Anno IV - n. 6 21 FEBBRAIO · 2014 L’eucaristia fa la chiesa e VOLTI...tur – O sacro convito nel...

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21 FEBBRAIO · 2014 SOMMARIO OMMARIO Dom Ildebrando Scicolone, osB Anno IV - n. 6 I n un’antica pre- ghiera, la Chie- sa acclama il mi- stero dell’Eucari- stia: «O sacrum convi- vium in quo Christus sumitur: recolitur me- moria passionis eius, mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus da- tur O sacro convito nel quale ci nutriamo di Cristo: si fa memoria della sua passione, l’anima è ri- colmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura». Se l’Eucaristia è il me- moriale della pasqua del Signore, se median- te la nostra Comunio- ne all’altare veniamo ri- colmati «di ogni grazia e benedizione del cie- lo», l’Eucaristia è pure anticipazione della glo- ria del cielo (Catechi- smo della Chiesa Catto- lica, 1402). Noi celebriamo, ma co- sa? Abbiamo detto che celebriamo il mistero pasquale, an- zi tutta l’opera della nostra salvezza: dalla creazione alla fine del mondo, con al centro la morte e la risurrezio- ne di Cristo. Perché si celebra? Non perché que- sto rito serva a Dio, ma perché è un sacramento (segno e strumento) che forma la Chiesa. Scopo della celebra- zione è che tutti gli uomini diventi- no uno in Cristo e formino il corpo ecclesiale: l’Eucaristia fa la Chiesa, prima che la Chiesa faccia l’Eucari- stia. Noi diventia- mo corpo di Cri- sto perché partecipiamo al banchet- to del Signore, mangiamo il corpo di Cristo. Questo mistero si realizza nelle va- rie parti della celebrazione. I riti di ingresso servono a formare una co- munità, a prendere coscienza che siamo un popolo solo. A questo popolo, come a un solo uo- mo, Dio parla e annuncia il suo mes- saggio di salvezza. Questa comuni- tà, nei riti di offertorio, prende co- scienza che ci sono le necessità di al- tri fratelli (l’attenzione ai poveri) e si offre a Dio per essere unita al sacri- ficio di Cristo; nella Preghiera euca- ristica viene trasformata dallo Spi- rito Santo, che la rende un solo cor- po e un solo spirito e, nel rito di co- munione, esprime l’unione: la comu- nità diventa davvero com-unità: uni- tà insieme. La Messa è il sacramento del sacrifi- cio di Cristo, ma anche il sacramen- to della Chiesa: si esprime nel mo- mento rituale quello che un cristia- no o una comunità cristiana vive abi- tualmente. La liturgia richiede quindi autentici- tà. Chi esercita un ministero nella li- turgia può farlo in quanto quel ser- vizio lo vive davvero nella comuni- tà. Sarebbe assurdo che un lettore, Convegno Liturgico Dioicesano pagg. 1-2 La parola del Vescovo pag. 3 Febbraio, Mese della Vita pagg. 4-5 Verso la Quaresima pag. 6 Liturgia, fons et culmen pagg. 7-8 Famiglia e società pag. 9 Arte e fede pagg. 10-11 Luoghi di vita pag. 12 Azione Cattolica – Comunicazioni sociali pag. 13 Giornata Mondiale Malato pag. 14 Le Aziende dell’Opera di s. Pio pag. 15 Caritas diocesana pag. 16 Ecclesia in Gargano pagg. 17-20 L’eucaristia fa la chiesa: “Viviamo la celebrazione come un continuo rinnovamento” Padre Ildebrando Scicolo- ne, abate benedettino, è sta- to professore presso il Pon- tificio Istituto Liturgico S. Anselmo di Roma e Preside del medesimo Istituto dal 1986 al 1993. E’ stato Abate di san Martino della Scala di Palermo dal 1995 al 2000. Predicatore, conferenziere e scrittore di libri, saggi e articoli, tra cui “IL RUOLO E L’ARTE DI PRESIEDERE” e non da ultimo un sussidio stampato dall’ufficio Litur- gico della Diocesi di Roma nel 2012 dal titolo “L’EUCA- RISTIA FA LA CHIESA. ITI- NERARIO DI CATECHESI SULLA MESSA”. Celebrato a Manfre- donia, martedì scor- so, l’annuale Conve- gno Liturgico dioce- sano con la presen- za di dom Ildebran- do Scicolone, osB, do- cente di Liturgia pres- so il Pontificio Ateneo s. Anselmo di Roma, il quale ha tenuto una prolusione su “Litur- gia, vita, mondo: il le- game tra la celebra- zione e la vita quoti- diana”.

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  • 21 FEBBRAIO · 2014

    SOMMARIO

    OM

    MA

    RIO

    Dom Ildebrando Scicolone, osB

    Anno IV - n. 6

    In un’antica pre-ghiera, la Chie-sa acclama il mi-stero dell’Eucari-stia: «O sacrum convi-vium in quo Christus sumitur: recolitur me-moria passionis eius, mens impletur gratia

    et futurae gloriae nobis pignus da-tur – O sacro convito nel quale ci nutriamo di Cristo: si fa memoria della sua passione, l’anima è ri-colmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura». Se l’Eucaristia è il me-moriale della pasqua del Signore, se median-te la nostra Comunio-ne all’altare veniamo ri-colmati «di ogni grazia e benedizione del cie-lo», l’Eucaristia è pure anticipazione della glo-ria del cielo (Catechi-smo della Chiesa Catto-lica, 1402).Noi celebriamo, ma co-sa? Abbiamo detto che celebriamo il mistero pasquale, an-zi tutta l’opera della nostra salvezza: dalla creazione alla fine del mondo, con al centro la morte e la risurrezio-ne di Cristo.Perché si celebra? Non perché que-sto rito serva a Dio, ma perché è un sacramento (segno e strumento) che forma la Chiesa. Scopo della celebra-zione è che tutti gli uomini diventi-no uno in Cristo e formino il corpo ecclesiale: l’Eucaristia fa la Chiesa, prima che la Chiesa faccia l’Eucari-

    stia. Noi diventia-mo corpo di Cri-

    sto perché partecipiamo al banchet-to del Signore, mangiamo il corpo di Cristo.Questo mistero si realizza nelle va-rie parti della celebrazione. I riti di ingresso servono a formare una co-munità, a prendere coscienza che siamo un popolo solo. A questo popolo, come a un solo uo-mo, Dio parla e annuncia il suo mes-saggio di salvezza. Questa comuni-tà, nei riti di offertorio, prende co-scienza che ci sono le necessità di al-

    tri fratelli (l’attenzione ai poveri) e si offre a Dio per essere unita al sacri-ficio di Cristo; nella Preghiera euca-ristica viene trasformata dallo Spi-rito Santo, che la rende un solo cor-po e un solo spirito e, nel rito di co-munione, esprime l’unione: la comu-nità diventa davvero com-unità: uni-tà insieme.La Messa è il sacramento del sacrifi-cio di Cristo, ma anche il sacramen-to della Chiesa: si esprime nel mo-mento rituale quello che un cristia-no o una comunità cristiana vive abi-tualmente.

    La liturgia richiede quindi autentici-tà. Chi esercita un ministero nella li-turgia può farlo in quanto quel ser-vizio lo vive davvero nella comuni-tà. Sarebbe assurdo che un lettore,

    Convegno Liturgico Dioicesano pagg. 1-2La parola del Vescovo pag. 3Febbraio, Mese della Vita pagg. 4-5Verso la Quaresima pag. 6Liturgia, fons et culmen pagg. 7-8Famiglia e società pag. 9Arte e fede pagg. 10-11

    Luoghi di vita pag. 12Azione Cattolica – Comunicazioni sociali pag. 13Giornata Mondiale Malato pag. 14Le Aziende dell’Opera di s. Pio pag. 15Caritas diocesana pag. 16Ecclesia in Gargano pagg. 17-20

    L’eucaristia fa la chiesa: “Viviamo la celebrazione

    come un continuo rinnovamento”

    Padre Ildebrando Scicolo-ne, abate benedettino, è sta-to professore presso il Pon-tificio Istituto Liturgico S. Anselmo di Roma e Preside del medesimo Istituto dal 1986 al 1993. E’ stato Abate di san Martino della Scala di Palermo dal 1995 al 2000. Predicatore, conferenziere e scrittore di libri, saggi e articoli, tra cui “IL RUOLO E L’ARTE DI PRESIEDERE” e non da ultimo un sussidio stampato dall’ufficio Litur-gico della Diocesi di Roma nel 2012 dal titolo “L’EUCA-RISTIA FA LA CHIESA. ITI-NERARIO DI CATECHESI SULLA MESSA”.

    Celebrato a Manfre-donia, martedì scor-so, l’annuale Conve-gno Liturgico dioce-sano con la presen-za di dom Ildebran-do Scicolone, osB, do-cente di Liturgia pres-so il Pontificio Ateneo s. Anselmo di Roma, il quale ha tenuto una prolusione su “Litur-gia, vita, mondo: il le-game tra la celebra-zione e la vita quoti-diana”.

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    Periodico dell’Arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni RotondoAnno IV - n. 6 - 21 febbraioaio 2014Iscritto presso il Tribunale di Foggia al n. 13/2010del Registro Periodici - Cronologico 1868/10del Registro Pubblico della StampaDirettore responsabileAlberto CAvAlliniRedazioneUfficio per le Comunicazioni Sociali dell’ArcidiocesiVia s. Giovanni Bosco n. 41/b - Tel 0884.581899 71043 Manfredoniae-mail: [email protected]@tin.itLe foto pubblicate sono di Michele Martino e di Alberto Cavallini ed appartengono all’archivio fotografico dell’Ucs dell’Arcidiocesi

    Hanno collaborato a questo numero: dom Ildebrando Scicolone, don Luigi Carbone, don Domenico

    Facciorusso, don Michele Pio Cardone, Giovanni Masi, Tiziano Samele, Antonio Stuppiello, Giuseppe Barracane, Giovanni Chifari, Michelangelo Mansueto, Domenico Trotta, Michele Marino, Michele Cervignano, Giuseppe Lombardi, Giuseppe Laganella, Nicola Pupillo, Antonio Facciorusso,Antonia Palumbo, Rosa Del Popolo, Maria Chiara Bavaro, Ilaria Di Fiore, Antonietta Ciavarella, Maria Ciuffreda, Tina Guerra.

