Anghelos nuovo - 10 righe dai libri...9 i saccheggi di Radu Dracula, fratello di Vlad III....

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ISBN: 978-88-7615-380-8

I edizione: marzo 2010© Alberto Castelvecchi Editore

Ultra è un marchio di Alberto Castelvecchi Editore

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Alessia Rocchi

AnghelosIl Libro Oscuro di Dracula

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«Solo contro tutti. Solo contro la Storia.Mi avete abbandonato tutti,

quando avete capito che ero forte…».

MARIN MINCU, Il diario di Dracula

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Prologo

La sepoltura

Isola di Snagov,Anno Domini 1476

l riflesso del tramonto si specchiava sul lago. Accanto alla sagoma del sole che

andava a morire dietro le montagne, splendeva la falce della luna.

Petru sollevò il viso verso l’isola e diede un vigoroso colpo di remi. Accanto al ti-

mone, gli occhi grigio celesti del Conte scrutavano la croce ripiegata sul campanile

della piccola chiesa al centro dell’isola. Una folata di vento spostò i lunghi capelli cor-

vini dinanzi al viso, svelando una tensione che l’ampio mantello nero foderato di pel-

liccia di lupo non riusciva a trattenere. Dal momento in cui era salito sulla barca, il

Conte non aveva detto una parola. I colori delicati del cielo sfumavano nel pallore

spettrale del suo volto. Le nere sopracciglia erano aggrottate, gli occhi ridotti a due fes-

sure. Di tanto in tanto abbassava lo sguardo sul cadavere avvolto in un sudario di cui

si era eletto custode nel corso di quel macabro viaggio.

Le acque del lago iniziarono a gonfiarsi, e il fruscio degli alberi divenne più forte a

mano a mano che si avvicinavano all’isola. I cipressi si piegavano in avanti come tetri

giganti addormentati, sullo sfondo di un cielo che andava colorandosi di viola. Il con-

te Ánghelos alzò la testa e, senza farsi notare da Petru, si tolse dagli occhi il ghiaccio

che si formava ogni volta che tentava di piangere. Guardò dritto davanti a sé. L’isola di

Snagov appariva ancora più bella e misteriosa di quanto ricordasse. Una folta vegeta-

zione ricopriva la riva, a eccezione di un punto roccioso, là dove avrebbero attraccato.

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Petru affondò i remi sfiorando le pietre sott’acqua, poi s’infilò in una specie di fior-

do e subito dopo la barca toccò la risacca.

L’Ánghelos prese il cadavere tra le braccia e attese che il traghettatore legasse la

corda a un palo; poi, gli fece cenno di precederlo. S’inoltrarono nel bosco, in uno

stretto sentiero dove pozze di fango rendevano difficoltoso il passaggio e la luce non

riusciva a sfiorare il terreno coperto da un tappeto di foglie. Il Conte s’inclinò al-

l’indietro e piegò le gambe per sostenere il peso del corpo, poi proseguì arrancando

nella melma fino al campanile. Sulle mura s’intravedevano segni di saccheggi e d’in-

curia, profonde lesioni zigzagavano sulle pareti della chiesa vicina.

All’improvviso, urla. Quattro soldati con corazza e ginocchiera sbucarono dall’om-

bra gridando; le fiaccole splendevano sulle lame delle spade. Il primo soldato si lanciò

verso Petru, mentre gli altri circondarono il Conte. Il traghettatore riuscì a evitare un

fendente, colpendo a sua volta nella fessura dell’armatura tra lo sterno e il collo.

«Dietro di voi, signore», urlò Petru estraendo la spada dal cadavere. Il Conte, che

aveva già ucciso due soldati, si voltò.

«No!». Il suo grido disumano squarciò l’aria con la violenza di un boato: il quar-

to soldato teneva le braccia piegate all’indietro, pronto a sferrare un micidiale colpo

di spada. Trascorse un istante che parve un’eternità ma, proprio quando l’arma sta-

va per colpire, qualcosa gli bloccò le braccia, e una mano gli strinse il collo sollevan-

dolo. Due fiamme grigio celesti gli bruciarono l’anima. Il soldato lasciò cadere la spa-

da e provò ad allentare quella presa micidiale, ma le unghie di Ánghelos gli si con-

ficcarono come artigli nella giugulare; un gorgoglio strozzato, poi uno scricchiolio. Il

Conte lo lasciò andare, e il soldato cadde ai piedi di Petru. Il traghettatore rabbrividì

guardando il Conte. Quel viso meraviglioso era divenuto d’un tratto lo stigma del-

la morte: dalla bocca emergevano i canini scintillanti, e gli occhi apparivano due a-

bissi senza fine dello stesso colore del sangue. Il conte Vampiro fece un passo verso di

lui, e il respiro gli si fermò.

«Aiutami a portarlo in chiesa. Lasciamolo riposare in pace», ordinò Ánghelos con

voce cupa mentre prendeva in braccio il cadavere.

Petru si portò la mano sul petto e mormorò: «Farò quello che vorrete, mio si-

gnore. Ma non illudetevi, perché nemmeno nella morte il principe Vlad Dracula

troverà pace».

Il Vampiro seguì Petru verso l’interno dell’isola e poco dopo si trovarono davan-

ti al monastero: era vecchio di un secolo e circondato da mura solide, costruite dopo

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i saccheggi di Radu Dracula, fratello di Vlad III. Attraversarono uno spiazzo fangoso

e Petru tirò la corda del campanello accanto alla porta del monastero. Un tintinnio

sommesso, e alcuni istanti dopo dallo spioncino apparve la faccia incredula di un

monaco. Li squadrò per bene, poi richiuse lo spioncino e aprì la porta.

Il cortile non era molto grande; a ridosso delle alte mura c’erano le stalle, e poco

lontano l’orto e il cimitero. Da una scala ricavata nelle mura scesero una dozzina di

altri monaci spaventati. Si fermarono come pietrificati alla vista del Vampiro.

«Conte Nikefóros Ánghelos, voi qui?», esclamarono quasi all’unisono. Poi fissa-

rono il cadavere che il Conte teneva fra le braccia. Un monaco – piccolo di statura, il

capo e il viso celati dal cappuccio – sostava fermo sul portale della chiesa. Si mosse

verso il gruppo, bloccandosi non appena l’abate sollevò il sudario scoprendo il viso

di Dracula. Il Conte aggrottò la fronte e, adagiato il corpo su una pietra, protestò: «È

così che omaggiate il vostro signore? Costui è Vlad III principe di Valacchia».

«Non più ormai», sostenne l’abate con decisione. Era un uomo molto anziano,

con una lunga barba grigia dalle sfumature giallastre; sopracciglia foltissime na-

scondevano gli occhi chiari.

«Vi chiedo solo di dargli una degna sepoltura. Non fosse altro perché un tempo

egli rese questo monastero una solida fortezza per difendervi da qualsiasi attacco», ri-

badì il Vampiro cercando di mantenere la calma.

«Non fosse altro perché proprio qui Vlad l’Impalatore torturò e uccise gente che

invocava pietà», rilanciò fermo l’abate arricciando il naso. Afferrata una torcia dal-

le mani di un monaco, l’avvicinò al feretro e sbottò indignato: «Bugiardo fino alla fi-

ne, vero conte Ánghelos? Avete sbandierato ai quattro venti che durante l’ultima bat-

taglia Dracula era stato decapitato, e che la sua testa era stata portata a Costantino-

poli dal Sultano Mehmed II. Invece, il suo corpo è intatto».

«Volete punirlo per un mio peccato?».

«Punito il Drago, punito il Serpente», sentenziò l’abate.

«Punite me, allora», esclamò Nikefóros.

Non costringetemi a mostrarvi il Dominio Scarlatto. Abbiate pietà per voi stessi.

«Potremmo seppellirlo in chiesa sotto l’altare, cosicché la sua anima demoniaca

possa essere domata dalla spada dell’arcangelo Michele», suggerì un altro monaco.

«La sua anima non era demoniaca, ma tormentata».

Il Vampiro, Petru e gli altri si voltarono verso colui che aveva parlato. Si trattava

del monaco fermo sul portale della chiesa. Il cappuccio calato sugli occhi e le braccia

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incrociate, aveva parlato con tono deciso, anche se al Vampiro non era sfuggito il

timbro quasi femmineo della voce.

«Comunque sia, non dobbiamo dimenticare che ha abiurato il credo ortodosso

per sposare quello cattolico. È questo che lo condanna a cercarsi altrove una sepol-

tura», sentenziò l’abate, fissando sia il monaco che aveva preso le difese di Vlad Dra-

cula che l’Ánghelos.

Petru scosse la testa. No, quella faccenda non si sarebbe risolta per la notte, forse

nemmeno per il giorno dopo. A meno che al Conte non fosse venuto in mente di ta-

gliare la testa ai monaci e scavare una fossa per Vlad con le sue mani. Il Vampiro, in-

vece, disse: «Lo ha fatto, è vero. Ma forse questo impedisce a Dracula di trovare la pa-

ce e a voi di dar consolazione a un morto? Non rinchiudete Dio in un simbolo. Egli

è dappertutto, pronto ad accogliere… Tranne me… chiunque chieda conforto».

Ma l’abate sollevò i pugni e gridò: «Adesso basta!».

Nel cortile calò il silenzio. Un colpo di vento fece sollevare il mantello del Con-

te, scoprendo la spada con il blasone del serpente a due teste inciso sull’elsa e sulla la-

ma. I monaci si guardarono terrorizzati, e l’abate ingollò saliva e paura.

«Ovvio che il Serpente difenda le azioni del Drago, visto che a lungo vi siete definiti

fratelli. Mostri: ecco cosa siete», urlò indicando lo stemma.

