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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LXIII n. 4 Ottobre-Dicembre 2017

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LXIII n. 4 Ottobre-Dicembre 2017

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IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Del rievocar viaggiando p. 3

L. Alviggi, L’imperatore Adriano: XIXsecoli dalla sua ascesa al trono p. 4

F. Ferrajoli, Giovanni da Procidasignore dell’isola p. 9

A. La Gala, La città aragonese p. 11

O. Dente Gattola, Il processo e lacondanna a morte di TommasoMoro. 2 p. 14

G. Belmonte, Il cardinale GirolamoSeripando e la Riforma cattolica p. 20

S. Zazzera, La “taverna”, “parerga”del presepe napoletano p. 27

E. Notarbartolo, Giù il cappello p. 29

E. Barletta, La scuola di lingua italianadi Basilio Puoti p. 31

G. Mendozza, Divagazioni sulla pizza p. 37

F. Lista, Astrazione e realismo p. 41

M. Piscopo, Aurelio Pellegrino e il “Corriere partenopeo” p. 49

W. Iorio, Meridionalismo... sì ma conun po’ di autocritica p. 51

A. Grieco, L’incerto viaggio di PaoloFrascani nella Napoli reale e lalezione di Philip Roth p. 54

A. Ferrajoli, Struffoli p. 57

E. Fonda, Pierino Accurso p. 58

Libri & cd p. 61

Testate amiche p. 64

UN PO’ DI STORIA

Alla metà del ventesimo secolo Napoli anno-verava due periodici dedicati a temi di storiamunicipale: l’Archivio storico per le provincenapoletane, fondato nel 1876 dalla Deputa-zione (poi divenuta Società) napoletana distoria patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitavaintorno alla personalità di Benedetto Croce eripresa, una prima volta, nel 1920 da Giu-seppe Ceci e Aldo De Rinaldis e, una secondavolta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi, daRaffaele Mormone.In entrambi i casi si trattava di riviste redatteda “addetti ai lavori”, per cui Salvatore Lo-schiavo, bibliotecario della Società napole-tana di storia patria, avvertì l’esigenza diquanti esercitavano il “mestiere”, piuttostoche la professione, di storico, di poter disporredi uno strumento di comunicazione dei risul-tati dei loro studi e delle loro ricerche. Nacquecosì Il Rievocatore, il cui primo numero dataal gennaio 1950, che godé nel tempo dellacollaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le qualimons. Giovan Battista Alfano, Raimondo An-necchino, p. Antonio Bellucci d.O., GinoDoria, Ferdinando Ferrajoli, Amedeo Maiuri,Carlo Nazzaro, Alfredo Parente.Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblica-zione è proseguita dal 1985 con la direzionedi Antonio Ferrajoli, coadiuvato dal com-pianto Andrea Arpaja, fino al 13 dicembre2013, quando, con una cerimonia svoltasi alCircolo Artistico Politecnico, la testata è statatrasmessa a Sergio Zazzera.

Ricordiamo ai nostri lettori che inumeri della serie online di que-sto periodico, finora pubblicati,possono essere consultati e scari-cati liberamente dall’archivio delsito: www.ilrievocatore.it.

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Editoriale

DEL RIEVOCAR VIAGGIANDO

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Continui pure, Loïck Peyron, a credere che «il più bel viaggio è quello che non èstato ancora fatto». Noi troviamo più convincente Josè Saramago, il quale nel suo

Viaggio in Portogallo scrive: «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono.E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando ilviaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”,sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel chesi è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel chesi è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto

maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare suipassi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciareil viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito».Magari, sarà anche una semplice coincidenza, ma, proprio mentre scriviamo questerighe, ci perviene notizia dell’uscita del primo numero di Viaggiatori, rivista onlinee open access (www.viaggiatorijournal.com: v. testata in fondo e segnalazione ap. 64), che, come si legge nella presentazione, «si propone come luogo internazionale e

interdisciplinare di dibattito sul tema del viaggio, luogo osmotico di studi e di ricerche cheattraversano i linguaggi della storia culturale e sociale, della geografia, dell’antropologia, della sociologia e dimolto altro».Peraltro, il ritorno nei luoghi già visti costituisce anche un’occasione per rievocare il viaggio precedente –luoghi visitati, persone incontrate, eventi ai quali si è assistito –. Né è necessario che meta di esso sianoluoghi lontani: il Joyce dell’Ulysses, infatti, dimostra quanto affascinante possa essere un “viaggio” duratouna sola giornata e articolatosi esclusivamente attraverso la propria città.Se, però, si vuole prestar fede all’affermazione di Saramago, secondo cui «il viaggio non finisce mai», si deveanche ammettere che il “rievocar viaggiando”, addirittura, può farlo proseguire anche dopo il ritorno a casa,rileggendo le guide, sfogliando gliappunti presi, guardando le fotoscattate. E al Rievocatore ri-sulterà particolarmente gradito,se fra i suoi lettori ci sarà qual-cuno che vorrà «prolungarsi inmemoria, in ricordo, in narrazione», facendo pervenire in redazione qualche breve resoconto “rievocativo”(per l’appunto) di un viaggio compiuto, al quale, magari, siano associate anche immagini. Sarà un piacere,per noi, pubblicarlo: in fondo, siamo qui anche per questo.

Il Rievocatore

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Loïck Peyron

Josè Saramago

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L’IMPERATORE ADRIANO: XIX SECOLI DALLA SUA ASCESA AL TRONO

di Luigi Alviggi

Salito al trono 19 secoli fa, Adriano nacquea Italica, vicino Siviglia, in Spagna nel 76

d.C. e morì a Baia (Napoli) nel 138. Compì glistudi in Grecia e fu imperatore per 21 anni dal117 al 138 nell’epoca in cui il dominio diRoma aveva raggiunto la massima estensioneterritoriale. Il nome completo fu ImperatorCaesar Traianus Hadrianus Augustus. Lette-rato, scrittore e poeta di opere andate perdute,amante della musica, uomo dall’animo tormen-tato, fu ovviamente, da im-peratore del tempo, unmonarca che non arretrò difronte a nulla, sia in guerrache nella vita civile, e sonoricordati episodi storici diindubbia empietà. RiferisceSparziano1 che, nei pochimesi che precedettero lasua morte, ben sei candi-dati alla successione me-diante adozione sisuicidarono (?) o furonouccisi. Si preoccupò della sicurezza delle fron-tiere curando che i confini fossero controllabilie difendibili, e fu meritevole anche per la paceinterna ed esterna che riuscì a mantenere nel-l’enorme impero. Resta famoso il Vallo diAdriano nell’allora Britannia, lungo circa 120km, dotato di torri e fortini, con mura alte 5metri e preceduto da un profondo fossato, largo

oltre 3 metri e profondo quasi 5, che si esten-deva da un mare all’altro nella parte superioredel Regno Unito, approssimativamente oggi traEdimburgo e Glasgow. Nel campo amministra-tivo introdusse importanti riforme di diritto. Bisogna dire che Adriano non aveva ottenutograndi vittorie, come molti generali di Traiano,e aveva fatto la sua carriera politica e militareall'ombra delle donne della corte imperiale,sfruttando al massimo la parentela con l'impe-

ratore. Giunto al potere rin-negò la politica estera diTraiano. Il primo atto fu larinuncia a tutte le conquistefatte da questi al di là del-l'Eufrate, abbandonandoArmenia, Mesopotamia eAssiria. Avrebbe volutoanche disfarsi della Dacia,restituendola ai barbari, mafu trattenuto dal fatto chenumerosi coloni romani sierano insediati in quelle

terre e sarebbero stati certamente sterminatiqualora le legioni si fossero ritirate. Egli segnaun punto di svolta nella storia di Roma: ter-mina l'era delle conquiste. L'Impero romanod'ora in poi non aspirerà più a espandersi. Figlio di un cugino di Traiano, che regnò dal98 al 117, venne adottato da questi, privo difigli, soltanto due giorni prima della morte,

Adriano (Roma, Musei Capitolini)

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fatto che gli procurò qualche problema nellasuccessione. In effetti la vicenda è abbastanzatorbida e storicamente poco chiara. Forse Plo-tina, moglie di Traiano molto più giovane e re-gista primaria di tutte le mille manovrenecessarie per la successione, era anche suaamante. Traiano era però stato tutore del gio-vane, dopo la morte dei genitori, e gli aveva af-fidato importanti cariche politiche e militaridurante il suo regno. Adriano entra quindi nelnovero degli imperatori adottivi, così comeAntonino Pio, suo successore (138-161), adot-tato anch’egli poco prima della morte, e forseproprio questa dinastia fu quella che seppe in-trodurre le migliori novità nella storia romana,non contaminata dalle funeste derive psichichedella successione per sangue come nella Giu-lio-Claudia. Il suo motto pare essere stato: «hu-manitas, libertas, felicitas».Il maggior tempo come imperatore lo impegnòin ripetuti viaggi nelle diverse province perrendersi conto di persona delle difficoltà inloco e provvedere alla soluzione sotto il suocontrollo. Attuò quindi un metodo di cono-scenza e intervento diretto che pochi impera-tori ebbero come modus operandi. AbbellìRoma di costruzioni monumentali: il MausoleoAdriano (più conosciuto come Castel Sant’An-gelo, iniziato nel 125 e terminato nel 139), ri-costruì il Pantheon distrutto da un incendionell’80, creò la magnifica Villa Adriana in Ti-voli con un’estensione di circa 120 ettari – pur-troppo gran parte del suo materiale fu asportatodal cardinale Ippolito d’Este per costruirel’omonima villa, sempre in Tivoli, a partire dal1560 –, e molto altro fece costruire in diverse

città dell’impero. All’interno della VillaAdriana si trovavano copie delle opere sculto-ree più belle viste dall’imperatore nel corso deisuoi lunghi viaggi. Entrambe le ville di Tivolisono state riconosciute patrimonio dell’uma-nità dall’UNESCO. La bibliografia su Adriano è molto vasta. Par-tendo dalla Vita di Adriano di Elio Sparziano,inserita nella Storia Augusta2 – raccolta di bio-grafie ascritta al quarto secolo – che narra sullevicende degli imperatori romani (anche usur-patori) appunto da Adriano fino a Numeriano(283-284). Il punto è che tale Storia è attribuitaa ben sei autori, tra i quali Sparziano, ma laloro reale esistenza è dubbia per la critica mo-derna. C’è poi la Storia Romana di CassioDione (155-235), 80 libri scritti in greco nellaprima metà del terzo secolo che vanno dall’ar-rivo di Enea in Italia fino al 229. La gran partedi essi sono però andati perduti e l’inserimentodi Adriano è accertato solo per fonti indirette.Forse un veritiero ritratto di questo imperatorefu tracciato dall’inglese Edward Gibbon (1737-1794) nel suo Storia della caduta e del declinodell'impero romano (6 volumi pubblicati dal1776 al 1789):

«Adriano si mostrò volta a volta principe eccellente, so-fista ridicolo e geloso tiranno. In generale la sua con-dotta meritava lode per giustizia e moderazione ma, neiprimi giorni del regno, fece morire quattro senatori con-solari, suoi nemici personali, uomini che erano stati giu-dicati degni dell'impero, e una dolorosa malattia lo reseverso la fine dei suoi giorni irritabile e crudele. Il Senatodubitò se lo dovesse giudicare come dio o come tiranno.Gli onori decretati alla sua memoria furono concessi perle preghiere di Antonino Pio»3.

Del tedesco Ferdinand Gregorovius (1821-1891) è la Storia dell’imperatore Adriano e delsuo tempo (1851). Nel libro Adriano (2011) lostorico francese Yves Roman nel titolo origi-nario lo definisce «l’imperatore virtuoso» e nedà un’immagine assai differente da quella con-tenuta nel romanzo della Yourcenar, impron-tandola più a dati storici che letterari.Si deve appunto alla penna di Marguerite Your-cenar (Bruxelles, 1903-1987), scrittrice franco-belga, l’interessante ed esteso libro Memoriedi Adriano4 (1951) su questa poliedrica figura,nel quale – tra fatti storici e invenzioni lettera-

Mausoleo di Adriano (125-139 d. C.)

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rie – approfondisce con estrema cura la figuradi un imperatore dalle raffinate doti personali.Fu l’autrice stessa a proporre la traduzione ita-liana, valida ancor oggi, a Lidia Storoni Maz-zolani, studiosa e storica della cultura latina.Voleva che il suo scritto sembrasse tradotto dallatino e perciò preferì una studiosa del mondoclassico a una di letteratura francese. Nel 1980,quando la Yourcenar divenne la prima donnaAccademica di Francia, anziché il solito spa-dino dato a tutti i nuovi insigniti, le fu donatauna moneta d’oro con l’effige dell’imperatore.Curioso apprendere che Yourcenar è un ana-gramma del suo vero cognome Crayencour, edivenne quello ufficiale a partire dal 1947 negliUSA. Di lei quest’anno ricorre il trentennaledella scomparsa ed è da segnalare la presenzadi una ricca raccolta di suoi documenti in Italianell’Università di Tor Vergata a Monte PorzioCatone, vicino Roma. La scrittrice iniziò i suoiripetuti peregrinaggi alla Villa Adriana già avent’anni sotto la guida del padre. Il libro èstato sempre seguito, in appendice all’operanelle varie stampe, dal suo ricco Taccuino diAppunti5, uno strumento sussidiario che illu-mina tantissimo sulla genesi del romanzo esulle fasi della sua creazione. Dedicato a GraceFrick, che fu per lunghi anni compagna dellaYourcenar, è un’incursione nel labirinto perso-nale della ricerca ossessiva, dei dubbi, del-l’esame delle diverse fonti, anche le piùminute, e uno specchio della certosina opera diindagine effettuata in molti luoghi del mondoper studiare le più piccole tracce sulla vitadell’imperatore. Sostanzialmente il libro fu svi-luppato e completato tra il 1948 e il 1951. Il lavoro ebbe grande diffusione e, ancor oggi,continua a esser letto con molto interesse.Anche il lavoro teatrale da esso tratto, ha go-duto grande successo vivendo centinaia e cen-tinaia di repliche. La personificazione migliorefu quella fatta dal grande Giorgio Albertazzisotto la regia di Maurizio Scaparro e portatanelle principali città italiane ma anche al-l’estero. L’Albertazzi ha poi pubblicato ancheun libro con DVD nel quale legge appunto ilromanzo. Approfondire le origini della grandepassione della Yourcenar per quest’uomo, di

certo dal profondo pensiero ma sul quale lefonti sono abbastanza discusse, è un problemadi complesso approccio. Certo l’impronta sto-rica, per quanto accertato, è assolutamente ri-levante ma anche altri imperatori sono statiuomini di alto livello e dalle grandi realizza-zioni, anche visti in ottica odierna. Una cosa ècerta: l’interesse per tale figura è stato precoce.L’autrice cominciò a scrivere su di lui già tra il’24 e il ’29, cioè tra i suoi 20 – 25 anni, ma poidistrusse tutto. È la prima cosa che confessa nelsuo Taccuino. E qualche altra cosa sul suo la-borioso lavorio psicologico ci dice sicuramenteil passo seguente:

«Chi è Ecuba per lui? si chiede Amleto davanti al guittoche piange su Ecuba. Ed ecco, Amleto costretto a rico-noscere che quel commediante che versa lacrime vere èriuscito a stabilire con quella donna morta da tre mil-lenni un contatto più profondo del suo con il padre, se-polto il giorno avanti; egli non soffre abbastanza dellasua morte da esser capace di vendicarlo senza indugio»6.

Millenni si possono quindi ridurre a insignifi-canti pause sotto la spinta di un interesse – senon piuttosto di una forma di amore trascen-dente - che non ammette blocchi. Riprenderàil lavoro tra il ’34 e il ’37, e forse le fonda-menta del libro trovano origine nella frase at-tribuita all’anziano sovrano: «Incomincio ascorgere il profilo della mia morte». Da questasembra scaturire il presupposto della stesuradell’immane lavoro: «Come un pittore si col-loca davanti a un orizzonte e sposta senza posail cavalletto a destra, poi a sinistra, avevo fi-nalmente trovato il punto di vista del libro»7.Il secondo indizio, molto importante sulla ge-nesi di questa speciale biografia romanzata, la

Tivoli, Villa Adriana

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Yourcenar ce lo fornisce ancora all’inizio deiTaccuini, sempre in merito all’ispirazione per-sonale:

«Ritrovata in un volume della corrispondenza di Flau-bert, molto letto, molto sottolineato verso il 1927, lafrase indimenticabile: «Quando gli dei non c'erano piùe Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c'èstato un momento unico in cui è esistito l'uomo, solo».Avrei trascorso una gran parte della mia vita a cercar didefinire, e poi descrivere, quest'uomo solo e, d'altrocanto, legato a tutto»8.

Adriano, dunque, quale soggetto vissuto inquel particolare momento dell'epoca antica divacanza, o meglio di affievolimento, di cre-denze religiose che consentì maggior spazio al-l’espressione delle dimensioni umane. Non sicredeva più negli dei ma il cristianesimo nonsi era affermato. Le memorie hanno in esergouna breve lirica di Adriano stesso, idealmentecollegata a quanto detto:

Animula vagula blandula,hospes comesque corporis,quae nunc abibis in locapallidula, rigida, nudula,nec, ut soles, dabis iocos…9

«Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite delcorpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, arduie spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Unistante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, lecose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamod'entrare nella morte a occhi aperti…»10.

L’opera è suddivisa in sei parti e prenda laforma di una lunga lettera, scritta in prima per-sona, indirizzata dall'anziano imperatore al-l’amico Marco Aurelio, allora diciassettenne,che poco dopo diverrà suo nipote adottivo.Marco Aurelio sarà imperatore dal 161 al 180(dopo Antonino Pio) e sarà un’altra grande fi-gura di sovrano illuminato e storicamenteposto tra i “buoni imperatori”. In piena confidenza, Adriano parla della suavita pubblica e privata. Estesa è la trattazionedella grande passione provata per Antinoo, gio-vane di estrema bellezza, che durò fino allamorte misteriosa di questi a 19 anni, annegatonel fiume Nilo, dopo la quale egli finì addirit-tura per divinizzarlo. Lo chiamerà “il fan-ciullo” e afferma che il giovane si sacrificò per

neutralizzare infausti presagi visti sul suoconto, o forse il ragazzo fu suicida vedendovenir meno l’interesse dell’amante nei suoiconfronti. La Yourcenar fa dire ad Adriano:

«Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi disconvolgere l'anima, il solo altresì nel quale chi vi par-tecipa deve abbandonarsi al delirio dei sensi. Non è ne-cessario per un bevitore abdicare all'uso della ragione,ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce finoin fondo al suo demone... Inchiodato al corpo amatocome uno schiavo alla croce»11.

Pessima invece la relazione con la moglieVibia Sabina, cui spettò il titolo imperiale diAugusta – femminile del titolo Augusto – dinorma attribuito alle mogli o alle parenti im-portanti di un imperatore. Era nipote di Tra-iano e sposò Adriano verso il 100, spinta dallastessa imperatrice Plotina, sua zia. Non fu ma-trimonio d’amore ma combinato dalle due fa-miglie in vista della probabile successione diAdriano sul trono. I due giovani, 15enne lei(forse) e molto bella, 24enne lui, anche poco siconoscevano. Ricca la famiglia: la villa di Ti-voli fu costruita su un terreno di proprietà dellagens Vibia da qualche secolo. La Yourcenar fadire ad Adriano:

«Col divorzio, avrei potuto agevolmente sbarazzarmi diquella donna che non amavo; se fossi stato un privatonon avrei esitato a farlo. Ma mi dava così poco fastidio,e nulla, nella sua condotta, giustificava un insulto cosìclamoroso»12.

Bisogna riconoscere che, senza il gigantescolavoro di ricerca della Yourcenar, la figura diquesto uomo, che a 41 anni assunse l’immensopotere dell’impero più esteso per la forza e itrionfi militari dell’eccelsa Roma, non avrebbe

Marguerite Yourcenar

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esercitato il fascino che oggi, seppur per via in-diretta, risulta molto maggiore di tanti suoipari, predecessori e successori. E, quando unmorente riesamina la propria vita, l’improntadi fondo viene a essere strettamente apparen-tata alla verità, unica e sola a restare indenne

di fronte a se stesso. A volte la costruzione let-teraria varca soglie che, in assenza di testimo-nianze dirette, configurano e approfondisconouna figura di imprecisabile definizione ma parie forse anche superiore a quella realmente esi-stita. __________

1 E. SPARZIANO, Vita di Adriano, in Historia Augusta(IV secolo d.C.), Milano 1921.2 Ivi.3 E. GIBBON, Storia della caduta e del declino dell'im-pero romano, 1, Milano 1830, p. 145.4 M. YOURCENAR, Memorie di Adriano, tr. it., Milano1963.5 M. YOURCENAR, Taccuino di appunti, Milano 1963.6 Ivi, p. 179.7 Ivi, p. 173.8 Ibid.9 M. YOURCENAR, Memorie cit., p. 3.10 Ivi, p. 170.11 Ivi, p. 9.12 Ivi, p. 100.

Antinoo (Parigi, Louvre)

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CANDIDATURA DI PULCINELLA ALLA LISTA UNESCODEI BENI IMMATERIALI PATRIMONIO DELL’UMANITÀ

Il 28 ottobre scorso, in San Lorenzello (BN), nella salaconvegni dell’Ente culturale “Schola Cantorum San Lo-renzo Martire - Nicola Vigliotti”, è stato sottoscritto il pro-tocollo d’intesa tra il presidente dell’ente stesso, AlfonsoGuarino, e l’antropologo prof. Domenico Scafoglio, stu-dioso della figura di Pulcinella, per proporre all’UNE-SCO la candidatura di quest’ultima alla lista dei beni

immateriali del Patrimonio dell’umanità; analoghi protocolli sono stati sottoscritti da Giu-seppe Serroni, Claudio Saltarelli e Loredana Terrezza, rispettivamentepresidenti delle associazioni “I Sedili di Napoli Onlus”, “Identitaria AltaTerra di Lavoro” e “L’Albero di Holda”. La cerimonia ha concluso ilconvegno sul tema, che, dopo i saluti del presidente Guarino e del prof.Tullio Ruggieri, presidente del Consiglio comunale locale, ha visto im-pegnati nelle relazioni, oltre al prof. Scafoglio, Lucia Cassella, consiglieredell’ente ospitante, e Sergio Zazzera, direttore di questo periodico.Hanno svolto, inoltre, interventi i presidenti delle associazioni che hannosottoscritto i protocolli. I lavori sono stati coordinati dal giornalista RAIVincenzo Perone. (Nelle foto: in alto a destra, un momento della cerimonia; in basso a si-nistra, un’immagine di Pulcinella dipinta dal nostro redattore Mimmo Piscopo).

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GIOVANNI DA PROCIDASIGNORE DELL’ISOLA

di Ferdinando Ferrajoli

Chi fu il feudatario dell’isola agli albori delXIII secolo, quando i popoli al di là delle

Alpi, del fiume Reno e del Danubio, travaglia-rono per il possesso della nostrapatria, preda agognata e divisadalle terribili lotte fra Guelfi eGhibellini?Fu il nobile cittadino Salerni-tano, Giovanni da Procida, coluiche ordì il famoso Vespro Sici-liano.Nacque a Salerno nel 1210 e fumolto celebre nel XIII secolo.Chiamavasi da «Procida», per-ché tra i vari possedimenti, dicui godeva la signoria, distin-guevasi principalmente la bel-l’isola di Procida1.Giovanni, della fazione ghibel-lina, era uomo dotato di talento,accortezza ed eloquenza, alle quali accoppiavasomma perizia nella medicina. Egli era sommamente affezionato alla casa diSvevia e perciò fu molto caro all’imperatoreFederico II, re di Napoli, e non meno al reManfredi di lui successore.Il Procida fu partigiano accanito e fedele dellacasa sveva, anche dopo la venuta a Napoli di

Carlo d’Angiò, il quale gli confiscò tutti i benie non fece in tempo ad infliggergli una gravepunizione, perché egli fuggì fuori del regno.

Giovanni si trasferì in Aragona,presso la regina Costanza,unica erede della casa Sveva emoglie del re Pietro, dal qualefu premiato per la sua cieca fe-deltà e fu così investito del ti-tolo di barone del regno diValenza, estendendone l’auto-rità sulle signorie di Luxen, diBenizano e di Palma.Giovanni da Procida, memoredegli alti benefizî, elargiti insuo favore, e non per ambi-zione, come lo hanno tacciato iFrancesi, si accinse con tuttol’impegno a studiare e a porre inopera, con ogni mezzo per far

entrare in possesso re Pietro dei due regni diPuglia e di Sicilia, appartenenti per paterno re-taggio alla regina Costanza.Con accorte spie e fedeli emissari, sia nell’unoche nell’altro regno, dove aveva molti distintiamici e segreta corrispondenza, svolse tutta lasua attività!Però, in Sicilia, trovò le cose assai più disposte,

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Pagine vive

Giovanni da Procida particolare dal mosaico absidale

della Cappella di san Gregorio VIInel Duomo di Salerno

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perché i ministri e i soldati francesi, eserci-tando ogni sorta di vessazioni, di libertinaggioe di arbitrarie violenze, si erano acquistati unprofondo odio presso quegl’isolani.Quando i Siciliani furono assicurati da Gio-vanni che era per giungere re Pietro con unaforte armata, non esitarono più a dare maggioreimpulso alla loro congiura, che doveva portarealla rivolta.Difatti, nel giorno 30 marzo 1282, secondafesta di Pasqua, ai rintocchi delle campane delVespro, i Palermitani, impugnate le armi, senzapietà di sorta, li passarono a fil di spada, nellestrade, nelle piazze, nelle case e perfino nellechiese.Il furore fu così inaudito che non risparmiarononé donne, né fanciulli, anzi neppure le donneSiciliane che si erano date allo straniero. Inquesto orribile eccidio, la storia annovera cheil numero delle vittime si aggirò intorno alleottomila.La strage di Palermo, tanto nota e detestata daiFrancesi sotto il nome di «Vespro Siciliano» fuseguita, dopo breve tempo, dalla rivoluzione di

tutta la Sicilia, che inalberò gli stendardi delpapa, e poi, acclamò re Pietro.Quando nel 1806 l’imperatore Napoleone, perpunire il re Ferdinando IV Borbone, perchéaveva mancato alla fede dei trattati, occupòNapoli e Ferdinando dovette fuggire in Sicilia,la flotta francese già aveva occupate le isoledel golfo.Fu allora che a Procida i Francesi distrusserogli ultimi avanzi della potenza baronale di Gio-vanni da Procida, consistenti in uno scudo dimarmo che riproduceva il suo stemma.

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1 Nella lapide commemorativa della costruzione delPorto, che la pietà dei Salernitani ha conservato nellacappella gentilizia di Giovanni da Procida, leggesil’iscrizione che qui diamo tradotta: «Anno del Signore1260. Il Magnifico Sig. Manfredi, re di Sicilia, figlio delSig. Imperatore Federico, con l’intervento del Sig. Gio-vanni da Procida, Grande Cittadino Salernitano, Signoredell’Isola di Procida, di Tramonte, di Caiano, e della ba-ronia di Postiglione, e dello stesso Sig. Re Socio e fa-miliare, fece che fosse costruito questo Porto».

