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Il duca di Feria, governatore di Milano, aveva ricevuto ingenti forze e artiglierie da assedio,

più un bravo consigliere e capitano: don Gonsalvo da Cordova.

Ora l’intento degli Spagnoli era portare la guerra nei territori da dove era partita, cioè il

Piemonte; e il loro obiettivo fu la fortezza sabauda di Verrua. All’epoca la fortezza doveva

essere poco più di un antiquato castello, pur ben arroccata sulla collina era ancora priva delle

formidabili difese alla moderna che ebbe in seguito.

Gli spagnoli, attraversato il Po presso Pontestura, si avvicinarono a Verrua attraverso le colline

del Monferrato settentrionale.

Prima dell’investimento spagnolo, Vittorio Amedeo era riuscito a introdurre nella piazza 1000

soldati, comandati dal marchese di Saint Rerain.

Carlo Emanuele, il figlio, il Lesdiguières e il Crequì con un grosso contingente francese si

posero a Crescentino. Luigi XIII aveva ordinato di non lasciar cadere Verrua.

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A metà agosto 1625 il duca di Feria diede inizio ai lavori di assedio, condotti con notevole

dispiegamento di forze.

L’assedio fu durissimo: furiosi combattimenti, sortite audaci, azioni di batterie di breccia e

impiego di contromine per contrastare gli attacchi di mina.

Fallito un assalto generale, il duca di Feria fu costretto ad proseguire l’assedio e vide

rapidamente diminuire le sue truppe per il fuoco di difesa della fortezza, le malattie, le piogge

ed il clima rigido della stagione autunnale.

Le difese franco-sabaude fecero il loro dovere; Vittorio Amedeo fu ferito in un’azione lungo il

fiume. Le forze del Duca e del vecchio Lesdiguière, schierate a Crescentino, a poca distanza

da Verrua, dettero non pochi problemi agli Spagnoli.

A inizio novembre il duca di Feria ordinò l’abbandono dell’assedio e cedette il comando a don

Gonsalvo da Cordova. Il 15 novembre le truppe spagnole iniziarono quindi a rientrare nel

ducato di Milano.

Gli Spagnoli lasciarono a Verrua materiali d’assedio, artiglierie, feriti e ammalati. Circa 20000

furono i morti.

Col senno di poi si può dire che questo assedio fu un errore madornale da parte degli Spagnoli,

vittoriosi sul campo di battaglia aperto, ma fermati e poi sconfitti in una guerra di assedio.

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In questa stampa di fine ‘600 vediamo la collina e la fortezza di Verrua come fu poi

trasformata nel corso di quel secolo, con l’aggiunta di bastioni alla moderna.

Riassumendo quanto detto, due furono i luoghi di strenua resistenza nel periodo che va sotto il

nome di “Guerra di Valtellina”: il primo fu Riva (difesa dagli Spagnoli) che impedì ai Francesi

di entrare nel Ducato di Milano; il secondo fu Verrua, che rappresentò la salvezza del

Piemonte e dello Stato sabaudo.

Con l’inizio dell’inverno 1625-26, come era quasi di prassi in quei tempi, le azioni di guerra

cessarono in attesa della bella stagione successiva; questa volta però arrivò la pace.

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Il 6 marzo 1626 Francia e Spagna firmarono segretamente a Monzon, un piccolo paese in

Aragona prossimo ai Pirenei, un trattato di pace.

L’evento causò forte sorpresa negli alleati dei due Paesi, che non erano stati avvertiti. Il conte-

duca Olivares fu protagonista di quel trattato, che fu nella sostanza favorevole alla Spagna, per

la sistemazione della Valtellina e del Genovesato. Il Cardinale di Richelieu non ottenne

altrettanti vantaggi, ma Richelieu aveva bisogno della pace esterna per concentrarsi sui

problemi interni della Francia, ad iniziare dall’eliminare la potenza degli Ugonotti.

Nella figura, Gaspar de Guzmán y Pimentel, conte-duca di Olivares ( 1587-1645), primo

ministro di Filippo IV dal 1621 al 1643, in un ritratto di Diego Velàsquez.

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Le principali decisioni sancite con il trattato di Monzon sono le seguenti::

- Ripristino delle condizioni anteriori al 1617 per la popolazione dei Grigioni in Valtellina.

- Libero passaggio delle truppe francesi nella Valtellina.

