ANALISI CRITICA DEL CONFLITTO · Resch e dall'Associazione per la Pace di Pisa, cofinanziati dalla...

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MODULO DIDATTICO: ANALISI CRITICA DEL CONFLITTO Dalla Teoria Del Conflitto Al Caso Israelo-Palestinese A cura di: Ciuti Meri Gasparri Elena Nesci Emanuela Pasquato Francesca Rossi Francesca Proposta elaborata dalla Rete Radié Resch, gruppo Pisa-Viareggio, e dall'Associazione per la Pace-Pisa, nell’ambito del progetto “Educare al conflitto per educare alla pace: con gli occhi dell'altro” , in collaborazione con: CdL in “Scienze per la Pace”, Università di Pisa; Comitato toscano di “Un ponte per...”; Scuola per la Pace della Provincia di Lucca; Isis “N. Macchiavelli” (Lucca); I.T.C. Carlo Piaggia (Viareggio); Istituto Tecnico Industriale “G. Galilei” (Viareggio); I.P.S.S.A.R. “G. Matteotti” (Pisa) e Cooperativa “Una città” (Rimini). Prodotto realizzato con il contributo della Regione Toscana, legge regionale n. 55/1997(Interventi per la promozione di una cultura di pace) AssoPace-Pisa

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MODULO DIDATTICO:

ANALISI CRITICA DEL CONFLITTO

Dalla Teoria Del Conflitto Al Caso Israelo-Palestinese

A cura di:Ciuti Meri

Gasparri ElenaNesci Emanuela

Pasquato FrancescaRossi Francesca

Proposta elaborata dalla Rete Radié Resch, gruppo Pisa-Viareggio, e dall'Associazione per la Pace-Pisa, nell’ambito del progetto “Educare al conflitto per educare alla pace: con gli occhi dell'altro”, in collaborazione con: CdL in “Scienze per la Pace”, Università di Pisa; Comitato toscano di “Un ponte per...”; Scuola per la Pace della Provincia di Lucca; Isis “N. Macchiavelli” (Lucca); I.T.C. Carlo Piaggia (Viareggio); Istituto Tecnico Industriale “G. Galilei” (Viareggio); I.P.S.S.A.R. “G. Matteotti” (Pisa) e Cooperativa “Una città” (Rimini).

Prodotto realizzato con il contributo della Regione Toscana, legge regionale n. 55/1997(Interventi per la promozione di una cultura di pace)

AssoPace-Pisa

Per informazioni e contatti: [email protected]. 347 3236745/388 1784240

Noi tendiamo a vivere in un mondo di certezza, di percezione radicate,non sfiorate da dubbi; siamo convinti che le cose sono così come le vediamo,

e che non c'è alternativa a ciò che sosteniamo come verità.Questa è la nostra situazione quotidiana, la nostra condizione culturale

il modo abituale in cui esprimiamo il nostro essere umani.Ora...questa è una sorta di invito a trattenersi dall'abitudine di cedere

alla tentazione della certezza.H. Mturana e F.Varla-L'albero della conoscenza

INDICE

I progetti “Educare al conflitto per educare alla pace: il caso israelo-palestinese” e “Educare al

conflitto per educare alla pace: con gli occhi dell'altro”

Prefazione – Enza Colatutto (Isi “Machiavelli”, Lucca)

Introduzione al modulo

“ANALISI CRITICA DEL CONFLITTO: DALLA TEORIA DEL CONFLITTO AL CASO

ISRAELO-PALESTINESE”

1. Unità didattica: il conflitto

1.1 Struttura

1.2 Contenuti

1.2.1 Cos'è il conflitto

1.2.2 Dilemma-controversia-conflitto e il triangolo di Galtung

1.2.3 Distinguere tra violenza e conflitto

1.2.4 Gli attori del conflitto: il triangolo di Goss-Mayr

1.2.5 Cause e fonti del conflitto

1.2.6 Le fasi del conflitto e l'escalation di Glasl

1.2.7 Gestione e trasformazione del conflitto

ALLEGATI ALLA PRIMA UNITA' DIDATTICA

2. Unità didattica: il conflitto israelo-palestinese

2.1 Struttura

2.2 Contenuti

2.2.1 Contestualizzazione storico-geografica del conflitto israelo-palestinese

2.2.2 Gli attori coinvolti

2.2.3 Le cause del conflitto

2.2.4 Le possibili soluzioni

2.2.5 Verifica

ALLEGATI ALLA SECONDA UNITA' DIDATTICA

I PROGETTI “EDUCARE AL CONFLITTO PER EDUCARE ALLA PACE: IL CASO ISRAELO-PALESTINESE” E “EDUCARE AL CONFLITTO PER

EDUCARE ALLA PACE: CON GLI OCCHI DELL'ALTRO”

Promuovere l'educazione alla pace e alla gestione nonviolenta dei conflitti è di primaria importanza in tempi di globalizzazione come quelli odierni. L'interdipendenza globale, infatti, oltre ad essere stimolo di nuove vie e forme di comunicazione, è alla base di una sempre maggiore conflittualità mondiale, che si esprime sia a livello locale (es. cittadini vs. immigrati), sia a livello regionale e internazionale (es. conflitti tra stati/nazioni per risorse scarse). Sono numerose le circolari ministeriali che insistono sull'importanza di promuovere percorsi di educazione alla pace nelle scuole, segno di una presa di coscienza sempre maggiore anche a livello politico nazionale.Come evidenziato nella “Dichiarazione di New Delhi”5 del 2003, è di primaria importanza che l'educazione interculturale e alla pace si rivolga ai giovani, dal momento che quanto prima si previene la formazione di stereotipi e atteggiamenti pregiudiziali, tanto più efficace sarà il risultato. Nello stesso documento si insiste sul ruolo fondamentale giocato dagli insegnanti, i quali, mediatori interculturali per eccellenza, sono portati a tessere continuamente i rapporti, i confronti e le conflittualità tra tutte le individualità che compongono la classe. Infine, il documento dà enfasi alla riforma dei curricula, dei metodi di insegnamento e dei libri di testo, i quali dovrebbero dare un'interpretazione della storia non partigiana, in cui il racconto dei vincitori sia accompagnato da quella dei vinti.Purtroppo, nella realtà, l'insegnamento della storia sembra essere stato più spesso utilizzato per perpetuare i conflitti anziché per ricercare soluzioni. Questo perchè spesso si basa su approcci etnocentrici e monolitici, dove esiste sempre e solo una narrativa legittima. D'altro canto, il conflitto è insegnato attraverso l'interpretazione dei maggiori eventi e date e raramente si concentra su fatti. Ogni parte usa gli eventi storici che meglio supportano la sua posizione politica e che negano o sminuiscono l'altra.Ed è proprio dalla presa di coscienza di questa situazione e dalla convinzione che l'insegnamento debba essere un canale di comprensione e non di discriminazione che nasce questa proposta: un modulo sullo studio e l'analisi dei conflitti storici, a disposizione degli insegnanti, che lo potranno applicare nello studio dei diversi conflitti storici e sociali che incontreranno lungo il programma scolastico. Un modulo che aiuti a sviluppare un differente approccio di insegnamento al conflitto, che sia critico, olistico e incentrato sul riconoscimento del punto di vista dell'altro e sul dialogo. Un' iniziativa che cerca di promuovere il ruolo dell'educazione per la costruzione di una cultura di pace, trasformandola in uno dei più importanti strumenti per la gestione nonviolenta dei conflitti, attraverso lo sviluppo di nuove metodologie didattiche che riflettano la coesistenza, la pace e i diritti umani nello spirito dei criteri dell'UNESCO.

Il modulo di seguito presentato si inserisce a conclusione di due progetti elaborati dalla Rete Radié Resch e dall'Associazione per la Pace di Pisa, cofinanziati dalla Regione Toscana attraverso il bando “Progetti integrati per una cultura di pace”, ex l.r. 55/97, dal titolo “EDUCARE AL CONFLITTO PER EDUCARE ALLA PACE: IL CASO ISRAELO-PALESTINESE” (2008-2009) e “EDUCARE AL CONFLITTO PER EDUCARE ALLA PACE: CON GLI OCCHI DELL'ALTRO” (2009-2010).I progetti nascono dal contatto avuto nel 2007 durante un seminario svoltosi presso il corso di laurea di Scienze per la Pace a Pisa con l’associazione israelo-palestinese “Parent’s Circle”, che riunisce genitori israeliani e palestinesi toccati da un lutto familiare dovuto al conflitto in corso e che promuovono azioni di dialogo tra le due parti per favorire la comprensione reciproca volta alla riconciliazione e alla pace. L’associazione, attraverso l’Istituzione Palestinese per lo Sviluppo e la 5 Adottata dalla International Ministerial Conference on Dialogue among Civilizations- Quest for New Perspectives, New Delhi, 9-10 luglio 2003.

Uno dei cartelloni prodotti dagli studenti durante il gioco di ruolo.

Democrazia “Al-Tariq”, aveva da poco scritto un progetto biennale dal titolo “Education as a dialogue: teaching the Israeli-Palestinian conflict from different prospectives”, volto all’analisi di come viene descritto e rappresentato il conflitto mediorientale nei libri di testo delle scuole israeliane, palestinesi e di alcuni Paesi europei. La Rete Radié Resch insieme al gruppo territoriale pisano dell'Associazione per la Pace, nato dall'esperienza del gruppo informale MoStuPa di Pisa (Movimento Studenti per la Pace), si è inserita in questo più ampio contesto, attraverso un progetto che ha visto la partecipazione di quattro istituti superiori: l'Istituto Tecnico Commerciale Carlo Piaggia e l'Istituto Tecnico Industriale Galileo Galilei di Viareggio, il Liceo delle Scienze Sociali Nicolò Machiavelli di Lucca e l'Istituto professionale Matteotti di Pisa. Finalità del progetto è stata quella di elaborare un'analisi critica del conflitto, in particolare di come viene insegnato e spiegato nei libri di testo scolatici, e una metodologia didattica “alternativa” che permettesse di studiare la generalità dei conflitti – non solo il caso mediorientale - individuando le diverse interpretazioni della storia ed evidenziando i fattori di comunicazione e di dialogo tra le parti opposte e non solo quelli di scontro. In questo modo, attraverso l’aggiornamento del personale docente, l’obiettivo proposto diviene sostenibile anche a progetto terminato. La scelta di prendere il conflitto israelo-palestinese come caso studio, oltre al contatto diretto con Al-Tariq, è dovuta anche alla sua emblematicità. Nelle due parti in questione, infatti, rivivono i due poli opposti di conflittualità presenti attualmente sullo scenario globale: occidente/oriente, nord/sud

del mondo, ricchi/poveri. La sua analisi perciò supera i confini israelo-palestinesi, permettendo di sviluppare una riflessione più ampia sul conflitto, fino ad arrivare alle ricadute sul territorio nazionale e locale.Il percorso si è articolato in diverse fasi: riprendendo l'idea di Al-Tariq, la prima parte del progetto è stata dedicata all’analisi dei libri di testo delle quattro scuole interessate. Grazie alla collaborazione dei professori Giorgio Gallo, Arturo Marzano e Paola Bora del corso di laurea in Scienze per la Pace dell'Università di Pisa, partner del progetto, è stata elaborata una griglia di analisi, che prevede domande quantitative e qualitative, nonché uno

studio delle immagini. Dalla comparazione delle analisi è emersa una grossa confusione terminologica e alcuni errori storici o grafici. I risultati della ricerca sono stati presentati ai docenti, fornendo la base per la strutturazione delle fasi seguenti, nonché per la definizione del modulo di seguito presentato.Sono stati poi organizzati tre laboratori per classe: il primo sul conflitto in sé, sul suo significato, le cause e gli strumenti di gestione nonviolenta dello stesso; il secondo e il terzo sull'analisi del conflitto israelo-palestinese. La metodologia usata è stata interattiva e partecipata, attraverso brainstorming, giochi, simulazioni, dibattiti ed esercizi del Teatro dell'Oppresso. In particolare, per trattare il conflitto israelo-palestinese si è adottato il gioco di ruolo contenuto nel libro “La mia storia, la tua storia, il nostro futuro” di Angela Dogliotti Marasso e Maria Chiara Tropea, edito da EGA. La risposta degli studenti è stata positiva, il coinvolgimento alto e il confronto ricco: per questo nel modulo di seguito presentato verranno ripresi questi strumenti, proponendoli come mezzo per affrontare i conflitti in maniera critica e completa.