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Due importanti riconoscimenti sono stati conferiti aopere edite da Guida editori nella 33a edizione delpremio “Sele d’Oro-Mezzogiorno” 2017. Il premio “Mi-chele Tito” per la sezione Giornalismo, infatti, è statoassegnato a Massimo Milone, direttore di RAI Vati-cano, per il libro Dal Sud per l’Italia. La Chiesa diPapa Francesco, i cattolici, la società, che, come silegge nella motivazione, «attraverso una serie di te-stimonianze, racconta la città millenaria; sedici epi-

stole per raccontare a Francesco i mille volti di Napoli, le sueeccellenze e le sue croci, i suoi contrasti, le sue paure». Inoltre, unatarga di riconoscimento è andata a Ciro Raia, per il volume GiovannaI d’Angiò, donna e regina dolorosa.

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LA CITTÀ ARAGONESE

di Antonio La Gala

La stagione aragonese ha lasciato a Napoliil suo segno urbanistico e architettonico, in

parte negativo per quanto riguarda il fenomenodi congestione della città e in parte positivo perle trasformazioni apportate e le nuove opereeseguite.L’eredità negativa consiste nell’aver dato avvioal sovraffollamento.Infatti gli Aragonesinel tentativo di affer-mare l’assolutismomonarchico nei con-fronti della nobiltà ba-ronale decentrata delregno che era diven-tata riottosa verso ilre, accentuarono l’im-portanza di Napoli, inquanto capitale, comesede centrale del po-tere monarchico. Que-sta scelta vi determinò una forte immigrazionedal resto del regno, divenuta poi torrenziale eche si è protratta anche dopo di loro. Gli abi-tanti che erano fra i 50 e i 60.000 all’avventodegli Aragonesi, divennero più di 100.000 afine Quattrocento.All’avvento aragonese la popolazione già eracontenuta a stento nel perimetro delle antichis-sime mura; la nuova immigrazione andò a sa-turare tutto lo spazio urbano, ancorchéparzialmente allargato in quel periodo, ma difatto s’infittirono i vicoli, i bassi, le costruzioni

abusive e di fortuna. Gli Aragonesi allargarono le mura ma essen-zialmente verso est, per inglobare la zona frail Carmine, Porta Capuana, via Rossaroll, finoa Foria, zone nelle quali già in tempi precedentierano sorti insediamenti: le chiese e i com-plessi del Carmine, dell’Annunziata, di San

Pietro ad Aram, diSanta Caterina a For-miello, di San Gio-vanni a Carbonara, diSanta Maria dellaMaddalena, e una ga-lassia disordinata diabitazioni, spontanee,abusive: roba natafuori la cinta murariaprecedente, ma che difatto ormai facevaparte dell’abitato.Nelle nuove mura cir-

condate da fossati inserirono molte porte etorri, che in seguito sono state in gran parte ab-battute per sistemare le strade che le lambi-vano, oppure sono state inglobate inedificazioni successive. Altre sono rimaste an-cora nel paesaggio urbano napoletano (PortaCapuana, Porta Nolana; la torre di via Foria an-golo via Cirillo). Porta Capuana, varco verso le strade rivolte anord di Napoli, è opera (1484) dell’architettotoscano Giuliano da Maiano, che per poter al-largare la cinta muraria voluta dagli Aragonesi

Le Mura aragonesi: via Foria

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portò in avanti una porta precedente più vicinaa Castel Capuano. Giuliano da Maiano la con-cepì come un elegante arco di trionfo in marmobianco inserito fra due torri di pietra scura, mala porta fu alterata da Pedro de Toledo nel 1535per accogliere Carlo V. Lungo i secoli PortaCapuana è stata accerchiata e soffocata da edi-lizia spontanea abusiva, parzialmente demolitasolo ai nostri giorni.Alfonso d’Aragona risistemò la cinta difensivaanche perché, subito dopo aver fatto il suo in-gresso trionfale a Napoli nel 1443, cominciò apreoccuparsi della di-fesa della città, equindi dell’ediliziamilitare. A quei tempi leguerre non si vince-vano sui campi dibattaglia, ma sotto edentro le mura dellecittà capitali. Le torri e le muraerano gravate da ac-crescimenti abusivigià dai tempi degli Angioini; gli Aragonesi or-dinarono l’abbattimento delle superfetazioniabusive nel 1483, norma rimasta disattesa persecoli: le catapecchie attorno a Castelnuovocompaiono in tutte le foto d’epoca e sono stateabbattute nel Novecento. Inoltre, come tuttipossono osservare, resistono ancora brandelli,più o meno “ammodernati” per poterli riutiliz-zare, in molti punti del percorso delle mura ara-gonesi; ad esempio in via Rosaroll, in viaCarriera Grande, fino all’ex-caserma Garibaldi,già convento di San Giovanni a Carbonara. Gli Aragonesi nell’ambito degli interventi diedilizia militare rivolsero una particolare atten-zione a Castelnuovo. Le parti alte delle alte e snelle torri cilindrichelasciate dagli Angioini, con i nuovi mezzi d’as-salto erano bersaglio dei cannoneggiamenti, e,crollando, cadevano rovinosamente sui difen-sori; le merlatura dietro cui sparare erano fra-gili; i fossati non servivano più a niente, vistoche si aggrediva bersagliando da lontano. L’ar-chitetto catalano Guglielmo Sagrera trasformò

la struttura angioina in forma in trapezoidale,l’arricchì di cinque massicce torri angolari, ci-lindriche basse, di uguale altezza dei muri la-terali del castello, rivestite di piperno, atte aschivare i colpi o assorbirli meglio; creò unforte basamento a scarpa per rendere difficilela scalata, e un corridoio merlato che tagliaorizzontalmente il castello (il “rivellino”) die-tro cui poter usare meglio le armi da fuoco. Iltutto circondato da bastioni, oggi demoliti, checoprivano le aree delle attuali via Acton, viaParco del Castello e parte di piazza Municipio.

Oltre alle mura, torri ebastioni, Sagrera co-struì la sala dei Ba-roni, nel mentreFrancesco Lauranacreava l’Arco diTrionfo che celebraval’ingresso trionfale diAlfonso I a Napoli.Uno dei bassorilievidell’Arco fotografa ilcorteo trionfale men-tre passa per l’Agorà

mostra che all’avvento degli Aragonesi la cittànon doveva essere cambiata molto al suo in-terno rispetto ai secoli precedenti. L’eredità architettonica aragonese riguarda leopere eseguite nel periodo di loro domina-zione, che coincide con quella del Rinasci-mento. Il Rinascimento napoletano, sebbene d’impor-tazione, sviluppò un carattere architettonicotutto proprio, grazie alla presenza di artisti ca-talani e all’apporto di artisti toscani. La pre-senza locale si limitava essenzialmente a bravimaestri murari e abili artisti scalpellini. Fu unastagione breve, ma molto produttiva, che peròfiorì solo nell’ambito dell’interessamento delsuo promotore e committente, Alfonso il Ma-gnanimo, il quale, comunque, promuoveva artee cultura per sua glorificazione. Per la verità,come facevano le coeve varie Signorie dellapenisola. Le testimonianze superstiti di quella stagionenell’assetto urbano oggi sono scarse, ma di altaqualità. All’esplosione delle fabbriche religiose

Le Mura aragonesi: Porta Capuana

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angioine seguì la costruzione degli imponentipalazzi nobiliari lungo il decumano inferiore.In essi, al di sotto delle sovrapposizioni e tra-sformazioni successive, possiamo ancora co-gliere l’originalità del carattere stilistico delrinascimento architettonico napoletano, dovutoalla contaminazione dielementi della classicitàportati dai toscani,come ad esempio nelportale marmoreo clas-sicistico del palazzo diDiomede Carafa in viaSpaccanapoli oppurenei bugnati dello stessopalazzo Carafa, di pa-lazzo Cuomo in viaDuomo, oggi Museo Fi-langieri o nel palazzo ex-Sanseverino, oggiGesù Nuovo. Gli Aragonesi costruirono poche chiese, fra cuiquella di Santa Caterina a Formiello, dallabella facciata rinascimentale, ma in compensoci hanno lasciato molti chiostri conventuali,nei quali oggi c’imbattiamo, come ad esempioquelli dell’ex-convento di Monteoliveto o diSanta Maria La Nova.I regnanti aragonesi costruirono, in città, perse stessi, grandiose ville, oggi scomparse: la“Duchesca” (cioè “del duca”, nella zona attual-mente nota con questo nome); le tre residenzeconosciute con il nome di “delizie alfonsine”(La “Conigliera”, di cui è rimasto qualcosaall’inizio del Cavone, nel palazzo di via Lupe-rano 7, la “Ferrantina”, nella zona corrispon-dente all’attuale Liceo Umberto I e la villa di

Poggio Reale, cioè su un “poggio”, una colli-netta, ad uso del re, “reale”).Quindi “Poggioreale”, sinonimo di ultima di-mora e di carcere, alla fine del Quattrocentoinvece era un luogo di delizia, ameno e pano-ramico, dove Alfonso nel 1487 cominciò la co-

struzione della villa suprogetto dell’architettotoscano Giuliano daMaiano (già autore diPorta Capuana e del-l’ampliamento dellemura difensive), unavilla molto estesa, conun parco lussureg-giante, ricca di fontanee giochi d’acqua, “sdo-ganando” quindi urbani-

sticamente una zona che fino a poco prima,cioè fino alla bonifica eseguita con l’incanala-mento delle acque, era una palude.Attorno alla villa cominciò a sorgere il borgodi Poggioreale, che a partire da Ferrante II co-minciò a decadere assieme alla villa. In occasione della peste del 1656 gli scantinatie le grotte della villa ubicate dove sorgerà lachiesa Santa Maria del Pianto, furono riempitedi salme, dando così inizio all’attuale triste“destinazione d’uso” della zona. La stagione architettonica rinascimentale, nellasua fase cinquecentesca di passaggio verso iltardo Rinascimento e poi il barocco, prose-guirà dopo gli Aragonesi con la stagione poli-tica dei viceré spagnoli. Ma questa è un’altrastoria.

Le Mura aragonesi: Porta Nolana

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Il Rievocatore

augura a tutti i lettori

buon Natale

e

felice Anno 2018

Antonietta Righi,Natività

(Procida 2015)

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IL PROCESSO E LA CONDANNA A MORTEDI TOMMASO MORO. 2

di Orazio Dente Gattola

6. Nel 1535 entra in vigore l’atto sui tradimentiin virtù del quale

«chiunque dolosamente – da solo od in concorso conaltri con parole o con scritti intenda, si proponga o desi-deri, o di fatto progetti, trami, tenti o perpetri alcunchéinteso a recare fisicamente danno alla regale persona delRe, della Regina o dei loro legittimi eredi, od a privarli,o a privare qualsivoglia di loro, della dignità, il titolo ogli appellativi della loro regale condizione; o calunnio-samente e dolosamente propagandi o asseveri esplicita-mente con parole o con scritti che il Re nostro sovranoe signore è eretico, scismatico, tiranno, fedifrago o usur-patore della corona; che dunque, a partire dal predetto10 febbraio [1535 n.d.a.], chiunque, da solo od in con-corso con altri, incorra in qualsiasi dei su elencati de-litti… come pure i suoi complici, conniventi, istigatorie favoreggiatori – sia giudicato reo di tradimento; e chequalunque dei reati sopra indicati perpetrato o com-messo dopo il detto lo febbraio sia considerato, ricono-sciuto e giudicato alto tradimento; e che i rei….. abbianoa ricevere e subire la pena di morte… nelle forme e imodi stabiliti e consueti nei casi di alto tradimento».

I passaggi fondamentali che porteranno Tom-maso Moro sul patibolo sono sostanzialmentedue: la privazione anche della regina della di-gnità e la calunniosità, tra l’altro, delle accuseal re di essere fedifrago dalle quali si coglie ap-pieno quali siano le motivazioni di fondo chespingono il re e l’intera chiesa d’Inghilterraallo scisma.Per ben due volte nell’atto si dice che anche leparole possano integrare gli estremi del tradi-mento.

Nei confronti di Moro e del vescovo Fisher,nominato cardinale alla vigilia dell’esecuzionedurante la sua prigionia nella Torre, si andòoltre l’atto sui tradimenti facendosi ricorso allaprocedura della proscrizione che consentiva unprocesso senza prove legali e ciò per evitareche emergesse che in realtà i due non si eranomacchiati di nessun reato.Il 28 giugno 1535 la commissione di inchiestadell’alta corte di giustizia dichiarò legittimal’accusa nei confronti dell’ex-cancelliere e lorinviò a giudizio per il 1° luglio.L’atto di accusa si conclude con una condannaanticipata:

«Per questi motivi, la predetta Commissione inquirentedichiara che il sunnominato Tommaso Moro perfida-mente, proditoriamente e dolosamente ha di fatto pro-gettato, tramato, tentato e perpetrato di privareinteramente il predetto serenissimo Re nostro sovranodei suddetti dignità, titolo e appellativo della sua regalecondizione – e cioè della sua dignità, titolo e appellativodi capo supremo della Chiesa inglese sopra la Terra – amanifesto spregio dello stesso Re e sovrano e detrimentodella sua regale corona, contro la forma e gli effetti deipredetti Statuti e contro la pace dello stesso Re e so-vrano».

All’epoca si partiva dal presupposto della col-pevolezza dell’imputato, gli si negava l’assi-stenza di un difensore o di portare prove a suodiscarico e di prendere visione di cosa era ac-cusato, fatto questo che apprendeva solo con lalettura dell’imputazione. Quanto all’indipen-

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denza dei giudici erano prassi costante le pres-sioni perché emanassero verdetti graditi al re.Quanto fossero indipendenti i giudici lo dimo-stra questo passo della Paris News Letter unodei resoconti dell’epoca:

«Messer Tommaso Moro, già Lord Cancelliere d'Inghil-terra, venne condotto il 1° luglio 1535 davanti ai giudicidelegati dal re. E dopoche in sua presenzavenne data letturadelle imputazioni edelle allegazioni a suocarico, il Lord Cancel-liere e il duca di Nor-folk gli si rivolserocon queste parole:“Messer Moro, vedetebene che siete colpe-vole di un grave de-litto di lesa Maestà;tuttavia, la generositàe la clemenza del resono tali da indurci aconfidare che, se vor-rete pentirvi e ritrat-tare la caparbiaopinione [emerge quiancora una volta comequello attribuito aTommaso Moro fosse un reato di opinione] in cui avetecosì temerariamente persistito, potrete ottenere il suograzioso perdono”».

Per quanto è dato dedurre dagli atti e dai reso-conti che ci sono pervenuti la linea di difesache Moro assunse fu quella di rivendicare ilprimato della coscienza per cui ognuno devescegliere tra l’osservanza della legge di Dio equella degli uomini.

«Risposi che secondo la mia coscienza, quello era uncaso in cui io non ero tenuto a obbedire al sovrano, dalmomento che qualunque cosa ne pensassero gli altri (lacui coscienza e dottrina io non volevo condannare nepretendevo di giudicare) per la mia coscienza la veritàsembrava stare dall'altra parte. E la mia coscienza in ma-teria io non me l'ero formata precipitosamente o alla leg-gera, ma attraverso un lungo arco di tempo e unminuzioso esame della questione».

L’offerta del perdono rientrava nella prassi giu-diziaria dell’epoca e ad essa Moro rispose:

«Signori vi ringrazio di cuore della vostra benevolenza.Tuttavia, prego Dio Onnipotente che voglia mantenermifermo in questa mia giusta opinione cosi che io possa

perseverarvi fino alla morte. Quanto ai reati di cui mifate carico, i capi d'imputazione sono cosi lunghi e pro-lissi che io temo che, anche a causa della lunga incarce-razione e della grave malattia e spossatezza di cui soffroattualmente, non avrò ne prontezza, ne memoria, nevoce atte a darvi delle risposte esaurienti ».

La vicenda del divorzio è stata la causa princi-pale della con-danna a mortedell’ex-cancellieredal momento chel’atto sulla supre-mazia ne costitui-sce la naturale elogica conclu-sione.In effetti essasorge in un mo-mento nel qualeMoro non rivesteancora la carica dicancelliere, comeegli stesso scrivein una lettera del1534 diretta aCromwell. Il

primo colloqui sul punto risale al settembre del1527 al ritorno da un’ambasceria a Calais dovesi era recato al seguito del Cardinale Wolsey,suo predecessore nella carica.Apparentemente questo primo colloquio, alpari di altri che seguiranno, si conclude in unamaniera che non lascia presagire il drammaticoepilogo della vicenda: Enrico VIII aprì la Bib-bia e lesse i passi che, a suo avviso, conforta-vano la sua tesi ottenendo questa risposta,stando alla lettera a Cranmer,

«Allora io, pur non essendo certo così presuntuoso dacredere che Sua Altezza dovesse prendere il mio poverogiudizio in una materia tanto grave a prova della fonda-tezza o meno di quella tesi, tuttavia, ritenendo mio do-vere ubbidirgli, gli esposi il mio pensiero sui passi chemi aveva fatto leggere. Sua Altezza ascoltò benevol-mente quella mia improvvisata e non approfondita ri-sposta, e mi ordinò di consultarmi con messer Fox dapoco nominato suo Elemosiniere, e di leggere con lui unlibro che si stava allora scrivendo sull’argomento».

Quanto al merito della questione egli, due annidopo, ebbe modo di precisare di non avere ti-

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Antoine Caron, Arresto ed esecuzione di Tommaso Moro(Castello di Blois)

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tolo per esprimersi sul punto dato che si trat-tava di un ordinario processo canonico.Questa precisazione da parte di un esperto giu-rista, quale era Moro, chiarisce il perché il di-vorzio costituisca l’antecedente dell’atto disupremazia.Visto il continuo tornare sul punto da parte delre Tommaso Moro, che nel frattempo era dive-nuto cancelliere, si tenne al difuori della que-stione non ritenendo di poter mutare avvisocome testimonia quest’altro passaggio dellalettera a Cromwell:

«Da allora, io non ebbi più alcuna parte nella questione;né mai ho scritto né prima né dopo una sola parola in ar-gomento che fosse contraria alla tesi di Sua Grazia, neho mai istigato alcuno a farlo; ed anzi, disponendomicon tranquillità d'animo a servire Sua Grazia negli altricompiti da lui affidatimi, non ho più voluto neppureguardare o tenere scientemente davanti a me nessunlibro della tesi contraria, non facendo invece nessunadifficoltà a leggerne vari altri che vennero scritti a favoredella sua tesi».

Davanti alla Corte Tommaso Moro ritiene didoversi difendere unicamente sul punto del si-lenzio da lui tenuto dichiarando:

«E in primo luogo – quanto all'accusa che, interrogatoda monsignore il Segretario del re e dall’onorevole Con-siglio di Sua Maestà su quel che io pensassi di quelloStatuto, non ho voluto rispondere se non che, essendoormai morto al mondo, non pensavo più a quelle cosema soltanto alla Passione di Gesù Cristo – io vi dico cheper quel mio silenzio il vostro Statuto non può condan-narmi a morte: perché ne il vostro Statuto ne alcun’altralegge al mondo può condannare qualcuno se non per lesue parole o i suoi atti, e non per il suo silenzio».

Non essendogli stato mai contestato di averecercato di fare proseliti o di avere mai incitatoalcuno ad assumere posizioni contrarie a quelledel re appare chiaro che quello che si intendevafare era negargli, in ragione della propria no-torietà, il proprio diritto al dissenso che, però,non si era mai tradotto in azioni o in parole re-stando confinato nel chiuso della propria co-scienza.Lo dimostra la lettura del passo seguente nelquale si legge:

«E, conclusi, ormai ho decisamente allontanato dallamia mente tutte quelle questioni e non ho alcuna inten-zione di rimettermi a discutere sulle prerogative del re o

su quelle del papa; e tuttavia sono e sarò sempre un sud-dito fedele del re, e ogni giorno prego per lui e per tuttii suoi, e per tutti voi che formate il suo nobile Consiglio,e per tutto il suo regno. E quanto al resto, non desideropiù in alcun modo occuparmene. Messer Segretario re-plicò che era convinto che il re non si sarebbe ritenutopago e soddisfatto di una simile risposta, e che nonavrebbe mancato di esigerne una più precisa [...]. Equanto all’oggetto del loro interrogatorio, ripetei più omeno quel che avevo già detto: che avevo fatto propositocon me stesso di non dedicarmi ne mischiarmi più allecose del mondo, e che d’ora in poi il mio unico pensierosarebbe stato la Passione di Cristo e il mio passaggio daquesta terra. Aggiungendo: io vi dico che, in materia dicoscienza, il suddito leale è tenuto, più che a ogni altracosa al mondo, alla propria coscienza e alla propriaanima: sempre che la sua coscienza, come la mia, nonsia promotrice di diffamazione o di sedizioni contro ilsuo principe: ed io vi assicuro che la mia coscienza ionon l’ho rivelata a persona vivente».

Addirittura egli rivendica questo suo diritto ini-zialmente con la prediletta figlia Margarethscrivendole: «Quei punti non li posso trattaresenza svelare la mia coscienza».

7. Per giungere alla condanna si ricorse allafalsa testimonianza.Nel momento di maggior debolezza per Tom-maso Moro e cioè nel momento in cui egliviene privato dei libri, dopo gli era stata pre-clusa la possibilità di vedere i suoi, si fece inmodo da far entrare nelle sua cella RichardRich il quale cercò di farlo cadere in trappolafingendo di intrattenere con il prigioniero unaconversazione sui poteri del re e sull’atto di su-premazia. Il contenuto di questa conversazionevenne riferito ai giudici in maniera distorta. Ri-ferisce sul punto John Roper, genero dell’im-putato per averne sposato la figlia Margarethed autore della prima sua biografia:

«Allora, per provare ai giurati che sir Tommaso Moroera colpevole di tradimento, fu chiamato messer Richperché ne rendesse testimonianza sotto giuramento. Eglilo fece; ma, a confutazione delle sue parole, sir Tom-maso Moro dichiarò: “Signori, se io fossi un uomo chedà poco peso a un giuramento, voi lo sapete, non sareicostretto a trovarmi qui, ora, in questo processo, sulbanco degli accusati. E se il vostro giuramento, messerRich, risponde a verità, allora io prego Dio che mi sianegato in eterno di contemplare il Suo volto: ciò che al-trimenti non direi, dovesse valermi la conquista delmondo”. Poi, riferii alla Corte tutta la conversazione

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avuta con Rich alla Torre, così come si era svolta real-mente».

Questo è il resoconto fatto, appunto da Roperche aggiunge:

«Qualche tempo dopo, messer Rich [piu tardi lord Rich],che era stato da poco nominato Procuratore generale. sirRichard Southwell e un certo messer Palmer, uomo difiducia del Segretario [Cromwell], furono mandati da sirTommaso Moro alla Torre con l’incarico di togliergli ilibri. E mentre sir Richard Southwell e messer Palmererano occupati a radunarli, messer Rich, mostrando divoler conversare amichevolmente con sir TommasoMoro. ma in realtà obbedendo a un suo piano ben pre-ciso, in via di discorso gli disse: “Dato che voi, messerMoro, siete universalmente conosciuto per la vostra sag-gezza e la vostra cultura, profondissima sia nelle leggidel nostro paese che in ogni altro campo, permettetemidi essere così ardito da osare di sottoporvi questo que-sito: supponendo che per un Atto del Parlamento tutta lanazione dovesse riconoscermi re, voi, messer Moro, nonmi riconoscereste quale vostro sovrano?” “Sì, signore –rispose sir Tommaso Moro – vi riconoscerei senz’altro”.“Allora – continuò messer Rich – vi proporrò un altrocaso: che per un Atto del Parlamento tutta la nazione do-vesse riconoscermi papa. In tal caso voi, messer Moro,non mi riconoscereste come papa?” “In risposta al vostroprimo quesito, signore, – precisò sir Tommaso Moro –vi dirò che il Parlamento è nel suo diritto a intromettersinelle questioni che riguardano il potere politico dei prin-cipi; ma in risposta al vostro secondo quesito, a miavolta ve ne proporrò un altro. Supponete che il Parla-mento stabilisca per legge che Dio non sia Dio. In talcaso, voi, messer Rich, dichiarereste che Dio non èDio?” “No, signore – fu la sua risposta – non lo farei,perché nessun Parlamento ha il potere di emanare unalegge simile”. “E neppure – replicò sir Tommaso Moro– avrebbe il potere di costituire il re capo supremo dellaChiesa”».

Quest’ultima parte, stando a quanto risultadalle fonti, venne aggiunta da Rich, che in se-guito venne ricompensato con il titolo di lord,provocando la reazione dell’accusato dellaquale si è detto a fronte di quella che nellaforma e nella sostanza era una vera e propriafalsa testimonianza.La deposizione resa da Rich non trovò con-ferma in quelle rese dagli altri presenti i quali,con varie sfumature, dichiararono di non avereprestato attenzione a quanto si erano detti i due.Venne quindi chiamata la giuria che in brevetempo emise il verdetto.

8. A questo punto la procedura vigente al-l’epoca avrebbe voluto che si fosse data la pa-rola all’accusato perché potesse portareelementi a sua discolpa. Il Lord Cancelliere,desideroso di chiudere tutto in fretta stava giàpronunciando la sentenza quando fu interrottoda Tommaso Moro il quale dichiarò:

«Vedendo che (Dio sa in qual modo) avete deciso di con-dannarmi, desidero adempiere alla mia coscienza e direchiaro e aperto il mio pensiero riguardo la mia incrimi-nazione e il vostro Statuto. L’incriminazione è basata suun Atto del Parlamento che contrasta direttamente conle leggi di Dio e della sua Chiesa, in quanto la supremagiurisdizione della Chiesa o di una sua parte non può ve-nire avocata a sé, con nessuna legge, da nessun principetemporale, appartenendo di diritto alla Sede di Roma perquel primato spirituale trasmesso per singolare privile-gio a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi di quellaSede, dalla parola stessa di Cristo nostro Salvatore altempo della Sua presenza su questa terra. Esso mancadunque di fondamento giuridico per far incriminare uncristiano da parte di altri cristiani. E a prova di ciò, fraaltre argomentazioni e citazioni, spiegò che il regnod’Inghilterra, non essendo che una piccola parte e un sin-golo membro del corpo della Chiesa, non può promul-gare una legge particolare in contrasto con la leggegenerale della Chiesa cattolica, l’universale Chiesa diCristo… E ancora disse che tutto ciò era contrario alleleggi e agli Statuti del nostro paese – che mai erano statiabrogati – come si può chiaramente rilevare nella MagnaCharta, là dove sta scritto: “Quod Ecclesia Anglicanalibera sit et habeat omnia iura sua integra et libertatessuas illaesas”; e che per di più era in contrasto col sacrogiuramento con cui il re, come ogni altro principe cri-stiano, si impegna solennemente all’atto dell’incorona-zione. E aggiunse inoltre che il regno d’Inghilterra nonpotrebbe mai rifiutare obbedienza alla Sede di Roma,così come un figlio non può rifiutare obbedienza al pro-prio padre naturale».

Le fonti delle quali disponiamo (tra tutte il rac-conto del genero J. Roper e la Paris News Let-ter) concordano sul punto, salvo che suqualche dettaglio di poco conto, per cui pos-siamo ritenere attendibile la ricostruzione delledichiarazioni di Tommaso Moro.È evidente che questi ha abbandonato la lineadel silenzio che aveva seguito sino a quel mo-mento.Ormai il suo destino è certo. La volontà divinagli è chiara e non v’è più ragione di persisterenell’atteggiamento tenuto sino a quel mo-mento.

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Con grande serenità egli si rivolse ai suoi giu-dici per l’ultima volta dicendo loro:

«No, signori, non ho più niente da aggiungere se nonche – come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paoloera presente e consenziente alla morte di santo Stefanoed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano:eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù sa-ranno amici per sempre. Così, io fermamente confido –e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che,benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici dellamia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti in-sieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna sal-vezza. E allo stesso modo io prego Dio Onnipotente diproteggere e difendere la Maestà del re e di concedergliil suo buon consiglio».

