ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE · •Inclusione mediante la partecipazione degli stakeholders...

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ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE Contatti docente: [email protected] [email protected] cfr: Luigi Bobbio, La democrazia deliberativa nella pratica, in "Stato e mercato" 1/2005, pp. 67-88, doi: 10.1425/19634

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ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE

Contatti docente: [email protected][email protected]

cfr: Luigi Bobbio, La democrazia deliberativa nella pratica,

in "Stato e mercato" 1/2005, pp. 67-88, doi: 10.1425/19634

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La democrazia deliberativa nelle scelte pubbliche

• L’inclusione

• I teorici della democrazia deliberativa sostengono l’opzione di

un’inclusione totale e illimitata.

• Per Iris Marion Young «una procedura deliberativa è legittima solo

se tutti gli interessi, le opinioni e le posizioni presenti nella società

sono inclusi nel processo deliberativo» (1999, p. 155).

- Ma come può essere messa in pratica?

- Come è possibile conoscere e individuare tutti gli interessi e tutte le

opinioni?

- Chi è autorizzato a rappresentare gli interessi e le opinioni altrui?

- In una situazione di frammentazione degli interessi (come l’attuale)

quali e quante organizzazioni possono accedere all’arena

deliberativa?

- Come è possibile assicurare un’interazione costruttiva in presenza di

un alto numero di partecipanti e di una gamma di posizioni molto

diversificata?

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• Se una completa inclusione è irrealizzabile e forse nemmeno

augurabile (perché un affollamento eccessivo potrebbe

compromettere la qualità della deliberazione), non è impossibile

individuare approssimazioni realistiche e significative, che

consentano nello stesso tempo di raggiungere un’adeguata

partecipazione dei punti di vista pertinenti e di non dilatare

eccessivamente la dimensione dell’arena.

• Le esperienze pratiche in Italia sono preziose: in tali esperienze

l’inclusione non si presenta come un valore di per sé. In genere esse

non nascono, salvo qualche eccezione, per promuovere la

democrazia. Nascono piuttosto per ragioni di legittimità e di efficacia

(Manin 2002).

• I promotori ambiscono a realizzare una rappresentanza il più

possibile completa dei punti di vista non per ragioni ideali, ma per

ragioni pratiche.

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• Se qualcuno resterà fuori sarà più difficile fargli accettare la

decisione o pretendere che contribuisca a metterla in atto.

• Una scelta compiuta trascurando alcuni interessi sarà per forza di

cose parziale e quindi dotata di una minore legittimità.

• Es. si può elaborare il piano strategico di una città senza coinvolgere

gli ambientalisti o i commercianti: scelta poco saggia perché alla fine

il risultato sarà povero dal punto di vista dei contenuti e avrà un

consenso ridotto.

• Caratteristica dei processi di concertazione diffusa: i promotori

cercano normalmente, nel loro stesso interesse, di mettere in piedi

arene dotate della massima inclusività.

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• L’inclusione mediante sorteggio

• La prima opzione consiste nel sorteggio: si cerca di approssimare il

principio di inclusione, sottoponendo la questione da discutere a un

campione casuale di cittadini sorteggiato tra la popolazione

potenzialmente toccata dalla questione stessa.

• Al principio della rappresentanza, si sostituisce il principio della

rappresentatività statistica: far discutere cittadini comuni attorno a

specifici temi di interesse pubblico dando loro la possibilità di

interrogare gli esperti, di farsi un’opinione e di giungere a una

conclusione condivisa.

• In alcuni casi l’obiettivo è semplicemente quello di rilevare le

opinioni dei partecipanti e di mostrare come esse si siano modificate

nel corso del processo deliberativo: è il caso dei sondaggi deliberativi

(deliberative opinion polls) proposti e attuati da James Fishkin (1991,

1995).

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• Altre esperienze hanno invece l’obiettivo più ambizioso di fornire

raccomandazioni ai policy-makers:

- Le planungszelle (Garbe 1986; Dienel e Renn 1995) vengono

organizzate da anni in Germania per permettere ai cittadini di

esprimersi su problemi specifici di pianificazione, prevalentemente

su scala locale.

- Le citizens’ juries (Smith e Wales 1999) sono state sperimentate in

diversi paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Australia) su varie

questioni di rilevanza pubblica.