    Il periodico VOCI e VOLTI è iscritto alla

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    Il giornale diocesano VOCI e VOLTI può essere letto in formato elettronico o scaricato dall’home page del sito della nostra Arci-diocesi: www.diocesimanfredoniaviestesangiovannirotondo.itoppure dall’home page approfondimenti del sito: www.abbaziadipulsano.it Questo numero è stato chiuso in redazione il 17 febbraio 2014

    V O C I E V O L T I

    [Convegno Liturgico Diocesano]

    I contributi e le riflessioni a pubblicarsi nel prossimo numero di VOCI e VOL-TI che uscirà venerdì 21 marzo 2014, per motivi tecnici, devono giungere per e-mail in Redazione entro e non oltre lunedì 10 marzo 2014.

    uno che proclama la Parola di Dio, non conoscesse nemmeno quali sia-no i libri della Bibbia. Se non si preoccupa mai di leggere la Bibbia, con quale coraggio poi l’an-nuncia ai fratelli? Sarebbe assurdo che uno che non si interessa mai dei poveri, che pensa solo a se stesso, porti le offerte al-la presentazione dei doni. Il momen-to rituale esprime quello che si vive nella comunità, nella vita quotidia-na: quello che Dio vuole da noi è la nostra esistenza offerta tutta come sacrificio, insieme a quella di Gesù.Nell’Antico Testamento Dio non ave-va chiesto al popolo di Israele di of-frire sacrifici: in Es 19,6 dice a Mosè: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli israeliti: voi stes-si avete visto ciò che io ho fatto all’E-gitto, e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatto venire fino a me. Ora se darete ascolto alla mia vo-ce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà partico-lare tra tutti i popoli […]. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». Dunque tutto il po-polo di Israele è chiamato «regno di sacerdoti» o popolo sacerdotale non perché dovesse offrire sacrifici, ma

    Il Pontificio Istituto Liturgi-co S. Anselmo in Roma è sta-to canonicamente eretto dalla Sede Apostolica il 17 giugno 1961 come Facoltà di Sacra Li-turgia presso il Pontificio Ate-neo S. Anselmo di Roma, che è l’Ateneo Internazionale dei Benedettini, il quale promuo-ve corsi di Filosofia, Teologia, Liturgia, e corsi di specializ-zazione.

    perché doveva ascoltare la voce del Signore e custodire l’alleanza. La vi-ta stessa del popolo era un’offerta, una glorificazione di Dio.Quando il culto finì per prescindere dalla vita, e si esaurì in semplici sa-crifici materiali, i profeti si scaglia-rono contro questa materializzazio-ne: «Non sono questi i digiuni che io gradisco, non so che farmene dei vo-stri sacrifici». Questo concetto è ben espresso anche in tre salmi: il 39 che dice «sacrificio e offerta non gradi-sci, gli orecchi mi hai aperto […]: ec-co, io vengo per fare la tua volontà». Fare la volontà di Dio vale più dei sa-crifici (cfr. 1 Sam 15,22). Lo stesso afferma il salmo 49: «I tuoi olocau-sti mi stanno sempre davanti […]. So-no mie tutte le bestie della foresta […]. Se avessi fame a te non lo direi, mangerò forse la carne dei tori? Ber-rò forse il sangue dei capri? Offri a Dio come sacrificio la lode». O il sal-mo 50: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode, tu non gradisci il sacrificio e se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio».Dio vuole il cuore dell’uomo. I sacri-fici materiali dovevano essere solo il segno dell’offerta del cuore, dell’a-

    more per il Signore e dell’obbedien-za alla sua parola.Questo è l’esempio del Signore: è morto fisicamente, però la sua mor-te è sacrificio, in quanto Gesù l’ha accolta volontariamente. Si è offerto al Padre già prima di morire in cro-ce: la sera del Giovedì santo, quando pronunciò la preghiera di benedizio-ne, non benedisse il Padre solo per-ché aveva liberato gli Ebrei dall’Egit-to, ma anche perché accoglieva l’of-ferta della sua vita, pur sentendo tut-to il dolore e l’angoscia fino a suda-re sangue nel Getsemani. Ci ha sal-vato non solo con la sua morte fisi-ca, ma con l’obbedienza portata fino alla morte. Lo dice bene l’inno cri-stologico della Lettera ai Filippesi: «Cristo si è fatto per noi obbedien-te fino alla morte, e morte di croce». Il verbo principale è «si è fatto ob-bediente» (2,8). Anche la lettera agli Ebrei (al capitolo 10), commentando il salmo 39, afferma: «entrando nel mondo Cristo dice: “Tu non hai vo-luto né sacrificio né offerta, un cor-po invece mi hai preparato. […] ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volon-tà». L’autore della lettera commenta: «Dopo avere detto tu non hai gradi-to sacrifici ed olocausti, cioè le cose che si fanno secondo la legge, sog-giunge ecco io vengo a fare la tua vo-lontà. Così egli abolisce il primo sa-crificio per costituire quello nuovo; mediante quella volontà siamo stati santificati».Abbiamo già parlato del comando di Gesù: «Fate questo in memoria di me». Che cosa dobbiamo fare, dun-que? Non si tratta semplicemente di ripetere il rito, cioè i gesti e la paro-la di Gesù, dobbiamo imitare quello che Cristo ha fatto: offrire la nostra vita a Dio per i fratelli.Già san Paolo invitava i cristiani: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come vittima santa e gradita a Dio» (Rm 12,1). I martiri hanno veramente e volontariamente offerto i loro corpi: il vescovo Policarpo, ormai anziano, prima che si appiccasse il fuoco al rogo che l’avrebbe ucciso, chiede un po’ di silenzio e fa una preghiera di ringraziamento: «Signore, ti ringra-zio perché oggi mi fai degno di mori-re per Cristo». Più recentemente, pa-dre Massimiliano Kolbe dice sponta-neamente ai suoi carnefici, nel cam-po di concentramento di Auschwitz: «Posso io morire al posto di quest’uo-mo?».Non a tutti, però, è richiesto il marti-rio. Quelli che non sono chiamati al martirio cruento, cioè a essere ucci-si per Cristo, come possono rispon-dere all’esortazione pressante di Pa-olo: «Offrite i vostri corpi»? Semplice-mente: offrendo la propria vita, ossia vivendo in modo che ogni momen-to dell’esistenza possa essere offer-to a Dio.

    E questo, a sua volta, rende autentica la partecipazione alla Messa. Il cul-to cristiano deve essere in spirito e verità, cioè spirituale e vero. Se il se-gno espresso nella liturgia non cor-risponde alla vita, è falso. Se uno dà il segno della pace, ma non è in pa-ce, compie un segno falso. Se uno fa la comunione ma non è in comunione, compie un segno falso. Se si ascolta la Parola ma non la si mette in pratica, è come chi costru-isce sulla sabbia. Il rito liturgico de-ve essere il segno, potremmo dire il sacramento (segno efficace) della vi-ta. Questa è la spiritualità della cele-brazione. Noi dobbiamo «trasformar-ci nello spirito della nostra mente» per essere conformi a Cristo. Lo Spirito Santo fa la sua parte, ma è necessario che viviamo la celebra-zione come un continuo rinnova-mento. Un continuo morire e risorgere, par-tecipando alla morte e risurrezione di Cristo. Per realizzare tutto questo non basta la sola Messa: è necessa-ria tutta la vita.E se uno partecipa alla celebrazione con questo spirito, ne trae frutti per un rinnovamento continuo.Il Signore lo conceda anche a te che leggi!

  • 3.4 Tradizione“Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, perché sono essi la gioia del mio cuore” (Sal 119,111).

    Scrive Papa Francesco: “La trasmis-sione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche attraverso l’asse del tempo, di genera-zione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nel-la storia e illumina il nostro cammi-no nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli”1. La trasmissione del-la fede deve avere un connotato re-lazionale: “Se l’uomo fosse un indivi-duo isolato, se volessimo partire sol-tanto dall’“io” individuale, che vuo-le trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’e-poca così distante da me. Non è que-sto, tuttavia, l’unico modo in cui l’uo-mo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartie-ne ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la pro-pria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in pri-

    mo luogo i nostri genitori, che ci han-no dato la vita e il nome”2.A questo livello dobbiamo fare no-stra l’attuale emergenza educati-va che a vario modo ci interpella. Si tratta di curare la trasmissione dei grandi valori del Vangelo quale pa-trimonio spirituale e culturale della nostra gente. Non possiamo lasciare sole le famiglie, ma è necessario af-fiancarle in questo loro difficile com-pito educativo, affinché non deleghi-no altri a farlo, rinunciando così al loro ruolo. Anche la catechesi deve essere più relazionale. Infatti la fede oggi non può essere più data per presupposta3. Essa va suscitata e, laddove già c’è, ne va ve-rificata l’autenticità, affinchè pos-sa produrre un’adesione personale al Vangelo. Si tratta di educare “alla fede”, ma anche ri-educare “la fede” che già c’è. Questo aspetto va parti-colarmente curato nei confronti de-gli adulti. In questo contesto va rivisto il ruolo che ha l’iniziazione cristiana dei fan-ciulli. Infatti, come scrivono i Vesco-vi, se «si è finora cercato di iniziare ai sacramenti, dobbiamo ora iniziare at-traverso i sacramenti alla vita cristia-na»4. Questo esige che «in prospetti-va catecumenale, il cammino va scan-dito in tappe, con percorsi differenzia-

    ti e integrati. Occorre promuovere la maturazione della fede più che preoc-cuparsi dell’età o delle scadenze; coin-volgere le famiglie, più che rendere in-teressante un cammino dedicato solo ai ragazzi, senza alcun legame con gli adulti e la comunità»5. Seguendo l’indicazione dei Vescovi, dovremmo inserire la catechesi per i bambini all’interno di un cammino di fede che abbracci anche gli adulti. È finito il tempo in cui le due forme di evangelizzazione erano tenute se-parate. Arrivare ai bambini e agli adole-scenti tramite gli adulti significa portare avanti una pastorale che ab-bia come soggetto e come destinata-rio privilegiato la famiglia nel suo complesso6. Se aiuteremo la famiglia a ritrova-re se stessa, tutti i suoi membri ri-troveranno in essa la linfa per co-struire la propria esistenza alla lu-ce del progetto di Dio. Si tratta allo-ra di arrivare ai bambini e agli ado-lescenti attraverso gli adulti e arri-vare agli adulti attraverso i bambi-ni e adolescenti. In conclusione, dobbiamo riscoprire tre aspetti fondamentali di una pasto-rale missionaria in ordine alla evan-gelizzazione:gli itinerari di fede, di stampo catecu-menale, per aiutare i nostri fedeli a

    Michele Castoro*

    L’IMPEGNO NEL MONDO

    4aparte

    riscoprire la propria identità cristia-na e abilitarli a trasmettere la fede;la famiglia, centro dell’evangelizza-zione e soggetto di pastorale, desti-nataria della pastorale ordinaria e promotrice di annuncio, di trasmis-sione, di risveglio della fede;la capacità, da parte di ogni comuni-tà parrocchiale, di elaborare un pro-getto formativo unitario, per evitare l’improvvisazione e l’approssimazio-ne sia nel reclutamento sia nella for-mazione dei catechisti e degli educa-tori. (continua)

    *arcivescovo

    1 Lumen fidei, n. 38.2 Ibidem.3 Scrive Papa Francesco nella sua prima

    enciclica Lumen Fidei: “La Chiesa, infatti, non presuppone mai la fede come un fatto scontato, ma sa che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato, perché continui a guidare il suo cammino. Il Concilio Vati-cano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni” (n. 6).

