[Anteprima] Code 2-18: Surreal - Step Three

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La base aerea di Grosseto è perduta, la portaerei CVN-75 Harry Truman giace sul fondo del Mediterraneo spezzata a metà. Gli Alleati sono costretti a ritirarsi dal centro Italia e le pattuglie di ricognizione Skull e Crossbones sono state abbandonate a loro stesse. Quando il ritorno a casa è impossibile, l’unica cosa da fare è proseguire sempre più in profondità nel territorio nemico, fino in fondo, tra disperazione e coraggio. Verso il punto Zero, il luogo dove ha preso vita l’incubo di nome Kasdeya. Mentre le forze militari ancora devono riprendersi dallo shock della sconfitta, l’ultima speranza dell’umanità si chiama Delayenne: lavora sempre da sola, ama le lame affilate e ha un caratterino alquanto strafottente... Terzo e ultimo Step del progetto Surreal, ma i nostri eroi non hanno ancora terminato le loro avventure. Seguiranno altri volumi targati Morning Star.

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Morning Star Alliance

CODE 2-18: SURREAL

- STEP THREE -

[Anteprima]

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, persone o organizzazioni realmente esistiti o esistenti è puramente casuale. Nonostante la storia sia ambientata in luoghi reali,

questi sono stati spesso modificati e riadattati per esigenze narrative.

CODE 2-18: SURREAL Morning Star Alliance

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Capitolo 1

4 maggio 2012, ore 02:51 locali - Nei cieli sopra l’Atlantico Il Lockheed YMC-130ECD Combat Dagger conservava ben

poco della struttura di base dell’MC-130 da cui derivava. Progettato come trasporto d’assalto per infiltrare squadre di incursori sul campo senza essere individuato dal nemico, era stato dotato di ala a freccia, motori supersonici, impennaggi a bassa visibilità radar, e soprattutto montava il modulo ECD: il primo sistema active stealth che l’USAF, e qualunque altra aeronautica militare del mondo, fosse riuscita a rendere operativo.

I normali C-130 Hercules potevano trasportare anche un centinaio di soldati, il Combat Dagger invece possedeva una stiva di carico più che dimezzata. Il resto della fusoliera era stato destinato al generatore ECD e a un paio di serbatoi interni supplementari, aggiunti al progetto originale per aumentare considerevolmente il raggio d’azione del cargo d’assalto.

Senza contare il fatto che la nuova fusoliera, irrobustita per resistere alle sollecitazioni della velocità e “ammorbidita” nelle forme per diminuire la segnatura radar, contribuiva a ridurre sia l’altezza che la larghezza del vano di carico.

Non che i passeggeri in quel momento a bordo del Combat Dagger avessero da lamentarsi per lo spazio disponibile: erano solo in tre, la stiva era tutta per loro. C’erano il

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sergente tecnico addetto al vano di carico, lo scienziato del DoD Leonard Cherniawski, e per finire Delayenne.

Quest’ultima era ormai entrata in modalità di combattimento, silenziosa e concentrata a ripassare mentalmente i dettagli dell’operazione. Nella vita di tutti i giorni poteva anche passare per una persona frivola, capricciosa o addirittura sconsiderata, ma sul campo veniva sempre fuori la sua essenza di vero soldato.

Leonard invece stava armeggiando con le frequenze della stazione di comando mobile, la postazione che lui occupava quando la cyborg entrava in azione. Quella in cui sedeva al momento era una versione adatta a essere imbullonata sul pianale di carico dell’YMC-130ECD, e comprendeva sia sofisticati sistemi di comunicazione, che i computer su cui giravano i software incaricati di monitorare le funzioni vitali di Delayenne.

Leonard aveva già lanciato una diagnostica completa del sistema, che gli aveva confermato luce verde su tutti i parametri. Ormai lui e Delayenne dovevano solo attendere che il cargo giungesse alla destinazione prefissata.

D’un tratto il sottufficiale dell’AFSOC, il Comando Operazioni Speciali dell’Aeronautica, mise da parte la sua rivista di automobili, si alzò dal seggiolino e raggiunse i due passeggeri.

«Signore, il pilota mi ha appena confermato che mancano cinque minuti al punto di lancio.» Disse, picchiettandosi il casco con un dito all’altezza dell’orecchio destro, per far intendere che la comunicazione gli era giunta via radio. «Credo che sia tempo anche per lei di indossare il casco, e soprattutto la maschera a ossigeno, signore.»

«Sì, giusto.» Leonard recuperò il suo casco, simile a quello di un pilota

ma privo di visiera oscurata estraibile, e lo infilò mentre il

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sottufficiale andava ad azionare un interruttore a muro che mutò in rosse tutte le luci bianche del vano di carico.

Delayenne si alzò in piedi, il corpo fasciato da una tuta da combattimento sintetica, composta da avveniristiche fibre a elevata resistenza balistica e rinforzi di materiali polimerici nei punti di maggiore stress. Era color nero opaco, con larghe porzioni dipinte a chiazze mimetiche nere e antracite, perfetta per nascondersi nel buio della notte. Osservato da vicino, il tessuto sintetico rivelava una trama composta da una moltitudine infinita di minuscoli esagoni che si incastravano perfettamente l’uno all’altro.

Delayenne indossò il suo caschetto leggero da combattimento, munito di cuffie di comunicazione e sensori elettro-ottici, IR e termici. Da sotto il caschetto e dalla sua sommità, aperta, spuntavano i capelli grigio platino della donna, tagliati abbastanza corti, mentre i suoi occhi ambrati erano nascosti dai visori elettronici. Per quella missione Delayenne aveva anche dovuto agganciare ai due lati del casco l’apposita mezza maschera a ossigeno, dato che le circostanze avrebbero richiesto un lancio da alta quota. Lassù l’aria era talmente rarefatta da non permettere la normale respirazione, almeno finché non si fosse scesi sotto i seimila metri di altitudine.

La maschera era collegata a una limitata riserva di ossigeno contenuta nell’imbracatura frontale, mentre quella posteriore era occupata dal paracadute direzionale. Cinghie di sicurezza e buffetteria erano tutte nere, come la vela contenuta all’interno dello zaino.

«Prova-prova; Delayenne, mi senti?» Chiese via radio Leonard, testando il suo collegamento.

«Guarda che si dice controllo radio, non prova-prova. Siamo in guerra, non sul palco di un concerto rock.» Scherzò

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lei, che nonostante tutto non perdeva mai un’occasione per deridere il povero Leonard.

