Antonio FiorellaAntonio Fiorella · erano così affascinate all’idea di creare un potente simbolo...

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Antonio Fiorella Antonio Fiorella Antonio Fiorella Antonio Fiorella Il labirinto della ragi o o Una costruzione di mattonci n n posati a secco Pro.www.edi Pro.www.edi Pro.www.edi Pro.www.edi o one n ni*

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UUnnaa ccoossttrruuzziioonnee ddii mmaattttoonncciinn

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In copertina disegno di Antonio Tarantino (**)

Diritti riservati

(*) Prodotti derivati da libri (mattone) che valgono la pena di essere

letti almeno in forma ridotta

(**) Nato a Tripoli, figlio d’arte, sia nella maestria del percorrere

qualsiasi genere pittorico, sia nell’incorrere in alti e bassi – genere,

ottovolante...

http://www.provole.info/2008/03/28/19/#more-19

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Introduzione:

Le frontiere della conoscenza

1° parte:

Miti e reticenze della storia

1. La storia ai raggi X dell’analisi del linguaggio

2. Su i Borboni e i meridionali

3. L’ultimo rifugio

4. La storia, tra ideologia ed emotività

2° parte:

L’ora delle cassandre

5. L’ora delle cassandre

6. Oltraggio

7. Come è potuto accadere?

8. Decrescita: dalla globalizzazione al cortile di casa

9. Incerti spiragli di luce... Anzi no: buio

10. Il pensiero lungo

11. Il dispotismo ‘dolce’ - quasi da barzelletta...

12. Il modello America visto da due angolature

13. The Specter of Inverted Totalitarianism

14. Il disegno europeo

15. Viaggio all’inferno attraverso cinque continenti

3° parte:

Il labirinto della ragione

16. All’origine dell’homo sapiens sapiens moderno

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17. Il lato oscuro delle notizie

18. Una visione distaccata e fuori dal tempo

19. Una mente libera in un mondo controverso

20. Indietro tutta!

21. Il cervello del giocoliere

22. Il pensiero vegetale

23. Nature, norture

24. Il labirinto della ragione

Conclusione

Costruzione a mattoncini

Bibliografia

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Introduzione

Le frontiere della conoscenza

C’è un fil rouge che unisce le frontiere della conoscenza. Un filo esile

e vitale che percorre tutti i vasi sanguigni. Attraverso milioni di

cellule raggiunge i capillari nelle aree più remote del corpo, e del

genere, umano. E da esso si dipana per arrivare a comprendere, dal

latino cum-prehendere prendere insieme, (abbracciare) ogni attività

dell’uomo intrapresa dai tempi dei tempi.

La mente crea sviluppa e condiziona ogni passo di qualsiasi ordine e

grado; ogni passaggio culturale, religioso, umanistico e/o scientifico

è generato sotto influenze che si propagano, in mille direzioni, per

cerchi concentrici; la conoscenza dei traguardi della ricerca

scientifica conseguiti nell’ambito del cervello, rende possibile

l’osservazione delle altre discipline sotto una luce diversa e ne rivela

i limiti, tratteggiando i confini territoriali che circondano, nostro

malgrado, la vita.

La fantasia, qualità della mente che agisce da agente esploratore, è

capace di eseguire progressioni ardite; però salti rocamboleschi,

viaggi galattici sia nello spazio che nel mondo delle fiabe non sono

che voli pindarici. Tale affermazione, nell’armonia dello sviluppo

digitale, potrà suonare una stonatura; e nel tempio che ne ostenta i

traguardi più avanzati, addirittura come una bestemmia! Ma non è

così che procede la scienza, attraverso affermazioni e smentite?

Secondo Edgar Morin gli analfabeti del XXI sec. non sono quelli che

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non possono leggere e scrivere, bensì quanti non sanno apprendere,

disapprendere, riapprendere.

Le conquiste collettive (perché di civiltà si tratta: laddove ci sono

forti squilibri, prima o poi scoppiano disastri che annullano i

progressi raggiunti) progrediscono con ritmi non dissimili

dall’incedere delle radici di una pianta. Lo dimostrano i corsi e

ricorsi storici. Il fulcro delle correnti di pensiero rimane ancorato al

territorio per tempi prolungati. I legami ambientali hanno sempre

assoggettato, condizionato, sottomesso culture, idee e religioni che

a fatica si mescolano. E più che fondersi in una amalgama nuova

appaiono come liquidi di peso specifico diverso che, di continuo,

tendono invece a riprendere lo stato naturale che gli è proprio.

La conoscenza, che non si traduce in un comportamento coerente

(o quantomeno non diventa un arnese della cassetta degli attrezzi),

equivale a un corpo in stato vegetativo: pensiero vegetale.

Nello sfondo del percorso dell’umanità resta la frattura -

apparentemente incolmabile - tra progresso e civiltà, élite e masse,

sete di dominio e bisogni primari dei popoli. Ed è una frattura che

rappresenta una miccia sempre accesa capace di riportarci indietro,

di azzerare millenni di storia.

Benvenuti in tempi interessanti, titola la copertina di un libro di

Slavoj Zizek. Il quale spiega che per i Cinesi tempi cosiddetti

“interessanti” furono periodi di guerre e lotte intestine per il potere

che causarono tragedie e sofferenze a milioni di sudditi inermi.

Infatti la peggiore maledizione che un cinese possa esprimere

sembra essere quella di augurare a qualcuno: «Che tu possa vivere

in tempi interessanti!»

Ma è risaputo - costatazione universalmente accettata - che “la sto-

ria la scrivono i vincitori.” E allora può anche succedere che sia il

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romanzo, e non i libri di testo scolastici, a riempire i vuoti e le crepe

della storia (Novalis).

L’Ultimo incontro a Dresda, romanzo di Edgardo Cozarinsky, mostra

crepe, vuoti e capovolgimenti di parti, all’insaputa degli stessi

protagonisti. Parafrasando il pensiero dell’autore, dalla narrazione

emerge un quadro sufficiente a dimostrare che le vicende della vita,

e della guerra, “bastano e avanzano per pasticciare qualsiasi

identità, figuriamoci quella di gente anonima.”

Altre volte è il filologo a mettere la storia sotto i raggi X dell’analisi.

Emilio Michelone attraverso l’analisi strutturale sull’origine del lin-

guaggio fa a pezzi un caposaldo della storia moderna. La scoperta

dell’America, l’esistenza stessa di Cristoforo Colombo, vengono così

ridotte a mito. Quanto basta per sentirsi mancare il terreno sotto i

piedi.

La ripresentazione del passato, in chiave storica, diventa zona

sismica - soggetta a capovolgimenti - soprattutto quando si scopre

di ignorare persino la storia recente della propria terra.

Pino Aprile, in Terroni, confessa di avere appreso da letture non

scolastiche, successive, come il Sud fu annesso alla madre patria.

“Forse – senza forse – neanche i meridionali sanno più chi furono…

pensano che la nostra sia ‘storicamente’ terra di emigrazione; e

fummo sempre meno ricchi e attivi del Nord (e non è vero)… Ma chi

ci crede che non è vero?”

Nei sussidiari della nostra infanzia, commenta a sua volta Giovanni

Floris, non c’è traccia degli avvenimenti così come si sono svolti. E il

poco o quasi nulla che viene detto nelle scuole superiori, rimane

ammantato dall’aureola risorgimentale. Sarà una coincidenza?

In epoche di profondi cambiamenti è difficile prefigurare l’approdo

finale. La storia economica recente ha visto svilupparsi scenari di

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tipo giapponese, greco, argentino... Uno dei tanti scenari

comprende la scomposizione del Bel Paese; l’ipotesi neanche tanto

remota è che la penisola, che da millenni è stata un coacervo di

genti in conflitto tra loro, governata autonomamente o sotto

l’influenza di potenze straniere, ritorni ad essere la patria dei mille

campanili. E’ difficile immaginare un Nord Est che si allontani

dall’euro e dall’Europa per condividere le sorti del Sud, ed è

altrettanto difficile immaginare il Mezzogiorno che si adatti al rigore

teutonico (Antonio Costato). Quale migliore preludio a una

separazione, federale o consensuale che sia, da parte di chi non

gradirebbe affatto dover sopportare ulteriori sacrifici oltre agli

inderogabili costi di transizione?

Fuori da questa crisi, adesso! E’ l’accorata esortazione di Paul

Krugman, premio Nobel per l’economia. Possediamo sia le

conoscenze sia gli strumenti per mettere fine alla crisi economica,

ma non viene fatto abbastanza per affrontare con vigore la

recessione ed eliminare la sofferenza; la disoccupazione di massa è

una tragedia, ed è insieme fonte di povertà e causa del risorgere

degli estremismi.

Secondo Keynes è una pessima scelta quella di lasciare la gestione

delle politiche economiche alla mercé degli speculatori. Paul

Krugman punta l’indice anche contro il ruolo assunto da politici e

tecnocrati europei, Very Serious People, che dibattono il problema

partendo da “un falso resoconto delle cause della crisi.” Purtroppo,

lamenta, si è affermata la convinzione moralistica che la crisi

europea dipende dall’irresponsabilità nella gestione dei bilanci

pubblici. Avendo alcuni paesi fatto registrare deficit astronomici, si

sarebbe reso necessario imporre delle regole che prevengano il

ripetersi di questo ciclo perverso. La verità è che “le élite europee

erano così affascinate all’idea di creare un potente simbolo di unità

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(l’euro) da sovrastimare i benefici della nuova moneta unica e da

trascurarne le possibili (e significative) negatività.”

Dunque ecco prospettarsi un dedalo di vie d’uscita alternative.

Serge Latouche propone un salto all’indietro che dalla

globalizzazione riporta all’artigianato locale, all’imprenditorialità da

esercitare nel cortile di casa (Per un’abbondanza frugale).

Infatti l’ossimoro abbondanza frugale porta con sé l’atmosfera di

semplicità e rigore del primo decennio dopo la seconda guerra

mondiale, quando nelle province la vita di campagna non aveva

ancora conosciuto il forte richiamo della grande industria ad

abbandonare la terra. E l’affermazione del consumismo avvenuta in

seguito non era neppure immaginabile. Quel che è certo, sostiene

Latouche, è che non c’è niente di peggio di una società della crescita

senza crescita.

Come districare la connessione tra economia e politica? Michele

Ciliberto, in La democrazia dispotica, dimostra come negli ultimi

decenni si sia imposto un “dispotismo democratico di tipo nuovo”

manovrato dai media. In questi anni, sostiene, è andato

affermandosi un modello di leadership di tipo carismatico teso a

proiettare una condotta disinvolta verso le istituzioni. Sono stati

accantonati quei valori etici e sociali che dovrebbero rappresentare i

pilastri di una società democratica. Tutto ciò è stato “reso possibile

da una vera e propria egemonia culturale realizzata attraverso un

uso massiccio e spregiudicato dei mezzi di informazione di massa ...

Con un rovesciamento sistematico di ‘apparenza’ e di ‘realtà’, di

immaginazione e di essere reale, come vero e proprio strumento di

governo e di dominio.”

Altrettanto vigorosa si presenta l’analisi proveniente dall’altra parte

dell’Atlantico. Sheldom Wolin, in Democrazia Spa si domanda come

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sia possibile che il potere economico privato, laico, cinico,

materialista, si sia alleato con il cristianesimo evangelico? E’

perlomeno strana la commistione tra l’insegnamento evangelico

(distacco dalla vita terrena) e le mire espansionistiche di matrice

industriale e militare (che fanno incetta delle risorse del pianeta). Le

disparità di potere, le forti sperequazioni tra lavoratori e dirigenti

sono conseguenze dirette della visione distorta della democrazia

dominata dal mondo imprenditoriale. Il peso delle multinazionali,

dalle risorse che superano quelle di molti paesi, si manifesta in

patria (negli USA) e all’estero attraverso l’operato delle lobby. Nel

cosiddetto libero mercato (dove si esercitano i poteri forti dando

forma a prezzi e salari) viene ad essere determinata, fino alle

estreme conseguenze, sia la ricchezza dei pochi sia la povertà dei

più. Il destino di interi quartieri, città, Stato e nazioni dipendono

dalle decisioni prese nei consigli d’amministrazioni, nelle torri dei

grattacieli o in campi da golf, dove l’elettore conta meno del nulla.

Intanto nell’inferno della povertà ogni giorno è in gioco la mera

sopravvivenza per mancanza di acqua e cibo.

Martìn Caparròs ha viaggiato attraverso cinque continenti per

“scovare storie di giovani colpiti dalla più grande ipotetica minaccia

contro l’ecosistema: ... il riscaldamento globale.” Ne è nata una

riflessione che va ben al di là delle singole tappe; il tema di fondo, il

cambiamento climatico, si trova ad essere sorprendentemente

rivoltato e analizzato sotto la lente della storia e della giustizia

sociale. La narrazione di Contra el cambio (un iperviaggio

nell’apocalisse climatica) mette a nudo la visione di dominio del

potere politico-economico, che con i suoi tentacoli raggiunge, fino a

condizionarla, la vita dei reietti sparsi nelle periferie del mondo.

Le parole mutano di significato sotto lo sguardo disattento della

storia; i commerci si alimentano di luoghi comuni; la beneficenza

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viene spacciata per trarne sempre il massimo profitto. “I paesi ricchi

hanno già fatto la loro conquista della natura, il loro sviluppo

sporco. E il mondo è messo com’è a causa loro, ma ora si dedicano a

dettare norme ai paesi più poveri...”

La parola cambiamento è una bandiera che sintetizza tutti i

movimenti dei popoli in lotta. L’idea che il mondo debba cambiare.

Dal 1789 in poi “fu una parola della sinistra: l’effetto desiderato

delle rivoluzioni...” Com’è stato possibile che la parola cambiamento

sia andata a rifugiarsi nella casa di quelli che avevano sempre voluto

distruggerla? sintetizza Caparròs. Il cambio di barricata della parola

cambiamento, è una delle maggiori perdite di capitale simbolico che

ha subìto la sinistra in tutta la sua storia.

“E’ possibile che talune tra le trasmissioni decisamente brutte siano

tali di proposito, per dare maggiore forza di penetrazione agli inserti

pubblicitari?” Questo interrogativo se lo pose Vance Packard, autore

de I persuasori occulti, più di due generazioni fa, quando la tv era

soltanto ai primi passi.

Gli anni cinquanta, negli USA, segnarono un enorme balzo in avanti

nella ricerca di spregiudicate ‘tecniche di ammansimento’ dell’homo

sapiens sapiens moderno. Avendo scoperto che “gli spettatori

ridono più volentieri e si divertono di più se sentono ridere altre

persone“ vennero programmate “le risate in scatola”; ebbero inizio

quelle trasmissioni dove un pubblico inesistente sottolinea ogni

battuta inesistente con fragorose risate. Ne derivò la creazione di

congegni idonei a produrre applausi e risate a ripetizione. Ma c’era

e c’è ben poco da stare allegri.

L’avvento della televisione ha portato una ventata di modernità nel

mondo, compreso in quei paesi rimasti ai margini delle rotte del

progresso. In occidente, per le donne dai 12 ai 25 anni, la principale

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causa di mortalità sono i disturbi dell’alimentazione. Tali malattie

erano del tutto sconosciute nelle isole Fiji. Poi nell’arcipelago

proliferarono le antenne tv e le parabole satellitari sui tetti delle

case e ci fu l’adeguamento. Effetti collaterali.

I pericoli paventati mezzo secolo fa, della diffusione di una forma

mentis piegata alla cultura dominante (del mondo affaristico e del

potere consolidato) sono realtà. E l’ondata mediatica è andata via

via ingigantendosi alimentata dal diffondersi di mezzi di comuni-

cazione più sofisticati e pervasivi. Internet, carte di credito, cellulari

registrano ogni intercalare della nostra quotidianità, spiano i nostri

momenti di incertezza, e in tempo reale sollecitano il nostro istinto.

Osservare la crisi (economica e non solo) in cui siamo immersi

soltanto nell’ottica della eccessiva speculazione finanziaria è

alquanto miope. Ma è avvenuto anche questo.

Aldo Giannuli annovera la gestione e diffusione delle notizie alla

stregua di una guerra non convenzionale. Nel libro Come funzionano

i servizi segreti dichiara che sta al lettore dotato di lucidità mentale

districarsi nel ginepraio dei media, assumersi il compito di imparare

a leggere tra le righe, porsi degli interrogativi, scoprire ritocchi e lati

oscuri delle notizie. La sfida è la ricerca della sostanza sotto la patina

di vernice. Un po’ come l’esperto d’arte che sa riconoscere stile e

pennellate d’autore.

Da un lato il potere politico è direttamente interessato all’utilizzo

della propaganda, diventata una componente fondamentale del

condizionamento della gente, dall’altro le grandi corporazioni

mettono in campo mezzi ragguardevoli finalizzati a raggiungere i

loro obiettivi. Le multinazionali, con il 20-25 per cento dei bilanci

spesi in pubblicità commerciale, sono in grado di condizionare

persino gli Stati sovrani.

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La piramide sociale può essere disegnata attraverso l’approccio alle

fonti d’informazione. In cima si colloca un gruppo ristretto di

persone (politici, finanzieri, alti dirigenti, direttori di giornali e tv)

dotate di potere e di mezzi ragguardevoli. La punta estrema di

questo gruppo è costituita dai servizi segreti.

Il bailamme multimediale, sotto l’aspetto formativo, ci riporta

indietro alla cultura orale come in un giro di valzer. Lo scrivono, in

uno stile forbito, i cattedratici Mario Groppo e Maria Clara Locatelli

nel libro Mente e cultura. Oggi siamo immersi in un mondo di

immagini e di sonorità che ci accompagnano per l’intera giornata. I

bambini sostano lunghe ore davanti alla tv; i ragazzi vanno in giro o

studiano con l’iPod al seguito e auricolari incollati all’orecchio; lo

schermo tv, oltre ad avere ormai del tutto sostituito il focolare

domestico, è diventato ospite fisso durante i pasti in famiglia. Lo

strapotere dei nuovi media è un approdo recente, del tutto diverso

rispetto alla stampa.

Gutenberg ha determinato la diffusione della carta stampata. Con il

libro è andato affermandosi un modello lineare di organizzare la

conoscenza; l’ordine, la logicità e la compiutezza hanno

rappresentato una linea guida per il pensiero. “La forma del libro è

dunque diventata la forma del sapere”.

La parola scritta offre la possibilità di riflettere, di soppesare i

contenuti. La tv sollecita il coinvolgimento emotivo totale da parte

dell’utente che così si trova immerso nelle dinamiche di un

linguaggio breve, parcellizzato in sequenze strutturate in forma di

slogan. “Il codice audiovisivo... rappresenta una forma di aspre-

sione inadeguata quando il contesto di comunicazione è esclusiva-

mente verbale (Maragliano)”.

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I costi elevati del sistema dei nuovi media e l’esigenza di proporre

notizie in continuazione, pur di catturare l’attenzione del pubblico,

condiziona la qualità delle trasmissioni. Il rapido susseguirsi di

immagini e notizie in pillole fa sì che tutto, subito, viene soppiantato

e dimenticato.

Come “avviene davanti a uno specchio che ci fa vedere cosa indos-

siamo oggi, ma non ci dice nulla di ieri (Postman)” sembriamo es-

sere ripiombati nell’antichità. Quando era prevalente la cultura ora-

le e la memoria dell’uomo era la fonte della conoscenza, le espe-

rienze del passato erano necessariamente mediate dal presente.

“Oggi siamo i protagonisti involontari di un’oralità di ritorno!”

Cos’è l’informazione? Gregory Bateson (1979) la definisce: “qualun-

que differenza che produce una differenza.” Pertanto, può essere

definita vera conoscenza l’acquisizione di informazioni che non si

traducono in comportamenti coerenti? Il soggetto che non reagisce

è paragonabile a un corpo in stato vegetativo?

Secondo Nicoletta Cavazza, Comunicazione e persuasione, il

martellamento esteso di alcune notizie, ha fatto sì che il fenomeno

della criminalità sia percepito ben oltre i dati statistici. Inoltre se il

crimine avviene dove abitiamo o nelle vicinanze, l’impatto emotivo

assume la dimensione di una vera emergenza.

La pratica religiosa, quella sportiva, viene svolta con rituali

consolidati nel tempo che sfociano a valle in manifestazioni di

fervore fideistico. I comportamenti, se non sono mitigati dall’ester-

no, diventano euforici e si autoalimentano nell’intolleranza e nel

tifo, fino a raggiungere eccessi patologici.

Il pensiero dominante parte dalla conoscenza prima, passa poi al ra-

dicamento nella maggioranza che lo adotta. Per fasi successive, si

impongono alla massa determinati modi di vedere le cose. A un

certo punto l’atteggiamento sociale diventa tale da mettere in

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soggezione chiunque tenti di esprimere un parere contrario. Il pen-

siero vegetale, speculare a quello dominante, affonda le radici nel

conformismo da un lato, e dall’altro nell’atteggiamento passivo (o

complice), a sostegno della legge del branco.

Il fanatismo, una volta attecchito, si diffonde nel terreno per esten-

sione, invadendo spazi e impoverendo l’habitat circostante. Come la

gramigna.

Se si osserva le mappe geografiche con colorazioni diverse per co-

stumi, religione e cultura, si scopre quanto poco è cambiato nel cor-

so dei secoli. I popoli migrano da un continente all’altro con il loro

bagaglio di costumi e credenze.

Le risposte all’ambiente possono scaturire da stimoli dei quali non

siamo del tutto coscienti. Pertanto è plausibile dubitare di quanto

ognuno sia padrone del proprio comportamento.

L’assorbimento passivo di quanto è diffuso dai moderni mezzi di

comunicazione “tende ad aumentare pericolosamente il cervello

collettivo” portandoci a mangiare la stessa minestra “sensoriale e

culturale.”

“La globalizzazione del pensiero diviene una sorta di neuro-potere.”

Non vengono prodotti soltanto beni commerciali ma anche opinioni

che si convertono in idee comuni, in noduli nervosi. “Ne risulta una

rete nervosa nuova, di dimensione globale, che regola la vita della

società.” (Lamberto Maffei)

Le frontiere della conoscenza, tuttavia, mostrano ancora molti punti

oscuri, aree incolte, lati aperti da pattugliare, verificare e/o

riscoprire. Più il mondo scientifico s’inoltra nello studio del cervello

umano, più intricato appare l’intreccio fra mente, comportamento e

ambiente. L’avanzata di sempre nuove tecnologie impone un rapido

adeguamento a pressanti esigenze antiche e moderne.

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L’adattamento della mente umana è alla base della relazione tra

individuo e società. L’attenta osservazione dei comportamenti porta

a scoperte che qualche volta appaiono in conflitto con quanto gli

educatori ci hanno impartito. Pertanto lasciano a bocca aperta

affermazioni come “meno conoscenza è più“, “dimenticare fa bene

alla mente” (Gerd Gigerenzer). La nostra intelligenza inconscia ci

guida in molte più azioni della nostra quotidianità di quanto si voglia

ammettere. E spesso affidarsi ad essa è un bene, anche se occorre

comprendere e definire le circostanze in cui è meglio avvalersi del

talento innato, frutto del processo evolutivo dell’essere umano,

piuttosto che della laboriosa valutazione analitica dei pro e dei

contro.

Causa le forti disparità tra abitanti dello stesso pianeta, vorremmo

chiedere a Gerd Gigerenzer se, intuitivamente, intravede all’orizzon-

te probabili rotte di collisione tra ricerca scientifica e mondo reale.

Vorremmo chiederlo anche all’astrofisica Margherita Hack, già in

rapporti burrascosi con astrologi e ambienti clericali sui destini

dell’umanità. Dovremmo interrogarci tutti.

Ad ogni traguardo raggiunto, sembra corrispondere un rischio pro-

porzionalmente più alto, tale da mettere a repentaglio l’intera posta

in gioco.

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1° parte

Miti e reticenze della storia

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“Dalle deformazioni dei fatti e delle istantanee della storia, incluse

le riprese fotografiche - storiche - esposte nei musei, nascono giudizi

sommari che fanno orrore ai corpi martoriati rimasti sepolti sotto le

macerie.”

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1. La storia ai raggi X dell’analisi del linguaggio

Cristoforo Colombo, nato a Genova nel 1451, è colui che ha

scoperto il Nuovo Mondo. E’ il personaggio storico che più di ogni

altro incarna l’avventura, poiché va incontro all’ignoto quasi

solitario nella sua ferma determinazione; segna il passaggio tra

vecchio continente e nuovo, fissa la boa di svolta tra medioevo e

modernità. Così almeno è descritto nei libri di testo scolastici per

tutte le età. “Salpato da Palos de la Frontera il 3 agosto 1492,

Colombo giunse nell'odierna San Salvador il 12 ottobre dello stesso

anno,” fonte Wikipedia. Così è stato celebrato nel centenario della

scoperta dell’America.

Poi, visitando altri paesi e incontrando persone provenienti dalla

penisola iberica, accade che per caso uno possa sentirsi dire: era

nativo della Spagna. No, del Portogallo.

Quando infine ci si imbatte in un libro (neanche tanto corposo) che

reca il titolo Il mito di Cristoforo Colombo la misura sembra ormai

colma.

Emilio Michelone, con la paziente analisi del linguaggio (puntigliosa-

mente cita documenti e studi di altri autori) arriva a scomporre ogni

tassello dello storico mosaico che ci è stato tramandato, tuttora

carico del fascino epocale della svolta marcata nel lungo percorso

dell’umanità.

“Sono arrivato al decimo piano di un palazzo perché altri sono

arrivati ai primi piani ed altri hanno messo le fondamenta,” questo è

quanto riporta l’editore per illustrare il carattere e la metodologia

dell’autore.

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Non occorre necessariamente vivere in una zona sismica per sentirsi

mancare il terreno sotto i piedi. In senso figurato - frutto della

percezione - ciò avviene ogni volta che delle certezze vengono

messe in discussione, sconquassate da movimenti tellurici improv-

visi e inattesi o da una ricerca per noi nuova che sconvolge gli

equilibri esistenti. Più è radicata, diffusa e condivisa una convinzio-

ne, tanto più diventa sconcertante la verifica del contrario, in

contrasto con l’opinione diffusa.

Concesso che il senso comune del detto popolare “hai scoperto

l’America” sta a significare: “Cosa mi stai dicendo, quello che

affermi è cosa risaputa, la tua non è una scoperta!” Uguale conces-

sione accordata all’aneddoto “è l’uovo di Colombo!” Si narra che il

marinaio Colombo costrinse l’uovo a stare nella posizione verticale

schiacciando la parte svasata del guscio dell’uovo, così vinse la

scommessa. “Il valore proverbiale, oltre che la frase stessa ‘è l’uovo

di Colombo!’ sarebbe derivata dalla semplicità lapalissiana e

imprevedibile del gesto.” Il trucco travolge l’ordine esistente, alla

stregua del baro che rovescia il tavolo da gioco.

Dopo la lettura delle prime pagine, la reazione del lettore è quella di

abbozzare un sorriso d’incredulità e d’attesa, come a significare:

Caro autore, fin qui hai avuto intuito e vita facile. Ma, a partire da

queste osservazioni, passare a scomporre la storia - studiata in ogni

ciclo scolastico, celebrata di qua e al di là dell’Atlantico, - ce ne

corre!

Eppure l’opera demolitrice di Michelone continua imperterrita a

scomporre il mosaico un frammento dopo l’altro.

Il metodo della ricerca è quello comparativo, e consiste nel mettere

a confronto “componenti narrativi di altri temi mitologici.” Il lessico

è culturalmente elevato, ma non astruso. Alla portata anche di chi è

poco avvezzo alle erudizioni degli specialisti.

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In materia di luoghi comuni - e alcune vicende storiche lo sono, - la

cautela è d’obbligo e l’essere guardinghi ormai fa parte del nostro

DNA. Tuttavia a mano a mano che si procede lungo il percorso

dell’indagine, si diventa prigionieri del ragionamento che si snoda

sotto i nostri occhi come una matassa. Ed ecco l’iniziale scetticismo

cedere il passo alla naturale curiosità, che conduce diritto alle

sorprendenti conclusioni finali.

Cristoforo, tradotto dal greco significa “porto cristo.” E il nome già

racchiude in sé una missione. Diventa emblematico quindi che la

prima persona del Vecchio Continente a mettere piede nel Nuovo

Mondo non sia “un semplice uomo in carne e ossa, ma il segnacolo

più appropriato” della fede cristiana.

L’autore lo ammette “potrebbe trattarsi di una coincidenza,

senz’altro. Però non è isolata…” E infatti altri pezzi vengono ad

aggiungersi una pagina dopo l’altra alla tesi del libro.

Ai rischi intrapresi dall’autore, nel “disattendere i canoni culturali

dominanti,” si contrappone la sfida del lettore nel prestarsi alla

confutazione del fatto storico e nel decidere di andare fino in fondo,

per constatare di persona lo smembramento del sedicente mito.

Leggere per credere. Allegoria, cabala, numeri che ricorrono con

eccessiva frequenza, tutto porta a rivelare la materia pastosa delle

favole; i sottostanti simbolismi vengono riconosciuti e additati come

cartelli stradali; la dissacrazione del fatto storico diventa totale.

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2. Su i Borboni e i meridionali

1860. Prima dell’invasione delle Due Sicilie, il reame dei Borboni era

presentato alla stregua della negazione di Dio (benché il re di Napoli

fosse piuttosto bigotto). Suoi principali accusatori, piemontesi e

britannici, erano massoni e mangiapreti. I sudditi meridionali

venivano ritenuti oppressi da un regime oscurantista (ma l’esodo di

dimensioni bibliche avvenne soltanto dopo, e Napoli era punto di

riferimento culturale per il resto d’Europa). Il regno era

all’avanguardia in molti campi finché non arrivarono i liberatori.

Dopo la liberazione, in un secolo, milioni di meridionali emigrarono

all’estero; almeno 13 milioni, forse più di 20. Comunque “il più

grande abbandono che abbia conosciuto l’Europa.”

Pino Aprile, l’autore di Terroni, confessa di averlo scoperto quando

letture non scolastiche di storia gli rivelarono com’era davvero

avvenuta l’Unità d’Italia.

Il Sud fu derubato delle sue industrie, della sua ricchezza, amputato

delle sue istituzioni e della capacità di reagire; “infine, con una

operazione di lobotomia culturale, fu privato della consapevolezza

di sé, della memoria.”

Accadde, è accaduto, che i meridionali facessero propri “i pregiudizi

di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della

colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede

quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del

male subito.”

L’Unità d’Italia non cancellò, ma rigenerò, il fenomeno del

brigantaggio, “in una stagione di grande illegittimità e confusione,”

se non di autentica guerra civile. “Soldati del re napoletano e sudditi

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legittimisti, cafoni impoveriti e veri briganti” furono accomunati

rendendoli tutti briganti. Così si espresse l’invasore attraverso i suoi

libri di storia.

“Finora avevamo i briganti” scrisse Vincenzo Padula, cronista

dell’epoca, liberale, favorevole all’impresa unitaria... “ora abbiamo il

brigantaggio... Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta... e vi

ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del

popolo.”

Liborio Romano, nonostante fosse massone e liberale, fu nominato

da Francesco II prima ministro dell’Interno e poi viceré. Favorì

l’ingresso di Garibaldi in Napoli, convinto che la città non potesse

salvarsi e per scongiurare un bagno di sangue. Insomma traghettò il

Regno di Napoli nell’Italia unita; da ministro del re borbonico

divenne ministro con Garibaldi dittatore; governò la transizione, ma

dopo solo due settimane si dimise.

“Per sempre e per tutti, sarà l’uomo che assegnò incarichi di polizia

alla camorra.” Si giustificò, spiegando che gli parve l’unica possibile

mossa, durante l’interregno, per togliere i camorristi ‘al partito del

disordine’.

Non partecipò al governo di Luigi Farini, al quale “accreditò la mala

augurata idea che il governo centrale avesse il segreto intendimento

di piemontizzare l’Italia, trattar le provincie meridionali come paese

conquistato... e così spremere quanti più vantaggi e quattrini

poteansi.” Ad altri stati preunitari annessi, era stato concesso di

conservare parte dei loro ordinamenti, almeno nell’interregno; ma

ciò venne negato al Sud.

Alla Borsa di Parigi i titoli di stato del Piemonte quotavano il 30 per

cento in meno del valore nominale; quelli del Regno delle Due

Sicilie, il 20 per cento in più. E cioè nel Sud, con un terzo della

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popolazione totale, circolava ricchezza e quattrini più che nel resto

d’Italia. Il Nord invasore era pieno di debiti; il Sud pieno di soldi.

“Compiuta l’Unità, si fece cassa comune e con i soldi del Sud si

pagarono i debiti...: al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno

delle Due Sicilie contribuì con il 60 per cento dei soldi, la Lombardia

con l’1, il Piemonte con il 4 (ma oltre la metà del debito

complessivo).” Quando nella nascente Italia arrivavano i piemontesi,

spariva la cassa degli stati annessi; “ma nulla di paragonabile alle

razzie e ai massacri compiuti” nel Mezzogiorno d’Italia.

Anzi, i meridionali furono costretti a rifondere perfino le spese per la

loro liberazione. “Tanto agognata, che ci vollero anni di occupazione

militare, stragi, rappresaglie, carcere, campi di concentramento,

esecuzioni di massa e distruzione di decine di paesi.”

“Da un giorno all’altro, nelle Due Sicilie, le tante aziende che

lavoravano per lo stato perdono le commesse (tutte al Nord: dai

cannoni alle matite); le fabbriche coinvolte chiudono e si spara sui

dipendenti che protestano.”

Ci furono epurazioni, migliaia di impiegati pubblici vennero buttati

in strada, chiunque fosse stato sospettato di nostalgie borboniche

poteva essere incriminato.

“Chi aveva beni, per tentare di salvarli, doveva barcamenarsi fra

liberali, briganti, piemontesi e lealisti; magari finanziandoli tutti.”

Non solo. L’Italia appena nata cercò di “ricorrere al salasso etnico,”

per redimere la questione meridionale alla radice, magari sperando

così anche di “elevare la qualità della sua popolazione.” Luigi

Menabrea, ministro degli esteri, tentò di “farsi dare una landa

desolata,” per la deportazione di massa... “La cosa andò avanti con

tale petulanza e volgarità, che la diplomazia britannica ... invitò poco

diplomaticamente il nostro governo a non insistere.” Considerato

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che i meridionali, mossi dalla disperazione, negli anni successivi

partiranno di loro iniziativa verso terre lontane forse sarebbe stato

un male minore.

Vittorio Daniele e Paolo Malanima, ne Il prodotto delle regioni e il

divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), riportano: “A noi c’ha

rovinato la guerra ... perché non esisteva, all’Unità d’Italia, una reale

differenza Nord-Sud in termine di prodotto pro-capite.” Da notare

che i due ricercatori sono partiti dal 1861, quando il Mezzogiorno

era in stato di guerra già da molti mesi, e quindi sottoposto a razzie,

stragi e distruzioni.

Quando il professor Malanima, pisano, mise piede a Sud di Roma lo

fece, per la prima volta, per andare a insegnare a Catanzaro.

L’incontro con Vittorio Daniele lo indusse a immergersi nella

faccenda Nord-Sud, sulla quale c’erano opinioni divergenti e pochi

dati. L’origine del divario, indagato da un punto di vista storico,

comportava dei rischi. Per esempio, spiega: se il divario c’è adesso,

si tende a pensare che ci fosse già prima; e che sia stato

determinato dalle condizioni storiche precedenti; difatti alcuni lo

retrodatano al Medioevo; o ne individuano le origini perfino negli

assetti dell’impero romano...

“I divari regionali, assai modesti nell’immediato periodo post-

unitario, aumentano nettamente per quasi un secolo, riducendosi

solo nei due decenni dopo la Seconda guerra mondiale” (gli anni

della Cassa per il Mezzogiorno), sintetizzano, tra l’altro, Daniele e

Malanima.

Gli anni del fascismo si rivelarono nefasti anche per l’accelerata

depauperazione del Sud con il trasferimento al Nord di ricchezza e

infrastrutture. Pertanto nel 1950 la divisione tra Centro-Nord e

Mezzogiorno diventa ancora più marcata: ormai ci sono due Italia.