Sin sul patibolo egli ebbe parole di ossequioverso il sovranoAllorché il duca di Norfolk gli contestò checon tali parole egli dava la prova del suo doloMoro rispose:

«No, no è la pura e semplice necessità che mi imponedi parlare cosi a lungo, per adempiere alla mia co-scienza. E ne chiamo Dio a testimone, il cui sguardo, esolo il suo, sa penetrare nel profondo del cuore degli uo-mini. Del resto, non è tanto per questa Supremazia chevoi esigete il mio sangue, quanto perché non ho volutoconsentire al matrimonio del re».

Tommaso Moro intese riaffermare da un lato ilprimato del Papa e con esso l’unione con laChiesa romana ponendo in risalto come anni distudio del problema lo avessero condotto allaconclusione che nulla autorizzava a ritenereche il re potesse invadere sfere non sue e dal-l’altro quali fosse la causa prima della sua con-danna.Tuttavia egli rimase sino all’ultimo fedele alsuo re e ritenne che nulla autorizzasse il venirmeno all’obbligo di fedeltà cui era tenuto ognisuddito ed evitò sempre di fare o dire qualsiasicosa che potesse suonare incitamento, direttood indiretto, a violare tale obbligo.

9. Rispose ai suoi inquisitori che gli chiede-vano

«perché, visto che mi era indifferente continuare a vi-vere, come avevo affermato, non dichiarassi aperta-mente che lo Statuto era illegale. In ciò era implicito che,nonostante le mie dichiarazioni, io avevo paura dellamorte. Quindi risposi, secondo verità, che non ero unuomo di cosi santa vita da potermi offrire arditamente

alla morte, senza temere che Dio, per punire la mia pre-sunzione, potesse permettere ch’io mi arrendessi. Ed eraper questo che non avanzavo, ma indietreggiavo. Ma chese fosse Dio stesso a chiamarmi, mi sarei affidato allaSua grande misericordia per ottenere la grazia e la forzanecessarie». (lettera del 3 giugno 1535 alla figlia Mar-gareth).

Non è possibile comprendere il comporta-mento di Tommaso Moro nella vicenda che locondusse sul patibolo se non leggendo il libroche egli scrisse allorché era già detenuto nellaTorre e che rimase incompiuto allorché gli fu-rono tolti i libri e i mezzi di scrittura: Nell’ortodegli Ulivi il cui sottotitolo è Expositio passio-nis domini.In tale opera egli ripercorre la passione del Cri-sto e dice quale debba essere l’atteggiamentodel cristiano dinanzi alle persecuzioni ed allamorte.

«Ma qui forse qualcuno potrebbe obiettare che ci si stu-pisce non tanto che Egli abbia potuto provare quei sen-timenti, quanto che l'abbia voluto. Proprio Lui, cheaveva insegnato ai discepoli a non temere coloro chepossono uccidere il corpo , ma oltre a ciò non hannoalcun potere, proprio Lui ora se ne mostrava atterrito,benché sapesse che nessun potere i suoi nemici avreb-bero avuto sul suo corpo se non fosse stato Lui stesso apermetterlo?… Proprio Lui, che in tutte le altre cose,prima che con le parole aveva insegnato con l'esempio,non avrebbe dovuto farsi modello agli altri soprattuttoin questo frangente, perché imparassero da Lui a subireintrepidamente la morte in nome della verità? Con quellasua debolezza dava invece un pretesto a quanti avesseroesitato e vacillato davanti alla morte per la fede, auto-rizzandoli a sentirsi giustificati dall’esempio del lorostesso Maestro… Egli non chiedeva loro di non averneaffatto, ma di non averne in misura tale da fuggire lamorte che dura un solo istante per precipitare, rinne-gando la fede, nella morte eterna... Così il nostro Salva-tore Cristo, anche se ci comanda – quando sia ciòinevitabile – di essere pronti a morire piuttosto che se-pararci da Lui per paura della morte (e ci separiamo daLui se ne rinneghiamo pubblicamente la fede), tuttaviaè tanto lontano dal comandarci di far violenza alla naturae di non temere affatto la morte, che, quando ciò sia pos-sibile senza tradire la fede, ci dà facoltà di fuggire il sup-plizio: Quando vi perseguiteranno in una città – dice –fuggite in un'altra. In virtù di questo indulgente consigliodi ragionevole prudenza del nostro Maestro, quasi nes-suno degli Apostoli, quasi nessuno dei più illustri martirinel corso dei secoli, non preferì in qualche caso salvarsila vita preservandola, con grande vantaggio spiritualeproprio e di altri, fino a quando non venne il momentoche Dio, nella sua arcana provvidenza, ritenne oppor-

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tuno».

L’ulteriore passaggio del pensiero di TommasoMoro, quello che lascia comprendere le ragioniche lo determinarono ad esplicitare il suo pen-siero e ad abbandonare la linea di condotta te-nuta sino a quel momento è costituito dalrichiamo di alcuni brani di Paolo di Tarso.

«Eppure, proprio Paolo, questo fortissimo atleta che lasperanza e l'amore di Cristo avevano portato alla cer-tezza del premio celeste, tanto da dire “Ho combattutola buona battaglia, ho terminato la mia corsa [...]. Ed orami attende la corona della gloria”; e che desiderava cosìintensamente quella corona da dire: “Per me il vivere èCristo e il morire un guadagno” e “Non desidero che diessere sciolto dal corpo per essere con Cristo” proprioquello stesso Paolo si destreggiò, ricorrendo prima al tri-buno romano e appellandosi poi all’imperatore, persfuggire una prima e una seconda volta alle insidie deigiudei; mise in campo la propria cittadinanza romanaper liberarsi dal carcere; si fece calare lungo le muraentro una cesta per sottrarsi alle mani sacrileghe del reAreta… Che il suo fortissimo animo non sia stato im-mune dalla paura lo dice Paolo stesso scrivendo ai Co-rinzi: “Da quando sono giunto in Macedonia, non hoconosciuto tregua, ma ho patito sofferenze di ogni ge-nere: battaglie all'esterno, timori al di dentro”. E in un'al-tra lettera: “Sono venuto in mezzo a voi con la miafragilità e con molto timore e trepidazione”. E ancora:“Non voglio che voi, fratelli, ignoriate le immense dif-ficoltà che ho incontrate in Asia, dove sono stato provatoal di sopra delle mie forze, tanto che non desideravo piùvivere”».

La conclusione del pensiero di Moro e, dun-

que, la spiegazione conclusiva la si rinviene nelpasso, sempre dell’Expositio passionis domininel quale dice: «lasciò che si rialzassero [gli ar-mati venuti a catturarlo] perché potessero com-piere ciò che Egli permetteva che fossecompiuto».Ormai Tommaso Moro è certo di conoscere lavolontà divina e l’accetta.Ormai egli è certo che è stato Dio stesso a chia-marlo e si affida alla sua misericordia per otte-nere la forza e la grazia necessarie come ebbea scrivere il 3 giugno alla figlia esprimendo ilsenso dell’abbandono alla volontà divina:«Sarei addolorato se la mia attesa dovesse pro-trarsi oltre domani, che è la vigilia di San Tom-maso e l’Ottava di San Pietro, perché iodesidero ardentemente andare a Dio in ungiorno così propizio e adatto per me».La data alla quale Moro fa riferimento è quelladell’anniversario della traslazione della spogliedi Tommaso Becket l’arcivescovo fatto assas-sinare da un altro re di nome Enrico del qualeera stato ministro.Al termine del processo che aveva affrontatochiedendo: «Dammi la grazia, Signore di nondare più ascolto alle voci del mondo» egli sicongedò dai suoi giudici augurando loro di tro-varsi tutti insieme «a far festa in Paradiso».

(2. Fine)

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Presso il Dipartimento “Asia, Africa e Me-diterraneo” dell’Università degli studi diNapoli “L’Orientale” è stata istituita l’Asso-ciazione italiana di studi tibetani, himala-yani e mongoli, prima del genere in Italia. Ilsodalizio, la cui sede è stata posta nello sto-rico palazzo Corigliano, in piazza San Do-menico Maggiore, si propone, fra l’altro,

anche mediante convenzioni e accordi con enti e istituti pubblici e pri-vati, di promuovere la pubblicazione di volumi sulle suddette civiltà,di favorire il contatto dei cultori delle stesse con le istituzioni scientifi-che italiane e internazionali e di creare un archivio digitale di docu-mentazione sul tema.

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IL CARDINALE GIROLAMO SERIPANDOE LA RIFORMA CATTOLICA

1.- In un precedente scritto sulla riforma pro-testante, in particolare su quel movimento cheda Giovanni Valdés prese il nome di valde-siano1 e sulla rilevanza dell’attività che ne fusvolta a Napoli, s’è ricordato come BenedettoCroce2 avesse posto in risaltoche

«l’afflato della Riforma, o rina-scita religiosa, che si levava da pertutto e più spirava nella Germania,… in Napoli penetrò e infervorò eagitò gli animi non meno, e forsepiù e più largamente che in altriluoghi d’Italia”».

Sembra utile, perciò, riflet-tere ulteriormente, sia pur inbreve, su quegli echi chedella Riforma giunsero a Na-poli, anche per ricordare lagrande figura del napoletanocardinale Girolamo Seri-pando: il quale, vivendo daprotagonista nell’opposto campo della Contro-riforma gli accadimenti innescati dalla scon-volgente iniziativa di Lutero, ispirò l’opera suainfaticabile al senso d’illuminata moderazioneche caratterizzò pure un sentire diffuso nellacittà e nel Regno di Napoli in confronto diquelle sanzioni gravissime (e tuttavia conformial costume dell’epoca) che s’irrogavano nel re-

primere ciò che per la Chiesa di Roma nonaveva, né poteva avere, altro nome che d’ere-sia.L’interesse a un più attento e informato ricordodi Girolamo Seripando può venir attestato dal

fatto che appena l’annoscorso s’è ripubblicataun’opera poderosa su di lui3,dovuta a un autore – HubertJedin – del quale non ci sipuò limitare a un semplicericordo del nome. Quelgrande storico tedesco (natoa Grossbriesen – Slesia nel1900 e morto a Bonn nel1980) fu docente a Bresla-via, a Bonn e nell’Universitàdel Wisconsin; l’opera suafondamentale resta il contri-buto profondo offerto allascrittura d’una storia delConcilio di Trento: di quella

ventennale discontinua assemblea convocataper il 1543 e conclusasi nel ’63, nella quale pri-meggiò appunto, soprattutto nel corso dell’ul-tima sua tornata, l’attività del cardinale legatoGirolamo Seripando. L’autorevolezza del pen-siero di Jedin (di cui deve ricordarsi che, inqualità d’esperto, fu invitato a partecipare alConcilio Vaticano II) va ravvisata nell’origina-

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di Guido Belmonte

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lità dell’approccio alla Controriforma e ai graviproblemi che quella vicenda della vita dellaChiesa non ha mai cessato di porre agli stu-diosi. Si sa che con l’espressione “Controriforma”s’intendeva – e s’intende ancor oggi in preva-lenza – il complesso delle opere e delle inizia-tive di ricattolicizzazione dei cristiani di queivasti territori dell’Europa che la Riforma diLutero aveva sottratto alla Chiesa di Roma. Ilsignificato originario dell’espressione si assu-meva perciò, in una sua accezione negativa,come equivalente a quello di reazione dellaChiesa cattolica al Protestantesimo. Si deve aLudwig von Pastor (Aquisgrana, 1854 - In-nsbruck, 1928) e ad altri storici cattolici l’ac-corgimento opportuno d’aver sostituito aquell’espressione l’altra più appropriata di Re-staurazione Cattolica (o Riforma cattolica),assai meglio rappresentativa dell’energico,profondo e soprattutto indispensabile rinnova-mento interiore che la Chiesa di Roma seppefare di sé, rinsaldando (quando non addiritturariscoprendo) discipline e valori troppo a lungocolposamente negletti. Dalla seconda metà delsecolo scorso il concetto di Riforma cattolicaha avuto nella storiografia particolare fortunaproprio in grazia delle acquisizioni assicuratedalle ricerche di Jedin con riguardo all’epocatridentina e, in particolare, ai vescovi che aquella Riforma lavorarono a Trento. Tra i qualispicca, come già s’è detto, la grandissima fi-gura di Girolamo Seripando.2.- Prima che ci si soffermi su di essa è peròopportuno spendere ancora una sia pur breveparola sulla Controriforma. Il dilaceramento provocato dalla Riforma nelcorpo della cristianità non tardò a rivelarsi in-suscettibile d’una radicale sanatoria, tant’è cheanche in occidente, come molti secoli primaera accaduto già in oriente, finì col divenireuna mera aspirazione l’intento dei cristianid’essere tutti ricondotti in un unico gregge go-vernato da un solo pastore. E nondimeno la cat-tolicità ebbe modo di riconquistare una partedel terreno perduto, non soltanto col riuscir aprecludere al protestantesimo un’ulterioreespansione in Europa, ma con l’impedire al-

tresì (e di ciò è da trovar una conferma nel-l’esperienza di cinque secoli) che potesse an-dare a buon fine ogni tentativo di dar vita anuove, non effimere concezioni religiose inter-medie tra il cattolicesimo e il protestantesimo.La Controriforma operò, come è noto, sia nelcampo del dogma che in quello dell’organiz-zazione ecclesiastica: l’inizio può dirsene quasicoevo a quello della Riforma, mentre il terminefinale ne viene fatto storicamente coinciderecon la pace di Westfalia (1648), quando le sortireligiose dell’Europa apparvero decise con unregolamento definitivo dei confini territorialitra le confessioni.Gran parte degli esiti della Controriforma di-pesero, sul terreno dogmatico, da ciò che si di-scusse e decise al Concilio di Trento, dal qualetra l’altro partirono: la condanna del principioluterano della giustificazione per sola fede, in-dipendentemente dalle opere; il ripudio, conformula prudente, della credenza d’una prede-stinazione alla salvezza; la riaffermazione diquel libero arbitrio che persiste anche dopo ilpeccato originale.Sull’andamento dei lavori del Concilio – comeconferma la copiosa letteratura riguardantequella storica assemblea – non influì che mar-ginalmente qualche ostacolo, peraltro nongrave, postovi dall’imperatore nel prudenzialesuo intento d’evitare che, con la sconfitta mi-litare dei protestanti, si rompessero con loroanche i ponti sul terreno dogmatico e religioso.Si trattò in ogni caso di ostacoli che sepperoben superare i padri conciliari, sotto l’ispira-zione illuminata e la direzione sapiente digrandi cardinali, espressione talvolta di ordinireligiosi nei quali si polarizzavano, in seno allaChiesa, diversità di concezioni. Anche sottoquesto aspetto un profilo d’originalità presentala figura del cardinale Seripando: che, entratoa Napoli nel convento dei domenicani di S. Ca-terina a Formiello a Porta Capuana all’età diquattordici anni, se n’era poi allontanato (ofatto allontanare dai parenti) per accostarsi benpresto agli agostiniani, nel cui Ordine definiti-vamente rimase a partire dal 1507.3.- Girolamo (al secolo Troiano) Seripando eranato a Napoli4 il 6 maggio 1493. Ordinato sa-

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cerdote nel 1513, era presto divenuto segretariodel Generale dell’Ordine degli agostiniani fraEgidio da Viterbo.Nutritosi di profonda cultura, dette inizio nel1516 alla predicazione, continuando nel con-tempo gli studi di filosofia e teologia. Al 1518risalgono la sua nomina a magister studii el’inizio dell’insegnamento di teologia nell’Uni-versità di Bologna. Rientrato a Roma nel 1523e poi a Napoli, e divenuto vicario generaledell’Ordine, riprese quivi la predicazione e glistudi.Conobbe certamente Giovanni Valdés e – purescluso che potesse aver avuto particolare con-fidenza con lui –fu osservatore at-tento del movi-mento che ne preseil nome, anche inragione delle ami-cizie che mantennecon molti dei suoiseguaci (PietroCarnesecchi, Gale-azzo Caracciolo,Giulia Gonzagacon la quale ebbeun’attiva corrispondenza) e della parentela chelo legava al valdesiano Mario Galeota (lamadre del Seripando era una Galeota). A te-nerlo lontano dal movimento di Valdés fu na-turalmente la solida sua ortodossia, che nonrendeva peraltro meno vivo in lui l’auspiciod’una profonda riforma di cui la Chiesa catto-lica mostrava all’evidenza di aver bisogno. Di-venuto priore generale degli agostiniani nel1538, cominciò di fatto a preparare una tale ri-forma all’interno del proprio Ordine, effet-tuando una visita scrupolosa di tutti i suoimonasteri in Italia, Francia e Spagna, che l’im-pegnò dal 1539 al 1542. Al rientro in Italia,convocatosi nel 1543 il Concilio di Trento, Se-ripando cominciò a parteciparvi con un’attivapresenza alle consulte e ai preliminari lavoridell’assemblea. Nei suoi interventi sostennefermamente il valore della predicazione e lanecessità che la si affidasse ai regolari. Fu in quel periodo che il Seripando propose al

Concilio la discussione sul tema della doppiagiustizia, in relazione al quale non potrebbe ne-garsi che avesse ammesso, naturalmente in unben preciso contesto che chiaramente negavail valore salvifico della «sola fides», il princi-pio della giustificazione per la fede. Peraltro laproposizione come formulata dal Seripandonon ebbe l’approvazione del Concilio (nelcorso della sua prima tornata svoltasi tra il1546 e il 1547).Rientrato a Napoli nel 1550, il Seripando ri-prese i suoi studi, rifiutando l’offerta della cat-tedra vescovile di Aversa e rinunciando altresìalla nomina a generale dell’Ordine (1551). Fu

in quel periodo chevenne da lui fon-data la bibliotecadi San Giovanni aCarbonara. Da Na-poli, però, fu ne-cessario che dinuovo egli s’allon-tanasse per unamissione diploma-tica da svolgere aBruxelles pressol’imperatore Carlo

V. Ottenne, al ritorno dalla missione, l’arcive-scovado prestigioso di Salerno5, che mantennedal 1554, rifiutando la cappellania maggioredel Regno di Napoli, offertagli nel 1560. In quell’anno – chiamato a Roma da un brevedi Pio IV – fu nominato inquisitore; e l’annodopo gli venne conferita la porpora cardinali-zia, che già da lungo tempo (1544) gli si auspi-cava. Risale a quel periodo la fondazione dellatipografia vaticana (affidata a Paolo Manuzio)alla quale il Seripando, col diffondersi di edi-zioni protestanti dei libri sacri in area cattolica,intendeva affidare la diffusione di edizioni ca-noniche di quei testi.Il 25 marzo 1561 lo si nominava legato ponti-ficio al Concilio di Trento: città per la qualeSeripando partiva, dando subito inizio a un in-tenso lavoro preparatorio, mirato in particolarea risolvere con formule conciliative tesi in con-trasto che si venivano proponendo.S’era quasi pervenuti, al tempo di quella no-

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mina, alla fase terminale dei lavori del Conci-lio, che Seripando contribuì a condurre a ter-mine impegnandovisi con particolare energia.Riuscì a ottenere infatti, nel 1562, che soltantoi legati potessero proporre i temi sui quali de-liberare (e ciò senza rifiutare, al tempo stesso,suggerimenti che potessero provenire dai pre-lati); e fece adottare il principio della votazioneper testa, vincendo un’irritata opposizione deivescovi stranieri (in particolare i francesi), ilcui voto, essendo in minoranza, soccombeva aquello della maggioranza di vescovi italiani. Sideve a lui, con l’insistenza presso la Curia ro-mana per la stampa di una bibbia cattolica, lapreparazione degli schemi per i lavori delle seicommissioni di riforma riguardanti: gli ordini,il matrimonio, il regime della Chiesa, i mona-steri, i teologi minori, la messa.Il logorio fisico che procurò al Seripando unlavoro così intenso incise, col rigore del clima,sulla sua malferma salute. Alla morte, che so-praggiunse a Trento il 17 marzo 1563, nonaveva ancora raggiunto i settant’anni. Il Con-cilio, arrivato alla XXII sessione, non s’eraconcluso; e il Papa provvide a sostituire il Se-ripando col cardinale Giovanni Morone, in-viato al Concilio anche come legatodell’imperatore. A Trento il Seripando fu se-polto nella chiesa agostiniana di San Marco6.4.- Nel riconsiderare i momenti che più inten-samente caratterizzarono l’infaticabile attivitàdel Seripando in quel periodo di profondo tra-vaglio della cattolicità, distintamente s’avvertecome da essa emergano i tratti della personalitàinconfondibile d’un grande pastore che, in unfedele servizio alla madre Chiesa, seppe amarlacosì com’era, con tutte le sue innascondibilirughe, accompagnandone il cammino con undevoto impegno filiale, sempre provvidamenteispirato dal proposito coraggioso di accostarealla tradizione, alla quale occorreva restar fe-deli, tutto ciò che di valido l’esperienza delnuovo potesse aver suggerito per accrescere lavitalità e il prestigio di un’istituzione «imma-gine della Città Superna».Un proposito, quello del Seripando, la cui at-tuazione esigeva che alla profonda culturas’accompagnasse una consumata assuefazione

alla pratica di governo, nelle molteplici e piùsvariate mansioni alle quali proficuamente laChiesa di volta in volta lo preponeva. Una cul-tura che, pur mirata prevalentemente alla pa-dronanza dei rami del sapere connaturali allaformazione perfetta d’un religioso (della teo-logia – come s’è ricordato – Seripando fu giàda giovane docente a Bologna), non trascuravadi riservare un’attenzione tutt’altro che super-ficiale anche a materie diverse: come il diritto(peraltro praticato da componenti della sua fa-miglia, appartenente alla nobiltà di toga), la let-teratura. A proposito di questa Jedin7 ricordacome il Seripando approfonditamente ne con-versasse con insigni umanisti; e in particolarecon Garcilaso de la Vega8, il giovane poeta spa-gnolo che dal 1532 visse per qualche tempo aNapoli, giuntovi al seguito di don Pedro de To-ledo, e al Seripando s’era legato con un’amici-zia così solida da non poter esser messa inpericolo – come scherzosamente egli diceva -dal «misfatto» di una «lunga pigrizia nello scri-vere». Fu proprio su richiesta di Garsilaso cheSeripando – come ancora Jedin ricorda9 – s’in-dusse a scrivere un trattatello su una massimadi Cicerone, esponendovi la propria opinionesui principi dell’arte del tradurre, con un parti-colare riferimento a Orazio. Altrettanta amici-zia va ricordato che il più giovane Seripandomanifestasse a Jacopo Sannazaro (Napoli,1457-1530).Il convivere, nell’impegno di studioso del Se-ripando, d’un innegabile vigore dell’intuitospeculativo con il proposito di rendere semprepiù gli esiti d’ogni sua ricerca (teologica, filo-sofica) funzionali al perseguimento dell’altamissione che egli era chiamato a svolgere nellaChiesa emerge per più d’un aspetto. I temidella fruttuosa speculazione teoretica dello stu-dioso furono sovente quegli stessi scelti dal sa-cerdote per la predicazione: della quale – comeprima s’è detto – sostenne in concilio l’altis-simo, insostituibile valore. Nel formulare e il-lustrare le sue proposizioni Seripando -– comenota Jedin10 – non cercò mai

«la forma per amor di essa…, e perciò non soggiacquemai all’appiattimento spirituale come … altri umanisti».

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E per converso – è sempre Jedin a notarlo11 –il Seripando

«generale dell’Ordine, … lo scrittore teologico, il pre-dicatore e il patrologo non si possono immaginare senzaquella formazione linguistica che non attinge a nessu-n’altra fonte così limpidamente come alla letteratura an-tica».

A quell’armonioso convivere di cui si dicevaripugna naturalmente ogni tentazione d’acco-starlo a un pur necessario pragmatismo del-l’uomo di chiesa o a una tendenza del teologoal sincretismo. Le considerazioni che al suopensiero riserva il biografo qui ripetutamentecitato rivelano a sufficienza come le soluzionidate dal Seripando alle «questioni» che egli an-dava di volta in volta proponendo venisserofondate sugli esiti solidissimi d’un suo appren-dimento da grandi maestri, che fossero espres-sione del pensiero laico (si pensi per esempioad Agostino Nifo) o di quello religioso (fraEgidio da Viterbo)12. La sua particolare atten-zione al pensiero di Agostino non gli impedi-sce, quando è necessario, d’interpretarlo allaluce dell’insegnamento di Tommaso d’Aquino:conferma, peraltro, della fondatezza di quel-l’adagio secondo cui Augustinus eget Thomainterprete.Il tratto fondamentale della personalità del Se-ripando va perciò ravvisato soprattutto nel-l’equilibrio che s’ammira tra i tanti profili delsuo multiforme servizio a una Chiesa affetta damalanni profondi. Il suo biografo scrive cheper quei malanni egli soffrì profondamente, ge-mendo

«sotto il peso della colpa che il clero e il popolo avevanoaccumulato su di sé per i loro peccati».

Gli abusi erano stati troppi e troppo radicati,così che

«soltanto una riforma risolutiva, sostenuta da un rinno-vamento della vita religiosa del clero e del popolo,avrebbe potuto eliminarli».

Vi si sarebbe riusciti? Afferma Jedin che

«nonostante facesse parte egli stesso del movimento diriforma, Seripando non riusciva ancora a prevederne ilsuccesso. Vedeva come montagne gli ostacoli che si op-ponevano alla riforma. Vide inoltre gli orrori del Saccodi Roma e della guerra di Lautrec, che a lui sembrarono

essere una punizione di Dio sull’Italia rinascimentale …Aveva la vaga sensazione di trovarsi in una svolta epo-cale … Una simile atmosfera non poteva non influireprofondamente su tutto il suo sviluppo interiore. Le di-sgrazie che intorno al 1530 colpirono sia il suo popoloche lui personalmente hanno favorito l’allontanamentodall’“otium litterarum”, lo hanno rafforzato nel suo la-voro per la riforma della Chiesa e hanno tenuto svegliain lui quella serietà religiosa che costituisce lo sfondo ela premessa della sua maturazione teologica».

