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Anno IV - N° 2, marzo/aprile 2009 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina Anno IV - N° 2, marzo/aprile 2009 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita www.circolocittadinoathena.com

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Anno IV - N° 2, marzo/aprile 2009

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

Anno IV

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Historia Nostra

ANTONIETTA DE PACE

di Rino DUMA

4

Terra Noscia

LU POLICE E LU ZZINZALE

di Piero Vinsper 8

Autori & Editori

CHE COSA NASCONDE IL PALAZZO

di Gianluca VIRGILIO 10

L’uomo e il tempo

RICORDANDO LUIGI VIOLA

di Luigi GALANTE

12

Rimembranze

DULCISSIMA MATER

di Vittorio ZACCHINO 15

Tradizioni religiose

TRA SACRO E PROFANO

di Antonio MELE/MELANTON

16

C’era una volta

LI MESTIERI TI ‘NA FIATA

di Emilio RUBINO 18

Incontri

IL SALOTTO DI MARIA RITA

di Giuliana PELLEGRINO 22

Musei e biblioteche

UN’IMPRONTA DI SERVIZIO

di Chiara CAPUTO e Silvia SPECCHIA 24

Artisti salentini

ALDO CALÒ

di Domenica SPECCHIA 26

Sul filo della memoria

LE PRIME EMOZIONI

di Pippi ONESIMO 29

SOMMARIO

Temporeo tempotempo amicoacquazzone non piovutosulla pellefecondo temporale che s’abbatte sul cervellosoffio crudeleche la luce strappaall’umano cerinoingorda clessidradi uomini i granellia filare impotenti.Setaccio a larghe magliesabbia mobile inclementeda cui è fatta salva soltanto quella genteche del fugace passosul malfermo massolascia di sé impressoun marchio sul sasso in alto in basso.Il resto è solo cibo quotidianodi sua maestà il… Sovrano.Solo l’uomo universalel’uomo saggio e veroquello libero e “leggero”già viaggia nel Tempoassoluto infinito indefinito;l’altro, l’uomo banaleil “terreno”, il materialeil fantoccio, lo stoltoè già sepoltoda moltoforse non è mai natoforse è nato mortoo vivacchia incartatonel suo tempo cortoe tra paure si spegne il poveraccionel suo marcescibile cartoccio,così come si consuma la candelaal lento esaurirsi della cerae nell’antica luce più non spera.

Rino Duma

Galatina

COPERTINA: “Primavera salentina”

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”,

Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le). Tel. 0836.568220 -

info: www.circolocittadinoathena.com - e-mail: [email protected]

Autorizzazione del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuita.

Direttore responsabile: Rossano Marra

Direttore: Rino Duma

Collaborazione artistica: Melanton

Distribuzione: Giuseppe De Matteis

Redazione: Tonio Carcagnì, Salvatore Chiffi, Piero Duma, Antonio Mele, Mariateresa Merico, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo,

Tommaso Turco, Piero Vinsper, Gianluca Virgilio

Impaginazione e grafica: Salvatore Chiffi

Stampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria,35 - 73013 Galatina73013 Galatina.

IL TEMPO E L’UOMOIL TEMPO E L’UOMO

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Per comprendere meglio la figura di Antonietta DePace è necessario fare un breve excursus del momen-to storico in cui è vissuta. L’Europa dell’Ottocento,

grazie soprattutto alla Rivoluzione Francese, che inculcain ogni individuo gli ideali di giustizia e libertà, viene pianpiano fuori da un periodo buio e retri-vo. Fermenti ed inquietudini si riscon-trano in ogni dove. In Italia sicostituiscono le prime sette carbona-re, alle quali aderiscono, oltre a brac-cianti e artigiani, anche nobili liberali.Con la “Giovine Italia” il Mazzini dàl’avvio al movimento nazionale chetrasformerà in pochi anni l’intero sti-vale. Anche se un po’ in ritardo, il no-stro Meridione, incravattato da rigidee insopportabili regole di vita impostedalla ricca borghesia borbonica, striz-za timidamente l’occhio alla voglia dirivalsa e di riscatto che ormai vadiffondendosi ovunque.

Nel capoluogo campano comincia-no ad emergere le prime figure eroi-che rivoluzionarie, che tentano in ognimodo di scuotere lo spirito “dormien-te” dei cittadini dalla loro atavica le-targia e rassegnazione.

Antonietta De Pace è già eroina nel grembo di sua ma-dre; nasce a Gallipoli il 2 febbraio 1818 da don GregorioDe Pace, ricco banchiere e sindaco della città, e da LuisaRocci Cirasuoli, nobildonna di origine spagnola, i cui fra-telli avevano partecipato alle sommosse rivoluzionarie del-la Repubblica Napoletana del 1799.

Ultima di quattro sorelle (Chiara, Carlotta e Rosa), è av-viata allo studio dell’economia e della finanza sin dalla te-nera età, unico modo per dare continuità all’attivitàpaterna, giacché non vi sono discendenti maschi. L’educa-zione è affidata allo zio paterno Antonio De Pace, canoni-co ed astronomo, che le infonde le prime idee liberaldemocratiche, essendo un irriducibile carbonaro e GranMaestro di una delle vendite1 di Gallipoli.

Antonietta, all’età di otto anni, perde il padre, forse av-velenato dal figlio adottivo Michele, che tenta di impos-

sessarsi dell’ingente patrimonio familiare. La fanciulla,insieme alle sorelle, è rinchiusa nel convento delle Claris-se di Gallipoli.

Antonietta è una ragazza libera, ribelle e intrapren-dente, ha uno spirito inquieto, non sopporta le ingiusti-

zie sociali e lo sfruttamento deicontadini da parte dei ricchi pro-prietari terrieri.

La madre ha grandi possedimentinella zona dell’ugentino e qui spessosi reca per aiutare i poveri e lenire leloro pene, umane e corporali. La gen-te è malnutrita, vive in casupole umi-de e in condizioni igieniche estreme,non ha acqua potabile ed è esposta anumerose malattie, tra cui il tifo e lamalaria. La mortalità, soprattuttoquella infantile, è molto alta. La suavita è caratterizzata da numerosi epi-sodi di sostegno e solidarietà a favo-re della misera gente; di questi, unoin modo particolare la segnerà dura-mente.

Antonietta, ogni qualvolta si recaa Ugento, rende visita a Tonina, unapovera donna maltrattata dal mari-

to; a lei riserva premure e attenzioni, le dona del vestia-rio, del cibo e dei medicinali per curare alcune malattie.Fra l’altro le regala anche un temperino per consentirledi tagliuzzare il cibo, poiché è priva di denti. Tonina, in-vece, si serve della piccola arma per uccidere nel sonno ilmarito e venir fuori dal suo perenne stato di soggezionee umiliazione. Antonietta paragona Tonina al mondo de-gli oppressi e il “marito padrone” alla classe dei ricchi edei nobili sfruttatori. Allora la sua mente è un continuo ri-bollir di idee liberali e repubblicane.

Dopo alcuni anni la sorella maggiore si sposa con lo ziopaterno Stanislao De Pace, Carlotta muore di tisi, Rosa co-nosce Epaminonda Valentino (Mino), lo sposa e si trasfe-risce a Napoli, portando con sé la sorella più piccola. Iltrasferimento nella città partenopea fa maturare ancor dipiù in lei lo spirito libero, che le continua a lievitare in pet-to. Grazie alle conoscenze del cognato Mino, fervente

4 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

Antonietta De Pace

Uno dei pochi spiriti liberi dell’Ottocento salentino

ANTONIETTA DE PACEANTONIETTA DE PACEOsò sfidare le regole della società del tempo, schierandosi dalla parte dei poveri e

difendendoli. Grazie a Epaminonda Valentino e a Luigi Settembrini, s’iscrisse alla

“Giovine Italia” napoletana e aderì ai primi fervori liberali e repubblicani

di Rino Duma

HISTORIA NOSTRA

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mazziniano, entra in un circolo di rivoluzionari, che ini-zialmente la rifiutano, perché donna; ma lei insiste e di-mostra di avere la stessa determinazione del più convin-to dei cospiratori. Entra nel gruppo e occupa un ruolo diprimo piano.

Nel 1848, travestita da uomo, è sulle barricate in una viadi Napoli e qui si distingue per ardimento e coraggio. Suocognato Mino, insieme a Sigismondo Castromediano, è ar-restato, processato e rinchiuso nel carcere di Lecce, in unambiente umidissimo, senza luce ed aria. Mino, da qualchetempo malato di cuore, muore per col-lasso cardiaco, nonostante il medicomilitare abbia fatto di tutto per tirarlofuori da quell’inferno. Ma invano: ilgiudice è inflessibile. Anche questosarà un colpo tremendo per Antoniet-ta, che però insiste nella sua battaglia.

Sotto lo pseudonimo di Emilia Sfor-za Loredano mantiene sempre vivi icollegamenti con gli altri rivoluziona-ri. Purtroppo, nel 1855, è smascherataed arrestata dalle guardie borboniche,che la traducono in carcere. Prima diessere ammanettata, Antonietta riescead ingoiare alcuni messaggi del Maz-zini, giustificandosi con le guardie diaver preso dei medicinali. La donna èstipata in un camerino strettissimo, incui a mala pena riesce a distendersi.Rimane in quell’ambiente per quindi-ci lunghi giorni, conservando un con-tegno fiero e senza confessare la suaidentità. In seguito è tradotta in uncarcere femminile e qui rimane per oltre un anno e mezzo.Durante la prigionia è sottoposta a ben 46 udienze in Tri-bunale. Sopporta stoicamente le sofferenze e le accuse piùinfamanti, ma lei continua a dichiararsi estranea ad ogniincriminazione. Rischia di finire sul patibolo: il tribunalemilitare la proscioglie solo perché tre giudici su sei sono

contrari alla pena capitale. Insomma, se la cava per il rot-to della cuffia.

Antonietta viene fuori da quest’amara esperienza di-strutta nel corpo e nell’anima. Dopo poco tempo s’inna-mora di Beniamino Marciano, un repubblicano di

Bergamo, che sposerà più tardi. In preceden-za si era legata al colonnello Luigi Fabrizi,ardimentoso garibaldino, che però muoredopo lunghe sofferenze, a seguito di ferite diguerra mal curate.

Intanto Garibaldi ha già annientato le re-sistenze borboniche in Sicilia e, risalendo laCalabria, si appresta ad entrare in Campa-nia. La donna si reca a Salerno, dove suo ma-rito è a capo di una setta di rivoluzionari,pronti ad accogliere il condottiero dalla ca-micia rossa. Il 7 settembre 1860 l’eroe dei duemondi entra a Napoli trionfalmente, portan-do accanto a sé l’ardimentosa eroina gallipo-lina ed Emma Ferretti, entrambe avvolte inun grande tricolore.

Nel 1861 partecipa con grande cordoglio aTorino ai funerali di Camillo Benso, conte diCavour, e siede in prima fila accanto allemassime autorità. L’anno successivo è pro-motrice di una singolare iniziativa: aiutata

da altre ferventi compagne, promuove una raccolta di fon-di a sostegno dei garibaldini impegnati nella terza guerrad’indipendenza. Garibaldi le scrive una lettera, della qua-le stralciamo solo le parti più importanti.

“Grazie a voi e grazie alle nobili vostre amiche. Degno del vo-stro cuore è il generoso sussidio mandatoai miei compagni. Voi donne, interpretidella divinità presso l’uomo, molto già ave-te fatto per l’Italia: molto ancora dovete o-perare per l’avvenire. Molto confido nelledonne di Napoli. Vi accludo rispettosi edaffettuosi saluti”.

Antonietta s’impegna ulteriormentenella grande impresa di fare di Romala capitale e di unificare il Regno d’I-talia. Piange di gioia e si lascia andarea scene d’indescrivibile entusiasmoquando apprende che i bersaglieri so-no entrati a Roma attraverso la brecciadi Porta Pia.

Ormai il sogno si è avverato, ma ilsuo impegno verso i più deboli e i piùdiseredati non cesserà mai di essere vi-vo. Ora scavalca le barricate di Napo-li, dove ha combattuto per conquistarela libertà, e si lancia contro le barricatecostituite dall’ignoranza e dalla scarsacultura della gente, soprattutto fem-

minile. A quei tempi, infatti, l’analfabetismo tocca alti li-velli. In uno dei suoi tanti discorsi rivolti ad alcuni ragazzi,ricorda che la “liberazione” della gente sarà effettiva ecompleta solo quando saranno sciolte le catene interioriche condizionano da sempre l’animo dei meridionali.

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Gallipoli - Città natale di Antonietta De Pace

Gallipoli - Via Antonietta De Pace

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“Abbiamo sconfitto e cacciato i Bor-bone, ora tocca annientare un nemicopiù subdolo e resistente che è presen-te in ognuno di voi. Dovete combatte-re una guerra dentro di voi stessi, pervincere la quale è opportuno che vi do-tiate di un’arma infallibile: l’istruzio-ne. Non delegate mai ad altri, ciò chespetta a voi di fare”.

Con l’incedere degli anni e con iprimi acciacchi fisici, va allentandoil suo impegno sociale, ma nonsmette mai di dare consigli, utili in-dicazioni e sostegni morali e mate-riali alla gente misera e indifesa.

Si ammala gravemente di bron-chite e spira tra le braccia del ma-rito, dopo aver bevuto due calicidi spumante, forse volendo brin-dare alla sua vita, spesa in modoesemplare. E’ l’alba del 4 aprile1894, quando la sua anima “ri-belle” si saluta dagli affetti piùcari, a Portici, lontano dalla sua terra natia, che tantoaveva amato e per la quale aveva speso la miglior par-te di sé.

Chiudo questo mio breve scritto riportando una bellissi-ma considerazione di Augusto Buono Libero, autore di un

interessante lavoro dal titolo “An-tonietta De Pace, rivoluzionariagallipolina”.