“Ci è voluto quasi un secolo, neh?, ma ce l’anno fatta: la regione più

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ricca del Sud, la Campania, ha un reddito appena superiore alla

metà di quello nazionale.”

Ne Il saccheggio del Sud Vincenzo Gulì descrive la situazione pre-

unitaria: i Meridionali da oltre una decina di secoli vivevano uniti,

pacifici come i popoli veramente civili; il sistema economico mirava

più al benessere sociale che al profitto di pochi, e l’amministrazione

pubblica era oculata. Nell’industria era, in molti campi, all’avanguar-

dia. Lo testimoniano la Mostra del 1856, di Parigi, dove il Sud era

stato premiato come paese più industrializzato d’Italia, terzo nel

mondo. La monarchia mirava al benessere del popolo contrastando

l’eccesso di potere della nobiltà, fornendo i servizi essenziali alla

gente più povera.

“Prima del 1860” dimostrò Francesco Saverio Nitti, al Sud “era più

grande la ricchezza che in quasi tutte le regioni del Nord.” Ma,

suggerisce Pino Aprile, fidiamoci più delle gambe che dei pur

rispettabili professori: negli anni precedenti l’invasione,

l’emigrazione dal Sud era pressoché nulla. “Soltanto dopo

l’occupazione, il saccheggio e l’inutile resistenza armata, i

meridionali cominceranno a emigrare, a milioni.”

Il meridione vantava alcuni primati quali: la prima ferrovia d’Italia, il

primo telegrafo elettrico, i primi ponti sospesi in ferro,

l’illuminazione cittadina a gas... La flotta mercantile era la seconda

in Europa, dopo quella inglese, e la flotta militare era terza.

I Borboni diedero la priorità alle rotte marine, invece di costruire

strade. Con l’Italia unita il Sud perdette le rotte e rimase senza

strade. Nell’Europa di oggi si parla di ‘autostrade del mare’ perché

ritenute più convenienti e meno inquinanti.

La seconda guerra mondiale finì, “le cose brutte” no. Ovvio, per il

Sud. I miliardi per gli indennizzi e il recupero del territorio meridio-

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nale devastato andarono al Centro-Nord. Nel Regno delle Due Sicilie

esisteva una specie di IRI (Istituto per la ricostruzione); protezione

che fu spazzata via con l’Unità d’Italia, “in nome del liberismo, salvo

ripristinarla pochi anni dopo, ma a beneficio dell’industria del

Nord.”

Ormai il sistema economico italiano era basato sulla “condizione di

minorità di una parte del paese rispetto all’altra”: l’assistenza era

votata affinché la funzione subalterna del Sud non fosse d’intralcio

alla parte produttiva.

Domenico Novacco, ne La questione meridionale ieri e oggi, ipotizza

che il sostegno fornito tramite la Cassa per il Mezzogiorno e la

riforma agraria “esprimerebbe un disegno mirante non già a

risolvere, bensì a stabilizzare il dualismo economico.” Almeno, è

quanto appare visibile da un’analisi a posteriori: “un Nord

industrializzato con una funzione propulsiva, un Sud esportatore di

manodopera a basso costo, ma dotato in loco di un’economia

agricola più efficiente..., che consentisse alle popolazioni locali

l’espansione del consumo dei prodotti del Nord.”

Finché il sistema non regge più. A partire dalla fine degli anni ’80 si

scopre che i conti non tornano, al Sud per ogni 100 lire prodotte, lo

stato centrale ne spende 73 (al Nord 46)... Comincia il ciclo perverso

che porta più debito e più tasse, e con esse il risveglio di spiriti

animali (e nuovi agitatori di masse) al Nord. “La prima cosa che

serve a chi fa politica è un nemico; il Nord lo trova nel Sud

fannullone.”

La Cassa per il Mezzogiorno venne abolita nel 1992. Era fonte di

sprechi. Come lo furono i soldi spesi in eccesso, per chilometro,

della metropolitana a Milano; come si scoprì con Tangentopoli, con

la TAV e altro ancora. Ma com’è che le infrastrutture nel

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Mezzogiorno sono inferiori del 30 per cento, se non di più per

rapporto al Nord? Come mai le cose vengono fatte al Nord,

s’interroga l’autore, senza né Cassa per il Settentrione né fondi

straordinari?

Gli Austriaci a Vienna, raccontano altri faldoni polverosi, “dopo aver

investito in terra lombarda, sino a nove volte quello che si spendeva

in altre regioni dell’impero,” erano arrivati a concludere che quelli (i

lumbard) appartenessero a un’etnia inferiore.

Scrisse Gaetano Salvemini, in tempi lontani dalla ‘scellerata

normativa leghista-tremontiana’: “Le leggi speciali sono sterili

inganni. Per un privilegio che otterrete a qualche angolo del

Mezzogiorno, vi sarà altrove chi penserà a ottenere per sé ... favori

ben più grandi.” Insomma, di infrastrutture ce n’è dal 30 al 60 per

cento in meno, accusava (o trattandosi di un terrone è più corretto

dire: lamentava?) l’ex presidente meridionale di Confindustria,

Antonio D’Amato. Non si costruisce quello che manca, si preferisce

indennizzare il Sud con patti territoriali, sgravi fiscali, prestiti

d’onore. Aggiungi che tutte le banche italiane hanno sede legale e

amministrativa al Nord; guarda caso, il 98 per cento delle erogazioni

ordinarie delle Fondazioni bancarie viene distribuito nelle 12 regioni

del Centro-Nord e solo il 2 per cento va alle 8 regioni del Sud.

Si può dire “che ogni contributo deciso dalla politica andrà

sostanzialmente a sostenere il Nord” scrive Giovanni Floris, in

Separati in patria.

E viene scoperto, nell’anno del Signore di Arcore (1996), che

l’Isveimer (la banca nata per aiutare lo sviluppo del Sud) finanziò la

Fininvest con 450 miliardi. L’Authority europea sull’alimentazione va

a Parma, mentre è la pizza, sono gli spaghetti alla napoletana, ad

essere portabandiera della cucina mediterranea nel mondo.

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L’impresa di spoliazione è continuata ininterrotta per un secolo e

mezzo... “Vogliamo dirlo con la monnezza? Spesa in conto capitale

nell’ambito dei rifiuti urbani: fra il 2000 e il 2006 sono stati spesi

ogni anno 138 milioni di euro al Sud e 574 al Centro-Nord!” riporta

Viesti in Mezzogiorno a tradimento.

“Se sei di Mongiana, ogni giorno vedi cos’eri e a cosa sei stato

ridotto” diceva Gambino, quando cerchi nei dintorni e non trovi

neanche un fabbro.

C’erano dai 1200 ai 1500 operai e tecnici siderurgici specializzati a

rendere autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due

Sicilie.

Gli stabilimenti di Mongiana (*) e dintorni fornivano l’acciaio al

regno borbonico rendendolo autonomo, nella produzione di travi

per la costruzione dei primi ponti sospesi in ferro d’Italia, nella

cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella

inglese, e per la nascente industria ferroviaria napoletana. Nel 1861,

quando il futuro era già segnato, i suoi acciai ottennero un premio

all’Esposizione industriale di Firenze; l’anno dopo, all’Esposizione

internazionale di Londra.

Nella Calabria vi era anche l’industria della seta che esportava

all’estero damaschi pregiati.

In definitiva sotto i Borboni una gestione avveduta dava sufficiente

benessere alla popolazione del regno.

Mentre ad esempio, a fine ’800, lo sfruttamento irrazionale dei

boschi portò a un dimezzamento dell’estensione arborea, con

conseguente dissesto del territorio calabrese. Solo nel 1914 venne

ripristinata l’Azienda Forestale che ricalcava, a oltre un secolo di

distanza, le leggi in vigore sotto il Regno di Napoli per l’Amministra-

zione delle acque e delle foreste. Che i Savoia avevano soppresso.

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Una recente stima del fatturato mafioso è calcolato intorno ai 130

miliardi di euro, cioè il 7 per cento del PIL, in un anno.

Visto da un’angolatura storica e detto con le parole del filosofo

Denis Diderot: la voce della coscienza e dell’onore è ben debole

quando a parlare è lo stomaco vuoto.

“Una lettura [più] pericolosa, ma non infondata, è questa: a quei

protagonisti pronti a tutto, pur di emergere, l’unica via che venne

lasciata per esprimersi fu il crimine. E lì si son fatti valere,” secondo

Giacomo Mancini. Grande vecchio della politica calabrese, in una

intervista a Repubblica, parlò dei “leader della ‘ndrangheta’ come

una sorta di precursori di un capitalismo feroce, primordiale, ma

con dentro tutte le capacità e le intelligenze di quello civile... che, in

un paio di generazioni, sarebbero diventati indistinguibili dai

comendatur meneghini.”

Quando chiesero a Giovanni Falcone se fosse mai possibile

sconfiggere la mafia, rispose che se alcuni uomini l’hanno fatta, altri

uomini possono debellarla.

Secondo Amarta Sen, premio Nobel, ex-docente di Harvard:

“L’uomo è quel che gli viene permesso di essere.” Perché, si

interroga Aprile, se cambia il posto, cambiano i comportamenti e

l’irredimibile di Catanzaro o Caserta non è più tale a Monza o Pavia?

Piero Bocchiaro, ricercatore alla Stanford University, in Psicologia

del male analizza una serie di famosissimi esperimenti... “Il ruolo è

quello che ci viene assegnato..., [è il ruolo imposto] a generare i

nostri comportamenti...” Ricordate cos’è successo nel carcere

iracheno di Abu Ghraib?

Il Meridione si trova nella condizione della Lombardia prima

dell’Unità, quando gli austriaci spiegavano “il difetto di energia dei

lombardi” con l’inferiorità razziale. Succedeva soltanto che l’Austria

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“assorbiva imposte dall’Italia e le versava al di là delle Alpi” ha

scritto Salvemini.

“Una legge universale che ho capito tardi” ammette Pino Aprile,

“dice che nessuno può farti più male di quel che gli permetti di farti.

Per il Sud la domanda è: fino a che punto, fino a quando?”

Intanto si rende necessario quanto suggerisce Predrag Matvejevic in

Mondo ex: “Prima di voltare pagina, bisogna leggerla.” La storia.

(*) La prima struttura industriale venne fondata nel 1768, nell’omonimo

villaggio di Mongiana in Calabria Ultra 2 (odierna provincia di Catanzaro)

nella zona di Serra di San Bruno, e potenziata nel 1814 dal Capo

dell’Amministrazione degli “Stabilimenti Calabresi per la Manifattura delle

Armi” - http://www.ilportaledelsud.org/mongiana.htm

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3. L’ultimo rifugio

Il romanzo nasce dai vuoti e dalle crepe della storia.

(Novalis)

L’Ultimo incontro a Dresda, romanzo di Edgardo Cozarinsky, mostra

crepe, vuoti e capovolgimenti di parti, all’insaputa degli stessi

protagonisti. Parafrasando il pensiero dell’autore, dalla narrazione

emerge un quadro sufficiente a dimostrare che le vicende della vita,

e della guerra, “bastano e avanzano per pasticciare qualsiasi

identità, figuriamoci quella di gente anonima.”

Il libro racconta, a pennellate veloci, le peripezie di una giovane

donna che nei primi giorni del 1945 attraversa i confini innevati, e

tante volte violati, dell’Europa centrale. Avvolta in un pastrano

malandato, appesantito da una ventina di chili di denti d’oro, con in

tasca un passaporto ebreo di cui si è impossessata, tenta di mettersi

in salvo dagli esiti inevitabili della guerra. Non si è mai interessata di

politica; della situazione bellica ha solo un quadro confuso; ma sa

per certo che le pedine, nello scacchiere manovrato dai potenti,

hanno scarse possibilità di cavarsela. Gli ebrei non avrebbero

dimenticato. I tribunali dei vincitori avrebbero preteso una quota di

vittime sacrificali. Cerca quindi scampo; tenta per tempo di lasciarsi

dietro il passato trascorso in quel campo di concentramento, dove

ha prestato servizio; ed è diretta a Vienna, sua città natale.

Confida di vendere il suo bottino all’orefice conosciuto sin

dall’infanzia, che sua madre sorridente accoglieva a casa. Ma

durante la sua assenza la città si è trasformata; adesso al posto della

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gioielleria c’è un altro negozio. Solo nel momento di uscire di nuovo

in strada le si affaccia nella mente il pensiero che, forse, il gioiellerie

presso il quale la madre aveva lavorato da domestica, fosse ebreo. E

come colpita da “una umiliazione retrospettiva” che turba innocenti

ricordi di bambina si allontana in gran fretta.

A distanza di una manciata d’anni, una quindicina, scopre che

Buenos Aires, oltre ad essere stata meta ambita e rifugio sicuro per

molti profughi come lei, è ormai diventata la sua nuova casa.

Sarà anche per questo che un giorno festivo, passeggiando lungo

avenida de Mayo, lo sgomento prenderà di colpo il sopravvento.

Quell’odore di carne alla brace che i chioschi agli angoli delle strade

di Buenos Aires diffonderanno nell’aria, le rammenterà l’estate del

1944, in Europa, quando i forni crematori, stremati, avevano smesso

di funzionare a dovere, rilasciando nell’aria il fetore insopportabile

di carne umana, bruciata, assieme alle ceneri che nel disperdersi

annerivano la campagna circostante. Così si materializzerà, nel

risveglio, improvviso il ricordo di un passato che credeva sepolto

negli anfratti più remoti della sua memoria.

Soffocati quei rari momenti fulminanti di pura angoscia, si dirà che

non ha più senso rimuginare su ciò che è rimasto indietro, neanche

per domandarsi cosa ne è stata della sua figlioletta abbandonata

nelle mani di contadini polacchi che, dopotutto, non sembravano

disdegnare l’occupante tedesco.

Per il resto, sotto copertura di un paio di false identità (Therese...,

alias Taube...), la vita della donna si svolgerà piuttosto monotona.

Prevarrà sempre la cautela. Lavorerà come aiutante nelle cucine alle

dipendenze di qualche connazionale tedesco. La dimora, presso la

pensione di Frau Dorsch, accoglierà altri naufraghi. Quando si

ritroveranno a tavola i temi d’intrattenimento eluderanno con cura

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l’attualità, salvo quei pochi casi che per l’enormità delle

conseguenze tracimeranno le normali difese, come la divisione di

Berlino e la costruzione del muro.

Per il resto la conversazione sarà infarcita di luoghi comuni, innocui

e condivisibili, quali: l’aver trovato, sotto lo stesso tetto, «una casa

lontano da casa...»; oppure, la costatazione universalmente

accettata che «la storia la scrivono i vincitori». Altre volte tra le

labbra s’insinuerà (in un accenno di confidenza appena sussurrata, a

mezza voce, tra pensieri di solitudine sopraffatti dallo scoramento),

la frase «la carità esiste»: richiamo alle vicissitudini trascorse,

all’aiuto insperato, alle connivenze caritatevoli di alcune gerarchie

ecclesiastiche, alle affinità politiche, alle testimonianze ideologiche

di solidarietà riscontrate durante la fuga.

Lo stupro, subìto nel rincasare la sera tardi dopo il lavoro, non

rappresenterà un vero dramma. La vita l’ha fagocitata in situazioni

peggiori. Federico, il frutto dell’agguato notturno, avrà il colorito

bruno della gente del luogo; assumerà presto un carattere taciturno

e indipendente; sembrerà, a lei che lo avrà accudito con amore (e

che ha imparato a schedare gli individui per quello che sono),

persino così strano... da provarne diffidenza.

La vita fascinosa che si presentava davanti agli occhi di Federico,

quand’era ragazzo, mentre osservava dal balcone di casa i passanti

giù in strada, volse presto a termine. Cambiarono repentinamente e

situazione familiare e scenario politico.

Alcuni anni più tardi le frequentazioni universitarie di Federico lo

portano a partecipare ai sommovimenti studenteschi. Ancora una

volta i disegni imperiali dei grandi della terra s’intrecciano con i

destini delle persone comuni. Quel percorso di militanza che altri

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hanno fatto sulle orme del marxismo, lui lo compie perché invaghito

di una coetanea, Mariana. In lei, per il suo diverso stato sociale,

ritrova quell’alone di mistero di cui si era nutrito da ragazzo nella

sala del cinema Cecil: tanto basta per confluire nel “caos di alleanze

paradossali e complicità del momento.”

Fuga precipitosa del giovane, nuove identità, dubbi sul passato di

sua madre e di conseguenza sul proprio, e poi l’approdo in Europa,

le attività di lavoro che lo portano da un paese all’altro, tutto

concorre ad ampliare il divario, tra bianco e nero, in

“numerosissime, ingannevoli sfumature di grigio, ma pur sempre

retto da menzogne malcelate.”

Dresda, come Coventry, come Guernica. Il romanzo, Ultimo incontro

a Dresda, si presenta come il drammatico capolavoro di Picasso.

Dalle deformazioni dei fatti e delle istantanee della storia, incluse le

riprese fotografiche - storiche - esposte nei musei, nascono giudizi

sommari che fanno orrore ai corpi martoriati che sono rimasti

sepolti sotto le macerie. “Perché i morti tornano sempre, e le

vittime sono morti molto tenaci.” Ma un male peggiore è inferto ai

sopravvissuti. Vittime ignoranti del proprio passato, impossibilitate

a ritrovarne il filo, continuano inconsapevoli a essere manovrate, se

non aizzate, le une contro le altre.

Nello sfondo del quadro gigantesco della Storia, la saga di una

donna in fuga dal proprio passato è testimonianza verosimile della

storia minore di gente comune dove le identità si confondono.

Pertanto i pregiudizi espressi, le deformazioni assimilate, benché

attenuati dall’incedere dell’età, diventano ancora più assurdi e

paradossali.

Unico rifugio, per gli sconfitti invecchiati e stanchi relegati ai margini

della vita, è il silenzio.

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4. La storia, tra ideologia ed emotività

“Già prima dell’osservazione di Madame Lefèvre avevo percepito

che la storia mi incalzava. Tutto era iniziato nel 1989...”

Feliks, da quando aveva cominciato a pubblicare una guida turistica

sui paesi del Blocco sovietico, la Guide Jaune, non si era fermato

nell’appartamento di Madame Lefèvre più a lungo di sei mesi di fila.

Poteva mai considerare quella, la sua casa? E Parigi la sua città?

Ogni anno, da marzo a settembre, si recava nei paesi dell’Est per

aggiornamenti e approfondimenti. Finché arrivò quell’anno, a dir

poco sbalorditivo, a scombinare assetti politici e convinzioni

sedimentate. Da giovane, rammentava, era stato un “indomito

cacciatore di cambiamenti.” Poi aveva preso ad accettare la realtà

per com’era (o per come si presentava!). Ma in fatto di convinzioni

politiche aveva i suoi punti fermi.

Il Muro costituiva un argine contro il “caos frammentario delle idee

deperibili;” aborriva ogni sorta di relativismo; infondeva la “certezza

assoluta” del dogma.

Ed egli in una Europa divisa, lavorava durante alcuni mesi al di qua

della cortina di ferro, e trascorreva il restante periodo dell’anno a

Parigi. In pieno territorio nemico, almeno nella visione coerente di

quand’era un comunista convinto.

Per fare la frittata è il romanzo che coglie, come uno spartiacque, la

linea di demarcazione, conflittuale, tra la passione ideologica e il

mondo dei sentimenti. Percorrendo le tappe fondamentali della vita

del protagonista, attraversa buona parte dei drammi storici del ‘900,

vissuti nel cuore dell’Europa.

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Jim Powell ha conseguito un Master in Storia. Dopo la laurea ha

lavorato nel campo pubblicitario; ha iniziato un’attività nella

ceramica; è stato attivista politico e consulente commerciale. Con

un tale bagaglio di conoscenze ha espresso al meglio il suo talento in

un romanzo dal titolo Per fare la frittata... il che è tutto dire.

Per fare la frittata - recitava eloquente un motto attribuito a Lenin -,

il comunismo aveva dovuto imporre sacrifici. E Stalin non aveva

lesinato a imporne, mietendo milioni di vite umane. “Sotto Stalin

potevi essere punito anche se in riga ci restavi. Persino le leggi di

causa ed effetto erano state abolite.”

E’ il messaggio che, della storia recente, lo storico Jim Powell affida

all’umanità: tra ideologie guerre e stravolgimenti soltanto il fronte

dei sentimenti può alleviare la condizione umana.

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2° parte

L’ora delle cassandre

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“Gli economisti si danno un compito troppo facile e troppo inutile se nelle

stagioni tempestose sono in grado di dirci soltanto che quando la tempesta

è passata da un pezzo il mare torna calmo.” (John Maynard Keynes)

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5. L’ora delle cassandre

“Dicono che in Cina, se si odia veramente qualcuno, lo si maledice

così: «Che tu possa vivere in tempi interessanti!»

E Benvenuti in tempi interessanti, titola la copertina di un libro di

Slavoj Zizek.

Il filosofo spiega che, per i Cinesi, tempi cosiddetti “interessanti”

furono periodi di guerre e lotte intestine per il potere che causarono

numerose tragedie coinvolgendo milioni di sudditi inermi. Storica-

mente i periodi di instabilità politica hanno sempre implicato soffe-

renze maggiori per le popolazioni innocenti; le guerre oltre che

mietere vittime con le armi, uccidono per penuria di cibo e carestie

che colpiscono i più deboli.

Oggi che alle turbolenze economiche si sommano i problemi legati

all’ecologia, all’equilibrio del pianeta Terra, bisogna iniziare a porci

le domande fondamentali. Dove porta la corsa all’accaparramento

di materie prime? Si aggiunga l’esigenza di maggiore energia per

paesi, come la Cina, in pieno sviluppo; e come porsi di fronte alla

diseguaglianza e penuria di beni primari per soddisfare i bisogni

minimi di larghi strati della popolazione mondiale?

Affermare che d’ora in poi occorre perseguire uno sviluppo

sostenibile, che bisogna contenere gli eccessi speculativi, che si

devono emanare regole più stringenti, porta in realtà ad eludere i

problemi, ad enunciare soluzioni ovvie che poi restano inapplicate.

Se eliminiamo gli eccessi, le speculazioni, ne soffre la produzione. E’

questa “la lezione del capitalismo.”

Il pensiero occidentale ha attraversato tre grandi momenti storici

che sono stati momenti di rottura con il passato: “la rottura della

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filosofia greca con l’universo mitico; ... il cristianesimo con l’universo

pagano; e la rottura della democrazia moderna con l’autorità

tradizionale.” Saprà reindirizzare il proprio cammino?

“C’è solo una cosa peggiore del non avere ciò che si vuole, e cioè

arrivare ad averlo,” dice un vecchio adagio.

Se la moglie scompare lasciando campo libero all’amante, il marito

infedele per quanto tempo ne trarrà giovamento? E’ quanto sta

succedendo agli accademici di sinistra; sta arrivando il momento

della verità: “volevate un cambiamento vero, ora l’avrete!”

George Orwell (1937) descrisse in Strada di Wigan Pier tale

atteggiamento. «Ogni opinione rivoluzionaria attinge parte della sua

forza alla segreta certezza che nulla può essere cambiato». Se ci

deve essere una rivoluzione, meglio che accada “a distanza di

sicurezza: a Cuba, in Nicaragua, in Venezuela... e così, mentre mi

scaldo il cuore pensando agli eventi che accadono lontano, posso

continuare a promuovere la mia carriera accademica.”

Invece sembra giunto il momento di “mobilitare l’uso pubblico della

ragione” per tutti, accademici, artisti, politici, religiosi, scienziati,

dirigenti, operai, imprenditori e sindacati inclusi.

Il dilemma di fondo è che i problemi sono connessi; siamo in bilico

tra la minaccia di catastrofe ecologica irreversibile e la possibilità

che accada proprio nulla. Il non-evento, mentre minaccia di ridicolo

le cassandre, rischia di spingere l’umanità su un pendio ancora più

rovinoso! Insomma, se la catastrofe non ha luogo c’è la beffa, se

non facciamo nulla il rischio è di perdere tutto.

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6. Oltraggio

Oltre l’austerità (ciò che il titolo dell’ebook curato da Sergio

Cesaratto e Massimo Pivetti non dice espressamente) c’è

l’informazione parziale, l’omissione di interventi alternativi, la

malafede... o la presa per i fondelli (secondo quanto avrebbe

confessato uno degli autori a una platea più ristretta).

La rivelazione (per i non addetti ai lavori) da parte di alcuni studiosi

ed economisti che della crisi non solo non ci è stato raccontato

tutto, ma che deliberatamente si cerca di fare passare misure

draconiane come inevitabili, dovrebbe catturare la nostra

attenzione almeno quanto (o forse più) degli stessi provvedimenti di

austerità. Che concorrono a sviare l’attenzione dalle finalità estreme

che vorrebbero smantellato lo stato sociale, a ridimensionare i

diritti conquistati nei decenni successivi al dopoguerra, a riportare

stipendi e salari a livelli di impoverimento. Senza considerare lo

stuolo, in aumento, dei senza lavoro e senza diritti.

All’arrivo della crisi finanziaria e all’acuirsi della recessione “ci si

sarebbe aspettato che venisse subito avviato in Europa un

coordinamento di politiche economiche espansive...” in ossequio a

un percorso già intrapreso da una comunità di nazioni, che si sono

messe insieme per raggiungere una convergenza comune

nell’ambito politico amministrativo ed economico. Invece i (17)

paesi dell’eurozona che hanno rinunciato alla loro sovranità

monetaria si sono trovati e si trovano sprovvisti della principale leva

del potere economico, per fare fronte alla speculazione e alla

disoccupazione di massa. La Banca Centrale Europea non ha i poteri

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d’intervento che hanno le altre banche centrali, ossia la completa

gestione della politica monetaria. Le industrie dei paesi periferici

non trovano finanziamenti, la produzione di beni e servizi

diminuisce, lo stato sociale arretra, perché mancano le risorse

finanziarie. E si è continuato sulla strada del rigore con l’imposizione

di avanzi primari (eccedenze delle entrate sulle spese pubbliche, al

netto di quella per il pagamento degli interessi sul debito pubblico),

con l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. “In nessun

conto viene tenuto il fatto che né la teoria economica né

l’esperienza concreta consentono di stabilire un limite oltre il quale

tale rapporto diventerebbe insostenibile.” Si osservi il 220% del

Giappone, il 120% dell’Italia, il 70% della Spagna. (Pivetti)

Quando è l’individuo a fare sacrifici, spiega De Vito, questi si

traducono per lui in un pari ‘gruzzoletto’ per ridurre il debito. Ma

quando i sacrifici sono imposti a una collettività, in pratica la società

si scopre appiedata, impedita a produrre beni e servizi, ciò che non

genera alcun risparmio. L’improduttività diminuisce il reddito e

falcidia il risparmio che si era accumulato.

L’Europa si trova in una situazione in cui i paesi in difficoltà si

scoprono a metà del guado: né falliscono , né vengono aiutati a

risolvere la crisi, ossia con sacrifici ma accompagnati da prospettive

di crescita.

Anzi, secondo Maffeo, il mancato intervento della BCE nel sostegno

dei debiti sovrani appare “funzionale alle politiche di austerità volte

a smantellare le conquiste sociali realizzate nei primi decenni del

dopoguerra.”

L’origini della crisi va fatta risalire agli anni ’80 quando si è affermata

la nuova dottrina neoliberista che si fondava nell’assunto (che ebbe

nell’economista e premio nobel Robert Mundell il sommo

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sacerdote, e nel presidente Reagan il suo oracolo) che meno tasse,

meno stato, più mercato avrebbero liberato risorse (improduttive e

mal gestite dalla pubblica amministrazione) e rilanciato l’economia.

“Quel che è certo, afferma Zezza, è che questo modello di crescita

ha portato il mondo alla Grande Recessione iniziata nel 2007: il

periodo di declino più lungo nel secondo dopoguerra e che lo

spostamento verso l’alto nella distribuzione dei redditi non ha

comportato una crescita generalizzata del benessere.” A trarne

beneficio sono solo una ristretta minoranza: l’1% detiene il 38%

della ricchezza mondiale.*

La crisi europea viene qui interpretata come quella “tipica tra paesi

centrali e periferici una volta che questi ultimi instaurino regimi di

cambio fisso con i primi.” Le liberalizzazioni finanziarie e la moneta

unica hanno generato squilibri commerciali tra i paesi dell’Eurozona,

aumentato il debito estero, ridotto la competitività degli stati

periferici a causa dell’aggravarsi dei costi di finanziamento.

“E’ naturalmente responsabilità della nostra classe dirigente

nazionale, quella ancora del potere, aver condotto l’Italia in un

accordo monetario in cui il mercantilismo tedesco si dispiega senza

rimedio.” (Cesaratto)

Le elite dominanti del centro e della periferia si trovano così in parte

a combattere con armi impari, in parte accomunate da vantaggi

reciproci a discapito delle masse: “le une mosse dall’obiettivo di

catturare i mercati periferici, le altre da quello di importare la

disciplina dei paesi più forti.” Tanti saluti al sogno europeo di creare

pace sociale e benessere diffuso per tutti.

Intanto diventa sempre più incerto l’approdo a una soluzione della

crisi condivisa dall’insieme dei paesi dell’Eurozona, anche sulla

scorta dell’impostazione mercantilistica dell’economia dominante,

quella tedesca.

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Il caso della Germania mette in evidenza l’asimmetria tra l’economia

tedesca e le altre economie europee. “Bismark non è passato invano

nella storia della Germania!” La politica autoritaria fondata sulla

disciplina cattura l’opinione pubblica e incontra un “rinascente

senso di autostima nazionale.”

Tuttavia scrive Bagnai: “Nella favola dei media il cattivo è il bilancio

pubblico.” Anche quando si apprende che “in realtà sono le banche

private che hanno prestato molto e male: ma la soluzione ideologica

viene additata nella riduzione dell’impronta di Stato, che deve fare

un passo indietro, così che al prossimo giro la banche possano

prestare troppo e peggio!” In quanto agli industriali che siano del

centro o della periferia, ognuno ha il suo tornaconto: “quelli del

centro lucrano profitti vendendo beni alla periferia, e quelli della

periferia ... ricorrono allo spauracchio del vincolo esterno per

disciplinare i sindacati.”

Pertanto spetta ai “paesi massacrati quotidianamente dalla linea

della austerità” fronteggiare il paradosso che la creazione di

liquidità è ritenuta dannosa se viene generata da politiche di deficit

spending, mentre può diventare illimitata quando serve a salvare

banche o permettere di continuare impunemente la speculazione.

(Paggi e D’Angelillo)

Un susseguirsi di manovre restrittive crea, nella questione dei debiti

sovrani e delle politiche di abbattimento dei rapporti debito/PIL, il

rischio di un trend perverso con conseguenti cadute sia dei livelli di

produzione sia dell’occupazione. (Ciccone)

“Nell’interpretazione della crisi come dovuta fondamentalmente

alla spesa pubblica c’è, naturalmente, non solo ignoranza, ma anche

malafede.” Interpretazione, come si è detto, utilizzata dalle classi

dominanti per erodere i diritti sociali conquistati, per avere la

meglio nei confronti dei concorrenti industriali e disporre di lavoro a

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buon mercato. Ad ogni modo se il ricorso all’espansione della spesa

pubblica è indispensabile per innescare la crescita e l’occupazione,

diventa ancora più critico l’attacco al servizio sanitario nazionale. I

numeri: la spesa in Italia ammonta al 9,5% del PIL, inferiore a quella

della Germania, Francia e Regno Unito; nella patria della dottrina

neoliberista, gli Stati Uniti, è a quota 17,4% del PIL (con circa un

quarto della popolazione priva di copertura sanitaria). Quando si

sente parlare di tagli alla sanità è bene conoscere che la posta in

gioco è “una delle maggiori conquiste di civiltà della nostra

esperienza repubblicana.” (Gabriele)

Significativa la ricostruzione della crisi greca, dal ruolo tenuto dalla

Banca Centrale Greca (prima e dopo che venissero adottate le

misure di austerità), ai drammatici effetti economici e sociali

prodotti dalle cure della troika nei due anni di austerità imposta al

paese. (De Leo)

Ci sono e quali sono le vie di fuga? E’ auspicabile, praticabile e/o

perfino necessaria la fuoriuscita dall’euro di uno o più paesi

dell’Eurozona?

Gli effetti di un’uscita dall’euro non sono preventivabili come una

equazione matematica sebbene, dal crollo della lira nel ’92 e

conseguente uscita dallo SME al default argentino, non manchino i

casi di crac finanziari e crisi economiche che hanno coinvolto degli

stati sovrani. Ovviamente occorrerebbero misure straordinarie di

natura monetaria, il ritorno al controllo dei movimenti di capitali.

Ma gli effetti per quanto gravi potrebbero essere assorbiti più

agevolmente di “quelli prodotti da anni di continue politiche fiscali

recessive.” (Levrero)

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L’esperienza dell’euro ha innescato un processo deflazionistico della

politica economica. E le politiche economiche dell’austerità fin qui

adottate non hanno fatto altro che inasprire tale fenomeno. Invece i

provvedimenti intrapresi concorrono “a mettere i popoli in

competizione gli uni con gli altri, ad uniformare verso il basso le

condizioni di vita e di lavoro e i sistemi di protezione sociale.”

Si rende quindi necessario intraprendere una lotta decisa e

prolungata. Da parte della sinistra europea sarebbe utile un

ripensamento sulle politiche di assecondamento sin qui adottate,

soprattutto negli anni in cui era maggioritaria in Europa, per

rompere la tenaglia delle elite dominanti che dall’interno e

dall’estero premono per comprimere gli spazi di sopravvivenza.

La sinistra francese ha portato avanti un programma che mira al

distacco dal liberismo, ad aumentare l’occupazione, alla presa di

coscienza di essere “proprietari di sovranità politica.”

Dall’introduzione di Sergio Cesaratto e Massimo Pivetti raccogliamo

dunque l’invito rivolto alla sinistra italiana di apportare un ri-

orientamento idoneo ad arginare “le devastazioni economico-sociali

e politiche dell’austerità. E’ allora ragionevole domandarsi se il

ritorno ad una maggiore autonomia economica e monetaria

nazionale, pur se provocato da circostanze esterne al nostro paese,

non potrebbe risparmiarci una buona parte di quelle devastazioni.”

Perché a tempo debito non si abbia anche a dire: oltre il danno,

l’oltraggio della menzogna.

* (fonte http://denaroedintorni.blogspot.it/2011/10/credit-suisse-

dice-l1-della-popolazione.html)

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7. Come è potuto accadere?

Possediamo sia le conoscenze sia gli strumenti per mettere fine alla

crisi economica, secondo Paul Krugman, ma non viene fatto

abbastanza per affrontare con vigore la recessione ed eliminare la

sofferenza; la disoccupazione di massa è una tragedia, ed è insieme

fonte di povertà e causa del risorgere degli estremismi.

Come è potuto succedere? Si chiede l’autore, premio Nobel per

l’economia, nel libro Fuori da questa crisi, adesso! E’ un’esortazione

a fare presto.

E a quanti propongono di “focalizzarsi sul lungo termine,” risponde

con le parole di John Maynard Keynes:

“Questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti. Nel lungo

termine saremmo tutti morti. Gli economisti si danno un compito troppo

facile e troppo inutile se nelle stagioni tempestose sono in grado di dirci

soltanto che quando la tempesta è passata da un pezzo il mare torna

calmo.”

All’epoca della Grande depressione, le conoscenze non erano quelle

attuali: nessuno era in grado di comprendere la dinamica

perdurante della crisi e suggerire il da farsi. Invece “i leader di oggi

non hanno quest’attenuante.”

E’ istruttivo il caso della cooperativa di baby-sitting. Lo studio

Monetary theory and the Great Capitol Hill Baby-sitting Coop crisis

fu pubblicato nel 1978. In pratica le coppie che si associavano

ricevevano 20 buoni (ognuno dei quali corrispondeva a mezz’ora di

baby-sitting); quando uscivano dalla coop dovevano restituirne il

medesimo numero. L’accaparramento dei buoni da parte di alcune

coppie (per necessità future, o in vista del momento di lasciare)

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portò alla paralisi. La quale fu superata solo quando “gli economisti

del gruppo” convinsero i dirigenti a stampare altri buoni.