A seguito di questi laboratori sono state organizzate due tavole rotonde, cui hanno partecipato i professori, gli studenti e i formatori impegnati nel progetto, al fine di raccogliere idee ed esigenze di tutte le parti per strutturare in maniera condivisa tale modulo. L’idea è che una progettualità elaborata con i beneficiari del progetto aumenti le possibilità di riuscita dello stesso. Nel corso del primo progetto, nell'estate 2009, è stato organizzato un viaggio di conoscenza nei Territori Palestinesi e in Israele, cui hanno partecipato due coordinatrici del progetto e un'insegnante di storia coinvolta nello stesso. Lo scopo era quello di incontrare insegnanti israeliani e palestinesi interessati dal progetto di Al Tariq, al fine di scambiare le rispettive esperienze e raccogliere stimoli per una proficua continuazione delle stesse. Abbiamo avuto così modo di conoscere direttamente iniziative e difficoltà di studenti e insegnanti coinvolti nel conflitto, e presentare i risultati delle analisi e le idee emerse nel corso dei laboratori dagli studenti.La parte finale di entrambi i progetti è stata dedicata alla sensibilizzazione, sia delle scuole coinvolte che della cittadinanza, utilizzando la metodologia del teatro sociale, nonché attraverso incontri e la partecipazione a manifestazioni organizzate sul territorio.Il modulo proposto, diviso in due sezioni (la prima sul conflitto, la seconda sul caso israelo-palestinese) rappresenta il risultato di questo articolato percorso. Speriamo possa essere un aiuto per il delicato ed essenziale compito dell'educare, affinché l'insegnamento non crei muri, bensì ponti.

PREFAZIONE

Portare l’evento storico a scuola, saperlo affrontare nella sua attualità senza diventare banali o peggio ancora superficiali è veramente molto complesso. Inoltre altra grande difficoltà nel rapporto allievo docente è quella di rompere lo schema della lezione frontale e di avere il coraggio di sperimentare nuove opportunità di conoscenza e di rielaborazione dei contenuti. Nel liceo delle scienze sociali, in circa venti anni di sperimentazione, gruppi di docenti hanno ritenuto molto importante provare a mettere in azione diversi metodi didattici/educativi: lo stage formativo, la compresenza come ora di lezione-laboratorio, la ricerc-azione, i laboratori a tema condotti da esterni, incontri con esperti quale occasione di confronto e di scambio di idee.Ecco perché la proposta di Rete Radié Resch e Assopace concretizzata nel progetto “Educare al conflitto per educare alla pace: con gli occhi dell'altro”, realizzato durante l'a.s. 2009/2010, ha suscitato in alcuni di noi un reale e forte interesse, tentando di coniugare le diverse aspettative senza venire meno alla centralità della proposta affinché l'educazione alla pace divenga cultura, nella consapevolezza che lavorare alla soluzione dei conflitti non possa essere una sola questione di tecnica. Il raccontare e il raccontarsi, dunque, come viaggio formativo, come avventura culturale e umana. Attuare questo con un gruppo di adolescenti vuol dire essere disposti a viaggiare in diverse direzioni, essere curiosi e interessati a tutte le esplorazioni, a tutte le domande, essere arditi. Nella mia esperienza, in questo percorso si incontrano diversi livelli sia di narrazione, sia di conoscenza, sia di pratica. In un primo livello, si afferma con evidenza che i rapporti tra noi stessi e gli altri e tra noi stessi e l’ambiente ci sono spesso sconosciuti, se non talvolta ostili.La fase successiva è quella della ricerca etica, della comprensione dei problemi, attraverso il gioco di ruolo ci si abbandona ad altre identità, si prova a stare nella pelle di un altro, si incontrano altri noi, qui si ha coscienza dell’incertezza, lontano è il risultato, si abbandona l’atteggiamento speculativo per appoggiare un pensiero in costruzione, fondato su modelli che sono tutti da mettere in opera, scrive Edgar Morin, “…il mondo umano messo ovunque a confronto con le incertezze, è trascinato in una nuova avventura. La conoscenza è dunque proprio un’avventura incerta, che comporta in se stessa e permanentemente il rischio di illusione e di errore.” 6

Si assiste alla fase della elaborazione e della costruzione di un metodo che deve essere comune, condiviso, riconosciuto, un processo cognitivo che possa orientare la ricerca e lo studio, inoltre l’esperienza acquisita entra di prepotenza sia nella relazione, sia nell’acquisizione cognitiva. La conoscenza deve essere costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero, questa è la vera sfida, riappropriarsi del pensiero, quindi il viaggio ha ora una meta chiara, un porto al quale approdare. In questo viaggio gli studenti sono stati costretti a ipotizzare ambienti, luoghi, eventi, atti, comportamenti, a considerare diverse dimensioni del tempo, il tempo della guerra, il tempo delle cose, il tempo della vita, il tempo dell’anima, il tempo dell’ascolto e appunto il tempo della conoscenza.Nel testo Ciò che ho imparato Danilo Dolci afferma con forza che il processo educativo si snoda attraverso delle domande cruciali: Che cosa conoscere? Come conoscere? Conoscere, perché? E qui il discorso non può più essere neutrale perché siamo costretti ad andare avanti con le domande Conoscere in favore di chi? di che cosa? Il che significa: contro chi? contro che cosa?La conoscenza diventa scelta etica; già don Lorenzo Milani ci ha insegnato a diffidare di coloro che restano indifferenti, del vuoto nozionismo, della cultura alzata a muro di divisione, dell’autoritarismo lasciato a se stesso, perchè è in quelle realtà che la violenza genera i bulli, che si sviluppano pensieri omologati e semplificati, è lì che si alimenta il rifiuto del diverso.Bisogna domandarsi: dove voglio andare? E quanta energia e volontà ho di impegnarmi in questa direzione?

6 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina Editore, Milano 2001

Mi rendo conto che queste riflessioni portano troppo lontano, mi fermo e torno agli studenti, quando vivono occasioni di reale conoscenza e crescita, quando vivono la coerenza, la progettualità responsabile, il fare come momento integrativo indispensabile del pensare, ecco che, quando questo accade, ho visto molti ragazzi iniziare a costruire pensieri, analogie, formazione di pensiero futuro. A quel punto è la scuola che deve essere interessata alle loro idee, queste devono poter diventare azione, ecco che allora si ritrovano i filosofi, i poeti, i narratori, perché servono a nutrire quell’idea e quella narrazione.

Enza ColatuttoDocente di scienze sociali

ISI Machiavelli, Lucca

INTRODUZIONE AL MODULO

Un'efficace educazione alla gestione costruttiva dei conflitti dovrebbe avere inizio nella scuola primaria e continuare per tutto il ciclo di studi, permettendo così lo sviluppo graduale di determinati comportamenti e abilità. E' importante lavorare su tutti i livelli affinché fin da piccoli i bambini possano prendere dimestichezza con le proprie emozioni, il riconoscimento dei bisogni, l'ascolto attivo e l'analisi nonviolenta delle situazioni conflittuali. Fondamentale è poi cercare la collaborazione di tutti gli attori coinvolti: non solo i ragazzi, dunque, ma anche gli insegnanti, i genitori e il personale scolastico. Questo affinché l'educazione alla pace divenga cultura e non mera tecnica. In particolare, nelle scuole primarie si potrebbero apprendere i concetti e atteggiamenti fondamentali per la gestione creativa e costruttiva dei conflitti. Le scuole secondarie sono invece particolarmente adatte all'integrazione avanzata di saperi e abilità, utili per una conoscenza più approfondita dei conflitti storici e per una lettura critica del conflitto nella vita personale e sociale di ogni studente.Dal punto di vista cognitivo, gli adolescenti e i giovani sono in grado di indagare e analizzare questioni sociali complesse. Dal punto di vista del loro sviluppo, inoltre, cercano un ruolo nel mondo degli adulti e allo stesso tempo si chiedono se e come l'appartenere a determinati gruppi etnici, economici, sociali e culturali darà forma a questo ruolo. Le scuole secondarie, quindi, potrebbero veramente ed efficacemente insegnare agli studenti a comprendere, sintetizzare e mettere in atto i comportamenti e le abilità associate alle idee di tolleranza, gestione costruttiva del conflitto e cittadinanza attiva. Nonostante questa formidabile opportunità pedagogica il più delle volte queste istituzioni non hanno né il mandato né gli strumenti per facilitare l'apprendimento di tali abilità. Ciò è vero anche in quelle discipline nelle quali la questione dei conflitti fra gruppi sono il tema dominate: Storia, Ricerca sociale e Cittadinanza e Costituzione.Questo Modulo è stato pensato proprio per supplire a tali mancanze. Si propone come strumento utile per gli insegnanti e per gli studenti, che spesso hanno come unico punto di riferimento il libro di testo, nel quale di solito i conflitti, storici o attuali, vengono presentati come eventi dai contorni già definiti, con scarsissimi tentativi di esaminare la complessità delle dinamiche sotterranee. La maggioranza dei testi adottati non incoraggia a valutare criticamente le strategie dei leader dei gruppi nel gestire i conflitti; molto raramente gli studenti si mettono nei panni degli attori principali, allo scopo di provarne i sentimenti e indagare in prima persona vie alternative di soluzione, considerandone i pro e i contro. Senza l'opportunità per un apprendimento strutturato critico dei conflitti tra gruppi, gli studenti sono implicitamente indotti a identificarsi solo con il punto di vista del vincitore.Eppure, oggi più che mai, i giovani hanno bisogno di imparare a leggere la violenza e il conflitto da un altro punto di vista, costruttivo e creativo. Hanno bisogno di sviluppare tolleranza, di avere gli strumenti per una più elaborata comprensione degli eventi, di saper valutare prospettive e alternative differenti. Se vogliono essere protagonisti della cultura globale, essi devono essere in grado di comprendere gli scontri di interessi, di valori, di emozioni e di identità che sottendono i conflitti tra gruppi. Soltanto così riusciranno a valutare la gamma di strategie usate dai singoli individui e dalle parti sociali: dalla violenza e coercizione fino alle varie forme di negoziazione e cooperazione.Il Modulo proposto ha come obiettivo quello di fornire agli insegnanti una base di lettura generica dei conflitti storici, e un'applicazione pratica attraverso l'analisi della situazione israelo-palestinese. Nell'elaborazione si è cercato di inserire i suggerimenti e le indicazioni fornite dagli insegnanti e dagli studenti che hanno partecipato al progetto, al quale va il nostro ringraziamento e l'augurio di poter offrire uno strumento che sia un seme di cambiamento nel sistema educativo e nell'intera società.