Nikefóros ferì l’aria con un gesto fulmineo del braccio, mentre i canini iniziavano

ad allungarsi.

«Il Conte ha ragione, padre. Siamo o no uomini di Dio? Se così è, allora dobbia-

mo avere pietà del principe… Vlad», intervenne il monaco incappucciato con voce

sofferente. «Lo seppelliremo in chiesa, come merita Dracula, il figlio del Drago».

«Il figlio del Diavolo, vorrai dire», precisò l’abate pieno di rancore. Poi si passò la

mano sulla fronte: «E sia. Portate questo cadavere in chiesa e seppellitelo vicino al-

l’entrata. Conte Ánghelos?».

Il Vampiro annuì, ma fu Petru a obiettare: «Così la sua tomba verrà calpestata dal-

la gente che entrerà in chiesa».

«O in quel luogo, oppure il suo corpo marcirà nelle profondità del lago», insistet-

te tenace l’abate.

Il traghettatore frenò a stento la rabbia. Colui che l’abate disprezzava era stato il

suo principe, l’uomo con cui aveva condiviso ogni attimo della sua vita di soldato:

Dracula, il più grande condottiero che la Valacchia e la Transilvania avessero mai

conosciuto.

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L’abate fece un cenno e i monaci si avvicinarono alla chiesa. Il Conte sollevò il cor-

po di Vlad e, preceduto da Petru, varcò il portale. La chiesa aveva tre navate, e una

splendida iconostasi celava l’altare. Le pareti erano decorate da immagini che incu-

tevano timore e rispetto; le pietre del pavimento in parte divelte a causa delle radici di

un grosso pino penetrate all’interno della struttura. Due monaci si chinarono su u-

na lastra di marmo accanto all’entrata, e con un badile fecero leva fino a sollevarla. U-

na nuvola di polvere s’alzo nell’aria. L’abate infilò un bastone nella fossa.

«La tomba è stata aperta. Tocca a voi, Conte».

Nikefóros s’inginocchiò, spostò una ciocca grigia dal viso di Vlad e chiuse gli oc-

chi. Rimase così per qualche istante, avvolto dal silenzio; poi depose il corpo nella

fossa con tutta la delicatezza di cui era capace.

Addio.

Mentre i monaci intonavano un Requiem, il Conte allungò il braccio poggian-

dolo sul primo sostegno che trovò affianco a sé. Deglutì, e si voltò verso ciò che aveva

toccato. Ali. Rimase a lungo a guardare la statua dell’angelo, mentre i ricordi del suo

lontanissimo passato riaffioravano struggenti. In quell’istante il canto cessò, e tut-

to si dissolse come nebbia.

Due monaci consegnarono un sudario porpora al monaco che aveva preso le di-

fese di Vlad, e questi ne avvolse il cadavere. Prima di coprirgli il viso, si chinò per ba-

ciarlo sulla fronte. I presenti rimasero interdetti.

«Porremo domani la lapide, ora è troppo tardi», disse l’abate segnandosi tre volte.

«Potrete trascorrere la notte qui, Conte».

Una grossa concessione, considerata la diffidenza che tutte le Chiese nutrivano

per la Stirpe degli Ánghelos. Il Vampiro allontanò la mano dall’ala dell’angelo e

chinò lievemente la testa. Lo sguardo si fermò per caso su un gruppo di monaci che

confabulava dietro una colonna. Aggrottò le folte sopracciglia nere e mormorò: «Vi

ringrazio».

Nikefóros prese possesso della cella più isolata del monastero, una stanza angusta

e fredda con solo un misero letto di paglia, una coperta rosicchiata dai topi e un moz-

zicone di candela. Sulla parete, un’apertura chiusa da una grata cruciforme lasciava

filtrare l’aria gelida della sera. Il Vampiro si tolse il mantello e sedette sul letto col bu-

sto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli.

Scalpiccio di piedi nudi accanto alla sua porta. Il Vampiro s’irrigidì, attento.

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«Dorme, andiamo», bisbigliò qualcuno all’esterno. Poi l’eco dei passi si perse nel

corridoio.

Il Conte si affacciò alla piccola finestra. La notte era calma e la sagoma della luna

appariva come un alone dietro la foschia. Tra gli alberi che circondavano il mona-

stero echeggiò il canto di una civetta. Il Vampiro aguzzò la vista, e dopo poco vide

quattro monaci attraversare di corsa il cortile. Portavano delle corde e una fiaccola.

Ánghelos digrignò i denti e si precipitò fuori. Le torce attaccate alle pareti sfrigola-

rono al suo passaggio mentre scendeva precipitosamente gli scaloni attraversando

sale enormi.

Era stato Vlad III Dracula a rendere sicuro quel luogo di preghiera. Alcuni dice-

vano per nascondere i tesori che aveva saccheggiato ai boiari e ai turchi, altri per rea-

lizzare camere di tortura dove uccidere prigionieri innocenti.

Superò le cucine e la sala del refettorio, e in un attimo fu nel cortile.

«Cosa state facendo, maledetti!», tuonò entrato in chiesa.

Alla vista di quella creatura gigantesca uscita all’improvviso dalle tenebre, un mo-

naco scattò indietro e fece cadere la fiaccola sul tappeto con cui era stata coperta la

sepoltura di Dracula. Il Conte vi soffiò sopra, e il fuoco si spense immediatamente.

«Fuori di qui, prima che l’ira degli Ánghelos si abbatta su di voi». Più che il boato

della voce, fu la vista degli immondi canini a terrorizzare i monaci, che si precipita-

rono verso l’uscita scontrandosi con Petru, svegliato dal frastuono.

«Che succede?».

Il Conte teneva per il collo un monaco che tentava di liberarsi dalla terribile mor-

sa agitando freneticamente le gambe.

«Guarda cosa stavano facendo questi mostri con la tonaca», ringhiò il Vampiro in-

dicando il pavimento. Il cadavere del principe Vlad era per metà fuori dalla fossa. Le

gambe erano incrociate in modo innaturale, dovevano avergliele spezzate per tirarlo

fuori; il sudario era strappato.

«Mio Dio!», esclamò Petru, mentre il monaco quasi asfissiato urinava sul pavi-

mento. Disgustato, il Conte lo scagliò contro il muro fracassandogli la testa.

«Dracula non può rimanere qui», sussurrò inginocchiandosi. Poi prese in braccio

il corpo dell’amico e si diresse verso l’uscita. Petru fissò per un istante i monaci che

piagnucolavano abbarbicati all’icona dell’arcangelo Michele e fuggì via. Sotto il cie-

lo stellato percorse il sentiero che lo avrebbe condotto alla riva del lago, dove il Con-

te lo attendeva seduto su un masso con il corpo del Principe in braccio, come una ma-

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dre disperata con il figlio morto. Petru si mosse verso la barca, ma qualcosa dietro di

lui gli strinse il polso. Si voltò e vide il monaco che aveva esortato l’abate ad avere pietà

del corpo di Vlad. Petru lo trasse a sé, tirandogli giù il cappuccio.

«Sant’Iddio!», gridò il traghettatore.

Il Vampiro sollevò la testa di scatto, incapace di dire qualsiasi cosa nell’attimo in

cui riconobbe il viso del monaco.

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Capitolo I

L’Ordine e il bambino

In un luogo segreto, Anno Domini 1431

I n sala c’era trambusto. Un esercito di servi si dava un gran da fare a sistemare

brocche e bicchieri sulla tavola al centro della stanza illuminata dal sole, men-

tre i cani scorrazzavano liberi. I nobili erano eccitati per l’inaspettata convo-

cazione dell’imperatore. Solo il conte Ánghelos non mostrava interesse per quella

riunione. Sedeva poco distante dalla porta d’entrata, il busto piegato da un lato, la

testa poggiata sulla mano, e accarezzava la lupa bianca che riposava ai suoi piedi e che

nessuno dei cani osava avvicinare.

Una serva dall’aspetto vigoroso si fermò dinanzi al Vampiro e gli porse una coppa.

«Bevete?». Si chinò, mettendo in mostra la piega del seno che si intravedeva dal-

la scollatura dell’abito in lana. L’Ánghelos allungò la mano per prendere la coppa,

ma qualcuno fu più veloce. La serva avvampò e si allontanò con passo rapido. Il

Conte alzò lo sguardo sull’intruso: non molto alto, aveva spalle taurine e capelli ne-

ri. Le sopracciglia sottili circondavano occhi in cui ardeva una luce meschina, il na-

so aquilino spioveva sulla bocca ben fatta. Seppur carico di sarcasmo, il suo sorriso

era bello, le mani callose di chi impugna troppo spesso la spada. Sulla giacca di vel-

luto azzurro spiccava una collana in filigrana e la pelliccia di orso rendeva il suo a-

spetto massiccio.

«Voi sareste?», chiese il Vampiro senza alzarsi.

«Vlad II voivoda, principe ereditario di Valacchia, figlio di Mircea il Vecchio. Co-

sa vi porta qui, conte Ánghelos?».

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«La stessa cosa che porta voi, principe Vlad. La chiamata dell’imperatore. Vi stu-

pisce?».

Il principe stava per rispondere, ma venne bloccato dall’ingresso di un ambascia-

tore. Tutti i nobili si fecero attenti, i servi scivolarono via da una porta dietro a un a-

razzo.

«Il nostro beneamato imperatore Sigismondo di Lussemburgo, sovrano di Un-

gheria, Boemia e Roma, e la sua illustre moglie l’imperatrice Barbara von Cilli», de-

clamò l’ambasciatore.