«Sì, penso che la radio funzioni... Il tuo respiratore?» «Viaggia alla grande. Diamoci una mossa con quel

portellone, non vedo l’ora di sgranchirmi un po’ le ali.» «Anche il mio respiratore è operativo.» Confermò lo

scienziato, non senza una certa nota di nervosismo. Quella era la prima volta che si trovava in procinto di

volare all’interno di una fusoliera mezza aperta, a un’altitudine di dieci chilometri sul livello del mare. Il fatto di essere saldamente ancorato al pavimento del cargo non era sufficiente a tranquillizzarlo del tutto. Strinse ancora di più la cintura di sicurezza, come se corresse davvero il rischio di essere risucchiato fuori dalla stiva.

«Occhi e orecchie aperti, gente. Iniziamo a depressurizzare.» Disse l’addetto al vano di carico, attraverso il microfono radio contenuto nel suo respiratore.

Il portellone posteriore dell’YMC-130ECD si aprì scivolando all’interno della fusoliera, per evitare di far perdere all’aereo il suo profilo stealth; mentre il potente sibilo dei motori invadeva la stiva del cargo. Le protezioni sonore contenute all’interno dei caschi dei tre passeggeri li avrebbero protetti dal frastuono, ma Leonard si accorse ben presto che il giaccone imbottito che gli avevano fatto indossare al momento del decollo non era sufficiente a ripararlo dal freddo glaciale dell’aria a diecimila metri di quota.

Delayenne avanzò verso la finestra di cielo oscuro che si era aperta di fronte a lei, i capelli grigi scompigliati dai violenti turbinii di vento che si infilavano nella carlinga.

«Un minuto.» Sancì il sottufficiale dell’AFSOC, sollevando il dito indice.

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Era stato scelto per quell’incarico perché conosceva bene il suo lavoro, ma soprattutto era una persona fidata, che mai si sarebbe messa a spifferare di aver dato un passaggio a una tipa come Delayenne. Anche se per lui sarebbe stato impossibile dimenticare quella figura tenebrosa, con il volto nascosto da ottiche e respiratore, e con addosso quella fantascientifica tuta da combattimento.

Quando il pilota gli diede il via libera, il sottufficiale pigiò il bottone per accendere le luci verdi in cabina al posto di quelle rosse.

«Buona fortuna, Delayenne.» La salutò Leonard. «Grazie, ma con il mio talento e il mio bel faccino la

fortuna non mi serve affatto, Leonerd.» Rispose spavalda e impertinente la cyborg, lanciandosi dal portellone del Combat Dagger dopo una breve rincorsa.

* * *

4 maggio 2012, ore 18:28 locali - Porto di Vladivostok, URSS

Il superyacht dei cantieri Lürssen Werft aveva attraccato

da un paio d’ore, quando il suo proprietario lo raggiunse via terra.

Ivan Grošcev, comunemente detto Harlequin, aveva attraversato la città di Vladivostok a bordo di un anonimo SUV Audi Q7, scortato unicamente dal suo autista, fino a varcare senza problemi l’ingresso dell’area portuale interdetta.

Il ceceno in realtà non era più persona gradita in Russia, ma mantenendo un profilo basso, e sganciando qualche

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mazzetta ai funzionari politici giusti, erano pochi i luoghi della sua vecchia Rodina che non era in grado di raggiungere. Men che meno una città sperduta come Vladivostok, posta alla più lontana estremità orientale dell’Unione Sovietica.

Il SUV Audi attraversò le banchine procedendo a bassa velocità, per poi arrestarsi di fronte alla scala d’accesso dello yacht, posta a poppa.

Harlequin smontò dal veicolo e contemplò con orgoglio l’imponente scafo blu e bianco del suo Lürssen Werft da settantacinque metri.

«Era da un bel po’ di tempo che non facevo visita alla mia cara Ingrid.» Disse all’autista, impegnato a tenergli aperta la portiera dell’Audi. «Forse uno di questi giorni dovrei mandarvi tutti quanti affanculo e concedermi una bella crociera per i mari del sud, invece di lasciare che siano i miei collaboratori a godersi questa bellezza al posto mio.»

L’autista sogghignò. Neanche a lui avrebbe fatto dispiacere trascorrere una bella vacanza a bordo del lussuoso superyacht del suo datore di lavoro.

Harlequin raggiunse il ponte principale, salutato con riverente cortesia da ogni membro dell’equipaggio che incrociava il suo cammino. Attraversò la hall, arredata con tavolo e sedie in stile vittoriano, pareti in mogano e addirittura un pianoforte, e salì le scalette interne fino a raggiungere il ponte più alto, il quarto.

Lì trovò Snow, il suo uomo di fiducia, che lo attendeva comodamente seduto su uno dei divanetti impermeabili incassati lungo le sponde del ponte. L’ex Navy SEAL se ne stava spaparanzato con una bionda seduta sulle ginocchia e un bicchiere di buon bourbon in mano, la sua amichetta invece aveva preferito un calice di bollicine francesi.

Il sole che brillava su Vladivostok non era particolarmente caldo, soprattutto a quell’ora della sera, così

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oltre agli occhiali scuri i due piccioncini indossavano anche giacconi imbottiti.

«Ci si diverte e si sbevazza a mie spese, eh?» Esordì Harlequin, accomodandosi sul divanetto della fiancata opposta.

Snow non gli rispose subito, prima doveva finire di sussurrare qualche frase d’amore all’orecchio della biondina, che lo ascoltava ridacchiando maliziosa.

«Guarda che la bottiglia è mia.» Si giustificò Snow, quando ebbe terminato di fare il seduttore. «Almeno il bourbon me lo pago da solo, e non è affatto piscio da quattro soldi, fidati.»

«Caro Snow, mi meravigli. Parlare sporco di fronte a una così avvenente signorina.»

«Tanto non capisce una parola d’inglese, o di qualunque altra lingua che non sia il francese sciccoso della Sorbonne. L’ho rimorchiata in Martinica, stava nella camera d’hotel a fianco della mia, assieme al fidanzato. Ma dopo una brutta litigata con lui si è di colpo sentita in vena di pazzie, e io, tra un drink e una parolina dolce, le ho proposto una crociera privata a bordo dello yacht superlusso sul quale sarei salpato l’indomani.»

La ragazza rivolse ad Harlequin un avvenente sorriso, senza mostrare di aver capito nulla di quella spiegazione.

«Cioè fammi capire, stupido americano abituato a pensare col cazzo invece che con il cervello: sei nel bel mezzo di uno degli incarichi più importanti e vitali che io ti abbia mai assegnato e di colpo decidi di invitare una perfetta sconosciuta sulla mia Ingrid, senza valutare minimamente i rischi che potrebbe comportare la sua presenza nei nostri affari.»

Snow fece una smorfia a metà fra il divertito e lo scocciato. «Ho un debole per le francesi... È solo una studentella stupida, non ho certo intenzione di metterle un

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anello al dito e raccontarle i dettagli della mia vita segreta. A proposito, se te lo chiede, la Ingrid è mia.»