5.- Ai travagli della vita di Girolamo Seripandofanno riscontro le vicende riguardanti le sueopere maggiori, delle quali universalmente glisi fa merito: la biblioteca di San Giovanni aCarbonara da lui fondata13 e l’imponentissimolascito dei suoi manoscritti che vi si trovavanocustoditi. Incombeva su quei manoscritti unavera cupidigia di lettura da parte degli studiosidi tutta Europa, interessati a verificare – e al-l’occorrenza confutare – su documenti prove-nienti da uno dei protagonisti del Concilio diTrento ciò che su di esso avevano poi scrittoautori dell’elevatezza, per esempio, di un PaoloSarpi (1552-1623) anch’egli religioso, dell’Or-dine dei Serviti, autore della Istoria del Conci-lio tridentino, pubblicata in prima edizione nel1619 senza il suo consenso. La lunga, paziente,ininterrotta verifica della sorte di quei docu-menti, destinati a restar a Napoli nella biblio-teca di San Giovanni a Carbonara, rivelòpurtroppo una serie di sottrazioni: una dellequali, tra le più rilevanti, addirittura addebita-bile all’Austria, da cui Napoli fu dominata inquel viceregno non fausto che durò dal 1707all’arrivo di Carlo di Borbone (1734) e vide piùd’un sopruso della potenza occupante, con ap-propriazioni da parte sua che toccarono fin lebiblioteche, saccheggiate a vantaggio di quelladi Vienna14. Accuratamente Hubert Jedin rico-struisce i particolari di una di quelle sottra-zioni15 ricordando anzitutto che «sullacosiddetta spoliazione della biblioteca di SanGiovanni» esistono tre relazioni contempora-nee: una imperiale del custode alla bibliotecadi corte viennese, il napoletano Nicola Forlo-sia, una degli agostiniani e una del Nunzio deltempo a Napoli, Giovanni Vicentini, arcive-scovo di Salonicco. Secondo il Forlosia, pro-penso a giustificare il conterraneo direttore

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della biblioteca di Vienna Alessandro Riccardi,gli incaricati imperiali avrebbero cominciato acopiare presso la biblioteca alcuni manoscritti,ma ostacoli opposti dai monaci avrebbero pro-vocato un ordine di consegna impartito daVienna al Presidente del Sacro Consiglio Gae-tano Argento, in dipendenza del quale unaparte dei monaci fece probabilmente l’offertadi «regalare i manoscritti», mentre un’altraparte protestò. Secondo questo racconto sa-rebbe improprio perciò parlare di spoliazione,se in quella consegna dei manoscritti potessevedersi una «donazione alla biblioteca di corteviennese, con il permesso del papa».La relazione contenuta nei registri dell’OrdineAgostiniano contrasta naturalmente tanto lepoco credibili giustificazioni del Forlosiaquanto l’ipotesi d’una donazione, riaffermandola legittimità dell’opera del priore diretta a sal-vaguardare i diritti di proprietà del convento edella Santa Sede.Infine, nella relazione del Nunzio, l’asportodalla biblioteca dei manoscritti si prospettacome una violazione del diritto di proprietà edel potere di disposizione che alla Santa Sededirettamente competevano sulla biblioteca delconvento, e in particolare su quei manoscritti,anche in ragione della loro «importanza per laChiesa» (concezione questa, secondo Jedin,che, pur potendosi ritenere «difficilmente im-pugnabile» secondo le normative del XVIII se-colo, tale non sarebbe stata con riguardo altempo in cui Seripando fece il suo testamento).Sta comunque di fatto che

«già il 2 novembre 1716 il cardinale segretario di StatoPaolucci aveva incaricato il Nunzio a Vienna GiorgioSpinola d’intentare una causa per la spoliazione delle bi-blioteche napoletane e in particolare per il sequestrodegli scritti del Seripando e di esigere la restituzione ditutti i codici prelevati».

La fine della controversia s’è potuta vederesolo dopo il compimento di due secoli dal suoinizio: e probabilmente, a parte la ragionevo-lezza della contestazione, essa fu piuttosto ilfrutto della sconfitta dell’Austria nella guerra1915-18.

«I sette manoscritti ... restarono nella biblioteca della

corte imperiale fino al 1919, quando, in base al trattatodi pace di Saint Germain, furono consegnati non agli exproprietari ma al Regno d’Italia e arrivarono a Napolinella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, dovefurono uniti al corpus della Biblioteca Carbonara. In-fatti, nel frattempo, anche questa aveva cambiato il suoproprietario. Nel 1792 fu dichiarata biblioteca regia. Altermine dei disordini napoletani, dopo che il conventoaveva spostato la sua sede in una villa sul pendio del Vo-mero, fu unita anche spazialmente all’ex biblioteca dellacorte borbonica nel 1866 nella circostanza della soppres-sione dei conventi. Ancora oggi una “Sala Seripando”rimanda al suo generoso donatore»16.

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1 G. Belmonte, Riforma protestante e Valdesianesimonella Napoli del Cinquecento, in Il Rievocatore, luglio-settembre 2017, p. 11 ss.2 Nello scritto richiamato si citano: B. Croce, GiuliaGonzaga e l’Alfabeto cristiano del Valdés, in Storie eleggende napoletane, Milano r. s.d. ma 1990, p. 231 ss.;Id., Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, in Vite di av-venture di fede e passione, Milano r. s.d., ma 1989, p.197 ss.3 H. Jedin, Girolamo Seripando - La sua vita e il suopensiero nel fermento spirituale del XVI secolo, tr. G.Colombi e aa., 2 voll., Brescia 2016. L’opera originalefu edita nel 1937 (Wurzburg, Rita-Verlag u.). Nel recen-sire, su La critica del 1937, il primo volume dell’opera,Benedetto Croce affermava che «con questa monografia… la vita e l’opera di Girolamo Seripando ottiene final-mente la trattazione esatta e piena che da molto temposi desiderava».4 Sul luogo di nascita del Seripando, H. Jedin, op.cit.,p.43, afferma che non esiste una tradizione omogenea.A partire dal Milensio, «quasi tutti i biografi lo fannonascere a Troia di Puglia e dal luogo di nascita ne fannoderivare il nome di battesimo Trojanus. Ma già il Palla-vicino e scrittori più recenti indicano correttamente Na-poli come sua città natale: ciò che è confermato dallostesso Seripando che indica più volte Napoli come lacittà che lo ha generato».5 La diocesi di Salerno era, dopo Napoli, la seconda perimportanza del Mezzogiorno continentale d’Italia. Allecure che Seripando dedicò alla città e all’arcidiocesi diSalerno Jedin riserva una particolare attenzione: cfr. H.Jedin, op. cit., 2, pp. 555-575.6 Fondata nel 1273, la chiesa venne rifatta nel ‘700. Inessa – come afferma H. Jedin, op. cit., p. 786, non s’èpiù riusciti a ritrovare la tomba del Seripando, perché lalapide assai semplice che vi era stata apposta fu poi tra-sferita nella chiesa di S. Maria Maggiore, dove si trovaancora oggi.7 H. Jedin, op. cit., p. 114.8 Garcilaso de la Vega (1503-1536), colto cavaliere, natoa Toledo, fu molto favorito dall’imperatore Carlo V, che

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È deceduto a Milano, il 3 ottobre scorso,

PIERO AMOS NANNINI

presidente della Società Umanitaria dal 2005, che avrebbecompiuto 84 anni il giorno successivo. Nannini, nato a Sa-vona e laureatosi all’Università di Pavia, era stato managerdi Ibm, prima di assumere la presidenza della Società Uma-

nitaria, in seno alla quale aveva rivolto la propria attenzione soprattuttoalla formazione professionale, all’assistenza agli anziani (attraverso la Fon-dazione Humaniter) e al sostegno ai giovani (attraverso il Programma Men-tore contro la dispersione scolastica). Per la sua attività, nel maggio scorsogli era stata conferita l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblicaitaliana. Alla famiglia dell’estinto e all’istituzione da lui presieduta Il Rievo-catore porge le più vive condoglianze.

egli seguì nella difesa di Vienna e nell’assedio di Tunisi.Fu soldato valoroso e raffinato scrittore. Morì a trentatréanni, mentre andava, quasi senz’armi per ostentare il suovalore, alla presa del castello di Muy, presso il Frejus.Fu il più italianista dei poeti spagnoli, amico di PietroBembo (1470-1547) e Luigi Tansillo (1510-1568). Imitòcon somma eleganza i nostri poeti, definitivamente fis-sando nella poesia spagnola le forme metriche usate inquella italiana.9 H. Jedin, op. loc. ult. cit.10 Ivi., p. 122.11 Ibid.12 H. Jedin, op.cit., p. 35, ricorda “il manoscritto di Ago-stino Nifo sulla misericordia dedicato a Seripando”; e ilparticolare altresì (ivi, p.52) d’un attivo interessamentodi fra Egidio da Viterbo a che «Girolamo, dopo il ritornonella congregazione madre, non restasse a Napoli, mafosse inviato nel convento di Sessa dove ebbe la possi-bilità di studiare per due anni l’Organon di Aristotelesotto la guida di uomini della scuola di Agostino Nifo…».

13 Sulla biblioteca di San Giovanni a Carbonara e sul la-scito manoscritto del Seripando si consulti in particolare,l’appendice I di H. Jedin, op. cit., pp. 887-907.14 A proposito delle sottrazioni operate nella bibliotecadi S. Giovanni a Carbonata cfr. G. A. Galante, GuidaSacra della città di Napoli, Napoli 1872, p. 58, ove,nella descrizione della chiesa (o «cappelletta») napole-tana di S. Maria Consolatrice degli afflitti, adiacente aS. Giovanni a Carbonara, l’A. ricorda la grande biblio-teca «lodata dal Montfaucon, e Mavillon per la grancopia di codici greci e latini e per opere archeologiche efilologiche e rari manoscritti, specialmente 55 del me-desimo Seripando, e tutte le opere del b. Jacopo da Vi-terbo, Arcivescovo di Napoli. Ma nel 1729 – soggiungeil Galante – la parte più preziosa ne tolse Carlo VI re-candosela a Vienna e nell’occupazione decennale il restoandò parte smarrito, parte alla Biblioteca Nazionale».15 H. Jedin, op. cit., p. 902 ss.16 Ivi, p. 907.

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LA “TAVERNA”,“PARERGA” DEL PRESEPE NAPOLETANO

di Sergio Zazzera

«Ad un trattoalla Coppia

sembrò che in quellaenorme “Hosteria” visarebbe stato almenoun posto per la gio-vane donna. Unagrossa “frasca” in-ghirlandava l’arconeove “pennoliavanolarde, presotte, nno-glie e verrinielle, ca-pecuolle mpanute emortadelle”. Oltrel’ingresso si apriva ilgrande “cammarone”da dove proveniva un informe gridio di voci roche edolci di giocatori, avventurieri e facili donnine; in fondo,a tratti, tra bagliori del focolare, appariva e spariva ungarzone che girava lo “spido a biento”, uno “sciac-quante”, veloce, al richiamo, deambulava tra i lerci ta-voli, di quercia, a versare il vino nei “giarroni”. In fondoal “cammarone larie aute e fute” uno “scalandrone” por-tava al piano superiore ove, ad attendere sul “ballatoio”lo sconosciuto cavaliere accompagnato dalla grinzosaruffiana, era una solare bellezza».

Così Gennaro Borrelli, tra i maggiori studiosidell’arte presepiale, descrive la scena della Ta-verna1, una delle tre che, fin dal secolo XVII2,caratterizzano il presepe napoletano (le altredue sono la Natività e l’Annuncio ai pastori)3.Alle radici dell’inserimento di questa rappre-sentazione – l’unica d’impronta profana4 –nella scenografia presepiale napoletana sipone, sicuramente, il secentesco testo teatraledella Cantata dei pastori, dovuto alla penna –e alla fantasia – del “dott. Casimiro RuggieroUgone”, pseudonimo del palermitano AndreaPerrucci5, che colloca, nella scena XII del se-

condo atto,un’osteria, gestitadal diavolo Belfe-gor, nella qualesostano Razzulloe Sarchiapone, in-tenzionati a con-sumare un pasto,anche se, poi, lecose si metterannomale per loro6. A comprenderequale significato

debba essere attribuito a questa scena sovvieneun saggio, ancora abbastanza recente, che ri-connette la Taverna alla «pericolosità del viag-gio e della notte», ma anche alla «materialitàin contrapposizione alla spiritualità», ravvi-sando in essa la «metafora del grande ban-chetto rituale»7. In proposito, anzi, altri hasottolineato anche il «valore religioso più pro-fondo» del “Cenone” tradizionale della Vigilia,rispetto al comune banchetto festivo8; “Ce-none” che, poi, assume la connotazione di veroe proprio pasto totemico, dal momento che al-cune delle portate – come il capitone, gli struf-foli e i roccocò – non si consumano,solitamente, al di fuori dell’arco delle festivitànatalizie9. Né si può negare che la spiegazionedi cui sopra sia più attendibile di quella costi-tuita dal «disprezzo per “l’Oste” che osò ne-gare l’alloggio alla Sacra coppia»10: in tal caso,infatti, una concezione correttamente religiosaavrebbe completamente espunto il modulo-Ta-verna dalla scenografia.

Alfredo Molli-Teresa Acampora-Loretta Mannato, la Taverna(Napoli, chiesa di Santa Marta - Mostra per il Natale 2017)

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Col trascorrere del tempo, la scena della Ta-verna assunse un’importanza primaria, in senoalla struttura del presepe, al punto che gli ele-menti che la costituiscono – e soprattutto i ge-neri alimentari (‘a rrobb’’e taverna) – furonomodellati da alcuni dei maggiori artisti del‘700, da Giuseppe De Luca, a Gennaro Reale,a Tommaso Schettino, a Francesco Gallo, aEduardo Engaldi11.Posto tutto quanto si è fin qui detto, non v’èdubbio che il carattere profano della Tavernala rende ascrivibile alla categoria dei “pa-rerga”, elaborata dagli storici dell’arte. In pro-posito, infatti, dev’essere osservato che“parerga” (< gr. πάρεργος) è vocabolo entratonell’idioma italiano col significato di «secon-dario, accessorio»12: si pensi ai Parerga undParalipomena di Arthur Schopenauer, rispettoal suo Die Welt als Wille und Vorstellung, checostituisce la manifestazione principale del suopensiero13. Più particolarmente, poi, nel linguaggio tec-nico del mondo dell’arte tale vocabolo indicale parti accessorie, di carattere profano (scenedi taverna, giochi di carte), delle opere aventisoggetto religioso, con riguardo soprattutto aquelle pittoriche14. Soprattutto, sì, ma nonesclusivamente: si rifletta, infatti, sulla collo-cazione della Taverna nella scenografia delpresepe napoletano, della quale nessuno vorrànegare che la rappresentazione plastica dellanascita di Gesù ben potrebbe fare a meno.Semmai, alla sua presenza nella scenografiapresepiale può essere riconosciuta la valenzadi trasferire l’ambientazione della Nativitàdalla Palestina a Napoli: c’è, infatti, chi ha ri-tenuto di qualificarla «dialetto attorno al Pre-sepe»15 e chi, meglio ancora, ha intesoricordare come il celebre collezionista MicheleCuciniello16 abbia definito il presepe «un capi-tolo del Vangelo tradotto in dialetto napole-tano»17.__________

1 Cfr. G. Borrelli, Napoli sempre un presepe, Napoli1978, p. 14.2 Dai primi di tale secolo, secondo il medesimo G. Bor-relli, Il Presepe napoletano, Roma 1970, p. 44 ss.; dallafine dello stesso, all’incirca, secondo F. Nicolini, Il pre-sepe napoletano (1930), ora in F. Mancini, Il Presepenapoletano, Napoli 1983, p. 193.3 Cfr., ex multis, E. C(atello), Il presepe napoletano(1916), ora in F. Mancini, o. c., p. 132.4 Appare non poco stentato in tentativo di G. Morazzoni,Il Presepio (1932), ora in F. Mancini, o. c., p. 208, di ri-condurre la Taverna al diversorium, descritto dall’Evan-gelista Luca (2,8 ss.), nel quale si trovavano i pastori almomento dell’Annuncio.5 Cfr. A. Borrelli - A. Fratta, La letteratura dialettalenapoletana, Napoli 2010, p. 103 s., e, per i principî cuiè improntato il suo teatro, H. U. Ganz, Carlo Goldoni eAndrea Perrucci, Firenze 1963.6 Cfr. dr. C. R. Ugone, La Cantata dei pastori, Napoli r.1971, p. 57 ss., e, su Razzullo e Sarchiapone, «perso-naggi redicolosi» (sic), F. Nicolini, o. c., p. 182.7 Cfr. C. Canzanella, Razzullo e la Sibilla, Napoli 2006,p. 86 ss.8 Cfr. R. De Simone, Il presepe popolare napoletano2,Torino 2004, p. 43.9 Sul pasto totemico cfr. A.N. Terrin, Nutrire dio, man-giare dio, in R. Alessandrini - M. Borsari (a c.), La sacramensa, Modena 1999, p. 39. Peraltro, quanto alla cucinanatalizia, vale la pena di mettere in guardia, qui, dagliarbitrî di R. Bracale, Comme se magna a Natale, Napoli2015, p. 168 ss.0 Cfr. G. Borrelli, Il Presepe cit., p. 44.1 Anche se, per alcuni di essi, si tratta soltanto d’ipotesidi attribuzione: cfr. T. Fittipaldi (a c.), Catalogo, in IlPresepe Cuciniello. Mostra di «pastori» restaurati, Na-poli 1966, p. 45 ss.2 Cfr. G. La Magna - A. Annaratone, Vocabolario

greco-italiano, Milano 1955, p. 975.3 Cfr., rispettivamente, A. Schopenhauer, Parerga und

Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 2 voll.,Berlin 1851; Id., Die Welt als Wille und Vorstellung,Leipzig 1819.4 Cfr. F. Porzio, Caravaggio e il comico, Milano 2017,p. 19.5 Così E. Guardascione, Il Presepe (1934), ora in F.

Mancini, o. c., p. 226.6 Sul quale cfr. R. Causa, Michele Cuciniello, un uomoed un presepe, in Il Presepe Cuciniello cit., p. 5 ss.7 Così G. Liguori, Il presepe. Note di storia e di arte

(1927), ora in F. Mancini, o. c., p. 165.© Riproduzione riservata

Beato colui che, sereno e senza pianto, intesse la trama del giorno e arricchisce il proprio spirito.Alcmane (VII sec. a. C.)

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GIÙ IL CAPPELLO!

di Elio Notarbartolo

Noi, ragazzi di 65 anni fa, conoscevamo la sto-ria di Fort Alamo, al confine tra Messico eTexas, di Kit Carson, di Davy Crockett: anchequella di Pietro Micca a Torino, e pur stando aNapoli, nessuno ci aveva parlato della storiadel fortino di Vigliena, che sta tra Portici e SanGiovanni a Teduccio.Vale sempre la pena di ripeterla alla genera-zione attuale, special-mente se informata aiprincipî della Repub-blica e convinta di nonpoter stare dalla partedelle monarchie.Molto spesso, i napole-tani fanno prima deglialtri e, nel 1799, ave-vano cercato di portarea Napoli le idee giaco-bine e repubblicane pereliminare i principîteologici delle monarchie che facevano discen-dere da Dio il loro diritto ad avere il potere. Ilpotere è sempre nel popolo!Purtroppo ai Francesi poco importava dei pa-trioti napoletani e i Borbonici riuscirono a ri-salire, dalla Calabria, fino a Napoli conl’esercito organizzato di “lazzaroni” ma più an-cora di Turchi e Russi e si presentarono inforze davanti a Napoli.150 giovani patrioti calabresi, per consentire

agli altri di ritirarsi nelle fortezze della città, in-vece di arrendersi subito, si rifugiarono nel pic-colo fortino costruito all'inizio del ‘700 dalviceré Villena (spagnolo).Era una costruzione che serviva agli allievidella scuola militare della Nunziatella per farele esercitazioni militari, ma, in quanto a forze,non valeva più di una ventina di cannonate che

l’artiglieria russa asse-stò alle basse mura delfortino. Dal varco siprecipitarono Russi elazzaroni, anch’essiprovenienti dalla Cala-bria: calabresi patrioticontro calabresi borbo-nici, all’arma bianca.I patrioti indietreggia-vano e diminuivanosempre più di numero.Ma loro lo sapevano, si

erano votati alla morte. Li comandava un gio-vane prete anche lui calabrese, Antonio To-scani. Ormai erano rimasti in pochi a resisteree molti, moltissimi assalitori erano nel fortino.A questo punto il comandante del manipolo an-cora in vita, il prete Antonio Toscani, col con-senso del commilitone Francesco Martelli, siavvicina alla santabarbara del fortino e le dàfuoco.Fu uno scoppio possente che mise paura anche

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al cardinale Ruffo che guidava l’esercito deilealisti: era proprio ad un passo dal fortino.Morirono, sì, morirono quasi tutti, ma ormainel fortino gli assalitori erano il quadruplo deipatrioti ancora vivi. Furono pochissimi quelliche si salvarono.Ebbene, vogliamo dare onore a questi giovani,

capaci di sentire l’ideale della Libertà e dellaRepubblica più forte della loro stessa vita.Come fece Pietro Micca a Torino; come feceroDavy Crockett e Kit Carson a Fort Alamo.Giù il cappello, se veramente volete crearenuovi mondi!

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Lunedì 11 settembre, nella Sala della Giunta di Pa-lazzo San Giacomo è stato ratificato il protocollo d’in-tesa tra il Comune di Napoli e il Comitato provincialeANPI di Napoli per l’assegnazione dei locali destinatial costituendo Museo delle Quattro Giornate e della Resistenza in Campa-nia, siti nella Galleria Principe di Napoli. Non poteva festeggiare in manieramigliore il suo novantesimo compleanno il presidente di tale comitato, An-tonio Amoretti, al quale Il Rievocatore porge i più fervidi duplici auguri.

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Stelle, meteore e buchi neri: la galassia Napoli

LA SCUOLA DI LINGUA ITALIANADI BASILIO PUOTI

di Elio Barletta

Il Purismo ha rappresen-tato un’ideologia svilup-

patasi in diversi settori ed inepoche differenti: in lettera-tura ebbe per oggetto di os-servazione la lingua, nel suoevolversi storico (linguisticadiacronica) ed in un deter-minato momento di quel-l’evolversi (linguisticasincronica); nelle arti figura-tive – essenzialmente la pit-tura – toccò varie tematicheespressive, principalmentequella a sfondo religioso. Iltermine “purismo” fu co-niato (1838) dal letterato, pittore e teoricod’arte romano Antonio Bianchini e si riferivaai suoi colleghi d’arte che intendevano rifarsiagli artisti primitivi italiani, da Cimabue alprimo Raffaello, analogamente a quanto, senzadenominazione, già avveniva nell’ambito let-terario con la proposta di forme linguisticheispirate al Medioevo toscano. Per loro si parlòperciò di “preraffaelliti avanti lettera”. Lo stesso Bianchini redasse (1842) il manifestoufficiale del movimento Del purismo nelle arti,sottoscritto ed interpretato dal pittore faentino

Tommaso Minardi, dalloscultore romano Pietro Tene-rani e da Johann FriedrichOverbeck, un tedesco di Lu-becca esponente dei Naza-reni, pittori romanticitedeschi attivi a Roma e sti-molati dalle teorie artistichedi Wilhelm August vonSchlegel e di Wilhelm Hein-rich Wackenroder. Tale ap-partenenza significòl’abbandono del neoclassici-smo accademico per un'arterinnovata su basi religiose e

patriottiche, stilisticamentearcaica per le forti linee e le pennellate uni-formi di colore crudo. I Nazareni – svalutandola pittura del Raffaello maturo – rifiutavanol'imitazione dei classici ritenendola falsa, perdedicarsi ad una semplice, chiara modalità dirappresentazione, da non confondere con il rea-lismo, del tutto estraneo e prematuro a quel-l’epoca.Il Purismo nelle arti figurative fu ripreso nelXX secolo in Francia per una pittura ed un’ar-chitettura ispirate alla modernità, identifican-dosi con il movimento del pittore cubista e

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scrittore Amédée Ozenfant e del progettista, ar-chitetto, urbanista e scrittore nato in Svizzera,ma naturalizzato francese, Charles Édouard Je-anneret – più noto con lo pseudonimo Le Cor-busier assunto poco tempo dopo – entrambiautori del manifesto artistico La peinture mo-derne, tradotto da Irene Alessi, per l’editore C.Marinotti di Milano (2004). Nel saggio Aprèsle Cubisme (1918) e nella loro rivista L'EspritNouveau (1920-1925) fu affermata l’adesione– squisitamente estetica – del movimento allaciviltà delle macchine: og-getti meccanici da introdurrenelle nature morte perun’arte che risultasse in sin-tonia con i tempi. Letterati precursori del Puri-smo comparvero già a fineXVIII secolo. Auspicando ilripristino non tanto gramma-ticale quanto lessicale e sti-listico del dialetto toscanodel Trecento e l’assunzione amodelli di Dante, Petrarca eBoccaccio, polemizzaronocon i colleghi dissenzienti. Ilpadovano Giulio Cesare Be-celli – antesignano del movi-mento veneto – con i suoicinque Dialoghi (1737) avversò MelchiorreCesarotti, sostenitore dell’inarrestabile trasfor-mazione di ogni lingua nel tempo. Il conte to-rinese Francesco Galeani Napione scrisse illibello Dell'uso e dei pregi della lingua italiana(1791), contrastando sempre il Cesarotti e ri-fiutando il ricorso a termini stranieri. L’orato-riano padre Antonio Cesari, membro dellaSocietà dei Veronesi per la ristampa del Voca-bolario della Crusca, pubblicò il Manifesto(1805) in cui affermava l’entità chiusa e per-fetta della lingua, la superiore bellezza e spon-taneità del dialetto toscano del Trecento su altridialetti, l’auspicio di ripristinarne i vocaboliormai decaduti. Numerose ed animate furonole adesioni e le avversioni, anche parziali, frale quali gli articoli ironici di Vincenzo Montisulla rivista Poligrafo (1813). Cesari risposealle critiche con varie opere polemiche. I clas-

sicisti del primo Ottocento furono seguaci al-quanto cauti, come l'abate Angelo Dalmistro diMurano, i trevigiani Giuseppe Bianchetti e Mi-chele Colombo, tutti puristi moderati.Tanti letterati dell’Italia settentrionale indur-rebbero a dedurre l’assenza completa del mo-vimento nel Sud. Ma se si percorresse daMontesanto la napoletanissima via Pignasecca,a quattro passi da piazza Carità si incrocerebbesulla sinistra una breve traversa caratterizzatada una targa civica recante un nome: Basilio

Puoti. Chi è stato costui? Pergran parte dei cittadini resi-denti od in transito in città, inprimis i giovani, è certa-mente uno sconosciuto mal-grado la sua elevata staturadi grammatico, lessicografoe critico letterario italiano.Come per tanti altri uominiinsigni schivi di mondanità,il suo ricordo è sparito nellanebbia. Nacque in Napoli (27 luglio1782) da Nicola e Maria Ar-cangela Palmieri. La fami-glia Puoti apparteneva a fineSeicento alla nobiltà di Poz-zuoli (1696) mentre la fami-

glia Palmieri parrebbe che fosse discendentedai longobardi re Poto, figlio di re Adelchi, fi-glio di re Desiderio. Comunque – essendoMaria Arcangela ultima erede di un ramo conessa estintosi – il titolo di “marchese” accor-dato da Ferdinando IV (26 giugno 1797) al-l’avo Basilio Palmieri e ai suoi discendenti,secondo il diritto siciliano passò direttamenteal giovane Basilio Puoti, spettandogli comeprimogenito. Lui non teneva al titolo e – ben-ché tutti continuassero a chiamarlo “marchese”– lo cedette, assieme al patrimonio, al fratellosecondogenito in procinto di sposare una no-bildonna. Basilio non ebbe nulla del fanciulloprodigio. Prima il vaiolo, poi malanni vari finoai diciassette anni lo lasciarono sordastro ad unorecchio con un carattere malinconico ed irri-tabile. Poco portato per lo studio, fu salvato, adieci anni, dalla severità di un maestro che,