- Sola religione permessa in Valtellina: quella cattolica.

- Le popolazioni dei Grigioni viventi nella Valtellina sono sottoposta alla magistratura e alle

leggi dei

Valtellinesi.

- I forti della Valtellina sono consegnati al Papa, che è anche incaricato a distruggere quelli

costruiti dopo il 1620.

- In Valtellina non potranno più essere stanziate guarnigioni dei Grigioni.

- Sulla controversia tra il Duca di Savoia e la Repubblica di Genova, i due Re si accordano per

una tregua di 4 mesi; durante questa tregua saranno eletti due arbitri per comporre la

controversia.

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Tutti gli alleati di Francia e Spagna furono in qualche modo scontenti del trattato.

Il Papa Urbano VIII, per esserne stato escluso dopo aver operato per la riconciliazione, e per

l’umiliante incarico di doversi occupare del “deposito e demolizione” dei forti valtellinesi.

Carlo Emanuele, I per essere stato abbandonato dalla Francia, cosa che lo porterà a

riavvicinarsi alla corte spagnola. Proprio nei giorni della firma del trattato di Monzon Vittorio

Amedeo era a Parigi per rinnovare l’alleanza e riprendere la guerra!

I Genovesi, che avevano avuto centinaia di villaggi e paesi distrutti ed incendiati e che

avrebbero voluto far ripagare al Duca di Savoia i torti subiti. Per questi motivi ruppero la

tregua fissata a Monzon: a più riprese invasero i territori della contea di Tenda e continuarono

le azioni di guerriglia ai confini del Ducato.

La Corte di Spagna richiamò il Duca di Feria, considerato responsabile dei fatti di Valtellina,

dovuti più all’iniziativa personale del Duca che alla volontà della Casa Reale di Spagna, e lo

sostituì “pro tempore” con Don Gonsalvo de Cordova

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Nel 1625 i Protestanti del nord ripresero le ostilità contro l’Impero; alla loro guida si era posto

il re di Danimarca Cristiano IV.

A capo dell’esercito dell’Imperatore vi era il boemo Alberto di Wallestein.

Wallestein sconfisse Cristiano IV, occupò alcune città del Baltico in territorio danese. In

premio ricevette dall’Imperatore il titolo di Generale del mare del Nord e Baltico (1628).

Cristiano IV successivamente tentò di invadere la Pomerania, ma fu nuovamente sconfitto da

Wallestein. Il re di Danimarca fu allora costretto alla pace (Lubecca 1629) e dovette rinunciare

alla pretesa sui vescovati tedeschi.

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Il 21 settembre 1626 moriva, all’età di 83 anni, François de Bonne, duca di Lesdiguières,

prima irriducibile capo ugonotto, poi uno dei più forti pilastri della potenza militare del Regno

di Francia. Pare che negli ultimi tempi si fosse convertito al cattolicesimo ad opera di

Francesco di Sales; quest’ultimo, poi proclamato santo, aveva il titolo nominale di Vescovo di

Ginevra, pur non essendo mai stato in quella città, dominata dai calvinisti).

Nella fotografia vediamo il palazzo che il Lesdigueres si era fatto costruire a Vizille, presso

Grenoble, ora sede di un bel Museo della Rivoluzione Francese.

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In questa diapositiva vediamo gli ultimi discendenti del ramo principale dei Gonzaga.

Nell’ottobre 1626 morì Ferdinando Gonzaga, il fratello di Francesco IV deceduto pochi anni

prima. Ferdinando era ancora giovane, aveva 39 anni; era stato cardinale e aveva poi sposato

Caterina de’ Medici, figlia del granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici, ma non aveva

figli.

L’unico erede era il fratello Vincenzo, che aveva 7 anni meno di lui. Anche Vincenzo era stato

cardinale; aveva poi lasciato la porpora per sposare Isabella Gonzaga di Novellara (che aveva

18 anni più di lui). Era anche lui senza eredi ed attendeva l’annullamento del suo matrimonio

da parte della Sacra Rota.

Nel convento di S. Orsola a Mantova era custodita Maria la figlia 17enne di Francesco IV, il

precedente duca, (fratello di Ferdinando) e di Margherita di Savoia. Maria era l’unica erede

diretta dei Gonzaga.