- Le consensus conferences (Joss 1998; Boy et al. 2000; Pellizzoni

2002) si prefiggono invece di rilevare il punto di vista ragionato di

cittadini comuni su questioni tecnico-scientifiche controverse.

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• Vantaggi del sorteggio:

- non è discrezionale ed esclude, in particolare, qualsiasi filtro a priori sui punti di vista ammissibili

- permette la partecipazione di cittadini che non hanno (ancora) alcuna opinione specifica dando così vita a una discussione tra persone che non hanno necessariamente posizioni precostituite da difendere

- costituisce quindi una buona cornice entro cui dare vita a un processo dialogico aperto.

• Svantaggi del sorteggio:

- È improbabile che nel campione casuale siano rappresentati gli interessi delle minoranze che pure potrebbero avere buone ragioni dalla loro parte.

- Il campione tende a rappresentare la distribuzione delle preferenze tra la popolazione, ma non può rappresentarne l’intensità, con la conseguenza di riprodurre una gamma «media» di opinioni e di escludere le punte estreme.

• Non è un caso che questi esperimenti tendano spesso a concludersi con raccomandazioni ragionevoli ed equilibrate: è sempre meglio che far «dipendere una decisione da chi grida più forte» (Parkinson 2003, p. 192), ma indubbiamente finisce per generare un certo appiattimento e per produrre risultati che rischiano di apparire poco legittimi agli occhi degli attori che hanno preferenze più intense.

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• Non vanno sottovalutate, inoltre, le distorsioni che derivano dai

processi di autoselezione: soltanto una piccola frazione dei cittadini

sorteggiati accetta di solito di partecipare agli incontri e pertanto

alcune categorie di cittadini (i meno istruiti, le persone appartenenti

alle classi centrali di età che hanno meno tempo libero, le giovani

madri con figli piccoli, ecc.) finiscono per essere sistematicamente

sottorappresentate.

• Problema della dimensione: allo scopo di permettere a tutti di poter

parlare, fare domande, informarsi e di consentire una buona

interazione tra di loro, il numero dei partecipanti è tenuto basso

(solitamente dalle 15 alle 25 persone), ma ovviamente un campione

così piccolo non può essere rappresentativo sul piano statistico

(Fishkin e Luskin 2000).

• Una maggiore rappresentatività è garantita dai sondaggi deliberativi,

che proprio perché non devono giungere a un risultato condiviso

possono coinvolgere un numero molto maggiore di persone (fino a

300-400) e possono quindi realizzare un migliore grado di inclusione.

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• Inclusione mediante la partecipazione degli stakeholders

• La seconda via per avvicinarsi al principio dell’inclusione (assai più

ovvia e frequente) consiste nel costruire un’arena in cui sia assicurata

la presenza di tutti i punti di vista rilevanti sul tema in questione.

• Non conta che i partecipanti siano rappresentativi dell’universo, ma

che lo siano i punti di vista che essi sostengono.

• La deliberazione si svolge tra gli stakeholders, ossia tra coloro che

rappresentano gli interessi in gioco, indipendentemente dal peso

numerico che essi hanno effettivamente nella popolazione di

riferimento.

• Il grado di inclusione può essere quindi maggiore rispetto all’ipotesi

precedente.

• In particolare possono trovare spazio anche le posizioni più radicali

che sono così obbligate a confrontarsi con le posizioni più moderate

o con quelle opposte alle loro.

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• Inclusione mediante la partecipazione degli stakeholders

• Ovviamente il dialogo può non riuscire.

• Ma una soluzione condivisa, raggiunta in tali condizioni, sarebbe

dotata di una fortissima legittimità.

• La formazione di un’arena deliberativa in cui non si prevede di

ricorrere alla votazione, ha un enorme vantaggio rispetto alla

formazione di un’assemblea in cui si decide a maggioranza.

• Un’arena in cui si discute ma non si vota, quello che conta è la

presenza di tutti i punti di vista rilevanti, ma non la loro

rappresentanza quantitativa: non importa quanti sono i rappresentanti

di un certo punto di vista, importa solo che ci siano e che abbiano il

pieno diritto di esprimersi (Elster 1998, p. 13).