“La cooperativa di baby-sitting di Washington era una vera e propria

economia monetaria, ancorché in miniatura... I grandi problemi

economici possono avere una soluzione molto semplice.”

In conclusione, il problema della crisi era ed è causato da una

domanda insufficiente.

Quando i debitori si trovano nell’impossibilità di spendere di più,

anzi, sono indotti a ripagare i propri debiti, e nello stesso tempo, i

creditori non sono disponibili a incrementare la loro spesa, ne

consegue una fase recessiva nell’economia. Ciò è quanto è successo

negli USA e all’economia mondiale.

Non solo: nonostante le immissioni di denaro da parte della FED i

privati non aumentano i consumi; si è caduti nella cosiddetta

“trappola della liquidità.”

“La combinazione tra la trappola della liquidità ... e il peso di un

indebitamento eccessivo ci ha portato in un mondo di paradossi, in

cui la virtù è vizio e la prudenza è follia, e la maggior parte delle

soluzioni che ci propongono gli ‘esperti’ può solo incancrenire la

situazione.”

Come il ‘paradosso del deleveraging’, enunciato da Minsky: il

comportamento prudente, degli individui e delle imprese, finisce

per accentuare le difficoltà economiche anziché risolverle.

Un altro economista americano, Irving Fisher, ha osservato e poi

descritto il fenomeno della ‘liquidazione’ dei beni aziendali (asset),

per ridurre i debiti. Se troppi operatori si trovano nella medesima

necessità, i loro sforzi per arginare la situazione diventano contro-

producenti e autolesionistici.

Queste dinamiche appaiono ovvie, e ci sarebbe pure la soluzione,

ma il problema di fondo è che tante persone influenti (che l’autore

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sarcasticamente definisce Very Serious People) si rifiutano di

prenderla in considerazione.

Come si è arrivati a una tale situazione? In una economia in crescita,

il leverage (l’indebitamento che sale) assume una connotazione

espansiva: in pratica tira aria di ottimismo e più o meno tutti

vogliono approfittarne; ciò induce a prendere rischi, finché accade

qualcosa d’imprevisto, l’arresto momentaneo dell’economia o lo

scoppio di una bolla; se di colpo i debitori sono costretti a correre ai

ripari, collettivamente, si mette in moto la spirale deflazionistica,

che trasforma lo scenario, prima roseo, in incubo.

La deregolamentazione ha favorito lo sviluppo di un sistema

bancario ombra (dove hanno una sede privilegiata derivati e finanza

creativa), che avrebbe dovuto essere assoggettato alle medesime

regole che disciplinano le banche tradizionali. “Il mancato adegua-

mento delle normative ha avuto un peso determinante nella

crescita esponenziale del debito e nella crisi che ne è seguita.” Il

crollo della fiducia, soprattutto verso le attività bancarie, porta alla

corsa agli sportelli; una volta che il panico si è diffuso, la situazione

degenera e diventa “una profezia che si autoavvera.”

“Ma vi sarà capitato di sentire tutta un’altra storia, come per

esempio quella raccontata da Michael Bloomberg...” Secondo la

destra repubblicana l’eccesso dei debiti sarebbero dovuti a “una

sinistra dal cuore troppo tenero,” alle “agenzie governative,” che

avrebbero spinto le banche a prestare soldi e a concedere mutui

ipotecari senza adeguate garanzie. La verità è che i conservatori,

ogni volta che sono andati al potere, “hanno smantellato molte

delle tutele introdotte all’epoca della Depressione,” lasciando le

masse in braghe di tela.

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“Nel 2006, i 25 gestori di hedge fund meglio pagati si sono messi in

tasca 14 miliardi di dollari, ovvero tre volte gli stipendi di tutti gli 80

mila insegnanti di New York messi insieme.” Ciò che appare in

aperto conflitto con quanti sostengono che la forte sperequazione

dei livelli retributivi sia determinata dal divario dei livelli di

istruzione. Gli insegnanti hanno quasi tutti una laurea, ma non

godono neanche lontanamente degli incrementi di reddito dei top

manager, CEO e gestori di fondi.

A partire dal 1980, negli USA, nel Regno Unito e successivamente in

altri paesi ha soffiato il vento del cambiamento. La destra politica ha

introdotto la riduzione delle aliquote fiscali per i redditi più alti,

spazzando via il cosiddetto “vincolo dell’oltraggio,” portando cioè il

differenziale tra le retribuzioni più basse e quelle più elevate a livelli

mai visti in tempi recenti, almeno nei paesi democratici avanzati.

La “perniciosa combinazione tra politica e trionfo della sociologia

accademica” ha determinato la scomparsa della civiltà economica

che si era affermata nella seconda metà del secolo scorso.

Negli ambienti conservatori si è instaurata una visione strumentale

del pensiero keynesiano che identifica lo stesso con “la pianifica-

zione centralizzata” e la redistribuzione del reddito alle classi non

meritevoli.

Secondo Keynes è una pessima scelta quella di lasciare la gestione

delle politiche economiche alla mercé degli speculatori. Infatti

sosteneva: “quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un

sottoprodotto dell’attività di un casinò, è probabile che si tratti di un

lavoro malfatto.” Invece negli ultimi decenni si è imposto il dogma

che devono prevalere le leggi di mercato. Spesso artefatto.

Quello che dicono i numeri... I dati indicano che negli USA, se si tiene

conto di coloro che non cercano più un lavoro e di quanti hanno

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ripiegato su uno part-time, i disoccupati arrivano al 15 per cento

circa della forza-lavoro: il doppio di quelli registrati prima della crisi.

Il perdurare della situazione depressiva conduce alla stagnazione e

allo scoramento; molti dei disoccupati si vedono costretti ad

accettare un’occupazione meno qualificata; è questo il caso anche

dei neolaureati. Sono competenze che vanno in fumo. Infine il calo

degli investimenti mette a repentaglio le possibilità di sviluppo

futuro.

Gli USA producono beni e servizi intorno a 14/15 trilioni di dollari

l’anno. Il piano di stimolo della domanda di 787 miliardi di dollari,

considerando l’affacciarsi della crisi di una durata ipotetica di 3 anni,

avrebbe mirato a rivitalizzare un’economia pari a 45 trilioni... Uno

stimolo quindi che rappresenta più o meno il 2 per cento del totale

preso in considerazione. A questo punto non sembrano così tanti,

vero? Fa osservare Krugman, il quale aggiunge che per una serie di

ragioni, Obama avrebbe fatto la cosa giusta, ma purtroppo su scala

ridotta.

(Altri numeri: il debito complessivo USA - tra governo federale,

statale e amministrazioni locali - è pari al 93,5 per cento del PIL -

fine 2010).

Considerato che nell’ordinamento economico-legislativo degli Stati

Uniti esiste già il fallimento pilotato (Chapter 11), pur di sbloccare lo

stallo economico, converrebbe riscrivere i contratti dei mutui

ipotecari e implementare dei piani di rinegoziazione del debito.

In sintesi, la mancanza di posti di lavoro provoca danni certi mentre

il deficit di un paese, come l’America, rappresenta un danno preva-

lentemente ipotetico. Ovviamente stampare moneta mette in moto

un processo che genera inflazione. Ma questo non accade quando ci

si trova nella trappola della liquidità.

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L’ammontare del debito non è tragico, sempre che non aumenti più

in fretta dell’inflazione e della crescita economica messe insieme.

Pertanto “i moniti su una presunta crisi del debito si basano sostan-

zialmente sul nulla” - a condizione che il paese abbia sovranità sulla

propria moneta.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno una propria divisa.

Invece Italia, Spagna, Grecia e Irlanda, hanno perso la loro sovranità

monetaria; essendo i loro debiti espressi in euro, si scoprono

vulnerabili e in balia degli attacchi speculativi.

“Le élite europee erano così affascinate all’idea di creare un potente

simbolo di unità da sovrastimare i benefici della nuova moneta

unica e da trascurarne le possibili (e significative) negatività.”

Nell’interscambio commerciale ci sono dei costi reali nell’utilizzo di

più valute di cambio, cosa che l’adozione di una moneta comune

(l’euro) ha superato. Ma un paese che cede la propria sovranità

monetaria perde difatti la possibilità di ricorrere alla svalutazione, di

adottare stimoli alla crescita... e di altre misure economiche che

aiutano ad affrontare le turbolenze economiche.

Inoltre la svalutazione della moneta si configura come la via maestra

per intaccare il valore reale dei salari senza dover intavolare

estenuanti negoziati con le controparti. Milton Friedman ricorreva al

paragone con l’ora legale. “Non è assurdo tirare indietro le lancette

di un’ora d’estate, quando si potrebbe ottenere esattamente lo

stesso risultato convincendo tutti gli individui a modificare le

proprie abitudini?”

Le retribuzioni possono essere diminuite quasi da un giorno all’altro,

e con limitati problemi di ordine pubblico, attraverso la svalutazione

della moneta: recentemente è accaduto in Islanda.

Ma non può essere fatto, senza ripercussioni, nei paesi dell’euro.

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Vale anche per l’Europa il ruolo assunto da politici e tecnocrati, Very

Serious People, che dibattono il problema partendo da “un falso

resoconto delle cause della crisi.” Nei fatti ostacolano le soluzioni

davvero efficaci e perseverano con “politiche destinate a peggiorare

ulteriormente la situazione.” Purtroppo si è affermata la convin-

zione, moralistica, che la crisi europea dipende dall’irresponsabilità

nella gestione dei bilanci pubblici. Avendo alcuni paesi fatto

registrare deficit astronomici, si sarebbe reso necessario imporre

delle regole che prevengano il ripetersi di questo ciclo perverso.

Prima della crisi Irlanda e Spagna avevano un debito basso; il debito

dell’Italia era elevato, ma era stato contratto negli anni ’70 - ’80, e

negli ultimi anni era in calo. Ed era in progressivo calo la media

ponderata del debito, in percentuale sul PIL, dei cosiddetti PIIGS

(Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Soltanto in seguito alla

crisi il debito si è ingigantito ed è diventato un fattore destabi-

lizzante per la zona periferica dell’euro.

Ciò nonostante politici e funzionari europei continuano a propu-

gnare politiche di austerità. Il problema viene enunciato in termini

morali. I paesi che si trovano in difficoltà, perché non hanno mante-

nuto in regola i loro conti, hanno peccato, e ora sembra giusto che

ne paghino le conseguenze, che non devono ricadere sui paesi

virtuosi.

Confrontando Europa e Stati Uniti, sotto il profilo del debito

pubblico e di quello dei privati, l’Europa complessivamente si trova

meno esposta. Purtroppo il fatto che il Vecchio continente non sia

un “aggregato omogeneo” e che ogni paese abbia il suo bilancio e il

proprio mercato del lavoro, ma non la propria moneta, rende

l’intera area geografica più esposta.

La logica economica indica che la politica fiscale deve andare

controcorrente, imponendo tagli alla spesa pubblica quando i tempi

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lo permettono. Poiché l’austerità deprime ancora di più le economie

che rallentano, rigore e incrementi d’imposte dovrebbero quindi

essere pianificati nel lungo termine, e in presenza di una ripresa

effettiva.

La logica del potere, invece, asseconda altre priorità.

“Quel che è certo, comunque, è che non c’è niente di peggio di una

società della crescita senza crescita.” (Serge Latouche)

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8. Decrescita: dalla globalizzazione al cortile di casa

Dovessi scegliere un titolo alternativo al libro Per un’abbondanza

frugale di Serge Latouche (o sottotitolo, per non eccedere neppure

nell’immaginario in smodate fantasticherie di crescita - personale)

lo inquadrerei in una definizione che partendo dalla globalizzazione

arriva al cortile di casa.

Infatti l’ossimoro abbondanza frugale mi richiama alla mente il

primo decennio dopo la seconda guerra mondiale, quando nelle

province del meridione la vita di campagna non aveva ancora

conosciuto il richiamo della grande industria ad abbandonare la

terra e a emigrare al nord. Ha un sapore anni cinquanta che evoca i

sapori della fattoria. Tra l’orto e il pollaio c’era quanto bastava per

assicurare due pasti al giorno a un’intera famiglia. Certo, da ragazzi

si subiva lo tsunami (l’abbondanza appunto!) di verdure che dall’or-

to arrivavano sulla tavola, fresche e copiose, più o meno come

un’angheria esercitata dai grandi sui piccoli. E poiché l’orticultura

all’aria aperta, in ogni stagione, esaurisce un ciclo e dà in sovrab-

bondanza nuove varietà, un moto di ribellione ci induceva a

sbuffare al protrarsi di ogni tornata: sempre la stessa minestra!

Al che faceva eco l’abituale risposta, pronta a ricondurre alla cruda

realtà e all’ordine: ringrazia dio perché ci sono famiglie che non

sanno cosa inventarsi, la mattina, da mettere nel piatto la sera!

“Quel che è certo, comunque, è che non c’è niente di peggio di una

società della crescita senza crescita.”

I governi per fronteggiare la crisi economica si dibattono tra

l’austerità, nel tentativo di contenere il debito pubblico, e il rilancio

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dei consumi con l’auspicio di rimettere in moto l’economia.

L’austerità accentua la miseria delle classi più povere della

popolazione; la rincorsa dei consumi accelera la depauperazione del

pianeta terra.

La ricetta della decrescita mira a risolvere i problemi degli Stati

attraverso una fiscalità indiretta a partire dai “beni di lusso” al

“cattivo uso delle risorse naturali.” Le tariffe dei servizi per l’acqua,

il gas, l’elettricità ... dovrebbero colpire il sovra-consumo. “Una

tassa significativa sul patrimonio ... completerebbe il dispositivo per

limitare le eccessive differenze di ricchezza.”

In linea teorica l’indebitamento degli Stati sovrani è un problema

relativamente più facile da risolvere per rapporto allo squilibrio

mondiale della finanza causato dagli eccessi della speculazione.

I prodotti derivati avevano raggiunto quota 600 mila miliardi di

dollari nel febbraio del 2008, ossia da 11 a 14 volte il PIL mondiale

(fonte: Banca dei regolamenti internazionali di Basilea). Per ridiscen-

dere da tali vette a valle, più che un atterraggio morbido, c’è da

attendersi una rovinosa caduta!

La transizione verso una economia rispettosa dell’ambiente

dovrebbe comunque perseguire l’obiettivo della “piena occupazione

per rimediare alla miseria di una parte della popolazione.”

Bisognerà provvedere alla “rilocalizzazione sistematica delle attività

utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come

la pubblicità, o nocive, come il nucleare o l’industria degli arma-

menti, e una riduzione programmata e significativa dell’orario di

lavoro.”

Paesi come la Grecia (o l’Irlanda) dovrebbero uscire dall’euro, ritor-

nare alla vecchia moneta nazionale, e riprendere in mano il

controllo nazionale delle prerogative di ogni stato indipendente: dai

cambi fino al ristabilimento delle dogane.

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“Come un ciclista, il sistema (capitalistico) si mantiene in equilibrio

soltanto pedalando continuamente. Il dinamismo della vita econo-

mica viene a cozzare con ... la finitezza della natura: l’insufficienza

delle terre fertili, l’esaurimento delle risorse minerarie, i limiti del

pianeta.”

Non è da confondere il “progetto di una società della decrescita”

con la crescita economica negativa. Primo presupposto della decre-

scita è l’affrancamento dalla società dei consumi. “Al limite, si

potrebbe parlare dell’opposizione tra decrescita scelta e decrescita

subita.” La scelta da compiere è quella di intraprendere volonta-

riamente una sapiente condotta di vita per il raggiungimento del

proprio benessere, in una dimensione armonica, con una società

che sappia rinnovarsi. E avviare un processo di deindustrializzazione.

La deindustrializzazione va realizzata “grazie a utensili tecnicamente

complessi ma conviviali,” dando “prova che si può produrre

diversamente - riciclando, riparando, trasformando.” Gran parte

della produzione di quanto è necessario a una comunità può essere

realizzabile in autonomia. Secondo Granstedt, una ‘crescente

capacità di autorganizzazione sociale permetterà a ciascuna

comunità o regione di controllare il proprio divenire sociale e di

inventare una propria originalità, rimanendo al tempo stesso aperta

sul mondo.’

I 4 punti o pilastri a sostegno del progetto sono: 1) “una riduzione

della produttività tecnica globale... 2) la rilocalizzazione delle attività

e la fine dello sfruttamento del Sud, 3) la creazione di posti di lavoro

a contenuto ecologico in tutti i settori di attività, 4) un cambiamento

di modo di vita e la soppressione dei bisogni inutili (‘dimagrimenti’

consistenti nella pubblicità, turismo (*), trasporti, industria automo-

bilistica, agro business, biotecnologie ecc.).”

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Il progetto politico, altresì definito “utopia concreta della decre-

scita,” si configura in 8 R (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare,

rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare).

Occorre ripartire dai concetti base delle parole stesse e ridare loro

un valore assoluto rispettoso dell’ambiente. “Rivalutare significa

rivedere i valori in cui crediamo”, quelli che mettiamo alla base della

nostra vita, assicurandoci che non portino al disastro. “L’altruismo

dovrà avere la meglio sull’egoismo, la cooperazione sulla concor-

renza sfrenata, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato,

il locale sul globale, l’autonomia sull’eteronomia.” Il prometeismo

della modernità, così come fu espresso sia da Cartesio (l’uomo

padrone della natura) sia da Bacone (asservire la natura), deve

essere divelto e superato.

C’è del vero quando viene suggerito che la decrescita, (evocando la

magrezza dovuta alla penuria di cibo, e non l’eleganza filiforme delle

modelle anoressiche in passerella), non sarebbe trendy. Come

aspettarsi un commento diverso da una società che spinge

l’individuo, a tutti i costi, a competere e superare se stesso?

La parola decrescita, ammette l’autore, è “sicuramente il termine

peggiore per descrivere il progetto di democrazia ecologica e di

società di abbondanza frugale... In quanto slogan, il termine

decrescita è tuttavia una trovata retorica piuttosto felice.” E citando

l’allegoria del torrente, che dopo essere straripato rientra negli

argini, auspica che l’economia faccia altrettanto.

E’ opinione diffusa che il mondo informatico, incorporando soprat-

tutto materia grigia, dovrebbe essere friendly verso l’ambiente.

Invece viene calcolato che “la fabbricazione di un solo computer,

per esempio, consuma 1,8 tonnellate di materiali, di cui 240 chili di

energia fossile, e un chip di due grammi ha bisogno di 1,7 chili di

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energia, nonché di una enorme quantità di acqua” (rapporto per

l’ONU Ordinateur et environnement, Kluwer Academic Publishers).

Altro aspetto controverso, poiché entrano in campo elementi

notoriamente sensibili quali le credenze profonde e i sentimenti

religiosi, è il sovrappopolamento del pianeta. Per alcuni la soluzione

del problema sarebbe quella del ‘laissez faire’, cioè di permettere

che la povertà, le differenze nord-sud, facciano il loro corso

diminuendo per così dire il numero degli ‘aventi diritto’. E’ la

soluzione inconfessata ma gradita ai grandi della Terra, poiché non

altera i rapporti di forze esistenti né il sistema vigente. Non pochi

rappresentanti dell’oligarchia vedrebbero di buon occhio il controllo

delle nascite come la soluzione principe.

Henry Kissinger, nel ’74 scriveva: “Per conservare l’egemonia

americana nel mondo e assicurare agli americani il libero accesso ai

minerali strategici dell’insieme del pianeta, è necessario contenere,

o ridurre, le popolazioni dei 13 paesi del mondo (India, Bangladesh,

Nigeria...) il cui peso demografico li condanna, per così dire, a

svolgere un ruolo di primo piano in politica internazionale” (rappor-

to sulla Incidenza della crescita della popolazione mondiale).

E Maurice King, uno dei responsabili delle politiche demografiche, si

esprimeva né più né meno allo stesso modo: “Tentare la pianifica-

zione familiare, ma se questo non funziona, lasciare morire i poveri,

perché sono una minaccia ecologica.”

Un autore americano, William Vogt, già negli anni cinquanta aveva

invocato una riduzione della popolazione per mezzo di una guerra

batteriologica su vasta scala che, se condotta energicamente,

avrebbe restituito al pianeta le foreste e i pascoli. Era uno che

teneva così tanto alla Natura da propugnare la soluzione finale.

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Ovviamente la posizione degli obiettori di crescita non è questa. La

riduzione massiccia della popolazione è agli antipodi del progetto

della decrescita.

Nuovi studi vengono elaborati di continuo, segno che l’ansietà ha

motivo d’esistere. Si calcola che la produzione di un contadino

francese, nel 1960 copriva il fabbisogno di 7 persone; nel 2000 ne

nutriva 80: un exploit che avrebbe fatto impallidire Malthus (**). Un

agricoltore americano produce una quantità di mais, oggi, 350 volte

superiore a quella degli indiani cherokee! Preoccupazioni eccessive

dunque?

Queste e numerose altre cifre che periodicamente vengono diffuse,

a ondate, possono dare le vertigini, ma bisogna fare in modo da non

perdere la trebisonda.

Il problema sussiste poiché la complessità di predire il futuro è

dimostrata; inoltre la posta in gioco, quello di alterare irrimedia-

bilmente il decorso della natura, è troppo importante per non

affrontare il tema dello sviluppo con le dovute cautele.

”Quello che la decrescita mette in discussione è in primo luogo la

logica della crescita per la crescita della produzione materiale,” che

sembra essere il mantra preferito degli economisti, prima ancora di

soffermarsi a dare una giusta ponderazione all’abbondanza degli

uomini.

Insomma c’è da considerare che anche con una popolazione ridotta,

la crescita esponenziale dei bisogni comporta una devastazione

ecologica eccessiva. “L’Italia è un buon esempio di questa situazione

paradossale. La popolazione diminuisce, ma ... la produzione, il

consumo, la distruzione della natura e dei paesaggi, l’erosione del

territorio... , la cementificazione, non smettono di crescere.”

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Se la tendenza è quella di imitare tenore di vita e consumo medio di

un americano, siamo già in una situazione di sovrappopolamento.

Mentre “la dieta di base del burkinabé ci darebbe ancora un ampio

margine di manovra.” Il naturalista Jean Dorst rilevava, con

malcelato umorismo, che sarebbe stato comunque più gradevole

non essere costretti a mangiare in piedi!

Il progetto della decrescita, partendo dalla necessità di affrontare i

problemi delle disuguaglianze planetarie, raccomanda agli abitanti

dei paesi poveri di preservare il loro patrimonio naturale, di “uscire

dalle fabbriche... per tornare all’agricoltura di sussistenza.”

Promuovere l’artigianato, il piccolo commercio, riprendere in mano

il proprio destino, creando piccole comunità autosufficienti. Nei

paesi del Terzo mondo, per favorire l’agricoltura intensiva, il

contadino povero è espulso dalla sua terra. Mentre la produzione

familiare tradizionale assicurava alle popolazioni che la praticavano

una vita semplice ma dignitosa, le colture su vasta scala destinate

alla produzione industriale, trasformano la povertà secolare in

miseria. “La povertà era tradizionalmente caratterizzata dall’assenza

del superfluo: la miseria è l’impossibilità di procurarsi il necessario.”

Gli esclusi, i dannati della terra, non hanno altra alternativa se non

quella di riuscire a coniugare la tradizione perduta con piccole

iniezioni di modernità, in una visione territoriale e comunitaria, con

una produzione che guarda ai bisogni essenziali della collettività. In

contrapposizione alle oligarchie economiche e finanziarie che

svuotano la politica della sua sostanza e nei fatti impongono la loro

volontà.

“Il lavoro di auto-trasformazione in profondità della società e dei

cittadini ci sembra più importante e promettente delle scadenze

elettorali.” Occorre puntare dunque su un cambiamento a livello

locale, anche attraverso la creazione di monete di scambio

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alternative, sui comuni virtuosi, slow cities ... La marcia per imporre

soluzioni di decrescita a livelli superiori è lunga.

L’autore, nelle battute finali, si pone l’interrogativo se, per

raggiungere lo scopo, bisogna spingersi fino ad inventare una nuova

religione. Non mancano, come s’è visto, gli adoratori di Gaia; i

seguaci della deep ecology, organizzati in sette, addirittura celebra-

no cerimonie pseudoreligiose. “Noi,” riprendono quota stato

d’animo e ragionamento “siamo diventati degli atei della crescita,

degli agnostici del progresso.”

L’utopia della decrescita è rivolta alla parte nobile del genere

umano. La scommessa quindi è nell’uomo, nella sua capacità di fare

fronte agli eventi e ravvedersi. O, se è necessario, invertire la rotta.

(*) I turisti internazionali sono passati da 25 milioni nel 1950 a più di 700

milioni nel 2008.

(**) Wikipedia - Thomas Robert Malthus (1766–1834)

Nel 1798 pubblicò An essay of the principle of the population as it affects

the future improvement of society (Saggio sul principio della popolazione e

i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società), in cui sostenne che

l'incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno

fertili con conseguente penuria di generi di sussistenza per giungere

all'arresto dello sviluppo economico, poiché la popolazione tenderebbe a

crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della

disponibilità di alimenti, che crescono invece in progressione aritmetica

(teoria questa che sarà poi ripresa da altri economisti per teorizzare

l'esaurimento del carbone prima, e del petrolio dopo).

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9. Incerti spiragli di luce... Anzi no: buio

Il Nord si mosse contro il Sud; il Sud assetato, come il Nord, a

sfavore di una parte del Sud; il Nord-Est contro il Centro (del

potere), Roma.

Round Trip è un ebook di Antonio Costato. Vice presidente della

Confindustria dal 2008 al 2012, imprenditore rappresentante della

‘società dei comandati’. Il quale così identifica il suo Veneto: “unica

regione al mondo da 200 miliardi di PIL senza una capitale e dove la

gente come saluto dichiara la propria incondizionata obbedienza

(‘comandi’!).”

E in circa 200 pagine di articoli pubblicati su vari quotidiani racconta,

come eloquentemente dichiara il sottotitolo, Cronache di un lustro

speso a capire perché a 146 anni dall’annessione per i veneti Roma è

ancora una capitale straniera.

“Nulla è perpetuo e nel caso del sistema italico il tema non è ‘se’

finirà ma semplicemente ‘quando’. Perché un’entità economica

quando è gestita male e coltiva al suo interno asimmetrie e

ingiustizie di ogni tipo alla lunga non può reggere.”

Quello che più rattrista (e stupisce talvolta, ma sempre meno) è

quanto poco apprendiamo dalla storia. Eppure siamo un paese che

di storia ne ha tanta da esserne immerso: da vedere, toccare,

trafugare, esporre nei musei di mezzo mondo, da leggere e

studiare... Ecco, ciò che ci fa difetto è imparare. I segnali ci sono, e i

rischi sono altrettanto evidenti.

Ma “agli italiani ... piace l’inconsapevolezza.”

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Quel diffuso consenso, generalizzato, verso “politiche scellerate”

protratte per decenni non si può spiegare in altro modo. “Come

tollerare che la corruzione, vero problema del nostro sistema, sia

accettata come endemica?” Che si sia annidata in un Parlamento

chiamato a legiferare, “lo stesso in cui siedono i responsabili del

misfatto? Che l’eccezionale venga sdoganato per normale?”

Se la scuola si soffermasse ad analizzare quanto accade nella storia

moderna, da tempo avrebbe dovuto metterci in guardia sul fatto

che la fase di benessere, di crescita politica e sociale, iniziata con le

rivoluzioni del ‘700 è in forte declino.

In Italia abbiamo assistito a un avvicendamento nella gestione di

credito, energia, comunicazioni, infrastrutture, assistenza e

previdenza. Allo Stato, che aveva la missione di diffondere il

benessere sociale senza fini di lucro, si sono avvicendati alcuni

gruppi di affaristi, che invece coltivano l’obiettivo di trarne profitto.

Ecco, “al netto della cattiva gestione,” l’operato dello stato mirava

allo sviluppo del paese.

Invece a partire dagli anni ’80 “con la scusa della ricerca della

maggiore efficienza,” si è propagata la convinzione che la gestione

dei servizi in mano ai privati dovesse eliminare le sacche di cattiva

gestione a beneficio di tutta la comunità. E così il patrimonio

pubblico è stato smembrato e assegnato ai privati.

“Lo Stato si fece garante che le società privatizzande avrebbero

guadagnato grazie a regole e leggi designate in una certa maniera.”

Nuove regole, authority, concorrenza. Le banche finanziarono gli

assegnatari e il gioco fu fatto. Peccato che il giochino, dice l’autore,

che sembrava a somma zero contenesse un vulnus imperdonabile,

trasformando il rischio da mercantile in regolatorio. “Invece di

affrancare la società dagli umori della politica, crea i presupposti per

un cortocircuito ancora peggiore dell’originale.”

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In definitiva la politica si ritrova “più debole e sottomessa alle

lobby.” E la società, una privatizzazione dopo l’altra, è indietreggiata

verso una situazione che si pensava ormai superata e relegata ai

libri di storia.

Come può l’economia nostrana qualificarsi economia di mercato

quando “lo Stato intermedia oltre il 60% del PIL emerso?” Inoltre

del restante 40% una fetta non trascurabile è soggetta a “regole che

si traducono non in prezzi ma in tariffe. Ecco spiegato il miracolo di

un paese in recessione dove, invece di calare, le tariffe ...

aumentano anche in assenza di domanda.”

Nella società medioevale prevaleva un sistema di imposte indirette.

I sudditi pagavano per attraversare un ponte, un confine, per

l’utilizzo di un terreno o un pascolo. I feudatari “avevano come

obiettivo primario il loro benessere e la compiacenza del

concedente. Il tutto era poi condito da odiosi privilegi.”

Gli Stati moderni, dall’800 in poi, sono passati a un sistema

d’imposizione diretta, sul modello di ‘chi più ha più corrisponde’.

Quest’approccio, senza essere messo in discussione come principio,

viene alterato nei fatti a cominciare dagli anni ’70-80 del secolo

scorso.

“In epoca di Robin Hood Tax risulta naturale ampliare l’allegoria, e

guardare come nel tempo le municipalizzate siano diventate i feudi

di una Casta di amministratori che assomiglia in maniera

drammatica ai Signori che nei tempi che furono presidiavano le

acque, le cave, i boschi, i pascoli ecc. e che vivevano sfruttando in

maniera indiscriminata i cittadini dalla posizione assegnata dal loro

principe.” Siamo o no retrocessi, un passo alla volta, a una sorta di

neofeudalesimo?

Ma il buon senso, la storia insegnano che un gradino alla volta si

arriva anche alla rottura dell’equilibrio sociale complessivo.

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L’Italia dei tanti localismi registra negli anni più recenti un calo

demografico, generale, che dovrebbe far riflettere (e meriterebbe di

essere trattato a parte e in profondità). “I governi di questi anni ci

stanno regalando proletari senza prole.” E ai fini della sicurezza,

diventa poi “inutile riempire le piazze con presidi di polizia; ci

vogliono grembiuli, non divise.”

Per fortuna, aggiunge Costato, gli imprenditori della penisola (e dei

mille campanili) sono più stabili che altrove. L’Irlanda ad esempio

dipende “in maniera maggiore dalle decisioni di multinazionali

continuamente alla ricerca di contesti più favorevoli.”

Ma perché, chi ha voglia di investire dovrebbe venire da noi, se per

avviare un’azienda, è richiesto più tempo e più capitale per ottenere

meno profitti? “A percorrere le tortuose strade della burocrazia

nostrana rimangono quindi (un po’ per scelta e un po’ per obbligo)

solo gli imprenditori autoctoni,” confida l’autore, che dopo averli

qualifica appartenenti a una “razza indomita e indefessa (ma non

immune al rischio estinzione!)” esterna la sua contrarietà di fronte a

certi episodi, e alla narrazione che i media fanno dei protagonisti.

Non basta la frustrazione di svolgere il proprio operato in condizioni

svantaggiate, viene a sommarsi anche “la quotidiana umiliazione di

vedere qualificati da giornali e TV personaggi alla Tarantini come

imprenditori.” Di qui l’adesione “all’appello fatto [proprio]... perché

i vari Tarantini, Lavitola, Anemone e compagnia cantando vengano

qualificati per quello che sono ovvero dei faccendieri, categoria che

comprende quella pletora si soggetti che frequenta a vario titolo la

capitale.” Ritorna la centralità del potere di Roma e il ruolo di quei

personaggi che, muovendosi tra Stato e parastato come mosche

attratte dallo stallatico, “sono il veleno dell’impresa.” Poiché con il

loro operato “alterano i meccanismi di mercato e, invece di

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costituire l’esempio di come con ingegno e onestà si possa

emancipare se stessi e la società, sono all’opposto intralcio e sabbia

negli ingranaggi della concorrenza.”

La storia dell’uomo è anche quella della sua posizione nella società.

L’evoluzione dei ruoli comincia con la generazione, l’accaparra-

mento e lo scambio di beni. La creazione di un surplus consente ad

alcuni di “sottrarsi alle attività di produzione diretta per assurgere a

ruoli di comando.”

Il potere della forza e dell’intelletto, differentemente miscelati,

hanno condotto il genere umano ad assetti sociali alquanto diversi

che tuttavia mantengono nel tempo la medesima essenza di base. Si

è arrivato così alla formazione di strutture sociali di tipo sempre più

“complesse rette da un sistema di governo che, a prescindere

dall’epoca e dalla localizzazione geografica, è alla fine gestito da due

caste: una che si occupa della tutela dell’ortodossia (sacerdoti,

senatori, bramini o mandarini) ed una che si occupa

dell’imposizione dell’ortodossia stessa (con una componente

militare e una deputata all’esazione).”

I popoli, intesi come sistemi sociali, sono andati in crisi quando si è

infranto “il punto di equilibrio tra le pretese dei governanti e le

possibilità dei governati.”

Dalla caduta del Muro di Berlino si è imposto una specie di ‘pensiero

unico’ che ha preso il nome di mercato. Dove, stranamente non ha

assunto il ruolo di protagonista chi, producendo beni, rischia in

proprio, ma coloro che muovono capitali: la finanza insomma. “Oggi

economisti e banchieri sono i custodi dell’ortodossia” che ha nella

finanza il fulcro principale.

Solo loro i sacerdoti che “sollecitano l’imposizione di sacrifici

sempre più gravosi per prolungare la vita di un sistema dal destino

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segnato.” E che nei momenti di massima allerta traggono i massimi

profitti.*

Parafrasando Charles Caleb Colton, prelato e scrittore inglese, tanto

vale ammettere che ci sono tentazioni così ben congegnate che

sarebbe stupido non cascarci dentro. E infatti l’uomo moderno è

blandito e assoggettato con mezzi di persuasione tanto sofisticati da

rendere quasi ridondante l’uso della forza da parte delle elite al

potere. Tuttavia le blandizie trovano un limite di rottura di fronte

alla necessità delle persone di soddisfare i bisogni primari.

“Il collasso delle civiltà passate è stato causato dalla pretesa”

eccessiva di quanti erano in posizioni avvantaggiate rispetto alla

“capacità di sopportazione dei sudditi.” Un’economia sostenuta “da

poco più di 15 milioni di soggetti impiegati in settori market” non

può reggere una massa di dipendenti pubblici di 3,5 milioni.

(Mario Sechi, Panorama, 7/8/08)

Turbina. Alternatore. Trasformatore. Bolletta. Messa così, la strada

della produzione di energia elettrica appare diritta e senza ostacoli,

ma come diceva Ennio Flaiano: “In Italia la linea più breve tra due

punti è l’arabesco” e dunque il sentiero è tortuoso e costoso.

La bolletta energetica italiana infatti non è uguale per tutti: i

megawatt di elettricità prodotto nel Settentrione il 10 luglio scorso

costava 106,66 €, al Centro e nel Meridione 123,29, in Sardegna

113,06 e in Sicilia toccava la stratosferica cifra di 171,09 euro.

Incredibili asimmetrie di prezzo che si spiegano così: alcune zone

dell’Italia non sono collegate alla rete nazionale e questo crea una

serie di disfunzioni nella distribuzione di energia.

Terna, per le resistenze e i veti degli enti locali non riesce a posare i

cavi necessari per distribuire l’elettricità.