1. UNITA' DIDATTICA: IL CONFLITTO

L'unità didattica proposta ha come scopo quello di fornire ai docenti strumenti utili per illustrare gli eventi storici in modo da stimolare l'immaginazione e il coinvolgimento della classe e affinare competenze sociali e civiche; servirà inoltre ai ragazzi come metodologia per affrontare e analizzare ogni tipo di conflitto storico.Tenendo presente la difficoltà di analizzare criticamente un conflitto storico e la necessità di prendere la distanza da un approccio riduzionista e a-temporale, per muoversi verso una comprensione più ampia dello stesso, è utile inizialmente creare in classe un clima di ascolto attivo e partecipazione. In questo modo gli studenti saranno più disponibili ad affrontare positivamente un argomento così complesso e delicato. L'ambiente classe si crea anche nella misura in cui viene offerta agli studenti la possibilità di conoscersi tra loro, di lavorare insieme, di insegnare ed apprendere l'uno dall'altro. Per questo motivo la metodologia più adatta per sviluppare la partecipazione attiva e la motivazione ad apprendere criticamente non può basarsi unicamente sulla lezione frontale, che, invece, dovrebbe essere affiancata ad altre modalità di relazione tra insegnanti e studenti. Particolarmente consigliato è il lavoro in piccoli gruppi, che affina la capacità di comunicazione e di ascolto e aiuta a esercitarsi nell'argomentazione, nel confronto critico e ad apprezzare i diversi punti di vista.Per quanto riguarda gli strumenti da usare in classe è utile non soffermarsi alla lettura del solo libro di testo, ma ampliare l'argomento attraverso la lettura e l'interpretazione di varie fonti storiche 7. Queste non dovranno mai essere univoche ma presentare almeno due punti di vista differenti o diverse interpretazioni dello stesso fatto. A questo scopo è stata inserita all'interno dell'Unità una “mappa del conflitto”8 che servirà agli studenti ogni qual volta si accingeranno ad analizzare un conflitto storico.Prima di tutto sarà opportuno dare alla classe una chiara definizione del concetto di conflitto e dei suoi principi base, per poi passare allo studio e alla ricerca di testi di approfondimento o di altri tipi di fonti scritte, iconografiche, audiovisive, ecc. che serviranno ai ragazzi per approcciarsi in modo critico all'argomento storico che stanno studiando.

1.1 STRUTTURA

Tempi: 4 ore • 3 ore: Il Conflitto Cos'è il conflitto; Dilemma-controversia-conflitto e il triangolo di Galtung; Distinguere tra

violenza e conflitto; Cause e fonti del conflitto; Le fasi del conflitto e l'escalation di Glasl; gestione e trasformazione dei conflitti.

• 1 ora: Approccio critico ai conflitti storiciRicerca e analisi di fonti storiche utili all'argomento storico trattato; Costruzione della “mappa

del conflitto”; approfondimenti e relazioni elaborate dagli studenti.

Prerequisiti: • Capacita di contestualizzare i fatti• Disponibilità degli studenti ad affrontare l'argomento

7 Spetterà all'insegnante, eventualmente insieme alla classe, cercare le fonti storiche più adatte per affrontare adeguatamente i conflitti storici inseriti nella programmazione. 8 Mappa del conflitto, immagine n. 1.

Obiettivi:• Analizzare e definire il conflitto • Saper individuare gli strumenti utili per analizzare i conflitti storici • Saper approcciarsi in modo critico agli argomenti storici

Metodologia:• Lezioni frontali e dialogate• Lavori di gruppo• Approfondimenti e relazioni elaborate dagli studenti• Analisi di diverse fonti storiche (scritte, iconografiche, audiovisive, ecc.) • Costruzione della “mappa del conflitto”

Strumenti: • Uso di fonti storiche• Ricerche e approfondimenti attraverso la consultazione di siti web specifici

(www.workablepeace.org ; www.irestoscana.it/mappamondi , ecc.)

• Partecipazione a seminari e incontri pubblici relativi ai temi storici affrontati

1.2 CONTENUTI

Per avere un approccio critico nell'analisi dei conflitti storici bisogna comprendere a fondo di cosa si sta parlando. Questo capitolo, dunque, cercherà di chiarire cosa si intende per “conflitto”, distinguendolo da altri termini considerati simili, nonché cercando di analizzarne le cause e le sue manifestazioni. Verranno inoltre presentati degli strumenti per la sua comprensione e trasformazione nonviolenta.

1.2.1 COS'E' IL CONFLITTO

Il termine conflitto indica un concetto ambiguo. Nella maggior parte dei casi viene percepito ed interpretato come un fenomeno negativo, talvolta persino usato come sinonimo di violenza. In questa Unità Didattica lo considereremo nel suo significato più ampio e positivo: conflitto come fenomeno multidimensionale naturale che caratterizza il cambiamento in una società.Innanzitutto si può affermare che i conflitti sono un dato di fatto nella vita: senza conflitto le attitudini, le relazioni, i comportamenti rimarrebbero sempre gli stessi. Essi rappresentano la base del cambiamento, e dunque della crescita e dell'evoluzione stessa. I conflitti rilevano questioni che vanno affrontate: se costruttivamente o distruttivamente dipende da come essi vengono gestiti. Questo tuttavia non implica necessariamente che le cause o le conseguenze siano ritenute sempre positive.Raramente il conflitto è percepito e usato come un'opportunità di migliorare il livello delle relazioni. Di solito siamo portati a vederlo in maniera bipolare: un vincitore e un perdente, una

giustizia e un'ingiustizia. Raramente invece ci si sofferma sulle molteplici esigenze, preoccupazioni ed emozioni che stanno alla base di quel particolare problema, o si prendono in esame e si analizzano gli elementi che portano le due o più parti al conflitto. Ciò in realtà risulta di fondamentale importanza per capire le reali motivazioni che muovono gli attori in gioco, e poter di conseguenza agire costruttivamente per la prevenzione del conflitto o per una sua risoluzione nonviolenta. Gli elementi da considerare a tal proposito sono: gli interessi (ciò che ognuna delle due parti vuole); i valori (come la realtà dovrebbe essere secondo gli uni e gli altri, i diritti e i principi in cui credono); le emozioni (che cosa sente ognuna delle due parti) e le identità (come si definiscono le due parti).Per approcciarsi criticamente ad un conflitto bisogna imparare a riconoscere queste componenti fondanti e usarle per comprendere in modo più completo le diverse percezioni (diverse e/o opposte) di ogni gruppo all'interno di un conflitto. Infatti, ciascun gruppo legge la realtà in base alle informazioni di cui dispone, che sono sempre parziali e a volte inesatte: di conseguenza ciascun gruppo ha una sua percezione della realtà9. Ecco perchè consigliamo agli insegnanti di costruire insieme agli studenti una “mappa del conflitto”, attraverso la quale individuare interessi, valori, emozioni, identità di entrambe le parti.Ne riportiamo un esempio:

Prospettiva di X Noi Loro

Interessi “Noi Vogliamo” “Loro vogliono”

Valori “ Noi crediamo” “Loro credono”

Emozioni “Noi ci sentiamo” “Loro si sentono”

Identità “Noi siamo” “Loro sono”

Prospettiva di Y Noi Loro

Interessi “Noi Vogliamo” “Loro vogliono”

Valori “ Noi crediamo” “Loro credono”

Emozioni “Noi ci sentiamo” “Loro si sentono”

9 Una storia indiana, disponibile tra gli allegati, simbolizza bene questo concetto.

Identità “Noi siamo” “Loro sono”

Immagine n. 1: Mappa del conflittoComprendere le molteplici fonti di un conflitto può essere di grande aiuto per gli studenti.Divenire consapevoli di ciò che ci muove a un conflitto ci aiuta a capire le ragioni più generali che stanno alla base di ciò che ogni parte vuole: questo è ciò che viene chiamato “passare dalle posizioni agli interessi”. In questo modo si può scoprire cosa realmente sta alla base di un conflitto, al di là delle posizioni presentate inizialmente. Inoltre gli studenti sono così portati a capire da un lato l'importanza delle emozioni nei conflitti storici e dall'altro i modi in cui loro stessi tendono a interpretare e gestire le proprie emozioni in situazioni conflittuali. Un esercizio del genere, infine, li aiuterà a sviluppare la capacità di vedere le cose da più punti di vista, elemento molto importante per elaborare un approccio critico verso i conflitti storici.

Chiedendo ai ragazzi coinvolti dal progetto quali parole, sentimenti, immagini collegavano alla parola “conflitto”, normalmente emergevano concetti negativi: guerra, sangue, violenza, morte, odio, intolleranza, ecc.L'educazione alla pace, al contrario, tenta di proporre un'idea di conflitto come un elemento generativo, una risorsa necessaria per la costruzione di una serie di relazioni che non possono prescindere dal valorizzare e contenere la diversità.

Qui di seguito vi proponiamo due definizioni:

• Il conflitto è uno scontro tra soggetti diversi, originato da incompatibilità di scopo, interessi, bisogni e valori; a questa contraddizione di base sono collegati i comportamenti conflittuali, l'interpretazione della situazione e i vissuti soggettivi delle parti coinvolte.

• Friedrich Glasl definisce il conflitto più precisamente come un’interazione tra attori-individui, gruppi organizzati in cui almeno un attore percepisce incompatibilità tra i suoi pensieri/idee/percezioni/ organizzazioni/sentimenti/desideri e quelli di un altro attore (o altri attori) e si sente schiacciato dall'azione dell'altro.

I confitti riguardano diversi livelli:1. Il livello micro è caratterizzato da relazione “faccia a faccia”, dove gli attori sono i singoli

individui.2. Il livello meso, o intermedio quanto a dimensione e complessità, in cui gli attori del conflitto

sono gruppi e organizzazioni. 3. Il livello macro, infine, comprende i conflitti che si presentano in grandi aggregati politico-

sociali come società e stati, dove gli attori sono entità collettive come partiti, movimenti sociali, o anche gli stessi stati.

1.2.2 DILEMMA-CONTROVERSIA-CONFLITTO E IL TRIANGOLO DI GALTUNG10

Prima di continuare le riflessioni sul conflitto può essere utile fare una riflessione sulle distinzioni tra le situazioni espresse da tre diversi concetti, spesso usati come sinonimi:

• Dilemma è un conflitto interiore, un'incertezza personale nella scelta tra due opzioni che appaiono ugualmente valide, ma sostenute da motivi diversi.