“Fu donna dalla tempra eccezionale,anima senza frontiera, ma anche«donna di marine» e perciò istintiva,ardente, passionale, coraggiosa. Fuuna rivoluzionaria per vocazione etemperamento e perché riuscì a rom-pere schemi, abbattere barriere, aprirenuove riviere con quel suo sguardoproiettato verso orizzonti lontanissi-mi e in cui si leggeva una determina-zione estrema. Non accettò mai leingiustizie e i soprusi, e fin dall’iniziole sue scelte furono nette e radicali, te-se a difendere i deboli, i poveri, i ma-lati, gli ultimi, e all’un tempo asovvertire quelle istituzioni ingiuste,tiranniche e disumane, che consenti-vano un simile stato di cose, limitan-do pesantemente i diritti delle donne”.

Che splendida donna, AntoniettaDe Pace!... una donna senza tempo! NOTE:1 …Gran Maestro di una delle vendite – Così erano chiamate, per ovvie ra-gioni, le sette carbonare.

marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 7

Rino Duma

Gallipoli - Casa natale di A. De Pace

ROSSELLA SPERANZA“Olio d’oliva – Ragione e sentimento”Congedo Editore – Galatina – pagg. 192 - € 49,90

Nel libro, molto elegante nella sua veste grafica, sono riportate le varie fasi diproduzione dell’olio ed un’ampia descrizione dei vari modi di servirsene a tavo-la. L’autrice chiude l’opera soffermandosi con suadente abilità sulla dieta medi-terranea, sulle conserve sott’olio, sugli oli aromatizzati e, dulcis in fundo, sull’olioe la bellezza.

GIANLUCA VIRGILIO“Infanzia salentina”Edit Santoro – Galatina – pagg. 172 - € 9,00

Infanzia salentina descrive la prima stagione della vita dell’autore trascorsa nelSalento tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del Novecento. Il libro è accom-pagnato da un Preludio di Antonio Prete che rievoca alcuni momenti della suainfanzia salentina. Rivivono gesti, figure, personaggi, fantasmi sottratti all’espe-rienza quotidiana attuale, eppure rimasti presenti, a guardia di una dimensionetemporale lontana, ma non spenta.

FRESCHI DI STAMPA

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Se si volesse fare una carrellata neltempo e vedere quanti poeti sisiano interessati, nelle loro liri-

che, di animali, il discorso andrebbeper le lunghe. Dalla letteratura grecae latina alla letteratura moderna e con-temporanea, da Esopo a Fedro, daGualtiero Anglico a La Fontaine, daTrilussa ad Anouihl, da Esiodo a Pa-scoli, abbiamo tantissimi esempi. Epoi che dire degli anilia, le aniles fabu-lae, i racconti della nonna? Gli anima-li la fanno da padroni nelle favole.Quintiliano stesso nelle sue OratoriaeInstitutiones ( I, 9, 2) spiegava : “ Eccoallora le favolette, che continuano sen-za interruzione le fiabe delle buonenutrici. (I ragazzi) imparino bene adesporle, in una lingua pura, senza vo-li di fantasia, e poi a stenderle con u-guale semplicità; in un primomomento le mettano in prosa,poi le ricompongano con altreparole e, infine, osino la para-frasi, che permette sia di scor-ciare che di arricchire, salvosempre il senso voluto dalpoeta…”.

Il lupo, l’agnello, la rana, ilbue, il corvo, il cane, la mucca,la capra, il leone, la volpe, la le-pre, l’aquila, l’asino, il cervo, ilcinghiale, la donnola, la gatta,la cicala, la formica, l’ape, lacornacchia, la lucciola, sono glianimali, assieme ad altri, chevengono trattati dai poeti. Ecco alcuniesempi:

“Un libro, in cui era scritta tutta lascienza del mondo, chiedeva aiuto,perché un topo non lo mangiasse. Iltopo rise”. (Leon Battista Alberti)

“Piangi di gratitudine, o lumaca,pensando all’amore dei tuoi, che tihanno dato anche la bara dal giornodella tua nascita”. (Da una raccolta di

liriche giapponesi)“Il ragno, credendo trovar requie

nella buca della chiave, trova la mor-te”. (Leonardo)

“Afferma il dotto che un giorno levostre luci più non saranno, disse lalucciola alle stelle. Le stelle tacquero”.(R. Tagore)

Nella letteratura “povera”, cioè po-polare, o, per dirla alla maniera di Se-neca, solutiora, un po’ dilettantistica,sono gli animali più umili che salgo-no alla ribalta nelle liriche dei nostripoeti dialettali.

Ho tra le mani il volumetto A tiempupersu, di Fedele Salacino, in arte Cinode Portaluce, Galatina, Tip. Marra eLanzi, 1927, con prefazione di Tom-maso Fiore. La lirica che prendo inconsiderazione è Lu pòlice:

Viva lu pòlice, lu bellu nzettu!face cutrùmbulesusu llu jettu:

tra coddhu e nàtichepasseggia, torna,parte, precipita

senza sse scorna.

Se è straccu, cuàrdalu,trova lu locu

cu sse ndurcìficanu pocu pocu;

quandu lu mantice li batte poi,

mpizza la spìnguladdha’ ci nun boi.

Tu, se te chìddhichi,meni la manu,

ma quiddhu subituscappa luntanu,

torna a lla càricape scire spissu,

senza preambulillu puntu fissu.

Tu, de la stizza,li sensi à’ perzi,

ma quiddhu rèprica,cride ca scherzi:

la cuda còtula,se mette a rangu

fintantu… ppàffiti!rrufa lu sangu.

Dicu: Benissimu,è n’animale.

Però, cert’òmmanicu pepe e sale,

la fannu similela porcheria:

lu sangu sùcanude chicchessia.

Se mai lu pòliceprontu lu vidimetti sputazza

zzicchi e lu ccidi,

ma certi… Spìcciala,

8 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

Lu pòlice e lu zzinzaleA n i m a l i n e l l a l e t t e r a t u r a p o p o l a r eA n i m a l i n e l l a l e t t e r a t u r a p o p o l a r e

I n s e t t i s i m p a t i c i m a f a s t i d i o s i s s i m iI n s e t t i s i m p a t i c i m a f a s t i d i o s i s s i m i

di Piero Vinsper

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aggi rispettu,se no prutestanuprontu l’effettu;

e tu ca spìcciulinunn’ài staserasenza discutere

spicci n’ galera!...

Evviva la pulce, un bell’insettoche fa cuthrùmbule [χùτροj (pento-la) + βàλλω (spingo, getto a terra)],capriole sopra il letto; ti scorazza sututto il corpo senza provare vergo-gna alcuna. Se è stanca cercasempre un luogo sicuro per ri-posarsi. Però se le batte la pan-cia ficca il rostro laddove tunon l’aspetti. Se ti solletichi,tenti di acchiapparla con la ma-no, ma quella ti sfugge via; su-bito torna alla carica su quellaparte del corpo che ha già scel-to. Tu ti arrabbi, perdi la pa-zienza, ma la pulce insisteperché crede che scherzi: muo-ve la coda, si mette in posa e inun baleno ti succhia il sangue.Va bene, la si può compatire,perché è un animale! Però certepersone che hanno pepe e salecombinano la stessa porcheria: suc-chiano il sangue alla povera gente.Se hai la fortuna di vedere la pulceche sta per succhiarti il sangue, met-ti un po’ di saliva in quella parte delcorpo; lei vi rimane appiccicata, laprendi e la uccidi. Ma certe perso-ne… Dài, smettila, abbi un po’ di ri-tegno!... altrimenti ne pagherai leconseguenze. E poiché non hai ab-bastanza danaro per farti difendereda un avvocato, alla fin fine andraidritto dritto in galera.

E’ la pulce, fastidiosa sì ma giudi-ziosa, che consiglia il poeta a non ec-cedere nelle sue invettive contro ipotenti e i ricchi che sfruttano il pros-simo, oppure è il poeta che si autocon-trolla per non finire nelle grinfie diquei “nobili” parassiti?

Di ben altro contenuto è una liricache la tradizione orale ci ha traman-dato. E’ di scena sempre la pulce, al-la quale un innamorato chiedeaiuto.

Pòlice fortunatu, quantu poti!Quant’ede la putenzia ca tu hai!De la bbeddhra mia faci cce bboi;

sulle soe vianche carni vieni e bbai.E bba’ tte menti mmienzu ‘lle minne soe

Pìzzachi e suchi e nnu finisci mai!Falla pe’ ll’arma de li morti toi:

pòrtame puru mie quandu ‘ddhrai vai.

La pulce è un insetto baciato dallafortuna, ha grandissimi poteri. Lospasimante non riesce mai ad arriva-re dove arriva lei. Infatti la pulce del-la sua bella fa cosa vuole, la tiene insua balia. Si permette anche il lusso dipasseggiare, di scorazzare su e giù, a-vanti e indietro, da destra a manca,

sul suo bianco corpo. Anzi va a ficcar-si proprio in mezzo al suo seno: mor-de e succhia e non la smette mai. Edecco la supplica dell’innamorato: “Peril bene che vuoi alle anime dei tuoimorti, ti prego, porta anche me, quan-do lì vai”.

Mannaggia l’anima de lu zzinzaleca tutta la notte t’have ‘nsurtare

Menthru curcatu stai quetu quetumo’ ti lu sienti ttì – ttì de retuVoju cu tthrasu, voju tte vasusia ca ti dice mo’ su llu nasu

E menthru te pìzzaca tie cu lla manuli dai ‘na scòppula se si cristianu

Dài a tie stessu, sanu iddhru scappae a tie cu lli ràppuli la facce ti rrappaVatte a ffafrìscere, vane alle fèmmane

ca viddhre nu’ ddòrmenu pensandu a tieMannaggia l’anima pocca de màmmata

ca iu me ‘ncèfalu pensandu a tieSperanza Ddiu ca ti se scàscia l’organucusì nu’ rrùnguli cchiù ‘nnanzi mmie.

Mannaggia l’anima della zanzara,che per tutta la notte ti deve arrecarefastidio. Mentre stai disteso sul lettocalmo e tranquillo, la senti dietro le

tue spalle che bussa con discrezione.Voglio entrare, voglio darti un bacio,sembra che dica, posandosi sul tuonaso. E mentre ti punge e ti succhia ilsangue, cerchi invano di sferrarle, contutta la forza, una scoppola. Colpiscite stesso; la zanzara se ne scappa viasana e salva e a te rimane la faccia pie-na di lividi e raggrinzita. Vai a fartifriggere! Vai, circuisci le donne, per-ché quelle già non dormono pensan-do al loro fidanzato e quindi ti as-pettano con ansia, affinché tu faccialoro compagnia. Mannaggia l’anima

di tua madre! Io, inve-ce, mi arrabbio pensan-do a te. Voglia il cieloche ti si rompa l’orga-no, così nu’ rrùnguli(ρογχιàω, ρéγκω : russo,brontolo), non ronzi più,fastidiosamente, davan-ti a me.

A me sembra, verisi-milmente, che questocomponimento si debbaattribuire a Pinna de lin-daneddhra, al secolo Ni-no Campanella, gala-tinese purosangue. Ni-no ha composto tantissi-

me poesie in vernacolo, purtroppoandate perdute, che le recitava a noi,studenti ginnasiali, quando nelle cal-de sere d’estate, bivaccavamo sullepanchine di Piazza Fontana. Non erafacile ottenere questo da lui; però afuria di insistere, pregarlo e suppli-carlo, magari offrendogli qualche ca-ramella, riuscivamo nel nostrointento. D’altra parte cosa potevamoregalargli se appena appena avevamosolo l’aria per respirare?! Ma lui, ge-neroso e dal cuore grande quanto laChiesa Matrice, si metteva a declama-re versi con una mimica, gestualità eteatralità tipiche di un Picinera, Schi-rinzi, di un Naticeddhru, Marra, di unPiricocu, Alfieri, quando, quest’ ulti-mi, andavano in giro con il Carro diTespi a rappresentare i loro spettacoli.

Concludendo, è doveroso, da partemia, ringraziare la Libreria Viva –Athena, nelle persone di Piero Viva edei suoi figli, Carlo e Stefano, che mihanno fornito la materia prima pergettare giù queste quattro righe, per lagioia di quei miei “dodici” piccoli, mapur grandi lettori, che fanno del dia-letto la lingua dell’anima. •

marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 9

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

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Gli Atti delle Giornate di Studio (24-25 maggio 2007)presso il Museo Provinciale Sigismondo Castrome-diano a Lecce sono ora raccolti nel ponderoso e so-

lido volume Dal castello al palazzo baronale, col sottotitoloResidenze nobiliari nel Salento dal XVI al XVIII secolo, a curadi Vincenzo Cazzato e Vita Basile, con la collaborazione diSimonetta Politano, Mario Congedo Editore, Galatina, di-cembre 2008, pp. 373. Già la robustezza della rilegatura, lacopertina cartonata rigida, la carta sym-bol free life opaca da 150 gr., il formato22 x 30, le innumerevoli fotografie a co-lori che accompagnano il testo, ci certifi-cano che siamo davanti a un volumedestinato a veicolare contenuti di note-vole importanza, ad un pubblico vasto etuttavia elitario, che comprende gli a-manti di storia locale, gli studiosi d’arte,di architettura, di pittura, gli studiosi distoria sociale, delle istituzioni, gli urba-nisti, e anche tutti coloro che, avendoprogrammato per questa primavera unaserie di escursioni nei paesi della vecchiaTerra d’Otranto, vogliano dotarsi di unguida specializzata nella descrizione diun gran numero di monumenti che que-sto libro ha il merito di studiare in ma-niera puntuale quanto con spiritodivulgativo.