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Antonio Costato: “Gli amministratori regionali, grazie alla riforma

del titolo V della Costituzione, hanno una capacità di interdizione

alla costruzione di qualsiasi tipo di infrastruttura... Io sono un

federalista, ma un conto è il perimetro politico e fiscale, un altro è il

perimetro economico dove l’ambito è addirittura sovranazionale.”

Prossimamente vedremo quali riforme saranno messe in cantiere

nel nostro paese. Il percorso accidentato sul quale la Grecia è

incamminata punta verso l’ignoto; ciò dimostra come i confini

dell’Europa siano ormai confusi. Il rigore chiesto dall’Europa

implicitamente ci spinge a costruire il vero federalismo. Altrimenti

“ci troveremmo tutti sul Titanic e rischieremmo di finire contro

l’iceberg.” (Eugenio Bruno, Il Sole 24 Ore, 1/10/10)

Il modello centralizzato, con Roma capitale, ha fallito se è vero

(come viene dimostrato) che dall’Unità ad oggi il reddito medio pro

capite del Sud è passato dall’85% rispetto al Centro-Nord all’attuale

55%.

“Come andrà a finire: certamente non con una rivoluzione.”

L’autore ne è convinto e la cosa non può che confortarci (i Balcani

sono troppo vicini in senso non solo geografico per non temere

scenari imprevedibili). Gli argomenti, che fugano l’idea di una

rivoluzione non mancano. Infatti Costato argomenta che mai nei

secoli in Italia è stata fatta una rivoluzione. “Anche nei momenti più

bui, come peraltro sono i nostri giorni, i palazzi romani sono protetti

da una fascia di pasciuti notabili e di popolino al quale non viene

fatto mancare di che vivere e divertirsi.” Sarebbe impensabile

dunque “immaginare una presa del Quirinale o cose simili come già

accadde invece per la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno.”

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Ciò non esclude che ci saranno profondi cambiamenti. Anche se è

piuttosto difficile prefigurare l’approdo finale, sulla base

dell’esperienza si possono solo fare ipotesi e immaginare percorsi

evolutivi della situazione. La storia economica recente ha visto

svilupparsi scenari di tipo giapponese, greco, argentino...

“Un altro scenario comprende la scomposizione del Paese. La storia

racconta di una penisola che nei millenni è stata un coacervo di

popoli retti in forma autonoma o etero governati...”

Ecco dove si annida il vero pericolo (mai espressamente citato,

quantunque presente): la balcanizzazione dei conflitti e delle

divisioni (nord-sud), a causa degli interessi e dei fronti contrapposti

(evasori e non evasori), delle posizioni svantaggiate contro quelle

dominanti delle caste e delle varie categorie.

“Difficile immaginare un Nord Est che si allontani dall’euro e

dall’Europa per condividere le sorti del sud. E altrettanto difficile è

immaginare il Mezzogiorno che si adatti al rigore teutonico, inutile

per gli obiettivi di benessere che i suoi cittadini inseguono e che

tutto sommato hanno da sempre avuto ... senza sottostare a

modelli comportamentali imposti dal nord e che non solo non

hanno funzionato ma hanno distrutto quel tanto di buono che nei

secoli si era costruito se è vero (e lo è) che l’uomo si è inurbato e ha

prosperato prima e molto più a lungo a Siracusa che nel

Magdedurgo.”

Quale preludio a una separazione, federale o consensuale che sia,

(da parte di chi non gradirebbe affatto dover sopportare ulteriori

sacrifici oltre agli inderogabili costi di transizione), le parole finali

suonano, in linea con i punti trattati, perfettamente ben calibrate.

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Bell’e pronte per essere spese davanti a un giudice (di pace, si

spera).

E pertanto Antonio Costato così conclude:

Se come immagino i tedeschi non accetteranno di essere

annacquati in salsa mediterranea, da veneto non mi resta che

sperare in un’OPA la meno ostile possibile nei confronti di quella

parte della penisola che più considerano prossima e che nel

recente passato già è stata estensione e sbocco a mare degli

Asburgo. Un po’ come quella che coraggiosamente fece Kohl sui

fratelli dell’Est. Un sussulto di lucidità politica li induca a

comprendere nel loro perimetro economico anche dei lontani

cugini. E a quel punto non potremo che accoglierli con il saluto di

sempre: “comandi!”

(*) Rapporto di Tax Justice Network: "Nel mondo nascosti al fisco tra

i 21 e i 32mila miliardi di dollari" (Fonte: Il Fatto Quotidiano)

Per un rapido confronto il PIL degli USA si aggira intorno ai 14,5 mila

miliardi (Wikipedia)

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10. Il pensiero lungo

Alfredo Reichlin, nel libro “il midollo del leone”, indica essere

l’assenza di un “pensiero lungo” alla base della crisi della politica

odierna. Una sana politica non può fare a meno di una visione

lungimirante del futuro. Oggi manca un disegno comune che tenga

ancorato l’individuo alla società in una prospettiva collettiva di

sviluppo.

La riflessione dell’autore parte dal ventennio fascista. Rammenta le

condizioni economiche nell’anteguerra, le abitazioni dei contadini

pugliesi che condividevano pochi metri quadri di casa con gli animali

da cortile, (quando la piccola borghesia trovava dignitoso portare

dal sarto un abito smesso per farlo rivoltare). Narra la passione

politica che, nei decenni successivi, puntando all’emancipazione

delle masse ha favorito il miracolo economico.

Facendo un rapido raffronto di quegli anni con la precarietà

dell’oggi si ripropone - nel contesto contemporaneo di un’acuta crisi

economica - l’assillo di mettere insieme il pranzo con la cena. Un

esempio toccante di pensiero, forzatamente, di corto respiro;

l’esatto opposto di quella condizione di benessere che sembrava

alla portata di tutti. Inoltre, accanto ai bisogni reali, ci sono i bisogni

indotti che producono altrettante situazioni dove l’individuo e la

società nel suo insieme si perdono in un orizzonte limitato. Lo

sguardo è più attento all’appuntamento settimanale sportivo e ad

obiettivi di breve termine. I profitti di spericolate operazioni

finanziarie, i guadagni drogati da una gestione speculativa del

territorio, sono aspetti di un modo di vivere che, mirando

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all’immediato, tendono a minare i valori profondi di una società e

finiscono con il determinare lo scollamento complessivo.

L’autore, nel sancire che la storia del PCI è storia conclusa, e che un

tale progetto si è dimostrato irrealizzabile, ne descrive tuttavia le

tappe salienti. Ne rivendica i meriti e ne analizza gli errori. Non per

attenuare le responsabilità, ma nell’intento di voler condurre il let-

tore a una lucida riflessione sul presente.

“Chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente

se il nuovo soggetto politico in cui siamo confluiti sembra così

incerto, quasi senz’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro.”

Nei secoli passati le persone colte non avevano difficoltà a parlarsi,

mentre a livello popolare la gente comune si esprimeva soltanto nel

dialetto locale. Dopo l’unità d’Italia, quando i giovani venivano

chiamati alla leva del nuovo esercito, stentavano a capirsi. Il gior-

nale del PCI “l’Unità”, prima ancora della TV, contribuì a diffondere

la stessa lingua nel paese e a parlare alle masse. Certo, era un

giornale di partito. Un episodio del ’45: un corteo di ragazzi delle

scuole manifestò a Roma per Trieste italiana; fu fronteggiato rude-

mente da squadre di operai della Federazione comunista… “In

perfetto stile stalinista” riporta l’autore (con il senno di poi e una

dose di tardivo umorismo) “l’Unità uscì il giorno dopo con il titolo:

Operai e studenti fraternizzano a piazza Esedra.”

L’800 e il ‘900 vedono socialisti, cattolici e repubblicani affiancati

nella critica radicale dello Stato sabaudo. Le forze politiche si orga-

nizzavano per dirigere le classi sociali emergenti. I leader politici non

si “vergognavano” di sventolare ideali e visione del mondo. “La poli-

tica vera, la sostanza della nostra storia, la forza della sinistra è stata

questa: la formazione del popolo italiano.”

Purtroppo la storia del nostro Paese è attraversata anche dal ricorso

sistematico alla violenza. La mafia, il terrorismo, le associazioni

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segrete (P2) hanno disseminato di ‘misteri’ le epoche passate con

attentati e delitti, senza che mai si sia riusciti a fare piena luce sugli

intrecci e sui mandanti. Ciò si spiega solo “con l’esistenza di un

livello oscuro del potere” e la minaccia latente di guerra civile.

Trascorrono pochi anni e il miracolo economico tramonta. Sulla

scena appaiono nuovi soggetti (Bossi e B) che rappresentano la rot-

tura con i valori risorgimentali. Intanto la borghesia italiana rimane

arroccata in se stessa ancora una volta incapace di farsi interprete

dell’interesse generale.

A un certo punto a noi comunisti è mancata la capacità di leggere gli

eventi. A livello mondiale si stava organizzando una straordinaria

combinazione tra potere economico e potere della comunicazione.

“Il pensiero dominante non si formava più all’interno delle vecchie

strutture dello Stato-nazione.” Il che ha spiazzato la sinistra lascian-

dola frastornata senza un vero programma di governo. Si è affer-

mato il lato deteriore dell’Italia. La parte ricca del Paese è diventata

insofferente verso i mali che affliggono le regioni più povere. Si assi-

ste pertanto a una sorte di depressione, che dando vita a crescenti

fenomeni di corruzione, viene percepita come una caporetto dello

Stato di fronte al potere delle mafie.

Le forze dominanti dispongono oggi di mezzi più pervasivi del “vec-

chio potere padronale di impadronirsi del surplus prodotto dall’ope-

raio.” Entrano direttamente nelle case e nel profondo della vita

quotidiana. Si determina così un nuovo sfruttamento dell’uomo; la

creatività è finalizzata al servizio dei poteri forti, moltiplicando le

fonti di condizionamento.

Il fondamentalismo del mercato, sulla scia della rivoluzione dei

media, ha creato una specie di pensiero unico. Il sistema dell’infor-

mazione e della comunicazione ha infranto il diaframma che divide-

va il vero dall’inverosimile. La finanza, sfuggendo a ogni controllo

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pubblico, ha travolto i confini degli stati sovrani e ha sorpassato ogni

argine dettato dal buon senso.

La riflessione a tutto campo tocca le intuizioni di Berlinguer, il

compromesso storico e l’allora famoso duello a sinistra con Craxi.

“Ma era un duello vero,” si chiede l’autore, “o eravamo come i polli

di Renzo?”

La crisi epocale che stiamo vivendo non è più leggibile all’interno

dei vecchi antagonismi, destra e sinistra, stato o mercato. Certo,

ammette, la nostra visione era classista, ma nello stesso tempo agi-

vamo mossi dalla passione di promuovere “quella rivoluzione intel-

lettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai.”

Adesso affiora il bisogno di riuscire a interpretare “la nuova strut-

tura del mondo.”

La modernizzazione del paese è avvenuta con la contiguità di

‘fenomeni barbarici’ come l’estensione del potere mafioso e le con-

nivenze tra poteri economici e politici che hanno distorto lo sviluppo

economico. Arriviamo alla fine del ‘900 e osserviamo impotenti: il

raddoppio del debito pubblico, il crescente parassitismo, le privatiz-

zazioni e l’accaparramento della ricchezza pubblica da parte di una

ristretta oligarchia economica. La grande mutazione di fine secolo in

Italia, oltre a demolire la partitocrazia, si fonde con quel crogiolo di

forze che non hanno mai accettato i principi di legalità, l’uguaglianza

con annessi diritti e doveri.

Occorre l’apertura a un vero dialogo tra la sinistra e quelle “forze

cristiane” indirizzate verso la ricerca, come spinta alla pace e alla

convivenza tra gli uomini. Tutt’altro che questi giochi di potere e

questa corsa al denaro. Bisogna altresì diventare consapevoli che la

nuova demarcazione della società è tra i pochi che manovrano il

volano della conoscenza e quanti si trovano in posizioni subalterne.

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La politica vista come “strumento della lotta che l’uomo ha ingag-

giato da secoli per la sua progressiva liberazione da tutti i servaggi,

le credenze, le paure più ancestrali” deve farsi carico di interpretare

questi fenomeni, di sanare queste fratture e di creare una nuova vi-

sione del mondo.

L’autore, sulle orme di un passaggio di Italo Calvino, conclude indi-

cando ciò di cui c’è davvero bisogno: “… in ogni poesia vera esiste

un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per

una padronanza della storia.”

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11. Un dispotismo dolce, quasi da barzelletta

Le persone dedicano alla politica un interesse marginale; sono di

continuo sollecitate da necessità più impellenti, essenziali per il

percorso intrapreso sia professionale che affettivo; sono immerse in

una marea di stimoli che condizionano la loro vita relazionale; a

infrangere il ritmo quotidiano acquisito ne va del loro equilibrio

complessivo.

“Costruire ‘istituti’ e legami politici nell’epoca moderna è perciò

assai arduo, come sapeva Machiavelli e sa anche Tocqueville, da

una antropologia debole scaturisce la fragilità della politica.”

Michele Ciliberto, ne La democrazia dispotica, fornisce una interpre-

tazione del presente attraverso una rilettura filosofica e politica

degli ultimi due secoli.

Tocqueville (1805-1859) nei suoi scritti denuncia la presenza di un

nuovo dispotismo basato sul consenso, che definisce: dolce,

previdente, mite. Esso trova origine nello stesso sviluppo della

democrazia, scaturisce dalla “progressiva riduzione della politica ad

amministrazione, sulla distruzione dei poteri [cosiddetti] secondari a

cominciare da quello giudiziario...” Il libero arbitrio è stato scalzato e

“soppiantato da nuove forme di sottomissione servile.” Si è molto

interrogato su come “costruire una reale democrazia politica in una

storia come quella europea, caratterizzata dall’accentramento

amministrativo,” dopo l’esperienza della Convenzione, paventando

che la ‘nuova razza di rivoluzionari’ abbia reso ineludibile un tipo di

dispotismo sia pure diverso dal passato. In Democrazia in America

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indica come, per “limitare il nuovo dispotismo su base popolare”,

occorra rafforzare l’esecutivo e il bicameralismo.

Nell’800 sono in molti a interrogarsi sui temi della libertà politica,

religiosa e sull’eguaglianza sociale.

Secondo Bauer, non è possibile per gli ebrei riuscire a emanciparsi

dallo Stato cristiano, poiché “dove c’è religione c’è sempre

discriminazione.” Ciò vale sia per i cristiani che per qualsiasi altra

religione; ognuno nel professare la propria fede crede di essere nel

giusto. “Dunque per avere libertà ed emancipazione bisogna

liberarsi della religione: o si diventa atei o si trasforma la religione in

un atto privato.”

Marx (1818-1883), nella Questione ebraica, critica la posizione di

Bauer in quanto “lo Stato politico non garantisce né libertà né

emancipazione, perché al citoyen al livello dello Stato si contrap-

pone il bourgeois a livello della società civile.” Marx aborrisce la

politica astratta; osserva che dalla declamata uguaglianza, nel

campo della politica, si materializza “la dis-uguaglianza effettiva a

livello di società civile, il luogo effettivo degli antagonismi e delle

diseguaglianze, che lo Stato non è in grado di superare ed

armonizzare, e che anzi occulta e mistifica con il suo universalismo.”

Le disuguaglianze nella società restano insuperabili, anzi i diritti civili

sono una illusione teorica (frutto “dell’astrazione politica ... espressa

in modo compiuto ... nel Contratto sociale di Rousseau”) che serve a

mascherare gli egoismi dei singoli individui.

“I cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme, come distinti dai

droits du citoyen, non sono se non i diritti del membro della società

civile, vale a dire dell’uomo egoista, dell’uomo scisso dall’uomo e

dalla comunità...”

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Nel differenziare la sua posizione da Bauer, Marx cita Tocqueville e

Beaumont, suo compagno di viaggio in America. “Negli Stati Uniti

non esiste né una religione di stato, né una religione ufficiale della

maggioranza... Infatti la Costituzione non impone le credenze

religiose e la pratica di culto come condizione dei privilegi politici.”

Ma è anche difficile che un uomo senza religione sia considerato

onesto.

Nella contrapposizione ‘Stato’ e ‘società civile’ il pensiero di Marx

viene ad affiancarsi, paradossalmente, a quello di Tocqueville, oltre

che per l’accentuato rilievo dato ai ‘legami’, anche per il giudizio

sulla monarchia assoluta, che “si configura a livello sociale più ricca

di legami di quanto non sia accaduto dopo, con l’affermarsi della

rivoluzione politica.” Tuttavia, a differenza di Tocqueville, “non parla

positivamente dei ‘contrafforti nobiliari’ che hanno contenuto il

potere politico [del] sovrano,” non condividendone la visione

aristocratica.

Nella Questione Marx sottopone la politica a una critica radicale,

evidenziando i limiti della rivoluzione francese. La rivoluzione

politica da un lato ha avuto il merito di mettere fine all’epoca

feudale, dall’altro nel dare più libertà alla sfera privata ha di fatto

permesso alla borghesia di affermarsi a discapito delle masse.

“Stato e società civile si sono contrapposti...” Da un lato mette

l’idealismo dello Stato, dall’altro il materialismo della società civile.

Insomma questa politica, per come si è imposta, si è rivelata “al

tempo stesso una via sbagliata e una scorciatoia.”

Si esce pertanto dall’accentramento amministrativo, analizzato da

Tocqueville, applicando “in modo radicale la democrazia diretta ed

eliminando ogni forma di rappresentanza.” Ne è un esempio la

Comune di Parigi.

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Sul fronte opposto si situa Thomas Mann (1875-1955) con il suo

libro, Considerazioni di un impolitico. “E’ un documento eccezionale

per la lucidità con cui avverte la fine di un mondo e l’estrema

difficoltà di contrastare il nuovo.” Lo sfondo è quello del conflitto

tra la Francia e la Germania che coinvolge il destino dell’intera

Europa. C’è del nuovo nell’aria che mette ansia alle persone di alto

lignaggio - e ben a ragione, dopo gli eccessi della rivoluzione

francese. “Un nuovo terrore (per utilizzare un termine usato da

Tocqueville di fronte all’avanzare della democrazia) ... che nasce

dalla percezione delle masse, della loro potente organizzazione

politica e sociale, di ciò che esse rappresentano per il mondo da cui

egli proviene.”

Benedetto Croce (1866-1952) ritenne che le posizioni sostenute

dall’amico Mann “peccavano di astrattezza teorica e di inconsi-

stenza politica... e che, per la rigida distinzione posta fra aristocrazia

e volgo, finivano per apparire una sorte di sermone moralistico

privo di conseguenze pratiche.”

In quanto alla posizione di Marx, Benedetto Croce vedeva “nel

concetto di lotta di classe” più una visione della vita di tipo

darwiniana che una linea culturale teorica e politica. In questa

specie di lotta biologica vi sarebbe “connesso il continuo formarsi di

nuove aristocrazie, compresa l’aristocrazia lavoratrice generata

dalla sua critica al concetto di eguaglianza e dalla sua azione di

agitatore politico.”

Per Croce c’era “una opposizione frontale fra il socialismo marxista

e l’astrattismo della mentalità massonica, di matrice illuminista.” La

quale semplificava storia, filosofia, la stessa morale in nome della

ragione, della libertà. Riconosceva tuttavia che il socialismo aveva

avuto nella storia dell’umanità il merito di “ostacolare l’insorgere di

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nuove guerre in Europa, favorire la legislazione del lavoro e

l’innalzamento delle condizioni di vita della classe operaia sia sul

piano materiale che su quello intellettuale.”

Mentre Mann opponeva rigidamente aristocrazia e volgo, Croce da

un lato criticava l’uguaglianza, dall’altro elaborava un concetto di

aristocrazia concepita in modo aperto “in un continuo rinnova-

mento, i cui componenti, compiuta l’opera loro, muoiono o tornano

nelle fila.” Secondo quello che era un suo metodo di ragionare, le

posizioni estreme erano entrambe da criticare, rifiutando sia l’idea

mistica della massa che si è andata formando in Occidente, sia l’idea

irrazionale che vede nella massa il mostro da schiacciare.

Bisognava invece educare. “E qui la critica della eguaglianza s’intrec-

cia a una visione liberale.” La quale bandisce rigide gerarchie sociali

e intellettuali; è invece a favore di “una forte apertura nei confronti

della società civile e anche dell’azione che oltre alla scuola, possono

svolgere, nell’opera di educazione delle masse, associazioni operaie,

camere di lavoro, sindacati...” D’altronde Croce nell’ultimo governo

Giolitti era stato ministro della Pubblica Istruzione.

Max Weber (1864-1920), come Croce, rifiuta in maniera categorica

la impoliticità espressa dal suo conterraneo Thomas Mann nelle

Considerazioni di un impolitico. Indica in essa il vuoto, la debolezza

dell’eredità lasciata da Bismarck alla Germania. La quale potrà

risollevarsi “solo eliminando le derive di tipo autoritario... provoca-

te da quel dominio della burocrazia reso... possibile dalla miseria e

dall’assenza della politica.” Dove manca la politica viene a inserirsi

“la forza dura e ottusa, strutturalmente autoritaria, della burocrazia,

pretendendo di assumersi la direzione dello Stato, cosa di cui essa è

incapace per natura, funzione e anche per cultura.”

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Democratizzazione e demagogia sono due aspetti della stessa

medaglia, e di questo la politica deve tenerne in debito conto.

Secondo Weber ci sono tre tipi di potere legittimo: razionale,

tradizionale, carismatico. Quest’ultimo “poggia sulla dedizione

straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore

esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da

essa.” L’obbedienza al leader carismatico (diremmo oggi, ma Weber

per carisma intendeva qualità straordinarie, in origine riscontrabili

nei profeti, negli individui dotati di capacità terapeutiche e

giuridiche, nei condottieri e negli eroi) avviene “in virtù della fiducia

personale nella rivelazione, nell’eroismo e nella esemplarità”

(Economia e società). Vi sono quindi nella concezione weberiana

della carismaticità una complessità di aspetti religiosi, politici,

filosofici, magici. “L’originalità... sta nella messa a fuoco della

tensione fra potere carismatico e potere burocratico, nella capacità

del portatore di carisma di costruire nuovi legami... in grado di

contenere e ricondurre all’ordine il potere burocratico.”

In Italia la partecipazione democratica si sviluppa nel 2° dopoguerra

con la nascita dei partiti politici - eccezione fatta del partito

socialista -, ossia con l’avvento della Repubblica.

Gramsci (1891-1937), in un discorso alla Camera dei Deputati, aveva

sottolineato come, data la modalità in cui si era realizzata l’Unità

d’Italia e la debolezza della borghesia capitalistica, la massoneria era

stata l’unico vero partito della borghesia stessa, per lungo tempo.

“In Gramsci la carismaticità viene criticata quando si risolve in

demagogia deteriore e sul piano di un potere personale incapace di

pensare al futuro.” (Non c’è dubbio che qui vi possa essere sia un

elemento di riflessione verso la politica interna sia una vis polemica

contro Stalin).

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Nel passato come nel presente, il dispotismo su cui Tocqueville si è

soffermato a puntualizzare porta a dividere “gli individui, li chiude

nel loro particolare, e in questo modo, li rende deboli, dipendenti,

fino a trasformarli in servi.”

L’aspetto dispotico, nel panorama politico attuale - imperniato

intorno alla figura di Berlusconi, - è reso tangibile da una serie di

fatti di estrema gravità che vanno dal conflitto quotidiano contro

“l’autonomia del potere giudiziario, alla vera e propria lotta alla

libertà d’informazione... [fino al] diffondersi attraverso i media una

immagine del paese illusoria, senza alcun rapporto con la realtà.”

Si è andato imponendo un “dispotismo democratico di tipo nuovo”

anche a causa “della fine delle forme della politica di massa proprie

del Novecento.” Hanno avuto un peso determinante la televisione e

i mezzi di comunicazione di massa. Non sono state da meno “nuove

forme di individualismo che si sono affermate negli ultimi anni a

tutti i livelli ... frutto della lunga crisi italiana.”

La crisi della politicizzazione di massa ha inizio negli anni in cui il

Partito comunista conseguiva i maggiori successi elettorali. La

separazione dalla società italiana “avviene proprio sul terreno della

concezione dell’individuo e del suo significato sia sul piano politico

sia su quello sociale.” Mentre governanti e governati si distanziano

da un terreno che prima era comune, e i militanti cominciano a

disperdersi per cercare altri orizzonti e luoghi dove ritrovarsi, il

partito comunista “non riesce a immettere le nuove tematiche

dell’individuo e dell’individualità nel proprio codice genetico.”

Poi è successo di tutto, dal crollo del muro di Berlino e dei “blocchi

storici” contrapposti alla disgregazione delle classi sociali; le vecchie

distinzioni, quale operai/impiegati (tute blu/colletti bianchi), sono

venute meno mentre sono emerse forme nuove di parcellizzazione

del lavoro e conseguenti sacche di povertà. In tale contesto “tutto è

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diventato dinamico ... la Democrazia cristiana ha chiuso i battenti ...

il partito comunista è venuto assumendo vari e indefiniti colori,

senza riuscire a trovare una fisionomia in cui trovare pace e

consistenza.”

Benché la sinistra non abbia saputo cogliere e interpretare “le

trasformazioni profonde della società italiana ... sul piano storico ci

sono responsabilità comuni.” La società tutta intera si è chiusa in se

stessa avendo cura soltanto dei propri interessi; i politici a loro volta

si sono mossi come una corporazione (o una casta, per usare il

linguaggio corrente), “in un ceto che si riproduce secondo logiche

autistiche, senza contatto con il mondo grande e terribile.”

“Nella sua azione politica, ormai quasi ventennale, Berlusconi su un

punto è rimasto sempre costante: ha sostituito alla legge l’arbitrio,

secondo un principio classico di ogni dispotismo. Dai suoi valvassori

ha fatto varare in Parlamento almeno 37 leggi ad personam ... ha

subordinato in modo sistematico l’attività legislativa ai suoi interessi

personali in un crescendo inarrestabile, con un uso privatistico dello

Stato ... tipico del dispotismo classico.”

In questi anni, accanto a un “acuirsi delle diseguaglianze, una

strutturale riduzione e livellamento verso il basso dei redditi

popolari,” si è vista l’incapacità di operare in profondità - per il bene

del paese. Mentre è andato affermandosi un modello di leadership

di tipo carismatico teso a proiettare una condotta disinvolta verso le

istituzioni e quei valori etici e sociali che dovrebbero rappresentare i

pilastri di una società democratica. Tutto ciò è stato “reso possibile

da una vera e propria egemonia culturale realizzata attraverso un

uso massiccio e spregiudicato dei mezzi di informazione di massa ...

Con un rovesciamento sistematico di ‘apparenza’ e di ‘realtà’, di

immaginazione e di essere reale, come vero e proprio strumento di

Page 87: Antonio FiorellaAntonio Fiorella · erano così affascinate all’idea di creare un potente simbolo di unità . 9 (l’euro) da sovrastimare i benefici della nuova moneta unica e

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governo e di dominio ... in rotta di collisione anche con la Chiesa

romana.”

Sono nate nuove forme di razzismo; è emerso un individualismo,

dalla connotazione cinica, “pronto ad abdicare ai diritti individuali e

alle libertà collettive, pur di difendersi dall’estraneo” e di

rimpinguare le proprie finanze.

Ciliberto mostra come il berlusconismo sia riuscito a dare forma, in

chiave reazionaria, alle esigenze di mutamento e di rinnovamento

insorte a livello di massa di fronte alla crisi della Prima Repubblica;

come abbia frantumando le identità collettive presenti nella società

italiana e distrutto la religione civile dell’antifascismo su cui l’Italia

era riemersa dalle macerie del dopoguerra.

Tocqueville, Marx, Weber e Gramsci, hanno focalizzato la loro

attenzione sull’importanza dei rapporti sociali, nelle società

democratiche, evidenziando quanto i ‘legami’ e i ‘vincoli’ siano

fondamentali sia sul piano politico che su quello civile e sociale.

Negli ultimi due decenni invece nel paese si sono affermati falsi

valori (di elusione dei doveri civili), è stata alimentata la paura del

diverso, si è creata una sterile contrapposizione tra Nord e Sud,

“individuato come un peso morto di cui liberarsi, senza capire che

dall’Unità, in Italia, Nord e Sud sono due facce dello stesso processo,

e che in questo intreccio è stato sempre il Sud a rimetterci.”

Una democrazia matura presuppone quindi che i cittadini “si

riapproprino delle forze proprie di cui sono stati spossessati.” Ieri

come oggi, l’antipolitica, la passività degli individui sono causa ed

effetto di ogni dispotismo.

Troppo a lungo ci si è lasciati imbonire da un dispotismo dolce -

quasi da barzelletta... “E il naufragar” è stato fatale nel mare del

voyeurismo televisivo.

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12. Il modello America visto da due angolature

Quel sistema americano che ci è stato decantato per decenni,

proposto a modello da corrispondenti e imprenditori europei, viene

messo in discussione da un professore di scienze politiche

dell’Università di Princeton. La maggioranza straordinaria richiesta

dall’art. V della Costituzione per l’approvazione delle modifiche

costituzionali nei fatti assegna una “smaccata attribu-zione di

potere a delle minoranze”. Il che finisce con capovolgere “l’enfatico

preambolo democratico” se una minoranza elitaria lo usa come

strategia per arroccarsi in una “democrazia gestita dall’alto.” Le

masse popolari ai livelli più bassi vivono nella realtà quella che si

potrebbe definire una “democrazia scoraggiata” con oltre la metà

degli elettori che non si reca neppure alle urne. Le forze antitasse e

antispesa sociale, affermatesi a partire della seconda metà del XX

secolo, ne sono l’esempio principe.

Mentre la spesa militare è lievitata fino a quattro volte quella

destinata ai programmi sociali, nessuno dei due partiti (repub-

blicano o democratico) mette nel suo programma l’obiettivo di

porre un freno alla spesa militare: “meglio proibire il matrimonio tra

persone dello stesso sesso.” (Sheldom Wolin)

“Nel 1978, un movimento antitasse partito dalla California [ottenne]

una maggioranza cruciale”, approvò la Proposition 13, imponendo

“un limite stringente alle tasse sui patrimoni immobiliari”.

Federico Rampini, nel suo libro Alla mia sinistra, osserva come gli

avversari nella destra abbiano studiato più a fondo “Gramsci e il suo

concetto di egemonia culturale” di quanto abbiano fatto gli

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esponenti della sinistra. La svolta conservatrice non era granché

visibile allora, ma così aveva inizio un lento e progressivo

“impoverimento della scuola pubblica e di tanti servizi sociali che ha

segnato profondamente la società americana.”

Negli anni successivi il capitalismo americano cominciava la

delocalizzazione interna delle industrie manifatturiere sradicandole

dove la presenza sindacale era giudicata forte, per impiantare la

produzione nelle aree del paese dove la manodopera era meno

sindacalizzata. “In America, ancora più che altrove, ogni movimento

dei lavoratori è stato contrastato fino quasi a cancellarlo.”

La destra, attraverso ogni mezzo di comunicazione, iniziò in quegli

anni un percorso di riconquista del terreno sociale perduto facendo

leva su antichi valori religiosi e chiedendo più libertà d’impresa da

attuarsi con meno regole.

Oggigiorno si può costatare che ai monopoli di Stato sono succeduti

nuovi monopoli privati, sostiene Rampini, che la deregulation si è

tradotta in un’assenza quasi totale di regole sul mercato, che le

multinazionali dell’industria e della finanza hanno travolto ogni

debole steccato. Alla fine ”l’eden del cittadino-consumatore non si è

visto, quello dei chief executive sì”.

Nell’America del 2011, con 25 milioni di disoccupati, “le grandi

imprese stanno sedute su una montagna di cash” restie a fare nuovi

investimenti. I profitti provengono in larga parte dai paesi cosiddetti

BRICS che avvertono solo di lontano la recessione. La globaliz-

zazione quindi, mentre protegge le grandi aziende che hanno

diversificato la produzione, penalizza le classi medie e povere dei

cittadini che vivono del loro lavoro.

Negli ultimi decenni, in America, si è instaurata una classe dirigente

che molto assomiglia a una plutocrazia, la quale ha scalzato il resto

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della cittadinanza dal potere effettivo spazzando via anche quei

pochi contrappesi posti in essere.

Lo testimoniano tra l’altro le difficoltà incontrate dal presidente

Obama nell’implementare parte del suo programma. In molti si

chiedono cosa è rimasto de L’audacia della speranza, ossia dei

buoni precetti narrati nel libro che lo ha accompagnato fino alla

Casa Bianca. Alcuni militanti del Partito Democratico ormai lo

definiscono Missing in action, come quei combattenti caduti sul

campo di battaglia che appunto non danno più segni di vita. Frank

Rich del settimanale ‘New York Magazine’ conclude così il suo

reportage: per non aver istruito un processo ai banchieri americani,

per non aver attaccato frontalmente le forze del male annidate a

Wall Street, Obama si è condannato a vivere nell’ambiguità con

“qualcosa di marcio” che resta incollato alla sua presidenza.

L’eloquente messaggio di R. Reagan: “Lo Stato non è una soluzione

ai nostri problemi, lo Stato è il problema” resta fortemente

impresso nella mente del cittadino medio americano. Il quale nel

profondo del suo animo è convinto “che le tasse non vadano

aumentate neanche ai miliardari, perché sono tutti ( ovviamente! )

imprenditori dediti a creare posti di lavoro e benessere collettivo, e

anche perché domani il miliardario potrei essere io ( per un’illusione

ottica sconcertante, o miraggio collettivo, il 16 per cento degli

americani è persuaso di appartenere all’1 per cento dei più ricchi ).”

La deriva antidemocratica è tangibile, reale, anche quando “passa

attraverso il consenso.” Non votanti a parte ( ben oltre il 50 per

cento ), larghi strati della popolazione degli Stati Uniti “votano

‘contro i loro interessi’ da trent’anni, sposando politiche fiscali

regressive che beneficiano una ristretta minoranza perché sono

convinti che le ricette della sinistra siano rovinose.”

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Chi sono gli artefici di quest’inganno? Non si tratta di magia nera,

ma di appartenenza alla classe ricca, elitaria, WASP (White Anglo-

Saxon Protestant).

“A Washington c’è K Street da una parte, Pennsylvania Avenue

dall’altra. Sono due sfere confinanti ma distinte: da una parte le

lobby, dall’altra le istituzioni dello Stato”.

Rampini è sedotto da questa divisione ordinata di spazi e di ruoli

(quella descritta sembra la visione di un giardino fiorito, ben diviso

per aiuole, dove ogni fiore è messo a dimora con gusto raffinato e

sensibilità cromatica). Infatti più avanti aggiunge che l’America per

certi versi è il regno delle lobby, ma questo - per lui - non significa

che la lobby possa “farsi Stato”, mischiarsi fino alla confusione dei

ruoli, sostituirsi alle sedi istituzionali delle decisioni. Arriva al punto

di osservare e non focalizzare bene il quadro d’insieme, e in parte

forse ha ragione. Comprensibilmente, ha davanti agli occhi, mentre

scrive queste pagine, le notizie che gli giungono dall’Italia dei

Bisignani e della P4. Ma subito dopo si riprende dal momentaneo

abbaglio per farci un quadretto più veritiero, esemplare, dell’attività

di lobbying: sono “attori della vita politica americana, si

frequentano... s’influenzano, duellano o duettano”. Cita perfino il

balletto dell’osmosi nel personale, da altri definito gioco delle porte

girevoli, con viavai di ex (parlamentari, lobbisti) “che una volta

conclusa la loro carriera” vengono accolti e ammessi tra le fila dei

dipendenti delle imprese che hanno beneficiato dei favori. Un po’

come veterani di guerra o agenti dello spionaggio che, avendo

compiuto la missione all’estero, abbandonano i ruoli di copertura e

ritornano alla base.

Intermezzo di Sheldom Wolin: “A differenza del cittadino come

elettore occasionale, il lobbista è un ‘cittadino’ a tempo pieno... In

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quanto forma politica indicativa di dove è davvero il potere, le lobby

sono il perfetto complemento dell’impero.”