10 J. Galtung (Oslo, 24 ottobre 1930) è un sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 dell'International Peace Research Institut e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti.

• Controversia è una divergenza di opinioni, di punti di vista, che non implica necessariamente un conflitto (per esempio in ambito scientifico ci possono essere teorie diverse per interpretare uno stesso fenomeno).

• Conflitto è una relazione tra due o più parti, connotata da un senso di disagio, di sofferenza, in cui sono presenti tre elementi:

• Contraddizione di base, ovvero il problema (o i problemi) alla base del conflitto: ad esempio la questione del controllo di un territorio. Tale contraddizione spesso non viene esplicitata e non è osservabile.

• Atteggiamenti delle parti in conflitto, ovvero le percezioni, le emozioni e il punto di vista soggettivo a partire dal quale gli attori “vedono” se stessi, il conflitto e la relazione nel suo complesso.

• Comportamenti, ovvero l'insieme delle azioni osservabili (le frasi in una disputa verbale, o degli atti di violenza, ecc.) con cui gli attori intendono condurre il conflitto.

Queste tre dimensioni costituiscono quello che negli studi sui conflitti è conosciuto come il “Triangolo di Galtung”, presentato nella figura n.2:

Immagine n. 2: Triangolo di Galtung

Questi elementi si influenzano tra loro: le percezioni soggettive di una parte possono condurre a scegliere un certo tipo di comportamento; determinate azioni possono “cambiare le carte in tavola” e ridefinire il tipo di contraddizione intorno al quale ruota tutto il conflitto, ad esempio nel caso in cui una disputa territoriale sfocia in una guerra aperta.In ogni conflitto è importante individuare tale struttura fondamentale, anche se non facilmente riconoscibile, e osservarne le dinamiche nel tempo: prima, durante e dopo l'interazione conflittuale.Individuare e mettere in luce il versante soggettivo del conflitto è importante perchè spesso proprio in questo nascono i meccanismi che portano alla violenza. Ogni parte ha la tendenza a mantenere il proprio sistema di credenze e a interpretare i messaggi in maniera conforme alle proprie prospettive, in modo da dare un'interpretazione dei fatti che richiede il minor cambiamento possibile del proprio sistema di credenze, cioè a percepire selettivamente le informazioni in modo tale da confermare la propria visione delle cose. Se ciò avviene in una situazione conflittuale già contraddistinta da forti sentimenti negativi è facile comprendere come ciò possa comportare distorsioni, consolidamento di pregiudizio e perciò incrementare la sfiducia, il risentimento, l'odio, alimentando così la spirale della violenza.Di solito si prende in considerazione un conflitto solo quando esplode, cioè quando la violenza si esprime in comportamenti di aggressione, di ribellione, di ritorsione, quando essa è già nella fase attiva. Non si prendono, invece, in considerazione le altre due fasi, cioè quella che precede lo

Atteggiamenti

Comportamenti

Contraddizione di base

livello manifesto

livello nascosto

scoppio violento e ha in gestazione le ragioni profonde del conflitto, e quella successiva che porta con sé le conseguenze della gestione del conflitto.Quando un conflitto si manifesta non è che l'espressione di una situazione problematica precedente, che può avere all'origine uno o più contraddizioni di base e diversi livelli di violenza.

1.2.3 DISTINGUERE TRA VIOLENZA E CONFLITTO

Nella comune prassi educativa si tende a considerare il conflitto come qualcosa di negativo, da evitare; a maggior ragione nel linguaggio abitualmente usato dai media il conflitto è considerato sinonimo di guerra e questa ambiguità semantica contribuisce a creare una confusione di base. Il conflitto, invece, non deve essere considerato come sinonimo né di violenza né tanto meno di guerra, ma come quella condizione esistenziale ineliminabile che caratterizza tutti gli esseri umani e che può sfociare tanto nella crescita creativa e costruttiva di tutte le parti coinvolte, quanto in una situazione negativa, drammatica e distruttiva.Non tutti i conflitti portano a violenza, ma molte situazioni di violenza sono situazioni di conflitto.La violenza è molto spesso l'espressione del conflitto, un modo per aggirarlo.Per questo è importante, se si vuole arrivare a superare costruttivamente un conflitto, da un lato riconoscere le componenti di violenza, dall'altro metterne in luce le radici e i livelli: oltre a quello manifesto (empirico, osservato, conscio), infatti, c'è n'è un altro latente (teorico, inconscio) di grandissima importanza.La violenza nei conflitti esiste:

1. come strumento di repressione di una delle parti per imporre i propri interessi sull'altra;2. come strumento per esprimere i propri interessi da parte dei più deboli, specialmente se non

si conoscono altre metodologie;3. quando le parti non riescono a trovare altri mezzi per risolvere il conflitto;4. come punizione verso l'altra parte per legittimare le proprie posizioni;5. come azioni, parole, atteggiamenti, strutture o sistemi che causano danni fisici, psicologici,

sociali o ambientali e/o che non consentono alle persone di realizzarsi pienamente.Dunque un'idea di violenza ampia, non solo limitata a quella manifesta.Partendo proprio da queste considerazioni Johan Galtung arrivò a dire che la violenza avviene quando gli esseri umani trovano una limitazione al soddisfacimento dei loro bisogni: di sopravvivenza, benessere, identità, di riposte, di libertà, ecc.Spesso si pensa alla violenza come esternazione di un comportamento: attacchi fisici, percorse, omicidio, tortura ne sono esempi, così come, in modo ancora più evidente, lo sono le guerre e le rivoluzioni. Negli ultimi anni, grazie ad una maggiore compressione del fenomeno, sono emerse forme di violenza meno evidenti rispetto alla violenza diretta, che possono egualmente danneggiare e che sono forse molto più difficili da gestire. Questo tipo di violenza, chiamata strutturale o indiretta, è caratterizzata dal fatto che i perpetuatori non sono facilmente identificabili a causa di un gran numero di responsabili coinvolti e di un sistema troppo complesso. A volte non esiste una chiara intenzione di esercitare violenza, ma ciò avviene ugualmente, come ad esempio nel caso dell'inquinamento industriale o di certi modelli culturali trasmessi dai mass media.J. Galtung aggiunge una terza forma di violenza: quella culturale.Essa è riferita a quegli aspetti della cultura che possono essere usati per giustificare o legittimare la violenza diretta o strutturale. É importante sottolineare che non esistono “culture violente”, e che Galtung parla di aspetti che possono essere trovati in ogni cultura: uso di simboli (stelle, croci, mezze lune, ecc.), bandiere, inni, parate militari, discorsi infiammatori, immagini provocatorie usate

per preparare il campo ad altre violenze. Anche la lingua, la scienza, le politiche sociali, i paradigmi teorici possono influenzare gli esseri umani e divenire violenza culturale.

Immagine n. 3: Il Triangolo della violenza

Conoscere meglio la violenza è utile per comprendere come quella fisica, fino ad arrivare alla guerra vera e propria, sia solo la parte esplicita di un conflitto. In realtà esistono altri tipi di violenze, meno visibili ma connesse tra loro: prenderne consapevolezza è il primo passo per poterle canalizzare in una via non distruttiva.

1.2.4 GLI ATTORI DEL CONFLITTO: IL TRIANGOLO DI GOSS-MAYR

Individuare le parti coinvolte in un conflitto potrebbe sembrare apparentemente un'attività semplice. Eppure molto spesso vengono presi in considerazione solo gli attori principali, considerati gli unici in grado di poter modificare la situazione di crisi in atto. Se si vuol analizzare a fondo un conflitto è necessario allargare la visuale, considerando anche le parti che pur non giocando un ruolo attivo facilitano il permanere del conflitto attuando un comportamento silente o passivo. Uno strumento a tal fine utile è il triangolo di Goss-Mayr, riprodotto dalle figure 4 e 5:

Immagine n. 4 Immagine n. 5

Utilizzando il triangolo di Goss-Mayr come strumento di analisi, gli studenti, divisi in sottogruppi, cercheranno di individuare tutti gli attori coinvolti nel conflitto. Ad ogni sottogruppo verrà fornito un cartellone e dei pennarelli. L’insegnante, prima di iniziare l’esercizio, spiega gli obiettivi e la struttura del metodo.

Obiettivi:

• Comprendere meglio un dato conflitto, specialmente quanto gli attori sono coinvolti nel problema;

• Individuare le loro responsabilità e trovare una leva per sviluppare strategie di risoluzione del conflitto.

All’interno del triangolo collocato alla rovescia, cioè col vertice verso il basso, gli studenti dovranno scrivere il problema o l’ingiustizia da analizzare. Il conflitto è rappresentato sottoforma di un triangolo isoscele capovolto (vedi immagine n. 4, sopra) a simboleggiare che i conflitti tendono a creare situazioni instabili, cosicché una o più parti vogliono cambiare la situazione. In secondo luogo, gli studenti dovranno inserire tutti gli attori del conflitto come pilastri del triangolo rovesciato a simboleggiare che il permanere del conflitto o della condizione di ingiustizia dipende dalle persone, dai gruppi, dalle istituzioni (vedi immagine n. 5, sopra). Senza di essi il triangolo instabile cadrebbe ed il conflitto cesserebbe di esistere, sarebbe risolto. Bisognerà aver cura di ricordare agli studenti che gli attori importanti non sono solo le persone che stanno giocando un ruolo attivo nel conflitto, a favore o contro. Alcuni attori facilitano il permanere del conflitto rimanendo silenti o passivi nonostante siano persone influenti, con delle responsabilità o abbiano le leve del potere. Anche alcune parti deboli del conflitto hanno responsabilità: possono sentirsi impotenti, mancare di capacità di analisi, di coerenza o non aver fatto abbastanza per diventare attivi. È importante inserire anche questi attori nel diagramma.In questo modo si avrà una panoramica completa degli attori che contribuiscono a perpetuare il conflitto. Si noterà come oltre quelli principali molti altri entrano in relazione con la situazione considerata. Riconoscere la responsabilità di ognuno amplia la gamma di possibilità di azione per una sua risoluzione.

1.2.5 CAUSE E FONTI DEL CONFLITTO

Spesso si discute di un conflitto limitandosi a identificarne una sola causa o poco altro: ciò limita notevolmente la comprensione dello stesso, stretto in una visione semplicista e unidirezionale. E' importante invece andare più a fondo e comprendere le cause profonde e diversificate che sono alla radice di ogni conflitto. Come in un iceberg, spesso al primo sguardo si possono notare solamente le cause manifeste che hanno portato alla situazione conflittuale. Ma molto spesso dietro a questa “punta” si possono trovare motivazioni ben più profonde, che riguardano i bisogni umani non soddisfatti, i valori, l'identità, ecc. E' necessario dunque andare oltre l'apparenza presentata e scavare a fondo: solo così si potrà fare chiarezza sulle reali cause che hanno portato al conflitto.