L’opera rientra a pieno titolo nel pro-getto, di cui è promotore Marcello Fagiolo, di un Atlantedelle residenze nobiliari in Italia, che si prefigge “la messa afuoco della residenza nobiliare nel contesto del rinnova-mento urbano, in relazione alla trasformazione del gusto,alle strategie patrimoniali e rappresentative delle classi di-rigenti e alle politiche di rinnovamento urbanistico pro-mosse dai poteri centrali nelle capitali e nei principalicentri italiani, in un’accezione cronologica che dalla Con-troriforma arriva alla metà del XVIII secolo, con possibiliestensioni in relazione alle diverse realtà regionali” (p. 8).Come si vede, il progetto, già in corso d’opera – “dopo ilprimo volume su Stato Pontificio e Granducato di Toscana (acura di M. Bevilacqua e M. L. Madonna, Roma, 2003) e ilsecondo volume sulla Italia settentrionale (a cura di M. Fa-giolo, in corso di pubblicazione)”, sarà pubblicato, scrive

sempre Fagiolo a p. 10, un “terzo volume sull’Italia meridio-nale (a cura di M. Fagiolo) -, il progetto, dicevo, è ambizio-so. Ambizioso e necessario, poiché richiama l’attenzionedel lettore e dei pubblici amministratori sulla necessità disalvaguardare autentici monumenti della storia nazionalee locale, che hanno rischiato e rischiano ancora di andarein malora a causa della pubblica negligenza. Quanti palaz-zi, che un tempo furono centri temuti del potere, nel corso

del secondo Ottocento e del primo No-vecento sono stati adibiti a scuole, a uf-fici pubblici, quando non a magazziniper la raccolta e la lavorazione del tabac-co e in taluni casi a recinti per greggi dipecore! Oggi questo non accade più, al-meno non in un modo devastante comenel passato, ma bisogna sempre tenerealta la guardia! Un libro come quello inquestione contribuisce senza dubbio adimpedire “la messa in liquidazione”, co-me scrive Mario Cazzato (Spagnoli in Pu-glia: i Lopez y Royo e le loro residenze traXVII e XIX secolo, pp. 206-217), “di unaciviltà, ed è una fortuna che le carte su-perstiti ci consentano di ricostruirne o il-luminarne qualche aspetto” (p. 214).

In effetti, tutti i contributi presenti (im-possibile citarli tutti, sono venticinque, eannoierei il lettore) sono fondati sullostudio di documenti di archivio, sicché i

risultati della ricerca nel loro complesso appaiono scienti-ficamente ineccepibili. Semmai, il limite di questo tipo dipubblicazioni è altrove, e cioè nel veicolare una concezio-ne della storia parziale ed elitaria, tal quale l’oggetto che sipropone di studiare: il palazzo signorile come espressionee rappresentazione delle vecchie classi dirigenti. Il lettoreapprende moltissime cose sul passaggio dal castello al pa-lazzo baronale tra XVI e XVIII secolo, quando il venir me-no del pericolo esterno (mamma, li Turchi!) stimolò laformazione di un nuovo stile di vita nelle élites, e pertantofortezze, torri merlate, bastioni, feritoie, fossati lasciaronoil posto a balconi, balaustre, giardini di delizie, portali, sca-linate scenografiche, e una miriade di decorazioni minori;ma nulla apprende della vita quotidiana che avveniva in-torno al palazzo, della fatica degli uomini, delle condizio-

10 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

Residenze nobil iari nel Salento tra XVI e XVII I secolo

Che cosa nasconde Che cosa nasconde il palazzo baronaleil palazzo baronale

di Gianluca Virgilio

AUTORI & EDITORI

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ni spesso inumane di miseria nelle quali versavano i con-tadini tra l’indifferenza quando non lo spregio delle pochefamiglie che la rivoluzione francese in parte spazzò via finnei più remoti angoli d’Europa. La vita della gente comu-ne è la grande assente da questo tipo di narrazione storica,come ammette senza troppe reticenze Mina Chirico, Le re-sidenze aristocratiche del borgo antico di Taranto (pp. 130-141)quando accenna alla “gente comune in basso, lontana e i-gnara di quanto e di cosa si decidesse in quelle stanze adieci metri dal vivere quotidiano” (p. 137).

Il palazzo è in effetti la massima espressione del viveremore nobilium, separati dal popolo, poiché “abitare vuol di-re dimostrare fino in fondo chi si è e con chi ci si schiera”(p. 299), come scrive Antonio Cassiano, Simboli e allegorienei cicli pittorici (pp. 294-307), a proposito del programmapittorico del palazzo Castromediano di Cavallino. E, a pen-sarci bene, leggendo questo volume, si finisce con l’ignora-re non solo quando avveniva intorno e al di fuori delpalazzo, ma anche quale fosse la vera vita che si conduce-va all’interno di esso. Che cosa realmente pensavano e qua-li erano i comportamenti e i sentimenti che animavano leazioni dei nobili, a prescindere da quanto andavano osten-tando nelle magnifiche architettute delle loro dimore e nel-le pubbliche comparse autocelebrative. Insomma, che cosaavveniva davvero tra le mura del palazzo nobiliare?

Siffatti pensieri mi baluginavano nella mente, mentreleggevo il libro sulle residenze dei nobili salentini. Allora,ho riaperto un libro a me molto caro, Il Gattopardo di Giu-seppe Tomasi di Lampedusa (quarta parte), dove lo scrit-tore siciliano descrive il palazzo di Donnafugata (chivoglia farsene un’idea, veda l’omonimo film di LuchinoVisconti): un “palazzo nel suo complesso inestricabile diforesterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rap-presentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse o-dorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi,scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie diappartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decennie che formavano un intrico labirintico e misterioso”; sic-ché giustificato appare il “piccolo compiacimento” con cuiDon Fabrizio, principe di Salina, “… soleva dire che un pa-lazzo di cui si conoscessero tutte le stanze non era degnodi essere abitato”. Tomasi ci mostra due amanti, Tancredie Angelica, che esplorano, accompagnati sempre da Eros,“il quasi illimitato edificio” di Donnafugata, in tutto simi-le, mutatis mutandis, ai palazzi di Terra d’Otranto (i palaz-zi degli Imperiale, le residenze della famiglia PerezNavarrete, il palazzo Marchesale di Montemesola, le resi-denze dei Lopez y Royo, dei Pignatelli, dei Basurto, deiGranafei, ecc., di cui si parla nei diversi studi del volumeche qui si recensisce). A un certo punto, i due amanti pene-trano in una zona assai recondita del palazzo e fanno duescoperte: la prima è un appartamento settecentesco dovein un armadio, tra le altre cose, rinvengono numerose fru-ste – e Tomasi ha cura di precisare che “dopo il Gattopar-do, a dire il vero, la frusta sembrava essere l’oggetto piùfrequente a Donnafugata” -, utilizzate da qualche nobileavo dei Salina in indicibili pratiche erotico-sadiche inflitteai propri sudditi; la seconda scoperta avviene in un appar-tamento più interno, dove a metà del Seicento – man ma-no che ci si addentra nell’edificio, infatti, si va a ritroso nel

tempo - un antenato del principe, “Giuseppe Corbera, du-ca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio edel proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce delsangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle;nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo me-diante questo battesimo espiatorio esse divenissero real-mente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne,come si dice”.

Forse nel nobile sadico e in quello sadomasochista dicui scrive Tomasi vi è più verità storica che in cento trat-tati di storia delle élites o di storia sociale. Tomasi ci par-la di un duro e sanguinoso dominio, esercitato sugli altrie su se stessi fino ad eccessi parossistici e indicibili, chehanno fatto la storia dell’Italia meridionale, e rimangonoinscritti nelle mura di ogni palazzo nobiliare, al di là del-le sue belle apparenze. Ebbene, vorrei che le immaginidei due avi di Don Fabrizio che ho ricordato fossero sem-pre presenti nella mente del lettore, quando utilizzerà ilvolume sulle residenze nobiliari come guida, di castelloin castello, di palazzo in palazzo, nei cento e uno paesi diTerra d’Otranto che andrà a visitare. Ché, viceversa, se cisi limitasse al compiacimento estetico, che il libro inevi-tabilmente sollecita e promuove, ci si priverebbe dell’e-satta comprensione di quanto la storia d’Italia, alla svoltacontroriformistica, non smette di significare dietro la fa-cies di severi e marziali castelli divenuti magnifici e son-tuosi palazzi edificati per la “gioia di vivere” dellevecchie classi dirigenti salentine.

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Galatina considerata culla d’artisti, cenacolo d’acca-demie, fucina d’arte, è forse tra le terre di questaregione la più prolifera di uomini illustri, e come

tale è molto più rara. Il forestiero si meraviglia rico-noscendo quanta passione, sensibilità, buongusto animi la vita di casa nostra.

Galatina vanta dei nomi di indiscuti-bile grandezza, ed è per questo chenella storia della cultura italiana unposto ragguardevole lo occupa an-che il letterato e archeologo galati-nese Luigi Viola (Galatina, 1851 –Taranto, 1924), professore di lati-no e greco al liceo di Maddaloni(CE) nel 1878. Atene nel 1879 fuper il Nostro, il suo trampolino dilancio nello studio archeologico,e come ebbe a dire al suo carissi-mo amico Pietro Cavoti, in unalettera1 indirizzata dalla Grecia siconfessa mortificato con tutto il suoanimo: “Atene 4 dicembre 1879. Ho bi-sogno di conversare cò vivi, prendo la pen-na per conversare con voi, che volentieri miascoltate. Mio caro amico, bramerei che voi fo-ste qui, con la vostra vivificante matita, son certonon vi allontanereste dà fregi del Partenone seprima non aveste rubato su la carta gran partedella loro bellezza. Vi vorrei con me: vi vorrei vedere adiratoper l’incuria di questo Governo e del popolo nella conservazio-ne dè più grandi capolavori dell’arte greca…. Si dice che Ate-ne è città culta, ma può essere civile il popolo che non conosceil suo passato e lo disprezza? E’ questa caro Pietro la conside-razione che faccio io, ed è questo il solo lato doloroso della miavita in Grecia”.

Egli non poneva limitazione alla conoscenza dell’arte.Né voleva freni, remore alle sue ricerche, come vedremopiù avanti nelle lettere scritte sempre al Cavoti: “Il nostroGoverno d’altronde è attivo nelle intenzioni, pessimo né fatti:non vuole spendere un baiocco, dunque di monumento non u-sciranno alla luce”.

Nel 1880 vinse il concorso di Ispettore archeologico, e il

Direttore Generale dell'Antichità Giuseppe Fiorelli lo in-viò allora a Taranto, dove diede inizio ai primi scavi ar-cheologici nel Borgo Nuovo, e propose che i principali

luoghi di scavo fossero dotati di un museo che racco-gliesse ed esponesse al pubblico i reperti di

quel sito2. L'iniziativa di Fiorelli si sviluppòprogressivamente, in parallelo con il cre-

scere e l'articolarsi delle Soprintenden-ze. Una delle tappe principali è

costituita dall'istituzione del MuseoArcheologico Nazionale di Taranto,fondato nel 1888: il suo scopo eradi raccogliere i reperti che si met-tevano in luce a seguito dei lavorinecessari per la costruzione del-l'Arsenale Militare e di tutti i ser-vizi ad esso collegati. Il Museo eragestito da un Ispettore agli Scavi,che fu all'inizio Luigi Viola, dipen-

dente direttamente dalla DirezioneGenerale di Roma. Il suo compito

era di ordinare nel Museo quanto po-teva recuperare da quell'enorme mo-

difica territoriale ed ambientaleprovocata dalla costruzione dell'Arsenale,

del canale navigabile, della progressiva esten-sione dell'abitato cittadino ad Est di quest'ul-timo, cioè sull'agorà della città greca, sulla

città romana e sulle necropoli greche3. Al galatinese si deve la scoperta della massiccia cinta

muraria della Taranto greca. Il rigore scientifico degli sca-vi eseguiti, costantemente relazionati e pubblicati sulle"Notizie degli Scavi di Antichità", pose inoltre le basi per laricostruzione topografica della città in epoca antica. L'e-sperienza e l’accuratezza di Luigi Viola, sono rappresen-tati dalla famosa Lex Municipii Tarenti: l'archeologo riuscìinfatti ad acquistare e ricomporre alcuni frammenti bron-zei del tutto corrosi, rinvenuti in un pozzo da un contadi-no, rendendo così possibile la lettura del documento cheampliò le conoscenze della Taranto romana databile ver-so gli anni 80 a. C. Attualmente il reperto è conservato nelMuseo Nazionale di Napoli che lo acquistò da Carlo Ca-

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Ricordando Luigi Viola

Luigi Viola

Illustre galatinesedi Luigi Galante

Scoperte alcune lettere inedite indirizzate dal Nostro a P. Cavoti, P. Marti e al fratello Pietro

1^ parte

L’UOMO E IL TEMPO

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cace (suocero del Viola), legale proprietario in quanto rin-venuto in un suo terreno. Sposatosi con una delle figliedella famiglia Cacace di Taranto, si allontanò dagli studiper entrare in politica, diventando più tardi sindaco del-la città. Ma ben presto la vita matrimoniale del Viola co-minciò ad avere effetti quasi devastanti nei confronti delsuocero. Tutto ciò lo si deduce dalla scoperta fatta di alcu-ne lettere indirizzate all’amico Cavoti, provenienti dall’o-monimo Fondo, (e qui ringrazio pubblicamente ilneo-assessore alla Cultura di Galatina Avv. Roberta Forteper le autorizzazioni concessemi alla continuità della ri-cerca nel Museo Civico), ed altre provenienti da proprietàprivata di casa Viola (anche qui ringrazio la Prof.ssa Ma-ria Luisa Viola per avermi cordialmente ospitato nella suaresidenza, concedendomi una splendida intervista, oltreche autorizzato a pubblicare alcune lettere di famiglia).Proprio in queste ultime tre lettere scritte da Luigi Viola e-merge la figura dell’uomo. Nella prima lettera datata 1910dichiara all’amico Pietro Marti, un intellettuale scrittore egiornalista leccese, i contrasti con la moglie Caterina Ca-cace, figlia di Carlo, ricco imprenditore tarantino. Alla ba-se dei dissidi le sue dimissioni dalla carica di funzionariostatale che portarono la moglie Caterina a vivere presso il

padre; in questa pri-ma lettera non solo siesprime tutto il disa-gio di Viola per la se-parazione dallamoglie e dai figli edun certo risentimentonei confronti del suo-cero che era stato unpo’ l’animatore diquesta sepa- razione,ma anche è evidenteil suo impegno cultu-rale e politico: avreb-be voluto costituireun giornale a Tarantoma l’iniziativa caddenel vuoto. Nella se-

conda lettera del 1917 Viola riflette il suo stato d’animo al-la notizia della morte del suocero dopo la suariappacificazione con la moglie. Residente a Napoli, rien-tra a Taranto per assistere al funerale. La terza lettera èforse la più interessante in quanto parla del rapporto conil figlio Cesare Giulio Viola che scrisse poi sulle vicendedel padre il noto romanzo “Pater”.