«Questa poi!» «Non far finta di incazzarti, Ivan!» Rise Snow. «Lo so che

queste storie di sesso e bugie non ti danno fastidio, anzi ti divertono. Almeno finché continuerò a portare a termine con successo i miei incarichi.»

Harlequin alzò gli occhi al cielo. «Se lo dici tu. A proposito di incarichi, com’è andata stavolta?»

Snow sussurrò in francese all’orecchio della sua nuova fiamma di andare ad aspettarlo di sotto, mentre lui parlava di “lavoro” con il suo collega “imprenditore”. Lei gli diede un ultimo bacio appassionato, raccattò bicchiere e bottiglia di champagne e trotterellò verso la camera padronale dello yacht.

«È andato tutto liscio come l’olio: Choi ha rispettato la tabella di marcia, si è presentato puntuale all’appuntamento e il suo prelievo dall’Italia è stato un gioco da ragazzi. All’inizio era teso, ancora più di quella volta in cui l’avevo fatto uscire dagli Stati Uniti, ma poi si è calmato... Sai, con tutti questi viaggi, quando ci penso ho come la sensazione di non fare altro che rimbalzare da un angolo del mondo all’altro, come la pallina di un flipper.»

«Hai visto la nuova casa del nostro fortunato cervellone quattrocchi? Gliel’ha disegnata un mio amico.»

«Sì, l’ho accompagnato personalmente sulla sua isoletta tropicale. È un sogno, quanto cazzo l’ha pagata?»

«Choi si è comprato solo la villa e la fuga dalla sfera d’influenza sovietica, l’isola resterà proprietà della Repubblica Bolivariana del Venezuela. E dopo?»

«Dopo mi sono fatto accompagnare in Martinica ad attendere la Ingrid, com’eravamo d’accordo, e ora eccomi qua. Sia i campioni genetici che l’unità di memoria

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contenente tutti i dati sui progetti del coreano sono di sotto, nella cassaforte di bordo. È andato tutto bene.» Snow brindò alla conclusione del racconto vuotando con un sorso il bicchiere di bourbon.

«Sì, come no, tutto bene... Quindi non lo sai ancora.» Harlequin gli rivolse uno dei suoi sorrisi sinistri.

«Cos’è che non so?» «È normale, dato che sei rimasto fuori dal mondo per

quasi due settimane...» «Ti decidi a parlare, uomo degli indovinelli?» «Si tratta di Kasdeya, e del fatto che il nostro Choi deve

aver sbagliato a riportare qualche cifra, mentre faceva i conti dei danni che lei avrebbe causato come diversivo alla vostra fuga.»

«Perché? Cos’è successo?» «Oh, nulla di che. Ha vaporizzato i laboratori ed è fuggita.» Snow spalancò gli occhi. «Cosa?» «Già, e qualche giorno più tardi ha pure vaporizzato metà

del contingente sovietico a Roma, proprio mentre gli uomini del generale Petrosian stavano sostenendo l’attacco finale contro i resistenti italiani.» Harlequin sorrideva, nonostante nel suo racconto non ci fosse molto da ridere.

«Ma come cazzo... E poi che fine ha fatto?» «Scomparsa nel nulla.» «Gesù Cristo. Io comunque me lo becco lo stesso il mio

compenso?» «Ovviamente sì, tu non hai sbagliato di una virgola.

Abbiamo ottenuto tutti i dati e i campioni relativi al progetto Kasdeya che ci occorrevano, Choi ha avuto la sua libertà, io sono riuscito finalmente a recidere del tutto il cordone che mi legava a doppio filo con Mosca... Forse ho finito per guadagnarmi qualche altro nemico fra le fila del Politburo, ma la cosa non mi infastidisce più di tanto. Adesso lasciamo

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che siano i soldatini a vedersela con Kasdeya, noi abbiamo affari molto più importanti a cui dedicarci.»

«A proposito di affari, ho un regalino per te.» Snow infilò una mano all’interno del giaccone, per poi tirarne fuori un’anonima busta bianca spiegazzata.

«Adoro i regali.» Scherzò il trafficante d’armi ceceno, estraendo dal taschino un coltello a serramanico con lama damascata, che usò per aprire la busta. «Provenienza della missiva?»

«Stavamo attraversando il Canale di Panama, aspettando che le chiuse regolassero il livello dell’acqua, quando si è presentato a bordo un funzionario statale o doganale di qualche altro tipo, non ho ben capito.»

«E tu l’hai fatto salire? Posso capire le compagne di letto, ma come cazzo ti viene in mente di autorizzare un’ispezione doganale su questa nave!»

Snow mise le mani avanti. «Tranquillo, Ivan, non c’è stata nessuna ispezione. Il mittente di quella busta ha fatto in modo che fosse un doganiere a consegnarmela proprio perché una sua capatina a bordo non avrebbe destato sospetti.»

«Quindi chiunque l’abbia spedita era a conoscenza del fatto che la Ingrid, con il mio braccio destro a bordo, sarebbe transitata presso Panama, diretta fin qui, proprio quel giorno a quell’ora.»

«Esatto.» «Non mi piace... Chi è il mittente?» «Il postino mi ha fatto intendere che si trattasse

nientemeno che di Nobody.» Rispose Snow, nominando l’informatore personale del ceceno presso il Pentagono.

«Interessante, allora questo spiega tutto.» Harlequin aprì la busta e si lasciò scivolare il contenuto

sul palmo di una mano. Si trattava di una scheda SD.

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Fece segno all’autista di consegnargli la sua valigetta, che una volta aperta rivelò un computer per telecomunicazioni del modello usato da Harlequin e dai suoi più stretti collaboratori.

Qualunque contenuto multimediale Nobody avesse infilato nella schedina di memoria, sarebbe stato possibile leggerlo soltanto con l’ausilio di uno di quei computer, costruiti artigianalmente in base alle richieste di Harlequin e criptati ai massimi livelli.

Il ceceno accese il terminale, completò i rigidi controlli di sicurezza e inserì la scheda SD. Dopo pochi istanti comparve a video il programma di telecomunicazioni, ma invece di attivare una chiamata, cominciò a riprodurre una registrazione.

Il video era stato escluso da Nobody, notoriamente paranoico per quanto riguardava la sicurezza della sua persona, e l’audio era stato alterato in modo che la sua voce divenisse metallica e impersonale.

«Ivan, registro questo breve messaggio per avvisarti che un satellite dell’NRO ha beccato Sung-Hyo Choi il giorno stesso in cui ha messo piede in territorio venezuelano.»

«Oh, merda.» Commentò amareggiato Snow, che si era appena vantato di quel lavoretto ben eseguito.