Immagine n. 6: Conflitto = conflitto esplicito + conflitto latente

1. Bisogni umani non soddisfatti: I bisogni fondamentali dell'individuo costituiscono una spiegazione importante dei comportamenti e delle relazioni sociali. Ogni individuo ha delle esigenze che si sforza di soddisfare. Tra questi, i bisogni primari di cibo, acqua e riparo, ma anche quelli meno immediati: servizi sanitari, sicurezza, autostima, realizzazione personale, ecc. Questi ultimi, più complessi, si basano sulla capacità di compiere scelte in ogni aspetto della vita e sull'avere un'identità e dei valori culturali accettati e considerati legittimi. Si tratta di requisiti fondamentali per un corretto sviluppo umano.

2. Identità: I conflitti possono essere generati dall'avvertire che la propria identità non è riconosciuta. Conflitti circa l'identità nascono quando membri di un gruppo sentono che l'immagine di sé è messa in pericolo o negata o non rispettata. Poiché dall'identità dipende sia l'autostima che la nostra visione del mondo, ogni minaccia all'identità produce una forte reazione.

3. Aspetti morali: I conflitti circa le differenze morali tendono a essere molto duraturi. Il problema sostanziale, in questi casi, è rappresentato da alcune credenze molto “rigide”, basate su postulati che non possono essere confutati. Questi valori fondamentali, sia morali, sia religiosi che personali non sono facili da cambiare, e le persone che aderiscono ad una particolare ideologia sono solitamente poco disponibili a mettere in discussione il loro punto di vista. Così questi conflitti tendono a scaturire da uno scontro di “visione”.

4. Problemi di giustizia: Sulla giustizia la gente tende a non accettare compromessi: questo spesso diventa motivo di conflitti ingestibili. Il senso di giustizia di un individuo dipende dalle norme, dalle regole e dai diritti che si considerano alla base di un trattamento umano dignitoso. Se si verifica una significativa discrepanza tra ciò che una persona ottiene, ciò che vuole e ciò a cui crede di avere diritto, essa pensa di essere stata privata di qualcosa che merita. Questo porta al senso di ingiustizia, che spesso è alla base di aggressioni e ritorsioni. Gli individui potrebbero considerare la violenza come l'unico modo possibile di affrontare l'ingiustizia che hanno subito e assicurarsi che i loro diritti fondamentali siano rispettati.

5. Diritti: Il non rispetto dei diritti umani può determinare conflitti violenti. Il conflitto comincia nel momento in cui vi è un richiesta inevasa o inascoltata da parte di un singolo o di un gruppo. Un modo per risolvere la questione è rifarsi ad uno standard oggettivo percepito come legittimo e corretto. Se entrambi i gruppi, però, considerano le loro richieste giuste, le posizioni moderate saranno più rare e sarà più difficile trovare compromessi o raggiungere una soluzione.

1.2.6 LE FASI DEL CONFLITTO E L'ESCALATION DI GLASL

Capire le dinamiche del conflitto, e distinguerne le fasi, aiuta ad identificare le opportunità di soluzione, ipotizzando possibili interventi e pensando a risposte appropriate.Le fasi che caratterizzano i conflitti sono state studiate, descritte e definite da molti autori, la maggior parte dei quali ne prevede però almeno cinque:

pre-conflitto scontro crisi soluzione post-conflitto

La possibilità di conflitto nasce quando le persone hanno bisogni, valori e interessi diversi. Questa è la fase del pre-conflitto, che è latente e non programmato. In questa fase si possono rilevare tensioni nella relazioni tra le parti e un desiderio di evitare i contatti. Il conflitto può diventare visibile quando una causa scatenante porta allo scontro. In questa fase ciascuna delle parti raccoglie le sue risorse e cerca alleati con la prospettiva di far crescere lo scontro e la violenza.La crisi costituisce il picco del conflitto, quando la tensione o la violenza è più intensa. Arrivati a questo punto la normale comunicazione tra le parti cessa. L'escalation, tuttavia, non può continuare in eterno, in un modo o nell'altro la crisi sfocerà in una soluzione. La fase di soluzione comprende innumerevoli alternative: una parte potrebbe sconfiggere l'altra; una delle parti potrebbe arrendersi; si potrebbe concordare una negoziazione, con o senza il supporto di una terza parte, ecc. In ogni caso in questa fase il livello di tensione, di scontro e di violenza decresce sensibilmente e vi è la possibilità di una ricomposizione. Anche se la situazione si risolve con la fine di ogni scontro violento e con la normalizzazione delle relazioni tra le parti, si può facilmente tornare ad una situazione di pre-conflitto se la questione che scaturiva dai divergenti interessi delle parti non sia stata risolta in maniera adeguata. Delineare le diverse fasi è utile anche per cercare di trasformare il conflitto: riconoscendo le varie dinamiche si può comprendere che le strategie e le tattiche degli attori differiscono e dipendono dalle diverse fasi.Un grosso problema dell'escalation del conflitto è l'inconsapevolezza, che avviene quando nessuna delle parti considera a pieno le conseguenze delle proprie azioni. Qualche volta questo è il risultato della percezione della crisi e della pressione sul tempo, che spinge le parti ad agire prima che abbiano considerato tutte le possibili alternative o abbiano compreso pienamente la situazione. L'uso della forza e della minaccia, se considerato come troppo estremo, può infiammare e provocare ritorsioni. Conflitti con grosse ondate di violenza generalmente comportano grosse perdite dell'una e dell'altra parte e tendono a persistere a lungo nel tempo. L'escalation dei conflitti può essere causata, inoltre, da obiettivi apparentemente incompatibili. É stato osservato che molti conflitti sociali e interpersonali iniziano sempre con l'emergere di necessità opposte di due avversari. Se le parti non vedono la possibilità di trovare una soluzione che

soddisfi entrambe, e una delle due pensa di avere il potere di prevalere sull'altra, può cercare di intimidirla e sottometterla. Appena gli avversari cominciano a seguire i propri obiettivi contrapposti, possono cominciare a minacciare o tentare di costringere l'altra parte a dare ciò che si vuole. Ognuno normalmente crede che l'altro sia potente e aumenterà la coercizione a meno che non sia limitato da una coercizione più grande. Ma se una parte è ferita o danneggiata da un'altra è ancora più probabile che si risponda con ostilità. Maggiore è il numero di questioni aperte e maggiore è l'intensità della rivendicazione più l'escalation sarà fomentata.In molti casi le parti credono che l'altro abbia aspirazioni molto alte rispetto alle questioni trattate o vedono le stesse questioni come qualcosa su cui non si può scendere a compromesso. Quando si trovano di fronte ad avversari che mostrano atteggiamenti, valori, e comportamenti molto diversi, le parti possono sentirsi criticate, messe in discussione o minacciate. Privazione, trattamento iniquo, dolore e sofferenza portano ad un desiderio di punire o ferire l'altro. Se non esistono norme riparatorie la parte lesa può sentirsi costretta a rispondere alle provocazioni. In ogni caso i sentimenti di collera e frustrazione possono portare a reazioni spropositate. E se le azioni sono considerate esageratamente dure e vanno oltre ciò che l'altra parte si aspettava, si verifica un'intensificazione del conflitto.

Il modello di escalation di Glasl:

Livello 1 (win-win) (entrambe le parti in conflitto possono vincere) Fase 1: TensioneI conflitti cominciano con divergenze Fase 2: PolarizzazioneA questo punto le parti in conflitto considerano strategie con cui vincere l'altro. Ciascuno cerca di mettere la parte avversaria sotto pressione.Fase3: Azione non parole Le parti aumentano la pressione reciproca per far prevalere la propria posizione. La comunicazione potrebbe interompersi e il conflitto presto diventare molto intenso.

Livello 2 (win-lose) (una parte vince e l'altra perde) Fase 4: CoalizioneIl conflitto si intensifica se le parti cercano il supporto altrui. Pensando di essere nel giusto denunciano il rivale. A questo punto non interessa più la questione ma vincere il conflitto in modo che l'altro perda. Fase 5: Perdita della faccia L'obiettivo è distruggere l'identità dell'altro con ogni sorta di accuse. Si verifica una completa perdita di fiducia.Fase 6: Strategia della minaccia Le parti cercano di prendere il controllo della situazione con le minacce. Cercano di proiettare il loro stesso potere. La domanda può essere una richiesta che è rinforzata da una sanzione e supportata da una potenziale realizzazione.

Livello 3 (lose -lose) (entrambe le parti perdono)Fase 7: Distruzione limitataAdesso l'avversario è da colpire con ogni mezzo. Ormai non è più visto come un essere umano. I danni subiti se risultano essere limitati sono considerati come una vittoria se il danno altrui è più grande.Fase 8: DisintegrazioneIl nemico va distrutto completamente.Fase 9: Distruzione reciproca Da questo punto la distruzione è accettata se questo comporta che l'avversario sia battuto.

1.2.7 GESTIONE E TRASFORMAZIONE DEL CONFLITTO

Il verbo gestire, riferito al conflitto, potrebbe sembrare presuntuoso ma il concetto di gestione qui proposto coincide pienamente con l'aspetto pragmatico della comunicazione umana: l'insieme di tutto quello che viene detto e fatto, o non detto e non fatto, in una determinata relazione, nonché il modo in cui tutto ciò avviene. Per tanto se è vero che all'interno di una relazione è impossibile non comunicare, allora è pure impossibile non gestire un conflitto quando si è dentro una relazione conflittuale.É importante divenire consapevoli di questo, perchè ci rammenta della nostra onnipresente responsabilità nelle relazioni conflittuali, dove il nostro potere non controlla mai il tutto e non scompare mai del tutto.L'approccio trasformativo si basa su due elementi fondamentali: un orientamento positivo al conflitto e la volontà di impegnarsi per produrre un cambiamento costruttivo. Mentre il conflitto spesso produce ferite che non si rimarginano facilmente, il segreto della trasformazione sta nella capacità di intenderlo come un'occasione di cambiamento costruttivo. Un cambiamento che non deve essere inteso come un risultato statico, bensì come la qualità stessa della relazione, che continuamente si evolve e si sviluppa, attraverso il dialogo e la comunicazione attiva. Questo tipo di approccio è determinato dallo sforzo di affrontare il sorgere di conflitti attraverso la non violenza, occupandosi dei problemi e valorizzando la comprensione, l'equità e il rispetto reciproco.Per fare ciò l'approccio trasformativo suggerisce di:6. Scindere le persone dal problema, controllando i propri sentimenti di diffidenza ed i pregiudizi;7. Concentrarsi sugli interessi (bisogni, desideri, speranze, paure di entrambi le parti) e non sulle

posizioni. Le domande da porsi per identificare gli interessi sono le seguenti:8. Quali sono i bisogni, le speranze, i timori, i desideri che quella posizione soddisfa?9. Ogni parte percepisce le posizioni e le rivendicazioni dell'altra? Come mai una parte rifiuta

l'altra? Che cosa impedisce di accettarla?10. In che modo sono coinvolti nella trattativa gli interessi umani basilari: sicurezza, benessere

economico, senso di appartenenza, riconoscimento sociale, controllo sulla propria vita?

A questo proposito potrebbe essere utile riprendere la “mappa del conflitto” precedentemente esposta.