Come detto, i Cacace furono grandi uomini d’affari. Venu-ti da Napoli si insediarono a Taranto fondando una piccolabanca, da lì a presto acquistarono una enorme quantità diterreni. Luigi, uomo umile e da un temperamento mite e sin-cero, oppositore di ricchezze e di commerci illegali, si op-pose al suocero che vendeva per avidità di denaro tutte lericchezze archeologiche che fuoriuscivano dalla sua enor-me proprietà, grazie ad architetti e archeologi privati paga-ti profumatamente. Reperti di enorme valore storico preseroun viaggio senza ritorno nelle ville di collezionisti privati emusei di tutta Europa. Questo fu il reale conflitto tra l’ar-cheologo galatinese ed il suocero.

Ma il galatinese sempre pronto ad enormi sacrifici dilavoro, continuò sempre a fare di Taranto nuove scoperte,a tal punto di essere un personaggio amato e invidiato da

tutto il mondo archeologico, tanto da - scomodare - il Mini-stro Magliani a definirlo “gloria dè Tarantini e vanto per lacittà di Galatina e de’ suoi concittadini”. Sui ritrovamenti ar-cheologici effettuati a Pompei e sulle scoperte di Taranto,

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il Viola scrisse alcuni libri,tra cui: Gli scavi di Pompei dal1872 al 1879; Scoperte di anti-chità in Taranto, nel 18824,Nuove scoperte di antichità inTaranto, nel 1883, ed una re-lazione pubblicata nel 1926per il 31° congresso della“Dante Aligheri” a Taranto eReggio Calabria. In que-st’ultima, egli abbozza unoscritto che non riuscirà a da-re alle stampe, per il pessi-mo stato di salute in cuiversava, ma è doveroso inqueste pagine ricordare al-cuni frammenti che lui appuntò5: “Il pensiero di scrivere laStoria di Taranto mi venne per la prima volta in mente, quan-do verso la fine dell’anno 1880 per incarico del Ministero dellaIstruzione Pubblica mi toccò di venire a dimorarvi qualche tem-po allo scopo di eseguire le esplorazioni dell’antica città e dellaregione Tarantina. Il ministero fu allora destato dalla calda pa-rola del compianto Prof. F. Lenormant, reduce a Parigi delle pri-me escursioni fatte nella Magna Grecia. Nel novembre del 1880io era tornato dall’Oriente, dove avevo visitato quasi tutti i luo-ghi di speciale importanza storica del mondo greco. Incominciaidal riscontrare ed attentamente e lungamente studiare gli anti-chi scrittori greci e latini che avevano parlato di Taranto: indipassai a svolgere gli ammuffiti volumi degl’Italiani e di qualchestraniero, i quali si erano occupati in opere speciali ovvero ingenerale dè fatti di questa storia. Ebbi però ad accorgermi cheneppur uno dè moderni aveva tentato di toccare il fondo del te-ma; e chi più chi meno estesamente, si erano tutti tenuti su lasuperfice….. In una parola, il tema riusciva in gran parte nuo-

vo, la storia di Taranto non era ancora scritta……Conscio del-la importanza di questo grande lavoro, non m’illudo intorno alledifficoltà che esso presenta. Ad ogni modo imiterò l’architetto, ilquale per costruire un edifizio si serve dei materiali qua e là rac-colti. Raccoglierò e disporrò le notizie che ci tramandarono gliscrittori classici, coordinandole ai risultati della critica, alle in-dagini intorno alla topografia della città ed agli studii dè mo-numenti che ci giunsero salvi dalle ingiure del tempo: sopratutto trarrò partito dallo studio delle monete, unica classe di

monumenti che fa fede della vi-talità del popolo tarantino: il la-voro quindi incomincia primadi Taranto greca, a trattare laTaranto preellenica”.

Nel 1882 richiese al Go-verno la creazione a Tarantodi una struttura musealepermanente, e nel 1887, gra-zie al regio decreto del ReUmberto I di Savoia, potéfondare il Museo nazionalearcheologico di Taranto,(Fig.2) del quale divennerettore e di cui avrebbe volu-to farne un museo della Ma-

gna Grecia. Trascorse gli ultimi anni di vita nella sua casadi campagna, dove aveva scoperto la Cripta del Redento-re6, un piccolo santuario rupestre. Concludo questo pic-colo articolo dedicato a Luigi Viola, sensibilizzandol’Amministrazione comunale di Galatina che non ha an-cora dedicato al Nostro alcuna memoria.

Facendomi personalmente promotore di questa iniziati-va volgono ancora le accorate parole che Cosimo De Gior-gi scrisse dopo la morte del suo amico P. Cavoti: “Galatinanel libro di oro dei suoi illustri e distinti personaggi, a canto ainomi di Pietro Colonna, Marcantonio Zimara, Antonio Arcu-di, Baldassare Papadia, Pietro Siciliani, Giuseppe Lillo, Celesti-no Galluccio e Gioacchino Toma, innalzi un ricordo”, ed ioconcludo: dedicando una Piazza, o una via, al Nostro di-menticato figlio di Galatina, Luigi Viola. •

Note:1 Stralcio di lettera, conservata presso il Museo Cavoti - Galatina, Inv.2460 Fondo Cavoti.2 G. FIORELLI, Relazione a S. E. il Ministro per la Pubblica Istruzione, Ro-ma 1883. 3 AA. VV., Il Museo di Taranto. Cento anni di archeologia, Taranto 19884 I primi due volumi, sono attualmente custoditi nella Biblioteca civicadi Galatina. Il Viola regalò (con dedica) i due volumi a Pietro Cavoti.(1)“Al Carissimo Amico P.Cavoti. Ricordo dell’Amico”(2) “All’Illustre Prof.P. Cavoti a segno di verace stima ed amicizia. Luigi Viola”.5 Lo scritto fu pubblicato solo dopo la morte del Viola. Egli aveva abboz-zato una “introduzione” preparata per la storia della famosa metropoli,storia che altre cure gli impedirono di donarci.6 La Cripta del Redentore di Taranto è uno dei monumenti più impor-tanti del Borgo Nuovo della città. È un'antica tomba a camera situatain via Terni, e vi si accede tramite un antico pozzo d'acqua sorgiva cheimmette in una grotta di forma circolare del diametro di circa otto me-tri, le cui pareti sono decorate da affreschi di grande valore artistico ri-salenti agli inizi del XII secolo. La cripta faceva parte della Chiesa diSanta Maria di Murivetere, chiusa al culto nel 1578 da Monsignor Le-lio Brancaccio. Trattasi di un sito archeologico di età imperiale romanadi grande interesse storico: la tradizione infatti afferma che nella crip-ta si celebrò il primo culto cristiano secondo la liturgia bizantina. NelXII secolo fu corredata da affreschi di notevole bellezza tra cui il "Cri-sto Pantocratore tra san Giovanni e la Vergine" nell'abside, e quelli cheraffigurano "San Paolo", "Sant'Euplo" e "Santo Stefano" sulle pareti late-rali. Dopo il XIII secolo la cripta fu abbandonata per parecchi secoli,probabilmente perché eccessivamente periferica rispetto alla città, fi-no alla sua riscoperta nel 1899 da parte dell'archeologo Luigi Viola,durante l'esecuzione di alcuni lavori in una sua proprietà denomina-ta "Solito".

Scavi archeologici del tempo

Taranto - Museo archeologico nazionale

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Luigi Galante

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marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 15

In questi giorni mia madre Elena avrebbe compiuto cento anni. Ma, ahimè!, di questi cento anni ne visse me-no della metà, essendosene volata via nel 1953 all’età di soli 44 anni. Il “Filo di Aracne” col quale si tessono e ri-tessono tele del viver nostro individuale e collettivo, mi dà l’occasione di ricordare il suo virtuale centenario per

il quale ho voluto extrapolare dal mio libretto “Ritorno alla Madre” del 2003, un pezzo concernente la vita quotidia-na di molte famiglie di questi luoghi subito dopo la seconda guerra mondiale. È la memoria breve e struggente diun‘infanzia di guerra, difficile e stenta, eppure resa felice dalla fede e dalle opere della madre, trasformatasi a causadella lontananza del marito per motivi bellici, in infaticabile trottola nei giorni della borsa nera. Come migliaia e mi-gliaia di altre madri.

Una scodella di fumigante “pancotto” insaporita difoglie d’alloro se d’inverno, e magari con l’aggiun-ta di pochi fichi secchi, prodotto di nicchia pluri-

centenario elogiato anche dal nostro Galateo, o, se d’estate,un piatto di “acqua e sale” con gli scarsi avanzi di paneduro e raffermo, sui quali la madre versava una “croce d’o-lio”, aggiungendo un bel po’ di fichi freschi screziati dal-la buccia violacea, colti a San Vito, erano pur sempre, l’unoe l’altro, una cena degna di tal nome, e, perfino insaporitadi felicità. La raccolta di fichi si faceva a giorni alterni. Lasera prima mia madre diceva: “Domani tutti e tre a San Vi-to”. Bastava quell’annunzio perché andassimo a dormireprima del solito, in modo da poterci svegliare a levata disole per la spedizione.

A San Vito, contrada sita poco a Nord di Pommo1, miamadre aveva identificato un ficheto e vi si era fatto affitta-re un bell’albero di grossi fichi che chiamavamo “melanza-ni” per via della loro buccia del colore delle melanzane.Mia madre li coglieva girando tutto intorno all’albero, edio le reggevo il paniere. Esaurita la raccolta ai rami bassi,toccava a me arrampicarmi sulla pianta e, saltellando daun ramo all’altro con leggerezza di acrobata, svitare i gros-si fichi e deporli nel paniere che ora era mia madre a ten-dermi, sollevandosi sulla punta dei piedi.

Parte dei fichi li mangiavamo freschi per integrare il no-stro vitto quotidiano; i più, però, erano destinati all’essic-catura per essere conservati per l’inverno. Mia madre lispaccava in due a partire dal picciolo, ma senza staccare ledue metà, quindi li metteva in bell’ordine sul “canniccio”,una grata di canne tagliate a metà, poggiata a sua volta sudue cavalletti. Dopo lo scarto e la cottura (un po’ di essivenivano maritati con una mandorla abbrustolita, un’ideadi limone e un pizzico di noce moscata) i fichi venivanodeposti in cavernose capase di creta che ce li conservava-no anche fino a primavera. Il rito comprendeva anche unaparte per me che introducevo il piede destro avvolto in unpanno e, con tutto il peso del mio corpo, premevo sullamassa dei fichi all’interno della capasa per comprimerli,per appiattirli quasi a mo’ di sardine.

Con la tasca piena di fichi secchi, da mangiucchiare unoogni tanto, anche a scuola si stava più tranquilli, e forsepiù motivati.

Fino a che non è esplosa l’età dei consumi, il fico da que-ste parti ha conteso il primato arboreo all’olivo e alla vite.Ha rappresentato per i poveri e per gli indigenti un succe-daneo del pane, anzi il secondo pane quotidiano.

Così mia madre, con la sua innata saggezza, aveva capi-to, come tanti altri, che i fichi avrebbero integrato il vittoscarso dei suoi bambini e potuto smorzare le rivolte dei lo-ro stomaci.”

Come è evidente, a qualsiasi età, madre e figli continua-no a rimanere indivisibili, anche post mortem, dell’uno e/odell’altra. E questa certezza ci spinge a rileggere i versi me-morabili di Mai nessuno ci divise di Raffaele Carrieri, ilgrande poeta dimenticato di Taranto (1905-1984).

MAI NESSUNO CI DIVISE

Quante guerre e tempestePer una sola vita.

Solerte come la formicaHai sospinto la briciola

E fatto il tetto.M’hai portato nel petto

Come la spina trovatellaChe può diventar fiore

Ma pure chiodo o stella.Quante offese, quante rese,mani aperte, porte chiuse;come il sale dentro il mare

mai nessuno ci divise. R.Carrieri

NOTE:

1. Pommo e San Vito sono due contrade prossime alla stazione ferrovia-ria di Galatone.

DULCISSIMA MATERDULCISSIMA MATERdi Vittorio Zacchino

RIMEMBRANZE

Memorie brevi e struggenti dell ’ infanzia

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C’era una volta la fede

La fede religiosa assoluta e sincera, accompagnata dalla devozione e dalla ca-denza rassicurante dei riti, dalla partecipazione popolare, dal sentimento,dalla pietà, dalla gioia di credere.

Era la fede dei nostri padri. Delle nostre preghiere di bambini, pazientemente in-segnate da mamme, nonne, zie o sorelle maggiori, che non si dimenticano più.Una fede solida e antica, specchiata nell’antica e solida civiltà contadina, che alcielo come alla terra legava le speranze e il destino.