«Si è trattato di una sfortunata coincidenza, il satellite doveva effettuare un passaggio di controllo per scattare qualche foto a un edificio di recente edificazione, che fonti di Intelligence HUMINT avevano segnalato come possibile laboratorio clandestino. È stata una sorpresa per tutti i tecnici dell’NRO, quando un software automatico di riconoscimento facciale ha beccato in pieno il coreano, ricercato federale ai massimi livelli.»

«Spero che non abbia riconosciuto anche me.» Continuò a commentare l’ex SEAL.

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«Quando le agenzie hanno avuto la conferma della sua identità, non ci è stato possibile depistare o insabbiare quell’informazione, ormai aveva raggiunto i piani alti del DoD, e quindi della Casa Bianca. Il Presidente ha deciso di intervenire, l’ordine è di uccidere il traditore, e sarà il braccio armato del progetto Genoma a portare a termine l’incarico... Proprio così, ha mandato Delayenne a uccidere il suo stesso creatore.»

«La ben nota finezza di Elle Knox.» Sogghignò Harlequin. «La missione è prevista per la notte del 4 maggio, se pensi

che il coreano possa ancora esserci utile in qualche modo ti suggerirei di intervenire... Anche se non sono sicuro che questo mio messaggio possa arrivarti in tempo, o anche che sia possibile sfuggire alle grinfie di Delayenne, una volta che ha ricevuto l’incarico di prendere uno scalpo.»

La registrazione terminava lì. «È per stanotte. Quindi? Tanto lavoro per nulla?»

Domandò l’americano. «Come ti ho già detto più di una volta, l’incolumità di Choi

non è mai stata lo scopo del nostro lavoro. Il nostro obiettivo era mettere le mani sulle sue ricerche, sia quelle compiute per gli americani che quelle per i russi. L’obiettivo è stato raggiunto, e Choi può marcire all’Inferno.»

«Come vuoi. Sei tu che comandi.» «Puoi dirlo forte, Snow. Tuttavia... Non si sa mai quale

innovazione tecnologica potrebbe uscire in futuro dalla geniale testolina del rinomato professore, quindi forse vale la pena continuare a essergli amico e tentare di metterlo sul chi vive.»

Harlequin estrasse un telefono satellitare dalla valigetta, direttamente collegato al computer. Selezionò un codice in memoria e fece partire la chiamata.

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«Nessun segnale.» Commentò dopo una trentina di secondi. «Ho paura che per il nostro cervellone coreano sia già troppo tardi.»

* * *

4 maggio 2012, ore 02:59 locali - Isla Grueso, Venezuela Il Combat Dagger intento a volare diecimila metri sopra

l’isoletta caraibica era dotato di strumentazioni per la guerra elettronica EW, in grado di disturbare le comunicazioni del nemico. Capacità molto utile in caso quest’ultimo tentasse di chiamare i rinforzi, oppure se qualcun altro lo stesse avvertendo di un imminente pericolo.

Delayenne si era lanciata dal portellone posteriore del cargo da pochi secondi, il suo visore notturno le mostrava un’enorme porzione dell’Oceano Atlantico completamente nera, a parte una serie di puntini luminosi ravvicinati, proprio di fronte a lei: l’isola Grueso, il suo obiettivo di quella notte.

La tecnica di lancio HALO era pratica comune fra gli operatori delle SF/SOF, e prevedeva un lancio da alta quota con apertura del paracadute da effettuarsi soltanto all’ultimo istante utile, appena prima di sfracellarsi al suolo a più di duecento chilometri orari.

Delayenne raggiunse la quota di apertura appena un paio di minuti dopo aver saltato. Il suo visore elettronico era in modalità di paracadutismo, le mostrava tutte le indicazioni utili in quel momento: altitudine, correnti atmosferiche, velocità di caduta.

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Il congegno di apertura automatica del paracadute scattò appena ebbe raggiunto i duecento metri, dandole la sensazione di essere stata strattonata verso l’alto. In realtà aveva sempre continuato a precipitare verso il basso, solo che la sua velocità di caduta si era d’improvviso drasticamente ridotta.

La vela era di tipo direzionale, di colore nero per mimetizzarsi meglio nella notte. Delayenne cominciò a manovrare i tiranti per correggere il tratto finale della caduta, la sua intenzione era quella di piombare dal cielo e atterrare proprio sul tetto della nuovissima villa di Choi.

Le foto satellitari fornite dall’NRO, il National Reconnaissance Office, mostravano la presenza di alcune guardie del corpo.

Erano state identificate come appartenenti a una Compagnia di Sicurezza Privata basata a Caracas, composta per la maggior parte da ex militari venezuelani. Non proprio la migliore PSC/PMC sul mercato, ma i suoi contractor erano comunque ben addestrati e ben armati, con esperienza di combattimento maturata prima sotto le armi e poi come mercenari impiegati nei conflitti locali. Nella giungla sudamericana, dove i confini nazionali erano labili e di difficile controllo, gli scontri armati con i guerriglieri locali scoppiavano un giorno sì e l’altro pure.

La cyborg individuò due contractor nel giardino e due sul tetto, questi ultimi intenti a percorrere i camminamenti costruiti intorno alle basse cupole di tegole che coprivano l’edificio.

Gli uomini al servizio di Choi vestivano pantaloni cargo o jeans, magliette polo e berretti con visiera, tutto in colori chiari come sabbia, beige, azzurro o bianco. Indossavano vest tattici leggeri ed erano armati di pistola o mitraglietta,

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ovvero l’equipaggiamento ideale per incarichi di sorveglianza e protezione VIP.

Delayenne decise di dirigersi proprio sopra il nemico più vicino, mentre l’altro proseguiva la sua ronda girato di spalle.

Piombò sul malcapitato come un fantasma, senza che lui potesse vederla o sentirla. Lo afferrò per le tempie, lo sbatté a terra sfruttando lo slancio della sua caduta e, con un rapido movimento degli arti potenziati, gli girò la testa di centottanta gradi, quasi staccandogliela dal collo.

Mentre il paracadute nero si afflosciava sulle tegole della villa, Delayenne si rimise in piedi estraendo nel contempo uno dei quattro sottili pugnali da lancio Skallywag che conservava su entrambi i fianchi, prese la mira e lo scagliò contro il secondo guardiano.

Lo colpì nel mezzo della schiena, esattamente dove aveva mirato, trapassandogli il cuore e uccidendolo all’istante.

«Meno due, sotto a chi tocca.» Sussurrò, slacciandosi le cinghie del paracadute, della custodia ventrale e della bombola a ossigeno.

«Delayenne; rapporto situazione.» Si fece sentire Leonard attraverso il collegamento radio.

«Bravo Leonerd, stai imparando il gergo tecnico. Infiltrazione aerea completa, atterraggio morbido, due ostili abbattuti. Perché, ne dubitavi? Credevi che non fossi capace di lanciarmi da un aereo in perfetta efficienza?»