Legittimare tutti gli interessi, che racchiudono in se stessi la genesi del conflitto e sono, nella sostanza, il motivo per cui le parti in conflitto dicono di volere una cosa.

Per rendere più chiaro questo concetto è molto efficace l'esempio utilizzato dalla scuola di negoziazione dell'Harvard Law Scool dell' Università di Harvard, Cambridge, Massachusetts.

“Due sorelle litigavano per una arancia. Una di loro riteneva di averne più diritto in quanto l'aveva chiesta per prima, invece l'altra argomentava che il diritto spettava a lei essendo la più piccola d'età. La madre, nel tentare una soluzione imparziale, offri di tagliare il frutto a metà: le bambine rifiutarono fermamente la soluzione proposta e continuarono a litigare. La nonna, che osservava attenta la scena, decise di chiedere a ognuna delle bimbe perchè voleva l'arancia. La più piccola rispose che aveva sete e voleva fare una spremuta e l'atra, dovendo andare al compleanno dell'amica nel pomeriggio, che le occorreva la scorza da utilizzare come ingrediente per preparare una torta. Così la nonna spremette la polpa dell'intera arancia e la offri ad una delle nipoti, grattugiò la scorza dell'intera arancia e la offri all'altra”.

Dall'esempio emerge chiaramente la differenza tra le posizioni e gli interessi delle bimbe.Le posizioni di entrambe sono di voler l'arancia. Tali posizioni sono reciprocamente escludenti poiché il soddisfacimento della posizione dell'una corrisponde esattamente alla insoddisfazione di quella dell'altra Proprio come il “gioco a somma zero” definito dagli studiosi nella “teoria dei Giochi”, quello che viene guadagnato da una parte viene perduto dall'altra e la competizione ed il grado di conflittualità viene ad accrescersi in un escalation del conflitto. Si può evincere, quindi, che soffermarsi alla sola posizione non offre alcuna opzione di accordo se non quella esclusivamente legata alla loro divisione, che tuttavia rappresenta una semplice transazione; invece lavorare sugli interessi offre la possibilità che questi siano combinati, ampliandone così i contenuti e le opzioni.

Acquisire maggiore obiettività riguardo alle diverse realtà. Questa acquisizione avviene tenendo bene in mente che ciascuno di noi legge la realtà in base alle informazioni di cui dispone (che sono sempre parziali e a volte inesatte). Di conseguenza ciascuno ha una sua percezione della realtà. La nostra percezione della realtà gioca un ruolo centrale nella risoluzione dei problemi e dei conflitti che viviamo. La percezione dipende da tanti fattori, tra questo riveste un ruolo molto importante la comunicazione empatica e di conseguenza l'ascolto attivo. Infatti, elemento essenziale in un processo comunicativo è l'ascolto: ascoltare non significa semplicemente stare a sentire le informazioni che ci vengono date ma recepirle, trasformarle e comunicarle a nostra volta con un qualcosa in più. Quando si ascolta in modo attivo ed empatico si deve rinunciare al giudizio su ciò che ci viene comunicato, e si deve cercare di identificarsi con il nostro interlocutore. Mettendosi nei suoi panni si cerca quindi di condividere e leggere i veri significati, le sue emozioni, i suoi sentimenti. Si partecipa con la mente e con il cuore.Per avere, quindi, un buon ascolto bisogna:1. Ascoltare il punto di vista dell'altro anche se è diverso dal nostro;2. Guardare l'interlocutore;3. Non pensare a come ribattere mentre ci sta parlando;4. Non interrompere, lasciare all'altro la possibilità di sviluppare a pieno il suo pensiero;5. Fare domande per avere altre informazioni se sentiamo sia necessario per comprendere meglio;6. Fare una sintesi per verificare la comprensione 7. Ascoltare, né saltuariamente né superficialmente.

Marshall Rosenberg è uno psicologo clinico, considerato un guru della comunicazione non violenta ed uno degli assunti più importanti della sua teoria è che per essere ascoltati occorre prima di tutto imparare a riconoscere ed esprimere i propri bisogni, in quanto le valutazioni che noi diamo dell'altro sono proprio l' espressione dei nostri bisogni insoddisfatti. Secondo la teorizzazione della comunicazione non violenta, dovremmo focalizzare la nostra attenzione ed attivare la nostra consapevolezza rispetto a quattro punti fondamentali che facilitino e rendano possibile una piena espressione e l’ascolto:

1. Ascoltare semplicemente i fatti senza dare giudizi moralistici, in modo tale da mettersi nella condizione di poter osservare anche ciò che accade in noi stessi in una determinata situazione, in modo da poterci chiedere: “Nelle parole e nei gesti del nostro interlocutore che cosa mi fa stare male o bene?”

2. Esprimere i nostri bisogni e valori, quello che si trova di fronte alle parole o gesti dell'altro: “Sono soddisfatto, triste, deluso, infastidito”.

3. Fare chiarezza su ciò che sentiamo e sull'origine del nostro sentire, definire cioè, quale bisogno esista all'origine di questi sentimenti.

4. Fare richieste precise e concrete.Seguire questi quattro punti ed aiutare l'altro a fare altrettanto ci dà la possibilità di stabilire una corrente di comunicazione capace anche di trasformare un conflitto in dialogo.

“ Noi abbiamo due orecchie ed una sola bocca, di modo che si ascolti di più e si parli di meno” (Epittetto)

Utilizzare un differente approccio allo studio e all'analisi dei conflitti: strumenti come il triangolo di Galtung, di Goss-Mayr, o la mappa dei conflitti possono costituire un punto di partenza per una visione più completa degli attori e della posta in gioco.

Generare opzioni (possibili soluzioni) allargando possibilmente la torta negoziale per entrambe le parti. In una situazione complessa è però necessario prima di tutto allargare la gamma delle alternative. I principali impedimenti che ostacolano l'invenzione di nuove opzioni riguardano: il giudizio prematuro, la ricerca della risposta giusta, assumere che la torta è data e non si può espandere (gioco a somma zero), il considerare che “i loro problemi sono cosa loro, che non ci riguardano”, insistere sui criteri oggettivi.

Nella trasformazione positiva dei conflitti non esiste un “perdente” ed un “vincitore” come nella logica negativa ma ambedue le parti interagiscono per comporre il conflitto in maniera reciprocamente “vincente”.Concluderei, questa parte facendo appello a Thurov e alla sua teoria dei giochi, dove il “gioco a somma a zero ci dimostra che quando la posta è limitata e non è quindi sufficiente per soddisfare le esigenze di tutti, si assumono immediatamente atteggiamenti fortemente competitivi che sfociano in quella che, comunemente, conosciamo come “la legge del più forte”.In questo ambito, l'accesa competizione che si scatena, va a generare sempre un “vincitore” che, utilizzando la matematica possiamo indicare con il simbolo numerico +1 ed inevitabilmente un “perdente” che invece possiamo indicare con il simbolo –1.Tirando la somma tra i due numeri (+1; –1) il risultato evidente che otteniamo è “zero”.Nella trasformazione positiva dei conflitti l'arricchimento di uno, non corrisponde necessariamente all'impoverimento dell'altro, ma anzi l'arricchimento è maggiore perché ambedue le parti in disputa analizzano i bisogni dell'uno e dell'altro. Se in questo caso decidessimo ancora di usare i numeri come simboli iconografici, avremmo sorprendentemente due “vincitori”, quindi due simboli +1 che sommati darebbero praticamente 2 e quindi una “somma positiva”. L'esito di un negoziato deve essere riconosciuto e verificabile da entrambe le parti in gioco. Sono quindi necessari criteri di attuazione e di verifica oggettivi, esterni alle parti in causa. Alcuni conflitti richiedono l'intervento esterno per essere trasformati costruttivamente o risolti. L'intervento può assumere varie forme, ed essere formale ed informale. Forse la forma più conosciuta di un intervento è la mediazione, in cui una terza parte neutrale (che potrebbe essere un individuo, un gruppo, un'organizzazione, o anche un paese) cerca di aiutare le parti in conflitto a smussare le loro differenze in una maniera accettabile per entrambi. A differenza degli arbitri o giudici, i mediatori non hanno alcun potere di imporre soluzioni. Invece, possono aiutare le parti a chiarire i loro rispettivi interessi e bisogni, e le alternative, sforzandosi di trovare una soluzione negoziata. Infine concluderei dicendo che gli sforzi per trasformare un conflitto, come si è visto, non sono sempre facili, ma attuare l'atteggiamento fin qui discusso, è necessario ed essenziale per identificare alternative anche a quelle situazioni che sembrano essere irrisolvibili.Per questa ragione,un approccio positivo al conflitto rimane una sfida significativa.Un antico proverbio sostiene che: nella vita non si incontra mai nessuno che costruisce ponti, ma solo gente che costruisce muri. Sta alla coscienza di ogni singolo individuo rompere questi muri ed iniziare a costruire ponti.

ALLEGATO 1

I ciechi e l'elefante

C’era una volta un re che ordinò al suo ministro: «Riunisci in piazza tutti gli uomini del regno, che sono ciechi fin dalla nascita!». Il ministro eseguì e il re si recò sulla piazza, dov'erano riuniti i ciechi, quindi chiamò l'elefantiere, e disse: «Questo è l'elefante!». E fece toccare ad alcuni ciechi la testa, ad altri le orecchie, ad altri le zanne, ad altri la proboscide, ad altri il ventre, ad altri le gambe, ad altri il dietro, ad altri il membro, ad altri la coda; sempre a tutti dicendo: «Questo è l'elefante!».

Poi il re si accostò ai ciechi e chiese loro se avessero toccato l'elefante. «Sì, Maestà!» risposero. «Allora ditemi a che cosa rassomiglia». E i ciechi cominciarono a descrivere a modo loro l'elefante.

Quelli che avevano toccato la testa dissero che rassomigliava a una caldaia. Quelli che avevano toccato le orecchie dissero che rassomigliava ad un ventilabro. Quelli che avevano toccato le zanne che rassomigliava ad un vomere. Quelli che avevano toccato la proboscide che rassomigliava ad un manico d'aratro. Quelli che avevano toccato il ventre dissero che rassomigliava ad un granaio. Quelli che avevano toccato le gambe, dissero che rassomigliava a colonne. Quelli che avevano toccato il dietro, dissero che rassomigliava ad un mortaio. Quelli che avevano toccato il membro, dissero che rassomigliava ad un pestello. Quelli che avevano toccato la coda, dissero che rassomigliava ad uno scacciamosche.

E, siccome ognuno sosteneva la sua opinione, cominciarono a discutere e finirono con l'accapigliarsi e percuotersi, gridando: «L'elefante rassomiglia a questo, non a quello! Non rassomiglia a questo, rassomiglia a quello!». E il re si divertì a quella zuffa

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Torre dei Nolfi (AQ) 2004.