    4 VMPMC, n. 7.5 Ibidem.6 EDBV, n. 12.

    Dalle Linee pastorali “Prendete il largo e gettate le reti“ (cf Lc 5,1-11) per l’anno 2013-2014 sul ruolo dei Laici nella Chiesa e nel mondo

  • [Febbraio, mese della vita]

    Il recente Rapporto Istat mostra che la crisi si fa sentire anche a livello demografico: l’Italia non raggiunge i 60 milioni di abitanti. Nel 2012 le nascite sono state 534.189 (12 mila in meno rispetto al 2011), mentre le morti ammontano a 612.883 (circa 19 mila in più). Il saldo naturale tra nati e morti è negativo per oltre 78 mila unità, il peggiore risultato nella nostra storia unitaria.Anche il contributo delle famiglie immigrate non basta a far uscire dall’in-verno demografico. Le circa 80 mila nascite da genitori stranieri (14,9%) non deve illudere: sebbene aumenti la popolazione immigrata, sono sempre me-no le nascite, perché viene recepito il modello delle famiglie italiane con i lo-ro condizionamenti (economico, abitativo, lavorativo e sociale). Le famiglie anagrafiche sono 25 milioni e 873 mila, per una media di 2,3 componenti per nucleo. Il valore minimo è di 2 (in Liguria), quello massimo è di 2,7 (in Campania, dove risiede il maggior numero di famiglie numerose).L’Italia è al 17° posto per quanto concerne la qualità del rapporto tra madri e figli (Finlandia, Svezia e Norvegia sono ai primi posti, mentre le condizioni peggiori di vita sono nell’Africa subsahariana). Il tasso di mortalità femmi-nile per cause legate a gravidanza è pari a 1 ogni 20.300; quello di mortali-tà infantile è di 3,7 ogni 1.000 nati vivi. Abbastanza alto è il livello di istru-zione delle donne, pari a 16 anni di formazione scolastica.Per quanto riguarda la salute delle madri e il benessere dei bambini, il no-stro paese è rispettivamente al 46° e al 41° posto. Si diventa mamme sem-pre più tardi: in media a 31,3 anni. L’età media delle donne che si sottopon-gono a trattamenti di fecondazione assistita è di 36,3 anni. Pari al 2,2% la quota annua di bambini nati da fecondazione in vitro. I neonati abbando-nati ogni anno sono circa 3.000, di cui 400 lasciati nella situazione protetta all’ospedale. Su 100 bambini, 73 nascono da madri italiane di età compresa tra i 20 e i 40 anni. I nuclei monogenitoriali sono saliti al 13% e si diffonde la convinzione che i figli unici stiano meglio di coloro che ne hanno due. Le famiglie numerose (con almeno 4 figli) sono circa 120 mila.Gli episodi di discriminazione più frequenti riguardano l’invito all’abor-to, l’interruzione di una carriera lavorativa, dimissioni in bianco o contrat-ti a tempo determinato non rinnovati alle donne che comunicano al datore di lavoro di essere incinte, difficoltà nella prenotazione di alberghi, villag-gi turistici e ristoranti.La fecondità delle donne è maggiore dove più alto è il tasso di occupazione femminile. L’armonizzazione tra lavoro e famiglia è determinante. Per un quarto degli italiani, il lavoro ha una centralità alta, ancor più per quelli fra i 35 e i 60 anni. Guadagno e sicurezza sono invece i fattori più importanti per i giovani fra i 18 e i 24

    GIORNAtA PER LA VItA 2014:Generare futuro

    dal Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente della CEI per la 36a Giornata Nazionale per la vita (2 febbraio 2014)

    Michelangelo Mansueto e Rosa Del Popolo*

    anni. La famiglia è ancora importante per il 91% dei concittadini, ma non va-le lo stesso per il matrimonio, che tuttavia per il 76% non è un’istituzione su-perata. L’associazionismo familiare rappresenta più di 3 milioni di famiglie.

    PER UN SERVIzIO ALLA VITANel 2012 sono state effettuate 105.968 interruzioni volontarie di gravidan-za, con un decremento del 4,9% rispetto all’anno precedente. Il numero di aborti per 1.000 donne in età feconda (15-49 anni) è di 7,8, con un decremen-to dell’1,8% rispetto al 2011. Per ogni 1.000 bambini nati vivi, sono ancora 200 le gravidanze che non vengono portate a termine. Un terzo degli aborti in Italia sono di donne straniere (circa 40 mila). Tra le minorenni il ricorso all’aborto è del 4,5 per mille. Resta stabile il numero di obiettori di coscien-za, specie tra i ginecologi (7 su 10). Solitamente si tace sulle pillole che im-pediscono una gravidanza, quando ormai tutto è cominciato nel corpo di una donna. Si stima in 400 mila le scatole di pillole del giorno dopo vendu-te ogni anno in Italia. Culturalmente si continua a ritenere che questo non sia aborto: si è vittima della mistificazione semantica per cui la vita non ini-zia dal momento del “concepimento”, ma da quello dell’”impianto” dell’em-brione. Inoltre, la pillola è la via per una privatizzazione dell’aborto, vissuto pressoché in solitudine. Inoltre,sono circa 160 mila i bambini salvati dai 338 Centri di aiuto alla vita (quasi 10 mila gli interventi positivi solo nel 2012).Il futuro è drammatico. In dieci anni è quasi raddoppiato il numero di perso-ne separate legalmente e divorziate: un separato/divorziato su due ha un’e-tà compresa tra i 35 e i 54 anni. Ben il 72,1% delle famiglie possiede l’abitazione in cui vive, contro il 18% che abita in affitto. I “nuovi” italiani, figli di cittadini stranieri, ammontano a 671 mila e sono aumentati del 139% in dieci anni. Le donne costituiscono il 90% di quanti sono diventati italiani per matrimonio.Rispetto al censimento del 2001, si registra un incremento del 172,1% del-le famiglie con almeno uno straniero: esse rappresentano il 7,4 del totale delle famiglie. Le famiglie con tutti i componenti stranieri sono 1.357.341.Da più parti, alla luce dei dati Istat, si invoca un vero e proprio Ministero della Famiglia, come esiste in Francia e Germania, per politiche attive a fa-vore delle giovani coppie. L’economista S. Zamagni afferma che proprio la famiglia «può rendere uno Stato più civitas e meno polis». È il lavoro che attende tutti a favore della vita per superare l’inverno demo-grafico.

    *coniugi e catechisti, parrocchia s.Famiglia

    “I figli sono la pupilla dei nostri occhi … Che ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo andare avanti?”. Si apre con le domande di Papa Francesco il Messaggio del Consi-glio Permanente per la 36ª Giornata Nazionale per la vita: un ap-pello a quella “cultura dell’incontro” che “è indispensabile per coltivare il valore della vita in tutte le sue fasi: dal concepimento alla nascita, educan-do e rigenerando di giorno in giorno, accompagnando la crescita verso l’età adulta e anziana fino al suo naturale termine, e superare così la cultura del-lo scarto”. “Ogni figlio è volto del ‘Signore amante della vita’ (Sap 11,26), do-no per la famiglia e per la società”, scrivono i Vescovi, i quali ricordano che “generare la vita è generare il futuro anche e soprattutto oggi, nel tempo della crisi; da

    essa si può uscire mettendo i genitori nella condizione di realizzare le lo-ro scelte e i loro progetti”. Di qui, accanto alla sottolineatura che “la società tutta è chiamata a interrogarsi e a decidere quale modello di civiltà e quale cultura intende promuovere”, la scelta della vita, sempre: “Se lamentiamo l’emorragia di energie positive che vive il nostro Paese con l’emigrazione forzata di persone – spesso giovani – dotate di preparazione e professiona-lità eccellenti, dobbiamo ancor più deplorare il mancato contributo di coloro ai quali è stato impedito di nascere”. Analoga considerazione il Messaggio lo dedica all’“esclusione che tocca in particolare chi è ammalato e anziano, magari con il ricorso a forme mascherate di eutanasia”, per concludere riaf-

    fermando “il senso dell’umano e la capacità del farsi carico”, “fon-damento della società”.

    L’inverno demografico

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    4[Febbraio, mese della vita]

    L’annuncio del -la Buona Notizia fin dall’inizio ha proclamato la di-fesa della vita e del bene de-gli uomini. I Vangeli ne ri-portano la testimonianza, la traccia. Gesù Cristo è ve-nuto per salvare l’uomo nella sua inte-rezza: corpo-anima-spirito. Per il se-guace di Cristo non può essere diver-samente. Leggendo i Vangeli trovia-mo molti episodi di salvezza da parte di Gesù. L’uomo (“adam”), come “pri-ma creatura”, fatto a immagine e somi-glianza di Dio, si pone quale suo uni-co interlocutore, quindi come essere capace di apertura alla Parola: nell’a-scolto e nella meditazione egli si rivol-ge al “Tu” che è Dio. Questa comunica-zione, che è propria dell’uomo, è anche la sua possibilità di avere qualche affi-nità con Dio, di essere da lui sostenu-to, di ricevere ancora e sempre il sof-fio della vita. Antropologicamente l’es-sere umano è la creatura di Dio inse-rita misteriosamente in Dio stesso, e non ci sarebbe uomo senza la provo-cazione che Dio gli fa ad uscire dalla sua “animalità” per entrare, tramite la Parola-Spirito di vita (ruach) nella sua vita (di Dio).Zoè e bìos sono i termini che i Greci im-piegavano per dire vita, con il primo si

    LA VIA DELLAintendeva la vita immor-tale, con il secondo quel-la del corpo mortale. Ebbe-ne, possiamo dire che con la venuta del Figlio eter-no tra gli uomini il piano dell’eterno Padre si com-pie per mezzo dello Spiri-

    to Santo. La Trinità Santissima (un so-lo Dio in tre Persone), opera per la vita dell’uomo, anche come bìos. Gesù di Nazaret ,“uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di mira-coli, prodigi e segni”, viene a salvare quelli che erano perduti. Tutti gli uo-mini sono amati da Dio e, se vogliono, salvati, per questo il Signore teneva in modo particolare a rimettere nel suo ovile le pecore che i pastori e gli uomi-ni egoisti e violenti avevano cacciato fuori dalla vita sociale e umana. Ecco allora Gesù che opera miracoli scan-dalosi per i capi del popolo. Ormai tut-ta la società giudaica s’era strutturata secondo una certa cultura (tradizioni, modi di pensare e di fare) e operare di sabato per salvare un uomo non era permesso, secondo la legge, ma Gesù va oltre la legge e proclama che il sa-bato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato). Gesù portatore di vita a par-tire dal miracolo che possiamo pren-dere come modello: la risurrezione di Lazzaro, ma anche altre (il figlio del-

    la vedova di Naim: Lc 7, 11-17; la figlia di Giairo: Mt 9, 18- 26,Mc 5, 22-43; Lc 8, 41- 56). Gesù liberatore dell’uomo in ogni senso. “Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire.(…) Gesù gli rispose: “Va’, tuo figlio vive”. “Uscito dalla sinagoga, en-trò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande feb-bre e lo pregarono per lei. Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva”.”Scese dal monte e molta fol-la lo seguì. Ed ecco, si avvicinò un leb-broso, si prostrò davanti a lui e disse:- Signore, se vuoi, puoi purificarmi-. Te-se la mano e lo toccò dicendo:- Lo vo-glio: sii purificato!-. E subito la sua leb-bra fu guarita.”. I miracoli (segni) di Gesù sono tanti, e ognuno ha il suo insegnamento per gli uomini. E’ chiaro che Gesù vuole far capire a chi lo circondava (e a noi), con convinzioni erronee sul significa-to della malattia e del peccato, che il signore della vita è il Padre e che Egli è amore. La malattia non è frutto del peccato, come si pensava (vedere l’e-pisodio del “cieco nato”: Gv 9, 1-41), ma degli squilibri della natura. Cer-tamente Dio è il Signore di tutto, ma non possiamo dimenticare che egli ha

    lasciato all’uomo un compito delica-to e grave: l’essere creato a immagi-ne di Dio e dare il nome agli animali (Adamo nell’Eden) comporta il domi-nio dell’uomo sul mondo animale, che in senso biblico significa cura: l’uomo deve prendersi cura del mondo, e aver cura del mondo vuol dire farlo fiorire, beneficarlo vivificarlo. Gesù (il Sama-ritano) fascia le ferite all’uomo abban-donato sul ciglio della strada, lo ripa-ra in un albergo, non lo lascia mezzo morto per terra. Gesù vivifica, ridona la vita a chi viene abbattuto dagli uo-mini o dalla natura. La vita immorta-le, zoè, e quella corporale, bios, sono dono di Dio. All’uomo, al quale Dio ha dato il com-pito di prendersi cura del creato, tocca il compito di guardiano del mondo, di medico, di benefattore. Essere imma-gine e somiglianza di Dio, essere suo interlocutore, essere il “tu” del “Tu” de-ve significare amore per l’altro, come era ed è nel piano di Dio che essen-do Amore non ha voluto tenere tutto per sé.