Calò il silenzio, rotto dal frusciare delle vesti dei nobili che s’inginocchiavano al

passaggio dei sovrani. La testa china, attesero che i due sedessero sugli scranni; poi, a

un cenno dell’ambasciatore, i servi rientrarono nella sala.

«Sedetevi signori. Parleremo mentre il cibo ingrassa gli stomaci e il vino riscalda il

sangue», disse Sigismondo. Era un uomo anziano, dal portamento deciso. La lunga

tunica di velluto nero ne metteva in risalto l’incarnato pallido. I baffi erano arricciati

alla perfezione e i capelli lisciati ciocca per ciocca. Gli occhi risplendettero di una lu-

ce furba mentre si posavano sulla moglie.

Barbara von Cilli aveva mantenuto quell’eleganza che l’aveva resa la sovrana più

affascinante del suo tempo. Un velo blu copriva la testa, lasciando scoperta l’attac-

catura dei capelli, rasati come richiedeva la moda. Gli occhi, circondati da piccolis-

sime rughe, erano di un azzurro intenso e le sopracciglia arcuate le conferivano un’e-

spressione solenne. Sulla veste azzurra con le maniche decorate da lapislazzuli e per-

le, indossava una collana con motivi floreali e il ciondolo su cui era intagliata l’im-

magine di un Drago poggiava sulla piega del seno. Si chinò sul marito e gli sussurrò

qualcosa. Sigismondo annuì.

«Mia moglie gradisce che le sediate accanto, conte Nikefóros Ánghelos», disse de-

stando lo stupore di quei pochissimi nobili che erano nell’Ordine del Drago dal tem-

po della sua fondazione.

L’imperatrice osservò attentamente il Vampiro inginocchiarsi e prenderle la ma-

no per baciarla. Un gelo improvviso l’avvolse, ma riuscì comunque a mostrarsi im-

passibile. Fissò i lineamenti perfetti del Conte evitandone gli occhi, e sussurrò con

calma: «È la prima volta che vedo un discendente della temibile Stirpe. Si dice che

passino addirittura generazioni prima che vi si riveda. È leggenda o verità, conte

Ánghelos?».

Nikefóros si sedette.

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«Le storie che circolano sulla mia famiglia sono così varie e incredibili che, a furia

di udirle, comincio anch’io a non capire più dove finisca la realtà e inizi la leggenda»,

rispose in tono soave.

«Nessuno può saperlo meglio di voi», intervenne Sigismondo.

Il Vampiro incrociò le braccia: «Per me si tratta per lo più di favole».

«Eppure queste storie hanno varcato i confini dei popoli, diffondendosi tra cri-

stiani e turchi. È a dir poco incredibile il rispetto che gli ottomani hanno mostrato

per voi Ánghelos, fin dai tempi del loro fondatore Osma–n», sostenne Barbara, vol-

tandosi verso il vassoio con il maiale che una florida serva le aveva presentato. Af-

ferrò il coltello, tagliò un pezzo della spalla e lo posò nel piatto. Dopo che un servo

le ebbe riempito la coppa, sorseggiò il vino con grazia. Il Conte lanciò un’occhiata

a Vlad, seduto all’altro capo del tavolo, tutto preso da una pernice farcita con erbe

e frutta glassata, mentre un paggio fissava incuriosito Leuce, la lupa bianca di

Nikefóros che sedeva sotto l’arazzo. Gli avanzi gettati a terra finivano tra i denti dei

cani che andavano a divorarli poco lontano.

Al crepuscolo i servi accesero le torce e Sigismondo si alzò, imitato da tutti i pre-

senti.

«Amici, spostiamoci nella camera sotterranea. È giunto il momento delle nomi-

ne». Attese che Barbara si appoggiasse al suo braccio, poi uscirono seguiti dai nobi-

li. Nikefóros si alzò per ultimo e si accinse a raggiungere gli altri. Stava per scendere

una scala a chiocciola quando una serva lo bloccò.

«Avete dimenticato il vostro mantello, mio signore», gli disse porgendoglielo.

Lui la guardò bene. Aveva capelli neri e labbra carnose. Furono però gli occhi noc-

ciola ad attirare l’attenzione del Vampiro, che si mosse verso di lei. La donna arretrò e si

ritrovò con le spalle al muro. Nikefóros poggiò le mani sulla parete, imprigionandola.

«Un tempo conobbi una giovane donna che aveva gli occhi come i tuoi. Si chia-

mava Eirene. È morta, ma io non ho mai smesso di amarla», mormorò triste. La don-

na si portò le mani alla gola e cominciò a respirare a fatica.

Il Vampiro la strinse a sé: «Non voglio farti del male, Eirene. Mai più».

«Mi… mi chiamo Helena, si… gnore».

«Certo. Parlami di Eleuthería, la Seconda Guardiana della Porta. Sono secoli che

l’aspetto. Verrà, vero Eirene?».

A volte il dolore per l’assenza di Eirene e per il ricordo di cosa lui fosse prima di di-

ventare vampiro raggiungeva livelli intollerabili. Doveva lottare contro se stesso per

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riuscire a mantenere il controllo. Ora, però, aveva fame. Durante il pranzo era stato

costretto a ingerire cibo solido, che più che sfamarlo gli aveva eccitato la mente quel

tanto da fargli bramare sangue caldo. Guardò la serva con intensità, poi si giustificò:

«Vorrei evitarlo, ma non posso. Questo sono io».

La strinse baciandole dolcemente le guance. Si soffermò sulle labbra, mentre le ma-

ni correvano lungo i fianchi. La donna si abbandonò tra le sue braccia con un sussurro,

e nell’eccitazione gli cinse la schiena, toccandogli la lacerazione che lo sfregiava dall’a-

scella fin dietro i reni e le due ferite alle scapole. Lui sussultò per il dolore ma non la la-

sciò, e affondò il viso tra i suoi capelli leccandole il collo. La sollevò, scostò leggermen-

te il vestito e le scoprì un seno torturandole il capezzolo con le dita. La serva gridò di pia-

cere e allargò le gambe, imprigionandolo tra le cosce. Il Vampiro staccò la bocca dalla

giugulare, tirò la testa indietro e affondò i canini in un seno. Lei alzò di scatto la testa e

rimase in quella posizione per qualche secondo; poi, abbandonata la schiena sul tavo-

lo, riprese ad ansimare con maggior vigore.

«Di che dimensioni l’avete per farla mugolare in quel modo?».

Quella voce carica di sarcasmo fece scattare Nikefóros. La donna invece rimase

sdraiata, accarezzandosi i punti che lui aveva morso. Vlad II scoppiò a ridere alla vista

delle cosce nude che fremevano spasmodicamente.

«Cosa volete, voivoda Vlad?», chiese il Vampiro pulendosi la bocca dal sangue.

«Sigismondo ha chiesto di voi, stupito che non siate ancora sceso nel sotterra-

neo».

«E voi vi siete preso il disturbo di venirmi a cercare…».

«Ma non è affatto un disturbo, anzi un vero… piacere», rispose Vlad II divertito.

Nikefóros si voltò verso la donna. L’aiutò a sollevarsi, coprendola con premura, poi

le sussurrò all’orecchio: «Sei in grado di camminare da sola?».

Lei lo guardò trasognata: «Sì, mio signore…».

Lui assentì, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava malferma sulle gambe.

«Possiamo andare, Vlad».

Il tragitto verso la camera sotterranea fu breve. Bastò percorrere un ampio corri-

doio e scendere una scala a chiocciola costruita intorno a un tamburo in muratura su

cui erano fissate le torce. Precedendo il Vampiro, Vlad II avanzava con passo spedito.

In fondo alla scala c’era una porta gigantesca, i cui battenti in quercia erano fortifica-

ti da lastre in ottone. Sul lucchetto pendente da uno dei due ganci era incisa l’imma-

gine di un drago. Vlad allungò la mano e la porta si aprì scricchiolando. Costruite con

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grosse pietre collocate con certosina precisione, le pareti della cripta erano decorate

da spade e arazzi, ognuno dei quali rappresentava un drago.

L’Ordine del Drago. Allora è questa la sede segreta.

I nobili sedevano su scranni ricoperti di seta e velluti, posti in modo tale da for-

mare un ottagono; quattro posti erano vuoti. Non c’erano finestre, e l’incenso ovat-

tava ogni cosa. Barbara, che aveva sciolto i capelli, sembrava un’antica sacerdotessa.

Fissò il conte Ánghelos, poi Vlad II e altri due nobili, infine prese la spada che le con-

segnò il marito, la estrasse dal fodero d’argento e ordinò: «Conte Nikefóros dell’an-

tica Stirpe degli Ánghelos, Vlad signore di Valacchia, Lazarevic principe di Serbia

e re Ladislas di Polonia, venite avanti».

I tre uomini si mossero immediatamente, ma il Vampiro indugiò. Percependo su

di sé lo sguardo di tutti, Nikefóros sentì il disperato desiderio di montare in sella a

Lampómenos, il suo cavallo bianco, e cavalcare lungo la riva del Danubio per rag-

giungere il maniero alle Porte di Ferro. Una specie di gran sacerdote ordinò loro di

spogliarsi. Per fortuna il Conte aveva fasciato le ferite alle scapole e al fianco: un’abi-

tudine appresa da Eirene, che quattro secoli prima lo aveva curato nella camera del

Palazzo di Benevento. Un alone scuro imbrattava le bende all’altezza delle scapole,

ma l’attenzione di tutti era attratta dall’imponenza del suo fisico e dal colore grigia-

stro della pelle. Barbara von Cilli fissò i quattro nobili, poi si mosse, fermandosi di-

nanzi a Vlad II. Gli posò la punta della spada sulla spalla e declamò: «Una notte o-

scura rischia di calare sulle terre che vanno dal Mar Nero alle imponenti montagne

balcaniche. I turchi tentano di assediare e rendere ottomana Costantinopoli senza

riuscirci, e gli infami seguaci dell’eretico Jan Huss minacciano la Chiesa ridicoliz-

zando l’operato dei Papi e di tutte le gerarchie che vi sono sottomesse. Se l’Inquisi-

zione non è riuscita a impedire a questi maledetti di diffondersi in molti luoghi, l’Or-

dine del Drago ha dato prova di saper competere con feccia del genere. Tuttavia, la

guerra è lunga e difficile. I turchi ci stanno addosso, ma sono controllabili. Gli Hus-

siti sono la vera minaccia. Irrompono nelle città e avvelenano la mente del popolo.