2. UNITA’ DIDATTICA: Il conflitto israelo-palestinese

L'Unità Didattica si propone nella sue seconda parte di analizzare un determinato conflitto storico, quello israelo-palestinese, utilizzando le abilità sviluppate durante la prima parte del Modulo. Tale conflitto è stato scelto per il fatto di essere un esempio emblematico della complessità di fattori, delle dimensioni e dei punti di vista che si possono riconoscere in una formazione conflittuale di lungo periodo, e delle difficoltà che emergono nel districare i nodi che con il passare del tempo sembrano renderlo un conflitto di sempre più difficile ricomposizione. Da oltre cinquant'anni, infatti, arabi-palestinesi ed ebrei-israeliani, che vivono nella terra contesa dell'antica Palestina (e alle cui spalle hanno gli uni la diaspora palestinese, gli altri la diaspora ebraica), si contrappongono sulla base di interessi, narrazioni storiche e prospettive tanto diverse da apparire inconciliabili. Anche per affrontare questa seconda unità didattica sarà opportuno creare in classe un clima di ascolto attivo e partecipazione, in modo da mettere gli studenti nella condizione di approcciarsi in maniera adeguata ad un argomento così complesso e controverso.La complessità dell’argomento è dovuta in particolare a tre ordini di fattori:

3. molteplicità degli attori coinvolti e delle questioni alla base del conflitto, caratterizzato da una durata notevole e da diverse fasi temporali legate al più generale contesto internazionale;

4. abitudine ad affrontare l’argomento in poco tempo e col solo supporto dei libri di testo, i quali spesso propongono un racconto dei soli fatti principali e non usano una terminologia né una rappresentazione grafica chiara.11 Forte carenza di conoscenze geografiche negli studenti per contestualizzare bene il conflitto;

5. forti input provenienti dai mezzi di comunicazione di massa che, enfatizzando solo i fatti più eclatanti e di maggiore violenza, forniscono un’immagine appiattita e semplicistica degli attori e delle ragioni del conflitto, spesso portando gli spettatori a schierarsi ideologicamente con l’una o con l’altra parte.

Oltre alla teoria del conflitto e degli elementi base che lo compongono, è richiesta agli studenti una conoscenza base della storia e della geografia del XX secolo. Per questo, la presente unità didattica su rivolge per lo più a studenti di quinta superiore. Per quanto riguarda, invece, lo specifico contesto storico-geografico relativo al conflitto israelo-palestinese verrà fornito alla classe un dossier storico-cronologico (allegato 1), corredato da alcune carte geografiche, che servirà da introduzione all'argomento.Questa seconda unità didattica si propone di applicare la teoria del conflitto, affrontata nella precedente unità, al caso concreto del conflitto israelo-palestinese. In particolare verrà riproposta la “mappa del conflitto”, nella quale i ragazzi potranno inserire dati e informazioni acquisite grazie alla lettura di fonti storiche. Inoltre gli studenti, nell’analisi degli attori del conflitto, verranno introdotti all’applicazione del triangolo di Goss-Mayr12, che è usato spesso in conflitti asimmetrici e aiuta a comprendere il punto di vista delle due parti allo scopo di realizzare una lettura più diversificata ed ampia della situazione. Si tratta di elementi che servono a promuovere una

11 Ad esempio, nell’analisi di tre libri di testo per scuole secondarie superiori di storia e geografia affrontata all'interno del progetto “Educare al conflitto per educare alla lace: il caso israelo-palestinese”, ci si riferisce alle due parti in causa usando diversi termini, come ebrei/israeliani/sionisti/stranieri/occupanti/colonizzatori/esiliati per la parte israeliana e arabi/palestinesi/altri/popolazione indigena per la parte palestinese. Anche la definizione del conflitto non è univoca: si parla infatti di “questione palestinese”, “conflitto per la Palestina”, “forti tensioni sociali”, “conflitto arabo-israeliano” o “conflitto israelo-palestinese”. Le mappe presenti nei libri, infine, sono spesso fonte di confusione: ad esempio, nel libro di geografia in una mappa di Israele la città segnata come capitale è Tel Aviv, ma nel testo si afferma che la capitale è Gerusalemme. Oppure ancora, a volte i Territori Palestinesi Occupati vengono rappresentati come territori facenti parte dello Stato di Israele, altre volte ne vengono esclusi.12 La spiegazione del triangolo di Goss-Mayr si trova al paragrafo 1.2.4 dell’unità didattica sul Conflitto

conoscenza critica dell’argomento e danno agli studenti la possibilità di costruirsi una propria opinione ragionata del conflitto in questione.Le diverse problematiche saranno affrontate, più che con semplici lezioni frontali, attraverso la forma dialogata e il lavoro in piccoli gruppi: si forniranno agli studenti opportuni stimoli (attraverso, ad esempio, la presentazione di documenti, carte geografiche, ecc.) allo scopo di sviluppare in classe una discussione guidata, inerente i vari argomenti.Verranno indicati i titoli di alcuni film e siti internet estremamente significativi per l’approfondimento delle tematiche prese in esame. Saranno inoltre messe a disposizione della classe alcune fonti storiche che gli studenti potranno visionare anche in maniera autonoma.

2.1 STRUTTURA

Tempi: 5 ore + eventuale film/documentario• 1 ora: Contestualizzazione storico-geografica del conflitto israelo-palestinese;• 1 ora e mezza: Gli attori del conflitto;• 1 ora e mezza: Le cause del conflitto• 1 ora: Le possibili soluzioni del conflitto

Prerequisiti:• Disponibilità degli studenti ad affrontare l’argomento• Conoscenze storiche di base sulle vicende del ‘900• Conoscenze geografiche di base sull’Europa e il Medio Oriente

Obiettivi:• Saper leggere criticamente le informazioni relative al conflitto israelo-palestinese• Saper contestualizzare il conflitto israelo-palestinese nel più generale contesto

internazionale• Saper identificare gli attori del conflitto e le ragioni alla base di esso• Saper riconoscere i diversi punti di vista e le diverse argomentazioni sul conflitto• Stimolare la capacità di sviluppare diverse proposte per la risoluzione nonviolenta del

conflitto

Metodologia:• Lezione frontale e dialogata• Lavori di gruppo• Analisi di diverse fonti storiche• Visione di film e/o documentari

Strumenti:• Uso di fonti storiche13 • Ricerche di documenti su internet• Uso di filmati (facoltativo)

13 Il riferimento ai documenti utilizzati si trova nella bibliografia finale.

2.2 CONTENUTI

In questa unità didattica si affronterà il tema del conflitto israelo-palestinese, come caso reale di conflitto storico/sociale/politico/geografico di cui si proporrà uno studio critico-olistico, e non solo cronologico-lineare, andando a identificare in particolare i seguenti elementi: 1. Contesto storico-geografico;2. Attori del conflitto;3. Cause del conflitto; 4. Possibili soluzioni;

Nell’affrontare i diversi elementi, si dovrà sempre tenere in considerazione la “cassetta degli strumenti” fornita durante la precedente unità didattica, in modo da far esercitare gli studenti all’applicazione pratica di concetti quali: livello del conflitto (micro, meso e macro); dilemma-controversia-conflitto; violenza diretta, strutturale e culturale; conflitto esplicito e latente, fasi del conflitto (pre-conflitto, scontro, crisi, soluzione, post-conflitto); escalation (win-win, win-lose, lose-lose). In particolare, nella presente unità didattica verranno utilizzati due degli strumenti forniti nell’unità didattica sul conflitto: il triangolo di Goss-Mayr, per l’identificazione degli attori e del loro livello di coinvolgimento nel conflitto, e la mappa delle fonti del conflitto, per l’individuazione dei fondamenti delle due parti (interessi, valori, emozioni, identità) al fine di comprendere come sviluppare soluzioni che soddisfino entrambi.

Al fine di preparare gli studenti ad affrontare con consapevolezza l’argomento in questione, si consiglia di fornire loro, precedentemente alla lezione, un dossier storico-cronologico del conflitto israelo-palestinese, corredato da alcune carte geografiche del contesto, da leggere individualmente (vedi allegato 1). Ciò servirà agli studenti per riprendere le conoscenze sul conflitto israelo-palestinese acquisite durante il precedente percorso scolastico, nonché per dare loro una visione complessiva dell’argomento prima di introdurli ad un’analisi più approfondita degli elementi dello stesso.

2.2.1 CONTESTUALIZZAZIONE STORICO-GEOGRAFICA DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

I ragazzi verranno divisi in due o più gruppi che lavoreranno alla compilazione di una carta muta (vedi allegato 2) relativa al contesto oggetto di studio14. Nella carta dovranno essere inseriti tutti gli elementi che si ritengono importanti nello studio di un determinato contesto, come idrografia, morfologia del territorio, eventuale presenza di risorse energetiche, confini, lingue parlate, religioni professate ecc. Questi elementi dovranno essere solo consigliati, affinché gli studenti abbiano la possibilità di indicare sulla carta tutto ciò che essi ritengono importante, lasciandoli così liberi di evidenziare anche altri aspetti di solito non considerati significativi.Una volta compilate le carte a gruppi, la classe verrà riunita e il docente stimolerà una discussione critica tra gli studenti sul lavoro fatto. A tal fine, potrà servirsi delle seguenti domande:

14 Si potrà scegliere di fornire agli studenti anche una carta muta dell’intera zona mediorientale, come quella riportata all’allegato 2. Questa carta potrà essere compilata dagli studenti con i nomi degli stati e delle popolazioni presenti nella regione.

1- Quali sono le caratteristiche fisiche principali della zona mediorientale? 2- Per le sue caratteristiche fisiche, è una zona ricca o povera di risorse?3- Nel territorio di quali Stati si trovano i maggiori fiumi/risorse idriche?4- Quali sono le caratteristiche culturali della zona mediorientale? È una regione omogenea dal

punto di vista linguistico-culturale? Se no, quali sono le maggiori differenze che si possono riscontrare?

L’esercizio con le carte mute e le domande seguenti hanno lo scopo di far riflettere gli studenti su alcune peculiarità del contesto, importanti da capire quando si va a studiare il conflitto israelo-palestinese, ad esempio: il problema della scarsità idrica e la ineguale spartizione delle risorse idriche tra palestinesi e israeliani; la mancanza di risorse petrolifere nel territorio di Israele/Palestina; la diversità culturale della regione, con una prevalenza di popolazioni di lingua araba e di religione islamica (sunnita) unita alla presenza di significative minoranze, come ebrei in Israele, cristiani in Israele, Territori Palestinesi, Libano e Egitto, sciiti in Libano, drusi in Siria ecc.La seconda parte della lezione sarà dedicata alla lettura guidata della Risoluzione ONU n. 181/4715, relativa alla spartizione della Palestina storica tra ebrei e palestinesi nel 1947. Durante la lettura, l’insegnante avrà cura di focalizzare l’attenzione degli studenti su chi ha elaborato e approvato la risoluzione (organismo internazionale che non può emettere risoluzioni vincolanti perché privo di un sistema sanzionatorio) e sull’anno in cui è stata approvata (subito dopo la seconda guerra mondiale).Dopo la lettura, verrà chiesto agli studenti di disegnare sulle mappe precedentemente elaborate, i confini tra Stato di Israele e Stato Palestinese come stabiliti dalla risoluzione n.181. In seguito, verranno poste delle domande di riflessione, come:

1- Quale percentuale di territorio è stata destinata agli Israeliani e quale ai Palestinesi?2- A quale Stato doveva appartenere Gerusalemme?3- Che differenza c’era tra i confini decisi dalla risoluzione 181 e la reale presenza di villaggi

palestinesi ed ebrei nel territorio?4- Che differenza c’è tra i confini stabiliti con la risoluzione 181 e quelli ufficiali di oggi (linea

verde16)?5- Gli israeliani hanno accettato la risoluzione? I palestinesi hanno accettato la risoluzione?