«No, ma devo comunque stabilire il contatto, una volta terminato il lancio... È la procedura.» Si difese il tecnico.

«Sei più tranquillo ora che ci siamo contattati? Adesso lasciami fare il mio mestiere, lo sai che non amo avere un grillo parlante che mi balbetta nell’orecchio tutto il tempo.»

«O... Okay.»

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La cyborg disattivò il collegamento diretto multimediale con il Combat Dagger e lo convertì in una radio a canale singolo tradizionale. Da quel momento in avanti, a meno che uno dei due non avesse premuto il pulsante PTT prima di inviare un messaggio, non gli sarebbe più stato possibile comunicare con l’altro. Un modo non troppo sottile di Delayenne per dire a Leonard di non immischiarsi nei suoi affari.

La guerriera cyborg si liberò anche della maschera a ossigeno, ormai non ne aveva più bisogno. Commutò la modalità del suo visore in quella ottimizzata per il combattimento ravvicinato.

La via d’ingresso più sicura all’edificio obiettivo era stata individuata sempre grazie alle foto satellitari, e consisteva nella porta d’accesso del tetto. Ecco perché Delayenne si era diretta lì fin da subito, invece di puntare alle zone più riparate della boscaglia o dei palmeti, che crescevano in abbondanza sia nel giardino della villa che sul resto dell’isola.

Si avvicinò alla porta con passo furtivo, per poi acquattarsi lungo uno degli stipiti. Avvicinò una mano all’ottica elettronica che indossava e passò dalla semplice visualizzazione IR a quella “ibrida”, che comprendeva altri tipi di sensori oltre a quelli infrarossi.

Per primo attivò il rilevatore termico, capace di individuare le fonti di calore anche attraverso le superfici sottili; poi attivò il rilevatore sonico che, come il nome faceva intendere, era in grado di captare i rumori circostanti come un sonar e farli comparire a video. Non aveva un raggio d’azione molto ampio, ma se un guardiano fosse sopraggiunto da dietro la porta, Delayenne avrebbe “visto” le onde sonore scaturite dai suoi passi, che infrangendosi e rimbalzando su gradini e pianerottolo avrebbero anche

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rivelato i contorni della stanza al di là della superficie dietro la quale erano state generate.

Ma non individuò nulla di tutto questo, e nemmeno macchie rossastre di calore: dietro la porta d’accesso alla villa non c’era nessuno.

Provò la maniglia, e la porta si aprì senza opporre resistenza. Scivolò all’interno e se la richiuse alle spalle.

Scese due brevi rampe di scale e raggiunse le stanze del piano più alto della villa, che davano l’impressione di essere ancora in corso di completamento. Il corridoio era già stato rifinito, con tanto di mobili, soprammobili e quadretti alle pareti, ma gli stanzoni nei quali Delayenne diede uno sguardo erano ancora spogli e del tutto vuoti, a parte attrezzi da costruzione e materiali come pacchi di tegole e piastrelle. Probabilmente entro breve sarebbero diventati camere da letto per gli ospiti, salette di lettura, o chissà cos’altro. La cyborg non immaginava davvero quali potessero essere i gusti di uno scienziato sudcoreano arricchitosi con il tradimento dei suoi committenti.

L’unica stanza che si rivelò già completata e ammobiliata si trovava in fondo al corridoio: un’ampia camera da letto arredata in stile minimalista moderno, ma con molti richiami all’arte classica della Corea. Senza dubbio la camera personale di Choi, ma nonostante l’ora tarda lui non si trovava a letto.

E ti pareva... Sarebbe stato troppo facile trovarlo che ronfava sotto le coperte. Pensò lei.

Procedendo sempre con passo lento e leggero, per non farsi individuare, ma anche per non generare interferenze nel suo visore sonico, Delayenne raggiunse il balconcino con ringhiera che si affacciava all’interno della hall d’ingresso principale. Dal pianerottolo si diramavano due scaloni, uno per parte, che scendevano fino al pianterreno. E di fronte alla

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doppia porta d’ingresso c’era un altro paramilitare di sentinella, mitra in pugno.

Tante guardie e zero scienziati. Che palle. Delayenne si guardò intorno: l’unica sagoma termica

visibile in quella zona della casa apparteneva al mercenario a guardia del portone. Decise di togliere di mezzo anche lui.

Se proprio le toccava ispezionare da cima a fondo la villa alla ricerca del suo proprietario, tanto valeva ripulirla prima di tutti i guardiani. I contractor al soldo di Choi le avrebbero solo intralciato i movimenti, per poi magari spuntarle da dietro le spalle mentre era concentrata nella sua ricerca.

La guerriera cyborg diede uno sguardo oltre il parapetto. Non era sicura di poter raggiungere il bersaglio senza che lui la individuasse, e non le andava di lasciare il suo cadavere in mezzo al passaggio; allora, invece di scendere lei, pensò di far salire lui.

Disattivò il visore sonico e cominciò a srotolare un sottile ma robustissimo filo in lega metallica contenuto all’interno di un rocchetto avvolto attorno al suo polso sinistro.

L’aveva in dotazione nel caso avesse dovuto fare qualche manovra stile “spider woman”: per calarsi da una struttura, assicurarsi a un mezzo terrestre o a un velivolo, o chissà quali altri utilizzi improvvisati, come in quel caso.

Delayenne ne svolse una decina di metri e assicurò il gancio posto all’estremità lungo il cavo stesso, formando così una sorta di cappio.

Lo lanciò a mo’ di lazo e acchiappò al volo la gola del malcapitato, che si ritrovò di colpo con una garrota d’acciaio e titanio attorno al collo.

L’uomo smise di respirare all’istante, la mitraglietta gli cadde di mano e Delayenne cominciò subito a tirare a sé il cavo, issando il corpo del guardiano fino al primo piano della villa. L’uomo tentava di allargare le spire del cavo metallico

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che lo stava strangolando, tentava di ritrovare il contatto con il suolo scalciando con entrambi i piedi, tentava di respirare e chiedere aiuto, ma era tutto inutile.

La sua ascesa si arrestò appena sotto la ringhiera del balconcino, come un condannato a morte impiccato sull’albero più alto. Immobile, testa piegata da un lato e volto livido, aveva cessato di essere una minaccia.

La cyborg recise l’estremità del cavo ancora collegata al suo polso e la assicurò alla ringhiera, poi scavalcò il parapetto e si lasciò cadere al piano terra, piombando sul pavimento di terracotta lucidata senza emettere il benché minimo rumore.

Raccolse l’arma che era caduta al guardiano appena ucciso e si acquattò in ginocchio dietro una colonna marmorea.