    Antonio Stuppiello

    Nell’esortazione apostoli-ca Evangelii gaudium, il Papa riconosce che ta-luni ridicolizzano la di-fesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, presentando la sua posi-zione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Egli ri-badisce che «la difesa della vita na-scente è intimamente legata alla di-fesa di qualsiasi diritto umano» e che un essere umano «è un fine a se stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà». I bambini nascituri, che sono i più indifesi, fanno parte di quella cerchia di deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, perché si cerca di negare loro la dignità umana per poterne fare quello che si vuole (cf. n. 213).Sono davvero forti le due affermazio-ni del Papa nel documento. Egli sot-tolinea che «non è progressista pre-tendere di risolvere i problemi elimi-nando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per ac-compagnare adeguatamente le don-

    VItA

    A difesa della VItA, una salutare pro-vocazione Antonia Palumbo*

    ne che si trovano in situazioni mol-to dure, dove l’aborto si presenta lo-ro come una rapida soluzione alle lo-ro profonde angustie, particolarmen-te quando la vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una vio-lenza o in un contesto di estrema po-vertà» (n. 214). La sentenza della Cor-te di Giustizia Europea, secondo cui l’embrione è a pieno titolo membro del consorzio umano fin dal primo momento del concepimento e senza soluzione di continuità, è carica di potenziali conseguenze sul versante culturale e anche giuridico. La mobi-litazione europea Uno di noi ha volu-to mostrare che la vita umana è “sa-cra” in ogni sua fase. Tale iniziativa, dunque, punta a fermare i finanzia-menti europei alle ricerche che usa-no, distruggendoli, embrioni umani, e si rivolge a chi promuove l’aborto nei paesi poveri.In questi ultimi decenni, l’uomo ha messo le mani sulla vita, ma ha per-so di vista la vita. Scriveva don Pri-mo Mazzolari nella sua opera Il com-pagno Cristo: «Manovali, inesper-

    ti e supponenti, pretendiamo di sa-per manovrare il delicatissimo con-gegno della vita, senza tener conto di colui che l’ha messa insieme dal nulla, e nelle nostre povere mani si spezzano i nostri più alti destini. Non Dio, ma l’uomo fa paura; non il comandamento di Dio, ma il coman-damento dell’uomo».Per Carlo Casini, presidente del Mo-vimento per la vita, se prima di tut-to occorre evangelizzare la vita, è al-trettanto vero che il riconoscimen-to della dignità della vita umana fin dall’inizio della sua esistenza è evangelizzante, illumina e dà signi-ficato positivo ad ogni altro momen-to e aspetto della vita umana.Enzo Iannacci, medico e cantautore, deceduto recentemente, ha dichiara-to che la vita «è sempre importan-te, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche quando si presenta inerme e indifesa. L’esi-stenza è uno spazio che ci hanno re-galato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e dovunque. Salvare una vita è come salvare il mondo. Ci

    vorrebbe una carezza del Nazareno» (Corriere della Sera, 6 febbraio 2009).Il card. Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, ha affermato che la Chie-sa è contraria all’interruzione volon-taria di gravidanza perché «ama la gente, tutti, anche coloro che sosten-gono l’aborto». Il vero problema non è di natura politica o legale, ma oc-corre «evangelizzare e umanizzare la cultura: allora il mondo sarà sicu-ro per i nascituri, gli anziani e colo-ro che vengono indicati come impro-duttivi». Il mondo è attratto da un’e-sistenza autentica e da una dedizio-ne generosa alla costruzione di una civiltà dell’amore. La ragione e la fe-de devono essere unite nella salva-guardia della vita umana: qui c’è spazio per la creatività e la corre-sponsabilità di tutti nell’assunzio-ne del presente e nella “generazio-ne” del futuro.

    *genitore e insegnante

  • Cari fratelli e sorelle, in occa-sione della Quaresima, vi of-fro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del Si-gnore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua po-vertà» (2 Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corin-to per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invi-to alla povertà, a una vita povera in sen-so evangelico? La grazia di Cristo Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela con i mezzi della po-tenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della pover-tà: «Da ricco che era, si è fatto povero per voi…». Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in tutto simile a noi (cfr Fil 2,7; Eb 4,15). È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’a-more divino, un amore che è grazia, ge-nerosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le cre-ature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato. L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le di-stanze. E Dio ha fatto questo con noi. Ge-sù, infatti, «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergi-ne, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel pecca-to» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gau-dium et spes, 22). Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Pa-olo – «...perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad effetto! E’ invece una sintesi della lo-gica di Dio, la logica dell’amore, la logi-ca dell’Incarnazione e della Croce. Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi dà par-te del proprio superfluo con pietismo fi-lantropico. Non è questo l’amore di Cri-sto! Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovan-ni il Battista, non lo fa perché ha biso-

    [Verso la Quaresima]

    Nel Messaggio per la Quaresima 2014 Papa Francesco invita i cristiani a farsi carico della miseria materiale, morale e spirituale

    RICCHI PERCHÈ POVERIgno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, biso-gnosa di perdono, in mezzo a noi pecca-tori, e caricarsi del peso dei nostri pec-cati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla no-stra miseria. Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cri-sto, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Pao-lo conosce bene le «im-penetrabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8), «erede di tutte le cose» (Eb 1,2). Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci li-bera e ci rende ricchi? È pro-prio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Sama-ritano che si avvicina a quell’uomo la-sciato mezzo morto sul ciglio della stra-da (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera li-bertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerez-za e di condivisione. La povertà di Cri-sto che ci arricchisce è il suo farsi car-ne, il suo prendere su di sé le nostre de-bolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La povertà di Cristo è la più grande ric-chezza: Gesù è ricco della sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a Lui in ogni momento, cercando sempre e so-lo la sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino che si sente ama-to e ama i suoi genitori e non dubita un istante del loro amore e della loro tene-rezza. La ricchezza di Gesù è il suo es-sere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di que-sto Messia povero. Quando Gesù ci invi-ta a prendere su di noi il suo “giogo soa-ve”, ci invita ad arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con Lui il suo Spirito filia-le e fraterno, a diventare figli nel Figlio, fratelli nel Fratello Primogenito (cfr Rm 8,29). È stato detto che la sola vera tri-stezza è non essere santi (L. Bloy); po-tremmo anche dire che vi è una sola ve-ra miseria: non vivere da figli di Dio e da fratelli di Cristo. La nostra testimonianza Potremmo pensare che questa “via” del-la povertà sia stata quella di Gesù, men-tre noi, che veniamo dopo di Lui, possia-mo salvare il mondo con adeguati mez-zi umani. Non è così. In ogni epoca e in ogni luogo, Dio continua a salvare gli uo-mini e il mondo mediante la povertà di Cristo, il quale si fa povero nei Sacra-menti, nella Parola e nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri. La ricchezza di

    Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraver-so la nostra povertà, personale e comu-nitaria, animata dallo Spirito di Cristo. Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene

    carico e a operare concretamente per alleviarle. La miseria non coin-

    cide con la povertà; la mise-ria è la povertà senza fidu-cia, senza solidarietà, sen-za speranza. Possiamo di-stinguere tre tipi di mise-ria: la miseria materiale, la

    miseria morale e la miseria spirituale. La miseria mate-

    riale è quella che comunemen-te viene chiamata povertà e tocca

    quanti vivono in una condizione non de-gna della persona umana: privati dei di-ritti fondamentali e dei beni di prima ne-cessità quali il cibo, l’acqua, le condizio-ni igieniche, il lavoro, la possibilità di sviluppo e di crescita culturale. Di fronte a questa miseria la Chiesa offre il suo servizio, la sua diakonia, per an-dare incontro ai bisogni e guarire que-ste piaghe che deturpano il volto dell’u-manità. Nei poveri e negli ultimi noi ve-diamo il volto di Cristo; amando e aiutan-do i poveri amiamo e serviamo Cristo. Il nostro impegno si orienta anche a fare in modo che cessino nel mondo le violazioni della dignità umana, le discriminazioni e i soprusi, che, in tanti casi, sono all’o-rigine della miseria. Quando il potere, il lusso e il denaro diventano idoli, si ante-pongono questi all’esigenza di una equa distribuzione delle ricchezze. Pertanto, è necessario che le coscienze si converta-no alla giustizia, all’uguaglianza, alla so-brietà e alla condivisione. Non meno pre-occupante è la miseria morale, che con-siste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’ango-scia perché qualcuno dei membri – spes-so giovane – è soggiogato dall’alcol, dal-la droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone hanno smarrito il sen-so della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza! E quante persone sono costrette a que-sta miseria da condizioni sociali ingiu-ste, dalla mancanza di lavoro che le pri-va della dignità che dà il portare il pane a casa, per la mancanza di uguaglian-za rispetto ai diritti all’educazione e al-la salute. In questi casi la miseria mora-le può ben chiamarsi suicidio incipiente. Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore. Se riteniamo

    di non aver bisogno di Dio, che in Cri-sto ci tende la mano, perché pensiamo di bastare a noi stessi, ci incamminia-mo su una via di fallimento. Dio è l’uni-co che veramente salva e libera. Il Van-gelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a por-tare in ogni ambiente l’annuncio liberan-te che esiste il perdono del male commes-so, che Dio è più grande del nostro pec-cato e ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la comunione e per la vita eterna. Il Signore ci invita ad es-sere annunciatori gioiosi di questo mes-saggio di misericordia e di speranza! È bello sperimentare la gioia di diffonde-re questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuo-ri affranti e dare speranza a tanti fratel-li e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di se-guire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore ver-so la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazio-ne e promozione umana.Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera dispo-sta e sollecita nel testimoniare a quan-ti vivono nella miseria materiale, mora-le e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad ab-bracciare in Cristo ogni persona. Potre-mo farlo nella misura in cui saremo con-formati a Cristo, che si è fatto povero e ci ha arricchiti con la sua povertà. La Qua-resima è un tempo adatto per la spoglia-zione; e ci farà bene domandarci di qua-li cose possiamo privarci al fine di aiuta-re e arricchire altri con la nostra pover-tà. Non dimentichiamo che la vera pover-tà duole: non sarebbe valida una spoglia-zione senza questa dimensione peniten-ziale. Diffido dell’elemosina che non co-sta e che non duole. Lo Spirito Santo, grazie al quale «[sia-mo] come poveri, ma capaci di arricchi-re molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2 Cor 6,10), so-stenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità ver-so la miseria umana, per diventare mi-sericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia pre-ghiera affinché ogni credente e ogni co-munità ecclesiale percorra con frutto l’i-tinerario quaresimale, e vi chiedo di pre-gare per me. Che il Signore vi benedica e la Madon-na vi custodisca.

