale astratto nel pensiero gramsciano», in Critica marxista, 1988, 5, pp.75-86; «Gramsci tra Croce e Gentile», in Critica marxista, 1989, 5, pp.77-92; «Sull’identità di storia, politica e filosofia», in Rivista di studi italiani, 1998, 1, pp.9-21; « Marx e Gramsci. Due antropologie a confronto», in Marx e Gramsci. Memoria e attualità, a cura di G.Petronio e M.Paladini Musitelli, manifestolibri, Roma, 2001, pp.99-121.