Francesco De Sanctis

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prendendolo sul senso dell’onore, lo indussead impegnarsi a fondo senza fermarsi più. Lapredilezione per Virgilio ed i bisticci con i suoicoetanei dell’alta borghesia incontrati nellavilla dei Palmieri a Barra che, presuntuosi esprezzanti, dileggiavano la cultura, furono isintomi della sua nascosta personalità. Fu lo zio Carlo arcivescovo a curarsi di lui e disuo fratello Giammaria. Avendo vissuto da sa-cerdote i tragici giorni finali della Repubblicanapoletana (1799), additavaloro l’alto esempio di virtù lai-che offerto da Domenico Ci-rillo e Mario Pagano, ai qualiaveva offerto il conforto reli-gioso la notte prima dell’ese-cuzione. La Bibbia che avevaletto in carcere con i due dete-nuti la lasciò in dono a Basi-lio, che, letteralmentetrasformato si mise a studiarefreneticamente le materieclassiche, forse con l’aiutosaltuario di precettori, e sidette da fare per impararecompletamente il greco da cit-tadini ellenici che conosces-sero la lingua antica oltre chela moderna. Durante il cosiddetto decennio francese (1806-15) entrò in contatto con esponenti della ri-forma come Matteo Angelo Galdi, che gli feceassegnare l’incarico di ispettore onorario dellaPubblica Istruzione e probabilmente contribuì– per le idee illuministiche possedute su istru-zione e progresso civile – alla sua maturazionepedagogica. Stimato del ministro degli InterniGiuseppe Zurlo, fu nominato uditore al consi-glio di Stato (1812). In fuga Gioacchino Murate tornato dalla Sicilia Ferdinando I (7 giugno1815), la via ai pubblici uffici gli fu preclusaperché non volle – pregiudizio di allora – sot-toporsi alla “vergogna” dell’esame previsto perrimanere in servizio quale referendario, funzio-nario addetto a esaminare le “suppliche” deicittadini. Partecipò al concorso per la cattedra universi-taria di letteratura italiana (1818) alla quale An-

gelo Maria Ricci aveva spontaneamente rinun-ziato. Le prove scritte consistevano nel com-mento ad un sonetto del Petrarca; i concorrentierano venti tra i quali Gabriele Rossetti. La cat-tedra fu però data al canonico Michele Bianchiche sbrigò con facilità la dissertazione latinanella quale inciamparono sia il Puoti che ilRossetti. L’ultima sua azione politica avvenne(1820) durante la presidenza Galdi, nella brevestagione costituzionalista del governo borbo-

nico: da capitano di una com-pagnia di milizie civiche sedò– malvolentieri – un tumultogenerato nelle prigioni dellaVicaria dai patrioti di Gu-glielmo Pepe. Il governo borbonico vedevamale l’erudizione di massadel popolo, quindi non soste-neva alcuna forma di istru-zione pubblica. Le auleuniversitarie, lungi dalle glo-rie del passato erano semi-vuote di studenti, compresaquella di Michele Bianchi. Inesse si avvicendavano rariprofessori di valore; la mag-gioranza era di cattedratici in-

dolenti, svogliati, spesso ignoranti. Stessa cosaaccadeva per le scuole pubbliche. Erano invecenumerose ed affollate le scuole private, cia-scuna con indirizzo, programma ed organicoindipendente ed arbitrario. A parte i seminari,si distinguevano gli istituti del cavalier DePamphilis, completo di lettere, scienze e bellearti, di Carlo De Sanctis, zio di Francesco il let-terato, dell’abate Fazzini. Il pensiero umanistico del nostro marchese siera ulteriormente rafforzato: rispetto ad Anto-nio Cesari era meno intransigente sul lessico,molto più sullo stile, che riteneva dovesse ri-gidamente rifarsi ai modelli del ‘300 e del‘500, ma dissentiva sui vocaboli caduti in di-suso che giudicava ridicoli. Ammiratore diLeopardi, avverso ai romantici che definiva“barbari” ad esclusione di Alessandro Man-zoni, per il quale nutriva vivo interesse – lusin-ghiera l’introduzione ai Promessi sposi che

Luigi Settembrini

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fece in seguito nelle Opere di Manzoni (Napoli1839) – fu nettamente contrario a influenze les-sicali, sintattiche, morfologiche e fonetichestraniere, in particolare, i termini derivati dalfrancese nell’uso della lingua corrente, parlatao scritta, perché riteneva che l’avrebbero im-poverita e minacciata nella sua integrità, da sal-vare anche per ragioni affettive. Fu perciò istintivo per il marchese rinunciare aqualsiasi altra attività ed aprire le porte dellasua abitazione – in Palazzo Bagnara di Ruffo apiazza del Mercatello (piazza Dante), dove vi-veva con la famiglia del fratello Giammaria –scegliere una delle tante sale come aula e fon-darvi una scuola (1825) di lingua e letteraturaitaliana, libera, gratuita, basata sull’insegna-mento a “viva voce”, aperta a coloro che sa-pessero un po’ di latino, meglio se pure un po’di greco e avessero buona volontà. Chiamò“studio” la scuola, “esercitazioni” le lezioni,“giovani” gli allievi. Gli studenti, accolti da ca-merieri in guanti bianchi, accedevano inun’ambiente ampio e confortevole, nessunapanca ma comode sedie, al centro, su di un ta-volino con tappeto verde macchiato d'inchio-stro, poggiava il Vocabolario della Crusca –«Summa Theologica al concilio di Trento»,scherzava l’allievo Vito Fornari, futuro presbi-tero e teologo – libro a cui si ricorreva spessoper ogni dubbio di semantica. Per il greco in-terveniva Costantino Margari, un colto e gar-bato amico fermatosi appositamente a Napoliper parlare della sua gente. Primi seguaci furono il compositore ed organi-sta abate Gaetano Greco che con il letterato edesule della Repubblica napoletana Giordano deBianchi Dottula, marchese di Montrone, ilPuoti considerò suoi precursori. Si aggiunseroil mecenate Antonio Papadopoli, i legali CarloMele e Luigi Dragonetti, lo storico Raffaele Li-beratore, i fratelli letterati, di Barletta, Michelee Francesco Saverio Baldacchini, che trasferi-tosi a Napoli giovanissimo, gli fu fattivamenteaccanto diventando suo allievo e scrivendo ilsaggio Di Puoti e della lingua italiana, inseritonei Rendiconti dell’Accademia di archeologia,lettere e belle arti. Nel clima di tolleranza per l’avvento al trono

di Ferdinando II (8 novembre 1830), tale cir-colo si trasformò in una scuola di vastissimorichiamo per una città come Napoli ricordata,spesso e male, soltanto per il suo nobilissimodialetto. Se ne interessarono intellettuali moltoeterogenei – il politico Carlo Troya, la poetessaGiuseppina Guacci, il giurista Paolo EmilioImbriani, il patriota Alessandro Poerio, il poetaPietro Paolo Parzanese, lo scrittore AntonioRanieri, il duca Cesare della Valle – uniti dal-l’amore per le fonti genuine della lingua ita-liana e per l’adesione all’ideale giobertiano del“primato nazionale”. Tra gli allievi che mag-giormente vi si formarono spiccano due illustrifedelissimi che non abbisognano di presenta-zione: Luigi Settembrini e Francesco De San-ctis. A ricordo postumo del loro Maestro ilprimo scrisse l’Elogio del marchese BasilioPuoti, il secondo la Giovinezza e l’Ultimo deipuristi.Le lezioni si svolgevano di sera, tre volte la set-timana. La prima sera, si leggevano i classiciitaliani, trecenteschi e cinquecenteschi, poiPuoti – ossia il “Maestro” – domandava ad al-cuni studenti il loro parere, apriva un’ampia di-scussione – spesso brillante e animata – sucontenuti e forma dei testi trattati, riepilogavale varie opinioni in un giudizio definitivo. Laseconda sera era destinata alla traduzione dallatino – meritoriamente introdotta per la primavolta – di qualche brano di Cornelio, Cicerone,Tito Livio: soltanto due periodi per scoprirnela struttura e l’organizzazione. Lette le tradu-zioni, esplodevano i presenti in denunzie di er-rori altrui e dinieghi di errori propri. Se il vocìosi faceva assordante interveniva di colpo il“Maestro” con un: «Basta così: l’avete fatta tragli orrori della digestione». Fra i testi letti sicercava quello che sembrava migliore, lo si ri-toccava ulteriormente, lo si scriveva infine suiquaderni. Nella terza sera vi era la correzionedei componimenti, consistenti in racconti sem-plici, descrizioni, favole, apologhi del tutto di-versi dalle composizioni delle altre scuole. In una simile realtà Puoti sdegnava di esserchiamato “Maestro”. Non ne aveva né l’aria néle maniere: sembrava più un amico, di mag-giore età, con esperienza e studi superiori che

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stava lì ad accompagnare e guidare gli studenti,sentirne il parere, dire il suo, aprire la discus-sione. Quando aveva torto, lo riconosceva can-didamente confessando: «Ho preso ungranchio a secco!». I principali attori eranoproprio gli allievi che, immersi in quegli studi,erano educati ad affrontare le difficoltà e forti-ficarsi da soli nel superarle. Scrisse De Sanctis:«Sono convinto che niente giovi più a rilevaregli studi letterarii e ad educare la mente chequesto assiduo lavorare del giovane, questoleggere, tradurre, comporre, notare, più utileche non il mandare a memoria grammatiche,rettoriche e arti dello scrivere... Il miglior mae-stro è quello che pensi meno a comparir lui, elasci fare i giovani, dissimulando la sua operae creando in loro questa illusione che quelloche imparano sono loro stessi che l’hanno tro-vato».Del “Maestro” era determinante il fascino dellaparola. Un uomo eruditosi pres-soché con le sole sue forze,senza aver conseguito traguardiculturali ufficiali, perseguendoun profilo didattico rivoluzio-nario per l’epoca, aveva saputorealizzare un metodo educativodegno dei tempi più avanzati.Con lui l’interesse non venivamai meno, ogni giorno un pro-gresso, una novità, e non im-portava che la novitàconsistesse nella lettura di unnuovo autore, importava l’im-pressione che questo piccolofatto avrebbe suscitato. Ag-giunse De Sanctis: «Non avevo letto ancoranulla del Poliziano; una sera furono lette al-cune delle sue ottave con ammirazione di tutti;il Maestro non poteva star fermo e dava deigran pugni sul tavolo; anche oggi mi sta nel-l’orecchio quella musica che ci rapiva tutti,Maestro e discepoli. Ecco il segreto che ren-deva deliziosa la scuola del Puoti, che oggi ri-schia di parerci un pedante: questa strettacomunione di spiriti, quel vibrare all’unisonoinnanzi a qualche cosa di bello».Nella spontaneità di quell’impostazione non

mancavano aspetti divertenti. Ai ragazzi chetrovavano strano dover approfondire l'italianoessendo italiani veniva chiarito che non tutte leparole italiane, sono italiane; ci sono parolepure ed impure, proprie ed improprie, rozze egentili, aspre e soavi, nobili e plebee, prosaichee poetiche, in uso ed in disuso. Come premessaper imparare a studiare gli scrittori classici del‘300 («secol d'oro»), del ‘500 («secol dotto»),qualcuno del ‘600, i malcapitati, magari abi-tuati per conto loro a divorare libri di ogni ge-nere, dovevano piegarsi ad autentichescorpacciate di Fioretti di S. Francesco e diVite dei SS. Padri, restandone tanto suggestio-nati da diventarne loro stessi i banditori e gliapostoli. De Sanctis ci fornì uno splendidospaccato: «Rimanemmo come naufraghi inmezzo a tanta gente. Stavano innanzi, nelleprime file, gli Anziani di Salita Zita, come perscherzo li chiamava il Marchese. C’erano in

quello stuolo di maggiorentiparecchi che più tardi vidi neiprimi gradini sociali, come ilPisanelli, il De Vincenzi, ilCappelli, il Torelli, il Dalbono,il Rodinò, il Grasparrini. Altrimeno antichi erano gli Elettiuno stuolo a parte dei più valo-rosi. Noi stavamo agli ultimiposti, tra la moltitudine. Il Mar-chese era tra i maggiorenti, chegli facevano corona, vivace, fa-ceto, sempre fresco. Si correg-geva un periodo di CornelioNipote voltato in Italiano. IlMarchese faceva un minuto

esame delle parole, parte benedicendo, partescomunicando. Questa è parola poetica, questaè plebea, questa è volgare, questa è troppousata, l’è un arcaismo, l’è un francesismo. Ac-compagnava queste sentenze con lazzi, motti,esclamazioni e pugni sulla tavola. Io ne avevala testa intronata». Ritornò ad insegnare dopo essere sfuggito al-l’epidemia di colera (1837), ma in una nuovasede – a via Costantinopoli – preferendo dedi-carsi solo ai giovani più esperti ed al comple-tamento delle proprie opere. Lo studio fu

Palazzo Bagnara

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frequentato non solo da allievi che ne prose-guirono l’insegnamento in campo grammati-cale, come Leopoldo Rodinò, Michele Melgao Bruto Fabricatore, ma anche da giovani in-tellettuali, liberali, che si affermarono in tanticampi dello scibile umano: Luigi Fornaciari,Vito Fornari, Stefano Cusani, Stanislao Gatti,Giacomo Savarese, Giovanni Manna, Gu-glielmo Gasparrini, Angelo Camillo De Meise molti altri.Con monsignor Giuseppe Mazzetti alla presi-denza della Pubblica Istruzione e l’appoggiodel generale Carlo Filangieri fu nominatoispettore degli studi nel Collegio militare dellaNunziatella (1839). Poi la monarchia diffidentelo rimosse dall’incarico con un pretesto (fine1845), colpendolo profondamente nell’onore enella salute che cominciò a declinare. Ottennela nomina ad accademico della Crusca (25aprile 1843). Quando morì (19 luglio 1847), lasua scomparsa destò viva commozione, ma perle vicende irredentistiche (1848) – protagonistimolti suoi amici e discepoli – un busto nel por-tico superiore dell’Ateneo napoletano gli fu de-dicato ben più tardi (1861). Settembrini ricordòl’appello del “Maestro” ai discepoli: «Se io vidico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglioavvezzarvi a sentire italianamente e avere incuore la patria nostra... Io vorrei che gli Italiani

parlassero come il Machiavelli ed operasserocome il Ferruccio». De Sanctis aggiunse chenella Napoli del ventennio 1825-1845 il “Mae-stro” divenne sinonimo di «libertà, scienza,progresso, emancipazione, lotta contro il semi-nario, aspirazioni ancora indistinte a nuoveidee, a nuova civiltà». Tra le sue opere – documenti di adesione al pu-rismo ed all’ideale classicistico – si ricordano:Antologia di prose italiane (1828), compilata«ad uso dei fanciulli»; Regole elementari della lingua italiana (1833),edizione lucchese online (1850); Dello studio delle scienze e delle lettere(1833); Della maniera di studiare la lingua e l'elo-quenza italiana (1837), edizione fiorentina on-line (1838); Vocabolario domestico napoletano-toscano(1841); L'arte di scrivere in prosa per esempii e perteoriche (1843), edizione fiorentina online(1857); Dizionario dei francesismi (1845) e Arte delloscrivere per esempi e per teoriche (4 volumi)completati, per la morte dell’autore, rispettiva-mente da Bruto Fabricatore e da Vito Fornari.

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I 110 ANNI DEL TENNIS CLUB VOMERO

Con un party, uno show di Lino D’Angiò e Alan DeLuca e la presentazione del volume di Marco Lobasso,Tennis Club Vomero, 110 anni (recensito in questo nu-mero, a p. 62), lo storico circolo sportivo collinare, pre-sieduto da Carlo Grasso, ha festeggiato, la sera del 7dicembre scorso, il suo 110° compleanno (nella foto unmomento della manifestazione). L’ultimo decennio di vitadel sodalizio è stato caratterizzato dal suo ritorno in

serie A e dalla nascita degl’Internazionali maschili. Questo periodico èstato rappresentato alla manifestazione dal direttore, Sergio Zazzera,e dal redattore capo, Carlo Zazzera. Al Tennis Club Vomero Il Rievoca-tore augura un futuro sempre più proficuo di successi sportivi.

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DIVAGAZIONI SULLA PIZZA

di Giulio Mendozza

Non sarò certo io a descrivere la universalitàe la squisitezza della pizza. Quella napo-

letana, per intenderci. Perché ne hanno parlatoin tantissimi, esaltando le sue virtù, sia scrittoriche giornalisti, musicisti e poeti. Ma io voglioaggiungermi, ultimo – e non solo cronologica-mente – perché credo che esaltarla, e senzasosta, è un motivo in più per ricordarne le virtùche sono enormi e che stuzzicano e impre-gnano i cinque sensi di chi se la trova davanti,sensosa, anzi sen-suale, mentre fremeper essere concupita.Il forno elettrico uc-cide la pizza primache nasca: è unaborto, è un delitto.Il forno dev'essere alegna, alimentato ditanto in tanto dal-l'umile pampugliache ne ravviva co-lore e forza. Un piz-zaiuolo napoletano ha sentenziato: «La pizzanel forno a legna la guardi mentre cuoce, lavedi, la muovi, controlli la cottura e la guardimentre cresce, la accompagni… se la metti inun forno elettrico, la chiudi lì dentro come sefosse morta".Ho mangiato pizze dappertutto, in Italia, in Eu-ropa, in America, ma, se pizza equivale a ce-feca e allora diciamo che quelle tacche secche

che ho ingurgitato erano pizze. Napoli è sem-pre denigrata, si invita il Vesuvio a far giustiziadei napoletani e poi nelle brume del Nord vedicosiddette pizzerie dal nome "Vesuvio", "S.Gennaro" ed altri simboli di questa città mera-vigliosa e depredata.

EtimologiaMa veniamo all'origine etimologica della pa-rola "pizza". I glottologi si sono sbizzarriti nel

cercare l'etimoesatto. Un paio di de-rivazioni greche,altre latine, qualcunol'avrebbe fatta deri-vare dal nome delcuoco romano Api-cio, qualche altro hascomodato la linguatedesca (bizan = boc-cone), ma l'ipotesi, amio avviso, più far-neticante è quella

che scomoda la lingua cinese: avete capitobene, la lingua cinese! Secondo qualche glot-tologo più accreditato, come il mai abbastanzacompianto Renato de Falco, l'origine della pa-rola "pizza" quasi certamente potrebbe deri-vare dal verbo latino pistare. Il pistus non eraaltro che la pasta molle che veniva egregia-mente lavorata dai pistores che la battevano piùvolte e ne ricavavano pane ed altri tipi di fo-

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Mimmo Piscopo, ‘A pizza

Nell’occasione dell’inclusione della pizza napoletana nell’elenco dei beni immateriali del Pa-trimonio dell’umanità, ufficializzata dall’UNESCO il 9 dicembre scorso, pubblichiamo unoscritto sull’argomento del saggista Giulio Mendozza.

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cacce. Guarda caso, a Napoli, nel centro storicoesisteva un vicolo Pistasi dove, appunto, questiabili artigiani lavoravano sapientemente l'im-pasto.Per metatesi pista diventa piza, perché ilgruppo ts- nel nostro dialetto può facilmentetradursi in z. Da piza a pizza il passo è breve.D'altronde, la lingua nostra tende sempre alraddoppio consonantico.

Vari tipi di pizzeMa lasciamoci alle spalle le disquisizioni deidotti e torniamo alla nostra pizza. È naturaleche essa può essere fritta o al forno: due faccedi uno stesso empireo terrestre! Per l'una e l'al-tra il panetto di acqua e farina è sempre lostesso.La "fritta", che è la mia passione da sempre, èimbottita con ricotta, fior di latte, salame ta-gliato a bastoncini, ciccioli (a Napoli cicoli, percapirci) e pomodoro. Nell'olio bollente si gon-fia, si indora e sembra che rida di salute conquel faccione che appare come un sole chesplende.La pizza al forno può essere di vari tipi: la"margherita" è la regina, la più richiesta (olio,pomodoro, fior di latte, una spruzzata di for-maggio grattugiato, basilico); la "marinara",gradita molto dai buongustai e guarnita conolio, pomodoro, aglio a fettine e origano; c'èquella "olio e pomodoro" che ha per ingre-dienti appunto solo olio e pomodoro; la "quat-tro stagioni" viene divisa in superficie inquattro parti con striscioline di impasto: ognispicchio ha gusti diversi; il "ripieno" ('o ca-zone), che contiene gli stessi ingredienti dellapizza fritta; la pizza con i bianchetti ('e cece-nielli). Negli ultimi tempi si preparano pizzecon gli ingredienti più strani, ma bisogna ac-contentare i giovani specialmente. Qualcuno lachiede addirittura (horribile visu) alla nutellaper un accostamento non certo gradevole. Degustibus!C'è da dire che nell'entroterra campano esi-stono varianti alla verace pizza napoletana: adesempio, la pizza chiena che si gusta special-mente nel periodo pasquale. Essa non va con-fusa con il tòrtano o il casatiello, sia per

l'impasto che per gli ingredienti. La pizzachiena è tipica del cilentano, dell'avellinese edel beneventano dove si differenzia soltantoper alcune varianti.

Pizzerie tipiche e famose a NapoliMa veniamo alle più famose pizzerie napole-tane.Tra le più antiche va ricordata la Pizzeria Por-t'Alba che risale quasi certamente alla metà del1700.Dal 1780 vive la Pizzeria Brandi dove nel 1889la "margherita" , dal pizzaiuolo Raffaele Espo-sito, con i colori bianco (la mozzarella), rosso(il pomodoro) e verde (il basilico), fu offertaalla Regina Margherita, anche se, per onore diStoria, già esisteva ed era molto amata dalla re-gina borbonica Maria Carolina. In origine talepizzeria si denominava: "Pietro… e bastacosì".È interessante ricordare l'origine della PizzeriaLombardi a Santa Chiara. Il capostipite dellafamiglia, di nome Enrico, sul finire del 1800lasciò Napoli per l'America con i parenti. Oraa New York, a Little Italy c'è la “Lombardi's”.A Napoli rimase il figlio Luigi che faceva ilpizzaiuolo ambulante proprio nei pressi del-l'abitazione di Benedetto Croce che si affe-zionò a lui e gli fece aprire i locali di frontecasa sua. Dal 1947 Lombardi è a via Foria.Giustamente e con orgoglio sulla facciata dellapizzeria fa bella mostra di sé la data di origine:1892!Altre famiglie di pizzaiuoli sono quella dal1847 dei Capasso a Porta S. Gennaro, il cui ca-postipite Giovanni si chiamava Cafasso alquale, per errore, fu cambiato il cognome; Sta-rita a Materdei dove girarono alcune scene delfilm L'oro di Napoli con Sophia Loren. Nel lo-cale si conservano come cimeli il padellone, ilforchettone ed il grande mestolo usati nel film.Inoltre, è da ricordare Mattozzi, prima ai Ban-chi Nuovi e poi nei pressi di Piazza Borsa, cosìcome Sorbillo ai Tribunali, che recentementeha aperto pizzeria a Milano e, mi dicono, inAmerica.Una tipica pizzeria è Di Matteo, dal 1936 in viaTribunali, dove il Presidente Clinton gustò una

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pizza "a libretto", in piedi all'esterno, cometanti avventori nostrani.Una pizzeria famosa è anche "Gorizia" in ViaBernini al Vomero che nel 2016 ha compiutocento anni. Si chiama Gorizia per la ventata ir-redentistica dei primi del secolo scorso. Qual-che mese fa, in occasione di una presentazionedi un libro sul Vomero in una libreria di piazzaVanvitelli, intervenne uno degli eredi della fa-miglia che, fra l'altro, raccontò quanto era ca-pitato a suo nonno. In pizzeria fu annunziata lavenuta di un Principe: era Totò. Egli chiese chegli fosse servita una pizza diversa da quelle chenormalmente si preparano. Il pizzaiuolo nonsapeva cosa fare: si trovava fra le mani dei car-ciofi e disse al Principe più o meno così: «Vela posso preparare con i carciofi?». Totò gradìl'idea e mangiò con piacere la pizza guarnita dicarciofi. Da allora in poi tornò altre volte evolle sempre quella pizza così concepita. Na-turalmente, il pizzaiuolo si faceva vanto di rac-contare ai suoi clienti quest'episodio cheincuriosì tanti che chiedevano di provare unapizza così strana. Evidentemente, dovette pia-cere tanto che si moltiplicavano, nel tempo, lerichieste. Ed allora, si ordinavano: «Tre Totò»,«Due Totò» e così spesso. Un giorno capitò inpizzeria di nuovo Totò che con le sue orecchiesentì: «Tre Totò», «Due Totò». E fece al pizza-iuolo affettuose rimostranze per aver pubbli-cizzato il fatto.Altra pizzeria che ha compiuto 100 anni nel2016 è "Umberto" a Via Alabardieri.Una pizzeria famosa a Napoli fu quella "d' 'efigliole" a conduzione familiare, nei pressi delvecchio Tribunale. Si facevano solo pizze fritteche venivano mangiate in piedi all'esterno. Io,da giovane, ne ero cliente quasi quotidiano.Una delle sorelle, 'a cchiù cchiatta, raccoglievaordinazioni e soldi anticipati, le altre sorelle suun banchetto le preparavano e l'anziano padrele friggeva. Ancora fumanti e bollenti, passa-vano, avvolte in una carta doppia spugnosacome quella che una volta usavano i pesciven-doli, nelle mani degli avventori. Per non scot-tarsi il palato, bisognava addentare la pizza congrande attenzione perché il fumo caldo e, spe-cialmente, la ricotta bollente potevano ustio-

narlo e screpolarlo.Le eredi d' 'e figliole ora sono in via GiudeccaVecchia e sono fornite anche di tavoli.Altre pizzerie molto note a Napoli sono "DaMichele", "Trianon", "Pellone", "Pasqualino"a piazza Sannazaro, la "Cucina del gallo" allaSanità e tante altre, altrettanto degne della no-stra tradizione.La pizzeria tipica napoletana è quella con i ta-volini di marmo o pseudo-tale, con le posateavvolte nel tovagliolo di carta, con bicchierisemplici e sedie normalissime, tutto ridotto al-l'essenziale. L'ambiente sofisticato non sempreè un buon segno, anche ai fini del conto. Lapizza può avere prezzi diversi, l'essenziale è labontà che, sicuramente, nella pizzeria tipica èottima ed economica. Il segreto principale stanelle dita magiche dell'esperto pizzaiuolo.Se mangi una pizza da De Matteo, ad esempio,esci di là soddisfatto per la bontà del prodottoche ti è stato servito e meravigliato di aver pa-gato così poco.

La pizza nella musica e nella poesiaTi pareva che poeti e musicisti non si sbizzar-rissero ad esaltare le qualità di questa che è unadelle più geniali invenzioni che uomo abbiamai concepito? Come sono belli i versi di unacanzone del '600: «Bella d' 'e belle de li Maju-rane / famme na pizza quanno faje lu ppane».«Ma tu vulive 'a pizza, 'a pizza, 'a pizza, cu 'apummarola 'ncoppa, cu 'a pummarola 'ncoppa,'a pizza e niente cchiù!». Così cantava il buonAurelio Fierro, ma un'interpretazione magi-strale e azzeccosa fu anche quella di GiorgioGaber. La bella fanciulla non vuole anelli dibrillanti, non vuole pesce fresco servito in ri-storanti à la page, né torta di cinque piani, masolo ed esclusivamente la pizza.Canzoni sulla pizza sono state scritte dal '500in poi da Autori famosi. Ne cito qualcuna: ce-lebre è 'O pizzaiuolo nuovo del 1896 ed ha au-tori del calibro di Capurro e Gambardella. DiGiacomo e Valente nel 1902 regalano 'A pizza-ria 'e Don Saveratore. E.A. Mario ce ne ha re-galate due, una con Garofalo: 'A canzona d' 'apizza del 1947, l'altra solo sua, del 1948 dal ti-tolo 'A pizza c' 'o segreto.

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Dal 9 settembre al 3 ottobre, nella Serra Merola dell’Orto botanicodi Napoli, in una rassegna intitolata “La scultura come attiva-zione dello spazio”, sono state esposte opere, sia grafiche, che scul-toree, dell’artista Giovanni Ferrenti, la cui evoluzione haconsentito di cogliere l’influenza che le prime hanno esercitato

sulle altre e, in generale, sulla sua scelta della materia-ferro. Le opere in mostra sonostate realizzate nel periodo dal 1942 ad oggi, con esclusione, quindi, di quelle ap-partenenti alla fase figurativa dell’autore.