Alla morte di Vincenzo il Ducato passerà al ramo francese, con Carlo di Gonzaga Nevers-

Rethel, il cui figlio, Carlo di Rethel, aveva sposato Maria. Nel 1627

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Nel 1625, cioè l’anno prima della sua morte, Ferdinando aveva fatto venire dalla Francia

Carlo di Rethel all’epoca 19enne, figlio di Carlo Gonzaga, duca di Nevers. Egli apparteneva

ad un ramo ormai francesizzato dei Gonzaga (il padre Carlo era a sua volta figlio di Ludovico

Gonzaga, terzogenito dei duchi di Mantova, che all’età di soli 10 anni era emigrato a Parigi nel

1549, dove aveva fatto fortuna). In questo modo i Gonzaga-Nevers sarebbero diventati duchi

di Mantova se Vincenzo non avesse avuto eredi.

Alla Corte di Mantova si pensava anche al matrimonio tra Carlo di Rethel e la giovane Maria.

Vincenzo Gonzaga quando diventò Duca, ed era già malato, obeso e distrutto dai vizi; pensò

ad un matrimonio con Maria, appoggiato in questo dalla ex duchessa Margherita (filo-spagnola

che non voleva imparentarsi con i Francesi). Ma Vincenzo doveva prima risolvere il suo

precedente matrimonio con Isabella Gonzaga.

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Luigi XIII e Richelieu appoggiavano ovviamente i Gonzaga-Nevers, in quanto ormai francesi.

Con loro Mantova sarebbe entrata nell’orbita francese. Con il loro appoggio, Carlo di Nevers

spingeva per il matrimonio del proprio figlio Carlo di Rethel con Maria Gonzaga.

L’Impero (con Ferdinando II) e la Spagna erano invece ostili a questa soluzione e premevano

per la successione al Ducato da parte di Ferrante Gonzaga, del ramo di Guastalla.

Il papa Urbano VIII, filo francese, era favorevole ai Gonzaga-Nevers e al matrimonio fra Carlo

di Rethel e Maria.

Carlo Emanuele I, interessato al Monferrato e di fronte ad una situazione non chiara, non

aveva ancora preso una decisione definitiva: cercava un accordo sul Monferrato con il duca di

Nevers, ma manteneva negoziati con la Spagna.

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Vincenzo Gonzaga morì il 25 dicembre 1627, senza eredi. Poco prima di spirare, aveva approvato il

matrimonio di Carlo di Rethel con Maria Gonzaga. Il primo Never a diventare duca di Mantova e del

Monferrato fu Carlo (il padre, 1580-1637) già duca di Nevers e Rethel, che all’epoca aveva 47 anni.

Alla sua morte nel 1637 gli successe il figlio, che nel 1627 aveva sposato Maria Gonzaga, nipote di

Carlo Emanuele I.

La Spagna si dichiarò contraria alla decisione matrimoniale e alla successione scelta.

Carlo Emanuele, non piacendogli l’idea di avere i Francesi nel Monferrato, si allineò con gli Spagnoli

e pianificò con Don Gonsalvo, governatore di Milano, la spartizione delle terre monferrine.

Ecco dunque che Carlo Eamanuele è di nuovo pronto a lanciarsi in un’altra avventura di guerra! Ma va

chiarito subito che la spinta maggiore per questa decisione venne dalla Spagna, più che mai decisa a

non ritrovarsi i Francesi vicino al suo ducato di Milano!

Il 25 dicembre 1627. tra Carlo Emanuele e don Gonsalvo de Cordova fu firmato un patto contro la

proclamazione unilaterale da parte della Francia del nuovo duca di Mantova. Questa proclamazione era

avvenuta senza neppure informare la Spagna, l’Impero, il ducato di Milano e Carlo Emanuele, i cui

ambasciatori pure si trovavano in Mantova in quel momento.

Il patto tra il Duca di Savoia e don Gonsalvo prevedeva la spartizione del Monferrato tra Spagna e

duca di Savoia:

- Alba, Trino, San Damiano, Moncalvo e altre terre sarebbero andate al duca di Savoia;

- Casale (la capitale monferrina), Pontestura, Nizza della Paglia, Acqui, Ponzone e terre limitrofe

sarebbero toccate alla Spagna.

All’inizio del 1628 si attendeva solo la stagione propizia per dare corso alle azioni di guerra.