Oggi questi parametri millenari quasi non esistono più. Tutto è cambiato, com’ènell’ordine delle cose, e non dico in peggio né meglio: ognuno che conservi quel-la memoria ha anche il proprio autonomo pensiero, e il cuore, per ricavarne libe-ramente le diverse e commisurate riflessioni. In questa sede, d’altronde, l’obiettivoè semplicemente quello di proporre alla lettura piccole curiosità – inedite o pura-mente dimenticate –, che riguardano alcuni aspetti insoliti, singolari e perfino in-genui, facenti certamente parte della nostra cultura, e che riguardano più da pressol’antropologia e il folclore salentini, in un meditativo rapporto con usanze e leg-gende a carattere religioso, ed anzi contendenti tra il sacro e il profano.

I nostri paesi e le nostre contrade sono autentiche miniere di storia e di leggende, e non c’è luogo a Finibu-sterrae che non sappia regalarci il fascino del racconto.

Castrignano de’ Greci, ad esempio. Il cui patrono e protettore è “Sant’Antoni crande”, vale a dire sant’An-tonio da Padova, considerato evidentemente maggiore (se non altro per numero di devoti), rispetto all’altrosant’Antonio, l’abate, detto anche “de lu focu”, o “de lu porcu”, che pure nel Salento, e specialmente a Novo-

li, ha i suoi fedelissimi seguaci. A Castrignano de’ Greci sant’Antonio da Padova non si fe-

steggia il 13 giugno, com’è tradizione, bensì il 23 agosto, per ri-cordare il miracolo del Santo, che proprio in questo giorno,nell’anno del Signore 1895, salvò prodigiosamente il paese dal-la minaccia di una terribile e incombente tromba d’aria, che riu-scì a disperdere senza alcun danno nella pianura circostante.

Molto più particolare è un altro miracolo che, sempre a Ca-strignano de’ Greci, intorno al1730, ebbe come protagonistaun contadino vecchio e stor-pio, di nome Donato Cosma,il quale con estrema fatica riu-sciva a trascinarsi ogni matti-

na nel suo piccolo orto, in località “Arcona”, per attendere a piccoli lavoriagricoli. Lì, il vecchio e pio contadino trovava anche il tempo per pregare,rivolgendo le sue suppliche ad una Madonna col Bambino, raffigurata in unantico dipinto di scuola bizantina, che da tempo immemorabile giaceva ab-bandonato fra le pietre e le sterpaglie del campo. Un fatidico giorno, al de-votissimo Donato apparve proprio quella Madonna col Bambino la quale,per premiarlo di tanta devozione, lo guarì finalmente della sua infermità,chiedendogli altresì di avere nello stesso luogo una cappella a lei dedicata,con funzioni di ricovero per quell’immagine sacra che nessuno curava più.Fu così che il contadino raggiunse di corsa il paese, raccontò a tutti della prodigiosa visione, accompagnòil parroco e una folla di fedeli sul posto del miracolo, e qui fu poi edificata una chiesetta (oggi attigua al lo-cale cimitero), che sull’altare maggiore conserva appunto quel vecchio dipinto bizantino raffigurante la Ma-donna detta dell’Arcona, effigie da allora assai venerata in tutto il territorio. In un documento del tempo silegge: “…eravi nel luogo un'immagine della Beata Vergine della Grazia, che dicevasi della Arcona, dipinta entro unconcavo di pietra, visitata da diversi di nostri, dicendo preci avanti la Sacra Immagine (…) e vi furono molti che nericevevano grazie particolari come fu il primo Donato Cosma, che era stroppio e camminò libero. E accorsivi altri ac-caggionati di molti malori ne furono istantaneamente liberati, così di questa terra, come di altri paesi della provinciae fuori…”.

La devozione alla Madonna dell’Arcona (per alcuni “arcona” ha il significato di regina, per altri potrebbe es-sere la volgarizzazione di icona) è sempre molto intensa, tanto che ancora oggi sono numerose le donne che aCastrignano de’ Greci portano appunto il nome di Arcona o Maria Arcona.

Madonnaro pugliese

TRA SACRO

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Bisogna in‘principale’ mezzo secollier, che nellimbarcarsi dTerra Santa.penisola saltina Franca, mente e admodo, tantoOria e subitoriamente aMartina, Robile e cordiagrino fran

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Processione di San Nicola

Certamente più notoco, che ci narra una vone con quelli della vicin

I galatonesi, che inviddetto Cristu gnoru (Cridi non essere da meno piosa nevicata, appronco). Ultimata l’opera, gforno ben caldo, in mose. All’apertura del fornzione del loro… capocommentare sconsolataaddosso, e se n’è volatinventata e messa ad aprile” per i loro amici-n

Miracoli, leg

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TRADIZIONI RELIGIOSE

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marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 17

ACRO E PROFANO

empre a proposito di campanilismo – e spostandoci nel nord Salento – dav-o insolita appare la questione tra Ceglie Messapica e Martina Franca: un con-zioso, peraltro, sollevato nientemeno che da san Rocco in persona!

Bisogna intanto precisare che a Ceglie Messapica, benché il patrono‘principale’ sia sant’Antonio da Padova, il culto maggiore, da almenomezzo secolo, è riservato proprio a san Rocco, pellegrino di Montpel-lier, che nelle nostre terre pare sia davvero venuto intorno al 1370, perimbarcarsi da Brindisi e raggiungere laTerra Santa. In questo suo viaggio nellapenisola salentina, egli toccò anche Mar-tina Franca, dove però fu trattato incivil-mente e addirittura scacciato in malomodo, tanto che dovette riparare prima aOria e subito dopo a Ceglie. Qui, contra-riamente all’inospitalità riscontrata aMartina, Rocco ebbe un’accoglienza affa-bile e cordiale, tanto che quando il pelle-grino francese fu santificato, la

polazione cegliese lo nominò compatrono dellaà, costruendo appositamente una chiesa a lui de-ata. Questa chiesa, tuttavia, dovette essere piùte restaurata e riedificata, a causa dei ripetuti epiegabili crolli a cui era soggetta. Il mistero fu fi-mente spiegato dallo stesso san Rocco il quale,

dato in sogno alla perpetua del curato, le rivelòera egli stesso a provocare i crolli, perchè la chiesa aveva la facciata rivolta

so l’insopportabile Martina Franca! Sicché, quando nel 1888 fu deciso di co-uire in onore di san Rocco una nuova chiesa, molto più grande di quella vec-a, l’architetto ebbe l’ordine categorico di non posizionare in direzione dirtina la facciata, ma semmai il retro, l’abside. Come difatti è.

A conferma della ‘permalosità’ di alcuni Santi vainfine raccontato quanto avvenne, in una certa oc-casione, a Oria.

Il patrono di questa nobile e antica città è un Santopoco conosciuto, san Barsanofio, il cui culto ebbe ori-gine nell’anno 873, quando le sue reliquie, secondo laleggenda, furono traslate qui dall’Oriente, ad operadi due monaci palestinesi, deposte in una chiesa fuo-ri le mura, scavata nella roccia, e dopo circa tre seco-li trasferite nella Cattedrale. San Barsanofio hasempre svolto più che degnamente il proprio doveredi patrono-protettore: in tempo di carestia ha fattomiracolosamente apparire carri carichi di grano; si èmanifestato più volte sulle mura della città per spa-ventare e sconfiggere i nemici durante gli assedi; haguarito nei secoli una moltitudine di infermi; ha pre-servato Oria dal terribile terremoto del 1743…

È più che legittimo, quindi, attendersi un minimodi devozione e gratitudine dai suoi fedeli oritani.I quali, invece, nel corso degli anni, si sono affe-zionati sempre più ai compatroni della città, i San-ti Medici (Cosimo, Damiano, Eupremio, Leonzio,Antimo), dandone risalto con una spettacolareprocessione delle cinque statue, che in primaveraattraversano tutta la città in un delirio di gente e difesta. Alla processione oggi partecipa anche la sta-tua di san Barsanofio, ma inizialmente ne era e-sclusa, con grande rammarico, naturalmente, delSanto patrono, che non poteva permettere un si-mile affronto. Mai e poi mai, infatti, si poté svol-gere la cerimonia religiosa senza di lui: cronaca,storia o leggenda che sia, la processione fu sempredisturbata e bloccata sul nascere da temporali,tuoni, fulmini e violente grandinate. Finché gli in-grati e cocciuti fedeli capirono che era meglio te-nersi buono anche il vecchio e giustamente

permaloso patrono, ammettendolo alla processione,che da allora si svolge infatti regolarmente, in un tri-pudio di sole. Da qui, peraltro, è facile capire quan-ta ragione ci sia nel celebre detto: “Scherza coi fanti,ma lascia stare i santi!”. Amen. •

Processione di San Lussorio

ertamente più noto (e sempre divertente) è il seguente apologo campanilisti-che ci narra una volta di più della contrapposizione degli abitanti di Galato-con quelli della vicina Nardò.galatonesi, che invidiavano oltre misura ai neretini il famoso Crocifisso ligneoto Cristu gnoru (Cristo nero) conservato nella Cattedrale, decisero un giorno

non essere da meno dei loro vicini, e approfittando di una sorprendente e co-sa nevicata, approntarono con la neve un maestoso Cristu jancu (Cristo bian-Ultimata l’opera, gli ineffabili artefici infilarono il candido Crocifisso in un

no ben caldo, in modo che, com’era nei loro auspici, la scultura si consolidas-All’apertura del forno, e fortemente delusi dalla conseguente e ovvia liquefa-ne del loro… capolavoro, i maldestri artisti non poterono far altro che

mmentare sconsolatamente: “Si ‘ndi cacò, si ‘ndi pisciò, si ‘ndi ulò!” (Se l’è fattadosso, e se n’è volato via!). Inutile aggiungere che la beffarda storiella è stataentata e messa ad arte in circolazione dai neretini, come perenne “pesce d’a-e” per i loro amici-nemici di Galatone…

Oria - Statua di San Barsanofio

Miracoli, leggende e curiosità

radizione religiosa popolare salentina

di Antonio Mele/Melanton

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Attraverso i secoli, l’uomo le ha provate ed “inven-tate” tutte pur di arrabattarsi alla miglior manierae sbarcare il lunario. Quando si ha bisogno, quan-

do si è poveri in canna, quando in casa manca tutto e biso-gna ad ogni costo portare qualcosa per sfamare i propricongiunti, è necessario darsi da fare, spremere le meningiper inventarsi qualsiasi lavoro, impegnativo o meno che

sia, sobbarcarsi a quelle attività, anche se degradanti ed u-milianti, che consentano di raggranellare un po’ di dana-ro per i bisogni infiniti della vita. Oggi è più facile vivere,anche se con preoccupazione e fra tanta disoccupazione.Ieri era davvero impossibile, era disperante; ieri non vi erané l’Ufficio di Collocamento, né l’iscrizione nelle liste deidisoccupati e nemmeno i cantieri scuola approntati dal Co-mune per dare un po’ di illusione. Dovevi cavartela da te,perché gli altri se ne “infischiavano” del tuo stato di estre-mo bisogno, dei bambini che avevi lasciato a casa, laceri,scalzi e affamati: dovevi vedertela da solo! Si comprendeallora come pullulassero le attività lavorative secondarierispetto alle principali dell’agricoltura, dell’edilizia, delcommercio, dell’artigianato, del pubblico impiego ecc. ecc.,e che noi tenteremo qui di individuare, sforzandoci di evi-denziare le linee più caratteristiche di ognuna di esse, al-cune delle quali scomparse del tutto, altre ancora in vitaanche se lentamente in via di estinzione.

LU ‘CCONSALÌMBURE. Solitamente era uno zingaro,proveniente da Galatone o da qualche altro di quei pochis-simi Comuni del leccese ove essi vivono in tribù organiz-zate nei ghetti o nelle estreme periferie di quei centriurbani (gli zingari si distinguono dagli altri cittadini non

solo per quel loro modo di vivere tribale, scostati dagli al-tri cittadini e restii anch’essi ad ogni integrazione sociale,ma anche per la consequenziale impossibilità ed incapa-cità di dedicarsi alle usuali attività lavorative; facilmenteindividuabili per le particolari fattezze fisiche: razza bru-na, zigomi sporgenti, capelli neri e ricciuti). Una delle prin-cipali attività degli zingari era quella degli “cconsalìmbure”,cioè della riparazione, per un misero compenso, di queigrossi vasi di terracotta (lìmbure, plurale di limbu), interna-mente smaltati, ove venivano lavati gli indumenti e in ge-nere qualunque altro recipiente di terracotta (còfane, capàse,craste, ecc.). L’attrezzatura era ridotta al minimo, ad unatenaglia e ad un caratteristico trapano di legno (formatoda un robusto asse orizzontale della lunghezza intorno ai40 cm., con grosso foro centrale attraverso cui roteava unlegno affusolato, dalla cui estremità superiore partivanodue resistenti corde che, avvolte in parte al fuso, venivanoa legarsi alle due estremità dell’asse orizzontale, mentre al-l’estremità inferiore del fuso era infissa una punta d’acciaioidonea a forare lo spessore della terracotta). Il movimentorotatorio del fuso e quindi della punta era dato dalla pres-sione a più riprese della mano sull’asse orizzontale, il qua-le compiva così un movimento dall’alto in basso e viceversaintorno al fuso al quale imprimeva così il moto rotatorio. Ifori sulla terracotta venivano fatti simmetricamente, lungola lesione o la rottura che si intendeva “cucire”. I punti ve-nivano realizzati con fil di ferro “zingatu”.

Lo zingaro, percorrendo le vie del paese, si annuncia-va con voce stentorea strascicando le sillabe di “lu ccon-salìmbure”.