Mi piace ricordare, fra le altre, 'A pizza c' 'apummarola dell'affiatata coppia Pazzaglia-Mo-dugno e 'A pizza dei grandi Testa-Martelli.Poesie sulla pizza se ne contano tantissime,tutte profumate di pomodoro, origano, aglio,mozzarella, in un alone di fumo inebriante.Una poesia triste la scrisse Raffaele Viviani neiprimi anni '40, in tempo di guerra e fame, daltitolo 'O pizzaiuolo. In questa poesia si evocail ruoto che il pizzaiuolo ambulante portava intesta. Chi se lo ricorda? Era di ottone e rame.Il coperchio aveva tre o quattro cannoletti caviper far uscire il fumo. All'interno, a mezza al-tezza, vi era una griglia bucherellata su cui ve-nivano adagiate le pizze e serviva per far colarel'olio che eventualmente potesse versarsi.Un poeta, che ha fatto cultura nella prima metàdel '900, è stato Amedeo Mammalella che ci hadonato sulla pizza versi molto belli. Essa è pa-ragonata al volto di una fanciulla, agli acini diun melograno, alla bocca di una bella donna,al sorriso di luna piena quando questa spuntad'estate a prima sera.Ma la più bella poesia sulla pizza è, a mio av-viso, quella di Giuseppe Cicala dal titolo: 'Apizza tutta Napule. Vi invito a cercarla e a leg-gerla. Difficile da recitare perché il ritmo el'espressione vanno continuamente modificati,dal lento al veloce, al piano. Solo un fine dici-tore provetto può ben interpretarla, così comemagistralmente la porge Franco Gargia e, na-turalmente, come la recitava lo stesso buon Ci-cala.

Pizza per tuttiLa pizza ha avuto ed ha il potere di uguagliarele classi sociali, dai nobili ai pezzenti. I re Bor-

bone ne erano paladini e così anche oggi tuttele categorie sociali, dai grandi professionisti,agli impiegati, agli operai, alla povera gentesono consumatori della pizza, senza riserve, inpiedi o al tavolo. La pizza ha fatto e fa felicitutti, anche quei poveri che richiedevano e vo-lentieri ricevevano dai pizzaiuoli i "cornicioni"lasciati dagli avventori. E con essi si saziavano.Si racconta che Ferdinando II e sua moglieMaria Teresa, stufi di mangiare i piatti sofisti-cati di Corte, chiesero di mangiare delle pizze,quelle che si vendevano normalmente instrada. La conseguenza fu che nel giardinodella residenza reale fu impiantato un forno persoddisfare quella che divenne un'esigenza cu-linaria per i sovrani.

ConclusioneA questo punto, amici, a me (a voi no?) vienevoglia di andare da Di Matteo ai Tribunali e,come Clinton, in piedi e fuori al negozio, gu-stare una "fritta" piegata a libretto.Quante volte usiamo dire: «Me l'aggi' avutachïa' a libretto», per indicare l'accettazione diun sopruso, come atto di rassegnazione. Ma perla pizza il discorso è diverso.A parte lo sfizio di gustarla, piegarla a librettosignifica evitare che colino i preziosi ingre-dienti che la rendono saporita.Concludo con una massima di anonimo: «Se sifa in quattro per renderti felice, è una pizza».La pizza, dunque, è un'amica fedele, che cercadi affascinarti con i suoi colori, i suoi sapori, isuoi aromi. Ti chiede solo di provarla: non tidelude, ma una sola cosa desidera: farti felice!

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ASTRAZIONE E REALISMO

di Franco Lista

Idue termini astrazione e realismo messi aconfronto (così come lo sono astrazione ed

empatia nel famoso saggio di Wilhelm Worrin-ger), nell’opinione comune, diffusa anche tramolti fruitori d’arte, sono in contrapposizione.Per costoro, sembra che in pittura vi sia unalinea, netta e separatrice, tra il visibile, cioèquello che visivamente percepiamo e l’invisi-bile che si nasconde alla nostra vista. A ciò cor-risponderebbero, da una parte,rappresentazioni pittoriche della realtà esternasia pure stilisticamente diversificate e, dall’al-tra, la pittura astratta tutta rivolta a cogliere larealtà interna, quella della invisibile interioritàdell’artista.Naturalmente, cito questo corrente convinci-mento, peraltro privo di sforzi teorici, quandoprovoca la semplicistica separazione del-l’astrattismo dal figurativismo. Sembra che ri-vesta maggiore considerazione sia perchécoglie l’intima e nascosta necessità espressivadell’artista, sia perché rappresenta un momentodi soluzione di continuità del lungo corso dellastoria dell’arte, tutto orientato alla rappresen-tazione del visibile. Basterebbero solo un paio di autorevoli cita-zioni, per rimettere in ordine la distorta e di-vulgata convinzione; ad esempio Merleau-Ponty e Paul Klee: «…l’invisibile non è il con-trario del visibile:…l’in-visibile è la contropar-tita segreta del visibile»1; «L’arte non ripete lecose visibili, ma rende visibile»2.L’arte dunque consiste proprio nell’in-visibileincarnato nell’opera.

L’essere figurativa o astratta certamente noninfluenza la vera qualità dell’opera, poiché ibuoni pittori che guardano la realtà, non imi-tandola semplicemente, sono quelli che col rea-lismo creano una nuova realtà e, dunque, comestoricamente si è dato, sono creatori come losono gli astrattisti.Lo stato delle cose pone non poche domandesu cosa sia l’arte astratta e ciò, a ben guardare,è anche lo stato d‘animo di non pochi artisti,critici e collezionisti. Soprattutto taluni criticigenerano aporetiche confusioni quando tentanodi conferire un ordine sia stilistico che tempo-rale all’ampio fenomeno dell’astrattismo, gui-dati da precisi obiettivi: ordinare, classificare,incasellare in “-ismi” stilistici e archi temporaliun andamento creativo che spesso si mostra –lungo il filo diacronico dell’arte – non rettili-neo nella sua continuità, bensì curvilineo, conimprevedibili ritorni, accartocciamenti e seg-menti spezzati.Si dirà che bisogna ordinare le cose per chia-rirle e poterne trovare una ragione; ciò com-porta, come nel caso dell’astrattismo e del suodirompente affrancamento dalle tradizionali di-pendenze rappresentative, non lievi forzature.La molteplicità e varietà delle forme espressiveastratte poco si presta a rigide sistematizzazionicritiche; esse non sembrano facilmente ricon-ducibili a indirizzi e formule stilistiche chepossano mettere insieme, in modo semplice epiano, la straordinaria pluralità di esperienze etendenze che nel corso del tempo sono stateprodotte e fruite.

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Quando la critica si fa storia, come è accadutoper l’astrattismo, c’è necessità di affrancarsidalle sistematizzazioni provvisorie, cioè daquelle tipologie critiche che non danno consi-stenza alla complessa fenomenologia del farearte. Georges Roque sostiene che «una storia delleconcezioni dell’arte astratta…non è stata maielaborata». Prova ne sia la confusione che an-cora oggi si fa nell’adoperare termini qualiastrazione, astratto, astratto-concreto, arteastratta, astrattismo geometrico (con tutte leconseguenti, innumerevoli, aggettivazioni) e,ancora, arte non-figurativa, non-figurazione,arte non-oggettiva…Da questa sorta di albero terminologico discen-dono altre ramificazioni che designano l’infor-male, la pittura e la scultura materica, lapittura segnica e gestuale, la pittura d’azione,l’espressionismo astratto e i due movimentiitaliani del nucleare e dell’arte spaziale.Una complicatissima geografia, questa, di ten-denze e movimenti, tutti di derivazione astrat-tista, che ha dato corso ad accese discussioni epolemiche tra gli addetti ai lavori. Gillo Dorfles, il maggiore studioso delle re-centi tendenze artistiche, critico militante, pit-tore e testimone vivente delle vicende dellacontemporaneità, sicuramente è quello che hafatto maggiore chiarezza dell’ingarbugliatamatassa dell’astrattismo. Egli, infatti, cosìscrive: «Il conflitto tra ‘concretismo’ (o astra-zione geometrica) e ‘astrattismo’ non geome-trico (detto anche in Francia “abstractionlyrique” e che come abbiamo visto si vennesuddividendo negli svariati movimenti dell’in-formale, del tachisme, dell’“action painting”,della pittura segnica, gestuale e materica) do-veva esplodere in tutta la sua violenza soltantonegli ultimi anni. Infatti, nel periodo tra le dueguerre il “fronte astratto” aveva ogni interessea mantenersi compatto contro lo strapoteredella pittura figurativa; e invero una sorta difratellanza di tutti gli artisti “non figurativi” eraancora evidente: ciò che allora contava era ilfatto di dar vita a delle opere che non fosseronaturalistiche e non avessero riferimenti con larealtà del mondo esterno»3.

Non a caso, rispetto a questa sorta di galassiaancora in espansione, c’è chi ha cercato di or-dinare, adoperando semplicisticamente la ri-partizione tra astrattismo non geometrico eastrazione geometrica o chi ha segnato unalinea di separazione tra artisti che configuranosolo forme che non hanno riscontro nel mondoreale e artisti nelle cui opere è possibile rintrac-ciare legami, anche debolmente evocativi,della realtà.La questione, come si vede, è complessa; vaoltre la schematica ricerca di classificazioni ed’ingannevoli problematiche terminologicheche fissano solo etichette, producendo nuovi “-ismi”, per cui volendo dare un contributo co-noscitivo e di chiarimento al percorso dell’arteastratta, o meglio aniconica (adoperando untermine più comprensivo che genera menoconfusioni), conviene ripercorrere molto sinte-ticamente lo straordinario svolgimento di que-sto importante percorso dell’arte.

Astrazione e formativitàIl processo graduale della storiografia artisticarende evidente come l’astrattismo nasca nelprimo decennio del Novecento ad opera di ar-tisti che rigettano i modi figurativi della rap-presentazione tradizionale. Alcuni di essimettono a fondamento delle loro ricerche lapossibilità di configurare libere forme con unuso altrettanto libero del colore; mentre altri,mossi da differenti istanze, creano e sperimen-tano la purezza del colore che risuona nell’ana-loga purezza di rigorose forme geometriche.Certamente, questa schematica descrizione nonè assolutamente esauriente; può solo servireper comprendere le ampie e contemporanee in-fluenze che l’astrattismo ha determinato, adesempio, sulla grafica, sul disegno industriale,sull’architettura.Le differenze, anche profonde, tra le due fon-damentali correnti (astrazione informale eastrazione geometrica) hanno poi sollecitatol’uso di varie denominazioni, tutte, a mio av-viso, riconducibili a due modalità espressiveche possono esser espresse, in maniera più pre-gnante, con i termini di astrazione calda eastrazione fredda. Due denominazioni tantoampie da farci riflettere in maniera critica sulla

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complessità dell’astrattismo. La prima rimanda al lavoro asistematico,estemporaneo, assolutamente libero dell’arti-sta, colto nella sua gestualità emotiva: unasorta di “formatività” molto diretta e operativa,che va vista sia nelle problematiche tecniche enel concreto coinvolgimento dell’artista con lamateria e i materiali («Mi lascio sempre gui-dare dalla materia», dichiara Mirò), sia nellaconnessa azione di sondaggio e “interroga-zione” della stessa materia.Un approccio questo, la cui spinta estensioneè la pittura informale dove l’eversiva sostanzamaterica, sempre libera mai circoscritta, con-serva la pienezza e «la bellezza dell’indetermi-nato», come direbbe Calvino. Il pensiero va aShiraga, del gruppofortemente sperimen-tale “Gutai”, e alla suaforte volontà di andareoltre, di trascendere lamateria, intervenendosul suo disordine pri-migenio, mettendola instrettissimo connubiocon la natura.Forse, le penetranti pa-role di Pareyson edella sua Estetica dellaformatività, significano molto per quanto ri-guarda l’energica azione dell’artista, astrattistanon geometrico: un «fare che mentre fa inventail modo di fare»4. La seconda astrazione, quella che abbiamo de-finito “fredda”, si fonda essenzialmente sullageometria, o meglio, assume la geometriacome principio germinativo delle forme, allar-gandosi col segno e col colore all’evocazionedello spazio e delle sue metamorfosi, all’equi-librio e alla organizzazione formale, intesacome controllo del gesto emozionale.La geometria, da sempre, è stata un particolareseme di emozioni estetiche; basti pensare al-l’arte vascolare ellenica del X-VIII sec. a.C.,col suo straordinario, sorprendentemente mo-derno, spirito geometrico e ad Apollinaire, chenelle sue Meditazioni estetiche scriveva: «Lageometria…è stata in ogni tempo la regola

della pittura». E qui il pensiero va, soprattutto,alla pittura che utilizza in maniera pura la geo-metria: il Suprematismo di Malevitch e la ri-gorosa ricerca di Mondrian.In definitiva, pur non trascurando una spiccatasensibilità verso la materia, le correnti di astrat-tismo geometrico si sostanziano fondamental-mente di una metodologia spiccatamenteprogettuale, stabilendo una forte e anticipatricecontiguità col design e l’architettura.La narrazione, resa dalla corrente storiografia,si sofferma su quanto le forme prodotte dagliastrattisti differiscano tra loro e su cosa hannoin comune nel presentarsi insieme come risul-tati ed elementi di sollecitazione in direzionicertamente non univoche, che non ammettono

cioè una sola defini-zione, così come è datoa vedere a chi esaminiil complesso e ramifi-cato percorso della ri-cerca artistica.Per ciò che più inte-ressa la ricostruzionestorico-critica, l’esamedei vari rapporti tra leforme iconiche e quelleaniconiche è quello chedà maggiori risultati, a

partire dal famoso saggio del 1908 di WilhelmWorringer5. Questo importante teorico dell’arte, come hascritto Rudolf Arnheim, ha il «merito storico…nell’aver fatto della forma non realistica unaconcezione positiva della mente umana… Lasua bipolarità, che vede contrapporsi arte na-turalistica e arte non naturalistica, ha tuttaviaprodotto una spaccatura artificiale nella storiadell’arte… È questa una dicotomia che conti-nua a perseguitare il pensiero del nostro se-colo»6.Una riflessione questa di rara chiarezza che po-trebbe essere utile nei molteplici e talvolta in-garbugliati dibattiti e discussioni sull’arteastratta, su forme iconiche e forme aniconiche,i cui meriti sono sintetizzati, con straordinariaefficacia, da Filiberto Menna: «La praticadell’astrazione non mira a un ritiro dal mondo

W. Kandinskij, Primo acquerello astratto

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bensì a penetrarne l’essenza»7. Bisogna a questo punto accennare alla vicendadella progressiva affermazione dei linguaggidell’astrattismo che, trasgredendo i codici diuna tradizione lungamente consolidata, anda-vano a frantumare i mille specchi prospetticidella rappresentazione figurativa.Nella comune trattazione, la fase iniziale del-l’astrattismo è fatta risalire «intorno al 1910,quasi contemporaneamente, in diverse partid’Europa»8; ma certamente, dovremmo citareorigini più lontane, dal momento che ricono-sciamo alcune caratteristiche tipiche dell’infor-male in certi dipinti di Turner. Gli antecedenticome è noto sono diversi. Limitiamoci a Kandinsky. Appare in propositoindubbiamente interessante, l’episodio singo-lare e, al tempo stesso, esplicativo, capitatoall’artista. L’aneddoto, più volte citato nellastoriografia artistica, assunto spesso come si-gnificativo inizio dell’astrattismo, è ritenuto daqualche acuto critico persino dannoso ai finidella corretta comprensione dell’astrattismo. Sembra che il primo discernimento tra formeiconiche e forme aniconiche Kandinsky looperi allorquando nel suo studio resta attrattoda un proprio dipinto che stima dotato di sin-golare bellezza, ma difficile da capire perchéindecifrabile. Si rende conto poi che si trattavadell’opera capovolta. Di questo singolare ac-cadimento è lo stesso artista a fornirci una ef-ficace testimonianza scritta: «…a Monaco, ungiorno rimasi colpito da uno spettacolo inat-teso, proprio quando stavo tornando nel miostudio. Il sole tramontava; tornavo dopo averdisegnato ed ero ancora tutto immerso nel miolavoro, quando, aprendo la porta dello studio,vidi dinanzi a me un quadro indescrivibilmentebello. All’inizio rimasi sbalordito, ma poi miavvicinai a quel quadro enigmatico, assoluta-mente incomprensibile nel suo contenuto, efatto esclusivamente di macchie di colore. Fi-nalmente capii: era un quadro che avevo di-pinto io e che era stato appoggiato sulcavalletto e capovolto»9. Kandinsky dunque si rende conto che è proprioil capovolgimento del dipinto a provocare laperdita di iconicità alla quale era abituato; per-

dita rimpiazzata dalla acquisizione di unanuova e sorprendente natura: l’astrazione tuttafondata sulla assoluta libertà della forma e delcolore, una volta che siano stati svincolati darapporti con la realtà.È, a dir poco, singolare e soprattutto indicativodi acuta riflessione il fatto che Benedetto Croceabbia considerato, anticipatamente, lo stessofenomeno percettivo nella sua ricerca filoso-fica. Infatti, la prima edizione della sua Este-tica è del 1902, saggio peraltro scritto l’annoprecedente. Mentre il Primo acquerelloastratto (così è il titolo del dipinto) di Kandin-skij è del 1910!Croce, a proposito del paesaggio e della realtà,così scrive: «È stato osservato che, per aver go-dimento estetico dagli oggetti naturali, con-viene astrarre dalla loro estrinseca e storicarealtà, e separare dall’esistenza la semplice ap-parenza o parvenza; che guardando noi un pae-saggio col passar la testa fra le gambe, in mododa toglierci dalla relazione consueta con esso,il paesaggio ci appare come uno spettacolo fan-tastico…»10. In buona sostanza, o capovolgendo (nel casodi Kandinsky) il dipinto figurativo, ossia un di-pinto portatore di verosimiglianza, magarianche di un grado di iconicità tale da rappre-sentare fedelmente o dissimulare la realtà, opassando la testa tra le gambe (nel caso diCroce) nel mirare l’iconicità totale, ma capo-volta, della realtà, si determina uno stravolgi-mento percettivo e conoscitivo tale da mutarele apparenze sensibili in intelligibile astra-zione. Le due esperienze percettive connettono, en-trambe, realtà e pensiero, ovvero produconoquella particolare esperienza emotiva chenasce dall’interazione tra realtà e coscienza chefarà dire, molto più tardi, a Merleau-Ponty: «Ilvisibile è una piega dell’invisibile».L’operazione di ribaltamento della rappresen-tazione della realtà o il rovesciare l’abitualemodalità fruitiva del mondo esterno, così comeindicano l’artista e il filosofo, è cosa rilevantepoiché ci riconducono alle due inclinazionifondamentali dell’arte non figurativa: unastrattismo senza rapporti col mondo appa-

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rente, estrinsecamente fenomenico, e un astrat-tismo nel quale appare una superstite e alteratacittadinanza di segni e simboli che rimandanoal panorama rappresentativo.Infatti, nelle stesse opere di Kandinsky, (e nonsolo in quelle iniziali) ritroviamo alcuni ele-menti di natura figurativa sia pure fortementesemplificati: dal «motivo della troika», così de-finito dall’artista e da lui spesso utilizzato, pre-sente in modo netto nella grande tela Quadrocon bordo biancodel 1913, fino al-l’ultimo olio, Slan-cio moderato del1944, dove sonochiaramente indivi-duabili fantastichesagome di esseriacquatici che sem-pre ci sorprendonoper la loro mutevo-lezza tra ironica di-mensione irreale econcreta immaginedi vita sottomarina.Ed è l’imprevedibile e poetico cangiare delleforme rappresentative in segnali pseudoiconicia sollecitarci, a incuriosirci al punto da riper-correre l’itinerario dell’artista che va oltre larealtà, agendo in profondità, per svelarne i purivalori emozionali nel fantastico percorso me-tamorfico a cui sottopone le cose.Questa essenza inalterata, sempre insorgentenel piano interpretativo dell’arte astratta, puòessere generata, come si è già accennato, siadalla modificazione della realtà, deformata econtraffatta al punto da infrangere qualsiasi ri-conoscibilità col mondo esterno, sia dalla puratrasparenza della poetica e dalla spirituale atti-vità del pensiero di Kandinsky.Charles Estienne lo ritene «padre fondatoredell’astrattismo», mettendone in evidenza lacapacità di «liberazione delle forme svuotatedel loro contenuto naturalista». Riconoscevadunque la legittimità della presenza nelle operedi cose o anche di una «certa atmosfera» chepotesse far risalire “al mondo esteriore» dalquale provenivano queste tracce ancora figu-

rative.«Kandinsky – scriveva, negli anni Cinquanta,Estienne – ha fatto il grande passo, ha superatola frontiera che separa il mondo esteriore dalmondo interiore, e così arriva a scoprire ilmondo interiore, visto nella sua anima, nellasua essenza».Il fascino dell’arte astratta consiste proprionella cattura di questa essenza che è il valoregenetico, creativo, fluttuante dell’opera: dalla

liberatoria aliena-zione iconica al-l’alto grado di purasensibilità quando,aniconicamente,prende forma nellamateria.L’astrattismo ap-pare connaturatoall’essenza anico-nica del “mondointeriore”, per cui ènaturale conside-rare come un di-

pinto astratto sia ingrado di realizzare finalità di conoscenza emo-tiva nella misura in cui scioglie, presso il frui-tore, certe ambiguità di lettura e diinterpretazione legate al grado di aniconicitàdella pittura.

Pensiero e formaVi è necessità di una dimensione fruitiva criti-camente aperta al nuovo, sollecitata dal desi-derio di realizzare progressivamenteun’autonomia di giudizio tale da creare siste-matiche forme di approccio, utili alla compren-sione delle esperienze artistiche di naturaaniconica. Si tenga anche conto dell’influenza,sul fruitore e sull’appassionato riguardante leopere d’arte, di molte estetiche di distorto rife-rimento a quelle di matrice idealistiche. Taliestetiche insistono in modo abnorme sul datoemotivo, ritenendo il valore artistico il portatodell’ineffabile, dell’indicibile. Una sorta di“mistero” insopprimibile dell’animo umanoche poco si presta a un’osservazione rigorosa-mente analitica.In proposito e per converso, va detto che con-

J. Kosuth, One and three chairs

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siderazioni teoriche e modelli scientifici appli-cabili alla valutazione delle opere d’arte sonostati sperimentati; ad esempio una stringente“scala di iconicità “ è stata messa a punto daAbraham Moles, acuto studioso della perce-zione estetica e della teoria della comunica-zione. Moles, agli inizi degli anni Settanta,fissa gli estremi della sua scala di valori met-tendo al primo posto (per l’alto grado d’iconi-cità che riveste) l’oggetto reale; mentre collocaall’estremo opposto della scala la parola chedesigna l’oggetto, considerandola portatricedel più alto grado di astrazione. Naturalmente,in posizione intermedia, vi è tutta una serie divalori a iconicità decrescente; ossia, cam-biando verso, potremmo definirle ad astrazionedecrescente.La scala di Moles incuriosisce, desta interessequando la seguiamo nella progressiva succes-sione dal reale all’astratto, dal visibile all’invi-sibile.Attribuendo a essa una qualità scientifica, co-munque verificabile nel vivo dell’approccio al-l’opera, dobbiamo per amore di verità storicacitare il valore di anticipo, rispetto a Moles, diun artista. Si tratta di Joseph Kosuth, artistaconcettuale che nel 1965 realizza l’opera Oneand three chairs, ora al Moma di New York.Opera questa emblematica che si fonda sulconcetto di dissoluzione della materialità del-l’oggetto a vantaggio della sua affermazioneconcettuale, apparendo cosicché come consa-pevole preannuncio della scala di Moles. Di-fatti, la scala valoriale del punto di vistaiconico è riconoscibile nei tre gradi della rap-presentazione: la sedia reale al centro, la foto-grafia al vero a sinistra, la parola chair ripresae ingrandita da un dizionario e posta a destradell’installazione. Si tratta, dunque, di un con-cettuale preannuncio della teoria molesianamesso in opera con la fulminante capacità co-municativa, tipica di Kosuth.La cosa va opportunamente segnalata quale ef-ficace, provocatorio e convincente accosta-mento alla piena comprensione del rapporto traiconico e aniconico.Volendo ancora, in questa sintetica escursionesulle attività artistiche di natura aniconica, sof-

fermarci su fatti e considerazioni meno noti,eppure di significativo interesse, dovremmoaccennare a Suzi Gablik e ai contenuti dellesue ricerche che partono da un atteggiamentovalutativo dell’arte considerata nel suo svi-luppo diacronico. Il piano epistemologico sucui si fonda la ricerca è condensato nel suo sag-gio Progress in Art, del 1976, avendo come ri-ferimento basilare l’epistemologia genetica diPiaget.Gablik così facendo delinea una sua personalecongettura evolutiva dell’arte, in direzione del-l’astrattismo: una sorta d’itinerario che sisvolge nel corso del tempo, similmente al com-plesso sviluppo cognitivo umano e al progre-dire degli aspetti operativi della conoscenza.Insomma, l’arte, in modo corrispondente all’at-tività cognitiva, acquisirebbe una maggiorecomplessità nel progressivo affrancamento daimodi figurativi della rappresentazione, giun-gendo come posizione apicale, al più alto gradodi astrazione, ossia «a una complessa organiz-zazione dei sistemi formali logici», comeanche Hans Belting riconosce.Un’altra scuola di pensiero, per così dire, negaquesta tendenza dell’arte a strutturarsi in formearticolate e significative, non ravvisando inessa una linea evolutiva di carattere cognitivo.Propende invece per una sorta d’inclinazionetrascendente dell’arte. In breve, potremmo direche a una visione scientista si contrappone unavisione spiritualista.La propensione alla spiritualità ha radici nel-l’Einfuhlung, cioè in quella empatia già rintrac-ciabile nelle opere di Herder e di Novalis intermini d’immedesimazione tra soggetto e og-getto. Motivo portante del già citato fondamen-tale saggio, del 1908, di Wilhelm Worringer,laddove l’astrazione è, nell’esperienza estetica,consonante con l’aspirazione alla purezza ditutto ciò che si manifesta come non apparte-nente al mondo organico.E’ noto come a distanza di due anni dall’uscitadel saggio di Worringer, Kandinsky scriveràin tedesco Lo spirituale nell’arte: una filoso-fica riflessione sui significati delle forme e deicolori che avrà largo successo e sarà ripresa poida più di un autore.

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Vale la pena, a dimostrazione degli effetti dilunga durata del pensiero di Kandinsky, citareil saggio di Clement Greenberg All’origini del-l’opera d’arte contemporanea, dove il criticosostiene «che l’astrattismo è l’ineluttabile ri-sultato processuale del fare arte. Ovvero, l’arte,allontanandosi dalle allucinazioni del realismo,subisce una sorta di “purificazione” che laporta al pieno dominio del campo pittorico». Questo sublimato e trascendente processodell’arte, anche qui evolutivo ma sotto altra an-golatura, sostenuto e argomentato da Green-berg, non può cheapprodare all’asso-luta aniconicità; nonpuò che rinviarci aquell’unico conte-nuto astrattivamentesensibile, puro e ori-ginario, dell’essenzadella pittura. Uno straordinario ri-verbero concettualedi questo pensieropossiamo coglierlonella riflessione di Mark Rothko, artista diestremo e spirituale astrattismo, quando in-tende il percorso dell’artista come gradualecammino e progressivo avanzamento che con-segue «l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra ilpittore e l’idea e tra l’idea e lo spettatore»11.