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Giulio Cesare Vachero (Sospello, 1586 - Genova 1628) discendeva dall'antica famiglia

Vachieri di Sospello, famiglia che verrà ricordata con il titolo baronale di Chateauneuf. Lui

stesso infatti viene ricordato come oriundo di Sospello nella Contea di Nizza, parte dei domini

dei Savoia. Fin dal 1200 questa famiglia aveva delle proprietà nella zona di via del Campo a

Genova: la Porta dei Vacca prende questo nome proprio da questa famiglia.

Il Vachero è ricordato per essere stato il principale esponente del complotto (detto la

"Congiura del Vachero") ordito nel 1628 contro la repubblica di Genova a favore dei Savoia,

che volevano impadronirsi del territorio ligure. Vachero era stato a Torino nel febbraio 1628;

aveva mantenuto segreti contatti con il duca di Savoia e aveva accolto nascostamente in casa

Giovanni Ansaldi, nativo di Voltri, ma vivente a Torino ed emissario del Duca Carlo

Emanuele I, dal quale aveva avuto il titolo comitale. La progettata rivolta in città si proponeva

il rovesciamento dell’ordine costituito, l’uccisione dei capi del governo e dei nobili e quindi la

fine della Repubblica oligarchica. Avvenuta la rivolta in città, si sarebbe avvertito il principe

Vittorio Amedeo, pronto ad accorrere con truppe da Acqui e da Alba.

La congiura fu scoperta la sera del 31 marzo 1628, grazie alle rivelazioni di esponenti implicati

nella rivolta. I congiurati furono arrestati e giustiziati il 31 maggio. Il Vachero, riconosciuto

capo della rivolta e anche lui giustiziato, ebbe la casa rasa al suolo e al suo posto fu eretta una

"Colonna infame", a perenne memoria del tradimento. La colonna esiste ancora in piazza del

Campo e per nasconderla i suoi discendenti ottennero la possibilità di costruire una grande

fontana.

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Con l'Editto di Nantes, Enrico IV di Francia aveva concesso agli Ugonotti ampi diritti, compreso alcune

piazzaforti “di sicurezza”. La Rochelle, a quel tempo una città tra le più popolose della Francia con circa

30000 abitanti, era stata una delle fortezze concesse agli Ugonotti francesi. Essa divenne ben presto il centro

della flotta ugonotta e diverrà uno dei più attivi punti di resistenza al governo centrale quando si

riaccenderanno le azioni contro gli Ugonotti.

L’assassinio di Enrico IV (1610) e la salita al trono di Luigi XIII sotto la reggenza di Maria de’ Medici,

segnò il ritorno al potere della fazione cattolica e l’indebolimento di quella protestante, con conseguenti

mosse da parte del governo centrale per attenuare le concessioni fatte con l’editto di Nantes, accusando gli

Ugonotti di attività contro l’interesse della Francia.

I fratelli Enrico II duca di Rohan e Beniamino duca di Rohan-Soubise riorganizzarono la ribellione

protestante. Nel 1621 Luigi XIII assedia e conquista la base ugonotta di Saint-Jean-d'Angély, e nel 1621-22

tenta un primo blocco del porto di La Rochelle. Questa fase della lotta si conclude poi con un nulla di fatto e

con la firma del Trattato di Montpellier.

Rohan e Soubise presero le armi nuovamente nel 1625; come reazione Luigi XIII prese loro l'Ile de Ré,

piccola penisola di fronte a La Rochelle. Dopo questi eventi, Luigi XIII era intenzionato a sottomettere

definitivamente gli Ugonotti ed il suo primo ministro, il cardinale Richelieu, decretò la soppressione delle

rivolte ugonotte quale principale priorità nella politica del regno di Francia.

Intanto la Francia aveva rafforzato la propria flotta e firmato l’accordo di Monzon con la Spagna. Questi due

eventi avevano scatenato le ire del nuovo re d’Inghilterra Carlo I che si era convinto a rientrare in guerra

contro la Francia. Carlo I inviò (giugno 1627) una flotta al comando del suo favorito, il duca di Buckingham,

per incoraggiare la ribellione de La Rochelle. Questa città nell’agosto del 1627 fu assediata da Luigi XIII.

Il duca di Buckingham occupò l'Île de Ré, diede l’assedio a Saint-Martin-de-Ré (paesino delll'Île de Ré),

difesa dal generale Toiras, ma dopo tre mesi fu cacciato dalle truppe reali francesi e tornò in Inghilterra.