Spense per un istante il visore ibrido, avendo notato che, a differenza del primo piano, alcune luci del pianterreno erano accese. Voleva studiare il nuovo campo di battaglia, essere sicura di quanto il buio avesse smesso di essere suo alleato.

Poté constatare che la casa era comunque poco illuminata: le guardie non tenevano tutto quanto acceso, soltanto alcune luci secondarie qua e là, giusto per non vagare nel buio più totale.

Nonostante tutto, d’ora in poi si sarebbe dovuta muovere con il doppio della cautela, dato che non era invisibile all’occhio umano come un Combat Dagger. La sua era un tipo diverso di “invisibilità”.

Riattivò il visore con tutte e tre le modalità abilitate: IR, TH e SN. Giusto in tempo per individuare una sagoma termica e sonica che si avvicinava, un paio di stanze più in là.

Che avesse sentito il tonfo del mitra sul pavimento e stesse venendo a controllare? Delayenne si nascose ancora

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di più fra la colonna e un ampio vaso di papiri, in attesa del passaggio del guardiano.

Dal corridoio di destra comparve un omaccione che non dava affatto l’impressione di essere alla ricerca di intrusi. Era intento a trafficare con una radio portatile, e sembrava anche abbastanza incazzato perché non riusciva a mettersi in contatto con il suo interlocutore.

Sembra che Leonard stia bloccando per bene le loro comunicazioni, ottimo. Rifletté Delayenne. Se anche dovesse scattare un allarme, non potrebbero chiamare aiuti esterni.

Il mercenario attraversò l’ingresso senza smettere di litigare con la sua radio, non prestò alcuna attenzione al collega che penzolava senza vita impiccato al balconcino superiore, appena qualche metro sopra la sua testa.

Delayenne ne approfittò per scomparire, infilandosi nel corridoio dal quale era appena sopraggiunto il guardiano. Pochi istanti dopo, individuò una serie di segnali termici riuniti nella stanza di fronte.

Ci siamo, ho trovato la loro caserma. Pensò lei, ma capì subito di essersi sbagliata.

Si mise spalle al muro e fece capolino oltre la soglia quel tanto che bastava per dare una sbirciatina all’interno della stanza, tornando a nascondersi nella semioscurità del corridoio una frazione di secondo più tardi. Le era stata sufficiente per individuare quattro o cinque contractor spaparanzati su divani e poltrone, intenti a bere cerveza di fronte a un televisore maxischermo sintonizzato su una qualche partita di calcio.

Quando il gatto non c’è i topi ballano. Sorrise lei, ma a dirla tutta cominciava ad averne abbastanza di trovare solo “topi” e nessuna traccia del “gatto”, cioè di Sung-Hyo Choi.

Decise per un cambio radicale di strategia.

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Rinsaldò la presa sulla mitraglietta che aveva sottratto all’impiccato, una moderna Taurus MT-40 di fabbricazione brasiliana, controllando visivamente lo stato generale dell’arma: appariva nuova di fabbrica, ben tenuta e ben lubrificata.

Tolse il caricatore con la mano sinistra e vide che era pieno, trenta colpi calibro .40 S&W pronti per l’uso, devastanti a distanza ravvicinata. Rimise in sede il caricatore, ruotò leggermente l’arma di lato e sempre usando la mano sinistra fece indietreggiare di circa un centimetro la leva dell’otturatore, quel tanto che bastava per controllare lo stato della camera di scoppio. Vide che dentro c’era già una cartuccia, l’arma era pronta al fuoco, trenta colpi più uno in canna. O forse erano ventinove più uno? Non avrebbe fatto molta differenza.

Delayenne spostò su “auto” il selettore di fuoco, avanzò nella stanza della televisione e cominciò a scaricare la MT-40 sui miliziani appassionati di sport, prima ancora che potessero rendersi conto della sua presenza, crivellando ogni cosa con lunghe raffiche. Fino alla fine del caricatore.

Tra le volute di fumo bianco e l’eco degli spari, la scenetta tranquilla e rilassata di un gruppetto di amici intenti a guardare le televisione si tramutò in una visione degna di un film dell’orrore. Morte, distruzione e schizzi di sangue dappertutto.

La cyborg gettò in un angolo la mitraglietta fumante e ritornò spalle al muro, stavolta all’interno della stanza.

Dopo pochi attimi, come lei aveva previsto, il guardiano che prima le era passato accanto senza accorgersi della sua presenza si precipitò a controllare che cosa fosse successo. Stavolta aveva messo da parte la radio e aveva sfoderato la sua pistola Taurus PT-100, camerata anche quella per il .40 S&W; ma, come in precedenza, il contractor non riuscì a

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scorgere l’intrusa. Comprensibile, dato che la sua attenzione era tutta per la macelleria che si era trovato di fronte: cinque cadaveri pieni di pallottole e immersi scompostamente nel loro sangue.

Delayenne approfittò della sua distrazione per agguantarlo alle spalle, passargli un braccio attorno al collo e strappargli di mano la pistola senza alcuno sforzo.

Lui tentò di dimenarsi e rompere la presa dell’assalitrice, ma per quanti muscoli potesse avere, non sarebbe mai stato in grado di competere con quelli della cyborg.

«Vieni, andiamo a fare un giro.» Disse lei, trascinandolo verso l’ingresso con la sua stessa pistola puntata alla tempia.

Lui non smetteva di dimenarsi, sbraitando oscenità e insulti in spagnolo, Delayenne lo sapeva perché le uniche parole in quella lingua che conosceva erano proprio le parolacce.

Ma a parte quell’inutile resistenza, nulla impedì alla sua assalitrice di portarlo fino alla hall della villa. La raggiunsero proprio nel momento in cui altri due contractor fecero il loro ingresso nell’edificio, spalancando le porte principali con le mitragliette Taurus spianate.

Si trattava dei due venezuelani che fino a poco prima erano stati impegnati a sorvegliare il giardino. Videro l’intrusa e le puntarono contro le armi, ma si resero anche conto che si stava facendo scudo con il loro caposquadra, così nessuno dei due tirò il grilletto.

«Mai esitare di fronte a un nemico, putos.» Sancì Delayenne, piantando una pallottola in testa a ognuno dei due, per poi tornare a puntare la Taurus contro la tempia del prigioniero prima ancora che i cadaveri degli altri mercenari avessero toccato terra.

«E ora che siamo rimasti solo io e te, che ne diresti di mostrarmi dove si nasconde il padrone di casa?»

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Il miliziano non ne voleva sapere di collaborare, invece di rispondere alla domanda continuava a urlare in spagnolo sconcezze sulle presunte abitudini sessuali di Delayenne e di sua madre. La cyborg non ci mise molto tempo a perdere la pazienza.

Abbassò il braccio armato ed esplose un colpo di pistola nel polpaccio del venezuelano, per poi scagliarlo a terra con violenza.