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• Come valutare il grado di inclusione raggiunto in un’arena?

• Il criterio minimo è dato dall’apertura: non deve essere chiusa la porta in faccia a

nessuno; criterio sicuramente necessario ma non sufficiente.

• Possono esserci interessi e punti di vista che non riescono ad approfittare della

condizione di apertura perché non sono informati di questa opportunità o non sono

sufficientemente organizzati (es. interessi particolarmente deboli o dispersi che non

sono in grado di far sentire la loro voce: per esempio gli anziani, i giovani, le

minoranze etniche, gli stranieri, gli abitanti di un quartiere degradato, ecc)

• Se i promotori si affidano soltanto agli interessi già organizzati (per esempio le

categorie produttive, i lavoratori dipendenti ecc.) rischiano di tagliare fuori dal

processo proprio coloro che avrebbero maggior bisogno di essere inclusi.

• Il principio di inclusione richiederebbe, pertanto, che la costituzione dell’arena fosse

preceduta da un’attività di indagine sul campo volta a individuare i possibili interessi

coinvolti, rintracciare le persone fisiche che potrebbero rappresentarli, ascoltarle e

convincerle dell’opportunità di partecipare.

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• Indagini di questo genere sono abbastanza frequenti nel mondo reale.

• Per esempio i patti territoriali sono spesso accompagnati da attività di

«animazione territoriale» in cui si cerca di capire quali soggetti locali

possono essere coinvolti nella concertazione.

• I piani strategici sono spesso preceduti da vari tipi di indagini

diagnostiche, volte ad appurare la natura dei problemi e l’identità dei

possibili partecipanti.

• I progetti di riqualificazione urbana cominciano a prendere forma,

per lo più, attraverso indagini di ricerca-ascolto, gestite attraverso

diverse tecniche che servono a mettere a fuoco i temi e i soggetti con

cui lavorare (Bobbio 2004).

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• Es. il caso degli interessi delle generazioni future: qualche approssimazione

può essere tentata, dando spazio, per esempio, a coloro che, per ragioni ideali

o professionali, hanno la tendenza a comportarsi in modo lungimirante, per

esempio le associazioni ambientaliste da un lato e gli specialisti dall’altra

(geologi, naturalisti, biologi).

• Anche così può capitare che l’inclusione sia incompleta.

• Ci possono essere gruppi che si rifiutano di partecipare al gioco perché, per

motivi ideologici, non sono disposti a compromessi, preferiscono tenere una

posizione antagonista piuttosto che dialogica e non vedono di buon occhio i

processi inclusivi perché temono di venire risucchiati dentro una logica che

non condividono e di smarrire la loro identità.

• Essi contestano l’impostazione che viene data al problema e ritengono che i

problemi siano altri, più generali e più di fondo.

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• Gradi di inclusione

• Ci possono essere arene in cui sono rappresentati solo gli attori

pubblici (come avviene in Italia negli accordi di programma), nella

presunzione che gli enti locali e le agenzie funzionali siano in grado

di rappresentare tutti i punti di vista possibili.

• Ci sono arene più aperte dove sono inclusi i grandi gruppi

organizzati.

• Ci possono essere, infine, casi dove la composizione delle arene

riflette in modo capillare l’articolazione degli interessi della società,

dando spazio a micro-associazioni, comitati di cittadini o addirittura

favorendo l’apporto di cittadini singoli.

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• Le esperienze concrete tendono così a collocarsi entro due estremi.

• Da una parte si trovano le arene tendenzialmente chiuse, formate da

pochi attori con interessi omogenei (anche se contrapposti).

• Dall’altra le arene tendenzialmente aperte e formate da molti attori

con interessi disomogenei.

• Il primo caso (arene chiuse, pochi attori, interessi omogenei) è

tipico delle arene neocorporative. Qui si suppone che poche grandi

organizzazioni (padronali e sindacali) siano in grado di rappresentare

la totalità degli interessi coinvolti, che sono comunque di natura

specificamente economica. L’inclusione non è realizzata tramite il

diretto accesso dei singoli interessi all’arena, ma piuttosto dal fatto

che le organizzazioni partecipanti si propongono di per sé come

inclusive.