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La piazzaforte ugonotta de La Rochelle durante l’assedio da parte delle truppe di Luigi XIII e

Richelieu.

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Le forze reali francesi con forze ingenti e sotto il diretto comando del cardinale Richelieu

avevano cinto d’assedio La Rochelle (agosto 1627).

Una volta iniziate le ostilità, gli ingegneri francesi isolarono la città con una linea di

circonvallazione di 12 chilometri, la costruzione di 11 fortini e 18 torri. Le costruzioni furono

terminate nell'aprile del 1628, quando l'armata d’assedio raggounse i 30.000 uomini.

Fu anche costruita una gigantesca diga marina galleggiante (così da non essere sommersa dalla

marea atlantica) realizzata in legnami e palafitte, lunga 740 tese (quasi 1,5 km, essendo 1tesa =

1,949m) e larga 12 tese alla base (23m) . La diga bloccava l'accesso dal mare aperto al porto

della città.

Dopo due tentativi inglesi di soccorso, non riusciti, e dopo 14 mesi di assedio La Rochelle fu

costretta ad arrendersi per fame il 28 ottobre 1628, la popolazione era ridotta da 30000 a 5000

abitanti.

Con la pace di Alès (o di Alais, anche conosciuta come Édit de Grace) del 28 giugno 1629,

negoziata dal cardinale di Richelieu, Luigi XIII confermò i principi di libertà dell’editto di

Nantes, aggiungendo però clausole addizionali che prevedevano per gli Ugonotti la rinuncia a

ogni diritto politico e la cessione immediata di ogni città e fortezza da essi controllata. La pace

pose fine alle guerre di religione che avevano dilaniato la Francia, regolando la posizione degli

Ugonotti nel regno fino ai tempi di Luigi XIV.

Richelieu poté, alla fine del 1628, dedicarsi nuovamente alla situazione italiana, con abilità e

scaltrezza.

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La decisione della Spagna e poi quella di Carlo Emanuele di intervenire contro Mantova e il

Monferrato era anche motivata dal fatto che i Francesi erano seriamente impegnati intorno a

La Rochelle.

Gli obiettivi primari erano Casale e Mantova. Queste due formidabili fortezze rappresentavano

una minaccia francese all’interno della stessa Italia. Il duca di Savoia tentò dapprima una

soluzione “amichevole” col duca di Nevers sulla questione del Monferrato. Viste le

tergiversazioni di Mantova (si discuteva se il feudo fosse “femminino” o “mascolino”) passò

all’azione, come era già successo 15 anni prima… Nell’aprile 1628 Carlo Emanuele occupò

rapidamente in successione Trino, Alba, Moncalvo e San Damiano.

La conquista di Moncalvo e del suo castello fu opera del principe di Piemonte Vittorio

Amedeo

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Gli Spagnoli, secondo gli accordi, invasero il Casalese, conquistarono Nizza della Paglia e si

portarono sotto la capitale del Monferrato: Casale.

Gli Spagnoli erano difesi e spalleggiati dall’Imperatore Ferdinando II, che li sosteneva

affermando che a lui sarebbe spettata la decisione sull’investitura del ducato di Mantova e del

marchesato del Monferrato, in quanto erano feudi imperiali.

Il duca di Nevers, chiuso in Mantova, richiese aiuto a Luigi XIII, in quel momento ancora

impegnato a La Rochelle con il suo ministro Cardinale. Per il momento quindi non poté

inviare soccorsi.

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Casale fu posta sotto assedio da don Gonsalvo de Cordova con forze insufficienti.

Ben altre forze sarebbero state necessarie per poter prendere quella città fortezza. La città era ben difesa dalle

poderose mura fatte costruire da Vincenzo Gonzaga il secolo precedente; disponeva di una cittadella e di una

buona guarnigione sotto il comando del generale Giovanni Tommaso, marchese di Canossa.

Manzoni, all’inizio del capitolo XXVII de “I Promessi Sposi”, così sintetizza la vicenda con la consueta ironia,

mettendo alla berlina l’inefficacia tattica e militare di don Gonzalo nell’assedio di Casale.

“Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del

duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non

abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all'intelligenza del nostro racconto si richiede

proprio d'averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome,

per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non possa esser letta se non da

ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n'avesse bisogno.

Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un

ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di

Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna. La corte

di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e

per escluderlo aveva bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era

dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di

Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena.

Don Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in

Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si

dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col

duca di Savoia un trattato d'invasione e di divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la

ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il punto più difeso della

parte pattuita al re di Spagna.

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(Segue testo del Manzoni)

Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza

dell'imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata

l'investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le

parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s'era voluto piegare.

Aveva anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa, ch'era, come abbiam

detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una guerra con l'Inghilterra,

attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers,

non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito

francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col

governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i

momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti

d'accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.

Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa concertata. Il duca di Savoia era

entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non ci

trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte

non l'aiutava a seconda de' suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava troppo:

voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don

Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo

Emanuele, così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva

chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, e per il

contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti

spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente

così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo

di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti ricevette la

nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona.”

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Quando la Rochelle stava per cedere, nell’agosto 1628, fu inviato a casale il primo soccorso

dalla Francia, al comando del marchese di Uxelles; era costituito da 14mila uomini, per la

maggior parte della milizia, non certamente le truppe migliori.

Per il valico delle Alpi fu scelto il Passo dell’Agnello in Val Varaita (allora francese dal passo

sino a oltre Casteldelfino). Il Marchese pensava probabilmente che la zona non fosse

presidiata (o lo fosse poco) da truppe sabaude; confidava di raggiungere la pianura senza

troppi intoppi e poi portarsi a Casale. Ma Carlo Emanuele gli bloccò il passo a Sampeyre e

Vittorio Amedeo con altre truppe, avanzando a mezza costa, assalì i Francesi sui lati e li mise

in rotta. I pochi resti francesi ripassarono la catena alpina in disordine.

Il successo sabaudo fu salutato con grande tripudio dagli spagnoli. Filippo IV dichiarò che

avrebbe desiderato servire lo zio Carlo come soldato con la picca in mano …

Il decisivo attacco di Carlo Emanuele I avvenne nella piana di Villar.

Si contarono circa 600 tra morti e feriti. Il paese di Villar, ad eccezione della Chiesa, fu

completamente distrutto.

In questa campagna di guerra questo fu l’unico episodio favorevole ai Savoia: ben presto,

risolto l’assedio de La Rochelle, gli eventi prenderanno una piega decisamente più pesante per

il Duca.

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Nel gennaio 1629 il cardinale di Richelieu scrisse al suo re Luigi XIII:

“Sire adesso che La Rochelle è caduta, è ora che Voi rivolgiate il vostro sguardo all’Italia

oppressa dalle armate di Spagna e di Savoia”.

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Nell’inverno tra il 1628 ed il 1629 il Cardinale aveva ammassato un grande quantità di truppe

vicino a Briancon, queste a scaglioni valicarono il passo del Monginevro e nel febbraio 1629 i

francesi arrivarono a ridosso del confine sabaudo (tra Chiomonte e Gravere). Va ricordato che

allora la Valle di Susa fino appunto a Chiomonte era sotto la Francia.

La zona era stata munita da Carlo Emanuele I di una serie di ridotte e fortificazioni campali

(“trincerone” o “barricate”). In quei mesi c’erano state degli incontri e trattative tra Vittorio

Amedeo e il Cardinale ministro, ma furono inutili. Il duca intendeva prendere tempo, era

rimasto sorpreso dalla rapidità con cui i Francesi si erano portato a ridosso del confine col

Piemonte.

Il 6 marzo l’armata francese, con Richelieu e Luigi XIII, con i generali Enrico II di

Montmorency e il marchese d’Efflat attaccò Carlo Emanuele I e superò il “trincerone”,

respingendo il duca nella bassa valle di Susa, e dopo la sconfitta di Gravere il Duca fu

costretto a ritirarsi ad Avigliana.

Ben 35mila fanti e 3mila cavalieri Francesi stazionavano ormai verso Bussoleno, quasi in

attesa che il duca venisse a più miti consigli, e la situazione del Duca era disperata.

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Carlo Emanuele non aveva scelta, gli Spagnoli erano lontani. Cercò quindi di trattare, ma

Richelieu non gli lasciò molto spazio: l’11 marzo a Susa si firmarono due trattati:

Il primo Trattato stabiliva: libero passaggio dei Francesi sulle terre ducali verso il Monferrato;

passaggio di Susa ai Francesi; restituzione di Alba e Moncalvo. Il Duca si impegnava inoltre a

convincere la Spagna a togliere l’assedio a Casale.