Astrattismo italianoIn Italia cosa è accaduto circa la contrapposi-zione tra astrazione e realismo? Legittima-mente ci poniamo questa domanda per passare,in linea di continuità di discorso, ad argomen-tazioni circoscritte al nostro paese nel quale iltragitto dell’arte astratta non è stato certo fa-cile.Nell’immediato dopoguerra, dopo la caduta delfascismo e del suo portato artistico, in Italia sifronteggiavano sostanzialmente due correntiartistiche, entrambe significativamente espres-sive del nuovo assetto geopolitico.La prima, non certo per ordine d’importanza,muoveva dal cosiddetto “realismo socialista”.Riceveva direttive politiche e aveva comeespressione di riferimento la figura di Renato

Guttuso. La seconda corrente era quella astrat-tista, che andava diversificandosi in varie ten-denze, sotto lo stimolo e gli orientamenti delleben più consolidate esperienze straniere.Basterebbe, per fare un solo e indicativo esem-pio di questa netta antinomia, citare il Gruppodegli Otto (Birolli, Corpora, Morlotti, Santo-maso, Turcato, Vedova, Afro, Moreni), formatonel 1952, seguito negli aspetti critici e teoricida Lionello Venturi. Una lenta e ostacolata as-similazione, avveniva dunque, della cultura ar-tistica europea, sia delle avanguardie storiche,

sia delle più recentiricerche in terra ame-ricana. A Napoli poisi registrava un’ana-loga e forse più pro-nunciata situazione;ad esempio un criticoimportante, nonchépittore militante qualè stato Paolo Riccinon lesinava giudizicritici sugli astrattistie vere e proprie stron-

cature nei confronti dell’astrattista Renato Ba-risani.Insomma, la convivenza tra astrattisti e figura-tivi era certo non facile, aggravata com’era daun ambiente culturale e artistico legato ancoraalla bella e suggestiva pittura dell’Ottocento eda poco in contatto con la pittura tardo-impres-sionista e il cubismo.Così, progressivamente, la strada dell’astratti-smo prende consistenza; gli astrattisti avan-zano nella loro esplorazione dell’invisibile,guardano ai significati forti ed esaltanti delleavanguardie storiche, ricercano dentro ognipossibile intrigo del rapporto visibile-nonvisi-bile, ogni immaginabile tensione e la capacitàgenerativa delle grandi correnti aniconiche.Tutto sincreticamente prende spessore: idee,influenze e suggestioni sono ricondotte alleloro diverse personalità con esiti indubbia-mente di grande qualità.Da qui, da questo nuovo clima, partono le stra-ordinarie avventure creative dei tagli di Fon-tana e dei grandi cretti di Burri.

A. Burri, Cretto

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Colpisce, ancora, dell’astrattismo un ulterioretratto comune al modo di lavorare e dar formache consiste nella capacità di vedere in profon-dità, di non restare in superficie. Una sorta di“vedibilità recondita”. Una particolare vedibi-lità che cancella la “prospettiva esterna” perfarle assumere il ruolo di “introspettiva in-terna”; cioè una visualità non più prospettica-mente arcana per ingannevole profondità, mauna visuale aperta sull’Io.Ed è proprio questa “vedibilità recondita” che,consentendo il “processo astrattivo”, ci fa con-siderare (per citare l’intensa e pregnante rifles-sione di Carlo Ludovico Ragghianti) «comeprincipio supremo della forma … astrarre quelche c’è di essenziale nell’essere … per espri-mere con la massima chiarezza e purezza l’es-senza, l’idea».____________

1 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano2007.2 P. Klee, Confessione creatrice, Milano 2004.3 G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Milano1961.4 L. Pareyson, Estetica: teoria della formatività, Torino1954; nuova ed., Milano 1988.5 W. Worringer, Astrazione e empatia, Torino 2008.6 R. Arnheim, Intuizione e intelletto, Milano 1987.7 F. Menna,L’ipotesi metafisica dell’arte astratta, inCommentari, 1961, n. 3, (in nota a M. R. De Rosa, In-troduzione a W. Worringer, Problemi dell’arte, Salerno1992).8 M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Nove-cento, Milano 1971.9 W.Kandinsky, Sguardo sul passato, in Wassili Kandin-sky, 43 opere dai Musei Sovietici, Milano 1980.10 B. Croce, Estetica, Bari 1958.11 A. Jensen, Conversazioni con Rothko, Roma 2007.

© Riproduzione riservata

GENNARO LUONGO

professore ordinario di Agiografia e LetteraturaCristiana Antica nell’Università degli Studi diNapoli “Federico II” e direttore dell’Archivio

storico diocesano di Napoli(19.12.1943 - 20.9.2017)

LONGAM PER VITAM SANCTORVM EXEMPLA SECVTVSAETHERIAM CVPIENS CAELI CONSCENDERE LVCEM

EX IMPROVISO CAELESTIA REGNA PETISTICOGNATOS SOCIOSQVE ANIMO DEFECTOS LINQVENS.

SEMPER HONOR NOMENQVE TVVM LAVDESQVE MANEBVNT.CVM FVERIT TEMPVS NOSTRI REMINISCERE AMICE

ET FACVLAM PRAESTES NOBIS DVBITANTIBVS VMBRIS.Antonio V. Nazzaro

(Avendo durante la lunga vita seguito l’esempio dei Santi, desideroso di ascendere all’eterea luce del Paradiso,all’improvviso sei salito al regno celeste lasciando parenti e colleghi nel dolore e nello scoramento. Qui sempre du-reranno le lodi del tuo nome onorato. Quando sarà il tempo, ricordati di noi con benevolenza e con la tua fiaccolafai luce a noi incerte ombre).

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AURELIO PELLEGRINOE IL “CORRIERE PARTENOPEO”

di Mimmo Piscopo

Il Corriere Partenopeo, mensile d’arte e cul-tura e narratore di eventi, condotto e diretto

dai fratelli Pellegrino, antichi e abili tipografida generazioni, faceva ampia pubblicazione diquanto atteneva alla vita cittadina.Emilio, pittore e docente d’arte, fondatore delCosmolismo, e Aurelio, giorna-lista ed appassionato studioso,ricercatore di storia patria, ave-vano creato, tra l’altro, un cen-tro-laboratorio d’arte in viaEnrico Alvino con l’aggrega-zione di un nutrito stuolo di ar-tisti, che facevano capo allaredazione in via Bernini, difronte alla galleria “La Vetta”.Negli anni che seguirono, conAurelio costituimmo un sodali-zio di amicizia artistica, fre-quentando luoghi disparati,grazie soprattutto alla sua abi-lità di giornalista e di ricerca-tore, organizzando documentari, articoli,segnalazioni, filmati trasmessi da diverse emit-tenti tv, tra le quali, per distinta sollecitudine,brillava per accoglienza Televomero di Anto-nio Tajani, operatore sempre sollecito ed ac-corto, particolarmente per la celebrata e seguitarubrica “Napoli Nostra”, con il prezioso con-tributo del versatile Maurizio Musella.

Servizio da colpo giornalistico fu il documen-tario in diretta del miracolo di San Gennaro edel Tesoro del Santo protettore nella sala blin-data, il 3 Maggio 1998. E proprio Aurelio Pellegrino, nella enfasi deireciproci ricordi, affidandomi una vecchia, in-

giallita foto in bianco e nerodegli anni trenta, raffigurante laprocessione di Pasqua, mi in-dusse a trasporla su tela con di-pinto ad olio.Fu nel 1993, che, dopo ventiseianni d’interruzione, riprese lasimpatica tradizione che si eraperpetuata nei secoli al Vo-mero. La manifestazione reli-giosa, con segnipagano-popolari, coinvolgevagli abitanti del quartiere, attra-verso le contrade della Pigna,del Vomero Vecchio e di Anti-gnano, passando per un vec-

chio tracciato tradizionale, in percorsoobbligato. La spiegazione delle fasi e dei passi liturgiciraccolti nel corso dei secoli la affido ad altriautori, eminenti studiosi e ricercatori che nehanno appositamente trattato con opportuneesplicazioni, quali Franco Strazzullo, MarioFùrnari, Sergio Zazzera, lo stesso Aurelio Pel-

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legrino. Dell’invito di luifui lusingato, maanche intimoritoper un compitoche ritenni suffi-cientemente diffi-cile per una seriedi motivi. Tutta-via, fui incorag-giato dall’insolitosoggetto e dalcoinvolgimento

emotivo di questo compito. Mi attivai in ricerche, indagini e visite per do-

cumentarmi sui personaggi, sui costumi e sullacoloristica degli anni ‘20, epoca della foto. Ri-sultò impresa laboriosa, tra documenti, foto evisite particolari presso i luoghi dove erano cu-stodite le statue dei protagonisti sacri, inchiese, sagrestie e cappelle di Arenella e S.Maria della Libera al Vomero Vecchio, tradi-zionali luoghi d’inizio della sacra rappresenta-zione. Risultò, infine, una buona opera su tela 50x70(v. foto in fondo), premiata dal consenso una-nime, che fu esposta in diversi esercizi com-merciali del quartiere e la cui visione suscitòammirazione pure tra le nuove generazioni.

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Il 14 settembre scorso, nell’aula magna dell’I.s.i.s. “GiovanniXXIII” di Salerno, in occasione dell’inaugurazione dell’annoscolastico, è stato restituito alla città il pannello ceramicomodellato dall’artista napoletana Diana Franco. L’opera,scampata alla demolizione del vecchio Istituto per le attività

marinare di via Alvarez e ritrovata, qualche anno fa, da un gruppo di cittadinanza attiva nei depositidell’I.s.i.s., è stata restaurata dagli allievi dello stesso, insieme con i docenti Enza de Vita, Miriam Gip-poni, Donato Inverso e con la ceramista Ilaria Di Giacomo, sotto la direzione artistica di DianaFranco e della figlia di lei, Manuela Capuano. La cottura è stata eseguita nel laboratorio del mainsponsor Antiche Fornaci De Martino di Rufoli; i costi dell’operazione sono stati sostenuti con l’impiegodei fondi POR Campania.

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MERIDIONALISMO… SÌMA CON UN PO’DI AUTOCRITICA

di Walter Iorio

La sospirata unificazione dell’Italia, conse-guita, apparentemente, nella seconda metà

dell’Ottocento ma compiuta, di fatto, a conclu-sione del primo conflitto mondiale, aveva do-vuto fare i conti con realtà economiche esociali assai contrastanti: con un Nord, cioè,ormai definitivamente industrializzato, giàall’avanguardia nella lavorazione dei manufattie da tempo orientatoverso un’economia dimercato; e con un Sud,invece, mentalmente re-trogrado, profonda-mente arretrato neisettori omologhi dellaproduzione e sofferentenella qualità della vita.Sospinto da questa stri-dente disparità di condizioni, lo stato unitario,accantonato il disegno della piemontizzazionea tutti i costi (con le asportazioni conseguentidi menti, risorse, impianti e strumenti e, pre-ventivamente, con le ritorsioni antibrigante-sche strumentalizzate ad arte dagli organi diinformazione del tempo) e successivamenteimpostisi i modelli repubblicano e democra-tico, dovette rendersi conto della specificitàgeografica, economica e culturale delle varie-gate regioni meridionali, creando, nel rapidovolgere dei decenni, enti, istituti, consorzi, as-sociazioni ecc., deputati alla migliore gestionedelle risorse umane e materiali. E così sorsero,

nel volgere febbrile e disordinato dei decenni,la Cassa del Mezzogiorno, l’Isveimer, lo Svi-mez e si crearono impianti industriali quali laRhodiatoce, la Mobil, la Cinefra ecc., mentreè notizia ormai acquisita e attiva la scelta diNapoli quale città di rappresentanza dellaApple, gigante planetario nella produzione dicomputers: iniziative benemerite e finalizzate

al rilancio del Mezzo-giorno italiano che, gra-zie a esse, potessereggere il confronto conle progredite aree delcorrispondente Setten-trione e del resto del-l’Europa. La speranza èquella di sempre: chenon vengano a galla an-

tiche e immutabili vicissitudini nepotistiche oclientelari nella gestione della cosa pubblica ein quella delle imprese private!Ma quali furono i risultati? Chi furono i politicie gli amministratori di quei progetti che eranocostati investimenti “a pioggia” di capitalepubblico? E, meglio ancora, di dove erano ori-ginarie le personalità, o molte di quelle, depu-tate allo scopo? La risposta sarebbe forsetroppo imbarazzante ma le cose… si sanno!Sapranno, poi, i managers e le dirigenze dellacelebre azienda informatica statunitense moti-vare e confermare la fiducia riposta negli orga-nici operanti in questa prestigiosa struttura

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internazionale e attivi nella periferia orientaledi Napoli? Resisteranno alla maldicenza delpregiudizio e alla tentazione del ripensamentonel caso malaugurato di modeste aspettative?Ormai di tali strutture è rimasto ben poco:nemmeno, per esempio, la traccia di quellaporzione di tangenziale che avrebbe dovutocongiungere il centro cittadino di Napoli conla periferia nord-occidentale: si trattava diun’opera ambiziosa che, già finanziariamenteimpegnativa, vide assottigliarsi progressiva-mente le ambizioni logistiche e… il capitale diinvestimento, al punto che fu intrapresa la co-struzione del tratto iniziale della sopraelevatadel Corso Novara ma mai portato a compi-mento l’intero progetto. E per di più, constatatel’inutilità, l’antigienicità e l’antiesteticità diquel segmento viario attiguo alla Stazione Cen-trale, se ne decretò l’abbattimento successivocon ulteriore dispendio di contributi pubblici!«E io pago!», diceva il Principe Antonio deCurtis, in arte Totò, in 47, morto che parla! Sorte migliore si sperava dai finanziamenti eu-ropei di “Italia ‘90” in occasione del Campio-nato Mondiale di Calcio di quello stesso anno,quando ci si sarebbe potuti recare allo stadioSan Paolo di Fuorigrotta con la comoda LineaTranviaria Rapida che oggi ha ridotto notevol-mente il suo percorso originario all’altezza delMolo Beverello, laddove, al momento, la sededei futuri nuovi binari è interdetta alla circola-zione su rotaia in attesa di già avveniristicherealizzazioni! E che dire della scandalosa vicenda della rico-struzione del dopoterremoto del 1980 e dei ri-tardi e delle disfunzioni operative efinanziarie? O ancora di quella dell’Ospedaledel Mare, autentico feticcio della sanità localesu cui gravano forse interessi privati, strategieclientelari e connivenze malavitose? Sembratuttavia che per la struttura sanitaria sia iniziatoin questi ultimi anni un corso virtuoso… ameno che non si tratti della solita, esangue,provinciale propaganda politica.Bisogna allora prendere atto di un dato incon-testabile: che nessuna ispirazione di governo,né di destra né di centro né di sinistra intendainvestire al Sud: e ciò a dispetto degli slogans

di quei personaggi che, con parole di circo-stanza e durante gli agoni elettorali, affermanodi battersi per la dignità e il benessere del Sud,– i più pericolosi! – ma ai quali nulla sta acuore più dell’acquisizione (per gli hominesnovi) e della tutela (per i politici di carriera) diimmeriti privilegi di casta e della sopravvi-venza nelle successive e omonime generazionidi politicanti, come in questo clima istituzio-nale già avvelenato da complotti e da intesecon gruppi criminali (in primis la mafia sici-liana, con la sua concorrente meno notastidda), la camorra campana, la sacra coronaunita pugliese, la ‘ndrangheta calabrese ecc.,ormai ramificate in tutto il Paese e finanche innazioni un tempo civilissime! Da Roma, infatti, sono pervenuti negli ultimitempi finanziamenti sempre meno corposi perquesti territori diseredati dalla storia e dallageografia contemporanee né sembra profilarsiall’orizzonte alcun cambiamento sostanziale dirotta, mentre nei loro confronti si è fatta piùguardinga la politica economica comunitaria.Senza poi parlare delle ormai secolari campa-gne di discredito tramate ad arte da pirati in-glesi travestititi da gentlemen teorizzatori delsubdolo e ipocrita politically correct contro lebellezze naturali nostrane, contro le vestigiasempiterne della nostra plurimillenaria cultu-ra, contro le stesse contrade amenissime e fol-kloristiche della nostra Italia, dove i pur menopeggiori di loro gradiscono stabilirsi e allequali altro non potrebbero opporre che le at-trattive “archeologiche” delle cabine telefoni-che di legno rosso o le strisce pedonali diLiverpool o di Londra attraversate dai Beatlesnegli anni Sessanta e trasformate in business ein monumento nazionale!, o le frastornanti slotmachines di ultima generazione! Davvero è il mondo alla rovescia! Eppure molti, ma per fortuna non tutti i gio-vani, italiani e meridionali, ammaliati da ina-movibili e acritici luoghi comuni, spessonemmeno accreditati di cultura profonda, con-siderano queste attrattive commerciali utili,uguali o addirittura superiori ai capolavorid’arte prodotti nella nostra Penisola e che perpigrizia o impegno culturale non conoscono:

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così fanno il selfy nei pub della capitale delRegno Unito, dove non di rado preferiscono la-vorare da sguatteri invece di studiare in patriaper un futuro migliore e pisciano (si perdoniall’articolista questa sola intemperanza lessi-cale) nelle rovine millenarie di Pompei o diStabia o di Ercolano o di altre località da dovetrassero vita le radici della civiltà occidentale!Di fronte a questa situazione di disagio diffuso,forse generale, in parte ingenita e in parte sto-rica, ecco scendere in campo infatti la rovinaperniciosa del livello culturale, spesso mode-sto, di tanta popolazione nazionale e meridio-nale (che si traduce talvolta in abbandoniprecoci dell’obbligo scolastico); del vittimismoprotestatario (capace di trasformare poveri maliberi cittadini in vittime di oscuri mestatori!);di avversione all’istituzione statale (da cui tuttosi pretende ma a cui niente si concede); dell’in-sofferenza di ogni norma, legge o regolamentointeso alla disciplina della vita associata (e nondi rado degenerante in forme individuali e col-lettive di aggressività); di violazione sistema-tica di quei valori di civiltà e di religione che,recepiti dalla tradizione ellenica, romana e cri-stiana, avevano creato le basi spirituali e ma-teriali dell’odierna umanità internazionale.Al giorno d’oggi, infatti, e a dispetto dellosplendore di un passato ancora fecondo ma ir-riverito e inaudito, l’espressione più immediatae a buon mercato della creatività meridionaleparla per bocca di quegli individui già esterior-mente impresentabili ma, quel che è peggio, in-capaci di corretta espressione italiana, senzaarte, senza educazione, senza stile, senza pu-dore, senza passato, senza presente, senza fu-turo, senza dignità, che a scopo di famapersonale, remunerazione radiotelevisiva e vi-

sibilità pubblica, calcano le scene dei modernicanali di comunicazione, dove simulano situa-zioni ad arte per rappresentare, deformare econfermare tutti i luoghi comuni sui propriconcittadini: quelli di cui si nutre l’universopregiudiziale di altri italiani di uguale taraturamentale: del resto, per questa gentaglia, scre-ditare se stessi e le proprie scaturigini identita-rie è l’unico modo per guadagnare la stima e lazuppa di chi difficilmente le concederebbe! Ed è un peccato, anzi una sciagura per quellepersone che, nate in ambienti difficili, sono in-dotte a porre le doti del loro ingegno, della pro-pria creatività e della individuale genialità alservizio di una umanità che, pur territorial-mente lontana e culturalmente diversa, sappiavalorizzarle e creare intorno a loro un sistemadi lavoro e un’organizzazione di risorse che,nei luoghi di origine, andrebbero dispersi. Perché, allora, il pensiero meridionalista abbiasenso e prospettive, dovrà porsi non più esclu-sivamente in termini di recriminate rievoca-zione passatista o di questione nazionale bensìcome forza propulsiva di idee, fermenti, inizia-tive, passioni e, in definitiva, di tutto quantoconcorra al benessere dell’Italia, desistendo siada dannosi antagonismi sia da autoreferenzialecelebrazione: indiscutibilmente, infatti, essonon difetta né di prestigio storico né di nobiltàdi origini né di elevatezza di intenti che sonogli strumenti più eloquenti di potenzialità e dirisultati prossimi venturi. Ma a condizione che sappia creare una classedirigente e un sistema organico di liberi pensa-tori, onesti politici, lungimiranti imprenditorie versatili lavoratori.

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È nata a Napoli l’associazione “Gustaw Herling un mondo a parte- Centro Studi”, con la finalità di curare e sviluppare i filoni cultu-rali dell’opera, della biografia e dell’impegno etico e civile delloscrittore polacco, nonché di partecipare al dibattito sui temi cultu-rali ed ambientali riguardanti Napoli e l’Italia e di promuovere lostudio e la ricerca sulle opere dello scrittore medesimo. L’iniziativaè stata presentata al pubblico il 26 settembre, nell’Aula delle Mura

Greche dell’Università “L’Orientale”, nel Palazzo Corigliano.

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L'INCERTO VIAGGIO DI PAOLO FRASCANINELLA NAPOLI REALE

E LA LEZIONE DI PHILIP ROTH

di Antonio Grieco*

Almeno dalla fine deglianni Settanta, Napoli e il

Mezzogiorno sono pratica-mente scomparsi dall'agendapolitica del Paese; a questa ri-mozione generale, a sinistra,si è spesso accompagnata unalinea conservatrice che l'haspinta ad assorbire pratiche eideologie lontane dalla suastoria.Questa indifferenza verso laquestione meridionale non èrimasta senza conseguenze;ad essa infatti è ascrivibileuna sostanziale debolezza dianalisi da parte di economisti,sociologi, scienziati sociali,che solo raramente si sono in-terrogati sulle gravi lacerazioni che ancora at-traversano interi territori al sud del Paese. Negli ultimi tempi la tendenza all'oblio meri-dionalista sembra essersi in qualche modo in-terrotta e sono apparse ricerche che, purmanifestando ancora limiti di diversa natura,provano a riaprire il discorso sul Mezzogiorno. Uno studio recente che sembra andare in que-sta direzione, anche se non persuasivo nelle suelinee generali, si deve a Paolo Frascani con ilvolume Napoli. Viaggio nella città reale (Bari-

Roma, Laterza, 2017), cheesamina i mutamenti, politici,economici, sociali, avvenuti aNapoli e nella sua area metro-politana dalla fine degli anniSettanta; trasformazioni chelo spingono a ragionare suquella metafora di “NapoliGomorra” a cui se ne starebbecontrapponendo un'altra disegno opposto, sotterranea,che racconta una città pontetra il Mediterraneo e l'Europa,che opera nel sociale e fadella ricerca creativa unostrumento essenziale persfuggire alla violenza dellacriminalità organizzata. So-prattutto quando guarda al

terziario come leva decisiva di un processo dimodernizzazione che può contribuire a fare diNapoli una città «che rimodella il proprio rap-porto tra il capoluogo e le comunità limitrofe»,Frascani si lascia andare a un eccesso di otti-mismo che non sembra giustificato alla luceproprio delle esperienze degli ultimi decenni,che hanno visto il prevalere «del terziario po-vero e quello avanzato contigui o separati dal-l'economia del malaffare», senza che ciò abbiacomportato una vera ripresa economica della

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sua area metropolitana.Lascia ancora più perplessi la sua analisi

quando risale alle origini del declino della città;qui, a nostro avviso, sarebbe stata opportunauna maggiore attenzione a quella linea di con-fine – politica, economica e sociale – che segnail passaggio dagli anni Settanta ai primi de-cenni degli anni Ottanta del Novecento, conl'intreccio tra politica, finanziarizzazione glo-bale dell'economia e mafie e l'abbraccio mor-tale al neoliberismo della nuova classedirigente al potere. Mai come in quel periodoinfatti le politiche nazionali hanno così dram-maticamente inciso sull'impoverimento dellanostra città. La deindustrializzazione di interearee di Napoli iniziò allora e non fu per nulladovuta – come sembra ritenere l'autore – a unfatto naturale o all'ineludibile transizione dalfordismo al postindustrialismo. Si trattò, alcontrario, di una precisa scelta politica. Comepolitica fu la decisione dei governi di allora –lo spiegò molto bene Margherita Balconi nelsaggio Bagnoli può vivere (in Micromega,1989) – di dismettere l'Italsider per favorirealtre aree del paese e alimentare gli appetitispeculativi in tutta la zona flegrea.È bene poi ricordare che in quegli anni non fusolo l'impianto siderurgico di Bagnoli ad esserecancellato dal diversificato sistema produttivometropolitano: la Federazione Regionale degliIndustriali denunciò infatti che dal 1981 al1988 migliaia furono le imprese costrette achiudere i battenti in Campania. La camorraringraziò e, indisturbata, occupò militarmenteil territorio trasformandolo in uno dei più im-portanti crocevia del traffico internazionale distupefacenti. Certo, alcune eccellenze napole-tane, come quella fabbrica diffusa che alla Sa-nità produce in nero scarpe, guanti, borse,costituiscono ancora oggi una risposta, se purparziale e ai confini della legalità, alla emar-ginazione di larghi strati sociali. Ma queste po-tenzialità, che hanno radici lontane nella nostratradizione manifatturiera, sono state lasciatedalle istituzioni per troppo tempo nel più totaleabbandono, costringendo tanti operai specia-lizzati a cercare altrove nuove opportunità dioccupazione. Questa storia, che ricorda ap-

punto la qualità delle nostre produzioni nel set-tore tessile, la possiamo ritrovare, tra l'altro, inPastorale americana, il capolavoro di PhilipRoth. Lo scrittore statunitense di origineebraica, nel raccontare la vita di SeymourLerov, detto lo Svedese, ci dice infatti che Ne-wark Maid – la cittadina nel New Jersey doveegli viveva, tra l'altro messa in ginocchio dauna banda di giovanissimi criminali – si af-fermò nella produzione dei guanti anche per ilprezioso contributo degli artigiani napoletani;nessuno, egli scrive, era in grado di tagliare iguanti con la loro stessa bravura. Ma lo scrit-tore dice anche altre cose che forse possonoaiutarci a capire le ragioni del mancato decolloproduttivo di tante nostre attività artigianali. Laproduzione di guanti a Newark, racconta sem-pre Roth, subì drammatiche crisi nel secondodopoguerra; momenti di gravi difficoltà, chefurono risolti in due modi: da un lato, supe-rando l'impresa familiare a favore dell'indu-strializzazione e della specializzazionedell'intero comparto, dall'altro, con un decisointervento da parte dello Stato che, con ingenticommesse militari, creò le condizioni per la ri-nascita economica della piccola città non lon-tana da New York. Questa storia, come pochealtre, evoca i problemi di casa nostra, dove al-l'assenza di risorse statali, si è aggiunta, nelcorso degli anni, una persistente inadeguatezzadei governi nel favorire un sistema di sviluppointegrato. Insomma, per il rilancio dell'area metropoli-

tana di Napoli non si può prescindere da nuoviinvestimenti, né da un innovativo progetto direindustrializzazione del territorio metropoli-tano.