Per questo, miei nobili fratelli, noi, l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo e l’im-

peratrice Barbara von Cilli, siamo onorati di informarvi della nomina di quattro ca-

valieri del Drago che saranno i protettori della Chiesa Romana».

L’imperatrice sollevò la spada dalla spalla di Vlad e la poggiò su quella di Ladislas,

poi di Lazarevic . Il conte Ánghelos fu l’ultimo. Poi l’imperatrice alzò di nuovo l’ar-

ma e con essa disegnò nell’aria una croce.

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«Questo dono vi rendono i sovrani dell’Impero Sacro e Romano. Valacchia, Ser-

bia, Polonia e le terre che godono della sovranità degli Ánghelos siate nostre amiche,

compagne e sorelle, siate membri dell’Ordine del Drago», concluse.

Una campanella tintinnò.

I nobili già appartenenti all’Ordine si sollevarono in piedi, imitati da Sigismondo,

e presero la candela che il sommo sacerdote consegnava loro. Fu l’imperatore ad ac-

cendere la prima, poi l’avvicinò a quella del nobile che gli sedeva accanto e questi fece

lo stesso con un altro, fino a che un cerchio luminoso circondò i quattro cavalieri del-

l’Ordine. Sempre Sigismondo prese una coppa e bevve il vino consacrato, la porse al-

la moglie che ne sorseggiò un po’. Quindi fu la volta del pane benedetto. I sovrani si av-

vicinarono a Vlad: «Mangia il corpo e bevi il sangue di Cristo, e sii suo servo. Opera se-

condo il Drago, principe di Valacchia e signore dei ducati di Transilvania, Amlas e

Fagaras». Quelle ultime parole fecero sussultare Vlad II, accendendo nel suo sguardo

una luce di pura felicità. Il suo scopo era raggiunto: Alexandru Aldea, suo fratellastro

e rivale, avrebbe cessato una volta per tutte di sedere sul trono della Valacchia. Quel-

la terra era finalmente sua. Poi fu la volta di Ladislas e Lazarevic . Bevvero dalla coppa

e accettarono il pane che gli imperatori offrivano. Infine, toccò al conte Ánghelos. I

nobili erano sconvolti: come poteva Sigismondo di Lussemburgo desiderare che un

Ánghelos divenisse membro dell’Ordine del Drago?

L’Occhio di Lamia, il serpente a due teste blasone degli Ánghelos, non era certo

degno di figurare accanto agli altri sulle pareti di quella cripta. E si diceva addirittu-

ra che il Sultano si deliziasse della compagnia del Conte. Di sicuro, quando Sigi-

smondo e Barbara gli avvicinarono il pane consacrato e la coppa, nella sala calò un

silenzio irreale. Sembrava che al mondo non esistessero altro che il Vampiro e la cop-

pia imperiale. Chini su di lui come due genitori impazienti, gli imperatori attesero

che il Conte facesse il proprio dovere.

«No, mai!», urlò Nikefóros scattando in piedi. Il piatto con il pane e la coppa di vi-

no cadde. Gli imperatori arretrarono spaventati, mentre un brusio si levava nell’aria.

«Come osate rifiutare il Drago, Conte?». Gli occhi dell’imperatore dardeggiava-

no. «Non c’è nobile al mondo che non sacrificherebbe i suoi beni pur di farne parte».

«Difatti non ho mai cercato di entrarvi, mio signore», ribatté il Vampiro con

freddezza.

«Siete irriconoscente», lo accusò l’imperatrice che amava tenere testa a chiunque.

«Lasciatemi andare, so cosa volete. E vi dico che mai avrete il tesoro degli Ánghelos.

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Appartiene solo alla Stirpe. Non chiedete ciò che vi porterebbe alla distruzione.

Chiunque lo ha fatto ha avuto una sorte terribile».

«Potrei farti uccidere», sibilò Sigismondo furioso.

«Perché non voglio darvi ciò che credete un’immensa quantità di oro?», chiese il

Conte.

«E per essere un rispettoso amico del Sultano della Sublime Porta», intervenne

l’imperatrice. Il Vampiro rimase con gli occhi fissi al pavimento, e dopo un breve si-

lenzio disse: «Sono amico di chi mi rispetta. I turchi non hanno mai osato agire come

avete appena fatto voi. Lasciatemi passare», ordinò ai nobili fermi dinanzi alla porta.

L’unico a muoversi fu Vlad II Dracul principe di Valacchia, che avanzò verso il Con-

te bloccandosi a un passo da lui. Lo scrutò come avrebbe fatto con uno stallone da

comprare, e piegò un angolo della bocca in un ghigno carico di disprezzo.

«Miei signori», disse Dracul fissando la coppia imperiale. «È un umile consiglio

quello che vi do. Consiglio che proviene dalla bocca del vostro più devoto servitore.

Permettete al conte Ánghelos di andarsene. Dopotutto è meglio non disonorare

l’Ordine con le nefandezze del Serpente. Maghi satanici sposati con streghe bellis-

sime che preferiscono non farsi mai vedere: questo sono gli Ánghelos. Che il Con-

te torni nella sua baracca alle Porte di Ferro».

«Hai la lingua di un aspide, voivoda», commentò Nikefóros.

Un ghigno malvagio s’impresse sul viso di Vlad nel vedere una punta di incer-

tezza su quello del Vampiro. Un ventata proveniente da chissà dove gonfiò le ten-

de blu che si sollevarono come le onde del mare, per poi ricadere strisciando sul pa-

vimento. I presenti guardarono con ammirazione Vlad di Valacchia. Fu Sigismon-

do a rompere il silenzio: «Ben detto, principe Dracul». Poi si voltò verso l’Ánghelos,

sprezzante. «Potete andare. La vostra presenza non è più gradita. Ma ricordate, Con-

te, quest’affronto non verrà dimenticato». Barbara von Cilli digrignò i denti, fu-

riosa nel vedere sfumata l’unica occasione di accaparrare le ricchezze degli Ánghe-

los per le Crociate contro turchi e Hussiti. Il Vampiro si passò la lingua sui canini,

e con i pugni stretti ribatté: «Un giorno ringrazierete l’Onnipotente per questo mio

rifiuto. State lontani dal tesoro degli Ánghelos».

Un dolore violentissimo alle scapole lo costrinse a portarsi le mani dietro la schie-

na e l’uggiolio della lupa Leuce, proveniente dall’esterno, lo fece sussultare.

Leuce, Lampómenos… le mie ali…

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Sollevò le braccia e il nobile a guardia della porta si spostò. Il Vampiro piegò leg-

germente il busto in avanti, premette le mani contro i battenti che si spalancarono

con un boato. Dando le spalle all’Ordine del Drago, rimase per qualche istante a fis-

sare gli stipiti della porta; sospirò e superò la soglia, lasciando dietro di sé una scia di

cupo silenzio.

«Prendetelo!».

Pensare che l’imperatore del Sacro Romano Impero lo lasciasse andare senza

mostrare di saper tenere testa a un ribelle era stato un azzardo. L’Ánghelos si pre-

parò a fronteggiare l’attacco delle guardie che si precipitavano giù per le scale. Il ru-

more metallico delle loro armature risuonò come una catastrofe. Il ringhio di Leu-

ce, sbucata all’improvviso, bloccò il primo soldato che arretrò terrorizzato alla vista

dei denti della lupa. Attirati dalle urla dell’uomo, gli altri mossero verso Leuce, ma

subito si bloccarono dinanzi a quella bestia che si stava trasformando in un Cerbe-

ro. I loro cuori iniziarono a battere freneticamente, il sangue a scorrere violento: un

rumore che eccitò il Vampiro al punto che un’esplosione bollente al centro del pet-

to si diramò per tutto il corpo. Preda del Dominio Scarlatto, il Vampiro allungò un

braccio per afferrare un soldato. Lo sollevò per la maglia e lo voltò in modo tale che

la schiena di lui toccasse il suo petto, poi si girò verso la porta. Sulla soglia stavano

Barbara e Sigismondo, con alle spalle il resto dei nobili che si accalcavano curiosi.

Per un solo istante, in quella sospensione irreale, gli sguardi del Conte e del princi-

pe Vlad II s’incrociarono. Fu il voivoda a distogliere il suo. Il soldato si agitò per li-

berarsi e ciò riportò l’Ánghelos al presente. Fissò la porta, che cigolò chiudendosi

con un botto terrificante. Poi affondò i denti nella giugulare del soldato, ne lacerò

la carne e iniziò a succhiare. Le urla dell’uomo divennero gemiti, poi un indistinto

gorgoglio. Infine, silenzio. Consumato il suo pasto, il Vampiro fece scivolare il ca-

davere a terra e gli si inginocchiò accanto. Sollevò il braccio destro facendolo rima-

nere sospeso in aria, poi calò il colpo, e la testa del soldato rotolò via. Non era fini-

ta. Colpì di nuovo, e questa volta il pugno sfondò lo sterno. L’Ánghelos estrasse il

cuore del cadavere ancora caldo.