Il secondo Trattato stabiliva: creazione di una “lega” contro la Spagna, tra Francia, duca di

Savoia, Venezia e Urbano VIII.

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Carlo Emanuele I doveva convincere gli Spagnoli e l’Imperatore, difendere il ducato di

Mantova e abbandonare terre appena conquistate. Unica acquisizione sarebbe stata Trino

(Trattato di Bussoleno del 10 maggio).

Il governatore di Milano don Gonzalo de Cordoba, senza aiuti, abbandonò l’assedio di Casale,

accettando l’imposizione francese.

L’Imperatore Ferdinando II non accettò il trattato di Susa e inviò forze imperiali (i famosi

“lanzichenecchi”) per porre l’assedio a Mantova attraverso la Valtellina agli ordini del veneto

Rambaldo di Collalto.

Anche Filippo IV di Spagna non accettò le condizioni: sostituì Don Gonsalvo con Ambrogio

Spinola che riprese l’assedio di Casale con forze spagnole e imperiali appena giunte.

Nel cap. XXX dei Promessi Sposi scrive il Manzoni sulla discesa dell’esercito imperiale in

Valtellina:

“Passano i cavalli di Wallestain, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt,

passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa

Altinger, passa Fustenberg, passa Colloredo, passano i Croati, passa Torquato Conti,

passano altri e altri; quando piacque al cielo passò anche Galasso, che fu l’ultimo”.

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All’inizio del 1630 il Cardinale tornò in Italia con una grossa armata. Fu nominato

generalissimo da Luigi XIII.

Richiese il transito in bassa Val Susa a Carlo Emanuele I per recarsi a liberare Casale, il Duca

tergiversò.

Carlo Emanuele I sperava nel concreto aiuto militare dello Spinola e del Collalto; questo aiuto

non fu però inviato.

Carlo Emanuele bloccò allora il Richelieu ad Avigliana e concesse solo il transito di

avanguardie francesi via Condove-Caselette (via che era più malagevole che quella da

Avigliana).

Nella figura vediamo un ritratto di Ambrogio Spinola (1569-1630), generale genovese al

servizio di Spagna, fra i più celebri del suo tempo.

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Richelieu non voleva arrischiare una avanzata nella pianura verso Casale lasciandosi alle

spalle Avigliana e l’esercito del Duca, composto da 12mila uomini.

Il Cardinale tentò con ogni mezzo di sbloccare la situazione: minacce, azioni diplomatiche, e

persino progetti di rapimento e attentati contro il Duca e il figlio; questi che furono sventati

grazie ad una ‘soffiata’ del generale francese Enrico II di Montmorency, amico di lunga data

del Duca.

Alla fine, nel marzo 1630, Richelieu fece spostare l’asse operativo e puntò su Pinerolo.

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Richelieu, constatando che la strada verso la pianura era stata bloccata dal Duca, ad Avigliana,

ordinò al maresciallo Créqui di operare una diversione sulla Valle Chisone, per attaccare

Pinerolo.

La piazzaforte, difesa dal governatore Urbano di Scalenghe, dopo una resistenza di 10 giorni,

fu costretta ad arrendersi il 31 marzo 1630.

Si era così aperta la via per l’invasione della pianura piemontese. Le campagne furono

saccheggiate dai soldati francesi, case e villaggi bruciati.

I soldati francesi diffusero il terribile flagello della peste che iniziò a mietere centinaia di

vittime in tutti i paesi occupati.

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Presa Pinerolo, i Francesi puntarono a ricongiungersi con le truppe che erano in valle di Susa.

Un contingente francese guidato dal duca di Montmorency partì da Pinerolo il 12 maggio

verso Piossasco e Trana e, benché ostacolato da truppe ducali di V. Amedeo, arrivò sotto le

mura di Giaveno, che fu presa il giorno successivo, dopo un assedio durato poche ore.

Intanto Carlo Emanuele si era ritirato a Pancalieri, in attesa delle mosse francesi e di un aiuto

da parte degli Spagnoli. Si incontrò poi a Carmagnola con i comandanti imperiali Collalto e

Spinola. Questi, superbi e circospetti, constatarono che la guerra, che essi si attendevano a

Casale e nel Mantovano, si era fermata in terre sabaude e non ritennero necessario fornire aiuti

allo sfortunato duca di Savoia.