    Dal Vaticano

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    CRIStIANA

    [Liturgia, fons et culmen]

    Come dice la seconda ora-zione di benedizione del mercoledì delle Ceneri del Messale Romano, celebra-re la Pasqua significa giungere, me-diante l’impegno dell’esercizio qua-resimale, “a una vita rinnovata a im-magine del Signore che risorge”. La quaresima è tempo di preparazione alla Pasqua. Dicono infatti le Nor-me generali dell’anno liturgico (n.27; e Sacrosanctum Concilium n. 109) :«La liturgia quaresimale guida al-la celebrazione del mistero pasqua-le sia i catecumeni, attraverso i gra-di dell’iniziazione cristiana, sia i fe-deli, per mezzo del ricordo del batte-simo e della penitenza». La Quaresi-ma dunque va considerata non solo come preparazione alla Pasqua, ma come una vera e propria iniziazione sacramentale ad essa, cioè come un cammino di fede fondato sull’ascol-to della Parola di Dio e sui segni sa-cramentali compiuti nell’assemblea liturgica. Se il Triduo pasquale e l’in-tero tempo di Pasqua hanno come apice l’eucarestia, la Quaresima ha

    come traguardo non solo l’eucarestia pasquale, ma anche le promesse bat-tesimali rinnovate nella Veglia pa-squale. Il cammino quaresimale sfo-cia nella celebrazione della Pasqua. La lettura apostolica della Veglia è infatti Rm 6,3-11. Paolo infatti pre-senta l’evento battesimale come re-ale partecipazione del fedele al desti-no di morte e risurrezione di Cristo. La morte al peccato non è solo do-no gratuito di Cristo, ma esige con-versione attiva e partecipazione esi-stenziale. Possiamo affermare che la Quaresima ha tre dimensioni fonda-mentali: una prima dimensione sa-cramentale-battesimale, una secon-da di introduzione al mistero cristo-centrico-pasquale, una terza di ten-sione etica e di conversione. Questi tre percorsi che potremmo chiama-re anche itinerari, sono ben scandi-ti dal ciclo triennale delle letture (A, B, C). nella prima e seconda dome-nica i tre cicli presentano gli episo-di classici della tentazione di Gesù e della sua trasfigurazione. Il ciclo A ci introduce nella realtà misterica

    Il tempo della Quaresima: celebrazione e spiritualità

    don Luigi Carbone*

    La storia della Quaresima si fon-da su due radici millenarie: l’u-na, attenta alla celebrazione dei misteri pasquali, mostra la quarantina come un tempo di peni-tenza e conversione, l’altra trova ragio-ne dall’esperienza del catecumenato, la preparazione cioè di coloro che chiedeva-no di essere battezzati: un esteso proces-so iniziatico, sorto nei primi secoli del-la Chiesa e articolato in tempi e passag-gi successivi: il pre-catecumenato come tempo di orientamento al cristianesimo; il rito dell’accoglienza dei catecumeni; il tempo, piuttosto lungo, del catecumena-to finalizzato alla formazione e matura-zione cristiana; l’ammissione al battesi-mo; il tempo dedicato alla purificazione e all’illuminazione, durante la Quaresi-ma; la celebrazione, nella Veglia pasqua-le, del Battesimo, della Confermazione e della Eucaristia, “sacramenti che forma-no il cristiano”; il tempo della mistago-gia, durante il tempo pasquale, destina-to all’esperienza cristiana, sacramenta-le e comunitario-ecclesiale. Si parla di ca-tecumeni, uditori e, in prossimità del bat-tesimo, di competenti, eletti, illuminandi. Un’esperienza che durava anni e che cul-minava nella celebrazione dei riti dell’i-niziazione cristiana, nella notte solenne della Veglia Pasquale. Da ciò lo stabilirsi di un breve periodo di preparazione finale comunitaria, appunto la Quaresima. Du-rante questi giorni — 40 è simbolo biblico del passaggio e della prova — i catecume-ni erano presentati pubblicamente ai fe-deli per essere accolti come nuovi fratelli. Nella notte di Pasqua il Vescovo celebrava il battesimo; uscito dall’acqua il battezza-to riceveva dal Vescovo la confermazione; quindi si celebrava la messa nella quale il battezzato-confermato riceveva la pri-ma comunione.

    CAtECUMENAtO, QUARESIMA e INIZIAZIONE Domenico trotta*Sono i tre sacramenti dell’iniziazione cri-stiana - battesimo, confermazione ed eu-caristia, momento culminante dell’ini-ziazione. Dopo il rito, nelle settimane del tempo pasquale e fino a Pentecoste, i Pa-stori avevano cura di illustrare i segni che la comunità aveva vissuto in quell’impor-tantissimo momento: è la via detta «mi-stagogica», che indica il mistero di Dio e lo fa vivere prima di tutto come espe-rienza, aprendo così i cuori all’azione di-dattica dello Spirito. Questa prassi con-tinuò finché si battezzavano soprattutto adulti e finché le comunità vivevano rag-gruppate attorno al loro Vescovo. Il secolo IV portò la libertà per la Chie-sa, la progressiva scomparsa dei pagani, un numero sempre crescente di battesi-mi di bambini e la moltiplicazione delle parrocchie rurali lontane dalla città do-ve risiedeva il Vescovo. Si presentarono allora due soluzioni: o battezzare subito e sul posto il neonato, in nome del Vesco-vo, e rimandare la confermazione ad un momento successivo, quando fosse venu-to il Vescovo; oppure mantenere legati il battesimo e la confermazione e dare ai semplici sacerdoti il potere di conferma-re. Le Chiese di rito orientale scelsero la seconda soluzione: il sacerdote battezza e conferma subito - ma sempre con il sa-cro crisma consacrato dal Vescovo - e, molto spesso, dà al bambino alcune goc-ce del vino eucaristico. Quindi: battesi-mo, confermazione, eucaristia. La Chiesta occidentale scelse invece la prima soluzione: il sacerdote battezza i neonati, mentre al Vescovo competono i riti post-battesimali, la confermazione del battesimo. La Chiesa Cattolica dun-que ha dissociato battesimo e conferma-zione, nel caso di neonati. A partire dal VI secolo il pedo-battesimo diventa la scelta pastorale predominante e l’unità

    e la ricchezza dell’antica struttura inizia-tica conosce un progressivo sfaldamen-to: il cammino catecumenale prima ri-condotto a pochi incontri cultuali, scom-pare totalmente; l’accompagnamento ec-clesiale pre-battesimale, sempre più ridi-mensionato, viene reso impossibile con la scelta di amministrare il battesimo a pochi giorni dopo la nascita; la celebra-zione unitaria dei tre sacramenti dell’i-niziazione si dissolve progressivamen-te prima con il distacco della conferma-zione, poi dell’eucaristia; lo stretto lega-me fra iniziazione sacramentale e Veglia pasquale viene via via meno con il dif-fondersi della cele-brazione del batte-simo nelle gran-di feste, successi-vamente in tutti i giorni dell’anno. Il Concilio Vatica-no II ha ripristinato, per la nostra Chiesa latina, il catecumenato degli adulti divi-so in più gradi. Oggi, dunque, in tutti i ri-ti latini e orientali, l’iniziazione cristiana degli adulti incomincia con il loro ingres-so nel catecumenato e arriva al suo culmi-ne nella celebrazione unitaria dei tre sa-cramenti del Battesimo, della Conferma-zione e dell’Eucaristia. L’iniziazione cri-stiana dei bambini nei due riti, latino e orientale, continua a rimanere divergente. A differenza di quello orientale, nel rito romano i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana continuano ad essere dissociati.Ma il percorso dell’iniziazione cristiana resta comunque unitario: il sacramento del Battesimo, con il quale siamo resi con-formi a Cristo, incorporati nella Chiesa e resi figli di Dio, costituisce la porta di ac-cesso a tutti i Sacramenti. Con esso venia-mo inseriti nell’unico Corpo di Cristo (1

    Cor 12,13), popolo sacerdotale. La parte-cipazione al Sacrificio Eucaristico perfe-ziona in noi quanto ci è donato nel Battesi-mo e i doni dello Spirito sono dati per l’e-dificazione del Corpo di Cristo (1 Cor 12) e per la maggiore testimonianza evange-lica nel mondo. La storia del catecumenato ci fa compren-dere il motivo per cui la celebrazione del-la Veglia Pasquale dovrebbe continuare a costituire, anche oggi, la sede privile-giata per amministrare il sacramento del Battesimo ai nuovi nati nelle nostre co-munità, chiamati a diventare figli di Dio

    e parte della Chie-sa nel giorno in cui Cristo, con la sua Pasqua, ha aperto agli uomini la fon-te del Battesimo.Per mezzo del Bat-tesimo i battezzan-di diventano parte-

    cipi del mistero pasquale di Cristo, sono sepolti insieme con Lui nella morte per ri-sorgere con Lui a vita nuova. Come Gesù è passato attraverso la morte e ne è uscito vittorioso, allo stesso modo i battezzandi, nell’acqua del Battesimo, fecondata dallo Spirito, muoiono al peccato per risorgere ad una vita nuova, rigenerata. Unita ai nuovi battezzati, nella Veglia Pa-squale, al termine del cammino peniten-ziale della Quaresima, tutta la Chiesa fa memoria del proprio battesimo, del pro-prio passaggio pasquale, e rinnova la pro-pria fedeltà con le promesse battesimali, in un continuo processo di rinnovamen-to, di rinascita, di imitazione e conversio-ne a Cristo, meta della vita cristiana.

    *catechista parrocchia s. Michele - Manfredonia

    della nostra iniziazione. Le domeni-che terza, quarta e quinta proclama-no i brani giovannei connessi anti-camente con gli scrutini battesima-li. In questi episodi risuona la rive-lazione personale di Gesù come “ac-qua viva” (brano della Samaritana), “luce del mondo” ( brano del cieco na-to) e “risurrezione e vita” (risurrezio-ne di Lazzaro) e all’uomo viene prefi-gurata la realtà battesimale. Queste letture possono essere riprese però se nelle comunità dovessero esserci catecumeni (Ordinamento delle lettu-re della Messa n. 97). Il ciclo B che in-carna la seconda dimensione richia-ma la nostra attenzione sulla Pasqua i Gesù. Le tre domeniche ripropon-gono alcuni brani di Giovanni in cui contempliamo l’anticipo del mistero pasquale. Gesù è tempio vivo nella sua incarnazione distrutto dagli uo-

    mini nella sua passione (Gv 2, 13-25); Cristo nella sua esaltazione glorio-sa e dolorosa è compimento del ser-pente innalzato da Mosè nel deserto (Gv 3,14-21); Gesù è il chicco di fru-mento che è stato sepolto nella terra per una sovrabbondante messe di vi-ta eterna (Gv 12, 20-33). Il ciclo C si configura come una catechesi sulla riconciliazione, tema che trova il suo vertice nella celebrazione della Pa-squa, segno supremo della nostra ri-conciliazione con il Padre. Nelle tre domeniche vengono proposti i testi di Luca nei quali si esalta la mise-ricordia di Dio: la parabola del fico senza frutti (Lc 13, 1-9); la parabola del Figliol prodigo (Lc 15, 1-32); l’epi-sodio dell’adultera perdonata (Gv 8, 1-11). Si tratta di tre itinerari comple-mentari che permettono di ripercor-rere attraverso le pagine dell’Antico e Nuovo Testamento le grandi tappe di quella storia della salvezza attra-verso le quali Dio chiama l’uomo alla fede, all’alleanza, alla vita, e gli dona il suo Spirito. Penitenza e battesimo appaiono come le due ostanti su cui è imperniato tutto il cammino qua-resimale in vista della piena riconci-liazione dell’uomo con Dio.