«La tua anima è salva», mormorò.

Vampiro e lupa si scagliarono quindi sugli altri soldati, che lasciarono cadere le ar-

mi e si coprirono gli occhi con le mani. Avvertirono un vento gelido passar loro ac-

canto, poi dei tonfi, e una porta sbattere con forza.

Silenzio.

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Dopo un tempo che parve eterno, due dei soldati sopravvissuti ebbero la forza di al-

zarsi. Si avvicinarono alla porta oltre cui c’era l’Ordine e l’aprirono. All’interno, tut-

ti erano sospesi come sotto l’effetto di una droga. Fu Sigismondo di Lussemburgo a

scuotersi per primo e, afferrato uno dei due soldati, gli rivolse una muta domanda.

«È stato il Serpente, mio signore. È stato Satana», mormorò quello lasciandosi an-

dare bocconi sul pavimento. Tra lo sgomento generale, solo Vlad di Valacchia ebbe

la prontezza di chinarsi sul cadavere e osservare bene la lacerazione sulla giugulare.

Strinse i pugni e si alzò. Attento a che nessuno s’accorgesse di lui, lentamente strisciò

fuori dalla camera.

*

Sighisoara, TransilvaniaPalazzo di Vlad II Dracul

qualche mese dopo

Nella stanza c’era un gran viavai di gente. Vlad II fissava sua moglie, la principes-

sa Cneajna, contorcersi per i dolori del parto. Le urla della donna facevano da con-

trappunto ai singhiozzi di un bambino irrigidito in un angolo: il loro primogenito

Mircea. Cneajna stringeva la mano della levatrice che fissava preoccupata il lago di

sangue tra le lenzuola. Ruggendo per la rabbia e il dolore, la principessa incrociò con

lo sguardo il figlio, e Mircea si tirò indietro, andando a toccare con le spalle le cosce

del padre che gli strinse la testa contro il suo ventre. Il bambino singhiozzò ancora

più forte quando l’ennesima contrazione fece emettere un urlo terribile alla madre.

All’improvviso un altro fiotto di sangue, un altro strillo, e la levatrice uscì di fretta

dalla camera sfrecciando dinanzi al bambino e al principe. Passarono pochi istanti

e rientrò seguita dal medico. Vlad osservò con gli occhi spalancati quell’uomo sega-

ligno chinarsi tra le cosce della moglie e sporcarsi le mani di sangue.

«Sta per morire?», domandò la levatrice.

Mircea guardò il padre, il fiato mozzato in attesa della risposta. Il medico sollevò lo

sguardo dalla partoriente: «È necessario tagliare». Afferrò la borsa che aveva abban-

donato sul letto ed estrasse una lama. Il bambino sbiancò. Sua madre gemeva, poi

un’altra donna le fece bere qualcosa che la stordì in breve tempo. Il medico cominciò

a tagliare, grondando di sudore.

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Silenzio.

«Eccolo!», gridò il dottore, e sollevò qualcosa che sembrava un grumo di sangue

lattiginoso, un esserino sporco e tremante, ma vivo a giudicare da come urlava. Ven-

ne messo sul tavolo e Vlad II si avvicinò al neonato.

«Mircea, vieni a vedere tuo fratello». Prima di muoversi, il bambino guardò il me-

dico che accarezzava la fronte di Cneajna priva di sensi; poi fece il primo passo ver-

so il tavolo dove Vlad accarezzava sorridendo il suo secondogenito.

«Avrà il mio stesso nome: Vlad», dichiarò il voivoda. «E poiché è nato dopo che

suo padre è stato accolto nel prestigioso Ordine del Drago, sarà chiamato “Dracula”,

il figlio del Drago. Tutti i miei figli avranno questo nome».

Si sedette accanto alla moglie e le baciò la fronte. Ma solo Iddio sapeva quanto a-

vrebbe voluto che lì, vicino a lui, ci fosse Lilith: l’unica a credere nel suo ingegno e ad

avergli promesso un potere immenso se fosse riuscito a impossessarsi del misterioso

tesoro degli Ánghelos.

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Capitolo II

Il maniero

Porte di Ferro, sul Danubio

L ampi e tuoni si susseguivano a ritmo vertiginoso. La pioggia scrosciante crea-

va gorghi giganteschi in mezzo al Danubio, e sulla riva le pozzanghere si

riempivano di sporcizia trascinata via da rivoli melmosi. Fasci di nebbia na-

scondevano i costoni delle montagne, solo a tratti illuminati dalla luna. Un tronco

si capovolse prima di essere inghiottito da un vortice d’acqua. Il vento fischiava forte

nella vallata, circondata da una collina oltre cui si trovavano le Porte di Ferro: un luo-

go straordinario, un vero e proprio capolavoro della natura. In un punto tra i Balca-

ni e le Alpi Transilvaniche il letto del Danubio si stringeva all’improvviso, gonfian-

dosi fino a minacciare uno straripamento.

In sella a Lampómenos, il Conte lanciò un’occhiata intorno a sé: nonostante la fu-

ria degli elementi e l’attacco sferrato dall’esercito valacco, il villaggio degli eretici bo-

gomili dormiva tranquillo. Leuce precedeva il suo padrone su per il sentiero; il Vam-

piro tirò la briglia e lanciò Lampómenos al trotto, finché il terreno non divenne fria-

bile e la salita ardua. Superato quell’ostacolo, il maniero. Costruito sulla sommità del

costone alla fine dell’VIII secolo d.C., il maniero era stato comprato da un re serbo

che, nell’Anno del Signore 940, lo aveva rivenduto al Conte della Stirpe degli Án-

ghelos proveniente dall’isola di Thera. Il maniero si estendeva lungo l’intero perime-

tro del costone. Un torrione di circa centosettanta piedi ne costituiva la prima entra-

ta. Sulla cornice dell’arco, un’iscrizione:

Vivis nihil quaerendum est ex mortuis

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I vivi non devono chiedere nulla ai morti, recitava il motto del Conte. Sotto era sta-

to scolpito il blasone degli Ánghelos: il Serpente Occhio di Lamia, ovvero il serpen-

te a due teste. Intorno alle travi in quercia che emergevano dall’arco erano legate le ca-

tene che servivano a sollevare o abbassare il cancello in ottone. Le mura svettavano

terminando con merlature sotto cui correvano le feritoie. Il Vampiro smontò da

Lampómenos e si avvicinò alla ruota; cominciò a girarla, e questa si mosse con uno

scricchiolio metallico che echeggiò nella notte, mischiandosi al turbinare del Danu-

bio. Il Conte diede un colpo secco, e un mucchio di sacchi pesantissimi precipitò a

terra schizzando acqua e fango. Il cancello si sollevò. Il Vampiro afferrò la briglia e fe-

ce un cenno alla lupa, poi superò l’entrata, ritrovandosi in un corridoio molto stretto.

Fili di gramigna e piante di lupino crescevano tra le pietre messe l’una sull’altra in un

ordine ben preciso. D’istinto allargò le braccia per simulare il volo, il viso rivolto al cie-

lo, gli occhi chiusi e la mente persa nei ricordi di un tempo che non sarebbe più tor-

nato. Una tremenda nostalgia lo fece vacillare.

«Cosa sto facendo?», mormorò. Il nitrito dolente di Lampómenos e l’ululato stra-

ziante di Leuce si persero nella notte. Il Vampiro scosse la testa e si mosse verso la se-

conda entrata. Era meno solida dell’altra e sulla chiave di volta, sorretta da colonne, e-

ra scolpito solo il Serpente. Poco oltre, si allargava un piccolo cortile che terminava con

una scalinata. Il Conte la percorse, ed entrò nel maniero. I suoi passi risuonarono cupi

nel corridoio rischiarato da candele. Attraversò la sala delle udienze, finché giunse di-

nanzi alla scala che portava alla torre. Raggiunta la cima, sfiorò il muro e una pietra si

mosse; la estrasse, tirò fuori la chiave e la infilò nella serratura. La porta scattò.

«Paulus, dannato bogomila. Ti avevo detto di tenere il fuoco sempre acceso. A

Raphael non sarebbe mai successo», sbottò notando che l’oscurità avvolgeva ogni co-

sa. Andò verso il camino e afferrò lo stoppino appoggiato sul bordo della trifora. Poi

si affacciò. Sotto c’era il cimitero degli Ánghelos: un gruppo di lapidi fasulle. Su o-

gnuna, quest’iscrizione:

NIKEFOROS ÁNGHELOS REQUIESCAT IN PACE

Oppure:

SEMANGELOF ÁNGHELOS REQUIESCAT IN PACE

L’idea gli era venuta dopo la seconda fuga da Benevento. Era l’Anno del Signore

1077 quando alle Porte di Ferro aveva cominciato a girare la voce che nel maniero ri-

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siedesse un uomo che non muore. Il Conte s’era dato subito da fare. Avrebbe dovuto so-

lo riproporre la stessa menzogna che per millenni aveva usato a Thera: un agglome-

rato di sepolcri che testimoniasse l’esistenza di antenati della Stirpe degli Ánghelos,

di cui lui – in realtà – era l’unico rappresentante. Aveva assunto uno degli scultori più

bravi della zona, commissionandogli la costruzione del cimitero. Quell’opera gli era

costata un occhio della testa, e più di tre quarti della cifra l’aveva spesa per comprare

il silenzio dello scultore. Terminato il lavoro, il Conte gli aveva lasciato precise istru-

zioni: una volta ogni cinque anni l’artigiano avrebbe dovuto aggiungere un sepolcro,

alternando i due nomi. Morto lo scultore, i figli e i figli dei figli avevano continuato

questa tradizione, fino a quando quella famiglia si era estinta. Circa due anni dopo,

a Belgrado, aveva incontrato il padre di Paulus, un adepto degli eretici bogomili che a-

mava incidere la pietra. Le sue opere erano piaciute così tanto al Vampiro che non a-

veva esitato un istante a ricoprirlo d’oro a patto che facesse sia da costruttore del ci-

mitero che da guardiano del maniero.