Da questa prospettiva, occorre solo aggiun-gere che nella crescita del divario tra Napoli eil Nord del paese, un ruolo non certamente se-condario lo ha assunto negli ultimi decennil'antimeridionalismo leghista; una presa di di-stanza dal Mezzogiorno che, negli anni Ottantadel novecento, ha influenzato pezzi non mar-ginali della stessa sinistra settentrionale. Lo harecentemente sottolineato Isaia Sales (Risorsesottratte al Sud, i veri numeri dei fondi andatial Nord, in Il Mattino, 19 agosto 2016), ricor-

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dando come risorse stanziate per lo sviluppodelle aree depresse del Sud furono poi dirot-tate, in particolare al tempo del governo Ber-lusconi, verso altre aree del Centro Nord.Di questa deriva antimeridionalista Frascani

non fa cenno; e questo – ci permettiamo di os-servare – non consente di cogliere a pieno legravi inadempienze – inadempienze che pur-troppo ancora persistono – dell'azione dei go-verni verso il meridione.Il disegno di deindustrializzare Napoli non fuper nulla inevitabile; in un'ottica di sostenibilitàambientale, sarebbe stato possibile valorizzare

settori innovativi ancora presenti nella sua areametropolitana. Partire da qui, non da un gene-rico postindustrialismo – come sembra auspi-care l'autore – le avrebbe consentito uneffettivo processo di rilancio produttivo e oc-cupazionale restituendole nel contempo unruolo strategico nel Mediterraneo e in Europa.____________

* Già responsabile P.C.I. per l’industria a Napoli e inCampania.

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NOTIZIE DALL’ORDINE DEI GIORNALISTI

All’esito della consultazione elettorale per il rinnovo dei Con-sigli dell’Ordine dei giornalisti, sono risultati eletti al Consi-glio nazionale i napoletani Carlo Verna (presidente: v. foto asinistra) e Antonio Sasso, professionisti, e Ales-sandro Sansoni, pubblicista. Al Consiglio regio-nale della Campania, poi, sono risultati eletti

Ottavio Lucarelli (presidente: v. foto a destra), Titti Improta,Paolo Mainiero, Vincenzo Esposito, Vincenzo Colimoro e PinoDe Martino, professionisti, e Mimmo Falco, Salvatore Campi-tiello e Massimiliano Musto, pubblicisti, nonché, quali revisoridei conti, Francesco Marolda, professionista, e Francesco Ferraro, pubbli-cista. A tutti gli eletti giungano i più cordiali auguri di buon lavoro del di-rettore e della redazione di questo periodico.

* * *

Il termine finale dell’iter di “ricongiungimento”, previsto per garantire l’ac-cesso al professionismo dei pubblicisti che esercitano l’attività giornalisticain maniera prevalente e sono titolari di rapporti di sistematica collabora-zione retribuita (v. il fascicolo di luglio-settembre 2016 di questa rivista, a p.26), è stato prorogato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti al31 dicembre 2017. La disciplina del procedimento e ogni altra informazioneutile possono essere acquisite consultando l’indirizzo Internet: http://www.formazionegiornalisti.it/site/ricongiungimento.

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STRUFFOLI

di Antonio Ferrajoli

Nell’approssimarsi delle festività natalizie, il past-director di questo periodico propone ai lettorila ricetta di famiglia del dolce tradizionale natalizio dei napoletani.

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Ingredienti: farina, gr. 500; 2 uova + 2 tuorli; strutto, 60 gr. +quello che occorre per friggere; bicarbonato, gr. 40; un limone edue arance; sale; miele, 250 gr.; cedro e scorza di arancio canditi,gr. 150.Versare la farina a fontanella su una spianatoia e mettere al centrolo zucchero, lo strutto, le uova, il bicarbonato e la raschiatura delgiallo della buccia di un limone; lavorare fino a ottenere un im-pasto di giusta consistenza e spianare fino allo spessore di un centimetro. Tagliare la sfoglia ot-tenuta a strisce e poi a dadini. Far fondere lo strutto e, quando inizia a fumare, friggere pochidadini per volta, mantenendo lo strutto sempre bollente, finché saranno dorati; quindi, farli raf-freddare su una carta da forno. Sciogliere il miele in una casseruola e versarvi gli struffoli e icanditi; mescolare e rovesciare il tutto su un grosso piatto da portata, dando loro la forma di unacollinetta e facendovi piovere sopra la scorza grattugiata delle arance. Consumare dal dì suc-cessivo.

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Con l’approvazione della Soprintendenza competente, è stato ese-guito il restauro della scultura lignea policroma raffigurante SantaMargherita (primi del sec. XVII), proveniente dalla chiesa proci-dana di Santa Margherita Nuova e in deposito a quella di San Leo-nardo. L’intervento, promosso dal parroco, sac. Marco Meglio, èstato reso necessario dall’attacco d’insetti xilofagi all’opera d’arte.La statua è stata, quindi, nuovamente esposta al pubblico nellachiesa depositaria.

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La notte sul 29 settembre scorso ci ha lasciati il dr. Pierino Accurso, direttoredell’Accademia di alta cultura “Europa 2000”. Nato il 4 agosto 1941 aBarra, quando il quartiere di Napoli era ancora comune autonomo, Accursosi era trasferito da molti anni a Marina di Tortora (CS), dove svolgeva intensaattività culturale per l’Accademia, che egli stesso aveva fondato, parallela-mente alle “Edizioni 2000”, cui aveva dato vita, fin dal 1965. Nell’ambitodelle sue iniziative, dev’essere ricordata, fra le tante, il premio “Scugnizzod’oro”, periodicamente conferito a personalità di spicco del panorama cul-

turale nazionale. Alla consorte, signora Natalya, e alla figlia, Maria, vadano le condoglianzedel direttore e della redazione di questo periodico, che ospita, qui di seguito, una nota di ElsaFonda e i ricordi di alcuni amici dell’estinto.

* * *

Entrò nelle nostre vite come un “rèfolo”. A Trieste, città del vento e dei vecchi, dove risie-diamo dopo la pensione del 1994, un giorno arrivarono due raccomandate dall’Accademia

di alta cultura “Europa 2000”. Un signore assegnava a mio marito e a me una targa d’onore. Ciinvitava il 27 settembre 2014 a Belvedere Marittimo. Fu un'occasione per vedere il meravigliosoSud dal treno che scendeva lungo il mare.La persona, per me sconosciuta, dal curioso nome diminutivo, era amico d’infanzia di mio ma-rito, l’incisore Mario Scarpati. Non si vedevano da quando ragazzi vivaci partecipavano allefeste patronali dei Gigli nel quartiere di Barra, dove è sepolto Francesco Solimena (1657-1747).Abitavano in due palazzi vis-à-vis in piazza, col monumento al fante della prima guerra mon-diale. Conobbero i traumi della seconda, l’eruzione del Vesuvio nel ‘44. Estroversi, avevano incomune l’amore per l’arte e la cultura. Parlavano del caposcuola della pittura napoletana del‘700, che aveva diffuso in Europa il gusto per la decorazione barocca e che, secondo loro dueaveva diritto ad un monumento. Non la spuntarono su quanti preferirono i festival canori.Imboccate strade diverse in città diverse, dopo più di 50 anni si ritrovarono diversi. Vulcanici,avevano conservato la stessa vitalità giovanile. Quante risate! E ricordi. Fu sorpresa. Fu affetto.Mi colpì un uomo piccolo, sorridente, baffetti impertinenti, occhi acuti dietro gli occhiali.Fu facile, immediata la simpatia. Ebbi modo di apprezzare la sua organizzazione accurata, pro-grammata nei dettagli.

In memoriam

PIERINO ACCURSO

di Elsa Fonda

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Ottobre-Dicembre 2017Anno LXIII n. 4Mi invitò a fare uno spettacolo per l’Accademia di alta cultura “Europa 2000” edizione 2016. Il2 giugno ci aspettava o a Praia, o a Maratea in Calabria, sul Tirreno. Parlava con amore di TortoraMarina, dove abitava. Sarebbe stata un’occasione per conoscere la moglie, sensibile e gentile. Nel fascinoso borgostorico visitammo assieme il museo di Blanda con la figlia. Preistoria ed Enotri, Lucani, Romani.In una parola, passato. Fatto di tombe e sepolture. Ma lui era presente con orgoglio instancabile,febbrile. Ospitati alla Loggia sulla frazione montana il giorno della cerimonia mio marito si sentì male:emorragia causata da ulcera allo stomaco. Fu portato in ambulanza all'ospedale di Paola, pertrasfusioni di sangue. Pierino venne a fargli visita, a rompere la dimensione atemporale, la clau-strofobica faticosa attesa della guarigione. Dopo dieci giorni, con l’aereo portai mio marito inclinica a Trieste. Si salvò. Sfuggì all’appuntamento che avrebbe voluto rubarlo.Alla nostra età sappiamo che la dipartita è dietro l’angolo. Ma l’uscita di scena di Pierino è statatroppo improvvisa. Perplessità e dubbi di scendere tutto lo stivale per il suo funerale. Ci racco-gliemmo in casa, nel silenzio in cui riposa l’ombra di morte. Accendemmo delle candele. Losentimmo vicino.Crescono i nemici dello spirito che rendono insufficiente la vita, fatta ormai di povere cose. Ilnero dell’inchiostro che rende vive le incisioni di mio marito è il lutto del paese derelitto, deipiù che se ne sono andati. Del vuoto rimasto. Ci mancherà una persona rara, con l’esperienzadei vecchi e l’entusiasmo dei giovani.Ciao, caro Pierino.

Conoscevo Pierino Accurso fin dagli anni ’80, quando mi onorava con la sua presenza nel salottoculturale, che si teneva nella mia abitazione, frequentato da artisti, scrittori, giornalisti e cantanti.Uomo di grande intelligenza e cultura, egli promosse e guidò per molti anni l’Accademia dialta cultura “Europa 2000”, di cui fu direttore coordinatore organizzativo. Grande amico, lo ri-cordiamo anche per il suo carattere gioioso e socievole. Bravissimo critico, nel 1982 scrissesulla mia arte in Rinascita Letteraria: «…siamo sicuri che... con le sue espressioni artistiche,riuscirà a contribuire alla sublimazione dello spirito, a cui tanto ognuno di noi anela». (Anna-maria Balzano)

Il dr. Pierino Accurso, direttore accademico, una indimenticabile meteora, che brillerà di lucepropria, anche dopo… nei ricordi! (Salvatore Bova)

Caro Pierino, era il pomeriggio uggioso del 29 settembre u.s. quando ho ricevuto una telefonatasul cellulare da un comune amico: «Devo darti una brutta notizia ci ha lasciato Pierino». Ho ap-preso così che te ne sei andato, senza averti potuto salutare, senza aver avuto il tempo di prepa-rarmi a un distacco che lacera e ferisce di dolore la carne e l’anima. Questo accade semprequando si perde un Amico. L’Amicizia non si perde: è spirito che non si cancella, che resta comearricchimento, che sedimenta nell’intimo e ci consola, che vive nei ricordi e nelle emozioni.L’Amico si perde, momentaneamente come tutte le persone care che ritroverò nella Vita Eterna,ma il momentaneamente durerà comunque tutta la vita terrena; anche se fosse un giorno solosarebbe un tempo enorme. Che Dio Ti benedica e Ti accolga come meriti, facendoTi addor-mentare in attesa della beata speranza che è l’anticamera del Paradiso per i giusti come Te. Ciao,Amico mio. E, grazie! (Alberto Del Grosso)

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Ottobre-Dicembre 2017Anno LXIII n. 4La repentina scomparsa del caro Pierino Accurso, fondatore ed animatore dell’Accademia dialta cultura “Europa 2000”, mi ha lasciato sgomento; non avrei mai immaginato che questogiorno sarebbe arrivato così all’improvviso. Pierino è stato un punto di riferimento etico e pro-fessionale, e una piacevolissima presenza agli incontri annuali dell’Accademia che ha continuatoa organizzare con maestria fino allo scorso anno. Una persona capace di svolgere mansioni ete-rogenee e di risolvere prontamente problemi pratici, un vero factotum. Mancherà a tutti, agliamici di sempre e a quelli conosciuti da poco come me. Mancherà soprattutto il suo coraggio ela sua determinazione, ma anche il suo entusiasmo e la sua grinta, la sua allegria e la sua serietànell’organizzare con leggiadria e dovizia l’appuntamento annuale del premio “Lo scugnizzod’oro”. La perdita di persone come Pierino Accurso lascia un vuoto che sicuramente non si puòriempire, ma l’Accademia ha il dovere morale di proseguire sulle sue orme, anche senza le sueforze e la sua lungimiranza. (Ciro Esposito)

Apprendo con tristezza dell’improvvisa morte di Pierino Accurso, uomo di grande spessore cul-turale e solerte organizzatore. (Giulio Mendozza)

La sua natura esuberante lo induceva ad esplicare le sue relazioni sociali in tutto lo scibile del-l'umano sapere. Pierino Accurso si prodigava nell’analizzare le doti delle persone nelle diverseattività e con generosità elargiva ricompense gratificanti a quanti le meritavano. Il suo caratteredi irruente ed estroverso personaggio lo faceva apprezzare da quanti hanno avuto la ventura diconoscerlo, i quali ne ammiravano la fervente laboriosità di organizzatore e di dirigente dellaprestigiosa Accademia di alta cultura “Europa 2000” e ai quali ha lasciato, pertanto, unanimesconcerto la sua immatura dipartita. (Mimmo Piscopo)

«La morte di un amico – declama il poeta – è come la caduta di un pino gigante: lascia vuotoun pezzo di cielo». È mio desiderio di riempire questo vuoto ricordando alcuni momenti dellavita di Pierino. La sua capacità di trasmettere entusiasmo, la sua puntigliosa cura nel seguireogni iniziativa, la sua totale abnegazione all’Accademia “Europa 2000”. Ha saputo realizzareinnumerevoli iniziative culturali, artistiche e scientifiche (vedi lo “Scugnizzo d’oro”, l’Oscarper la medicina ecc.). Dal nostro primo incontro, con il premio dell'ENAC nel 1978, si è stabilitaun’amicizia sincera per quasi 40 anni. La sua dedizione alla comunità per dotare la sua terra distrutture sul piano sanitario, culturale e formativo restano indelebili. (Giulio Tarro)

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L’ANNUARIO DELLO SPORT CAMPANO 2018Il 14 dicembre scorso, al Circolo Posillipo, è stato presentato l’Annuario dello sportcampano 2018, edito dal Comitato regionale CONI. Campania, che dedica una seriedi pagine speciali alle Universiadi 2019 e delinea, fra l’altro, la storia delle principalipiscine dei capoluoghi della regione, alcune delle quali rientrano anche nel progettodi quella manifestazione sportiva. Il volume, che consta diben 264 pagine e si avvale della copertina realizzata da Giu-seppe Ranieri (Agar Sport), è stato curato dai giornalisti

Marco Lobasso e Carlo Zazzera (quest’ultimo, nostro redattore capo) epuò essere richiesto alla segreteria del Comitato regionale CONI. Cam-pania ([email protected]) o presso i Coni Point provinciali o anche con unmessaggio alla pagina Facebook Annuario dello sport campano. Inoltre, è possibile scaricarlo inversione pdf. dal sito ufficiale campania.coni.it.

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LIBRI & CD

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GIUSEPPE ARAGNO, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti (Napoli,Intra Moenia, 2017), pp. 344, €. 18,00.Indagare il passato nell’ottica del futuro è il disegno che si è proposto Aragno, nell’ela-borare il saggio sul glorioso episodio di storia della Napoli contemporanea. Il metodoadottato, in un guénoniano “riunire ciò ch’è sparso”, è quello di compulsare archivi efondi documentari dalle più diverse ubicazioni e intervistare protagonisti di fatti o lorocongiunti, facendo emergere personaggi e vicende, rimasti finora nell’ombra, che con-validano, in maniera ormai incontestabile, la connotazione organizzata dell’insurrezione

e la partecipazione alla stessa di tutte le componenti della popolazione cittadina, dalle donne, agli anziani,ai giovanissimi. (S.Z.)

GIULIO MENDOZZA - GIULIO PACELLA, Versi Diversi (Napoli, Volpicelli, s.d.ma 2017), pp. 176, s. i. p.In una sorta di “responsorio laico”, i due illustri esponenti della frazione napoletana della“gens Iulia” si cimentano nell’elaborazione di componimenti poetici su temi comuni,svolti da ciascuno di essi secondo il proprio gusto, la propria forma e, soprattutto, la pro-pria vena poetica. Figure, luoghi, tempi, eventi caratteristici di Napoli si ritrovano cosìrievocati da entrambi gli autori, in una configurazione tutt’altro che speculare, e nel ri-corso a una forma espressiva linguistica pienamente rispettosa di quel minimum standard

di criteri che caratterizza, in ogni caso, l’idioma napoletano. (S.Z.)

ROSANNA BISCARDI, Cibum concordiae (Napoli, Cuzzolin, 2017), pp. 88, €. 16,00.Le radici della cittadina di Sant’Agata dei Goti sono ricostruite nel volume, attraverso letradizioni culinarie locali, in un continuo intreccio fra storia e mito, che rinvia di frequenteai concetti dell’antropologia culturale. La cucina del luogo, infatti – e, in particolare, quelladelle feste –, ha conservato in sé le tracce delle genti con le quali, dall’età antica, attraversoil medioevo e l’età moderna, la popolazione santagatese è venuta in contatto. Il volume si è

aggiudicato il premio letterario “Giovanni Cuzzolin”, nella sua prima edizione. (S.Z.)

STEFANO DE MIERI, Splendori di un’isola (Napoli, Fioranna, 2016), pp. XVI+432,€. 85,00.L’autore effettua una capillare rassegna delle opere d’arte (ivi comprese quelle delle c.d.“arti minori”: tarsia, paramenti, argenti) presenti nelle chiese di Procida, tentandone anchel’attribuzione (peraltro, non sempre condivisibile) ad autori, quando di essi non sia notal’identità. Ne emerge il rapporto dell’isola con artisti di fama, non soltanto napoletani,e, sotto il profilo della storia sociale, la floridità dell’economia isolana. Un’appendice di

documenti di archivio completa il volume, riccamente illustrato. (S.Z.)

ANTONIO V. NAZZARO, F. De Sanctis riformatore dell’Università degli Studi e dellaSocietà Reale di Napoli (Napoli, Giannini, 2016), pp. VIII + 108, s. i. p.Nel bicentenario della nascita, l’Accademia Pontaniana, d’intesa con la Società Nazionaledi Scienze Lettere e Arti, ha affidato al presidente della classe di Lettere e Belle Arti il ri-cordo delle riforme realizzate da Francesco De Sanctis, relativamente all’Università e allaSocietà Reale di Napoli, nel biennio 1860-62, nella sua qualità di direttore della Pubblicaistruzione della Luogotenenza per le provincie meridionali e, poi, di ministro

della Pubblica istruzione. (S.Z.)

Anno LXIII n. 4 Ottobre-Dicembre 2017

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PIER PAOLO PASOLINI, La lunga strada di sabbia2 (Milano, Guanda, 2017), pp.132, €. 14,00. Nel 1959 Pasolini percorse il perimetro dell’Italia, spiaggia dopo spiaggia, Sicilia inclusa,su commissione del periodico Successo, che ne pubblicò in tre puntate il resoconto, ristam-pato in questo volume, che fa seguito a una prima edizione del 2014. In esso le descrizionidi luoghi e personaggi si alternano all’esternazione delle emozioni personali del l’autore.Appunti inedi t i r invenut i nel le car te del medesimo integrano la presente

edizione del l ’opera. (S.Z.)

PIETRO FANARA, The “Golden Age” in New York City, 1 (Palermo, Idiomi, 2016),pp. (5)+590, s. i. p.Le component i soc io-urbanis t iche e a r t i s t ico-musica l i d i New York ne lventennio 1930-1950 cost i tuiscono l ’ogget to del l ’opera, la cui f inal i tà èquella di offr ire a s tudiosi e r icercatori i dat i ( identi tà di ol tre 52.000 mu-sicis t i , con i loro s t rumenti e /o i loro ruol i ) ut i l i per una ul ter iore e labo-

razione del tema. (S.Z.)

Anno LXIII n. 4 Ottobre-Dicembre 2017

FRANCESCO SERAO con MARCO LOBASSO, “I miei anni azzurri”. Quando c’eraMaradona… (Napoli, LeVarie, 2017), pp. 216, € 10.00.Un diario di esperienze e di ricordi legati al mondo del calcio e al periodo che Serao havissuto nel ruolo di vice presidente di Corrado Ferlaino nel Napoli, negli anni in cui gio-cava e spopolava Diego Armando Maradona. Una raccolta di ricordi inediti, raccontatidalla parte di un dirigente di società sportiva, con le ansie, le difficoltà, le grandi soddi-sfazioni di gestire un gruppo di calciatori fortissimo e di lavorare per un club che rappre-senta il cuore della passione dei napoletani per il calcio. Un tuffo nell’epopea del Grande

Napoli di Maradona, con un pizzico di nostalgia e l’amore immenso verso i colori azzurri della squadradella propria città. Il volume sostiene con parte dei proventi delle vendite l’impegno sociale della Fon-dazione Cannavaro-Ferrara e vede la prefazione di Corrado Ferlaino, con l’introduzione di Toni Iavaronee con foto di copertina firmata da Gianni Fiorito. (C.Z.)

RICCARDO GIAMMARINO, Pittat’ (Napoli, Giammarino Editore, 2017), pp.138, € 12.00.Mentre in America e in Europa si alzano muri per non capirsi, a Napoli anche i muriparlano, per raccontare gli umori e le passioni della città attraverso murales e graffiti.Ed è proprio quello che racconta Pittat’, libro d’esordio del giornalista Giammarino,che attraverso la sua penna dà forma a quel legame tutto particolare che fonde il Napolie la città, forse l’unica per la quale un calciatore non è mai solo un mito calcistico. Ilvolume, che gode della prefazione di Francesco De Luca, responsabile dello sport del

quotidiano Il Mattino, nasce dall’idea di utilizzare i muri della città come un block notes sul quale il sen-timento popolare ha appuntato, nel corso degli anni, gli umori del popolo legati alla squadra di calcio eai suoi protagonisti, molto spesso legati a filo doppio con la storia di Napoli. (C.Z.)

MARCO LOBASSO, 110. Storie di sport, cultura, vita e altro al Vomero 1907-2017 (Napoli, LeVarie, 2017), pp. 57, € 10.00.La storia del Vomero si intreccia spesso con quella dell’eccellenza dello sport na-poletano. Uno dei riferimenti storici è il Tennis Club Vomero, che raggiungequest’anno il traguardo dei 110 anni e viene celebrato da un volume scritto dalgiornalista Lobasso che ne ripercorre la storia sportiva e sociale, dai momenti dif-ficili delle due guerre a quelli più recenti, con storie e risultati fino ai giorni nostri

e con i successi degli ultimi cinque anni che aprono nuove strade, prima inimmaginabili, al percorso dicrescita del club presieduto da Carlo Grasso. Il volume ripropone quanto pubblicato in occasione delcentenario del circolo, con un’ampia appendice che aggiunge storie e successi dell’ultimo decennio.(C.Z.)

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ROSA ALVINO - IVAN FEDELE, Non avrai altro dio all’infuori di Claudio (Napoli,Homo Scrivens, 2017), pp. 302, € 16.00.Non è una biografia doppia, pur prendendo spunto da episodi reali. Il primo lavoro let-terario di Alvino e Fedele è un romanzo leggero che ruota intorno alla figura di ClaudioBaglioni, motore della storia e dell’incontro dei due protagonisti, così come lo è statoper i due autori. Luca e Sara non sono gli alter ego di Ivan e Rosa, ma sono mossi dallastessa passione e nelle pagine del romanzo vivono la loro storia scandita dalla musicadel loro cantautore preferito, una sorta di ossessione per Luca, che finirà per contagiare

anche Sara. Un libro agile e divertente, con un’originale scrittura a quattro mani realizzata da una gior-nalista e un attore, coppia insolita per un lavoro letterario, che per questo la rende ancor più originale.(C.Z.)

ADAM SMULEVICH, Presidenti (Firenze, Giuntina, 2017), pp. 140, €. 12,00.Un consistente contributo è venuto dall’etnia ebraica anche al mondo del calcio italiano,poiché ben tre squadre sono state fondate da presidenti ebrei: la Roma, il Casale e il Napoli.Più in particolare, quest’ultima nacque per l’iniziativa del giovane Giorgio Ascarelli, erededi una dinastia di commercianti di tessuti con sede al centralissimo corso Umberto I, scom-parso appena trentaseienne per una peritonite, al quale fu pure intitolato lo stadio napole-tano sorto a Ponticelli. E Smulevich ricostruisce nel volume le vicende delle origini delletre squadre, nel loro intreccio con quelle delle rispettive vite dei loro fondatori, articolatesi

nel tragico periodo delle persecuzioni razziali attuate in esecuzione della deprecata normativa fascista.(S.Z.)

ANTONIO SOBRIO, Procida. Il mistero di Venerdì Santo (Napoli, New Media, 2016),pp. 220, €. 15,00.Tema del “ touris t thri l ler” è la vicenda del la spar iz ione di una personaa Proc ida , i l g iorno d i Venerd ì san to , su l lo s fondo de l le be l lezze de l -l ’ isola , descr i t te in maniera capi l lare e r iportate , con al t re t tanta preci-s ione , su l la car tograf ia che cor reda i l vo lume: i l f ine che l ’au toredichiara di proporsi , infatt i , è quello d’incuriosire i l let tore, spingendolo

a vis i tare l ’ isola s tessa . (S.Z.)

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I PENNELLI DI VERMEER, Misantropi Felici (Napoli, Soter Label, 2017),€ 10.00.Dieci anni di successi celebrati con un nuovo album, a tre anni di distanza dalprecedente, Noianoir. Misantropi felici è il nuovo lavoro dei Pennelli di Vermeer,la band vesuviana che aveva esordito ufficialmente nel 2007 con il cd Trame-danna. Fra rock, progressive e teatro canzone, la band nel corso degli anni non siè mai negata alla sperimentazione ed alle contaminazioni musicali. Con questolavoro ritorna al rock d’autore, ma non mancano intime ballate, in alcuni tratti

sorprendentemente grintose, o pezzi scritti in chiave ironica ma mai leggera. La band, formata da Pa-squale Sorrentino (voce e chitarra acustica), Stefania Aprea (voce e chitarra acustica), Michele Matto(basso), Marco Sorrentino (rullante e cassa) e dalla new entry nei concerti, Giuseppe Dardano (chitarraelettrica), si conferma con un prodotto di qualità, gradevole all’ascolto quotidiano e sublimato dalla forzadel gruppo nelle esibizioni live. (C.Z.)

Comunichiamo ai nostri lettori che la disciplina che ha liberalizzato la possibilità di scattare fotografie nei musei enei luoghi d’arte italiani (cfr. il n. 2/2014, p. 16, e il n. 3/2014, p. 2, di questa rivista) è stata estesa al patrimonio dellebiblioteche e degli archivi pubblici italiani dall’articolo 1, comma 171, della legge 4 agosto 2017, n. 124, limitatamentealle riproduzioni per uso di studio e/o di ricerca.

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CRONACHE DEL SANNIO tf. 366.4328891

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DEA NOTIZIEvia Regina Elena, 28, 81041 Bellona (CE)

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METROWEEK NAPOLIvia C. Pesenti, 130, 00156 Roma

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mare (SA)tf. 089.761171

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Fascicolo chiuso il 15 dicembre2017, pubblicato online ai sensidell’a. 3-bis l. 16 luglio 2012, n.103.

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Alfons Maria Mucha, L’Inverno

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Siamo grati agli amici Oreste Ciampa, AldoCianci, Giacomo De Cristofaro, Antonino De-marco, Monica Florio, Raffaele Giamminelli,Antonio Grieco, Antonio Lubrano Lavadera,Emilio Pellegrino, Raffaele Pisani, Vittorio Pon-gione, Giosuè Scotto di Santillo, Admeto Verde,Maurizio Vitiello per i complimenti che cihanno manifestato.

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