    *direttore Ufficio Liturgico diocesano

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    “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessu-no può servire due padro-ni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezione-rà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (v. 24). Dall’ouverture del Vangelo del-la domenica ottava del tempo ordi-nario si comprende bene che il Mae-stro vuole intessere con ciascuno di noi rapporti di esclusività, non vuole che diamo il primo posto nell’amore ad altri se non a Lui. Questo però non deve spaventarci: perché è proprio dell’amore forte e persino estremo chiedere all’amato/a questo rappor-to esclusivo di fedeltà. Bisogna sot-tolineare un altro aspetto che tralu-ce dalla lettura del Vangelo: Gesù fa questo discorso perché sa quali so-no i nostri bisogni e sa anche che tut-to ciò che diventa idolo per noi, ci al-lontana da Lui, rischia di non farci centrare l’obiettivo della nostra vi-ta, cioè la nostra felicità. Nella pericope di questa domenica viene definita come idolo la ricchez-za, ma io proverei ad allargare gli orizzonti nel senso che anche la mo-glie, il marito, i figli, il successo, il sesso, il carrierismo, possono diven-tare veri idoli. E’ chiaro però che an-che la ricchezza può farci distogliere dall’essere veri discepoli di Gesù, e così, quando mettiamo al centro del-la nostra vita tutt’altro fuorché Lui, il rischio che si corre è tanto. L’invito di Gesù «Non preoccupatevi per la vo-stra vita» (v. 25), significa che non bi-sogna aspettare il famoso piccolo pa-niere che scende dal cielo, che non è il disimpegno, l’ozio, il disinteresse o peggio la rassegnazione, ma la fidu-cia incondizionata nella Provviden-za di Dio. Essa «consiste nelle dispo-sizioni con le quali Dio, con sapien-za e amore, conduce tutte le creatu-re al loro fine ultimo» (CCC, 321). E ancora «Cristo ci esorta all’abbando-no filiale alla Provvidenza del nostro Padre celeste (cf Mt 6, 26-34) e l’apo-stolo Pietro gli fa eco: “gettate in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1Pt 5, 7)».Sono convinto che la logica sottesa alla Provvidenza sia questa: tu fa’ quanto è nelle tue possibilità e una volta che hai fatto tutto questo, affi-dati al Signore Gesù perché Lui non si dimentica di noi. Infatti: «Si dimen-tica forse una donna del suo bambi-no, così da non commuoversi per il fi-glio delle sue viscere? Anche se costo-ro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15). Dobbia-mo essere sicuri che contiamo agli occhi di Dio più degli uccelli, più dei gigli e dell’erba del campo e Lui ci co-nosce profondamente e sa ciò di cui abbiamo bisogno. Ci “brucia” molto (o forse per niente) quel “gente di po-

    L’amore forte e persino estremo

    Giuseppe Barracane*

    ca fede” (v. 30) del Vangelo, perché pensiamo sempre che queste paro-le si rivolgano alla signora a fianco di banco in chiesa, a qualcuno a cui gliela vogliamo far pagare. Ma, non è per noi, è per gli altri, e invece…sì, è proprio per me! E ciò ci fa com-prendere quanta strada abbiamo da fare ancora per essere veri discepoli di Gesù. Ma, attenzione, sembra che tutto questo discorso ci porti ad un rapporto che deve essere del singo-lo cristiano con Dio. Non è così. In-fatti: «… il Vangelo ci invita sem-pre a correre il rischio dell’incon-tro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costan-te corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è in-separabile dal dono di sé, dall’ap-partenenza alla comunità, dal ser-vizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invi-tato alla rivoluzione della tenerez-za» (Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium, 88). Continua il Papa: «Me-glio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richie-ste» (Papa Francesco, Es. ap. cit., 91). Don Tonino Bello ci rimarca questo concetto importante: «Non abbiate paura di chi vi accusa di “orizzonta-lismo” quando vi interessate un po’ troppo delle cose umane. Non abbia-te paura, perché anche Gesù, per sal-vare il mondo, si è steso, orizzontale, sulla croce prima di essere innalzato, verticale, tra cielo e terra» (T. Bello, Cirenei della gioia, 86).

    *dottore in sacra teologia

    Abbazia di Pulsano

    Denunziato e condannato per ta-li misfatti, ha scontato la pena nel carcere di Lucera dove si è avvicina-to alla fede cristiana grazie al mini-stero svolto dal cappellano, p. Ales-sandro Di Palma ofm conv. Successi-vamente, i servizi sociali del Tribu-nale, per il suo buon comportamen-to in carcere, hanno affidato Abram all’Abbazia di Pulsano per un perio-do di rieducazione e di sconto della pena in regime di semilibertà. Ac-colto fraternamente dalla Comunità monastica, Abram, aiutato dai mona-ci, ha continuato il cammino di fede e condotto a maturità la sua conver-sione e la sua fede attraverso l’ascol-to della Parola, la preghiera e la pra-tica delle norme evangeliche. Tutto ciò lo ha portato a richiedere di di-ventare cristiano. Abram ha deside-rato aggiungere al momento del bat-tesimo anche il nome Michele col quale oggi desidera essere chiama-to. Padrini sono stati il monaco Pie-tro Distante, amministratore di Pul-sano, e p. Arcangelo Maira, scalabri-niano a Siponto. Oltre agli amici di Pulsano è stato presente alla cele-brazione anche un nutrito gruppo di cristiani del nord Africa, residen-ti nel “ghetto” di Rignano dove sono assistiti dai padri Scalabriniani.

    Alberto Cavallini

    Domenica 9 febbraio è sta-to vissuto dalla Comuni-tà monastica e dai fedeli un momento di grazia e di grande gioia per il lieto compimento dell’iniziazione cristiana dell’amico africano Abram Konè che ha ricevu-to l’insieme dei tre sacramenti dell’i-niziazione cristiani, il battesimo – inizio della vita nuova in Cristo – la Confermazione – che ne è il raffor-zamento – e l’Eucaristia – che nu-tre il discepolo con il Corpo e Sangue di Cristo. L’arcivescovo mons. Miche-le Castoro,infatti, ha conferito il tri-plice sacramento ad Abram Miche-le Konè che con commozione e gioia ha accolto il dono di Dio.Abram Konè, originario della Costa d’Avorio, 47 anni, è in Italia dal 2008 per motivi di lavoro. Impegnato nel nostro Tavoliere nei lavori dei campi, a seguito di maltrattamenti ed abusi da parte dei cosiddetti “caporali” del-la manovalanza che spadroneggiano purtroppo su tanti migranti in cer-ca esclusiva di lavoro per sopravvi-vere, è stato coinvolto in un episodio di violenza e ribellione.

    [Liturgia, fons et culmen]

    UN ADULtO INCORPORAtO ALLA CHIESA, CORPO DI CRIStO

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    co[Famiglia e società]

    Maria Chiara Bavaro*‘‘Nicola Pupillo Rota Romana“Dietro ogni pratica, ogni posizione, ogni causa, ci sono persone che attendono giustizia”Si è svolto lo scorso 9 febbra-io il secondo incontro con le famiglie della parrocchia Santuario Maria Santissi-ma della Libera, che ha visto la par-tecipazione numerosa di molte fami-glie che si sono ritrovate, nei locali delle suore, a sorseggiare un te e a discorrere sul significato del TE, in-teso come Te che mi stai affianco, Te che mi sei compagno di vita e soprat-tutto Te che mi hai donato la vita e la gioia del dono del matrimonio. Le fa-miglie sono state divise in tre grup-pi di colore diverso e ad ogni coppia è stato consegnato un pass con la pa-rolina “Effatà”, del colore del gruppo di appartenenza. Lo stare tutti intorno al te ha “aper-to” i cuori e ha fatto prendere co-scienza ad ognuno dell’importanza della persona che gli sta accanto. Ab-biamo avuto anche la fortuna di ave-re tra di noi due coppie della dioce-si di Campobasso, impegnate attiva-mente nella Pastorale familiare, che sono a fianco di chi si accinge a for-mare famiglia e di chi ha già inizia-to un cammino di coppia. Ci hanno parlato dell’importanza della comunicazione che parte dal cuore e che ha bisogno dell’Amore, senza del quale non c’è la comunica-zione che non è fatta solo di parole, ma di sentimenti, silenzio e soprat-tutto ascolto. Molte volte ci troviamo a sentire l’altro ma senza ascoltarlo veramente, non accettiamo il dialo-go, vero punto di incontro. Non sia-mo tutti uguali e non la pensiamo allo stesso modo, ma l’importante è che tra due pensieri divergenti ne nasca uno, comune. La riflessione è continuata nei vari laboratori orga-nizzati per le coppie. Con la gioia nel cuore abbiamo, infi-ne, partecipato alla celebrazione eu-caristica e dopo ci siamo ritrovati a condividere un’agape fraterna, co-municandoci tutta la felicità di aver trascorso una giornata, diversa, bel-la e soprattutto piena di gioia e amo-re.

    Incontro con le famiglie ...Intorno al tE

    Nella Sala Cle-mentina, il 24 gennaio scor-so, il Santo Pa-dre Francesco ha tenuto l’abituale discorso di Inau-gurazione dell’Anno Giudi-ziario innanzi agli Officia-li e agli Avvocati del Tribu-nale della Rota Romana, uno dei Tribunali Pontifici più autorevoli sia per ma-teria giudiziaria trattata che per mole di cause po-ste alla sua decisione. Ta-le discorso è un intervento qualificato di rara incisività poiché segna chiare linee magisteriali a cui, successiva-mente, Avvocati e Giudici si attengo-no nella stesura degli atti processuali.Quest’anno le previsioni circa l’ogget-to di tale discorso sono state molteplici e si sono mosse seguendo più direzio-ni: dall’ipotesi che il Pontefice avreb-be descritto un aspetto processuale a quella che avrebbe affrontato un de-terminato tratto deontologico, ed infi-ne all’ipotesi che avrebbe trattato un argomento di pastorale matrimonia-le. Da qualunque lato si avesse voluto considerare il Suo intervento, tra i pre-senti, vi è stata la certezza che avrebbe segnato i cuo-ri per l’ennesima volta usando l’estrema sollecitudine verso gli umili della terra.In linea con i suoi predecessori (Pio XII, Paolo VI, e il Beato Giovanni Paolo II), Papa Francesco, nell’apri-re il discorso, ha focalizzato l’attenzione sul ruolo dei Giudici ecclesiastici richiamando la centralità del lo-ro munus sacerdotale che è pastorale prima di tutto. Il Giudice ecclesiastico, secondo le parole del Pontefice, è chiamato a svolgere il suo ministero ecclesiale in cui convergono una dimensione giuridica ed una dimen-sione pastorale tra loro non in contrapposizione. E ciò per la ragione che l’attività giudiziaria è un peculiare sviluppo della potestà di governo nella Chiesa, a sua volta inseparabilmente connessa con la potestà sacra che si basa sul potere e sulla missione conferiti a Pie-tro da Cristo, di edificare la comunità cristiana. Per ta-le origine sacramentale i ministri del diritto, i Giudi-ci, svolgono la loro attività come mandato apostolico, esercitando la giustizia per il perseguimento del bene dei fedeli.Entro questi termini, e secondo la visione del Pontefice mutuata dal suo predecessore Paolo VI, l’attività dei Giudici ecclesiastici è di natu-ra pastorale prima che giuridica, poichè la Pa-storale si preoccupa del-le persone, di coloro che sono alla ricerca della verità, di coloro che de-

    vono crescere in Cristo e insieme far crescere la co-munità dei fedeli cristiani. Questo orientamento rap-presenta lo slancio concre-to verso nuovi orizzonti pastorali ai quali Pastori e Giudici, auspica il Ponte-fice, dovranno aprirsi con serenità. Ciò diventa pos-sibile considerando l’inti-ma connessione esistente tra il profilo umano e quel-lo giudiziario del Giudice, che gli consente di ‘tutela-

    re la verità nel rispetto della legge sen-za tralasciare la delicatezza e l’umani-tà proprie del pastore di anime’. In ta-le ottica, il Giudice ecclesiastico deve venire in aiuto ai fedeli che si trova-no in difficoltà concretizzando la sua opera di servizio e dunque la sua dia-conia che non deve tradire la necessi-tà di operare secondo ‘perizia nel di-ritto, obiettività di giudizio ed equità’. L’attività del Giudice, infatti, non può prescindere dai fatti, dalle prove né da una precisa struttura processuale per-ché non si diffonda la concezione che i giudizi siano compiuti in assenza di re-gulae iuris, e dunque venga in pericolo

    la stessa garanzia dei diritti fondamentali.Il Pontefice usa parole chiare per volgere lo sguardo paterno ai cambiamenti in atto nelle società contempo-ranee, chiedendo ai Giudici di comprendere le nuove mentalità e le nuove aspirazioni della comunità poiché solo in tale modo il loro giudizio sarà fedele e realmen-te rispondente alle esigenze della realtà concreta. Per tale via il fedele che si rivolgerà ai Tribunali Ecclesia-stici si sentirà veramente rappresentato da quella giu-stizia che non opprime ma libera e solleva.Seguendo puntualmente le Sue parole, come non po-ter notare quanto sia vivo nell’animo del Santo Padre lo scopo primario del Buon Pastore, di salvare la sua pecorella ferita, animato dalla carità che è dono del-lo Spirito Santo (Rm 5,5). Così l’azione del Giudice ec-clesiastico si dovrà animare di carità per evitare che il giudizio troppo facilmente dimentichi la meta, ossia raggiungere la verità dopo aver consolato chi è stato colpito, guidato chi ha errato, riconosciuto i diritti di

    chi è stato leso. Operan-do con tale dignità, l’e-sercizio della carità sa-rà in grado di attenua-re la rigidità del diritto nel rispetto della perso-na umana avendo cura di esserle vicino così come un padre fa con il proprio figlio.