Tra i sepolcri, ve n’era uno decorato con un rilievo che raffigurava una scena tra-

gica: tre angeli su una spiaggia che combattevano contro una donna. Due di loro, Se-

noy e Sansenoy, tenevano la spada puntata verso Lilith, mentre il terzo angelo, Se-

mangelof, stava in disparte. Sullo sfondo, la Porta della Stanza della Purificazione cu-

stodita da tre figure femminili, le Guardiane.

Quella stessa scena il Vampiro l’aveva vista oltre quattrocento anni prima ripro-

dotta su un mosaico nel Palazzo di Benevento. A quel tempo non ricordava ancora

niente del suo passato. Era soltanto il conte Nikefóros Ánghelos, in fuga da Thera e

da quel passato che le pagine del Libro Oscuro gli avrebbero dolorosamente ricor-

dato grazie all’aiuto di Eirene, la Prima Guardiana della Porta.

Il mio nome è Semangelof: fui angelo e assassino…

Strinse i pugni e digrignò i denti nel tentativo di ricacciare indietro il ricordo del-

la colpa che gli era valsa la condanna del Dominio Scarlatto: eternità intrisa di una

profonda solitudine e alimentata col sangue. Era un Vampiro.

Semangelof abbassò lo sguardo e trasse un sospiro malinconico; spostò la cenere

e inserì qualche ciocco, poi accese lo stoppino. Una fiammella si sollevò incendian-

do immediatamente la legna. Chiazze scarlatte e gialle colorarono la corteccia, e lo

scoppiettio del fuoco pervase la piccola stanza. Si voltò. Su una parete stava appesa la

sua antica spada con cui aveva ucciso i lilim, i figli di Lilith. Il fodero riluceva di uno

splendore unico insieme all’elsa dov’era rappresentato l’Occhio di Lamia. Accarezzò

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la spada, poi si mosse verso una tenda. Sollevò il braccio, ma una fitta alle scapole e

al fianco lo bloccò. Ansimò, e aprì la tenda. Un mezzobusto femminile dai linea-

menti delicati stava poggiato contro il muro. Il viso di Semangelof si fece di una bel-

lezza struggente.

«Ti amo, Eirene», mormorò il Vampiro alla statua baciandola sulle labbra.

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Capitolo III

Il patto del voivoda

Sighisoara,Anno Domini 1440

L ’aria primaverile era frizzante e impregnata di odori. Un fornaio gettava pic-

cole pagnotte su un banco custodito dal garzone, mentre poco lontano un

gruppo di straccioni rubava il mantello a un mendicante. Un soldato s’infilò

in una stradina buia. Passò dinanzi a una chiesa, superò due caseggiati uniti da un ar-

co ritrovandosi nella piazza dove, imponente e spartano, si ergeva il palazzo del voi-

voda Vlad II Dracul. Da una delle finestre poste su due file orizzontali si affacciò una

donna. Il soldato le sorrise, e lei rispose svuotando il pitale, mancandolo di poco. Le

lanciò un’ingiuria e si avvicinò al portone con gli stipiti in ferro. Afferrò il batacchio e

bussò. Dall’apertura a lato si affacciò un viso scarno.

«Chi sei?», domandò una guardia con voce roca.

«Sono della milizia del voivoda. Devo parlargli», rispose il soldato.

L’altro richiuse la feritoia e dopo qualche istante la porta si aprì.

Il soldato sorrise. La guardia somigliava a quelle buffe marionette dei teatri am-

bulanti: aveva le gambe storte, e la corazza lo faceva ancora più basso; una barbetta

nera evidenziava il naso aquilino. Il soldato entrò e si guardò intorno. Sulle mura del

piccolo cortile erano accatastate ceste piene di pane, frutta e verdura che esalavano

un odore penetrante. Nelle stalle i maniscalchi ferravano i cavalli a caldo, ne siste-

mavano i morsi; i colpi di martello erano continui come lo scoppiettio del fuoco che

divampava nella fornace. Il viavai di servitori sulla rampa di scale che girava intorno

alle alte mura era incessante. La guardia gli fece cenno di seguirlo. Salirono le scale,

imboccarono un corridoio poco illuminato ed entrarono nella sala.

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Arazzi decoravano le pareti e sul camino pendevano asce molto antiche, apparte-

nute – sosteneva Vlad II – a Decebalo, il grande re dei Daci che aveva combattuto stre-

nuamente contro le legioni romane dell’imperatore Traiano. La luce del giorno attra-

versava i vetri policromi delle finestre e colorava la sala. Al centro, un tavolo molto gran-

de e uno scranno ricoperto da una pelliccia su cui era appoggiato uno stendardo con

un drago dalle fauci spalancate: l’emblema dell’Ordine. Seduto a capotavola, il princi-

pe sbucciava una mela mangiandola senza molta voglia. Baffi e barba erano incolti, co-

me i capelli. Indossava una casacca damascata, e di tanto in tanto si asciugava il naso

pronunciato con il dorso della mano. Alla sua destra sedeva la moglie, la principessa C-

neajna: una donna bellissima, una gran dama con una buona dose di cultura origina-

ria della Moldavia e discendente della famiglia dei Musatin. Troppo per un uomo co-

me il principe di Transilvania, la cui rozzezza non conosceva limiti. Cneajna aveva ca-

pelli biondi dai riflessi ramati, messi in risalto da un’elaborata acconciatura. Gli abiti e

i gioielli non erano vistosi; il verde chiaro del corsetto esaltava gli occhi azzurri e l’in-

carnato roseo. Piluccava della frutta secca sorseggiando del vino. Accanto a lei sedeva

un giovane. I lineamenti belli della madre e fieri come quelli paterni, Mircea spolpava

una coscia di maiale. Era il figlio prediletto, il primogenito che il voivoda aveva deciso

di portare con sé in battaglia quando aveva poco più di otto anni, facendone un vero

guerriero. E Mircea, ora quindicenne, si era già distinto per forza, astuzia e coraggio. Se-

duta su una panca in disparte, una giovane donna ricamava con la testa china sul bran-

dello di stoffa. Era Caltuna, una delle amanti di Dracul, che quasi tre anni prima gli a-

veva dato un figlio, Vlad. Strana scelta, aveva pensato l’intera corte. Perché chiamare

un bastardo come il suo secondogenito, partorito da Cneajna pochi mesi dopo che Si-

gismondo di Lussemburgo aveva conferito a Dracul l’onore di far parte dell’Ordine del

Drago? Le decisioni del principe non erano sempre comprensibili, proprio come quel-

la – presa circa due anni prima – di tradire Sigismondo aprendo le porte della Transil-

vania al Sultano Murad II, facendo della propria terra un carnaio. Poi ce n’era stata

un’altra, ancora più terribile: tradire Murad il Turco, non saccheggiando più i valacchi.

Vlad Dracul sollevò la testa e fece cenno al soldato di avvicinarsi. Quello conse-

gnò la spada a un nano, poi s’inginocchiò.

«Parla», disse Vlad, la voce strozzata dal boccone che stava ingoiando. Ebbe un sin-

gulto, poi lasciò andare un rutto che riuscì a smorzare con uno sbuffo.

Il soldato aggrottò le sopracciglia e cominciò: «Mio signore, eravamo di stanza sul

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Danubio, non molto lontano dalle Porte di Ferro, quando abbiamo visto scendere

dal maniero degli Ánghelos il Conte scortato da un drappello di turchi».

Il principe deglutì forte e colpì il tavolo con un pugno vigoroso.

«Il Conte ha detto di tenere le vostre truppe lontane dal maniero e di non insiste-

re a pretendere ciò che non vi appartiene. Il tesoro degli Ánghelos è solo degli Án-

ghelos. Se tenterete di nuovo, il Conte prenderà contatti con i turchi. E visto che i

turchi erano lì…».

Vlad cercò un appiglio che trovò nell’angolo del tavolo.

Sta’ attento che il Conte non sappia del nostro patto, voivoda Dracul, o il tuo sogno svanirà

come nebbia al vento, gli aveva detto Lilith.

Vlad fece cenno alla moglie di avvicinarsi, ma Cneajna non si mosse. Le trema-

vano le labbra e i piedi sembravano incollati al pavimento. Gli occhi azzurri di Mir-

cea dardeggiarono contro il padre, che già trovava conforto tra le braccia della gio-

vane Caltuna.

«Non ha detto altro?», chiese il voivoda.

Il soldato scosse la testa. Vlad sfiorò il collo dell’amante e sospirò.

«Principe Dracul», riprese il soldato.

«Parla».

«Tra quei turchi c’erano alcuni ambasciatori del Sultano Murad». Vlad e Mircea si

guardarono, bianchi in viso. «Cercavano di superare i Carpazi e giungere qui a Si-

ghisoara per darvi un messaggio, ma non li abbiamo fatti passare. Quindi lo hanno ri-

ferito al prete, pregandolo di comunicarvelo al più presto. Dopo averlo letto, il prete

che celebra messa nel nostro accampamento ha detto di raccomandarvi l’anima a Dio,

voivoda. Non dovevate rompere il patto con il Sacro Romano Impero». Senza render-

sene conto, il soldato aveva imitato esattamente il tono aspro del prete. Infilò la mano

in una tasca e tirò fuori una pergamena chiusa. Le asticelle che la reggevano erano pre-

ziose, il nastro di seta. Fu Mircea a prenderla. Vlad lo guardò di traverso, ma il ragazzo

non gliela consegnò. Sciolse il laccio, srotolò la pergamena e cominciò a leggere:

A Vlad II Dracul, voivoda di Valacchia e Transilvania.