La battaglia culturale della destra, prosegue Rampini, si giova della

santa alleanza con la classe religiosa; assembla così profitto e

salvezza eterna. E’ un disegno che mette insieme il capitale

interessato alla deregulation e alle privatizzazioni, con la fascia

piccolo borghese sedotta dalla rivolta antitasse e dal

“fondamentalismo religioso del profondo Sud.” Ma non si tratta di

un banale complotto del grande capitale. Anzi, la commistione tra

religiosità e liberismo è “una novità dirompente, ed è il pilastro di

quell’operazione ‘gramsciana’ su cui la destra continua a fondare

oggi la sua popolarità.”

I membri del Tea Party, con i soldi delle lobby, hanno minato i buoni

propositi di Obama. Durante l’estate del 2009 hanno organizzato dei

dibattiti sulla sanità pubblica nelle town hall dell’America di

provincia; hanno dirottato l’attenzione dai contenuti della riforma a

“una fantomatica ‘eutanasia di Stato’ imposta agli anziani o a

incentivi per l’aborto,” formulato accuse di aggravio di tasse e

paventato il livellamento qualitativo al gradino più basso, se passa

l’assistenza sanitaria per tutti.

Insomma la fobia delle tasse, peraltro diffusa in vasti strati della

popolazione, è “coltivata dalla destra con un obiettivo strategico.”

Già all’epoca di Reagan uno slogan dei neoconservatori prometteva

di ‘affamare la Bestia’. La quale altro non era che lo Stato sociale. Lo

slogan divenne poi così dirompente da essere adottato dalle

imprese creando notevoli sconvolgimenti sociali.

“Facendole mancare gettito fiscale, la Bestia avrebbe finito per

soccombere”.

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L’ingordigia dell’alta finanza per gli alti guadagni e l’assenza di

regole hanno portato le banche statunitensi sull’orlo del fallimento,

situazione sfociata poi nella crisi economica mondiale più grave

dopo quella del ’29. In uno scenario di grossi squilibri sociali, Warren

Buffet, il secondo uomo più ricco d’America, denuncia il paradosso

di godere di un’aliquota fiscale più favorevole della sua segretaria.

Sicuro di fare molto clamore ma di non vedere il suo patrimonio

intaccato da nuove tasse.

E subito diventa più chiaro perché Sheldom Wolin, (uno dei più

stimati filosofi politici degli USA, dice la biografia - ma forse inascol-

tato), parla di Spettro di totalitarismo rovesciato.

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13. The Specter of Inverted Totalitarianism

Ucraina, novembre 2004. Un milione di cittadini della capitale e altri

accorsi da varie zone del paese occuparono la piazza centrale di Kiev

per contestare l’esito delle elezioni nazionali appena svolte, denun-

ciando brogli e acclamando vincitore il candidato dell’opposizione.

Stati Uniti, 2000. Alle elezioni presidenziali, nello Stato della Florida

si riscontrarono “irregolarità di vario tipo...” Questione subito risolta

“grazie a un processo irregolare e di parte quanto le elezioni

stesse.” Benché tali voti fossero determinanti per il risultato com-

plessivo non ci furono proteste né manifestazioni di massa.

Sheldom Wolin, in Democrazia Spa, nel fare la radiografia del potere

negli Stati Uniti, cita questi ed altri episodi ponendo l’interrogativo

se la democrazia nordamericana sia da prendere a modello o non

sia piuttosto “un’incarnazione fortemente equivoca.” Argomen-

tando sulla sua vera natura ne rivela i tratti antidemocratici, che

riscontra nelle differenze sociali, nel solco delle disparità tra ricchi e

poveri che diventa sempre più profondo, nel sistema scolastico con

istituzioni d’élite da un lato e dall’altro scuole pubbliche in situazioni

critiche, “in una sanità negata a milioni di persone, nel controllo

esercitato dal denaro e dalle grandi imprese sulle istituzioni

pubbliche nazionali.”

Quando il presidente Bush II definisce gli Stati Uniti “la più grande

potenza del mondo” c’è da domandarsi come si è arrivati a divenire

una “grande potenza” e da dove deriva la legittimità a esercitare il

ruolo che essa svolge nel mondo.

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Se un regime totalitario di tipo nazista può avere origine dal falli-

mento di una democrazia debole, è altrettanto possibile che “una

forma di totalitarismo, diversa da quella classica, nasca da una

presunta democrazia forte.” E’ la tesi dell’autore, il quale individua

nell’impegno civile il requisito fondamentale della vita democratica

di una nazione.

Allora, qual è la cultura di sostegno volta alla partecipazione dei

cittadini nell’attività della cosa pubblica?

L’opinione pubblica è bersagliata di continuo da campagne pubblici-

tarie che mirano a “influenzare e a orientare i comportamenti” dei

consumatori secondo i dettati preordinati dalle multinazionali. Le

medesime tecniche di persuasione vengono adottate dagli esperti e

consulenti dei partiti a fini elettorali. “Il risultato che abbiamo

davanti è un inquinamento dell’ecosistema politico... [dove] la ma-

nipolazione popolare è diventata una forma d’arte.”

Nel quadro delle fumose cerimonie pubbliche, nel mondo virtuale

dello schermo tv, coesistono la “buona novella dell’evangelista” e

l’ampolloso discorso politico dei vertici della nazione. Ad essere

sottomessa è la verità e la razionalità. A distanza di un paio d’anni

dall’accertamento dell’inesistenza delle armi di distruzione di massa

di Saddam, la percentuale degli americani che credevano alla

presenza di queste armi era salita dal 35 al 50 per cento. Ed era

convinzione diffusa che fossero esistiti legami, mai provati, tra

Saddam e al-Qaeda.

“La guerra della Superpotenza è la versione reale e beffarda della

guerra di classe: i meno abbienti che combattono guerre istigate dai

più abbienti, istruiti e rappresentati.”

Quando il presidente eletto fa imprigionare dei combattenti che

difendono il proprio suolo “senza giusto processo”, quando

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permette “l’uso della tortura mentre catechizza la nazione sulla

sacralità dello Stato di diritto,” siamo entrati in un sistema nuovo,

totalitario, dove viene praticata una realtà ben diversa da quella che

si professa. “Si ha il rovesciamento quando un sistema, come la

democrazia, genera una quantità consistente di fenomeni normal-

mente attribuiti alla sua antitesi.”

Mentre nazisti e fascisti esaltavano la forza, cercavano il dominio e

disprezzavano i segni di debolezza, “i nuovi utopisti sono orgogliosi

della loro forza impareggiabile ma, paradossalmente, si sentono

minacciati dalla debolezza altrui.”

Le dittature del XX secolo, caratterizzate da “leader sopra le righe,”

furono dominate da personalità che si erano fatte da sé. Nel caso

del totalitarismo rovesciato il leader “non è l’architettura del

sistema ma il suo prodotto... George W. Bush è il figlio prediletto e

malleabile del privilegio, dei rapporti d’affari,” la creazione dei

maghi della propaganda e dei consulenti di partito.

In quanto agli elettori, come i consumatori, sono diventati target;

l’istruzione è gestita da organismi simili alle aziende; le gerarchie

aziendali di comando sono strutturate come in un esercito.

“L’ideologia del [nuovo] regime è il capitalismo, virtualmente

indiscusso così come lo era la dottrina nazista nella Germania degli

anni Trenta.” Si distingue poiché il sistema riesce a brandire il

potere senza darlo troppo a vedere; le prigioni traboccano anche se

non ci sono campi di concentramento; e viene imposta “l’uniformità

ideologica” senza ricorrere alla forza per sopprimere i dissidenti.

Secondo il National Security Strategy of the USA (NSS) del 9/9/2002

‘Le fondamenta della forza americana sono in patria. Sono le

capacità del nostro popolo, il dinamismo della nostra economia... La

nostra forza dipende da come utilizziamo questa energia. E qui che

comincia la nostra sicurezza nazionale’. Sheldom Wolin ravvisa in

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tale documento la “consacrazione dell’economia” dove “la trinità di

identità, democrazia e libertà d’impresa” non trovano “pari dignità.”

Anzi, libertà e democrazia sarebbero difatti subordinate alla libertà

d’impresa. Le disparità di potere e di ricchezza, le forti sperequa-

zioni nei compensi tra lavoratori e dirigenti sono conseguenze

dirette della visione distorta della democrazia dominata dal mondo

imprenditoriale. In altri termini “la diseguaglianza ha la meglio

sull’egualitarismo democratico.” Il peso delle multinazionali, dalle

risorse che superano quelle di molti paesi, si manifesta in patria (e

all’estero) attraverso l’operato delle lobby e del mercato.

E nel cosiddetto libero mercato si esercitano i poteri forti, prendono

forma prezzi e salari, viene determinata e l’opulenza di pochi e “la

povertà dei singoli, [viene deciso] il destino di interi quartieri, città,

Stato e nazioni.”

Il rapporto di forza può essere misurato partendo “dalla concentra-

zione della proprietà dei mezzi di comunicazione e del relativo

controllo sui loro contenuti,” osservando i comportamenti dei

giovani negli anni della guerra in Vietnam e “il blackout virtuale

sulle proteste contro l’invasione dell’Iraq.” All’ascesa della Super-

potenza corrisponde il declino della democrazia - dentro e oltre i

confini nazionali.

Quando una larga fetta dell’elettorato non vota, la parte più

dinamica della società se ne avvantaggia.

Un elettorato sfiduciato nella classe politica, un Congresso che

legifera con “maggioranze molto risicate,” favorisce l’attivismo delle

lobby portatori di interessi forti, mentre all’opinione pubblica

vengono date in pasto le guerre culturali su temi controversi quali

“il ruolo delle organizzazioni religiose di beneficienza in attività

finanziate dallo Stato, la questione del matrimonio tra gay e simili.”

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Cose che “servono a sviare l’attenzione e a contribuire a una politica

ipocrita che dibatte del nulla.”

Cosa che, in una visione rovesciata, ricorda un po’ il sagace motto di

Oscar Wilde quando diceva di amare molto parlare di niente, poiché

era l’unico argomento di cui sapeva quasi tutto. Ma egli a differenza

delle masse diseredate disponeva di doti e mezzi per potersi

distrarre dalla concretezza della realtà; ed era notoriamente

tutt’altro che sprovveduto.

“Com’è possibile che il potere economico privato, laico, cinico,

materialista, non solo coesista con il cristianesimo evangelico ma

addirittura se ne nutra e sia in simbiosi con esso? Com’è possibile

che Cristo e Mammona si siano messi d’accordo?” Strana la

commistione tra i precetti evangelici (che la vita terrena è un

“fenomeno transitorio”) e le visioni predatorie di matrice industriale

e militare (che spogliano delle sue risorse il pianeta e lo inquinano).

I vertici delle multinazionali e dell’esercito, negli ultimi 20-30 anni,

hanno preso ad avvicendarsi nei posti di alto profilo con una

frequenza che trova nella definizione di ‘porte girevoli’ una sintesi

perfetta. Segno che lo scambio di favori ha superato ogni limite di

normalità e decoro.

Nello contempo “il raggio d’azione dell’autorità di regolamentazione

si è ridotto,” avendo l’iniziatica privata assorbito “sempre più

funzioni e servizi pubblici” che una volta erano di competenza

esclusiva dello Stato. La strategia è quella di screditare le attività

pubbliche bollandole come inefficienti, tagliare fette di welfare e

cedere le medesime funzioni ai privati, “sposando la causa governo

più snello.”

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Il dominio è una esibizione di forza che si nutre della paura altrui.

“Sui mercati finanziari gli operatori non scambiano soltanto titoli,

ma sfruttano anche una serie di utili insicurezze.”

Lo spirito della Superpotenza si esprime in una specie di dualismo

tra politica e impresa. La comune aggressività ha elaborato i

concetti di ‘danno collaterale’... ‘prezzo della vittoria’... fatti passare

come costi inevitabili sia in guerra sia nelle dinamiche dei cicli

economici. I processi di ridimensionamento aziendale portano, in

borsa e per chi li pratica, lauti guadagni e come ricaduta “carriere

distrutte, vite stravolte, speranze annientate.”

Sarebbe coerente, oltre che auspicabile, che “chi si appella

continuamente alla ‘sacralità della vita umana’ e dell’embrione

avesse la stessa premura per le vittime innocenti dei danni

collaterali.”

I ‘sixties’ furono anni di coinvolgimento delle masse e di accese

contestazioni. Temi quali il razzismo, la politica estera, il potere

delle imprese, l’istruzione universitaria erano dibattuti pubblica-

mente in tv, sui giornali, negli atenei e negli spazi pubblici.

Nel 2003, in nessuna università si sono registrati sit-in, dibattiti o

contestazioni antimilitariste, né a seguito dell’invasione americana

dell’Iraq, né successivamente quando è diventato palese che delle

famigerate armi di distruzione di massa non c’era traccia alcuna. Il

che da un lato mette in evidenza la concentrazione in poche mani

dei mezzi di comunicazione e dall’altro diventa “specchio dell’ef-

fettiva sottomissione del mondo accademico alla logica dell’im-

presa.”

D’altronde l’elitarismo si muove come un’azienda: nel produrre

laureati di successo praticamente autoalimenta e finanzia l’appetito

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“insaziabile degli istituti d’élite” che forniscono la chiave per

accedere alle posizioni più prestigiose.

Altro elemento cardine del potere elitario sono le lobby che

esistono per “mandare in corto circuito la forza dei numeri,” ossia

ridimensionare ogni velleità da parte dell’uomo comune di farsi

ascoltare. “A differenza del cittadino come elettore occasionale, il

lobbista è un ‘cittadino’ a tempo pieno.”

Il trascorrere di secoli, dai vecchi regimi a quelli attuali, non ha

scalfito “il principio gerarchico dei gradi d’autorità” e con esso le

prerogative di potere, retribuzioni e benefici elargiti.

L’organizzazione capitalistica è “a-democratica nella struttura e nel

modus operandi e antidemocratica nei suoi ripetuti tentativi di

distruggere o indebolire i sindacati, di scoraggiare ogni legge sul

salario minimo, di opporsi alla difesa dell’ambiente.” Mira a

orientare la creazione e la diffusione della cultura (attraverso mezzi

di comunicazione, fondazioni e scuole) per i propri fini anziché alla

crescita culturale della cittadinanza.

La società ha bisogno di “una diversa prospettiva temporale.”

Partendo dallo smantellamento dell’impero occorre tornare all’idea

e “alla pratica della cooperazione internazionale invece dei dogmi

della globalizzazione e degli attacchi preventivi.” In primis, occorre

“recuperare l’autorità di regolamentazione del governo sull’econo-

mia” correggendo “le distorsioni di un sistema fiscale asservito ai

ricchi e alle grandi imprese,” per poi “ridare vita a un sistema

rappresentativo capace di ascoltare la richiesta pubblica” di

maggiore tutela nella sanità, d’istruzione pubblica di qualità,

assicurando un adeguato grado di benessere per tutti i cittadini.

La puntigliosa analisi della situazione politica negli USA, trasportata

in una visione peninsulare, porta alla costatazione che viene a

collassare quella struttura di riferimento - l’America! - da molti

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additata come traguardo avanzato di una democrazia moderna da

imitare. Per chi coltivava ancora dubbi, diventa più pressante la

necessità di un ripensamento.

“Se la democrazia odierna è solo di facciata, se ha assunto con-

notazioni non dissimili dal totalitarismo e dal fascismo, dove ci sta

portando il disegno europeo?”

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14. Il disegno europeo

Al di qua e al di là dell’Atlantico due professori universitari, filosofi e

studiosi della questione politica, nell’osservare la deriva

democratica dei rispettivi paesi sono giunti alle medesime

conclusioni. A partire dalle quali, nell’osservare il sogno europeo,

quello che si sta delineando assume le sembianze di un incubo. In

altri termini, quand’è che un disegno, un progetto contenitore,

diventa la camicia di forza del contenuto, dell’umanità che ne è la

parte viva?

Michele Ciliberto in La democrazia dispotica, si è visto, descrive

come negli ultimi decenni si sia imposto un “dispotismo demo-

cratico di tipo nuovo” manovrato dai media; si è affermato un

modello di leadership di tipo carismatico teso a proiettare una

condotta disinvolta verso le istituzioni. Accantonati quei valori etici

e sociali che dovrebbero rappresentare i pilastri di una società

democratica, tutto è “reso possibile.” Una vera egemonia culturale

è realizzata attraverso l’uso spregiudicato dei mezzi di informazione

di massa. E’ avvenuto un “rovesciamento sistematico di apparenza e

di realtà, di immaginazione e di essere reale, come vero e proprio

strumento di governo e di dominio.”

Altrettanto vigorosa si presenta l’analisi di Sheldom Wolin, in

Democrazia Spa.

Wolin denuncia la strana commistione tra l’insegnamento evange-

lico e la visione espansionistica di matrice industriale e militare, le

disparità di potere, le forti sperequazioni tra lavoratori e dirigenti.

Sostiene: sono tutte conseguenze dirette della visione distorta della

democrazia dominata dal mondo imprenditoriale. Le risorse delle

multinazionali superano quelle di molti paesi. Nel cosiddetto libero

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mercato si esercitano i poteri forti (attraverso prezzi e salari) che

determinano la ricchezza dei pochi e un ridotto livello di vita della

maggioranza, se non proprio la riduzione in miseria di una fetta di

popolazione. Il destino di interi quartieri, città, Stato e nazioni

dipendono dalle decisioni prese nei consigli d’amministrazioni di

grandi corporazioni.

Se tanto mi dà tanto, se la democrazia odierna è solo di facciata, se

ha assunto connotazioni non dissimili dal totalitarismo e dal

fascismo, se le decisioni vengono prese altrove e se le istituzioni

sono diventate un inutile teatrino alle spese della collettività, se

l’osservanza delle leggi vale solo per i grulli, se la politica è

attraversata da parole vuote e se le parole servono a costruire

inganni, fatte le debite proporzioni, il disegno europeo equivale alla

realizzazione nipponica (durante il 2° conflitto mondiale) de “Il

ponte sul fiume Kwai” (film diretto da David Lean, tratto dall'omoni-

mo romanzo di Pierre Boulle).

Anche qui il progetto (EU) va portato avanti, a termine, a tutti i

costi; si erge al di sopra delle persone; l’opera va salvaguardata in

quanto tale; più che della gente, ciò che conta è la conquista

dell’obiettivo, di stampo neoimperiale. I superburocrati di Bruxelles,

i superMario, politici e funzionari pubblici, nelle vesti degli ufficiali

inglesi, e noialtri irreggimentati nella manovalanza, spinti alla mera

sopravvivenza, siamo tutti arruolati, coinvolti, protesi come dei

forzati al rimodellamento della società moderna secondo l’impe-

rante dottrina neoliberista.

Aprile 2012. Allarme sulla situazione dei minori in Grecia redatto

dall’Unicef e dall’Università di Atene. Secondo l’indagine, «La

condizione dell’infanzia in Grecia, 2012», in questo Paese sono

ormai 439.000 i bambini che vivono al di sotto della soglia di

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povertà – malnutriti e in condizioni malsane – in famiglie che

rappresentano il 20,1% del totale. (1)

Giugno 2012. “Per una volta, scrive Marcello Foa, Monti è stato

sincero, ha dichiarato che lo scopo finale dell’attuale crisi è di creare

un’unione politica europea. Non ha specificato come, ma per chi sa

come funzionano certe logiche non è un mistero: le crisi, come ha

ammesso ... in una conferenza, servono a generare un’emergenza in

nome della quale si impongono a popoli ed elettori norme che

altrimenti accetterebbero difficilmente. Quando spingi, a parole, un

Paese sul bordo del precipizio puoi ottenere quel che vuoi.” (2)

“Ci stanno uccidendo, deliberatamente: quella che sembra una crisi

accidentale, Paolo Barnard la definisce ‘politica della carenza’. Un

piano prestabilito: con nomi e cognomi, mandanti, moventi,

procedure concordate. «Parlo di ciò che colpisce al cuore i diritti

umani e la dignità umana riscattati dopo 5.000 anni di abietta

schiavitù in Europa».” (3)

Ottobre 2012. I dati Eurostat 2011 indicano che il 27,2% dei bambini

in Spagna vive al di sotto della soglia di povertà. Sulla base dei dati

2011 pubblicati da Eurostat, l’Unicef Spagna stima che circa

2.267.000 bambini vivono al di sotto della soglia di povertà nel

paese. (4)

Di fronte a tanta sofferenza non sarebbe il caso di allentare la morsa

del binomio rigidità-dirigismo di matrice EU?

Macché. La Regione Calabria si scontra con il governo per una legge

regionale che favorisce la commercializzazione di prodotti agricoli a

‘chilometro zero’. Il Consiglio dei Ministri ha fatto ricorso alla Corte

Costituzionale contro questi provvedimenti. Ma le regole comuni-

tarie, in materia, si spingono ben oltre: una direttiva comunitaria del

1998 stabilisce che la commercializzazione e lo scambio di sementi

sono consentite soltanto alle ditte cosiddette ‘sementiere’ (vedi la

Monsanto). Agli agricoltori è vietato il commercio delle loro

sementi. (5) Oibò! Come è andato avanti il mondo rurale fino

all’altro ieri? E’ come imporre a sacerdoti, cattolici, l’approvvigio-

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namento di ostie e vino presso organizzazioni mussulmane; o

viceversa.

Le élite, attraverso le corporazioni economiche, ci hanno imposto

nuovi bisogni e assuefatto ad ondate di nuovi prodotti, che hanno

sconvolto antichi valori ed esistenti modalità di vita. Le loro scuole

di pensiero dettano mode (inclusi i ritmi di cambiamento delle

stesse), rendendo obsoleti comportamenti e tradizioni che

fondavano la loro ragione d’essere nel comune buon senso. Quante

volte è accaduto che siamo caduti nella trappola degli abbagli

collettivi? S’è visto, impunemente, sovvertire l’ordine naturale delle

cose. Mamme convinte a nutrire i bambini, con latte in polvere,

dove l’acqua era scarsa e malsana. Nonne purgare i nipoti anche

quando non c’era bisogno. S’è visto tagliare appendiciti, strappare

tonsille, perché inutili orpelli del corpo umano, perché così volevano

le multinazionali farmaceutiche (dispensatrici di farmaci e di buoni

consigli), così ripetevano i conferenzieri ai luminari della salute

pubblica e privata, così si afferma/va ogni novità commerciabile. S’è

visto convertire all’agricoltura industriale, intensiva, contadini che

per secoli erano dediti a un’agricoltura di sussistenza, capace

tuttavia di fornire cibo a sufficienza per la comunità; e le stesse

popolazioni, migrare verso le bidonville, perché la modernità

agricola produce/va in abbondanza per l’esportazione, ma

insufficiente per sfamare i residenti.

L’elenco dei fatti e misfatti è lungo. Oggi lo spauracchio, di volta in

volta, viene denominato: Trattato di Maastricht, debito pubblico,

bilancio di stabilità. Il panorama dei sacrifici imposti, nel presente

quadro economico, difetta di sani principi. Sarebbe oltreché

complesso, piuttosto maldestro addentrarsi nell’esame dei possibili

scenari alternativi, al fine di illustrare quanto è avversa la politica

d’austerità. Le buone regole sono sacrosante. Ma il cittadino

comunque invoca comportamenti, da parte dei leader, conformi alla

diligenza del buon padre di famiglia. Nel marasma della

globalizzazione, con il protrarsi della crisi, avendo noi perso la

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sovranità della moneta, sarebbe almeno sensato mirare

all’autosufficienza alimentare. Una politica attenta, diligente, non

imporrebbe ai governanti di fare quadrato a favore della produzione

agricola del proprio paese?

Questa attenzione ad appannaggio del benessere collettivo, questa

diligenza non è né riscontrabile, né tantomeno percepita.

Ecco perché il disegno europeo, da sogno, si è trasformato in un

incubo.

Fonti:

(1) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-06/unicef-grecia-

439mila-bambini-192328.shtml?uuid=AbZAS9JF

(2) http://blog.ilgiornale.it/foa/2012/06/20/crisi-euro-ecco-a-cosa-

mirano/

(3) http://www.libreidee.org/2012/09/barnard-politica-della-

carenza-dobbiamo-tornare-sudditi/

(4) http://www.asca.it/news-

Spagna__Unicef__oltre_2_2_mln_bambini_vivono_sotto_soglia_poverta_-

1205286-ATT.html (5) http://lospergiuro.blogspot.it/2012/10/semi-proibiti-bruxelles-

vieta-la-nostra.html

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15. Viaggio all’inferno attraverso cinque continenti

“I nemici, ultimamente, appaiono dove nessuno sospettava si na-

scondessero. Le cifre sono confuse, ma secondo alcuni scienziati le

scorregge - e i rutti - delle mucche, che hanno un sistema digestivo

lento e lungo, emettono gas metano che concorre alla formazione di

un 10-15% del totale delle emissioni di gas serra... Quando la natura

assale se stessa è complicato entrare nella disputa.”

Il dibattito sul cambiamento climatico ha preso quota solo recen-

temente. “Un argomento che non esisteva venti, trent’anni fa. Gli

argomenti dominanti cambiano - molto più del clima.”

Ma bisogna riconoscere che la preistoria del cambiamento clima-

tico, per una élite di scienziati, risale indietro di almeno un secolo.

Già nel 1889 un articolo del New York Times riportava: “La nozione

che sia possibile che il clima cambi è diventata un’idea moderna.”

90 anni più tardi (1979), l’Accademia Nazionale delle Scienze degli

USA convinceva il presidente americano Carter a riunire in una

commissione un gruppo di scienziati per studiare il fenomeno. Altre

date significative: nel 1997 ci fu la riunione di Kyoto, il cui protocollo

entrò in vigore solo nel 2005; la conferenza di Copenaghen avvenne

nel 2009.

Martìn Caparròs ha affrontato un viaggio nell’inferno della povertà,

attraverso cinque continenti, in paesi dove la sopravvivenza per

fame è ogni giorno posta a rischio. Ha viaggiato, a spese del Fondo

delle Nazioni Unite per la Popolazione, per “scovare storie di giovani

colpiti dalla più grande ipotetica minaccia contro l’ecosistema: ... il

riscaldamento globale.” Ne è nata una riflessione che va ben al di là

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delle singole tappe; testimonianze e racconti oltrepassano la soglia

della cronaca; il tema di fondo, il cambiamento climatico, si trova ad

essere sorprendentemente rivoltato e analizzato sotto la lente della

storia e della giustizia sociale. La narrazione di Contra el cambio (un

iperviaggio nell’apocalisse climatica) mette a nudo la visione di

dominio del potere politico-economico, che con i suoi tentacoli

raggiunge, fino a condizionarla, la vita dei reietti sparsi nelle

periferie del mondo.

“I paesi ricchi hanno già fatto la loro conquista della natura, il loro

sviluppo sporco. E il mondo è messo com’è a causa loro, ma ora si

dedicano a dettare norme ai paesi più poveri...”

Caparròs racconta i fatti con una prosa asciutta, come lo sono i corpi

di coloro che si nutrono con meno, come quegli uomini e quelle

donne (Messias, Mariama, Youness, Marjorie, Kilom) che ha

incontrato. Il tono è quello sprezzante di chi coglie con le braghe

calate gli incantatori di favole ecololò. Dalle pennellate - a tinte forti

ed essenziali al quadro complessivo - trae spunto per ragionare, per

farci ragionare, a cominciare dall’analisi delle parole che mutano di

significato e di casacca sotto lo sguardo disattento della storia, per

poi discendere nella cornice mondiale degli accadimenti politici, dei

commerci che si alimentano di luoghi comuni e spacciano

beneficenza - per trarne sempre il massimo profitto.

La parola cambiamento è una bandiera che sintetizza tutti i

movimenti dei popoli in lotta. L’idea che il mondo debba cambiare.

La speranza che ha sventolato sulle barricate dal 1789 in poi. “Per

due secoli, fu una parola della sinistra: l’effetto desiderato delle

rivoluzioni... Com’è stato possibile che la parola cambiamento ci sia

scappata così silenziosamente... e sia andata a rifugiarsi nella casa di

quelli che avevano sempre voluto distruggerla?... Il cambio di bar-

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ricata della parola cambiamento è una delle maggiori perdite di

capitale simbolico che ha subìto la sinistra in tutta la sua storia.”

La prima tappa è in Amazzonia, a Manaus, dove si sta adottando un

processo produttivo che copia la natura. “Pensare sistemi produttivi

sostenibili significa,” spiega Carlos Miller, uno dei fondatori

dell’istituto di permacultura, “osservare la natura per imparare da

lei come produrre alimenti senza distruggerla.” In precedenza,

Carlos aveva lavorato in fondazioni ambientaliste, dove per preser-

vare certe aree, queste venivano svuotate delle persone che ci vive-

vano al fine di creare dei parchi naturali. “L’idea è quella di creare

una nuova equazione di ricchezza” che abbia la finalità di preservare

la regione, e soprattutto diventare fonte di sostentamento per la

gente che vi abita.

Altra tappa, la Nigeria. “Per quel poco che l’ho conosciuta, non mi

attrae particolarmente, ma l’idea che siano i migliori truffatori del

mondo in questo momento scatena in me una sorte di rispetto nei

loro confronti: che un paese sia riconosciuto per la sua capacità

d’ingannare, di finzione produttiva, non è cosa da poco in mezzo a

così tanta concorrenza.”

Niger, Rabat, Sidney, Manila, Isola Zaragoza, Majuro, Hawaii, New

Orleans sono le stazioni di una via crucis (o gironi infernali?) che

portano a cogliere differenze sociali, antichi costumi e incombenti

pericoli ambientali.

E ha incontrato tanta gente. Molti si chiamano Mohammed, Abdul,

Fatima, racconta e subito aggiunge: originale la storia dei nomi. Il

grande trionfo delle religioni è stato quello di assegnarci i nomi,

trasformandoci in surrogati - degradati - dei suoi inventori.

Una importante innovazione per rapporto a qualche decina d’anni

fa è la diffusione del microcredito in alcune aree dell’Africa e

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dell’Asia. “Non realmente assistenzialista, anche se più o meno è un

modo di integrare un pochino i poveri nella circolazione econo-

mica.”

Per il viaggiatore occidentale il contrasto è netto. Nei paesi poveri

gli animali, che servono per il sostentamento, vivono nella promi-

scuità delle case e delle strade. Nelle società opulente “le pietanze e

le loro morti vengono tenuti separati.” La contiguità è permessa

solo agli animali domestici.

La natura, vissuta come accessorio, atto a consolare divertire e

intrattenere.

Poi ci sono culture dove l’uomo paga i genitori della donna per

averla in moglie, e viceversa: genitori che pagano il giovane per

liberarsi della figlia. “Criteri diversi di dare valore a donne e uomini.”

Le ONG, assieme agli aiuti umanitari, diffondono ciascuna il loro

verbo; “si spendono per le buone cause, ma è sicuro che ci sono

alcune pressioni affinché i poveri che ricevono l’aiuto adottino

anche la logica.” Se gli alberi vengono abbattuti, c’è rischio di

desertificazione; la siccità è dovuta al cambiamento climatico; i

raccolti sono scarsi per il riscaldamento atmosferico. Secondo

logica, c’è una risposta a tutto. “E’ bello avere delle spiegazioni,

indicare colpevoli: il governo, il destino, un dio torrido... E allora,

chiedono, si chiedono, cosa possiamo fare al riguardo? Quello che

facciamo con tutti gli altri riguardi: un cazzo.”

Si assiste a una presa di coscienza da parte di grandi istituzioni e

potentati. Ma le multinazionali che si sono convertite alla

responsabilità sociale, non spendono che “briciole” nei loro

progetti.

Siamo alla “versione contemporanea delle madame di carità.”

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Responsabilità sociale delle aziende e correttezza politica hanno il

medesimo orientamento: mantenimento dello status quo.

“E’ un modo a buon mercato” per deviare i sospetti. Poiché le

società, con la pancia piena, mostrano di avvertire maggiore sensibi-

lità verso il degrado ambientale, ecco le aziende spendere “una

fortuna per mostrarsi più ecololò di chiunque altro.” Ciò dovrebbe

far venire a molti ecologisti qualche sospetto.

Non sono dimostrati, non è dimostrabile che alcuni fenomeni siano

dovuti agli effetti del riscaldamento globale. E “tutti sappiamo che la

storia della scienza è fatta anche di storie nelle quali la maggioranza

non aveva ragione.”

Ci sono coloro che affermano che il tempo è sempre stato pazzo,

“che cambiamento climatico è una specie di ridondanza perché è

proprio del clima cambiare sempre.” Ci sono quelli che sono andati

a studiare il passato, e “citano il periodo che ora è chiamato periodo

caldo medievale, tra il IX e il XV secolo” ... A cui seguì la piccola era

glaciale che congelò i fiumi fino al XVIII secolo.

Verso la fine del secolo XV (la scoperta dell’America data 1492) c’era

chi si lamentava - lasciandone traccia scritta - che le pecore della

Castilla stavano distruggendo foreste e boschi. Fosse dipeso da

costoro, “Colombo sarebbe dovuto rimanere a curare il suo giardino

di rape. E alla NASA dovrebbero costruire mulini a vento.”

Gli uomini hanno sempre vissuto nella minaccia di una imminente

fine del mondo, decisa da una qualche divinità. Finché nel XX secolo

si affacciò l’apocalisse nucleare, per mano umana. “Il disastro

climatico è il secondo momento” della serie.

Rapporto 2009 del Global Humanitarian Forum: “In molte aree, la

base dell’evidenza scientifica non è ancora sufficiente per arrivare a

conclusioni definitive...”

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Naturalmente non è escluso che siccità e carestia, a Dalweye come

altrove, abbiano una correlazione con il cambiamento climatico. E’

probabile, ma non sicuro. “Invece, mi sembra sicuro che abbia a che

vedere col sistema di ripartizione della ricchezza.”

Centinaia di milioni di persone che soffrono la fame sono dannose

per l’ambiente, perché la gente che vuole mangiare subito manca

della visione del futuro. “Se la ricchezza fosse più suddivisa, il

mondo affogherebbe nei propri rifiuti: per la conservazione ecolo-

gica non c’è nulla di più necessario dei poveri.”

Indagini su una delle prove genetiche arrivano a dimostrare che ci fu

un periodo della nostra storia millenaria in cui sulla Terra vivevano

non più di quattro o cinquemila essere umani. Un evento più

avverso del solito avrebbe potuto estinguerli. Siamo figli della

casualità, e siamo “alla ricerca della sicurezza inverosimile.”

Tuttavia per quanti hanno l’acqua alla gola, è difficile non avvertire

la minaccia incombente dello scioglimento dei ghiacci, il pericolo di

restare sommersi. Le isole chiamate SIDS - small island developing

states, o stati sottosviluppati delle piccole isole - (le Marshall,

Mauritius, Seychelles...) sembrano realmente in balia dell’anda-

mento climatico.

Ma non mancano coloro che sospettano che le motivazioni a monte

siano sempre le stesse; altrimenti diventa difficile spiegare “così

tanta copertura dalla stampa, tanti fondi e tanta attenzione tra i

potenti,” senza ammettere che ciò rappresenta il modo di

giustificare e un cambiamento nel sistema energetico (carbone, gas,

petrolio) e la volontà di modificare un certo equilibrio geopolitico.

Opposti schieramenti, per diminuire le emissioni di anidride carbo-

nica, insistono su approcci contrapposti.

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Gli uni ripropongono la costruzione di nuove centrali nucleari, quelli

contrari vedono, tra l’altro, l’implicazione politica di una gestione

centralizzata, dove un solo uomo al comando dirige e dà elettricità a

milioni di persone. Per produrre l’energia eolica e solare invece,

occorrono sistemi decentralizzati, di cui ciascuno può gestire

funzionamento e consumo.

Al Gore merita almeno una considerazione e un paragrafo a sé. Alla

vigilia della prima conferenza di Kyoto, (Al Gore era vicepresidente

degli Stati Uniti), due senatori presentarono una risoluzione che fu

votata all’unanimità dove si stabiliva che “il governo avrebbe dovuto

rifiutare qualsiasi riduzione delle proprie emissioni se i paesi in via di

sviluppo” non avessero fatto altrettanto. E così fu.

Gli USA sono il paese che ha la più grande percentuale procapite di

emissione di anidride carbonica al mondo.