    *avvocato della Rota Romana

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    014 [Arte e Fede]

    Alberto Cavallini

    Dallo studio artistico del restauratore Francesco Lorusso:

    …Quasi di grandezza naturale, ogni tela si sviluppa in 172x122 centimetri di superficie pittorica, i due santi esprimono impeccabilmente i modi e il gusto giaquintesco, respiro europeo della cultura artistica napoletana … Su una grassa imprimitura, pennellate d’affondo rapide ed energiche, fanno delle te-le giovannee due belle lezioni di gestualità e di prontezza esecutiva. Di un oc-chio sensibile e penetrante risultano le scrupolose correzioni dei dettagli, ap-parentemente superflui. Abbondante e immediata risulta la pasta cromatica, riconosciuta è la luminosità della tavolozza. E’ facile dedurre che le opere sia-no state monitorate e risolte dai guizzi risolutivi di un indiscusso Maestro … Le tele erano fortemente viziate e deformate a causa della prolungata schio-datura delle stesse lungo gli assi dei fatiscenti telaio. Nessuna foderatura in-tegrale. Grave sarebbe stato il trauma per lo spessore e l’integrità cromatica. Evitata, inoltre, qualsiasi alterazione dell’originale impianto tonale. Una ben-datura perimetrale è bastata per il sobrio e risolutivo pensionamento sui te-lai definitivi. Scure e illeggibili erano le patine pittoriche. La pulitura è stata effettuata in relazione alla tipologia di sporco e alla diversa natura chimica dei pigmenti. Oltre che da processi naturali, causa determinante dell’imbru-nimento e della violenta ossidazione è stata un deleterio impiastro di colla ed oli spalmato sul retro delle tele. Notevoli strati sono stati rimossi a secco, libe-rando le fibre del lino dalla eccessiva rigidità prodotta da superstiziosi beve-roni. Scampati miracolosamente alla disattenzione e all’indifferenza corren-te, i meravigliosi san Giovanni si scoprono ambasciatori inadeguati per le no-stre terre d’incanto, dove spazi luminosi di vuoto vengono barattati con i de-nari di niente, grasso che cola sugli occhi”.

    Due tra le più pregiate tele del patrimonio storico-ar-tistico viestano, custodite nel locale palazzo vescovi-le, sono state a cura del vicario epi-scopale don Gioacchino Strizzi, par-roco della chiesa cattedrale, recente-mente restaurate dal laboratorio Ca-mera Cromatica di Francesco Lorus-so e presentate dapprima all’arci-vescovo Michele Castoro e al sinda-co Ersilia Nobile e poi a tutta la cit-tadinanza. Le tele di grandi dimensioni pre-sentano quasi a grandezza natura-le e nello stile tipico della pittura na-poletana del periodo rococò, l’una s. Giovanni Battista e l’altra s. Giovan-ni apostolo ed evangelista, e porta-no sul retro la sigla NPF , forse fir-ma dello stesso autore, letta e fatta coincidere in Nicolaus Porta Fecit.Se davvero l’autore delle due prege-voli opere è quel Nicolò Porta di Mol-fetta vissuto dal 1710 al 1784, disce-polo e collaboratore del grande pit-tore napoletano Corrado Giaquinto, così come il restauratore Francesco Lorusso ha inteso identificare l’iscri-zione siglata sopra riportata,le tele custodite a Vieste, opere pregevoli di un artista pugliese del secolo dei lu-mi, si presentano cariche di valenze simboliche: una chiave introspetti-va che trasforma così il viso del sog-getto dipinto in un autoritratto del-lo stesso artista o dei suoi stati d’a-

    nimo lì riflessi. Notevole a tal pro-posito è la affascinante somiglian-za tra i due soggetti biblici raffigu-rati, anche se apparentemente diver-si in quanto uno più paffuto, quel-lo dell’ Evangelista Giovanni e l’al-tro più emaciato, quello del Battista. Nell’epoca del rococò i volti dell’ar-te sono stati occasione per comuni-care altro rispetto alle realtà, supe-rando di fatto la suddivisione stori-ca tra “ritratto ufficiale” e “ritratto in-timo” stabilendo così un legame for-te ed esistenziale tra l’autore e il suo tempo. Le due pregevoli tele viesta-ne spalancano una finestra sull’in-finito attraverso proprio i due volti ritratti, ciascuno dei quali ha uno sguardo vivissimo su chi si soffer-ma ad ammirare le tele. Si tratta di volti che sono tratteggiati e racchiu-si da un alone di luce e di armoniosa pace che si espande con un soffio di grazia, segno di grande valentìa arti-stica che ci fa capire come per il mae-stro-autore i colori siano stati mezzi e non fini, e le immagini presentate sono ed intendono essere un raccon-to nato da un centro di energia puris-sima dello stesso pittore che sembra come sciogliersi ed espandersi sotto il suo pennello che preme sulla te-la i colori che realizzano i santi per-sonaggi, rappresentati in sembian-ze giovanili.Il corpo del Battista, come una canna al vento esposta alle intemperie del deserto, ha capelli mossi dal vento e il corpo seminudo come inclinato per indicare con la destra l’Agnello che è ai suoi piedi: Egli è presenta-to, secondo i racconti evangelici, co-me uno che non vestiva morbide ve-sti, con il corpo scarno perché suo ci-bo erano miele e locuste, un autenti-co uomo mandato da Dio la cui voce, quella di “uno che grida nel deser-to” proclama l’“Ecce Agnus Dei” ,in-cisa chiaramente in cima al suo bor-done proprio per ricordare a chi con-templa l’opera, la missione del Bat-tista di essere la Voce, il Precurso-re del Messia. Una luce impalpabile in questa rappresentazione superba esce dall’Agnello posto ai piedi del Battista, e da questo angolo prospet-tico con grande maestria cromatica si riverbera sia sulla pelle di pecora che cinge i fianchi che sul volto di s. Giovanni il Battezzatore, l’uomo “tra i nati di donna il più grande”come lo ha definito lo stesso Gesù.Anche l’immagine che presenta s. Giovanni evangelista ha anch’essa un fulcro, posto nel volto del giovane apostolo, ripieno di una luce che si ir-radia per tutta la tela. Il santo disce-polo è raffigurato giovane con gran-di paludamenti rococò mentre è in-tento a scrivere l’Evangelo o l’Apo-calisse: in una mano infatti sorreg-

    ge il calamo, la penna cava e traslu-cida d’uccello usata nell’antichità co-me strumento per scrivere, e nell’al-tra il libro della Buona Notizia. L’An-gelo che contraddistingue tutta l’ico-nografia antica di s. Giovanni e che suggerisce all’apostolo la divina Pa-rola che deve scrivere e far conosce-re, è stato ridotto in questa tela vie-stana, ad un tipico putto rococò po-sto alla destra del giovane evange-lista, sorreggente tuttavia un cala-maio ove poter intingere la penna, ed anche l’aquila, il simbolo per ec-cellenza di s. Giovanni, è ben eviden-te in quanto posta sula lato sinistro della figura dell’Apostolo. Insomma, nella tela custodita a Vieste, s. Gio-vanni apostolo ed evangelista, colui che “portò in mano la penna celeste … che fu custode della Vergine Maria … che ci fece volare su ali d’aquila con il libro da lui scritto nella valle di Gio-safatt…” come recita un’ antica gia-culatoria garganica, il maestro sette-centesco che l’ ha eseguita ha armo-niosamente coniugato i segni dell’i-conografia del passato e li ha ripro-posti con i canoni della pittura na-poletana post-barocca . Ed il recente e lodevole restauro ha ben messo in evidenza la bellezza originaria delle due opere secondo l’ideale della sta-gione artistica fiorita nel secolo in cui è vissuto l’autore. Insomma, davanti a queste tele, a prima vista piuttosto scure nell’im-pianto cromatico, si sa tuttavia sco-prire facilmente, e sembra un para-dosso, la chiave di lettura che è la lu-ce che rischiara le forme, i personag-gi, l’ambiente, aventi tutti una poten-

    za emotiva per il gioco delle propor-zioni e dei colori, stupefacenti, inat-tesi. Posso dire che la contemplazio-ne o la semplice visione di queste due magnifiche opere non può che lasciare nell’animo la nostalgia per la Bellezza vera ed autentica, che la Chiesa da sempre propone attraver-so l’arte, il cui pregio è quello di far capire che essa serve alla catechesi e alla comprensione reciproca.Le due tele restaurate impreziosi-scono il patrimonio storico-artisti-co dell’episcopio viestano, tradisco-no una chiara sete d’infinito da par-te dell’artista e consentono al visita-tore quell’immedesimarsi che è già condividere, partecipare, configu-rare possibilità e bellezza di dia-logo.

    tornate allo splendore originario due preziose tele settecentesche

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  • Si tratta di una storia religiosa e civile insie-me che, qui da noi come altrove, si incrocia e si unisce per costituire un vero momento di unità nella ricerca del bene comune di una comu-nità protesa verso tra-guardi futuri, senza di-menticare le gravi diffi-coltà del presente con le annesse responsabilità. A fronte di situazioni di incertezza, crisi economica e mancanza di lavo-ro che gravano sulla nostra comu-nità e sull’intero Paese, sono ricchi di speranza e consolazione l’esem-pio, l’incitamento e l’atteggiamento del santo Pastore di Siponto che con parole, preghiere ed opere ha spro-nato la città a confidare nella poten-za e misericordia di Dio, che ha di-

    feso l’autenticità e l’unità della fede, ha evangelizzato le popolazioni del vicino territorio garganico e ha de-nunziato l’arroganza dei potenti in-vasori che sono stati rimandati via, a mani vuote.Ed è proprio per tutto questo che s. Lorenzo è caro al cuore dei Sipon-tini.