18 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

Lu scarparu

“Lu ‘mbrillaru”

Li mestieri ti ‘na fiata

C’erano una volta, ora non più

di Emilio Rubino

C’ERA UNA VOLTA

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LU ’MBRILLARU. Il riparatore di ombrelli. Solitamenteera uno zingaro che provvedeva ad incollare manici o legarecon sottile fil di ferro le bacchette che si erano staccate.

LU QUATARARU. Il venditore ambulante di “quatare”,cioè di pentole e tegami. Nel passato girava per le vie delpaese con carretto tirato da un asinello ed era caratteristi-ca la poesia di uno di essi che diceva:

Firsore, firsureddhe e firsuruni,so ssciutu a casa a prìncipi e baruni,

hàggiu giratu tuttu lu paesee non hàggiu mbuscatu’ na spiràgghia e nu tornese.

Gh’era statu mègghiu pi ddhru sire miaci m’era misu inthra ‘na trattoria,

c’addhrà facìa l’arte di nutarue scrivia cu carta, penna e calamaru

E poi, con voce forte, strascicava: “lu quatararu, ci ‘ole firsore!”

LU MMULAFORBICI. L’arrotino. Andava girando per ivari paesi su una bicicletta o, in tempi relativamente recen-ti, su una motocicletta o un’Ape, attrezzato di tutto puntoa vendere il proprio “importante” servizio. Per poter lavo-rare, doveva pedalare in continuazione per consentire larotazione della mola, su cui, da un’apposita scatola di ra-me, gocciolava dell’acqua per lubrificare le lame. Al pas-saggio dell’arrotino, molte donne uscivano di casa a farsimolare le forbici, le forbicette da ricamo o da toilette, i col-telli e quant’altro necessario.

LU SAPONARU. Era colui che acquistava o permutavacon oggetti casalinghi la “murga” (morchia, deposito o fec-cia dell’olio), con cui si produceva sapone nero.

L’AMBULANTE: Era un uomo che, con il carretto pienodi arance, mele ed altro, girava per le vie del paese nel ten-tativo di guadagnarsi la giornata. Si ricorda un fruttivendo-lo che, giunto nei rioni più popolari, eccitava così i piccoli:“Chiangiti, piccinni, cusì la mamma bi catta li mele”. Questo frut-to era a quei tempi molto prelibato, quasi considerato co-me… frutto proibito di biblica memoria. Pare che con questostratagemma l’ambulante raggiungesse l’intento.

LU FURNARU. Il fornaio che, nei forni di pietra e a le-gna, coceva per conto terzi il pane impastato in casa. Egli,al mattino, di buon’ora, provvedeva a passare da quellepersone che la sera precedente si erano prenotate, rilevavagrosse forme di pasta lievitata, le riponeva entro “li taute”(contenitori di legno della lunghezza di un paio di metri,della larghezza di circa 40 cm. con bordi rialzati), traspor-tata a spalla se una sola, sul carretto se più. Forme di pa-sta che venivano infornate e, trasformate in odorosi efragranti pezzi di pane, riportate a casa. Oltre la usualemercede (un tanto per pezzo), al fornaio, che la sera primaaveva prestato il lievito necessario, si doveva consegnareanche una pagnottella di pasta da far lievitare (e che poi, arichiesta, distribuiva ai clienti). Nei forni a legna, a richie-sta dei privati, venivano “nfurnati” anche frise, biscotti, ta-ralli, paste, focacce, fichi secchi, ecc.

LU MPAGGHIASEG-GE. L’impagliatore di se-die. Veniva dalla vicinaGallipoli con carretto edun asinello: portava via lesedie rotte e le riportavadopo qualche settimanarimesse a nuovo. Anchecostui si faceva sentire at-traverso le vie della Cittàstrascicando la parola “lu‘mpagghiasegge!”.

LI TABBACCHINE. Leoperaie che, a centinaia ecentinaia, forse a migliaia,affollavano (era una festavedere sciamare tante ra-gazze per le vie della Città, sia all’uscita che all’entrata de-gli opifici, seguite da tanti giovani che le corteggiavano) i“magazzini” o “frabbiche” di tabacco, una diecina inNardò, ove provvedevano alla “cernita”, scelta e cataloga-zione delle foglie, dalle più chiare (per sigarette di lusso)via via alle più scure (per sigarette… popolari), nonché al-lo scarto del “frasame” (residui di foglie rotte e di tabaccoinservibile). Oggi, con l’importazione senza limite dei ta-bacchi esteri e in special modo americani, la produzione i-taliana è stata sopraffatta e a Nardò sono scomparsi tuttigli opifici (quel po’ di tabacco ancora prodotto viene por-tato in altre province), sicché neppure una sola donnasvolge tale attività.

LI BANDISTI. In passato, ed in genere in tempo di crisi,nelle nostre zone, gli artigiani erano costretti a svolgere,oltre alla principale attività cui erano addetti normalmen-te, dei lavori secondari pur di campare con tutta la fami-glia. Il barbiere, ad esempio, faceva il cavadenti, “‘ffittava”le sanguisughe per il salasso, vendeva pipe, ecc.. Ognunosi arrabattava come meglio poteva. I falegnami, perciò, ibarbieri, i sarti e gli “scarpari” (ciabattini) facevano solita-mente anche i “bandisti”, i musicanti in uno dei due com-

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“Lu ‘mpagghiasegge”

“Lu mmulaforbici”

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plessi neritini, Banda Verde e Banda Rossa, o in altre ban-de di Comuni vicini. Dedicatisi sin da ragazzi ad appren-dere i primi rudimenti musicali, col lungo tempoaffinavano ed arricchivano il loro sapere tanto da esseredefiniti “professori”. Nardò per sua antica tradizione, erauna terra assai prolifica di musicanti, una consuetudineche si tramandava spesso da padre in figlio per più gene-razioni. Non deve però essere un’impressione negativa lacircostanza ch’essi venivano adibiti anche all’accompagna-mento di cortei funebri, perché il nome di Nardò è rimastolungamente famoso per le tournèe delle sue bande, ancheall’estero.

LI ACQUALURI. Venditori di acqua. Con un carretto edei grossi recipienti di rame, riempiti nelle poche fontanepubbliche o nei pozzi artesiani, giravano per le vie del pae-se a vendere acqua a chi era privo di acquedotto (erano po-chi a possederlo), di cisterna o di pozzo.

LI LUPINARI. I venditori di lupini giravano per le viedel paese ad offrire quella specie di leccornia salata nelpozzo o nell’acqua di mare, da cui il loro slogan pubblici-tario: “La vera marina!”.

LI ROBIVECCHI. Erano uomini che andavano in giro colcarretto di paese in paese ad acquistare o permutare strac-ci (da far riciclare nell’Italia autarchica), dando in cambiobicchieri, tazze, pentole ed altre stoviglie casalinghe, op-pure soprammobili, fra cui piccoli busti in gesso, porcella-na o bronzo, di Benito Mussolini, reclamizzando così:“Mussulini cu li pezze”. Quest’espressione, in quell’Italiasbirraiola, nascondeva a meraviglia il duplice ironico si-gnificato dell’Italia fascista ma stracciona e della pochezzadi quel tronfio dittatore.

LI SALINIERI. I raccoglitori di sale operavano sulle sco-gliere della nostra marina per raccogliere il sale e vender-lo per gli usi familiari. Le Guardie di Finanza, nascostedietro muretti di campagna o in altri luoghi, cercavano disorprendere i “salinieri” che, con sacchetti sul portabagaglidella bicicletta, trasportavano, per vie traverse, il sale inCittà. Le autorità, per stroncare alla fonte questa attività,dettero incarico di rompere, con martello e scalpello, in no-

me della legge, tutte le conche ove veniva a depositarsil’acqua marina, creando dei cataletti per far defluire l’ac-qua che si era depositata o che era stata posta nelle con-che. I “salinieri” chiusero, però, con dell’argilla il varcoscalpellato e continuarono così la loro illecita attività. Do-vevano pur vivere!

LA CARDA LANA. Era una donna che rendeva soffice lalana con due cardi, spazzole, anche meccaniche, con pun-te metalliche. L’uso più rudimentale era quello di fissaread una panchetta uno dei due cardi, vi si poggiava sopradella lana spruzzata con qualche goccia d’olio e con l’altrocardo la si “pettinava”, formando poi dei “boccoli” di soffi-ce lana.

LI ‘ASTASI. Erano dei facchini e, in genere, uomini di fa-tica di infimo grado, dediti solitamente al trasporto di va-ligie da e per la Stazione Città.

LU PULIMBU. Era colui che, per professione, lustrava lescarpe ad altri. Nei tempi passati in Nardò ve n’erano duee svolgevano la loro attività nella Piazza Principale, sulrialzo fra la Colonna dell’Im-macolata ed il Sedile, il CircoloCittadino. Erano soliti richia-mare l’attenzione della gentebattendo col legno d’una spaz-zola sulla cassettina che conte-neva vari tipi di crema. Lacassettina di legno fungeva an-che da poggiapiedi.

LE PREFICHE. Le vendilacri-me, donne d’infimo ceto che e-rano ingaggiate per piangere ilmorto. Per ricordare le sue qualità e i momenti più salien-ti della sua vita eccitavano, con grida e lamenti, il piantodisperato degli astanti.

LU ‘ANDISCIATORE. Il banditore. Aveva l’incarico didivulgare nelle piazze della Città (‘andisciare), gridando aviva voce, comunicati della pubblica Autorità, reclami, no-tizie, ecc.. Nel passato egli si annunciava con squilli ditromba o col suono del tamburo, oppure con l’avvicinarele mani aperte ai lati della bocca a mo’ di megafono. Lo sivedeva anche girare per le vie principali per propaganda-re prodotti, come, ad esempio, di informare la popolazio-ne che da poco a Gallipoli o a Porto Cesareo sarebbearrivato un carico di pesce fresco.

LI COZZALURI. Erano persone che andavano in cercadi lumache, cozze “piccinne”, cozze grosse e cozze munaceddh-re, che poi vendevano per le vie del paese.

LI LAMPASCIUNARI. Uomini che raccoglievano daicampi incolti, dissotterrandoli con una zappettino, cipol-lette selvatiche commestibili e che vendevano poi allagente. •

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“Lu pulimbu”

“Lu robivecchi”

Emilio Rubino

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E’ stato nel dicembre 2007 che Maria Rita Bozzetti haaperto il suo spaziosissimo ed elegante seminterra-to ad un gruppo di amici ed amiche interessati ad

incontrare personalità emergenti della cultura locale, poe-ti, pittori, scrittori per conoscerne l’operato e riflettere sul-le tematiche sviluppate da ciascuno.

Non sono stata presente a tutti gli incontri che, dopo ladata d’inizio, si sono succeduti assumendo via via scaden-za mensile. Sull’elenco degli appuntamenti di cui dispon-go compaiono però nomi ricorrenti nelle diversemanifestazioni cittadine.

E’ stata, per esempio, oggetto di rilettura e commentocritico la poesia di Bodini, di Donato Moro, Lucio Romanoe di altri autori contemporanei come don Salvatore Bello,Peppino Conte e la stessa Maria Rita Bozzetti, autrice dinumerose pubblicazioni che hanno varcato i limiti dei con-fini locali.

Conosco la poesia di Maria Rita sin dalla sua prima pub-blicazione, che ho personalmente incoraggiato, dopo averletto e dato un primo ordine al gruppo di fogli manoscrit-ti ricevuti da lei: si trattava di “Polvere di Giorni”, con pre-fazione di Nicola De Donno, divenuto da allora la suaguida e il suo maestro.

Maria Rita ha poi seguito l’evoluzione del suo percorso

poetico sino alla pubblicazione del terzo, o forse quarto li-bro, “Nell’ozio delle Erbacce”, raccolta in cui la sua poe-sia passa da una dimensione autobiografica ad unametafisicoesistenziale; qui il linguaggio diviene spoglio,essenziale e si concentra sui dialoghi interiori alla ricercadi Dio e della verità. A questa sono poi seguite altre pub-blicazioni in cui il mondo dei sentimenti, il tempo dellamemoria, la natura, gli eventi civili, divengono i temi del-le sue riflessioni.

Nel corso di queste serate il tempo della poesia si conclu-de sempre con l’esecuzione al pianoforte di brani di musi-

ca classica ed è seguito da quello dedicatoalla pittura. Gli appassionati di quest’arteconoscono bene i pittori che si sono avvi-cendati in questi incontri: mi riferisco aMimmo Anteri e Antonio Stanca, oltre adartisti più giovani ma di riconosciuto va-lore come Mauro Sances, a cui certamentene seguiranno altri.

Non solo gli artisti con le opere presenta-te, ma anche i rispettivi relatori con unaprofonda capacità di lettura dei lavori divolta in volta presentati e l’eleganza del di-scorso hanno coinvolto, emozionato e te-nuto costantemente desta l’attenzione deipresenti che accorrono sempre numerosi.

E’ stato durante uno di questi incontri,nel dicembre del 2008, che ho visto alter-narsi su un cavalletto le tele di AntonioStanca, inattesa occasione di compiere i-dealmente un viaggio inconsueto e affa-scinante nel mistero delle origini del

mondo e del suo divenire. Attraverso la forza del colore,determinante nella creazione delle sue opere, ha rappre-sentato in sequenze di immagini astratte, l’iperspazio, ledimensioni inesplorate di un universo uscito dal silenzio.Tutti i lavori di questo artista indagano sull’origine del co-smo, sull’esistenza di eventuali universi paralleli, di cuiparlano con insistenza le più recenti acquisizioni scienti-fiche e che le ultime scoperte della fisica quantistica sem-brano avvalorare.