«Non ci provare, bello! Lo so che se hai avuto questo contratto è anche perché parli la mia lingua, quindi sputa il rospo o la prossima te la infilo tra i denti.»

«Okay, okay!» Il guardiano aveva capito che aria tirava, e che forse era il caso di collaborare. «No spari, basta sparare! El profesor è sotto.»

Il suo inglese era stentato, ma con una pistola puntata in faccia avrebbe di sicuro trovato il sistema di farsi capire.

«Sotto? C’è un livello sotterraneo?» «Sì! Sì, sì. Seguilo.» Intendeva dire “seguimi”. Si rimise in piedi con fatica e,

appoggiandosi a una parete, iniziò a percorrere zoppicando il corridoio centrale, quello che portava alla lussuosa sala da pranzo.

La attraversarono, e il contractor si fermò davanti all’ingresso della cucina, che si trovava fra il portone della dispensa frigorifera e un muro completamente spoglio, senza mobili davanti e privo anche di quadri.

Il prigioniero di Delayenne fece scorrere una mano lungo lo stipite della porta della cucina, finché trovò l’interruttore per il sotterraneo segreto di Choi.

Il muro spoglio era fasullo, scivolò di lato e rivelò una porta metallica che in una hacienda sudamericana stonava non poco, era senza dubbio roba da laboratorio di ricerca.

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Saltellando sul piede buono, il guardiano superstite raggiunse il tastierino numerico posto a fianco della porta segreta, digitò un codice e questa si aprì con uno scatto elettronico.

«Hice lo que me pediste, basta spari.» Disse lui, ansante. «Basta spari, certo, i patti sono patti.» Gli sorrise

Delayenne, afferrandolo per il colletto della polo e colpendolo in fronte con il calcio della Taurus. Commozione cerebrale assicurata, forse perfino osso del cranio incrinato, ma se non altro si era salvato la pellaccia.

Delayenne prese a scendere le scale metalliche che portavano al laboratorio segreto di Choi.

* * * C’era una telecamera posta proprio sopra l’ampio portone

metallico che separava il laboratorio vero e proprio dal resto del sotterraneo. L’ambiente era ben illuminato, Choi non ebbe difficoltà a riconoscere la guerriera cyborg che era venuta a bussare alla sua porta.

Si era spaventato nel momento in cui gli erano stati segnalati i primi spari, si era allarmato ancora di più quando aveva scoperto che non era in grado di contattare Caracas per chiedere aiuto, ma adesso che aveva visto la silhouette di Delayenne comparire dall’altro lato della barriera metallica, in pratica era sul punto di farsela addosso.

Indietreggiò di qualche passo, portandosi le mani al volto. «Chi è quella, profesor?» Gli domandò il contractor al suo

fianco che, assieme all’altro collega in servizio nel laboratorio, costituiva l’ultima difesa rimasta a proteggere lo scienziato.

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«È... la nostra morte.» Farfugliò Choi. Delayenne si era avvicinata alla telecamera, guardava

direttamente attraverso le sue lenti. «Sei lì dentro, zietto?» Domandò all’obiettivo. «Perché non

mi fai entrare, ho un regalo per te.» Estrasse una delle spade corte che portava sulla schiena,

come una sorta di shinobi del terzo millennio. Spesso le capitava di usare armi improvvisate, o recuperate dai nemici caduti, ma le sue armi principali erano quelle due spade. Progettate e realizzate appositamente per lei dal genio della meccatronica Leonard Cherniawski, erano una coppia di spade a lama dritta, a singolo taglio e prive di guardia.

Ma in aggiunta alla loro lama nera, affilata come un rasoio, avevano anche qualcosina in più rispetto a una normale spada, antica o moderna non faceva differenza.

«Non fare il maleducato, apri la porta e offrimi un drink.» Continuava a provocare la cyborg, picchiettando con la punta della spada contro il portellone.

Choi decise di provare a dissuaderla, si avvicinò all’interfono e premette il pulsante di comunicazione.

«Delayenne... Cosa ci fai qui?» «Ah, allora non stavo parlando da sola, bene. Sono qui

perché mi è giunta all’orecchio una certa voce, cioè che il motivo per il quale due anni fa ci hai abbandonato è stato per andare a vendere ai russi tutti quanti i segreti che mi riguardano... Oltre che per realizzare Kasdeya. Come mai? Credevo che per te io fossi speciale, la sola e unica.»

«Ma lo sei... Io... Io dovevo seguire il progresso scientifico, e non potevo farlo restando al Genoma.» Tentò di giustificarsi.

«Facciamo così. Adesso vengo lì e ne parliamo faccia a faccia, che ne dici?»

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Delayenne indietreggiò di qualche passo, poi impugnò la spada con entrambe le mani e si mise in posizione d’attacco.

«Cosa vuole fare, rompere quella lastra con una merdosissima spada?» Ridacchiò il secondo mercenario, incredulo. «Nemmeno una cannonata potrebbe abbatterla.»

L’uomo non aveva fatto caso a Choi, che si era subito buttato a terra dietro un bancone, al riparo dall’imminente attacco della sua “nipotina”. A differenza degli altri due, sapeva benissimo di cosa lei fosse capace.

Si udì un lacerante stridio metallico, e un’abbagliante linea rossa, inclinata verso destra, comparve sulla superficie metallica accompagnata da uno spostamento d’aria devastante.

Pochi secondi più tardi, una seconda linea incandescente si fece strada sulla superficie del portellone ermetico, incrociandosi con la prima come a formare una “V” rovesciata. La punta della “V” era a circa due metri dal suolo, mentre le linee rosse entravano direttamente nel pavimento, anch’esso metallico.

I mercenari si ripresero dallo shock e guardarono meglio di fronte a loro: le due strisce rosse, così luminose da risultare abbaglianti, erano tagli. Lucente metallo fuso.

Il rozzo triangolo disegnato da quei fendenti cadde in avanti abbattendosi a terra con un tonfo agghiacciante, mentre volute di fumo nerastro si alzavano dalle cicatrici che Delayenne aveva inferto all’acciaio. Si era creata la sua personale porta d’ingresso al laboratorio.

Realizzato l’accaduto, i due miliziani aprirono il fuoco con le loro mitragliette MT-40 verso la fenditura, riempiendola di piombo a tutto spiano.

Ma erano soltanto in due a sparare, così non furono in grado di generare a lungo un decente fuoco di soppressione.

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Dopo pochi istanti di lunghe raffiche, le mitragliette esaurirono i colpi. Uno dei contractor estrasse con rapidità la pistola PT-100 dalla fondina e cominciò a scaricare anche quella all’indirizzo dell’apertura, mentre il collega recuperava dal giubbetto tattico un altro caricatore per la mitraglietta.