E “Al Gore è il più grande lobbista della lotta contro il cambiamento

climatico” nel mondo.

Quando si presentò alle elezioni presidenziali, nel 2000, aveva un

patrimonio dichiarato di circa 2 milioni di dollari. 10 anni di campa-

gne contro il cambiamento climatico hanno fatto lievitare detto

patrimonio a quota 100 milioni.

Il sospetto di voler prolungare l’egemonia occidentale limitando lo

sviluppo di Cina, India, Brasile, Russia e altri paesi (che premono per

uscire dal sottosviluppo) permane. Comunque la si gira, l’idea di

fondo persiste: quella di uno sviluppo con tempi diversi. I fatti

dicono che il sottosviluppo di alcuni è il risultato dell’alto tenore di

vita degli altri.

Per dirla tutta e con le parole dell’autore: “quanta gente morirà

ancora per fame... nei prossimi 30, 40 anni, prima che il cambia-

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mento climatico inizi ad avere - se li avrà - effetti devastanti?” Da

sempre ci sono popolazioni che vivono in misera, che muoiono di

stenti, uccisi dalla fame. La fame sa dove e come agire, conclude

Caparròs, il cambiamento climatico invece è ottuso, cieco, perfino

più democratico: corre verso tutti. E inoltre, è evidente, potrebbe

perfino falciare la civiltà che conosciamo.

Ma non per questo ce la sentiamo di condannare, i dannati della

Terra, a continuare a vivere nella loro abituale condizione di po-

vertà.

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Un antico motto popolare recita: il pesce puzza dalla testa.

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3° parte

Il labirinto della ragione

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“Poiché le risposte all’ambiente possono scaturire da stimoli dei

quali non siamo del tutto coscienti, è plausibile dubitare di quanto

ognuno sia padrone del proprio comportamento.”

“Il pensiero è come un velo davanti agli occhi, che conferisce alle

cose il proprio colore e la propria idea di realtà.” (Osho)

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16. All’origine dell’homo sapiens sapiens moderno

“E’ possibile che talune tra le trasmissioni decisamente brutte siano

tali di proposito, per dare maggiore forza di penetrazione agli inserti

pubblicitari?” Questo interrogativo se lo pose Vance Packard, autore

de “I persuasori occulti”, due generazioni fa quando la tv era

soltanto ai primi passi.

Gli anni cinquanta negli USA segnarono un enorme balzo in avanti

nella ricerca di spregiudicate ‘tecniche di ammansimento’ dell’homo

sapiens sapiens moderno. E’ risaputo che “gli spettatori ridono più

volentieri e si divertono di più se sentono ridere altre persone ... “

Vennero così programmate “le risate in scatola”; ebbero inizio

quelle trasmissioni dove un pubblico inesistente sottolinea ogni

battuta inesistente con fragorose risate. Ergo la creazione di

congegni idonei a produrre diversi tipi di risate e applausi a

ripetizione. Ma c’era e c’è ben poco da stare allegri.

L’avvento della televisione ha portato una ventata di modernità nel

mondo, compreso in quei paesi rimasti ai margini delle rotte del

progresso. Si apprende ora che mentre in occidente, per le donne

dai 12 ai 25 anni, la principale causa di mortalità sono i disturbi

dell’alimentazione, nelle isole Fiji tali malattie erano sconosciute.

Fino al proliferare, su edifici e tetti delle case sparse nell’arcipelago,

di antenne tv e parabole satellitari.

Con esse si è diffuso un modello che ha travolto e travolge valori e

tradizioni, colture, modalità di vivere e culture, persino l’arte più

antica e collaudata dell’edificare. E che progresso! In nome di quel

dio denaro - the money-god - inviso a Orwell e condannato dagli

asceti, novelli barbari senza scrupoli hanno costruito in zone

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soggette a terremoti (vedi Aquila e dintorni), peggio di quanto non

si sia fatto nei tempi bui del basso medio evo.

Ma la televisione è soltanto uno dei media a tenere soggiogato

l’uomo moderno. Se la musica risulta gradevole all’orecchio umano,

perché non sperimentarne l’impatto negli allevamenti intensivi di

bestiame? E viceversa: dalla produzione avicola la stessa si diffonde

in palestre, supermercati, in luoghi frequentati dal pubblico, un po’

ovunque. Deve piacere. Per un identico fine, si sono dispiegati tutti i

mezzi.

L’avvio del nuovo processo, dopo la seconda guerra mondiale.

Smaltita l’euforia della vittoria, gli industriali statunitensi si

ritrovarono i magazzini pieni. Le ricerche di mercato indicavano che

i consumatori, apparentemente, erano disponibili ad accogliere i

nuovi prodotti, però le attese, testimoniate dai dati statistici in uso,

si traducevano solo parzialmente in acquisti. (Era ancora

incombente il ricordo della lunga depressione che, a partire dalla

fine degli anni venti, era durata praticamente fino all’inizio della

guerra.) I pubblicitari, alle prese con l’imprevedibilità del

consumatore, si rivolsero agli studiosi del comportamento umano

per ricavare effetti più attendibili. La grande offensiva portò schiere

di sociologi, psicologi, psichiatri e specialisti strizzacervelli, a

mettersi al servizio delle maggiori società e a scandagliare,

analizzare, catalogare gruppi di persone di ogni fascia sociale,

appartenenti a tutte le età. Di ogni individuo vennero esaminati gli

aspetti razionali, ma soprattutto inclinazioni ansie e debolezze, non

più per correggerne gli influssi deleteri per il raggiungimento di un

sano equilibrio mentale, bensì per influenzarne gusti e scelte

impulsive, per indurlo a comprare, per farne di lui un essere mai

appagato, sempre teso a competere, a superare se stesso, a scalare

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più in alto nella sfera sociale, totalmente in balia delle mode.

Il consumo in sé diventa occasione di svago, meta di ritrovo, causa

prima e (nello stesso tempo) terapia dello stress, invaghimento della

bellezza, promessa di eterna gioventù, sogno dell’impossibile, valore

essenziale e volano dell’economia, religione. E per favorire il

consumo, in ogni occasione pubblica è celebrato il rito della fiducia

nel miraggio di un benessere collettivo.

L’essere umano di un tempo, cresciuto e disciplinato da principi

morali, comuni alla famiglia e all’ambiente di appartenenza, si trova

a impersonare un soggetto nuovo, “etero-diretto ... guidato in

prevalenza nel suo comportamento, dal desiderio di adeguarsi a ciò

che da lui si aspetta il gruppo sociale che egli frequenta

abitualmente”, dominato dal bisogno di uniformarsi. Nel luogo di

lavoro e nella comunità prevale sull’individuo lo spirito di squadra,

un distillato da somministrare ad ogni livello. Chiunque si dissocia

dal modello prevalente, si sente inadeguato, resta emarginato, non

ha prospettive.

La politica presiede sull’intero sistema. Il candidato politico,

confezionato come un prodotto, è venduto seguendo le stesse

tecniche di persuasione. Anzi, è proprio al livello della politica che si

intensificano le iniezioni di fiducia all’elettorato al costo di non

raccontare le cose come stanno, essendo prioritaria la necessità di

mantenere inalterata la spinta all’espansione. Il messaggio politico

punta a conquistare il voto/consenso di ogni singolo elettore. E un

accorto dosaggio porta a rivolgersi a ogni livello razionale ed

emotivo in cui si manifesta il consenso stesso.

Molti predicatori religiosi che hanno fatto ricorso alle nuove

tecniche della persuasione hanno visto moltiplicati seguaci ed

entrate. Anche se bisogna riconoscere che la pratica religiosa si è

sempre avvalsa della prerogativa di rivolgersi direttamente alle

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coscienze e a quella sfera intima in cui le scelte di vita sono

determinate da motivazioni oscure fideistiche e irrazionali.

I pericoli paventati mezzo secolo fa, della diffusione di una forma

mentis piegata alla cultura dominante (del mondo affaristico e del

potere consolidato) sono realtà. E l’ondata mediatica è andata via

via ingigantendosi alimentata dal diffondersi di mezzi di

comunicazione più sofisticati e pervasivi. Internet, carte di credito,

cellulari registrano ogni intercalare della nostra quotidianità, spiano

i nostri momenti di incertezza, e in tempo reale sollecitano il nostro

istinto.

Osservare la crisi (economica e non solo) in cui siamo immersi

soltanto nell’ottica della eccessiva speculazione finanziaria è

alquanto miope.

Ecco un libro scritto e pubblicato verso la fine degli anni ’50 che

rimane di sorprendente attualità e che ha anticipato l’assurdità di

uno sviluppo drogato contrario ai valori della civiltà.

Nello sfondo di uno schermo spento, va ripensato l’intero modello

di vita.

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17. Il lato oscuro delle notizie

Chi dei comuni mortali non si è cimentato almeno una volta nel dare

la vernice a una porta, a una persiana o a una finestra? Ci sono

essenzialmente due approcci. Lasciare le cose lì dove sono e trovare

la maniera migliore di girarci intorno. Oppure sistemarle sopra un

cavalletto, verniciare prima un lato, poi voltarle e provvedere

all’altro lato. Comunque si proceda, restano indietro dei punti

d’appoggio (o le parti poco accessibili) che ad esempio vengono

tralasciati nell’eseguire la prima mano, che hanno bisogno di

successivi ritocchi, che semplicemente non saranno mai perfetti.

Si può immaginare il passaggio, dai dati informativi al confezio-

namento delle notizie, né più né meno come un processo di

trasformazione molto simile a quello descritto. La materia da grezza

prende un rivestimento; se ne valorizzano alcuni aspetti per

rapporto ad altri lasciando in ombra quello che conviene meno (o

non conviene affatto), a seconda dei punti di vista - sempre di parte.

Ogni elemento dell’informazione è classificabile, sotto molteplici

aspetti (commerciale, politico, religioso, di appartenenza di classe,

per puro gusto personale e così via); quello che appare significativo

ad alcuni, per altri non lo è. Fare una cernita, dare o meno rilevanza

a qualcosa, rappresenta già una scelta discriminatoria.

Aldo Giannuli invita a sfogliare il giornale, nel prendere il cappuccino

al bar, guardandosi intorno. Come leggerebbe le medesime notizie

che abbiamo davanti, ci si chiede, l’analista esperto di intelligence

mentre sorseggia il caffè del mattino, magari seduto di lato al nostro

fianco?

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Nel libro Come funzionano i servizi segreti annovera il controllo, la

gestione e la diffusione delle notizie alla stregua di una guerra non

convenzionale.

Sta al lettore ‘alfabetizzato’, cioè dotato di lucidità mentale e più

che attento, districarsi nel ginepraio dei media, assumersi il compito

di imparare a leggere tra le righe, porsi degli interrogativi, scoprire

ritocchi e lati oscuri delle notizie. La sfida è la ricerca della sostanza

sotto la patina di vernice. Un po’ come l’esperto d’arte che sa

riconoscere stile e pennellate d’autore.

Ma se la similitudine con la verniciatura regge, fino a un certo

punto, per il 70-75 per cento delle notizie, è drammaticamente

arduo padroneggiare la quota restante (nel senso di poter presume-

re che il livello di conoscenza acquisibile ci metta in grado di capire

tutti i termini del problema), per essere in condizione di valutare, sin

dalle prime schermaglie, la reale posta in gioco.

I servizi segreti non si limitano a raccogliere e ad analizzare ogni

informazione, a catalogarle e interpretarle. Una parte rilevante della

loro attività è quella di anticipare, di contrastare e quindi di diffon-

dere note informative. A parte i casi istituzionali, che vanno dal

fronte di guerra ai sequestri di persona, agli atti di pirateria ecc.,

non è infrequente che il giornalista sia anche agente dei servizi,

oppure che ha attinto - a sua insaputa, chissà? - delle informazioni

da qualcuno che è a contatto con gli stessi. Secondo l’autore “non è

azzardato stimare che un buon terzo delle notizie di maggiore rilievo

politico, economico o militare hanno questa origine o ne sono

contaminate.”

Con buona pace delle anime candide che vorrebbero che gli addetti

all’informazione non fossero schierati, che le notizie riflettessero la

nuda e cruda realtà, che il tiramolla rimanesse circoscritto al mondo

dei fumetti. Così pure è da confinare allo stato onirico l’auspicio che

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i servizi siano fedelmente al servizio delle istituzioni democratiche,

che non tentino di interferire nel confronto politico, che i loro

resoconti non siano reticenti ma improntati alla lealtà.

Giannuli riporta che nella sua attività di ricerca, per conto

dell’autorità giudiziaria, ha avuto modo di confrontare il materiale

passato al ministro competente con quello che invece non gli era

stato inviato. “Il più delle volte, la parte più succosa era la seconda.”

L’informazione è il veicolo principale che porta alla formazione del

consenso. Nella prima guerra mondiale, che fu soprattutto la prima

‘guerra totale’ della storia, la propaganda “divenne un nodo

strategico... La Russia si ritirò dalla guerra a seguito della

Rivoluzione di ottobre; la Germania si piegò, senza aver perso una

sola battaglia, perché crollò il fronte interno.”

Una delle più importanti tappe del Novecento è stato l’approfon-

dimento della conoscenza nel campo della psicologia. Le tecniche di

‘contrasto informativo’ hanno attinto a piene mani da queste

ricerche affinando le proprie armi fino a raggiungere risultati

agghiaccianti.

Ivan Pavlov e Gustave Le Bon hanno fatto studi e condotto ricerche

che sono all’origine delle pratiche di manipolazione informativa. Le

grandi adunate, l’uso ossessivo dei simboli, la propaganda pervasiva

su qualsiasi mezzo di comunicazione ne sono il conseguente

sviluppo. Tuttavia non si pensi soltanto alla propaganda sotto i

regimi dittatoriali.

Le subdole conclusioni raggiunte da Vance Packard, autore de I

persuasori occulti sono da prendere in considerazione in eguale

misura.

Quindi da un lato il potere politico è interessato all’utilizzo della

propaganda che è diventata una componente fondamentale del

condizionamento della gente, dall’altro le grandi corporazioni

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mettono in campo mezzi ragguardevoli finalizzati a raggiungere i

loro obiettivi. Il 20-25 per cento dei bilanci delle aziende di grandi

dimensioni sono spesi in pubblicità commerciale; le multinazionali

sono in grado di condizionare gli Stati sovrani.

La piramide sociale, osservata sotto l’ottica della conoscenza

interpretativa della complessità che ci circonda, può essere

disegnata attraverso l’approccio alle fonti d’informazione, la

capacità di elaborare dati e notizie limitatamente alla propria

competenza professionale, la possibilità di acquisire informazioni

approfondite. In cima si colloca un gruppo ristretto di persone

dotate di potere e di mezzi adeguati (politici, finanzieri, alti dirigenti,

direttori di giornali e tv). La punta estrema di questo gruppo è

costituita dai servizi di informazione e sicurezza.

Di fronte alla possibilità di intercettare qualsiasi telefonata o e-mail -

il caso Echelon ne è un esempio - gli spazi della società libera

vengono ad essere più che mai ristretti. Ogni informazione diventa

così merce, moneta di scambio e di ricatto. Pertanto l’affermazione,

quanto mai forte, che i servizi segreti sono una specie di

associazione a delinquere autorizzata, non stupisce affatto. Né

stupisce scoprire pratiche di depistaggi giudiziari (in Italia

tristemente noti), di disinformazione (Iraq e il possesso di armi di

distruzione di massa). I ricorrenti casi di influenza, ingerenza,

lobbying sono diventati pratica quotidiana.

Dalla rincorsa scientifica e tecnologica allo scontro sui diritti delle

donne di religione islamica, passando attraverso il mantenimento di

una posizione egemone della propria lingua, tutto confluisce in uno

scenario di competizione cognitiva che mira al dominio. Attirare i

migliori specialisti, formare nuove leve di giovani, procurare

finanziamenti alla ricerca, assicurarsi il controllo delle reti

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distributive, sono altrettanti fronti di una guerra culturale in pieno

svolgimento.

I nuovi terreni di scontro, tra guerra economica, terrorismo,

pirateria e i postumi dei guasti causati dal turbo capitalismo, vedono

l’ascesa dell’intelligence privata e dei nuovi mercenari (contractor).

In tale scenario diventa determinante il controllo dell’informazione

e dei canali di diffusione, per salvaguardare un livello certo di libertà

democratica. Non solo apparente, ma reale. “L’informazione è il

sistema nervoso centrale di una società.”

Per l’osservatore attento non è così astruso individuare il bubbone

che corrode la vita pubblica.

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18. Una visione distaccata e fuori dal tempo

Nell’India delle mille contraddizioni, dove coesistono ricchezze e

sacche di povertà estreme, dove l’anelito verso la spiritualità

assume forme per noi persino stravaganti e la ricerca matematica è

all’avanguardia, l’equazione corrente attesta che lo sviluppo

informatico sta allo stadio più evoluto del mondo mistico, come

Lakshmi Mittal (magnate dell’acciaio) sta a Osho (Maestro di verità

dalla mente illuminata).

In India, agli inizi, Osho fu accolto come maestro e guru, ma poiché

non era persona malleabile, né collocabile in un qualsiasi ambito

circoscritto, hanno poi tentato di emarginarlo; hanno quindi colla-

borato con gli USA al fine di “zittirlo,” per infine riconoscerlo come

una figura eccezionale.

Negli anni ’80 nella zona desertica dell’Oregon, Stati Uniti, ha creato

una Comune; ha subìto un arresto, seguito da “una farsa legale e

un’azione omicida,” i cui dettagli sono stati descritti in Operazione

Socrate.

Le oche selvatiche volano sul lago.

Il lago, naturalmente, le riflette (Haiku Zen)

Tra un millennio o giù di lì, quando gli archeologi s’imbatteranno in

ciò che resta del mondo attuale, cercheranno d’interpretare il

nostro genere di vita. E tenteranno di coniugare - della civiltà estinta

a cavallo del XX e XXI sec. - residui tossici, in parte ancora attivi, resti

di costruzioni e macchinari imponenti, assieme a reperti più minuti

che forse avranno lasciato testimonianza di sé grazie al verificarsi di

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condizioni straordinarie quali fossilizzazione, freddo glaciale o altri

eventi eccezionali.

A modo suo Osho, (il Maestro che fondava il suo profondo senso

critico sul rifiuto di qualsiasi valore trasmesso dalla società nel suo

insieme, fosse di natura culturale o religiosa, tramandato dalla

tradizione o adottato nella contemporaneità), insegna ad affrontare

la vita con uguale distacco e discernimento.

Senza alcun timore reverenziale verso le gerarchie di ogni risma, con

atteggiamento agnostico, per fare emergere la nostra individualità

repressa.

Il libro che porta il suo nome, Osho, Lo sguardo fuori dagli schemi

(Bompiani), è la raccolta di alcuni suoi discorsi, pronunciati perché

diventino la base della nostra meditazione.

Alle donne non è permesso studiare il sanscrito; d’altronde la

medesima cosa è preclusa a una larga parte della società indiana. I

brahmani non volevano neppure pubblicare i loro libri sacri, pur di

conservare il monopolio su questi testi.

La Bibbia, la Torah, i Veda (i libri sacri dei cristiani, degli ebrei, degli

hindu) sono stati scritti, trasmessi da una generazione all’altra e

inculcati alle nuove generazioni per impedire all’individuo di

mettersi sul cammino della verità. ”E la verità possiede una

caratteristica importantissima: finché non la scopri in prima

persona, per te non potrà mai essere davvero una verità.”

Così come le leggi della fisica valgono dappertutto allo stesso modo,

non può esistere un dio cristiano, un dio ebreo, un dio hindu. Le

religioni, tutte, non sono mai state capaci di accettare i limiti della

propria conoscenza di fronte ai fenomeni naturali; sono state

sempre così “arroganti” da credere di poter spiegare tutto e da

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volere trasmettere “conoscenze fasulle” alle genti, trasformando “il

mondo intero in un manicomio.”

Le religioni orientali, induismo, giainismo e buddhismo, insegnano

che le cattive azioni compiute nelle vite precedenti sono causa

dell’infelicità nella vita successiva. Una spiegazione che si presenta,

perlomeno in apparenza, più ragionevole di quella cristiana secondo

la quale il peccato originale di Adamo ha condannato non solo

l’intera umanità all’espiazione, ma ha anche determinato la discesa

sulla terra del figlio di dio e la sua crocifissione. Insomma sarebbero

seimila anni che il peccato originale mantiene la sua carica

radioattiva.

Buddha e Mahavira, con l’insegnamento della pratica della non-

violenza, “sono responsabili di 25 secoli di schiavitù dell’India.”

Mentre Gandhi con il suo esempio ha insegnato “alla gente a essere

violenta contro se stessa.”

Osho, al contrario, non ha professato la filosofia della nonviolenza; il

suo modello di vita si identifica nella riverenza verso la vita. E quindi

rispetto tanto per la vita altrui quanto per quella propria. Perché

rispettare, amare gli altri, e infierire contro se stessi?

Qualsiasi uomo privo di spiccata intelligenza, ma forte di carattere,

può diventare davvero pericoloso per sé e per gli altri, perché la sua

determinazione può condurlo in un vicolo cieco. Vengono talvolta

citate vite esemplari di santi che si percuotevano ogni giorno, finché

il sangue usciva a fiotti.

“Il giainismo è l’unica religione che permette a un monaco... di

digiunare fino alla morte. Non lo chiamano suicidio... La parola

santhara indica l’abbandono del desiderio di vivere, andare oltre il

desiderio di vivere.”

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La naturopatia, una pratica Yoga, ha escogitato un modo per pulire

l’intestino, quello d’ingoiare una strisciolina di stoffa lunga 10

metri... Io, racconta Osho, impedivo a mia zia di fare questo

trattamento, ma quando me ne sono andato, è stata libera di

ripulire se stessa, ed è morta.

Gandhi, seguace della naturopatia, era solito farsi degli impacchi di

fango, dei clisteri, ed era dedito all’osservanza “del mangiare questo

e del non mangiare quest’altro...”

Che senso ha la rinuncia? Come si può rinunciare a qualcosa, come il

cibo o il sesso, se non con la repressione? “Se metti insieme tutte le

cose condannate da tutte le religioni del mondo, ti renderai conto

che hanno condannato l’intero genere umano... In verità continue-

rai a essere attaccato a tutte quelle cose, soltanto che avverrà in

modo distorto.”

E’ importante capire a fondo il fenomeno repressivo, che altro non è

se non “il meccanismo di asservimento dell’uomo.” Infatti, aggiunge

Osho, non esistono religioni che siano d’accordo su qualcosa, salvo

che sulla repressione, poiché ciò consente loro di ridurre l’umanità

in uno stato di soggezione psicologica e spirituale.

La dipendenza della maggior parte delle persone, da alcune

categorie particolari del genere umano, è sorprendente. Politici,

preti e pandit hanno sempre agito in combutta mettendo la

religione al servizio delle istituzioni. Quanti un tempo si rivolgevano

al sacerdote, ora - se sono ricche e raffinate - vanno dallo specialista

di turno (psicanalista, personal trainer o dal farmacista), “ma si

tratta sempre della stessa gente.”

Cosa avevano in comune Socrate, Al Hillaj Mansur e Gesù da

suscitare l’ostilità di molti dei loro contemporanei?

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Erano degli illuminati, dicevano cose che “disturbavano” il sonno

delle autorità, invitavano i seguaci a seguire percorsi alternativi.

La Comune aiuta l’individuo a renderlo consapevole di essere

assolutamente solo. Quando uno è membro di una associazione

come il Rotary club, il Lions club, o frequenti questo o quel tempio,

coltivi l’illusione di appartenenza. Obiettivo della Comune è quello

di spazzare via queste funzioni illusorie. E’ sempre possibile incon-

trarsi, frequentare altri, ma in fondo si continua a rimanere soli.

Pertanto è fondamentale trovare l’equilibrio con noi stessi.

La conoscenza acquisita a volte può essere molto ingannevole; le

religioni indottrinano la gente per renderla erudita, dovrebbero

invece “aiutarla a esplorare, a mettersi alla ricerca.” Ma come fare

un proprio percorso interiore, quando tutte le religioni si affannano

a portare il bambino - subito! - alla fonte battesimale, alla circonci-

sione, o a qualche cerimonia hindu?

“Il pensiero è come un velo davanti agli occhi, che conferisce alle

cose il proprio colore e la propria idea di realtà.” Soltanto attraverso

la meditazione l’individuo arriva a liberarsi di tutte le sovrastrutture

che gli hanno imposto.

Pablo Picasso diceva di aver impiegato quarant’anni della sua vita

per superare quello che gli avevano insegnato da giovane. Ad un

uomo che lo accusava di dipingere come un bambino di cinque anni

il pittore rispose: "Magari potessi!"

“La comunicazione avviene attraverso le parole, la comunione

attraverso il silenzio.”

Liberati dal sapere dottrinale e conquisterai l’armonia.

Aumentando il numero degli illuminati, con l’elevarsi del livello

dell’energia meditativa, molte cose cambieranno.

La confusione regna sovrana in molte menti appartenenti a tutti gli

strati sociali; le popolazioni restano schiave di assurde credenze,

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legate a rituali inibitori e propiziatori. La semplice idea della

creazione, afferma Osho, ci trasforma in qualcosa di arbitrario, nel

frutto del capriccio divino. Ma dopo che Nietzsche ha decretato la

morte di Dio, l’uomo è ritornato libero. Sempre che lo voglia!

Invece succede che l’uomo è arrivato sulla luna, ma delle autorità

hindu, di pari grado del papa cattolico, lo negano perché sarebbe

contrario a quanto è riportato nelle loro scritture. Un monaco

giainista ha raccolto donazioni per aprire un laboratorio e scoprire

prove scientifiche che smentiscano l’accaduto.

“Al centro di tutto c’è sempre questa finzione di dio e intorno a

quella vengono create tutte le altre illusioni: il paradiso e l’inferno, il

peccato e la punizione.” Questa mastodontica “messinscena da

circo” continua a perpetrare lo sfruttamento delle masse ad opera

degli “astuti sacerdoti di qualunque religione!”

Attraverso decine di secoli le religioni non hanno dato all’umanità

“nemmeno la millesima parte” di ciò che ha scoperto la scienza in

soli 300 anni. E la scienza fonda la sua autorevolezza nel dubbio.

Secondo i dettami delle chiese non “ti è permesso pensare,” perché

pensare ti porterebbe fuori strada. Devi invece avere fede, coltivare

la fede, recitare il mantra, le giaculatorie che accrescono la fede,

che equivale a commettere il suicidio della propria intelligenza.

E ricorda, insiste Osho, la mia verità non potrà mai diventare la tua

verità, perché non c’è modo di trasferirla da una persona all’altra.

Solo se coltivi una visione distaccata e fuori dal tempo diventi un

uomo libero.

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19. Una mente libera in un mondo controverso

(o un suo derivato)

David Icke è un personaggio controverso, noto per le sue congetture

su chi controlla l'umanità. Molte figure di primo piano della politica

e dello spettacolo sono additati da lui come mandatari di azioni

atroci.

Ecco delineate missione e finalità del suo libro io sono Me Stesso, io

sono Libero: una guida verso la libertà per la massa dei servi della

gleba che nella modernità sono teleguidati come un popolo di

robot.

Il germe dei preconcetti si annida nell’animo umano come un virus

influenzale, rinnovandosi ad ogni stagione. Mentre noi ignari

diffondiamo il contagio alla stregua di tanti portatori sani, esso

sprigiona i suoi effetti perversi, tanto nei confronti delle persone

quanto verso le cose. E ci condiziona nell’agire.

(Una libreria con una impostazione tematica di tipo esoterico, dei

libri raffiguranti soggetti in estasi, hanno il potere di attrarre o di

tenere a distanza il lettore a seconda degli interessi di quest’ultimo.

E delle tendenze in voga, sull’onda lunga dei preconcetti.

Fosse dipeso esclusivamente da me, intendo dire: senza un con-

corso esterno, non sarei neppure entrato in quella libreria, né avrei

mai acquistato il libro in questione. O forse ci sarei entrato e avrei

soltanto leggiucchiato qualche passaggio, poi l’avrei riposto sullo

scaffale e sarei passato a tutt’altro genere. Invece, nel discorrere

con amici della società moderna etero-diretta, questi me lo hanno

additato tra la letteratura che tratta l’argomento dell’essere umano

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soggetto a condizionamento. Superato quindi anche il preconcetto

visivo della copertina, dove l’autore si esibisce seminudo a braccia

aperte come un semidio, sono passato alla verifica.)

Siamo come la pecorella smarrita del Signore? Oltre il recinto il

gregge è attorniato da lupi? Ogni buon pastore invocando l’Essere

Supremo infonde il sacro timore di Dio. E i cani sono sempre al

servizio del padrone, il quale provvede ai mastini, fedeli servitori, e

alle sue pecore, mungendole e tosandole come si addice al loro

stato. L’immagine di un Dio che, di volta in volta, tuona ordini agli

ebrei del vecchio testamento, abbandona suo figlio sulla croce,

spinge cristiani e maomettani alla contesa palmo a palmo dei luoghi

santi, è una immagine bislacca che di divino ha ben poco.

Almeno secondo il giudizio di una mente razionale.

Altrettanto patetico appare il tentativo di avvicinamento fra

eminenti religiosi che scoprono un’intesa, nella modernità dei

principi universali, solo nel puntare il dito contro l’ateo, poiché così

facendo, avvalorano l’ipotesi di un Dio imperscrutabile quanto

volubile. Tuttavia neanche ciò costituisce una novità.

E’ la profondità del male a colpire a segno e a far germogliare la

catarsi. Lo sconcerto, figlio della curiosità, è appena dietro l’angolo.

Una élite di uomini senza scrupoli cerca d’imporre la dittatura

globale servendosi di ogni mezzo. Nel costatare com’è distribuita la

ricchezza e nel prendere atto del dominio culturale in essere, si fa

davvero poca fatica a crederci. A spanne tutti abbiamo una chiara

visione del mondo a forma di piramide: ogni istituzione è governata

da una minoranza prevaricatrice sulla maggioranza. Diventa invece

raccapricciante la scoperta di programmi di manipolazione mentale

- nei meandri del potere democratico! L’esercizio del dominio attra-

verso riti satanici, violenze, stupri, delitti programmati - “la

mentalità nazista non morì col 1945.”

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L’autore, oltre a rimandare a una sua precedente opera “… and the

truth shall set you free”, riporta con dovizia di particolari parte del

racconto di Cathleen O’Brien, nel suo libro Trance-Formation of

America. Del programma di violenze da lei subìte allo scopo di

tenerla soggiogata in una dimensione di sindrome dissociativa. Il

cervello umano mette in atto meccanismi di difesa che inducono a

rimuovere gli episodi traumatici specie dell’infanzia. La CIA ha

attuato esperimenti sui disturbi della personalità multipla finalizzati

a plasmare soggetti dalla personalità programmata, da utilizzare

come automi. E ha perpetrato delitti orrendi. Tra i nomi di spicco

che abusarono di Cathleen, figurano per citarne alcuni Dick Cheney,

George Bush padre e Bill Clinton. Un “gioco” consisteva nel liberare

in una foresta, di solito in qualche area segreta militare, “gli schiavi

del governo come Cathy, altri bambini e adulti manipolati,

prospettando terribili conseguenze nel momento in cui verranno

catturati.” Quando venivano presi, erano brutalmente violentati, a

volte uccisi. Certi passaggi del racconto lasciano alquanto increduli.

Ma la cosa più sconcertante, che lascia senza fiato, è scoprire che

sia il libro di Cathleen O’Brien sia quello di David Icke non sono stati

oggetto di azioni giudiziarie per diffamazione, di iniziative di

sequestro per vie legali o altro.(*) Anzi, di entrambi i libri sono state

stampate numerose edizioni.

(Rapido zoom sulla realtà italiana - sui libri che narrano gli esordi

dell’impero mediatico del politico europeo più discusso - la

situazione è poi tanto dissimile?).

Autunno del ’95: alla BBC un programma scientifico “il mondo di

domani” prospetta la possibilità di trasferire su microchip la cartella

clinica di ogni paziente. Che succederà, si domanda l’autore, quando

il computer dirà no alla vostra carta di credito o al vostro microchip?

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Saremo totalmente in balia dell’élite dominante e dell’occhio che

tutto vede.

Da una carrellata di considerazioni sul ruolo intimidatorio della

religione attraverso i secoli bui, emerge la lotta di potere a tutto

campo. Tra le società segrete quella dei Templari è stata la più

temibile. Pur dichiarando di essere un’organizzazione cristiana, fu

combattuta dai re e dal papato. Finché non “riemersero a livello

pubblico come massoneria.” Clamoroso apprendere che in uno degli

atenei più elitari del mondo (Università di Yale negli USA) si

compiano “riti d’iniziazione piuttosto oscuri e bizzarri.” Che al suo

interno esista (o sia esistita) una “Società segreta del Teschio e delle

Ossa.” Che tra gli studenti selezionati siano stati iniziati futuri

uomini di stato. Che il gruppo Bilderberg, l’istituto reale di affari

internazionali, la commissione trilaterale, il consiglio delle relazioni

con l’estero, i Rockefeller, i Rotschild siano tutti in combutta.

A queste istituzioni (con lettere capitali) e famiglie (blasonate)

sarebbe riconducibile l’impero del male che tutto vede e controlla.

La millenaria dottrina esoterica, bollata per secoli come la disciplina

dell’occulto e quindi opera del diavolo, ha in sé i germogli della

redenzione. Di per sé non è né buona né cattiva, ma può essere

utile a liberare le coscienze. La visione panteistica dell’universo

tutto abbraccia, dalle esperienze di morte apparente, alla reincarna-

zione, alla concezione di un Dio la cui essenza è “un enorme campo

di energia/coscienza.”

La scienza, quando si ferma a contemplare solo quello che è

spiegabile o ripetibile, e mette all’indice tutto il resto, fa opera di

disinformazione.

Come ignorare alcune pratiche antiche di guarigione, le energie che

i sensitivi riescono a cogliere, la disposizione dei “menhir in

corrispondenza di faglie della superficie terrestre che producono

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effetti magnetici? … Noi siamo la somma totale delle nostre

esperienze eterne, non esiste una cosa come la morte … Siamo ciò

che immaginiamo di essere … le decisioni che prendiamo e le vite

che scegliamo prima dell’incarnazione … ciò vale per i genitori che

scegliamo … per il colore della pelle …”

Difficile credere ad ognuna di queste affermazione, ma non è meglio

che affidarsi alle dottrine dominanti.

L’esortazione di fondo è di diffidare delle illusioni di libertà. Il

sistema dei partiti avrebbe creato il teatrino dei finti opposti che si

alternano al gioco del comando. Il mondo finanziario non sarebbe

da meno. I mezzi di comunicazione - le forze di polizia della zona

senza grattacapi - hanno la funzione d’ipnotizzare le coscienze, a

mezzo del “cancro mentale dei giochi a premi e delle telenovele.”

Solo se l’individuo libera il proprio genio, potrà affrancarsi dalla

prigione delle paure e delle coercizioni. Sgomberato il campo dagli

assolutismi, tutto diventa alla sua portata, perfino poter camminare

scalzo sui carboni ardenti.

La negazione invece stimola sempre una ossessione riguardo a ciò

che si nega. Ecco spiegato perché “i moralisti sono ossessionati

dall’attività sessuale degli altri.”

Piuttosto che sottomettersi a una autorità costituita, perché non

accondiscendere all’idea che la nostra psiche, al momento della

‘morte’ si stacca dai ‘detriti emozionali’ per confluire in una

dimensione più ampia? Lasciando da parte ogni risentimento,

l’amore cosmico diventa un progetto di vita. Il mio, confessa

l’autore è quello di sperimentare, imparare, comunicare.

Tutto sommato l’opera mira ad abbattere gli steccati delle verità

assolute. Pur offrendo una serie di definizioni e di costruzioni visive,

per adepti, tende a non inculcare un vero credo. Semmai ritorna a

sottolineare, ad ogni passaggio, quanto sia importante non

prendere per buona ogni cosa, qualunque sia la fonte. E “ciò vale

anche per quello che leggi in questo libro.”

Più candidamente, prova a lasciati andare sulle famose note dei

Beatles, “let it be.”