Dopo la performance di questo artista, il prof. Magnolo,ospite fisso di questi incontri, commentatore lucido e pene-trante di diversi poeti, ha proseguito presentando una rac-colta di poesie di don Salvatore Bello dal titolo “di Giorno

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P u n t u a l m e n t e a l l a f i n e d i o g n i m e s e

IL SALOTTO DI MARIA RITASpazio aperto al l ’arte e al la cultura

di Giuliana Pellegrino

Maria Rita Bozzetti presenta l’artista Antonio Stanca

INCONTRI

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in Giorno”. Riascoltare questi versi è sempre reimmerger-si nel mondo in cui affondano le nostre radici, ricco di echi,di vissuti personali, di serene visioni, di scorci e ritratti in-cisivi, di immagini che dal passato balzano nel cuore.

Non meno coinvol-gente è stata, in un in-contro successivo, l’ap-passionata lettura deiversi di Peppino Con-te, recitati dallo stessoautore con l’intensità ela maestria di un atto-re consumato. Il com-mento di AntonioErrico, giornalista, per-sonalità nota nel mon-do della cultura, ancheper la preziosità dellasua cifra stilistica, haarricchito quest’altraserata conclusasi con lapresentazione delle o-pere del pittore Sances,illustrate da CarmenDe Stasio.

Il collante, che armonizza i vari interventi, è la musica; sisono alternati al pianoforte Monica Terlizzi e Luigi Solido-ro, abili esecutori di splendidi brani di musica classica, diquelli che toccano e fanno vibrare le corde dell’anima, in-

tensificando le sottili emozioni già suscitate dall’ascolto edalla visione delle opere degli artisti.

Non posso concludere se non con un plauso e un ringra-ziamento a Maria Rita, organizzatrice e attenta regista di

questi incontri alla finedei quali ci si ritrovaintorno ad un buffetallestito in una stanzaattigua a scambiarciimpressioni, opinioni,emozioni vissute nelcorso della serata.

Sono momenti dicondivisione, di con-fronto, di amicizie chesi stringono o rinsalda-no, cosicché, giunto ilmomento dei saluti,ciascuno torna a casacon un senso di intimasoddisfazione primadi rientrare nella di-mensione di un quoti-diano fatto di tanto

rumore, di tanto movimento, di tante parole vuote di si-gnificato, ma anche gravato dai problemi di una crisi glo-bale, non solo economica, che proietta lunghe ombre sulprossimo futuro.

Questo, però, è un altro discorso. •

marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 23

Un momento del “salotto”

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Uno degli scopi che la Biblioteca Comunale di Tu-glie si è prefisso negli anni 2007 e 2008 è statoquello di superare la soglia generalista ed incre-

mentare il suo patrimonio con l’intento di specializzarlaattraverso la creazione di una Sezione di Autori Salenti-ni. L’idea è nata dalla convinzione che il Sud è semprestata terra di fermenti e contaminazioni culturali, tale datracciare una realtà letteraria da scoprire mettendo in lu-ce autori contemporanei e non.

L’iniziativa èstata portata avan-ti dalle operatricidel Servizio CivileNazionale, impe-gnate presso la Bi-blioteca Comuna-le, nell’ambito delprogetto “Promuo-viamo e salvaguar-diamo il nostro pa-trimonio cultura-le”, attraverso unintenso e metico-loso percorso diricerca e raccoltadei testi con la supervisione di Franco Sperti, responsabi-le della biblioteca ed ideatore dello stesso progetto. Da ciòsi evince l’importanza del contributo dato dal Servizio ci-vile, che oltre ad aver costituito un’esperien-za qualificante nel bagaglio educativo eformativo di ciascun volontario, ha contri-buito ad arricchire i servizi già esistenti im-plementando le varie attività ed iniziativeattraverso una fiorente sinergia tra enti edorga- nizzatori.

Il patrimonio della Biblioteca negli ultimidue anni si è arricchito grazie alla creazionedi una nuova sezione interamente dedicataagli autori salentini contemporanei com-prendente produzioni storiche, artistiche,letterarie suddivise nelle sezioni di Arte,Linguistica, Filosofia, Letteratura, Scienzesociali, Medicina, Diritto, Scienze, Religio-ne, Guide, Tradizioni, Grecìa Salentina. Unascelta fatta con il contributo di preziosi col-laboratori. La sezione libraria si sta sempre più concretiz-zando ed incrementando con lasciti e donazioni discrittori, editori ed istituzioni del territorio, che hanno sen-

sibilmente offerto il proprio contributo. Il repertorio, cheora dispone di circa 4000 volumi, ben si presta alle esigen-ze dell’utenza della biblioteca.

I primi testi arrivati, frutto del prezioso aiuto del com-pianto Prof. Zeffirino Rizzelli, che all’inizio del 2007 con-tribuì alla ricerca e alla segnalazione degli autori della suacittà, da inserire nella Sezione degli autori salentini con-temporanei, sono quelli donati dagli autori provenientidalla città simbolo del tarantismo.

Oggi invece la ricerca e la raccolta dei te-sti è volta al completamento della zona ri-guardante la provincia di Lecce e nelcontempo all’allargamento in direzione delterritorio brindisino e tarantino, in cui il Sa-lento, territorio ricco di scrittori da metterein evidenza e conoscere, affonda le sue an-tiche origini.

Da ciò si evince che si tratta di una sezio-ne "aperta", poiché nasce con l'ambizionedi riuscire ad essere un punto di riferimen-to culturale il più completo possibile, attra-verso la costante ricerca di opere nonancora inserite e di nuove pubblicazioni.Pertanto ogni autore, editore o lettore puòcontribuire alla crescita della Sezione attra-

verso donazioni e/o segnalazioni.Parallelamente a tale lavoro di ricerca e raccolta del

materiale, il 23 novembre 2008, è stato pubblicato sul si-to ufficiale delComune di Tu-glie un databasecontenente i ri-sultati del pro-getto, al fine direndere più age-vole la consulta-zione del cata-logo per offrire ailettori una visio-ne d'insieme suogni singolo au-tore.

La nascita e l’i-stituzione dellaSezione di Auto-

ri Salentini e la sua immissione in rete è stata di fatto “l’im-pronta di servizio” lasciata dall’attività di volontariato, cheha visto come protagoniste le giovani operatrici del Servi-

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Tuglie - Biblioteca Comunale

Tuglie - La piazza

LA BIBLIOTECA DI TUGLIELA BIBLIOTECA DI TUGLIE

AL SERVIZIO DELLA CULTURAAL SERVIZIO DELLA CULTURAdi Chiara Caputo e Silvia Sperti

MUSEI E BIBLIOTECHE

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zio Civile 2007/2008, le quali hanno dato un contributo no-tevole al raggiungimento di questo importante traguardocon profonda sensibilità, competenza e motivazione.

Per accedere alla sezione è necessario collegarsi al sitodel Comune di Tuglie, www.comune.tuglie.le.it e da quiselezionare il link della Biblioteca Comunale “Fiore Tom-maso Gnoni”. Una volta entrati nel sito della Biblioteca da

qui è possibile ricevere notizie di carattere generale sullastruttura e la sua storia, i servizi attivi, le attività culturali,informazioni pratiche su orari di apertura e contatti e so-prattutto accedere alla consultazione del Patrimonio.

Da qui è infatti possibile accedere al database contenen-te la Sezione di Autori Salentini ed effettuare una ricercaper Autore o per Titolo.

I testi sono tutti categorizzati per argomento: Letteratu-ra (L), Letteratura per ragazzi (L/R), Linguistica (Li), Sto-ria (S), Arte (A), Guide (Gui), Tradizioni (T), GrecìaSalentina (G), Scienze Sociali (SS), Diritto (D), Filosofia (F),Medicina (M), Scienze (Sci), Religione (R).

La creazione di una sezione come questa, ora anche informato elettronico disponibile in rete, interamente dedica-ta agli autori salentini contemporanei ha rappresentatouna sfida che gli operatori culturali, volontari e non, chehanno lavorato per la Biblioteca Comunale di Tuglie condeterminazione e passione e grazie a telefonate, lettere,mail e visite ai vari autori, curatori, editori, istituzioni edenti del territorio.

Essa rappresenta dunque un prezioso tesoro unico nelsuo genere e costituisce un patrimonio culturale oggettodi richiamo e di prestigio. Questa iniziativa ha permes-so infatti che anche gli autori nati nel Salento ma ora lon-tani, riscoprissero e riallacciassero il legame con lapropria terra.

È in virtù di queste premesse che oggi il lavoro appenapresentato al pubblico si pone con orgoglio l’auspicio diuna larga diffusione e di un ulteriore ampliamento, in coe-renza con le aspettative di un Salento colto e in parte ine-splorato che merita e che crede in se stesso. •

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Tuglie - Biblioteca Comunale

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Non poche opere d’arte sono gelosamente custodi-te in diverse istituzioni museali – contenitori cul-turali - espressione del vissuto delle singole

comunità che, legittimamente orgogliose di quanto pos-siedono, dovrebbero tenderenon soltanto a conservarle inmemoria sacrale ma, a valoriz-zarle e promuoverle , conte-stualizzandole, magari, a piùlivelli operativi. Dal 12 aprile1979, quando Aldo Calò donòle sue opere al Comune di SanCesario di Lecce – suo paesenatale – è trascorso un trenten-nio, durante il quale, forse, unsilenzio inconsapevole ha con-tribuito ad avvolgere nello o-blio l’opera di questo scultoresalentino che noi vorremmofar rivivere, sia pure momen-taneamente, nelle considera-zioni che seguono.

Nel 1947, quando Aldo Calò(1910-1983) sortì, ufficialmen-te, come scultore a Venezia,nella Galleria del Cavallino, a-veva trentasette anni ed unpassato ricco di eventi che a-

vevano, sicuramente, segnato la sua personalità di uomonato nel Basso Salento, da umile famiglia di costruttori e-dili, e di giovane formatosi, per volontà paterna e per ne-cessità contingente, nella Scuola Artistico – Industriale diLecce. Anni difficili! L’avvento del fascismo e lo scoppiodella prima guerra mondiale condizionarono la vita degliitaliani ed ancor più quella delle popolazioni del Meridio-ne che, annaspando nelle acque dello sviluppo industria-le, cercarono, comunque e nonostante la penalizzanteposizione geografica, di rimanere ancorate allo scoglio deitempi moderni, promuovendo la nuova cultura ad ogni li-vello ed in tutti i campi dell’attività umana.

Gli insegnamenti ricevuti prima dal padre e poi a scuola,furono per il giovane intraprendente Calò fondamentali perl’avvio della sua attività che, inizialmente, gli consentì diconquistare gli ambienti culturali professionali salentini perapprodare poi, in diverse città europee fino a divenire pro-

tagonista della cultura artistica per più di un quarantennio.I suoi esordi furono caratterizzati da una produzione vin-

colata dal dato oggettivo modellato in maniera descrittivae, decisamente, scolastica. Tale vocazione all’oggettivitàpuò cogliersi in Ritratto (1944), Ritratto (1944 – 45), Figura(1945) dove, il rigore ottico tradisce la cura del modellatonei particolari e nella resa plastico – volumetrica dei sog-getti scolpiti. Superando, con lo studio e la ricerca, la mi-mesi passiva, l’accademismo, la scultura intesa comestatuaria, lo scultore, negli anni successivi, lavorò la mate-ria con duttilità e naturalezza, alla maniera del maestro tre-vigiano Arturo Martini (1889-1947), pervenendo, nelvolgere di pochi anni, ad un’interpretazione della figuraantropomorfa più libera e creativa. La tensione dinamico –emotiva si percepisce in Battesimo di Cristo (1946), Non è le-cito il pianto (1946), Ratto delle Sabine (1947) opere in cui la sa-pienza esecutiva, nella trattazione delle volumetrie, deitratti somatici, delle gestualità, si amplifica negli effetti d’in-sieme delle composizioni evidenziando l’espressività ed il

lessico figurativo caratterizzantile singolarità dei personaggi.

La scultura di Marino Marini(1901-1980) lo guidò nella realiz-zazione di Figura (1950), Figuracol bambino (1951), Gran gruppo“Le stelle” (1951), manufatti in cuiil salentino, come il grande arti-sta pistoiese, dimostrò una buo-na capacità di plasmare le formecon essenzialità figurale riassun-tiva e sintetica, contribuendosempre a dare significato, proba-bilmente, all’inconsistente italia-nismo novecentesco evidenziato,peraltro, in alcuni artisti, comenostalgica aspirazione di entrarea far parte di una dimensione eu-ropea ed, in altri, come interessead essere qualificati esponentidella cultura artistica locale in cuioperavano.

Calò, che rimase tendenzialmente un uomo ambizioso,non si accontentò di essere annoverato tra i maggiori arti-sti locali e, con spirito avventuriero, soggiornò diverse vol-te a Londra dove l’arte di H. Moore (1898-1986), fu per lui

26 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

L’artista di San Cesario è da annoverare tra i migliori esponenti della scultura pugliese

ALDO CALÒALDO CALÒLavorò la materia con duttilità e naturalezza, evidenziando brillantemente il lessico

figurativo e l’espressività che caratterizzavano la singolarità dei vari personaggi.

di Domenica Specchia

Battesimo di Cristo

Figura (1945)

ARTISTI SALENTINI

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una fonte d’ispirazione utilead orientare la sua successivaproduzione verso un fare pu-ro, rispecchiante il suo tempe-ramento esplicitato con mezzistilisticamente coerenti. Inquegli anni, la sua arte diven-ne il felice connubio tra l’a-strattezza formale e spazialedi Brancusi (1876-1957) ed ivalori plastici delle superficiavvolgenti di Moore. Egli at-tinse le forme dalla naturama, intese astrarsi da essatalvolta superandola con ilplasmare figure che, nel recu-pero dell’integrità dell’essere,decisamente assursero a va-lenze simbolico – emblemati-che. Immune dal preconcettodella verosimiglianza, egli fe-ce tesoro della libertà creativafino ad asservirla all’unità delsuo stile ormai decisamente

deformista. Nella serie Biforme, opere esposte a Roma allaGalleria Pogliani negli anni sessanta del Novecento, purnella contemporanea lavorazione di materiali diversi, mar-mo e bronzo, legno e ferro, ferro e cristallo, l’artista salen-tino ruppe l’unità della forma modellata esternando leopposte qualità della materia, del liscio e del ruvido, dellosplendente e dell’opaco, quasi a voler sottolineare, avendosaputo coniugare la natura nella sua organicità e contrad-dittorietà, l’astrarsi dell’artifex dalla realtà, pur rimanendosostanzialmente ancorato ad essa.