Io, Murad II, Sultano della Sublime Porta, ti invito a Gallipoli. In base ad alcune voci che

dichiarano un tuo tradimento, nutro il desiderio di discuterne con te, ottimo alleato e fervente ne-

mico dell’Impero cristiano. Raggiungi Gallipoli entro la prossima luna di maggio, da solo.

Non tardare un giorno di più.

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«Padre…». Mircea tacque nel vedere la mano paterna sollevarsi di scatto.

«Sì, figlio mio, è come pensi tu», disse Vlad.

«E cosa pensa?», chiese imperiosa Cneajna, le braccia incrociate contro lo stoma-

co. Non ottenendo risposta, corse dal marito. Lo guardò dritto negli occhi e ripeté:

«Che sta succedendo?».

Mircea socchiuse le labbra, ma venne anticipato dal soldato: «Mia sovrana, c’è

la possibilità che il Sultano abbia saputo che alcune città della Transilvania hanno

stretto un accordo con il voivoda per non essere massacrate dal nostro esercito, co-

me stabilito in un precedente patto coi turchi».

«In sostanza, vuole vendicarsi». La voce di Cneajna era appena percettibile.

«È possibile», rispose Mircea in tono grave.

«No!», urlò Vlad Dracul. Quel grido riempì ogni angolo della sala. Un piccione

s’involò volteggiando a lungo, poi uscì da una apertura sul soffitto. «Non può esse-

re che Murad abbia saputo del mio patto. Doveva rimanere segreto».

«Tu sei pazzo», proferì Cneajna facendo sobbalzare tutti i presenti.

«Stupida moldava, tu non sai niente, capito? Goditi i gioielli che questo “pazzo” ti

porta dalle battaglie e sta’ zitta!». Il principe poggiò le mani sullo schienale dello

scranno e piegò il busto in avanti dondolandosi, la testa incassata tra le spalle e lo

sguardo a terra. La principessa, però, fu pronta a ribattere: «Eh no, Dracul. Sono ben

consapevole che tutto lo sfarzo che ci circonda puzza di sangue, ma se non riesci ad

essere fedele ai patti che stipuli, la colpa è solo tua e non dei gioielli con cui ricopri

le donne del tuo harem». Indicò Caltuna.

Vlad sollevò appena il volto. D’improvviso gli venne il desiderio di picchiarla, ma

era bella e intelligente quella moldava dalla lingua biforcuta e, per l’Inferno, aveva

ragione. Sbuffò come un mulo e fissò Caltuna, che rispose con un sorriso così som-

messo da apparire rivoltante. Caltuna non pensava e non interferiva mai. Parlava

solo quando le veniva chiesto di farlo – mentre si rotolava con lui tra le lenzuola –

non contestava mai le sue decisioni, né osava interromperlo. Ecco perché anni pri-

ma s’era presa come amante quella cagnetta decisamente meno bella e intelligente

di Cneajna.

«Tradire alle volte vuol dire sopravvivere, principessa. L’ho fatto con l’Ordine del

Drago abbracciando la causa turca perché il Papa non ci aiuterà mai. Potevo con-

durre una Crociata da solo? No. Allora non mi è rimasto altro che allearmi con il più

forte».

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«Va bene», insistette Cneajna. «Ma perché tradire anche il Turco?».

La risposta di Dracul suonò secca: «Razziare e uccidere il mio stesso popolo per

Murad ha cominciato a darmi il voltastomaco. Ho un onore anch’io».

Mircea trasalì. Era forse onorevole sollevare la spada sui valacchi che fuggivano sen-

za capire? Prendere a cannonate le porte dei borghi transilvani che aveva deciso di sa-

crificare al Sultano? O, ancora, non muovere un dito nel vedere i soldati violentare le

loro stesse donne? I valacchi avevano comprato la sopravvivenza pagando un prezzo

che non avrebbero dovuto mai sborsare. Rivedeva suo padre contare una per una le

casse cariche d’oro che gli anziani gli consegnavano tremando di paura, ed ebbe un bri-

vido che il tono aspro di Cneajna fece sparire: «Razziare il tuo popolo ti dà il voltasto-

maco, Vlad? Anche a me fa lo stesso effetto, ma farti venire questi scrupoli dopo aver

giurato fedeltà al Turco è da folli. Sai di cosa sono capaci?».

«Se la fortuna decide di assisterci, mia signora, si prendono solo i figli». Fu il solda-

to a rispondere. Fissava il piatto semivuoto di Vlad, e lo stomaco si fece sentire: era-

no giorni che mangiava pezzi di pane duro e beveva acqua di stagno. All’improvviso

nella sala risuonò il fischio di qualcosa che tagliava l’aria. Il soldato scattò, ma non ab-

bastanza rapidamente da evitare il colpo d’ascia allo stomaco. L’uomo sgranò gli occhi

e, con la faccia sporca degli schizzi del suo stesso sangue, guardò chi lo aveva colpito.

La principessa Cneajna era piegata su di lui. Aveva le braccia tese e le nocche bianche

per lo sforzo con cui teneva stretta l’ascia. La gonna era imbrattata di sangue.

«I miei figli no», sibilò lei estraendo l’ascia e colpendolo di nuovo in mezzo alla

fronte.

L’elmo del soldato si spaccò, e un rivolo scarlatto colò lungo i lati del naso inca-

nalandosi nelle orbite. Cadde in ginocchio in una pozza di sangue, rimanendo in bi-

lico come se non riuscisse a decidere se cadere bocconi o restare in quella posizione

in eterno. Rotolò da un lato, immobile per sempre. Caltuna gridò. Mircea fece per

muovere un passo verso la madre, ma suo padre lo bloccò scuotendo la testa scon-

volto. Cneajna non era immune da quegli scatti di pura violenza: di colpo perdeva

il controllo e, succube dell’ira, diventava capace di qualsiasi cosa. Una volta, Dracul

aveva trovato Mircea e il suo secondogenito Vlad in lacrime mentre la madre ucci-

deva a botte il vecchio precettore che aveva osato colpire Mircea con la cinta. Più l’a-

gonia della vittima aumentava, più gli occhi della moglie s’illuminavano di una lu-

ce assassina. Ne traeva piacere, un orgasmo sanguinario. Vlad aveva potuto avvici-

narsi solo dopo che l’uomo era morto. Cneajna, la principessa dall’aspetto angelico,

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amata e venerata dal suo popolo, aveva emesso un gemito d’appagamento, poi era

scivolata a terra ripetendo: «Nessuno deve toccare i miei figli. Ho sofferto come una

cagna per metterli al mondo».

Troppo debole per reggere quell’orrore, Caltuna uscì di corsa, mentre nella sala

entrava Jan, il confessore e precettore dei giovani Dracula, insieme ai figli più picco-

li di Dracul e Cneajna: Vlad e il terzogenito Radu. Il prete non fece in tempo a im-

pedire a Radu e Vlad di vedere la scena. Il più grande mise una mano sugli occhi del

fratellino che si dimenava tra le sue braccia; poi lo mise giù, e Radu gattonò tra le sot-

tane della madre. Mircea lo sollevò e il piccolo, agitando le gambe, posò le mani paf-

fute sugli occhi del fratello che le allontanò infastidito. Il piccolo Vlad, gli occhi ver-

di e i capelli corvini identici al padre, si avvicinò al cadavere del soldato e con l’indi-

ce toccò il cervello fuoriuscito dal cranio spaccato. Avvertì un brivido salirgli lungo

le gambe e serrargli la gola.

«Fermatevi, figliolo», intervenne Jan afferrandogli il braccio. Il prete si segnò alla

maniera ortodossa, poi si rivolse a Dracul: «Ch’è successo di così orribile da scon-

volgere la principessa in questo modo?». Il voivoda gli consegnò la lettera del Sultano

e fece cenno a Vlad di avvicinarsi. Il bambino ubbidì immediatamente, andando ad

affondare la testa nel grembo del padre. Finito di leggere, il prete si sedette. Le mani

tremavano, e una ciocca bianca gli cadde dinanzi agli occhi.

«Che avete fatto? Disonorare il patto stipulato con il nemico della Croce po-

trebbe essere un bene, ma non se egli porta il nome di Murad II. Non avete giudi-

zio, Vlad».

«Andrò a Gallipoli», tagliò corto il voivoda.

«Il Sultano Murad vi vuole solo, senza scorta né esercito. È pericoloso, padre mio.

Pensateci bene», esclamò Mircea avvicinandosi con Radu ancora in braccio. Vlad

posò la mano sulla spalla del primogenito, poi guardò i due figli più piccoli.

«Non andrò da solo».

Mircea indietreggiò inorridito e strinse a sé Radu ancora più forte. Jan si coprì la

faccia, mentre l’urlo di disperazione di Cneajna riempiva la sala.

Fuori Sighisoara la campagna appariva meravigliosa. I campi di grano ondeggia-

vano al vento che frusciava tra gli alberi, e un ruscello scorreva vicino a una casupola.

Un bambino guardava il riverbero rossastro del crepuscolo, e sorrise perché sapeva

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che tra poco la madre si sarebbe svegliata. Girò intorno alla casa e si diresse verso la

stalla. Aprì la porticina ed entrò. Lame di luce penetravano tra gli interstizi di legno

illuminando la paglia e gli attrezzi accatastati contro le pareti. Uno sbuffo improvvi-

so lo fece sussultare. Dall’oscurità emerse la figura di un gigantesco stallone nero.