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David Icke, una mente libera in un mondo controverso o un derivato

dei torbidi scenari di cui è fatto il mondo?

Note:

(*) Altri lettori e/o fonti sono giunti alle medesime conclusioni:

http://www.genitoricattolici.org/trance.htm

http://rema2007.wordpress.com/2008/05/08/trance-formation-of-

america/ http://www.amazon.com/Trance-Formation-America-Cathy-

OBrien/

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20. Indietro tutta!

Il bailamme multimediale è sotto l’aspetto formativo un valzer che

ci riporta indietro alla cultura orale. Lo dicono senza mezzi termini -

anzi lo scrivono in un italiano forbito - i cattedratici Mario Groppo e

Maria Clara Locatelli nel libro Mente e cultura. (Assolutamente da

non confondere l’arte del parlare con quella dello scrivere, poiché il

libro verte quasi interamente sul sapere che si estrinseca diversa-

mente a seconda delle modalità e delle tecniche di comunicazione

in uso nelle varie epoche storiche).

Oggi siamo immersi in un mondo di immagini e di sonorità che ci

accompagnano - se non proprio ci assillano - per l’intera giornata. I

bambini sostano lunghe ore davanti alla tv; i ragazzi vanno in giro o

studiano con l’iPod al seguito e auricolari incollati all’orecchio; lo

schermo tv, oltre ad avere ormai del tutto sostituito il focolare

domestico, è diventato ospite fisso durante i pasti in famiglia.

“Questo strapotere del suono e dell’immagine è una dimensione

relativamente recente e comunque del tutto nuova rispetto a quella

della parola stampata.” La parola scritta si offre silenziosa, impegna

il lettore a seguire con attenzione i passaggi del testo, si propone

nella linearità di uno sviluppo evolutivo che si snoda di pagina in

pagina, da un capitolo all’altro. Al contrario, mentre si ascolta la

radio, non di rado anche quando la tv è accesa, vengono svolte

mansioni domestiche o lavorative, attività che sembrano conciliarsi

tra loro.

Le nuove tecnologie audiovisive, pervasive, coinvolgono i nostri

sensi più di quanto sia mai avvenuto in epoche passate.

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Dalla notte dei tempi fino alla comparsa della stampa, l’apprendi-

mento di natura orale richiedeva completa attenzione e piena

partecipazione emotiva. L’approdo alla carta stampata mise in

primo piano la vista; tuttavia restava immutata la necessità, da

parte del lettore, di immersione totale nello strumento ‘libro’ (e in

quello che stava compiendo: la lettura).

Il Medioevo ha segnato il passaggio all’era moderna, attraverso la

scoperta di nuove tecnologie, nella misurazione del tempo e nella

meccanica. La meridiana, con l’ora solare, aiutava l’uomo antico a

suddividere il ritmo della giornata. Ma erano le stagioni, l’avvicen-

darsi del giorno e della notte, a determinare il decorso naturale del

tempo. Poi sopraggiunsero gli orologi a peso a scandire le ore e i

minuti, indipendentemente da fattori esterni. I mulini ad acqua e a

vento, utilizzando le forze della natura, aumentarono le capacità

dell’uomo nella lavorazione dei metalli e nello sfruttamento di

nuove tecnologie meccaniche, creando così le premesse per l’inizio

dell’industrializzazione moderna. Queste due invenzione dell’età

medievale hanno dettato un cambiamento radicale.

Erano un suggerimento a studiare il processo naturale delle cose.

“E’ inutile dire che in questo processo anche l’alfabeto e la stampa

hanno esercitato un peso notevole.” Valorizzando la capacità anali-

tica dell’occhio, si è affermata l’abitudine a perseguire la continuità

e la linearità. “Questa modalità visiva… ha altresì sviluppato il biso-

gno di acuta osservazione della scienza moderna e l’abitudine al

distacco tipica dell’uomo occidentale alfabetizzato.”

Le moderne tecnologie di comunicazione consentono di trasmettere

l’informazione attraverso una miriade di canali e di formati. Cosa

che da un lato determina un coinvolgimento allargato dei sensi nella

fase di percezione e di apprendimento, dall’altro viene ad alterare i

ritmi e i tempi della cultura tradizionale.

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“Il valore effettivo dell’informazione, l’oggettività tanto difesa dalla

cultura tipografica, ha scarsa rilevanza quando la notizia attrae

l’attenzione e aumenta l’audience.” L’adeguamento al mezzo e al

flusso ininterrotto di notizie segue in parallelo. Non stupisce il fatto

che si sia arrivati alla dimensione dello “spettacolo senza fine.”

L’informazione tocca la base emozionale dell’individuo; la perce-

zione è quella di vivere sempre al presente. L’appiattimento tempo-

rale e la contrazione dello spazio, assicurando un impatto dal forte

potere ipnotico, garantiscono soddisfazione immediata.

Tutto è accessibile a tutti, non c’è necessità di rammentare, catalo-

gare, apprendere. “La struttura non gerarchica dell’informazione,

fondata su una risposta emozionale diretta, annulla dunque il senso

del futuro considerato come continuità, come meta da raggiungere

attraverso una preparazione.”

Nel ‘700 le conquiste tecnologiche e filosofiche hanno dato una

spinta al genere umano tale da dischiudere orizzonti infiniti. La

visione illuminista confidava nella capacità dell’uomo di essere

artefice di un progresso pressoché illimitato. Sulla scia di queste

ambizioni, la ricerca scientifica ha raggiunto traguardi di “difficile

gestione,” fino a scomporre l’atomo e a giungere alla manipolazione

genetica. La portata di queste scoperte, dagli esiti incontrollabili,

mette in gioco il problema della sopravvivenza del nostro ambiente

così come lo conosciamo. “L’ideale di una crescita infinita, deve

dunque essere assolutamente sostituito da una ponderata gestione

delle risorse disponibili e da una presa di coscienza della loro

limitatezza.”

L’era del computer, paradossalmente, si delinea come uno sparti-

acque nel ridefinire il principio alla base dello sviluppo stesso. Alla

soglia del terzo millennio comincia a imporsi una visione condivisa,

l’idea di perseguire uno sviluppo sostenibile. Il foglio elettronico è

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uno spazio operativo delimitato, benché sia in grado di svolgere in

pochi secondi una quantità di calcoli matematici che terrebbero

occupata la mente umana per parecchio tempo. Si presenta così un

quadro articolato e complesso che ribalta l’utopia di progresso

illimitato.

Accantonata l’illusione moderna di crescita ad oltranza, si presenta

la prospettiva di sviluppare pragmaticamente attività complesse in

uno scenario combinatorio smisuratamente vasto. “Secondo il

modello della complessità esiste infatti una circolarità costruttiva

tra osservatore e osservato, cioè i confini e le gerarchie del sapere

non sono stabiliti una volta per tutte, ma dipendono da chi osserva

o dal contesto dell’osservazione.”

L’era Gutenberg ha determinato la diffusione della carta stampata.

Con il libro è andato affermandosi un modello lineare di organizzare

la conoscenza; l’ordine, la logicità e la compiutezza hanno rappre-

sentato una linea guida per il pensiero. “La forma del libro è dunque

diventata la forma del sapere.”

La galassia Marconi ha sovvertito la centralità del rigore formativo

rappresentato dal libro. La parola scritta offre la possibilità di riflet-

tere, di soppesare i contenuti. La tv sollecita il coinvolgimento emo-

tivo totale da parte dell’utente che così si trova a smarrirsi nelle

dinamiche di un linguaggio breve, parcellizzato in sequenze ben

strutturate e in forma di slogan. “Il codice audiovisivo, se da un lato

favorisce l’integrazione tra l’aspetto visivo e quello linguistico,

dall’altro abitua all’uso di un riferimento verbale vago e indeter-

minato, che rappresenta una forma di espressione inadeguata

quando il contesto di comunicazione è esclusivamente verbale”.

(Maragliano)

I costi elevati del sistema dei nuovi media e l’esigenza di proporre

notizie in continuazione, pur di catturare l’attenzione del pubblico,

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condiziona la qualità delle trasmissioni, obbligando anche a trasmet-

tere ciò che è orrendo o irrilevante. I tempi sono contingentati, il

rapido susseguirsi di immagini e di “notizie in pillole” fa sì che subito

tutto viene soppiantato e dimenticato.

Un po’ come “avviene davanti a uno specchio che ci fa vedere cosa

indossiamo oggi, ma non ci dice nulla di ieri.” (Postman)

Sotto questo aspetto, sembriamo essere ripiombati nell’antichità.

Quando era prevalente la cultura orale e la memoria dell’uomo era

la fonte della conoscenza, le esperienze del passato erano necessa-

riamente mediate dal presente.

“Non c’è dubbio: noi oggi siamo i protagonisti involontari di una

oralità di ritorno!”

In extremis, come si addice a una prosa ragionata, gli autori

abbozzano la prospettiva di “un uomo completo,” capace cioè di

raggiungere livelli cognitivi e linguistici più elevati, in equilibrio tra

l’emotività corporea e l’astrazione della mente.

Senza troppo convincere.

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21. Il cervello del giocoliere

Nel gioco delle tre carte - indovina dove si cela la regina di cuori?

(ma ci sono altre varianti) - la massima attenzione è focalizzata sulla

carta designata. Invece il giocoliere, che tiene sospese in aria sei,

otto, dieci palline in una vorticosa girandola, è concentrato soltanto

nella destrezza e rapidità dei movimenti. A nessuna delle palline

riserva un qualsivoglia interesse. Anche se le palline fossero tra loro

tutte diverse, e magari qualcuna di esse fosse dotata di proprietà

magiche, durante l’esibizione nessuna potrebbe godere di uno

sguardo particolare.

Ecco, attenzioni (curiosità, riguardi, affetti) necessitano di limitazioni

di campo e tempi di dedizione appropriati.

L’intelligenza è una facoltà della mente che si espande e consolida

attraverso le medesime modalità; presuppone una fruizione lenta,

centellinata, in cui l’attenzione è la chiave essenziale che facilita

l’assorbimento di elementi aggiuntivi, e rende più radicati fatti o

nozioni già acquisiti.

Nicholas Carr, nel suo libro - Internet ci rende stupidi? Come la rete

sta cambiando il nostro cervello, - paragona la capacità di crescita

dell’intelletto a una vasca da bagno che viene riempita, a poco a

poco, da un ditale. Ossia l’intelligenza, la memoria di lungo termine,

è alimentata dalla cosiddetta memoria di lavoro. La quale ha sede

nella parte di cervello frontale che si cimenta con la quotidianità.

Essendo essa immersa nel carosello visivo degli stimoli correnti, è

continuamente distratta poiché rappresenta, tra l’altro, il target

preferito del bailamme seduttivo e roboante dei media. Secondo

recenti studi l’essere connessi provoca una perdita delle capacità

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riflessive che alla lunga trasformano in profondità il cervello stesso.

Ed è proprio questo il messaggio di fondo del libro di Carr, anche se

la materia è tuttora oggetto di indagine.

Internet è diventato un canale multiuso tramite il quale passano

gran parte delle informazioni che, attraverso la vista e l’udito,

arrivano alla scatola cranica dei suoi adepti. Ciò provoca vantaggi e

svantaggi: sta cambiando qualcosa su come assimiliamo la cono-

scenza? Una enorme quantità di dati è a nostra disposizione pronta

per essere consultata.

Perché allora arrovellarsi il cervello per imparare? se pescare for-

mule e nozioni già pronte all’uso sta diventando sempre più facile, e

la conoscenza è a portata di mouse. Un gioco appunto.

Nella Rete si trova ormai di tutto, dalle modalità per confezionare

una bomba alle rivelazioni dei traguardi raggiunti per affrontare una

malattia incurabile. Perché abbonarsi a un quotidiano o passare

dall’edicola quando c’è una enormità di notizie in internet? E infatti i

giornali registrano un continuo calo di vendite. Inoltre anche i libri

sono disponibili in formato digitale. Cambiando il medium di comu-

nicazione della conoscenza, può cambiare il modo di essere, e di

pensare?

Ogni invenzione, ogni conquista tecnologica determina anche un

passaggio evolutivo per effetto del quale le capacità manuali e intel-

lettuali vengono alterate, dove accanto agli innegabili progressi ci

sono delle perdite. In agricoltura l’introduzione del trattore (e dei

mezzi meccanici in generale) ha eliminato pressoché del tutto la

fatica. Ed è un bene! Ma come effetto collaterale, il fisico dell’agri-

coltore di oggi non è paragonabile a quello del contadino di un

secolo fa.

Nel libro Gli strumenti del comunicare, Marshall McLuhan con

visione lungimirante - siamo nel 1964! - avverte: “La nostra reazione

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convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il

modo in cui vengono usati è l’opaca posizione dell’idiota

tecnologico... Il contenuto di un medium è paragonabile a un suc-

coso pezzo di carne con il quale un ladro cerchi di distrarre il cane

da guardia dello spirito.”

Come funziona dunque la nostra mente? “Ogni volta che compiamo

un’azione o sperimentiamo una sensazione, fisica o mentale, un

insieme di neuroni nel nostro cervello si attiva. Se sono vicini questi

neuroni di uniscono attraverso lo scambio di neurotrasmettitori

sinaptici come l’aminoacido glutammato.” Quanto più spesso si

ripetono le stesse esperienze, tanto più questi legami si rafforzano e

si moltiplicano creando le cosiddette sinapsi. Così avvengono dei

cambiamenti fisiologici, come il rilascio di una concentrazione più

alta di neurotrasmettitori, la generazione di altri neuroni o la

crescita di altre terminazioni sinaptiche.

Trova così conferma la regola di Hebb: Le cellule che si attivano

insieme si legano tra loro.

Si ha evidenza del processo di trasformazione mentale di una

persona cieca mentre impara a leggere il Braille. Il Braille di fatto

rappresenta una tecnologia; è un mezzo d’informazione.

I cinesi sviluppano circuiti mentali per la lettura che sono diversi da

quelli che si trovano nelle persone che impiegano un alfabeto

fonetico. Nell’antichità gli amanuensi scrivevano le parole senza

spazi tra loro. Ciò rifletteva il fatto che fosse predominante la

cultura orale, il parlato. “La storia del linguaggio è anche la storia

[evolutiva] della mente” che conobbe una metamorfosi a seguito

dell’invenzione della stampa.

Verso il 1445 un orafo tedesco, Johannes Gutenberg, lasciò

Strasburgo e aprì bottega a Mainz dove si mise al lavoro per

realizzare le sue idee. Elisabeth Eisenstein, in La rivoluzione

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inavvertita - la stampa come fattore di mutamento - scrive che ciò

fu ‘un evento notevole da suggerire l’intervento soprannaturale.’ Si

narra che il banchiere Johann Fust, che finanziò Gutenberg, quando

si recò a Parigi stracarico di libri stampati, cosa mai vista prima, fu

costretto ad abbandonare in tutta fretta la città scortato dai

poliziotti, perché venne sospettato di stregoneria.

Mente e cultura, con l’avvento della carta stampata, hanno intera-

gito e avuto uno sviluppo cosiddetto lineare. Il libro, con un inizio

uno svolgimento e una conclusione logica, ha rappresentato un

canovaccio naturale che ha modellato il pensiero e la mente secon-

do le medesime modalità. Da questa interazione ed evoluzione

mentale sono scaturite numerose scoperte scientifiche.

Arriviamo all’oggi e troviamo il sapere riproposto in forma digitale.

“Un libro stampato è un oggetto finito.” Invece il mercato digitale è

“un processo sempre in corso.” Diminuiscono sia “la pressione per

raggiungere risultati perfetti” sia “il rigore artistico imposto da

quella pressione.”

Secondo lo scrittore Steven Johnson l’approdo del libro al regno

digitale comporta cambiamenti in profondità più di quanto possa

apparire a prima vista. ‘Temo, aggiunge, che una delle grandi gioie

della lettura dei libri - l’immersione totale in un altro mondo - sarà

compromessa.’ D’ora in poi ci accingeremo a leggiucchiare i libri

come spesso facciamo con riviste e quotidiani, sfogliando qua e là.

Non è il solo che la pensa così. Lo storico David Bell rivela: ‘Comincio

a leggere [sulla Rete] ma trovo difficile concentrarmi.’ Insomma,

racconta di mettersi prima a cercare una parola chiave, poi di fare

un salto su Wikipidia, dare uno sguardo alla posta elettronica,

scorrere il testo in avanti e indietro. Una settimana dopo aver finito

di leggere il libro trova difficile ricordare quello che ha letto.

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La lettura di un ipertesto, con tutti i link che rimandano altrove,

equivale alla consultazione di un libro mentre si fanno le parole

crociate è il lapidario commento di un altro esperto del Web.

“Decine di studi di psicologi, neurobiologici, educatori e progettisti

Web arrivano alla stessa conclusione: quando andiamo online

entriamo in un ambiente che favorisce la lettura rapida, il pensiero

distratto e affrettato, e l’apprendimento superficiale.” Questa è la

perentoria affermazione dell’autore. Naturalmente, aggiunge, è

possibile anche pensare in modo approfondito mentre si naviga in

Rete, proprio come si può pensare in modo superficiale leggendo un

libro, ma non è il tipo di pensiero che la tecnologia incoraggia e

premia. In sostanza è come se la rete catturasse l’attenzione solo

per disperderla.

Quando l’acqua tracima il ditale, cioè quando sovraccarichiamo la

capacità della mente di archiviare ed elaborare dati, non siamo più

in grado di assorbire altro, di creare collegamenti con ciò che

abbiamo appreso nella nostra memoria a lungo termine. “Al rag-

giungimento dei limiti della nostra memoria di lavoro diventa

difficile distinguere le informazioni rilevanti da quelle che non lo

sono, il segnale dal rumore. Diventiamo stolidi consumatori di dati.”

Nel mondo digitale di Google e affini non c’è spazio né per la lettura

approfondita né per la contemplazione generica, priva di un preciso

scopo. “L’ambiguità non è l’apertura a una intuizione possibile, ma

un malfunzionamento che va aggiustato. Il cervello umano è soltan-

to un computer obsoleto che ha bisogno di un processore più velo-

ce, di un disco fisso più grande e di migliori algoritmi per governare

il corso dei suoi pensieri.”

In sintesi la funzione cognitiva del cervello si attiva attraverso

l’attenzione cosciente. La quale “parte dai lobi frontali della cortec-

cia cerebrale... porta i neuroni della corteccia a spedire segnali ai

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neuroni del mesencefalo che producono il potente neurotrasmet-

titore dopamina... Una volta che la dopamina è incanalata nelle

sinapsi dell’ippocampo, essa avvia il processo di consolidamento

della memoria esplicita, probabilmente attivando i geni che

stimolano la sintesi di nuove proteine.” (L’avverbio sta a indicare

quanto il cammino esplorativo sia ancora lungo!).

La baraonda dei messaggi che arrivano dalla Rete non soltanto

affaticano la nostra memoria di lavoro, ma rendono difficile per i

lobi frontali concentrare l’attenzione su un unico oggetto. “Il

processo di consolidamento del ricordo non può neanche partire.

Più usiamo il Web, più alleniamo il cervello a essere distratto... Ciò

spiega perché molti di noi trovano difficile concentrarsi anche

quando sono lontani dal computer. I nostri cervelli diventano abili a

dimenticare.” Si determina quindi un effetto boomerang.

Per il fabbro il martello è parte della sua mano. Quando il soldato

scruta attraverso il cannocchiale del suo fucile, il cervello si adatta e

diventa un prolungamento del mirino dello stesso fucile. Insomma

(Culkin) noi programmiamo i nostri computer dopo di ché essi ci

programmano.

Poiché l’esistenza stessa del libro di cui stiamo trattando sembra

essere in contraddizione con l’approfondita conoscenza del mondo

digitale che l’autore mostra di possedere, Nicholas Carr ammette di

aver dovuto interrompere drasticamente le sue frequentazioni in

Rete, di aver addirittura cambiato casa spostandosi da un quartiere

di Boston “altamente connesso” alle montagne del Colorado, dove

ogni connessione era piuttosto precaria. (E’ stato dimostrato che la

permanenza in ambienti rurali, a contatto con la natura, rafforza

nelle persone la capacità di concentrazione e la memoria stessa.)

Solo quando il libro stava per essere terminato ha ceduto di nuovo

alla tentazione di tenere aperta la mail tutto il tempo, ha riattivato

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lettori RSS e applicazioni varie. A riprova di quanto, l’intrusione della

tecnologia nella nostra vita quotidiana, abbia ormai un effetto

dopante.

E la babele della cultura digitale è appena cominciata.

“I didn't really say everything I said.” (Yogi Berra)

“Non posso aver detto quello che ho detto.”

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22. Il pensiero vegetale

“Qualunque differenza che produce una differenza,” così il filosofo-

antropologo Gregory Bateson (1979) definisce l’informazione. Se ne

può desumere che la conoscenza, che non si traduce in un

comportamento coerente (o quantomeno non diventa un arnese

della propria cassetta degli attrezzi), sia equivalente a un corpo in

stato vegetativo. Sembra troppo forte l’immagine? D’altronde non si

fa riferimento all’amicizia come a un sentimento, per quanto nobile,

che va coltivato; e l’amore, la fede o l’odio?

Il fatto che la mente viaggia più lontano e velocemente del corpo dà

l’illusione che la capacità intellettuale sia più dinamica di quella

fisica o corporale.

Come dire che se le piante svettano verso il cielo, soffrono,

pensano, attivano anche pensieri metafisici.

Secondo recenti ricerche condotte da studiosi di Neurobiologia

Vegetale le piante sembrano possedere una qualche forma di

intelligenza che consente loro non solo di pensare e comunicare,

ma anche di risolvere problemi legati soprattutto alla salvaguardia

del loro territorio e alla loro incolumità. Stefano Mancuso,

professore di fisiologia delle specie arboree all' Università di

Firenze, è responsabile del Laboratorio Internazionale di

Neurobiologia Vegetale (Linv), il primo laboratorio al mondo

specializzato nello studio dell' "intelligenza verde": merito dei

ricercatori del Linv è l’individuazione di una regione dell’apice

radicale, chiamata zona di transizione, che sembra possedere tutti

i requisiti per essere considerata una zona simil-neurale… (*)

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E’ innegabile che l’uomo prima ha fantasticato sul volo degli uccelli,

e dopo aver osservato e studiato, ha progettato come volare.

Eppure la fantasia è un elemento ingannevole dell’attività cerebrale.

Il ragionamento, spaziando in un orizzonte allargato (nella elabora-

zione di immagini e fatti, dati concreti e ipotesi), sembra avere la

funzione del capitano di una nave che segna la rotta del veliero. In

realtà il comportamento, che in qualche modo rappresenta la sintesi

di ogni elucubrazione mentale, è più simile al ‘progredire’ di un

vegetale, (che si muove estendendo le radici nel terreno), che alla

‘libertà di movimento animale’ quale noi ce lo figuriamo.

A lume di naso si assume che l’informazione correttamente diffusa

debba indurre le persone a modificare il comportamento in linea

con ogni nuova conoscenza acquisita. Tuttavia la pura e semplice

conoscenza non sempre si traduce in atteggiamenti coerenti.

Apprendere che il fumo fa male, che l’aids si può evitare, che

allacciare le cinture in auto ci salva la vita, non fa scattare automati-

camente comportamenti idonei.

In presenza di una persona autorevole, in un ambiente licenzioso,

avremo tendenza a lasciar correre (la sigaretta accesa, a non

allacciare le cinture, chiedere lo scontrino fiscale, ecc.). Insomma

propendiamo a uniformarci, in un dato ambiente, alle aspettative

delle persone per noi influenti. Solo quando la maggioranza delle

persone avranno adottato un nuovo orientamento, l’individuo

troverà naturale assumere un proprio atteggiamento fermo in

relazione a quanto ha appreso.

In autostrada, dopo prolungate code a seguito di tamponamenti a

catena, appena superato l’ennesimo ingorgo, gli automobilisti

riprendono a correre e a non rispettare le distanze di sicurezza.

Il deficit più o meno ampio di coerenza (tra conoscenza e comporta-

mento) dipende da una serie di fattori che vanno dalla formazione

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culturale dell’individuo, all’ambiente, oscilla da un momento storico

e politico all’altro.

Il pensiero dominante e il suo rovescio

Ci sono tante modalità di cogliere sia l’informazione sia i messaggi di

qualsiasi natura che ci piovono addosso. Mark Heyer nel suo saggio

su CD ROM scrive:

“Pascolare indica la ben nota attività consistente nel sedersi

davanti al televisore in stato di trance ipnotica … lasciando che le

informazioni … penetrino dentro di noi …

Brucare significa scorrere una vasta mole di informazioni senza un

particolare scopo in mente …

Cacciare significa andare alla ricerca di informazioni specifiche e i

computer sono magnifiche armi da caccia …

I medesimi concetti possono essere traslati nella vita quotidiana, dal

fare la spesa allo svago.

Sugli scaffali dei negozi, sotto la spinta dei gusti che evolvono -

adeguandosi al tamtam commerciale, - il consumatore sta perdendo

il senso delle stagioni e il buonsenso di non disperdere le tradizioni

alimentari.

Il senso del bello è ripetutamente sovvertito - rammentate la Mini

con la coda tagliata? E le giunoniche statue del passato?

Sorvoliamo sulle fogge del vestire: oltre che in perenne competi-

zione con gli uccelli dell’Amazzonia e i pesci dei tropici, il più delle

volte la moda è di scarsissima praticità.

Fino a un paio di decenni or sono ’antifascismo’ era una parola

capace di esorcizzare qualsiasi deviazione.

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Ogni stagione modaiola ha il suo prodotto di culto, un incontrastato

punto di riferimento, un’idea che sovrasta tutte le altre.

Lo stesso dicasi per i luoghi comuni. Provate a mettere in guardia gli

inglesi sulla calamità degli spifferi d’aria. Se siete il solo italiano del

gruppo, vi guarderanno in viso come a un marziano.

Il pensiero dominante parte dalla conoscenza prima, passa poi al

radicamento nella maggioranza che lo adotta. Per fasi successive, si

impongono alla massa determinati modi di vedere e valutare le

cose. A un certo punto l’atteggiamento sociale diventa tale da

mettere in soggezione chiunque tenti di esprimere pareri contrari.

Il pensiero vegetale, speculare a quello dominante, affonda le radici

nel conformismo da un lato, e dall’altro nell’atteggiamento passivo

(o peggio, di complicità e sostegno, attraverso l’ubbidienza alla leg-

ge del branco) nei confronti dell’idea corrente, dei canoni di moda.

Seguendo le digressioni dell’autrice di Comunicazione e persuasione,

Nicoletta Cavazza, il battage, il martellamento esteso di alcune

notizie, influenza:

“la valutazione della loro importanza da parte del pubblico.[…]

L’ipotesi più radicale […] va sotto il nome di ‘cultivation

hypothesis’. […] Nei film e nei serials alcuni temi sono enfatizzati,

in particolare gli episodi di criminalità sono sovrarappresentati; al

contrario, sono sottorappresentate, o per lo meno rappresentate

esclusivamente in determinate situazioni, alcune figure sociali (le

donne, gli anziani, le minoranze etniche e altri gruppi con scarso

potere). Questi contenuti favoriscono il formarsi di ‘risposte

televisive’ negli spettatori assidui …”

Il fenomeno della criminalità è percepito ben oltre i puri dati

statistici. Inoltre se l’accaduto avviene nel quartiere o nelle periferie

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dove abitiamo, l’impatto emotivo assume la dimensione di una vera

emergenza.

L’esercizio di un culto (religioso, settario), lo svolgimento di tornei

sportivi, hanno a monte un rituale consolidato nel tempo che

sfociano a valle in manifestazioni di fervore fideistico e compor-

tamenti che, se non sono mitigati dall’ambiente esterno, si auto-

alimentano nell’euforia, nell’intolleranza e nel tifo, fino ad assumere

connotazioni patologiche.

Come la gramigna, il fanatismo una volta attecchito si diffonde nel

terreno per estensione, invadendo spazi e impoverendo l’habitat

circostante.

Se osserviamo delle mappe geografiche con colorazioni diverse per

costumi, religione e cultura, scopriamo che nel corso dei secoli poco

è cambiato. I popoli migrano da un continente all’altro, ma le perso-

ne mantengono i costumi e le credenze dei loro avi. Le differenze si

misurano per gradi.

Nessun individuo si alza la mattina cristiano (o mussulmano) e va a

letto ateo, o viceversa. Il processo di conversione (o maturazione) da

un ambito all’altro è lungo e accidentato. Non solo perché poggia su

una mole di elementi psicopatologici e/o filosofici da approfondire,

ma soprattutto perché la mente non vola da una dimensione

all’altra. La persona depressa, anoressica, avrà bisogno di un lungo

iter per uscire dalla palude negativa in cui è sprofondata.

Il procedimento di transito da una situazione decisionale a una

comportamentale - in parte cognitivo, in massima parte di natura

espansiva, vegetale - spiega la cura maniacale che il potere esercita

sul palinsesto, nella selezione e amplificazione dei messaggi, nelle

campagne pubblicitarie; dal ricorso all’indottrinamento e alla propa-

ganda di massa.

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Ciò spiega anche perché a scuola non basta insegnare ma occorre

una buona didattica.

E spiega l’approdo a certi localismi che, con sfoggio del verde ad

emblema e alla rozzezza d’ideali che ruotano intorno al più gretto

tornaconto, fondano nella divisione la loro ragione d’essere.

Il pensiero dominante affonda le radici nello stato vegetativo delle

coscienze. L’emulazione, nella rincorsa verso i bestseller e le ten-

denze in voga, genera mode malsane e pingui profitti - a vantaggio

dei furbi.

Dove l’incoerenza nuoce maggiormente

L’individuo si alza, mangia, studia, lavora, dorme. Tra veglia e sonno

vive momenti d’intesa attività cerebrale alternati a momenti

distensivi; la mente elabora in continuità pensieri ritmati dalla

routine e dalle sollecitazioni quotidiane, pensieri che talvolta pos-

sono essere creativi e di evasione; talvolta dentro il cervello di

ognuno, volente o nolente, riecheggiano come un mantra i pensieri

di altri.

Il tifoso che si mette ad aspettare in strada l’arrivo dei ciclisti,

oppure che sale sugli spalti a guardare il Gran Premio di Formula 1,

sa di avere una visione parziale della gara. E sa anche che seduto

comodamente in salotto avrebbe avuto modo di seguire l’intero

percorso, invece sceglie di assaporare il brivido di pochi attimi. Qui

ci sta il tuffo nell’incoerenza, che viene compensata da una intensa

esperienza emotiva.

Il problema nasce quando scocca l’ora delle decisioni importanti,

personali o d’impatto sociale, come l’esercizio del diritto-dovere di

votare e partecipare alla vita pubblica.

Nel comprare casa, focalizzarsi sull’aspetto marginale (colore delle

piastrelle, l’ordine o il disordine) a discapito del quadro comples-

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sivo, può condurre a grossolani errori di valutazione. A volte un

particolare offusca il quadro d’insieme.

E’ nel campo politico e sociale che l’incoerenza manifesta gli effetti

più deleteri; diventa incapace di prevenire il degrado complessivo;

favorisce il malgoverno e la corruzione; condiziona il futuro.

Il pensiero vegetale si muove per vie periferiche, ripete slogan, fa da

cassa di risonanza, diventa portavoce dell’idea egemone e dei luoghi

comuni. Se dal fondo emerge un grido d’allarme isolato, questo

riceve scarsa attenzione; ma se tutti ne parlano, l’assunto è che ci

deve essere un fondamento di verità. Tuttavia la ricerca di una via

personale è poco perseguita. Poco praticato, quel minimo di inda-

gine diretta che consente di prendere decisioni a ragion veduta. Pre-

vale il disinteresse, la rinuncia a ordinare i valori per ordine e grado.

Spesso nell’acquisto l’optional diventa determinante.

Altrettanto avviene nella scelta di un candidato politico dove il

fascino e l’ultima barzelletta prendono il sopravvento sui contenuti.

Anzi, quanti s’indignano/vano perché il sistema di voto ci ha

sollevato persino dell’indecisione di dare o non dare una preferenza

all’interno di uno schieramento. Il cumulo delle cariche, la lottiz-

zazione dei posti sono la diretta conseguenza dell’atteggiamento

critico a 360 gradi, ma supino: impossibile distinguere tra destra e

sinistra; sono tutti uguali; non serve farsi carico di cambiare le cose;

il voto è un inutile rituale, un fastidio.

Che la posta in gioco sia enorme passa in secondo ordine. Quando

tutti gridano, emerge chi grida più forte. Si rinuncia persino a

cogliere il senso delle proporzioni. Conflitto d’interesse, lotta di

liberazione, sterminio, diventano presto concetti logori e vuoti.

Congiuntamente alle capacità dei singoli, i popoli attraversano

momenti di opacità intellettiva quando l’atteggiamento passivo

mette radici profonde, contagia vasti strati della società fino a

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diventare un ginepraio inestricabile. Le buone idee vengono avvilup-

pate in un intrigo selvaggio. Le iniziative lungimiranti, soffocate nel

sottobosco d’interessi particolari, stentano a trovare la luce.

In economia, la moneta cattiva scaccia quella buona.

Nella società, dove ha attecchito il pensiero vegetale, le persone di

valore emigrano.

(*) (http://amicomeopatia.blogspot.com/)

(**) (http://www.indexmundi.com/it/italia/)

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23. Nature, norture

Qual è l’essenza della natura umana, si può parlare di capacità

culturali innate? O per cultura deve intendersi solo la conoscenza

acquisita? Al confronto con altri esseri viventi, cos’è (o cosa contrad-

distingue) l’uomo? L’eredità genetica, le influenze ambientali, la

spinta all’emulazione, quella contraria volta alla diversità; l’imma-

ginario, il pensiero collettivo, la memoria collettiva; figura di rumi-

nante intruppato in un gregge di pecore; leone solitario; the self-

made man, l’io irripetibile.

Il libro La libertà di essere diversi, autore Lamberto Maffei, tratta di

tutto questo e dei traguardi raggiunti dalle nuove discipline che si

cimentano con i segreti della mente, le cosiddette neuroscienze.

Negli anni ’50 alcuni scienziati pubblicarono uno studio, What the

frog’s eye tells the frog’s brain, dove si rivelava che i neuroni visivi

della rana erano sensibili non solo alla luce, ma anche alla forma

dell’oggetto e al movimento. L’occhio della rana è in grado di coglie-

re movimenti impercettibili di insetti che si spostano nel raggio d’a-

zione di uno spazio grande come uno stagno. Altri animali, come

l’aquila, hanno un raggio d’azione ben più ampio; la capacità d’inter-

cettare ed elaborare i segnali visivi è diversa da una specie all’altra.

Galileo Galilei, nell’osservare la superficie lunare interpretò le

macchie scure con l’esistenza di monti e crateri. In disaccordo con

quei contemporanei (tale astronomo inglese Thoms Harriot) che

asserivano che fosse piatta. In altri termini fu come se il cervello di

Galileo, (amico dei pittori dell’epoca e conoscitore della profondità

e del chiaroscuro), avesse suggerito al suo occhio di osservare bene.

“La percezione visiva e... più in generale sensoriale, non è una

trasposizione passiva dell’informazione pervenuta al sensore... la

retina.” In altre parole al nostro cervello non arrivano immagini,

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foto o diapositive, così come vengono impressionate da una foto-

camera. Inoltre “la cultura depositata nella corteccia cerebrale

aumenta i gradi di libertà nell’interpretazione del mondo reale...”

Il cervello è come un personaggio ermetico racchiuso in un castello

dalle robuste pareti, circondato d’acqua (liquido cefalo-rachidiano),

isolato dunque dall’esterno. Gli scienziati, per carpirne i segreti,

usano tutti i trucchi del mestiere: elettroencefalogramma (Eeg),

strumenti di imaging cerebrale, i cosiddetti brain scanner, la riso-

nanza magnetica. Con l’ausilio di analisi computerizzate delle imma-

gini si è arrivato a un “soddisfacente mappaggio delle funzioni cere-

brali in relazione a stimoli esterni o interni dell’individuo.”

Quando vediamo il viso di qualcuno, una casa o soltanto la immagi-

niamo, si nota un’attività accresciuta in una specifica area cerebrale.