Richelieu, vincitore, tornò in Francia lasciando il completamento dell’opera ai suoi generali.

Il 10 luglio i francesi del Montmorency scesero da Susa, si scontrarono con le truppe del duca

di Savoia nella battaglia di Avigliana riunendosi in tal modo ai contingenti di Pinerolo e

Giaveno.

In successione i francesi poi presero Reano, Bricherasio e Saluzzo. Carlo Emanuele stava

perdendo tutti i suoi territori.

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La battaglia di Avigliana del 10 luglio del 1630, in una incisione di Jacques Callot.

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Luigi XIII e Richeleu condussero un’offensiva in Savoia; presero Chambéry il 17 maggio

1630 e assediarono Montmélian.

Sotto assedio per 13 mesi, la fortezza non capitolò, per merito anche del governatore Goffredo

Benso di Cavour, e i Francesi furono costretti ad abbandonare l’assedio.

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Rambaldo di Collalto aveva investito Mantova con i terribili ”Lanzichenecchi”. Con lui erano i

generali Galasso e Aldringer.

La città era duramente colpita dalla peste; Veneziani e Francesi collaboravano alla difesa. Il

duca Carlo di Rethel, la moglie Maria e i 2 figli erano fuggiti nelle terre del Papa, mentre in

Mantova era rimasto il padre, anche lui di nome Carlo (ramo Gonzaga Nevers).

Veneziani e Francesi tentarono un soccorso alla città, partendo da Goito, ma furono annientati

a Valeggio il 25 maggio 1630.

La notte del 18 luglio la città fu presa dai Tedeschi con un’abile azione. L’attacco principale fu

condotto presso porta San Giorgio vanamente difesa dalle truppe assediate guidate dal duca

Carlo Gonzaga Nevers ,che venne ferito e fu costretto a ritirarsi a Goito.

Fu il sacco più crudele e disumano del secolo, con 3 giorni di violenze e saccheggi; molti

tesori d’arte andarono dispersi e distrutti; per 14 mesi la città fu taglieggiata dalle forze

imperiali (questo periodo fu chiamato del “Governo Cesareo”).

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Carlo Emanuele si era ritirato a Savigliano, dove stava raccogliendo milizie per una

controffensiva.

Il suo quartier generale era nel Palazzo Cravetta, situato in via Jerusalem.

Lì gli giunse la triste notizia del sacco di Mantova.

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Poco dopo il Duca fu colpito da una pleurite (ma forse era peste) che lo bloccò a letto per 3

giorni.

Il 26 luglio, essendosi il male aggravato, Carlo Emanuele I, nonostante i figli lo scongiurassero

di restare a letto, volle alzarsi, dicendo che non poteva ricevere un così tanto Re stando nel

letto. Cinse la spada, indossò il manto, si ornò del Collare della Ss. Annunziata, chiese il

viatico e poi spirò.

Era nato il 12 gennaio 1562 a Rivoli, moriva il 26 luglio 1630 a Savigliano.

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La leggenda vuole che una zingara avesse predetto a Carlo Emanuele che la sua morte sarebbe

avvenuta a Gerusalemme. Per prudenza, gli si era guardato bene dal compiere viaggi in quella

città. Per ironia della sorte, la sua morte a Savigliano avvenne nel Palazzo Cravetta, che si

affaccia proprio sulla via Jerusalem.

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La tomba di Carlo Emanuele I si trova nel santuario di vicoforte.

Il santuario di Vicoforte, presso Mondovì, fu voluto e iniziato da Carlo Emanuele I nel 1596.

Il duca di Savoia voleva dedicarlo al culto della Madonna e farne la tomba dei Savoia.

Il santuario fu terminato dopo 2 secoli, nel 1773.

Autore del progetto e della prima parte neoclassica, in arenaria, è l'architetto Ascanio Vitozzi

di Orvieto. La parte superiore barocca, in cotto, è opera di Francesco Gallo di Mondovì. Il

Santuario di Vicoforte, vicino a Mondovì, com’è oggi; di fronte alla chiesa vi è una grande

statua che raffigura Carlo Emanuele I.

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