Dopo una prima esitazione, il bambino si avvicinò, ma il cavallo sollevò le zampe an-

teriori e scalciò, mandando all’aria una catasta di legna. Il bambino si voltò: «Mam-

ma!». Si lanciò verso la donna appena apparsa sulla soglia, che spalancò le braccia per

accoglierlo. Lui la strinse ai fianchi, poi alzò il viso: gli occhi della madre erano pri-

vi di luce, il viso sporco di sangue rappreso e le mani fredde come ghiaccio. Fissava

il figlio con espressione ebete, mentre la lingua spingeva contro i canini aguzzi.

«È tornata, visto, piccolo mio?», disse Lilith entrando nella stalla. Tirò giù il cap-

puccio nero e gli sorrise dolcemente.

«Ho fame. Sono storpio. Mi picchiano i figli del mastro. Signora, fa’ tornare mam-

ma come prima. Lei sta sempre a dormire, al buio», piagnucolò il bambino.

«Non si può», sussurrò Lilith con tenerezza. Scosse la testa, e una ciocca bionda le

calò sul viso bellissimo. Tese le braccia e le maniche s’abbassarono, mostrando una ra-

gnatela di cicatrici e il moncherino fasciato con cura. Aveva un odore terribile che il

bambino riconobbe come quello della putrefazione, ma nonostante l’afrore lui ri-

cambiò l’abbraccio. Poi la signora lo guardò con intensità e gli avvicinò le labbra al col-

lo. Il potente nitrito dello stallone soffocò l’urlo del bambino, ma non il lappare di-

sgustoso della vampira. Quel sangue malato le fluì nel corpo come ambrosia, corro-

borò la sua forza, aumentando l’odio per Semangelof. Il bambino si accasciò sulla

spalla di Lilith e morì. La vampira lo depose delicatamente ai piedi della madre che

ghignò consapevole che non avrebbe dovuto attendere molto. Il ragazzino mosse dap-

prima le dita, poi le gambe e le braccia. Si sollevò e sorrise, lo sguardo fisso sulle due

vampire. Il labbro leporino era ancora più accentuato, come ogni difetto e ogni feri-

ta inferta dai figli del mastro. Si girò verso la madre e le mostrò i canini aguzzi.

«Ho fame, mamma», disse lui.

Lilith rise e richiamò il suo cavallo. Lo stallone sbuffò, madido di sudore. La

vampira lo lanciò al galoppo, mentre i due strigoi uscivano dalla stalla.

«Siate liberi, figli miei, miei lilim. Che la Transilvania e la Valacchia siano la vostra

terra», urlò con voce gracchiante che si perse nella notte.

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Nell’attimo stesso in cui Vlad dava l’ultima spinta abbandonandosi dentro C-

neajna, la principessa chiuse gli occhi come sollevata. Il principe rimase immobile,

poi si staccò da lei.

«Ti amo Cneajna, come amo i miei figli».

Lei non rispose, e si alzò tirandosi dietro il lenzuolo. I boccoli che arrivavano fi-

no ai lombi risplendevano. Si chinò per estrarre il pitale da sotto il letto e urinò, poi

ne gettò il contenuto nel camino e le fiamme si abbassarono per rialzarsi subito do-

po liberando un odore acre. Cneajna si lasciò andare su una sedia ampia con gran-

di braccioli. Vlad si sedette sul bordo del letto, con lo sguardo rivolto al pene che

pendeva da un lato e alla peluria che cominciava a colorarsi di grigio. Infilò le bra-

che, poi raggiunse la moglie. La guardò a lungo, la mano tesa sulla testa di lei senza

avere il coraggio di toccarla. L’eco di un carro che passava sotto la finestra risuonò a

lungo.

«Non li vedrò più», disse Cneajna spenta dal dolore.

«Non sottovalutare Murad. Il Turco sa come comportarsi con chi gli fa il dono più

prezioso». Cneajna si voltò di scatto, gli occhi di brace, e Vlad arretrò d’istinto. Lo

stava squadrando con la stessa violenza che lui usava in battaglia. Si sentì impotente,

e questo non gli piacque.

«Il fatto è che non mi fido», disse lei con voce dura.

«Del Turco?».

«No. È di te che non mi fido, Dracul».

«Come osi?». Afferrò la moglie per le braccia e la scosse con violenza, poi la scara-

ventò sul letto. La principessa cercò di fuggire, ma il marito fu lesto a bloccarle i pol-

si e a sollevare il pugno. Lei chiuse gli occhi aspettando il colpo. Vlad non si mosse.

Pieno di rabbia e frustrazione urlò: «Stammi lontana, serpe!».

«Maledetto!», strillò lei ancora più forte. «Dagli il figlio di Caltuna».

«Quello non è un principe, ma un bastardo».

«È figlio tuo».

«Non è la stessa cosa e tu lo sai, moglie. E lo sa anche il Sultano della Sublime Porta».

Fu in quel momento che la risolutezza della principessa svanì come un fiore tra-

volto dalla piena del fiume. Cadde in ginocchio e scoppiò in un pianto dirotto.

«Dio Santissimo!», proruppe Vlad schiaffeggiandosi le cosce. «Ma si può sapere

come ragioni, moldava? A cosa credi servano i figli? A rendere meno penosa la nostra

esistenza? Non è così. Sono merce da barattare. Fai sposare le femmine o le metti in

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convento se non hai una dote da offrire, e sacrifichi i maschi quando perdi la spe-

ranza di sopravvivere».

«La speranza, Vlad?», ribatté la principessa. «La fonte da cui scaturisce la speranza è

inesauribile… e si prosciuga solo se siamo noi a non crederci più». Cneajna tremava.

Vlad alzò gli occhi al cielo.

«Cneajna, ho preso la mia decisione. Puoi non accettarla, non m’interessa. Tra

sette giorni partirò da Sighisoara con Vlad e Radu che consegnerò al Turco come o-

staggi, anche se lui non me lo ha chiesto. La prossima luna di maggio non è lonta-

na… Cneajna?».

In ginocchio, la donna raggiunse la parete e si mise bocconi sul pavimento da-

vanti a un’icona.

«Esci, Vlad. Ho bisogno di pregare».

La notte era silenziosa. Dracul passeggiava sulla terrazza del palazzo. Una folata

sollevò le foglie che volteggiarono su se stesse per poi cadere nella fontana al centro

del piazzale. Vlad rimase a lungo a osservare l’immagine della luna riflettersi nel-

l’acqua, spezzata in una miriade di cerchi. Il pianto di sua moglie gli rimbombava an-

cora nelle orecchie. Sospirò preoccupato, poi decise di scendere nelle cucine: ubria-

carsi fino allo svenimento gli parve la soluzione ottimale per alleviare la tensione.

S’incamminò verso le scale.

«Voivoda Dracul».

Il principe si bloccò come fulminato. Chiuse forte gli occhi e lentamente si voltò.

Immobile sul parapetto c’era una figura femminile con lunghissimi capelli biondi.

Indossava un abito nero di fattura molto antica che evidenziava l’incarnato cenere

e gli occhi smeraldo.

«È giunto il momento di rispettare il patto, voivoda».

Il signore di Valacchia respirò profondamente.

«Sì, Lilith».

Lilith scese dal parapetto con le braccia aperte. Le maniche dai bordi smerlati la

facevano somigliare a un enorme pipistrello. Si mosse verso di lui ancheggiando

sensuale, mentre la lingua leccava le labbra carnose. Vlad tirò la testa indietro per

permettere alla vampira di posargli le labbra sul petto. Spalancò la bocca per urla-

re ma non emise che un flebile gemito mentre la mano di lei scorreva gelida sulla

peluria dello stomaco. Quando le dita di Lilith strinsero il pene, a Vlad si mozzò il

respiro.

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«Ho saputo che hai tradito il Turco, e che ora te ne ha chiesto ragione. Fai ciò che

vuoi con gli altri, ma non osare venir meno al nostro giuramento».

«Non lo farò, signora. Ho già tradito l’Ordine del Drago, la Sublime Porta e la mia

amatissima moglie. E tutto questo comincia a pesarmi».

«Ma il tradimento è la tua passione, voivoda. Coraggio, ti riprenderai», lo schernì

Lilith, la bocca sulla giugulare di lui. I canini gli graffiarono la pelle, poi morsero. Co-

minciò a succhiare avidamente. Gli poggiò le mani sulle spalle e lo spinse giù facen-

dolo adagiare supino. La vampira sollevò l’abito, allargò le gambe e gli sbottonò le

brache.

«Posso davvero fidarmi di te?».

«Sono stato convocato a… Gallipoli… dal Sultano Murad…», annuì il principe.

«Sai già come liberarti del Turco?».

«Porterò Radu e Vlad, e li lascerò ostaggi del Sultano, che lo voglia o no».

Lilith aggrottò la fronte stringendo il pugno per contenere il disprezzo, ma preferì

non dire niente.

«Molto bene, Vlad di Valacchia, sai cosa fare. Voglio il tesoro degli Ánghelos, il

Dominio Scarlatto», sibilò cavalcando sopra di lui come una furia.

Preso da una lussuria sfrenata, Dracul non fece caso alle ultime due parole di Li-

lith, né si accorse che Caltuna li stava osservando nascosta dietro una guglia.

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1. Cheyenne McCray, Magia proibita

2. Alessia Rocchi, Anghelos. Il Libro Oscuro di Dracula

DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

3. Cheyenne McCray, Sedotta dalla magia

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010

presso Puntowebvia Variante di Cancelliera, snc

Ariccia (Rm)per conto di Alberto Castelvecchi Editore Srl