Il primo miliziano era arrivato a metà del caricatore della pistola, quando Delayenne fece la sua mossa.

Sbucò dall’apertura scattando in avanti a testa bassa, fra il fumo e le pallottole. La mano destra stringeva ancora la spada corta, ora con la lama rivolta all’indietro.

Il contractor armato di pistola aggiustò la mira sulla sagoma scura che era sfrecciata fuori dalla porta, ma prima che riuscisse a premere il grilletto, si ritrovò con novanta centimetri di acciaio piantati nel petto.

Ancora in corsa, Delayenne aveva allungato la mano sinistra lungo la schiena, aveva impugnato la sua seconda spada e con un singolo, fulmineo, movimento l’aveva estratta e scagliata contro il nemico.

Mentre lui rovinava all’indietro a causa del contraccolpo, il suo compagno terminava di ricaricare la mitraglietta e la impugnava di nuovo con entrambe le mani.

Allineò i mirini sulla cyborg e premette il grilletto, ma Delayenne si era già tolta dalla traiettoria delle pallottole. Aveva compiuto un rapido balzo verso l’alto, talmente potente da consentirle di roteare il corpo, poggiare i piedi sul soffitto e, a testa in giù, compiere un secondo balzo in avanti e verso il basso, aumentando ancora di più la velocità di esecuzione delle sue acrobazie.

Delayenne piombò sull’inerme contractor dall’alto, sciabolando la lama della spada con un rapido movimento del polso, da destra verso sinistra.

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La tecnologia termica che le aveva permesso di aprire il portone blindato come fosse stato di burro era ancora attiva, così anche quell’affondo non risultò un semplice colpo di spada.

D’istinto il mercenario aveva frapposto la mitraglietta fra lui e l’assalitrice, così anche quella venne tagliata di netto. Stessa sorte che toccò a lui, letteralmente aperto in due all’altezza del torace, con i vestiti di entrambi i tronconi del suo corpo incendiati dal calore della lama nera.

Delayenne si rimise in piedi con movimenti fluidi, roteando un paio di volte la spada per raffreddarla, e rinfoderandola sulla schiena.

Si voltò verso il bancone dietro il quale si era rifugiato Choi, disattivando il visore ibrido. Le spie dei sensori si spensero e la visiera elettronica scivolò verso l’alto, scoprendo i luminosi occhi ambrati della donna.

«Da quanto tempo, zietto.»

* * *

4 maggio 2012, ore 09:21 locali - Aeroporto di Grosseto, Italia

«Generale, abbiamo inquadrato il contatto radar ostile

con una delle nostre batterie costiere.» Nell’area dell’ex base militare statunitense attrezzata a

centro di comando e controllo della Fratellanza, Nader Fathy era sul punto di coronare la sua vittoria con l’abbattimento di un altro aereo americano.

«Cosa state aspettando? Buttatelo giù.»

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«Sissignore.» Obbedì l’ufficiale addetto alle comunicazioni, dando disposizioni alla batteria SAM mobile schierata a ovest dell’aeroporto.

«Un minuto al raggiungimento dell’obiettivo.» Confermò poco dopo al suo generale. «Trenta secondi... Dieci secondi... Impatto.»

«Gli sta bene, a quell’americano impudente.» Sogghignò Fathy.

Davvero non riusciva a immaginare cosa avesse potuto spingere quell’aviatore a volare così vicino alle sue forze.

«Un momento, signore! Il... I missili hanno centrato il bersaglio, ma il contatto ostile è ancora in volo.»

«Potrebbero essere esplosi contro le sue contromisure elettroniche, dica agli artiglieri di lanciare ancora.»

«Agli ordini... Otto-Zero-Quattro, altri due ordigni, passo.» A quel punto anche Fathy si era avvicinato al monitor

radar, carezzandosi nervosamente i folti baffi. «Altri due impatti, entrambi i missili hanno raggiunto il

bersaglio, generale.» Ma dopo pochi istanti, il contatto radar ricomparve su

video. «Cosa? Ma che diavolo!» S’infervorò Fathy. «Signore, il contatto è adesso a portata di tiro di altre due

batterie.» «Dica loro di lanciare. Che tutti quanti aprano il fuoco

contro quel maledetto.» Nemmeno la terza, nutrita, salva di missili Gauntlet sortì

l’effetto sperato. Il contatto pareva inarrestabile, si portò a meno di un chilometro di distanza dalla batteria Otto-Zero-Quattro e pochi attimi dopo fu lei a scomparire dai monitor, mentre il puntino designato ostile proseguiva nel suo incedere verso l’entroterra.

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«Non è possibile... Ordine di preallarme generale, che tutte le unità schierate nelle griglie adiacenti si preparino a donargli l’accoglienza che merita.»

Tuttavia, nonostante la travolgente potenza di fuoco della Guardia Repubblicana d’Egitto, il contatto ostile eliminò ogni batteria, ogni plotone, ogni mezzo terrestre che tentò l’ingaggio.

Di minuto in minuto si avvicinava sempre di più a Grosseto: nel tentativo di difendere il grosso del contingente egiziano, le unità che avevano aperto il fuoco contro il nemico l’avevano guidato proprio al centro di comando da cui dipendevano.

«Generale, abbiamo una coppia di caccia Mirage in avvicinamento alla base, sono i primi del contingente che la Al-Quwwat Al-Jawwiyya intende schierare a Grosseto.»

«I Mirage dell’Aeronautica hanno armi aria-aria?» Domandò Fathy, tergendosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto.

«Sissignore.» «Allora spediteli subito a intercettare quello Shaytan!» L’ordine fu prontamente eseguito. E cinque minuti più

tardi Fathy dovette aggiungere due Mirage 2000M alla lista degli assetti andati perduti durante quella folle mattinata.

«Tutto ciò è inconcepibile! Che cosa cazzo è quell’affare?! Una nuova arma di qualche tipo?»

«Forse dovremo chiamare il generale Petrosian?» Azzardò l’addetto alle comunicazioni.

«Ho a disposizione batterie antiaeree a non finire, carri armati, soldati... La potenza di fuoco di un’intera armata della Guardia Repubblicana, non ho bisogno dell’aiuto di un russo per disfarmi di un singolo nemico!»

Nella furia del momento, Fathy afferrò una sedia e la scaraventò il più lontano che le sue braccia gli consentivano,

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cioè ad appena un paio di metri. «Richiami il maggior numero possibile di unità qui all’aeroporto, quando quel maledetto arriverà lo affronteremo in forze.»

I sogni di gloria del generale egiziano si stavano sgretolando uno dopo l’altro di minuto in minuto... Medaglie, fama, ricchezza, la carriera politica, senza contare il suo dipinto equestre con sciabola e cavallo bianco.

Continua...

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