“Lo spostare il problema da un asse comunque esisten-

ziale, per investire un’esigenza più direttamente e specifi-camente plastico – formale” – come, peraltro, asserito daCalvesi - è evidente nella serie successiva delle Piastre. Lageometria formale risulta annullata dalla lacerazione del-la materia o anche dagli strati diversi che, nella densitàstrutturale, costituiscono la profondità dell’opera. Lonta-no dagli aspetti drammatici e dai risvolti esistenziali im-pressi da Burri (1915-1995) nelle sue espressioni artistichee dallo spazialismo di Fontana (1899-1968), egli realizzòpiastre in legno ed in bronzo nelle quali, nella totale visi-

vità compositiva, la tri-dimensionalità è ridottaal piano poiché su di es-so la figura e lo spazioriacquistano, nell’appa-rente bidimensionalitàdella struttura, una valen-za conferita loro dal frasta-gliato contorno e dallosquarcio – più o menogrande – quale continuumtra interno ed esterno. Conl’elaborazione formale,la valorizzazione dellamateria si significa nell’i-dea che, superando leprerogative tecniche estilistiche, assume un si-gnificato metaforico. Tan-to può riscontrarsi nelMonumento ai Caduti di

Cuneo - realizzato, nel 1963, con la collaborazione del-l’architetto Manieri Elia – in cui, nonostante le conside-revoli dimensioni, la piastra acquista monumentalità,

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Non è lecito il pianto

Ratto delle Sabine

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nella forma enel significante.

Dopo unabreve parentesi,durata circa treanni – dal 1963al 1965 - duran-te la quale l’au-tore cercò, pervia diversa, ilconseguimentodegli obiettiviprefissatisi, lasua arte ap-prodò a nuovesoluzioni esteti-che. Il minima-lismo fondatosullo utilizzo diforme elemen-tari ricavate pit-toricamente sudi una sottile ta-vola di legnocostituirono un

ulteriore passo in avanti della ricerca dell’artista salentinoche, medio tempore, sfociò nelle variazioni modulari.

Conseguentemente, le successive forme geometrichesemplici, ricavate per lo più nel legno, nacquero dall’e-sigenza di riconquistare la superficie all’interno dellamateria al fine di produrre oggetti per lo spazio ambien-tale. Così gli oggetti in plexiglas prima e gli “elementimodulati” poi, segnarono una rottura con le precedentiesperienze poiché l’operatore mirò a coinvolgere il frui-tore stabilendo con lui un rapporto dialettico.

All’artista su-bentrò il desi-gner che, figliodel suo tempo,in una societàdinamica –quella deglianni settantadel Novecento- cercò di for-nire risposteal nuovo mo-do di viverecon la realiz-zazione di o-pere costituiteda elementimodulari inacciaio inossi-dabile risultatodi un’ideazio-ne grafica co-

me momento primario rispetto alla successivaesecuzione.

Nel concludere questo breve profilo su Calò e sullasua ricca produzione ribadiamo i nostri convincimenti,auspicando che il nome di questo artista – le cui operesono presenti, in mostra permanente, presso il Comunedi San Cesario di Lecce - valichi i confini del mero pro-vincialismo ed attraverso azioni sinergiche tra le diver-se istituzioni museali possa essere inserito nelladimensione nazionale dell’arte italiana, posto che, di di-ritto, gli compete per quello che fu e per l’originalitàdelle opere che produsse. •

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Ritratto

Biforma - Peperino e bronzo

Domenica Specchia

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Dopo un fortunato percorso scolastico, segnato da-gli eccellenti ritmi pedagogici di bravi insegnanti,Chicco conseguiva la licenza di scuola media in

un contesto storico, economico, sociale ed umano estre-mamente critico e difficile.

La crisi economica postbellica, che attanagliava in parti-colare la povera gente, si faceva ancora drammaticamen-te sentire anche a distanza diqualche anno, nonostante le tes-sere annonarie (autorizzazioniamministrative individuali,composte da cedole staccabili obollini, rilasciate dal Comune adogni famiglia per prelevare dabottegai autorizzati il minimoindispensabile, ma spesso ancheal di sotto, per campare ) e gliaiuti americani con i famosipacchi U.N.R.R.A. del PianoMarshall.

Il Piano era destinato alla ripa-razione degli orrori della guerrae alla ricostruzione … anche del-le coscienze, ancora pericolosamente inquinate da falsi i-deali, ma soprattutto deluse dalle scontate e prevedibilisconfitte militari e dalle arruffate e pasticciate espansioniimperialistiche.

Queste conquiste coloniali (o piuttosto queste barbare earbitrarie violazioni del diritto internazionale) non pote-vano che essere concepite da menti malate, forse per scim-miottare goffamente le follie naziste o forse perchèinvasate da uno spirito di stupida e servile emulazione.

Comunque, ancora oggi, tutti gli italiani, ingiustamente,continuano a rimborsare i danni provocati da quelle im-prese scellerate.

E il prezzo di quel rimborso, a parte quello già pagatocon le illegittime confische dei beni degli italiani ivi resi-denti, è costituito, oggi, da cinque miliardi di dollari discu-tibilmente e frettolosamente concessi alla Libia con tantodi sospette e patetiche scuse, che nemmeno la panacea delcontrollo degli sbarchi clandestini, non ancora bloccati, rie-sce del tutto a giustificare.

Quei danni, invece, dovrebbero essere rifusi dagli irre-

sponsabili di quel Regime o, in difetto, dai loro eredi o…dai loro nostalgici seguaci.

La corruzione e l’imbarbarimento morale, purtroppo, di-rottarono parte di quegli aiuti internazionali sullo squalli-do mercato della borsa nera, che fece arricchire anche aGalatina, come nel resto d’Italia, pochi miserabili strozzi-ni senza scrupoli.

Essi speculavano, senza unminimo di ritegno e senza al-cuna vergogna, favoriti anchedalla collusione degli addettiai lavori e dal disordine civilein cui viveva il Paese, sulla fa-me e sulla miseria dei più de-boli e dei più disperati.

Le consistenti fortune, co-struite con quella pratica tur-pe e odiosa, portarono neltempo, anche in sede locale,alla nascita ingloriosa di qual-che police ‘mpinnatu (pulce ri-coperta di piume, cresciuta

più del necessario e tirata a lu-cido, cioè un arricchito e sedicente nobile senza sangue blù).

E in questo scenario confuso, incerto, precario, senza i-deali e senza riferimenti umani e sociali, consumavano laloro primavera, i loro sogni e le loro speranze i ragazzinidel primo dopoguerra.

Nemmeno i loro primi amori, le prime esperienze senti-mentali, le prime emozioni, che inebriano la mente confu-sa e stordita da dolci pensieri, erano traguardi facilmenteraggiungibili, perché nascevano e subito arrancavano,brancolando, nella cultura della paura, della diffidenza,del sospetto, dell’egoismo e delle difficoltà relazionali.

Eppure quei sentimenti pudichi, candidi e sinceri, a dif-ferenza di oggi, erano pura, romantica poesia, che trovavala sua rima fra i battiti del cuore.

La mano che sfiorava la mano di Lei con un veloce gestofurtivo, una carezza sul viso o sui lunghi capelli neri dai ri-flessi cangianti erano i rari, fugaci contatti meticolosamen-te studiati e a lungo sognati.

Col cuore in gola, come ladri inseguiti dalla disperazio-ne, pur nella speranza di farla franca, quelle prime emozio-

marzo/aprile 2009 Il filo di Aracne 29

“li Banchini”

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SUL FILO DELLA MEMORIA

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ni si potevano avvertire anche durante la ricreazione, lun-go i corridoi dell’Istituto scolastico, in quel misero e breveintervallo di tempo, che i bidelli aguzzini rendevano an-cor più effimero con crudele sadismo… quasi con compia-ciuta cattiveria.

Si aspettava con ansia la proiezione, già da tempo pro-grammata, di un film normalmente a contenuto didattico,quando classi di pari livello venivano concentrate nell’Au-la Magna della scuola.

Un bidello oscurava la sala con tende marrone chiaro,appese alle finestre e appesantite dalla polvere e dall’incu-ria scandalosa di colleghi arroganti in tutt’altre faccendeaffaccendati (la schedina del Totocalcio o il pettegolezzo oil cruciverba) e di bidelle irresponsabili preoccupate solo diarrotondare lo stipendio, sferruzzando sul corredino del-la cummare.

Poi si rimaneva prigionieri del tem-po, pur brevissimo, che intercorrevafra il brusio di avviamento del vec-chio, asfittico, antidiluviano proiettoree la prima immagine che impressiona-va un lenzuolo, che di bianco avevasolo il ricordo, appeso in fondo allaparete.

Proprio in quell’attimo, come ombrefuggenti, ci si passava accanto per sfio-rarsi le mani, o per scambiarsi un bi-glietto che fissava un appuntamento oche conteneva una semplice, innocentee affettuosa frase d’amore.

Il giorno del precetto pasquale di-ventava un’altra sospirata occasioneper stare ( così per dire ) insieme, soloda lontano, da molto lontano.

La Chiesa Madre accoglieva, con mi-stica e rassegnata pazienza, centinaiadi studenti vocianti e festosi, contentipiù per un giorno di vacanza che si aggiungeva a quellepasquali già programmate, che per il momento liturgicoche doveva interessarli.

Le classi, inquadrate militarmente come plotoni di solda-ti, occupavano il gruppo di sedie loro assegnato sotto losguardo vigile dei sacerdoti, insegnanti di religione.

Quella volta Chicco fu fortunato, perché la sorte bene-vola gli assegnò un posto a sedere distante appena una de-cina di metri da Lei.

Tutto il tempo della cerimonia religiosa, inevitabilmen-te, si trasformò in una personale, silenziosa e riservata li-turgia di sguardi e di compiaciuti cenni d’intesa.

Don Pippi, un vulcanico insegnante di religione e giova-ne prete-filosofo piè veloce, era il più vivace, il più attivo, ilpiù battagliero insieme alla sua tonaca confusamente svo-lazzante.

Peccato che la sua omelia dotta, lunga e noiosamente in-comprensibile, era la iattura più logorroica che potesse ab-battersi sulla impaziente smania giovanile degli studenti,che avevano un appuntamento per una partita di calcio a‘retu a ‘li ‘Banchini.

Altri più intraprendenti e fortunati avevano progettatodi fare quattro salti veloci a casa di qualche amica di scuo-

la più emancipata (i genitori erano assenti per qualche oraper motivi di lavoro), dove si ballava al suono di unosgangherato grammofono a manovella (La Voce del Padro-ne) che riproduceva a fatica, a volte singhiozzando per lerigature del disco che la puntina non riusciva a superare,il motivo di “Only you“ con la splendida e irripetibile vo-ce dei Platters.

Al termine della Messa, tutti, comunque, dovevano pri-ma rientrare a scuola per gli auguri di rito e salutare gliinsegnanti.

Anche quella era una delle rarissime occasioni che con-sentiva loro di scambiarsi, con la scusa degli auguri, duedolci, ma brevissimi baci… solo sulle guance, che imme-diatamente si arrossavano, come se un repentino soffio dicalore le avesse schiaffeggiate.

Poi all’improvviso tutti fuori dalleaule ad ondate continue, disordinate,incostanti con intervalli solo di brevisilenzi.

Come stormi di uccelli (i passari casa-luri), che a folate flessuose e fluttuan-ti solcano il cielo di primavera, tutti glistudenti correvano con un frastuonofestoso e incontrollato per i corridoiverso l’uscita, dopo aver ritirato daibanchi le proprie cartelle, quelle dicartone pressato, color marrone scuroe con un coperchio ribaltabile, chiusoda un malfermo bottone a scatto.

Pochissimi, i più facoltosi, possede-vano cartelle di tela, o di stoffa colo-rata.

Qualcuno, più stravagante, usavalegare saldamente libri e quaderni conuna robusta cintura elastica, o di tela,formando un pacchetto che portava aciondoloni sulla spalla, o teneva stret-

to sotto il braccio.Gli zainetti, spesso appesantiti da inutili e voluminosi li-

bri di testo (a volte irresponsabilmente adottati più per col-lusa, opportunistica piaggeria, che per necessità di-dattiche), i quali hanno colpevolmente deformato migliaiadi schiene di studenti, ma costruito la fortuna sfrontatadelle aziende costruttrici e arrotondato i profitti di com-piacenti rivenditori, fortunatamente non erano ancora incommercio!

Durante l’anno scolastico, all’uscita dalla scuola, non erapossibile incrociare nemmeno gli sguardi.

Sua madre si posizionava sul marciapiede di fronte, co-me un centurione romano, e subito la requisiva per portar-la a casa.

Chicco, fermo sul gradino più alto della gradinata dellascuola, mestamente la seguiva con lo sguardo.

Aspettava, come da tacita intesa, che Lei voltasse il capoper un ultimo saluto, che un delizioso e impercettibile sor-riso rendeva meno amaro, prima che sparisse dietro l’an-golo, in fondo alla strada.

Dolcemente appagato, lì rimaneva assorto per un atti-mo, in silenzio. •

30 Il filo di Aracne marzo/aprile 2009

“lu crammòfanu”

Foto di S

alvatore C

hiffi

Pippi Onesimo

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