    [Arte e Fede]

    Pur se estremamente radicata nell’a-nimo dei Sipontini veraci, bisogna ammetterlo, quella di s. Lorenzo è forse una festa che consente un gior-no di vacanza a scuola e che oggi dai più è meno sentita sia per il freneti-co trantran quotidiano che attana-glia tutti noi e sia per quella perdita di memoria delle radici. Ma il Pontificale presieduto dall’Ar-civescovo in cattedrale con la par-tecipazione delle Autorità comuna-li, delle Forze dell’Ordine, e di nu-merosi fedeli, e la processione che si è snodata per le vie del centro città, cui hanno partecipato in tanti, pur in assenza di quelle concomitanti e numerose manifestazioni esterne che si svolgono in estate in occasio-ne della festa della Vergine di Sipon-to, hanno il merito di tramandare la più autentica tradizione sipontina al-le generazioni che verranno.

    Una festa antica ma sempre cara al cuore di ManfredoniaAnche in occasione dei fe-steggiamenti per l’annua-le festa di s. Lorenzo Ma-jorano, sono stati tanti gli occhi oranti e stupiti dei Sipontini che hanno fissato in cattedrale la settecentesca e confortante imma-gine del Vescovo-Patrono della città e dell’Arcidiocesi.

    Antonia Palumbo

    I codici vaticani greci 821, 866 e 2053, scoperti e studiati da Sabino Leanza, dal titolo Αποκάλυψυς τού ταξιάρχου Μιχαήλ – le apparizioni dell’arcangelo Michele sul Monte Garga-no – “versione e traduzione della più anti-ca “Apparitio” latina” (Marco Trotta) e ri-salenti al periodo della dominazione bi-zantina nella nostra terra nel secolo XI, nel parlare del santo vescovo di Sipon-to lo presentano e salutano col titolo spe-cialissimo di αγϊωτάτω έπισκόπω ossia santissimo vescovo. Precisamente, co-sì riportano al versetto 44 i sopra ricor-dati codici: i Sipontini … άνήγγειλαν τώ αγϊωτάτω έπισκόπω Πάντα … riferiro-no ogni cosa dell’evento al santisismo Ve-scovo …Ne discende che nell’antichità, il santo Vescovo di Siponto, il beneficiario delle prodigiose apparizioni dell’Arcangelo Mi-chele, era assai conosciuto, considerato e venerato.Ho avuto modo nei decorsi anni, sia sul-la pagina diocesana di Avvenire che su Voci e Volti di partecipare ai lettori tan-te immagini inedite del nostro “santissi-

    mo Vescovo” di Siponto, volato assieme al-la Legenda garganica dell’Arcangelo in molte chiese italiane ed anche d’ Oltralpe.Quest’anno continuerò a partecipare co-me nei luoghi romani sia presente l’ico-nografia di s. Lorenzo vescovo e la me-moria del culto micaelico del Monte Gar-gano attraverso la testimonianza di pre-ziosi e pregevoli affreschi. Ebbene, lun-go l’ultimo tratto laziale della via Franci-gena, la “via lattea” percorsa dai pellegri-ni d’ogni tempo, ho trovato due importan-ti riferimenti al Monte Gargano. Innan-zitutto a Caprarola, cittadina posta sul versante orientale dei monti Cimini e no-ta per lo splendido palazzo Farnese, sce-nografica mole sopra una rocca, innalza-ta a metà ‘500 dal Vignola su commis-sione del cardinale Alessandro Farnese, e già eretta in precedenza dal Sangallo per incarico del papa Paolo III Farnese, in cui sono custoditi bellissimi affreschi cinquecenteschi, riproducenti l’intero te-ma iconografico dell’arcangelo Michele: l’apparizione a Papa Gregorio Magno e quella del Toro sul Monte Gargano. Eb-bene, in questo stupendo palazzo rinasci-

    mentale ospitante i lussuosi appar-tamenti, estivo ed invernale, dei Far-nese, impreziosi-ti da fantasmago-riche sale con pre-gevoli affreschi, dopo aver visita-to i tanti ambien-ti si entra nell’ele-gantissima ed ete-

    rea Sala degli Angeli con curiosi effet-ti architettonici di eco e di risonanza, le voci laudanti appunto dei Cori angelici. Questa sala, la più fastosa del palazzo, ha le pareti affrescate dagli artisti rinasci-mentali Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, e da Raffaelino Motta da Reggio e Gio-vanni De’ Vecchi, quivi operanti rispet-tivamente negli anni 1572 e 1574-1575, e con grande stupore mi sono imbattu-to in scene illustranti, tra l’altro, l’appa-rizione micaelica al Monte Gargano det-tagliatamente rappresentata con l’arcie-re ferito, il toro podolico, la grotta prescel-ta dall’Arcangelo, i mandriani con i carat-teristici abiti rinascimentali, il popolo ed il vescovo di Siponto oranti processional-mente, il golfo e la città di Siponto, il Gar-gano boscoso e impervio. Nella sala degli Angeli il ciclo micaelico è magnificamente rappresentato con tan-te altre scene tratte dalla Bibbia e dalla tradizione. Poco lontano da Caprarola, appena fuori l’abitato di Sutri, a poca distanza dall’an-fiteatro romano, posta sopra un piccolo poggio dirupato, incorniciato da una fit-ta vegetazione, si apre nel tufo la grotta di un antico Mitreo pagano, anche qui tra-sformato nel Medioevo attraverso il noto processo della “esaugurazione” in grot-ta dedicata al culto dell’Arcangelo Miche-le ed adattata “ad instar Gargani”, che è di una bellezza singolare e suggestiva. Nel vestibolo arricchito da rozzi affre-schi medioevali spicca un arciere, il no-bile proprietario di mandrie sipontino, che sta per essere colpito dalle frecce mi-racolosamente respinte da un toro che è

    ginocchioni: è la prima apparizio-ne micaelica al Gargano raccon-tata dalla nota Legenda garga-nica. Tra gli al-tri affreschi è da segnalare la lun-ga teoria dei pel-legrini che salgono da Siponto al Gargano guidati dal Vescovo, con il tipico vestiario medievale dei pellegrini: mantello, cap-pello, scarsella, ossia la bisaccia, e bor-done, cioè il bastone, per sostenersi nel viaggio e per difesa dai predoni. Questo singolare sito micaelico, in parte scava-to nella roccia ed in parte naturale, pre-senta tre navate, è un monumento dav-vero interessante, dapprima tomba etru-sca, poi tempio del dio pagano Mitra, in-fine chiesa cristiana, dedicata all’Arcan-gelo Michele.Questi affreschi custoditi in questi luo-ghi dell’alto Lazio ci testimoniano come la memoria e la pietas per s. Michele del Gargano e per il s. Vescovo di Siponto si-ano state in passato assai vive, venerate e profondamente sentite.

    L’iconografia del “santissimo vescovo” di Siponto,τός αγϊωτάτος έπισκόπος

    Alberto Cavallini

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    Colto da un allarme aereo in una strada di Roma, Al-berto Mieli riparò nel più vicino rifugio. In quegli scantinati, il giovane ebreo incontrò due militanti della Resistenza poco più grandi di lui. Alberto non sape-va niente della Resistenza, ma offrì lo stesso un piccolo obolo per la cau-sa, ricevendone, in cambio, due fran-cobolli particolari che ripose nel ta-schino della giacca. Dopo qualche giorno, trovandosi ancora in strada, dopo un ennesimo allarme aereo, fu fermato da una ronda mista di italia-ni e tedeschi. Era il mese di novem-bre 1943.Quella sera non tornò a casa il ragaz-zo ebreo. Scampato miracolosamente al rastrellamento di ottobre nel ghet-to ebraico, rimase impigliato nella te-la dei due francobolli, che erano an-cora lì, in quel taschino. Non aven-do saputo dare nessuna spiegazione plausibile, Alberto fu portato a Re-gina Coeli e recluso nel sesto brac-cio. Fu interrogato tre volte dalla Ge-stapo. Fu torturato. Quando, nel me-se di marzo 1944, avvenne l’eccidio delle Fosse Ardeatine, Alberto Mie-li, appena diciottenne, era già il nu-mero 180060 nel campo di sterminio di Aushwitz.

    Da allora sono passati settant’anni e lui, un sopravvissuto alla “soluzione finale”, è uno dei pochissimi rima-sti a testimoniare della barbarie de-gli uomini. Non ha mai capito e non riuscirà mai a capire, perché sia sta-to espulso dalla scuola di Stato, nel 1938, dopo le leggi razziali; e per-ché, lui, innocente, sia stato privato della propria libertà. Eppure i suoi avi, di religione ebraica, erano stati bravi sudditi di Sua Santità; e i suoi genitori, di religione ebraica, erano stati bravi sudditi di Sua Maestà. E un bravo suddito voleva continua-re a essere Alberto, piccolo vendi-tore ambulante. Giunto a Vieste per la “Giornata della Memoria”, la sera del 31 gennaio, Alberto Mieli, qua-si novantenne, benché stanco per le tante ore di viaggio, si è intrattenuto un po’ con i responsabili della Socie-tà di Storia Patria, che lo attendeva-no in albergo. Di statura media, cor-poratura massiccia, baffi spessi ne-rofumo, ben portati sotto una lucida calotta cranica, il vecchio ebreo, pur facendo sfoggio delle sue forze fisi-che e mentali, tradito dagli occhi di-ventati improvvisamente lucidi, non ha saputo resistere ai suoi fantasmi e ha sussurrato, lui soltanto sa perché, . Su Auschwitz e sugli altri campi di sterminio, la letteratura è ormai ster-minata. Nei quattro giorni della ma-nifestazione, organizzata dalla Scuo-la Media Alighieri - Spalatro di Vie-

    ste, si sono alternati rappresentazio-ni teatrali, proiezioni e documentari sulla Shoah. Facendo attenzione, do-centi e studiosi, a fare emergere i la-ti oscuri del male e dell’immane tra-gedia del popolo ebraico, derubricati a colpe e a orrori della Storia. Quasi che la Storia fosse opera di uno spi-rito maligno, e non piuttosto dell’uo-mo, come non si stancò mai di ripe-tere Giambattista Vico. Del male, che ha prodotto dolori strazianti, ha parlato a lungo il vec-chio Alberto, nell’Auditorium del Li-ceo di Vieste, nell’ultima sera della Giornata della Memoria. Non mi fer-mo sui dettagli, che riguardano uo-mini, donne e bambini, alla mercé di ottusi demoni deliranti, però ri-assumo e traduco quella follia nel-le parole pensate e lasciate decanta-re dallo stesso Testimone vivente: >. In chiusura Alberto ha ancora rac-contato: . Costretto a seguire le trup-pe tedesche in ritirata dalla Polonia, nel mese di febbraio 1945, Alberto abbandonò Auschwitz e marciò per seicento chilometri, a piedi, fino al campo di sterminio di Mauthausen, in Austria.

    Qui scampò ancora miracolosamen-te alla morte, e trovò poco dopo la libertà, all’arrivo degli americani.Dopo Aushwitz, non si potrà più fa-re poesia. Scrisse così, in una sua opera degli Anni Settanta del Nove-cento, Theodor W. Adorno, un illu-stre rappresentante della Scuola di Francoforte, filosofo, sociologo, mu-sicologo. Lo studioso, tedesco di ori-gini ebraiche, era rientrato in Ger-mania negli Anni Cinquanta, dopo un lungo esilio prima in Inghilter-ra e poi negli Stati Uniti. Fortunata-mente, gli uomini hanno continua-to a produrre arte, anche dopo i ge-nocidi, anche dopo la Shoah, come atto unico e possibile del transfert di una umanità malata, che spera di guarire. I tre musicisti dell’Ensem-ble “Umberto Giordano” (Dino de Palma, Gianna Fratta e Ida Fratta ), che hanno chiuso la manifestazio-ne di Vieste, interpretand