Talvolta si presentano soggetti il cui cervello è imperfetto a causa di

traumi o malformazioni. In pazienti epilettici gravi furono divise le

connessioni nervose tra i due emisferi (split brains), allo scopo di

impedire che le scariche di impulsi nervosi, che provocano le crisi, si

irradiassero nella parte sana del cervello. Sulla base della prolungata

osservazione di questi pazienti lo scienziato Michael Gazzanica

giunse alla conclusione che il lobo sinistro (così diviso) fabbrica co-

munque una interpretazione, anche quando il soggetto compie azio-

ni suggerite soltanto al lobo destro.

“Il cervello cerca di trovare logica e significato anche a messaggi

che, senza raggiungere il lobo del linguaggio, arrivano al lobo destro

il quale, da solo, può innescare risposte comportamentali o emo-

tive.” Sempre secondo Gazzanica si nasconderebbe qui (nella fun-

zione di interprete) l’origine dei miti e delle credenze che si incon-

trano nelle collettività.

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Un paziente affetto da sindrome neurologica neglet (eminegligente)

“mostra di ignorare, come se non esistesse, una parte del campo

visivo. Esempio: mangia il cibo di una sola metà del piatto, si rade

una metà del viso.”

Celebre il caso clinico trattato da Oliver Sacks, L’uomo che scambiò

sua moglie per un cappello.

Un angioma cerebrale aveva distrutto gran parte della corteccia

visiva di una signora, che era divenuta cieca a tutti gli effetti. Messa

di fronte a macchie luminose proiettate su di uno schermo,

dichiarava di non vederle, ma dietro insistenza del medico, indicava

in seguito con il dito la posizione delle stesse (in alto, in basso, ecc.).

In pratica era come se vedesse senza esserne cosciente. (Larry

Weiskrantz, Cambridge, Mass.)

Nel caso dell’arto fantasma il paziente avverte dolore all’estremità

di un arto amputato, come se lo avesse ancora.

Pierre Paul Broca (1824-80), dall’osservazione di pazienti afasici che

mostravano - oltre all’alterazione del linguaggio - lesioni del lobo

sinistro, arrivò alla conclusione che “nous parlons avec l’hemisphère

gauche.” Si ritiene che il linguaggio sia una funzione di pertinenza

del lobo sinistro, anche se le funzioni cerebrali non possono essere

considerate del tutto isolate. Ma “esistono segni indiretti che

indicano proprietà peculiari... al lobo sinistro, come il linguaggio, il

ragionamento matematico...”

Una peculiarità del cervello è che esso ha una intensa attività anche

durante il sonno. Anzi, “lo stato cosciente fa aumentare di pochis-

simo, uno scarso 5%, l’attività di base come a indicare che la co-

scienza è un vezzo cerebrale tardivo... anche se paranoicamente

grandiosa per il soggetto.”

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Dal mondo reale riceviamo quindi dati parziali che passiamo a

interpretare. Caso frequente quello di pensare di riconoscere da

lontano qualcuno, tra una folla di persone, per poi scoprire di

essersi sbagliati. Il dramma del “testimone oculare,” vissuto in ogni

aula di tribunale, certifica quanto spesso la memoria umana si

dimostri fallibile; il convincimento “se lo vedessi lo riconoscerei” si

dimostra sovente una illusione che la vittima coltiva salvo poi

naufragare nell’incertezza quando arriva il momento di decidere di

designare un colpevole. (Il famoso “confronto all'americana,” ossia

l'allineamento del sospetto assieme a delle comparse, è una pratica

in via di abolizione in alcuni Stati degli USA, essendosi rilevata errata

in un caso su tre.)

Il peso del cervello, superiore o inferiore alla media (1365 grammi),

assume una rilevanza marginale in fatto di maggiore capacità

cognitive, essendo l’ordine di grandezza del numero di neuroni

stimato in centinaia di miliardi. Le connessioni che i neuroni vanno a

formare (sinapsi), creano cioè dei piccoli centri continuamente attivi

che regolano pensiero e azioni. E’ pressoché impossibile determi-

nare le differenze tra individui, salvo l’insorgere di patologie come il

morbo di Alzheimer.

L’apprendimento per associazione (Pavlov) è una delle principali

strategie che il cervello utilizza per imparare. Ed è anche un ponte

che ci mette in relazione con la realtà del mondo esterno. Ha le sue

“basi nel funzionamento dei neuroni, i quali, inviando impulsi ad

altri neuroni e questi a loro volta ad altri ancora o talvolta arrestan-

done il cammino, portano il messaggio a livello cosciente fino a

neuroni esecutori che provvedono a rispondere agli stimoli.” I

neuroni dopaminergici (reward neurons) manifestano un aumento

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dell’attività in presenza di un premio. E viceversa, in caso di castigo,

segnalano una diminuzione.

Poiché le risposte all’ambiente possono scaturire da stimoli dei quali

non siamo del tutto coscienti, è plausibile dubitare di quanto

ognuno sia padrone del proprio comportamento.

Un luogo comune tende a paragonare le funzioni cerebrali a un

sofisticato computer. “I tempi biologici sono assai diversi da quelli

dei calcolatori, che possono mostrare, in certe funzioni... affinità

con le proprietà del sistema nervoso. L’ordine di grandezza dei

tempi dei calcolatori è il nanosecondo, mentre nel sistema nervoso

l’ordine di grandezza è il millisecondo.” In sintesi il sistema nervoso

è un milione di volte più lento.

Si è detto del cervello in continua attività, una specie di motore che

genera pensieri “casuali” in continuazione, il cosiddetto rumore

cerebrale. “Nel suo caos si affacciano molti pensieri finché uno è

selezionato e portato avanti.” In questo continuo fermento esistono

delle “funzioni ereditate” che sono di capitale importanza per la

sopravvivenza. I riflessi automatici (come ad esempio il riflesso di

ritrazione al dolore) sono complessi circuiti che “l’evoluzione ha

reso indipendenti dalla variabile apprendimento.”

La conoscenza, cioè la capacità di memorizzare e apprendere, è una

funzione essenziale della mente che risponde alle sollecitazioni

dell’ambiente adattandosi ad esso.

Gran parte delle sollecitazioni che riceviamo hanno origine dai

nostri simili. La legge della giungla assume nel contesto civile forme

di lotta e competizione diverse. La persuasione è una sofisticata

prevaricazione che si sostituisce allo scontro fisico. “Lo psicologo

Cialdini si sofferma su diverse tecniche di persuasione di provata

efficacia: reciprocità, coerenza, impegno, riprova sociale o

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imitazione, autorità, simpatia, scarsità o timore di rimanere privi di

qualche cosa.” Queste poggiano su “ragioni emozionali e non pro-

priamente razionali” e sfociano in comportamenti dove l’individuo è

indotto suo malgrado, o all’acquisto di un prodotto, o “ad accettare

e sostenere un’idea o a fargli sborsare denaro.”

Ci sono innumerevoli trucchi in agguato. La parola perché è persua-

siva e sembra equivalere al pianto del bambino o al “cip cip dei

piccoli della tacchina per i quali lo stimolo diventa basilare al fine di

ricevere le cure materne.”

C’è da chiedersi come mai il cervello umano, così evoluto, continua

a servirsi di “risposte automatiche,” istintive. Secondo l’autore sussi-

stono “ragioni di ‘pigrizia’ e di ‘economia cerebrale’ in quanto l’indi-

viduo, in determinate situazioni, usa il cervello al di sotto delle sue

reali possibilità, quasi che fosse un uccello o un rettile.” Insomma

sarebbe in parte una questione di tempo e in parte l’impulso imme-

diato di prendere una decisione rapida, senza coinvolgere quelle

parti del sistema nervoso che generano emozioni. Ossia, “è un po’

come ritornare a risposte ancestrali per la normale sopravvivenza.”

Inoltre ci sono motivazioni di tipo ambientale che sono “frutto di

epifenomeni per i quali i prodotti del cervello si sono come evoluti

indipendentemente con velocità non biologiche molto alte: alludo in

particolare alle tecniche di trasmissione dell’informazione, alla

velocità negli spostamenti da un luogo a un altro e alle situazioni

che ne conseguono.”

Il nuovo ambiente (Internet & dintorni) elabora una enorme quan-

tità di informazioni in maniera continua e ossessiva. Bombardato di

informazioni, il cervello dà “la risposta più probabile che non è

necessariamente quella razionale.” Dalla sovrabbondanza e dalla

confusione nasce dunque il rifugio nella risposta istintiva. “Il cervello

del tacchino, per la semplicità della macchina, risponde agli stimoli

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in maniera automatica, ma anche quello dell’uomo può adottare un

simile funzionamento tacchinesco quando, malgrado la complessità

della sua macchina cerebrale, si trova inadeguato per trattare l’ec-

cesso di informazioni che riceve.”

A far deragliare il funzionamento cerebrale, e di conseguenza i com-

portamenti, contribuiscono anche farmaci e droga. L’uomo biolo-

gicamente tende al piacere. Il quale altro non è che “un prodotto

del cervello,” e del quale se ne “conoscono abbastanza bene i

gruppi di neuroni interessati, le sostanze chimiche e perfino le aree

cerebrali più significativamente connesse con questo tipo di reazioni

cerebrali.” Negli ultimi decenni la ricerca ha sviluppato numerosi

farmaci che “mimano l’azione di trasmettitori attivi a livello

sinaptico.” Non mancano, purtroppo, “farmaci praticamente inutili”

o “addirittura dannosi,” tenuto conto degli effetti benefici e degli

effetti collaterali indesiderati.

La nascita della scrittura risale a 5-4000 anni fa. “Con essa nasce

anche la memoria non cerebrale, ovvero, per dirla con Borges, la

scrittura come protesi della memoria.” Il linguaggio orale ha trovato

nei segni e nelle immagini un supporto tecnico.

Durante il Medioevo e il Rinascimento i predicatori hanno utilizzato

“in maniera sistematica... il potere comunicativo delle immagini.”

Infatti le chiese sono ricche di statue, quadri e affreschi che trattano

i temi del Vecchio e del Nuovo Testamento, “una televisione ante

litteram come lingua per chi non sa leggere, la lingua dei semplici.”

Nell’era digitale i nuovi media non forniscono più soltanto un ausilio

alla nostra conoscenza o “un supporto” alla nostra elaborazione

mentale; sono diventati anche “mezzi di persuasione e strumenti di

potere.” Il mercato, la politica, “entrambe si servono della

televisione in cui la parola ha un ruolo ancillare,” relegando la

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cultura a una funzione subordinata al potere economico e politico

dominante.

“Il neurofisiologo della visione non ne è sorpreso” perché sa che il

cervello dell’uomo, come quello di molti mammiferi, ha nella via

sensoriale visiva una via privilegiata.” Infatti più del 50% della

corteccia cerebrale è al servizio dell’informazione proveniente dagli

occhi. La vista, come l’udito, lavora a distanza, coglie quanto occorre

per la sopravvivenza, tanto per segnalare i pericoli della foresta,

quanto quelli della giungla moderna d’asfalto e cemento.

“Le sensazioni primarie, cioè legate alla riproduzione o alla soprav-

vivenza, non incontrano ostacoli per arrivare al cervello e in molti

casi esercitano il loro effetto a livello sottocorticale.” Il messaggio

visivo è diretto, essenziale e primitivo, come lo sono i compor-

tamenti dell’uomo destinati a soddisfare i bisogni primari, della

fame e della sete, nonché quelli riguardante la spinta biologica

verso la riproduzione e conservazione della specie. E’ per questo

che diventa più efficace rivolgersi ai sensi piuttosto che alla parte

razionale della mente.

“In un mondo di ratti o di cani in cui domina l’olfatto non ci sarebbe

nessuna lotta per impadronirsi dei canali televisivi. La lotta sarebbe

invece furiosa per il dominio di certe molecole odorose, piuttosto

che di altre.”

Il percorso involutivo, da homo sapiens a homo insipiens, passa

attraverso la ricezione passiva dei messaggi, nell’assenza di un

vaglio critico dell’informazione in un processo culturale pilotato

dall’alto. Sono in gioco lo smarrimento dei valori di riferimento, la

perdita del senso delle proporzioni, “il pericolo di essere senza

immunità anticorporali verso i messaggi falsi o manipolati.”

L’assorbimento passivo di quanto è diffuso dai moderni mezzi di

comunicazione “tende ad aumentare pericolosamente il cervello

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collettivo” portandoci a mangiare la stessa minestra “sensoriale e

culturale.”

“La globalizzazione del pensiero diviene una sorta di neuro-potere.”

I potentati finanziari, ci avverte Maffei, coi loro mezzi di comunica-

zione persuasiva, non producono solo merci, ma anche noduli

nervosi, cioè idee che distribuiscono alla massa, ne risulta una rete

nervosa nuova, di dimensione globale, che regola la vita della

società.

Paradossalmente da un lato l’omologazione sembra implicare una

diminuzione del rumore cerebrale, ossia dei pensieri in libertà,

dall’altro induce a suggerire che la follia, dea ispiratrice della

creatività, possa rappresentare l’antidoto più sicuro contro il

pensiero collettivo.

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24. Il labirinto della ragione

Più il mondo scientifico s’inoltra nello studio del cervello umano, più

intricato appare l’intreccio fra mente, comportamento e ambiente.

La complessità è un derivato dello sviluppo. L’avanzata di nuove

tecnologie impone un rapido adeguamento a pressanti esigenze

antiche e moderne. In un tale contesto, stratificato quanto

soverchiante di regole ataviche e comportamentali, periodicamente

spuntano dei seminatori d’incertezze.

Gerd Gigerenzer appartiene a questa schiera di saggi di lungo corso

che con riflessioni puntuali induce alla calma gli spiriti saccenti e sa

ricondurre ogni ragionamento nell’alveo del comune buon senso.

L’adattamento della mente umana all’ambiente è alla base della

relazione tra individuo e società. L’attenta osservazione dei

comportamenti porta a scoperte che qualche volta appaiono in

conflitto con quanto gli educatori ci hanno impartito e gli studiosi

vanno da sempre sostenendo. Pertanto lasciano a bocca aperta

affermazioni come “meno conoscenza è più“ o “dimenticare fa bene

alla mente”, oppure l’imbattersi nella prova documentata che una

conoscenza superficiale (in certi frangenti) può risultare più

redditizia, dagli investimenti azionari a un gioco di quiz a premi - per

quanto ciò possa sembrare sorprendente alla pura logica. Il fatto è

che la nostra intelligenza inconscia ci guida in molte più azioni della

nostra quotidianità di quanto si voglia ammettere. E spesso affidarsi

ad essa è un bene, anche se occorre comprendere e definire le

circostanze in cui è meglio avvalersi del talento innato, frutto del

processo evolutivo dell’essere umano, piuttosto che della laboriosa

valutazione analitica dei pro e dei contro.

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La scuola, la società va ripetendo: “Rifletti… fai scelte ponderate…”

In realtà le svolte più incisive della vita scaturiscono da decisioni

improvvise, da impulsi viscerali. La scelta del cuore è spesso dettata

dal classico colpo di fulmine (e comunque vada a finire, non è detto

che una attenta valutazione conduca a risultati migliori). Qualcosa di

simile avviene all’inizio di una nuova amicizia o nell’incontro

provvidenziale di una persona che subito viene accettata

diventando nostro partner in affari - ubbidendo a una sorte di sesto

senso.

Come funziona il meccanismo dell’intuizione, e soprattutto quanto

ci si può fidare? Il processo evolutivo della natura, e dell’uomo in

particolare, hanno registrato nei nostri geni una miriade di

esperienze, da cui senza accorgercene attingiamo stimoli per far

fronte ai bisogni. L’imitazione, la crescita cumulativa e la cultura

aiutano a regolare i diversi passaggi della vita. Ma il groviglio

farraginoso della conoscenza può anche risultare di peso all’azione,

quando occorre prendere delle decisioni rapide, tanto in una sala di

pronto soccorso quanto nello svolgimento di un gioco. Le “regole

del pollice” (euristiche) inducono l’uomo a fare la scelta più

appropriata nel meno tempo possibile. Anzi, l’autore dimostra che

un’accurata riflessione, elaborata soppesando una enorme quantità

di dati, non solo non porta necessariamente a migliori risultati, ma

può risultare perfino dannosa. Gli eccessi nell’indagine diagnostica,

se da un lato mettono il medico al riparo da eventuali denunce,

dall’altro espongono il soggetto a una corvè, a volte fastidiosa, a

volte densa di potenziali rischi per effetti collaterali. I medici, si

chiede l’autore, si sottopongono a tutti quegli esami che

raccomandano ai pazienti?

I processi mentali implicano attività cerebrali differenziate in parti

del cervello diverse. Come vi regolate di fronte a dei funghi che non

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conoscete, ad es. durante una passeggiata nei boschi? E in un noto

ristorante? Nel primo caso attiviamo la facoltà del riconoscimento,

pertanto ci asteniamo dal raccoglierli o dal portarli direttamente in

tavola. Nel secondo caso, confidando nella conoscenza del

ristoratore, siamo più propensi a mangiarli. Qui abbiamo fatto una

valutazione.

Sono molti a tenere in debito conto questa distinta attività neurale.

La pubblicità di rado ha una funzione informativa. E’ più frequente il

martellamento che induce al riconoscimento del marchio. Il che

porta il consumatore a recarsi a “fare la spesa con una marca in

testa.” La scorciatoia induttiva, che facilita il processo decisionale,

diventa critica quando entra in ballo il comportamento morale.

Specie in situazioni estreme, specie quando il potere fa leva sulla

fragilità umana. La percentuale dei donatori di organi varia, da

paese a paese, dal 5 al 99%! La differenza sostanziale non è dovuta

a particolari sensibilità civili o religiose tra le diverse popolazioni,

bensì all’impostazione. In tutte le nazioni è volontaria, ma per atti-

vazione esplicita dei singoli cittadini in alcuni paesi; in altri la legge

dispone che tutti sono donatori, salvo espresso rifiuto. La passività e

l’indolenza inducono le masse a rimanere nei ranghi.

Drammaticamente eloquente l’episodio della 2a guerra mondiale in

cui un battaglione di 500 poliziotti vengono ammassati ai piedi di un

villaggio ebreo ai confini della Polonia. L’ordine è di separare gli

uomini validi, da mandare ai campi di concentramento, dal resto

degli abitanti che saranno tutti trucidati. Tuttavia il comandante,

nell’esporre le disposizioni ricevute dalle alte gerarchie, invita chi

non se la sente di eseguire gli ordini a “uscire dalle fila.” Soltanto 12

fanno un passo avanti. Agli altri, l’uscita allo scoperto, il rompere le

fila era parso più deleterio del compimento di una strage di civili

inermi.

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Una tesi del libro, peraltro solo accennata, è che il genere umano ha

un innato senso di altruismo. Ergo il dono dell’intuizione a cui

affidarsi con maggiore fiducia. Tuttavia, secondo chi scrive,

l’intuizione può essere altrettanto ingannevole, perché si muove in

ambiti assai simili ai binari fatto-percezione che portano a scali

periferici che vanno dalla elaborazione individuale, mediata da

innumerevoli fattori ambientali, alla pura manipolazione. Non

emergono sufficientemente il lato oscuro dell’intuito, il senso delle

proporzioni, nella mistura d’inganno propagata dai professionisti del

consenso, nel deficit morale che esiste in larghi strati della

popolazione mossi soltanto dall’avidità. Il male, con meno remore

del bene, arriva a segno con folgorante dinamismo.

E una volta tanto che un bambino, sfuggito a una strage d’innocenti,

ha sorpreso il mondo capovolgendo l’antica legge ereditata dai

padri “occhio per occhio dente per dente,” di lui si è subito

sussurrato che era figlio di Dio.

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Conclusione

Costruzione a mattoncini

Il libro stampato potrebbe essere paragonabile (orrore!) alla tv, in

quanto anch’esso si propone come un vettore di conoscenza rigido.

Chiaro, qui si fa riferimento alla tv di prima generazione, quella - per

intenderci - senza telecomando né tantomeno quegli strumenti

ausiliari (gadget) che permettono di differire la visione e l’utilizzo

dei filmati in altri momenti. Fino alla diffusione di internet, guardare

una trasmissione tv era una imposizione passiva. A monte i

conduttori televisivi pianificavano gli spettacoli con intermezzi e

interruzioni pubblicitarie, a valle gli spettatori assistevano,

plaudivano o mostravano di non gradire, spegnendo il televisore o

cambiando canale. Poi sono apparsi i videoregistratori con le

cassette, e poi ancora è sopraggiunta la possibilità di programmare

la visione e l’ascolto, selezionando spezzoni di spettacoli, filmati

preferiti, in sintesi lo spettatore è stato messo in grado, non

soltanto di cambiare canale, ma anche di costruirsi a piacimento

una propria scaletta dei programmi.

Con il libro, la correzione dell’errore di stampa, la disposizione dei

capitoli e l’eventuale revisione del testo sono rese possibili solo

nelle successive ristampe. L’ebook invece è più duttile, si presta a

essere modificato, corretto e - impunemente - riproposto con

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estrema facilità. Una prima osservazione quindi è che il libro

stampato sta a un ebook come la tv sta a internet.

Perché riproporre in un ebook dei testi già pubblicati? Che senso ha

disporli in un formato piuttosto che in un altro? Esistono metodi

nuovi di usufruire la conoscenza? Qual è l’approccio suggerito?

Gli alberi delle foreste svettano in alto in cerca di luce. La gara per la

sopravvivenza spinge tutti alla conquista del proprio spazio vitale.

Anche le buone idee, le riflessioni di grandi pensatori, i risultati

conclusivi di anni di ricerca necessitano di essere riaffermati. Da un

altro punto di vista noi stessi abbiamo bisogno di ritornarci su, di

acquisirne la sostanza. Travasarne i contenuti nel nostro bagaglio di

conoscenze. E il processo di memorizzazione ha i suoi meccanismi.

Nella tradizione della cultura orale veniva esercitato con l’ausilio

della filastrocca; i testi disposti in versi e in rime erano d’aiuto alla

memoria. Poeti e cantastorie così tramandavano ai posteri racconti

e gesta d’eroi. Con l’avvento della scrittura fatti e idee hanno

trovato appoggio prima in incisioni su materiali vari (tavolette di

cera, papiro, pergamene) e in seguito sulla carta stampata. La

disposizione logica degli argomenti nel formato-libro resta ancora

un requisito per la mente indispensabile. I concetti si fissano meglio

quando sono disposti in una successione consequenziale, ossia

quando c’è un contenitore e una trama o un filo ad unirli.

La conclusione tra l’altro conduce al nostro piccolo mondo

osservabile sia dalla testa che dall’estremità opposta, la coda.

Partiamo dal principio, comprovato, che le parole mentono e i

concetti che si aggrappano alle parole sono labili, e che ogni

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paradigma nasconde di sé aspetti cangianti. Pertanto si può

prestare fede a gran parte del bagaglio storico che ci viene

somministrato durante il nostro iter educativo? Oppure occorre fare

ricorso, appunto, alla fede?

In quanto alle ambasce della nostra vita quotidiana, che fondano le

loro basi nell’economia, nella politica e nel sociale, quanta parte di

fandonie concorrono a modellarle? Come districarsi da ondate

successive di assurdità che ci piovono addosso come informazioni?

Ecco, queste pagine vorrebbero riproporre alcuni elementi di un

puzzle che ad ogni momento potrebbe essere ricomposto, per

arrivare a una molteplicità di narrazioni (secondo il concetto

sociologico che non esistono fatti bensì narrazioni diverse). Che poi

formerebbero soltanto altre svariate e plausibili ipotesi di letture.

L’azione transitiva, che dal cervello arriva alla coda e viceversa, è

tutta da scoprire. Lo scombussolamento provocato dall’attrazione

sessuale, dalla passione amorosa, è capace di alterare le montagne -

o forse no, ma certamente sì - la coda di un pavone, e ben altro. La

fluorescenza delle lucciole è un richiamo sessuale. L’uccello vedova,

maschio, ha una coda piuttosto lunga. Anch’essa, similmente alla

coda del pavone, ha la funzione di attrarre le femmine. Ai fini della

riproduzione, innumerevoli fattori entrano in gioco assommando

vantaggi o svantaggi, dando luogo a un optimum bilanciato tra

selezione sessuale e selezione utilitaria (essendo la vulnerabilità nei

confronti dei predatori un aspetto determinante).

Sempre nel cervello risiedono i centri nervosi dell’occhio che tutto

percepisce, interpreta e poi trasforma a seconda di come vede i

diversi elementi del tutto.

Nelle riflessioni conclusive dunque vogliamo che l’osservazione

avvenga attraverso le lenti (anche) dell’evoluzione biologica e, più

avanti, del paradosso nel linguaggio e sentire comuni. Ricorriamo,

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come prima chiave di lettura, ad alcuni passaggi de “L’orologiaio

cieco” di Richard Dawkins. E’ impressionante la carrellata di

argomentazioni che l’autore de “L’orologiaio cieco” mette in campo

a supporto delle sue tesi di biologo evolutivo. Ovvio, verrebbe da

dire, date certe premesse! (Il recensore di un precedente libro di

Richard Dawkins consigliava il lettore di “calzare le scarpette da

ginnastica mentale”.) Secondo Darwin la probabilità sarebbe solo un

aspetto secondario dell’evoluzione, l’elemento importante è la

selezione cumulativa. L’autore per dimostrarlo parte dalla

programmazione informatica. Smentendo lo stereotipo che

asserisce: dal computer ricavi quello che ci metti dentro, passa a

programmare una serie di “corpi” o “biomorfi” (figure simili ad

animali) allo stato primordiale, aggiungendo +1 o -1, simulando così

una crescita embrionale, che evolve nella “creazione” di nuove

figure simili ad insetti. (Il linguaggio binario è un sistema di

numerazione formato da 0 e 1 , che vengono moltiplicati per 2 e le

sue potenze).

Bene, ma come spiegare l’approdo a un organo così complesso

come un occhio? L’autore si sofferma ad analizzare la questione da

un punto di vista alternativo. I pipistrelli hanno il problema di

orientarsi al buio, per cacciare le loro prede, per non sbattere

contro gli ostacoli. Una possibile soluzione sarebbe produrre della

luce, che comunque richiederebbe un notevole dispendio di energia

(per le lucciole è un richiamo sessuale). Alcuni ciechi sviluppano una

“visione facciale”, cioè sembrano avvertire la presenza di ostacoli

davanti a loro. Pare piuttosto che, senza rendersene conto,

percepiscano con le orecchie degli echi o altri suoni. Ritornando ai

pipistrelli, non tutti sono uguali o sono ciechi. Quelli che vivono nel

buio totale delle grotte sono sommersi da una molteplicità di echi

prodotti dalle loro stesse grida, emesse ad onde sonore alte non

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udibili dall’uomo. I loro cervelli hanno probabilmente sviluppato una

specie di visione per immagini, a seconda della lunghezza di ritorno

dell’eco. Un procedimento simile al sonar, ideato e costruito con il

medesimo principio.

Il cervello comanda, la coda scodinzola, o avviene il contrario? Nel

caso di un essere umano non abbiamo la visibilità della coda che si

dimena, ma abbiamo manifestazioni del temperamento. E

l’atteggiamento caratteriale non è forse, come la coda, una maniera

per manifestare l’altalena degli stati d’animo di ciascun individuo? Il

soggetto in questione è il “comico tribuno”, famoso e unico nel suo

genere, così definito da Roberto Caracci nel suo libro “Il ruggito del

Grillo”. Cervello è il titolo di uno spettacolo di Beppe Grillo del 1997.

Lo spettacolo non è ancora cominciato, il pubblico sta ancora

prendendo posto, ed ecco Grillo farsi largo tra le fila della platea con

la criniera arruffata e l’irruenza di un “cavallo pazzo”.

Alle banche, alla pubblica amministrazione, viene chiesta maggiore

chiarezza. Ti rispondono con un’overdose di pagine contenenti dati

e informazioni che non sappiamo come gestire. Siamo talmente

subissati di informazioni che non si riesce a distinguere se le cose

accadono perché sono scritte o sono scritte perché sono accadute.

Quando si scopre che con il petrolio si può fare il nailon, come fanno

largo nel mercato al nuovo prodotto? Fanno passare il messaggio

che la canapa è una droga. Con la canapa si facevano le corde, la

carta pregiata, si possono curare malattie... Hanno messo fuori

legge una pianta: la canapa. Usano le parole per ingannare. I nazisti

non usavano la parola lager, i campi di concentramento erano

definiti case della gioventù. Il cervello non ci serve più, se non

riusciamo più a distinguere cosa è vero e cosa è falso. La realtà non

esiste, percepiamo la realtà come un mondo alla rovescia. Ci si

stupisce del mostro pedofilo, ma poi si scopre che negli USA i

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bambini maneggiano le armi come fossero giocattoli. Tanto che per

entrare a scuola devono passare attraverso il metal detector. Ci

governa l’assurdità. L’Europa Unita paga gli agricoltori per non

produrre. Infatti importiamo prodotti agricoli dai paesi

extraeuropei. Dove manca l’acqua, le multinazionali convincono le

mamme a non allattare al seno e a dare ai bambini il latte in polvere

diluito in acqua - ovviamente - non potabile. Nei regimi moderni

non c’è più la necessità di bruciare i libri, basta invogliare ad

accendere la tv e far passare la voglia di leggere. Ma siamo sani di

mente? Nell’era della comunicazione di massa, dei cellulari sempre

connessi, dei media che in tempo reale trasmettono tutto quello

che succede da una parte all’altra del mondo, ci scopriamo incapaci

di decifrare un estratto conto bancario, o piuttosto la legge

finanziaria. Tocca al comico, trasformarsi in professore di economia

e spiegare alla gente cosa si cela nel labirinto delle leggi, o ai guru

dell’informazione? C’è in tutto questo marasma un paradossale

rovesciamento di ruoli, di linguaggio, di comune sentire. Nello

stravolgimento dei luoghi comuni la realtà viene ad essere

modificata.

Negli anni ’80 Negroponte aveva la visione di un foglio di giornale

(elettronico) che raccogliesse gli articoli di suo interesse che trovava

disseminati in una decina di quotidiani differenti (da sfogliare per

leggere qui la terza pagina di cultura generale, là l’intervento

scientifico, ecc. ). Oggi più che mai rischiamo di affogare in un

oceano di stimoli, notizie, fatti e misfatti. Tutti abbiamo bisogno di

riemergere dal mare magnum, di estrapolare alcuni concetti, per poi

poterli elaborare, a tempo debito.

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La conoscenza utile, alla nostra formazione e a quella delle persone

che ci circondano, galleggia assieme a una quantità di detriti

inimmaginabile solo una ventina d’anni fa. Siamo tutti protesi alla

ricerca di nuovi punti di riferimento: nell’inquinamento globale

diventa difficile persino il riconoscimento del faro che ci indica

l’approdo. Siamo volenti o nolenti diventati novelli Negroponte (del

secolo XXI) bisognosi di comprimere tempo e conoscenza.

Il labirinto della ragione si presenta come un saggio composto da un

insieme di tasselli (indagini in rete, letture, riflessioni e

approfondimenti su testi per lo più recenti) che vanno a formare un

mosaico. Le frontiere della conoscenza, che si dilatano in

continuazione, trovano un denominatore comune nei progressi

conseguiti nell’esplorazione del cervello. L’occhio della mente ci

racconta storia, economia, politica attraverso noduli nervosi che si

trasformano in continuazione e si traducono in comportamenti

collettivi. Spiegare l’economia, la politica senza un riferimento al

nostro modo di ragionare diventa un esercizio incompleto. Siamo

noi artefici delle nostre scelte e tendenze? O è l’ambiente a

condizionare la nostra mente? Quanta autonomia abbiamo nel

nostro serbatoio?

Il presente ebook nel suo insieme pone domande più che fornire

risposte. I capitoli potevano avere una coesione maggiore?

Certamente sì, ma il mosaico è anche una specie di costruzione

Lego. Non si è voluto di proposito usare la colla nel sistemare i

diversi mattoncini sulla base predisposta. Ciò consente a ognuno di

rimodulare a sua volta il prodotto finito, togliendo o aggiungendo

altri tasselli, per infondergli un proprio carattere. Fino a creare

quindi un nuovo ebook (o libro) personalizzato, una costruzione a

mattoncini appunto, una concezione del libro non so quanto nuova,

ma decisamente non comunemente diffusa, che vorrebbe mettere il

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lettore in condizione di poter aggiungere, trasformare, ridefinire e

riproporre un suo messaggio, una sua visione personale.

L’obiettivo è la condivisione della propria conoscenza con le persone

vicine, per trasmettere lo spirito di gruppo, sociale, aziendale o

familiare che sia, per il consolidamento di un terreno comune che è

anche conquista culturale e civile.

Maggio, 2013

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Antonio Fiorella

Il labirinto della ragione

a mio figlio

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Bibliografia

Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti, Ponte alle Grazie,

Milano

Alfredo Reichlin, Il midollo del leone (riflessioni sulla crisi della

politica), Editori Laterza

Antonio Costato, Round Trip, (http://www.antoniocostato.it/round-

trip/) ebook

David Icke, io sono Me Stesso, io sono Libero, Macro Edizioni,

Diegaro di Cesena (FC)

Edgardo Cozarinsky, Ultimo incontro a Dresda, Guanda

Emilio Michelone, Il mito di Cristoforo Colombo, Varani Editore,

Milano

Federico Rampini, Alla mia Sinistra, Mondadori

Gerd Gigerenzer, Decisioni intuitive, Raffaello Cortina Editore,

Milano

Giovanni Floris, Separati in patria, Feltrinelli

Jim Powell, Per fare la frittata, Einaudi

Lamberto Maffei, La libertà di essere diversi, il Mulino

Mario Groppo e Maria Clara Locatelli, Mente e cultura, Raffaele

Cortina Editore

Martìn Caparròs, Non è un cambio di stagione (Un iperviaggio

nell’apocalisse climatica), Edizioni ambiente, Milano

Michele Ciliberto, La democrazia dispotica, Editori Laterza

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando

il nostro cervello, Raffaele Cortina Editore

Nicoletta Cavazza, Comunicazione e persuasione, il Mulino

Osho, Lo sguardo fuori dagli schemi, Bompiani

Paul Krugman, Fuori da questa crisi, adesso! Garzanti

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Pino Aprile, Terroni, Edizioni Piemme

Richard Dawkins, L’orologiaio cieco, Mondadori

Roberto Caracci, Il ruggito del Grillo, Moretti e Vitali

Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri

Sergio Cesaratto e Massimo Pivetti, Oltre l’austerità, MicroMega

(http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-

ebook-gratuito-per-capire-la-crisi/)

Sheldom Wolin, Democrazia Spa, Fazi Editore

Stewart Brand, Media Lab, Baskerville

Vance Packard, I persuasori occulti, il Saggiatore Spa, Milano

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Antonio FiorellaAntonio FiorellaAntonio FiorellaAntonio Fiorella

Il labirinto della ragioneIl labirinto della ragioneIl labirinto della ragioneIl labirinto della ragione

Oggi più che mai rischiamo di affogare in un oceano di stimoli,

notizie, fatti e misfatti. Tutti abbiamo bisogno di riemergere dal

mare magnum, di estrapolare alcuni concetti, per poi poterli

elaborare, a tempo debito.

La conoscenza utile, alla nostra formazione e a quella delle persone

che ci circondano, galleggia assieme a una quantità di detriti

inimmaginabile solo una ventina d’anni fa. Siamo tutti protesi alla

ricerca di nuovi punti di riferimento: nell’inquinamento globale

diventa difficile persino il riconoscimento del faro che ci indica

l’approdo...

Obiettivo la condivisione della propria conoscenza con le persone

vicine, per trasmettere lo spirito di gruppo, sociale, aziendale o

familiare che sia, per il consolidamento di un terreno comune che è

anche conquista civile.

“Stiamo tornando a una dominanza dell’orecchio e della visione

non-alfabetica, e le giovani generazioni sono un’avanguardia di

questa migrazione a ritroso. Il passaggio dalla dominanza

dell’orecchio a quella dell’occhio, conseguente alla nascita della

scrittura, era apparso un progresso definitivo, e ora invece si mostra

solo come una delle fasi di un pendolo.”

Raffaele Simone (Presi nella rete)

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