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• Sul fronte opposto (arene aperte, molti attori, interessi

disomogenei) troviamo esperienze come i piani strategici, i processi

di «Agenda 21», gli interventi di urbanistica partecipata: in tutti

questi casi si mescolano interessi di diversa natura (economici,

sociali, ambientali) sostenuti da una rappresentanza plurima e

frammentata.

• In una posizione intermedia tra questi due estremi possiamo collocare

i casi di concertazione per lo sviluppo locale (come i patti

territoriali) dove la rappresentanza è più variegata rispetto alle arene

neocorporative, ma gli interessi in campo sono prevalentemente

economici (i punti di vista ambientali o sociali hanno, salvo qualche

eccezione, scarso accesso).

• Nuova tendenza: spostamento dalle prime chiuse a quelle allargate

(riflesso della frammentazione istituzionale e sociale che caratterizza

le nostre società)

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• Spazi pubblici circoscritti

• Le esperienze di scelta pubblica inclusiva, sia quelle realizzate

mediante sorteggio, sia quelle realizzate mediante la partecipazione

degli stakeholders, presentano un tratto comune fondamentale: esse si

svolgono all’interno di spazi pubblici circoscritti, strutturati e

costruiti ad hoc.

• Possiamo anche designarli come «arene deliberative» (Bobbio

2002b), «forum deliberativi» (Baccaro 2004) o, seguendo Habermas

(1996, p. 429), «spazi circolari chiusi».

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• Spazi pubblici circoscritti

• Sono spazi pubblici – anche se non sono necessariamente aperti al pubblico (Elster 1993) – perché:

- rappresentano una sorta di microcosmo della società nel quale ciascun partecipante è indotto ad articolare le proprie preferenze di fronte ai propri interlocutori e a tenere conto dei punti di vista altrui;

- sono circoscritti, perché per quanto la partecipazione sia estesa e molteplice, sono dotati di precisi confini in modo da permettere un’interazione proficua e continua tra i partecipanti;

- sono strutturati, nel senso che l’interazione si svolge secondo regole e fasi;

- sono costruiti ad hoc, poiché nascono per affrontare uno specifico tema e tendono a sciogliersi quando il loro compito è terminato.

• Le arene deliberative si collocano in una posizione, per così dire, intermedia tra la sfera pubblica, che, secondo la ricostruzione di Habermas (1996), è uno spazio spontaneo e senza confini, e le istituzioni pubbliche democratiche, che invece agiscono sulla base di procedure formali rigorosamente codificate.

• A differenza di queste ultime, non hanno poteri giuridici e quindi possono basarsi su un grado maggiore di informalità.

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La democrazia deliberativa

• Per i teorici della democrazia deliberativa una decisione è legittima soltanto se è il frutto di «un processo dialogico in cui i partecipanti confrontano le loro ragioni allo scopo di risolvere situazioni problematiche» (Bohman 1996, p. 27).

• La deliberazione esclude la mera aggregazione delle preferenze, ma punta viceversa sulla loro trasformazione nel corso del processo di discussione.

• I «deliberativisti» ammettono che, in caso di divergenze insolubili, la decisione finale possa essere presa a maggioranza, ma «questo modo di concludere non elimina la differenza esistente tra forma discorsiva della scelta collettiva e forma aggregativa di preferenze non discorsive» (Cohen 1989, p. 23).

• Anche questa prescrizione, come quella dell’inclusione totale, può sembrare eccessivamente pretenziosa. Nelle arene del mondo reale è poco probabile che i contendenti possano sviluppare quel dialogo imparziale, disinteressato e razionale, supposto dalla teoria.

• Ma come abbiamo visto per il principio di inclusione, anche nel caso della deliberazione possiamo immaginare un avvicinamento per gradi. In Italia, nel gergo degli addetti ai lavori l’attività svolta in queste situazioni di scelta collettiva viene solitamente definita come «concertazione».

• Si parla di concertazione tra le parti sociali, di concertazione per lo sviluppo locale, di concertazione per la definizione di un piano o di un programma ecc. Ma il termine concertazione resta troppo generico: indica che le parti cercano di mettersi d’accordo, ma non dice nulla sulle modalità delle interazioni né sulla natura del risultato a cui tendono.