Perché sì e perché no, secondo voi?6- La risoluzione n. 181 è stata rispettata dagli israeliani? E dai palestinesi?

Queste domande e la discussione che ne seguirà avranno lo scopo di far riflettere gli studenti sulla difficile applicazione della risoluzione data la realtà territoriale del 1947, con una presenza di villaggi ebrei e palestinesi fortemente squilibrata a favore di quelli palestinesi, che costituisce uno dei motivi della mancata accettazione della risoluzione da parte di questi ultimi; sul fatto che gli israeliani, anche se l’hanno accettata, si sono appropriati in seguito di più territorio di quello che gli era stato destinato; sul fatto, infine, che la risoluzione n. 181 non è mai stata applicata.

Si proporrà infine un lavoro sul muro di separazione, che Israele sta costruendo dal 2001, in quanto elemento che ha contribuito a ridisegnare la geografia del territorio e che costituisce quindi un ulteriore fattore da comprendere nella dinamica conflittuale. L’insegnante potrà affrontare l’argomento attraverso uno o tutti e due dei seguenti strumenti, a seconda dell’attrezzatura utilizzabile e del tempo a disposizione:

1- La visione di un documentario sul muro, reperibile sui seguenti siti internet: http://www.btselem.org/English/Separation_Barrier (in inglese), La Gabbia - Dossier sul

15 Si consiglia di fornire agli studenti la sintesi ragionata sulla risoluzione n. 181/47 disponibile su http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_partizione_della_Palestina. Per il testo integrale in inglese si veda invece http://www.centrodirittiumani.unipd.it/a_temi/crisi/israele_palestina/Ris-AG-UN-181-1947.pdf 16 La linea verde è quella che dovrebbe separare lo Stato di Israele dal futuro Stato Palestinese, il quale sarebbe quindi costituito da Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est (oggi, Territori Occupati).

muro israeliano in Palestina (durata 25 min. circa) su http://www.youtube.com/watch?v=DcNbffl9Zag.

2- La lettura guidata di un testo e la successiva individuazione nelle carte mute del tracciato del muro. Come lettura si consiglia di proporre i testi in allegato (vedi allegato 3).

Al termine di questa prima fase dell’unità didattica, è bene ricordarsi di lasciare le carte elaborate dagli studenti appese e ben visibili, di modo che potranno servire da riferimento per eventuali dubbi e/o domande rispetto all’evoluzione e alle questioni aperte del conflitto, affrontate nelle successive fasi dell’unità didattica.

2.2.2 GLI ATTORI COINVOLTI

In questa parte dell’unità didattica, si analizzeranno gli attori del conflitto, sia quelli che giocano un ruolo attivo sia quelli che facilitano il permanere del conflitto attuando un comportamento silente o passivo. Si procederà dunque con la lettura di tre documenti storici (discorso di Golda Meir, brano di Maxime Rodinson- disponibili all’allegato 4 – e la Dichiarazione Balfour17) e la costruzione in piccoli gruppi del triangolo di Goss-Mayr. I documenti storici sono stati scelti sulla base delle tre principali categorie di attori influenti sul conflitto: la parte israeliana (testo di Golda Meir), la parte palestinese (testo di Maxime Rodinson) e la comunità internazionale (dichiarazione Balfour). Dopo la lettura dei tre documenti, l’insegnante presenterà il triangolo di Goss-Mayr avvalendosi delle seguenti figure.

Il “triangolo capovolto” di Hildegaard Goss-Mayr

Immagine n. 1 Immagine n. 2

Utilizzando il triangolo di Goss-Mayr come strumento di analisi, gli studenti, divisi in sottogruppi, cercheranno di individuare tutti gli attori coinvolti nel conflitto israelo-palestinese. Ad ogni sottogruppo verrà fornito un cartellone e dei pennarelli.Sarà particolarmente importante che l’insegnante, prima di iniziare l’esercizio, ricordi gli obiettivi e la struttura del metodo. In questo caso all'interno del triangolo si scriverà “conflitto israelo-palestinese”. La classe intera, aiutata dall'insegnante, individuerà gli attori coinvolti nella situazione analizzata, sia quelli diretti che quelli apparentemente meno coinvolti. Anche chi analizza (o il suo gruppo, ad es. “gli italiani”) deve essere incluso, identificando in quale misura ha responsabilità, o in che misura potrebbe giocare un ruolo più attivo. Ciò è vero anche nei conflitti asimmetrici, in quanto anche le parti

17 Per la dichiarazione Balfour si consiglia di utilizzare il testo reperibile su http://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_Balfour_(1917) che fornisce anche una traduzione in italiano del documento, nonché la spiegazione della genesi della dichiarazione.

oppresse possono fare qualcosa per cambiare la situazione. Spesso c’è una resistenza a vedersi come corresponsabili di un’ingiustizia o del permanere di un conflitto. L’insegnante deve chiarire che chi analizza ha poche possibilità di cambiare le dinamiche del conflitto se continua ad agire come ha fatto sino a quel momento, ricordando che il motivo per cui lo si analizza è proprio quello di trovare il modo di influenzarlo e contribuire a risolverlo in maniera costruttiva.

Immagine n. 3

In seguito, la classe verrà divisa in tanti gruppi quanti attori saranno stati individuati. Ognuno di questi elabora una tabella o matrice (come sopra, immagine n. 3) per analizzare, per ogni attore incluso nel diagramma, le motivazioni al conflitto e ad agire in un dato modo. In che maniera contribuisce all’ingiustizia? Quali sono gli interessi personali? Quali sono le ragioni per ostacolare il cambiamento? L’insegnate invita a non guardare il problema solo dal punto di vista delle due parti. Al termine del lavoro di gruppo, la classe si riunisce ed ogni cartellone viene presentato e discusso.Nella riflessione sulla matrice, si cercherà in particolare di evidenziare il ruolo giocato dai diversi attori nel conflitto, come riportato dagli studenti, e di individuare gli spazi di manovra: quali attori possono essere influenzati in modo tale da eliminare il loro sostegno al conflitto (simbolicamente, il pilastro del triangolo instabile)? Questo esercizio serve, come detto prima, per sottolineare la corresponsabilità di parti anche non direttamente coinvolte nel conflitto per il permanere dello stesso. Corresponsabilità che può essere vista, nell’ottica della gestione nonviolenta dei conflitti, come possibilità di azione e di cambiamento. Ciò è particolarmente vero nei conflitti asimmetrici, dove chi ha il potere non ha molti motivi per lavorare per il cambiamento: in questi casi individuare il ruolo di parti meno influenti o addirittura oppresse può aiutare a trovare vie alternative di trasformazione del conflitto.

2.2.3 LE CAUSE DEL CONFLITTO

Il conflitto israelo-palestinese è caratterizzato da un alto livello di complessità, dati i molteplici fattori che lo influenzano dal punto di vista storico, geopolitico, sociale, religioso ecc. Questo è dovuto anche, e soprattutto, dalla diversità (a volte inconciliabile) dei punti di vista e delle narrazioni delle due parti sulla storia stessa del conflitto. È più che mai necessario quindi proporre uno schema di spiegazione e di connessione degli elementi che lo influenzano che non sia causale-lineare ma il più possibile circolare-olistico. Anche in questo caso, la classe si divide in due gruppi, ognuno dei quali leggerà una versione del conflitto come riportata ne “La storia dell’altro”. Questo testo è stato sviluppato da 12 insegnanti delle superiori, sei palestinesi e sei ebrei israeliani, i quali consapevoli del ruolo dell’educazione e dell’importanza dei testi scolastici nel processo di costruzione della pace, hanno partecipato alla redazione di un manuale contenente la descrizione di tre momenti fondamentali nella storia dei due popoli – la dichiarazione Balfour, la guerra del ’48 e la prima Intifada palestinese dell’87 – raccontati nella loro duplice versione, quella israeliana e quella palestinese. Al centro di ogni pagina

è stato lasciato uno spazio bianco che separa la storia nella versione israeliana da quella palestinese, in modo da consentire a docenti e studenti di scriverci le proprie osservazioni. Questo manuale, tradotto in molte lingue e quindi utilizzabile anche da studenti e insegnanti di altri paesi, non si propone di criticare o modificare le narrazioni delle due parti, ma di offrire uno strumento per comprendere meglio la prospettiva storica e le ragioni delle due parti18. Nell’ambito di questa unità didattica, si consiglia di proporre agli studenti la lettura della II parte del libro, sulla guerra del ’48 (rispettivamente intitolata “La guerra di indipendenza” per la parte israeliana” e “La Naqba del 1948” per la parte palestinese”) da pag. 56 a pag. 94. Un gruppo quindi leggerà la versione israeliana della storia e un altro quella palestinese, facendo attenzione, durante la lettura, a individuare le fonti del conflitto per le due parti (vedi unità didattica sul Conflitto): interessi, valori, emozioni e identità. In seguito, i due gruppi costruiranno separatamente la mappa delle fonti del conflitto, completando la tabella all’allegato 5. Ovviamente i diversi elementi dovranno essere riferiti allo specifico evento storico in questione, ad es. per gli interessi si cercherà di rispondere alle domande: cosa volevano gli israeliani con la guerra del 1948? Cosa volevano i palestinesi?In secondo luogo, gli studenti si dovranno sforzare di individuare le fonti del conflitto basandosi sulla narrazione letta. In questo modo, quelli che avranno letto la versione israeliana della storia cercheranno di adottare il punto di vista israeliano; quelli che avranno letto la versione palestinese partiranno dal punto di vista palestinese.Al termine del lavoro in sottogruppi, la classe si riunirà e l’insegnante guiderà una discussione al fine di confrontare le due mappe elaborate, portando gli studenti a riflettere sui punti in comune e di differenza tra le due mappe.In particolare, l’insegnante metterà l’accento sul fatto che spesso le emozioni possono entrare in contrasto con i valori e gli interessi della stessa parte, a causa di un modo sbagliato di gestirle. Sarà interessante anche soffermarsi a riflettere su come spesso valori e emozioni sono simili se non condivisi tra le due parti in conflitto. Riuscire ad individuare i punti in comune tra questi elementi, servirà a far comprendere agli studenti come essi possano essere la base per una negoziazione e un dialogo positivi.

2.2.4 LE POSSIBILI SOLUZIONI

In questa fase gli studenti avranno la possibilità di conoscere e analizzare i diversi tentativi di risoluzione negoziata che si sono succeduti nel corso del conflitto israelo-palestinese. Lo scopo sarà quello di individuare i punti chiave alla base di questi accordi e le questioni di maggiore criticità, al fine di sviluppare possibili spiegazioni del loro fallimento. Il fatto che gli studenti possano raccogliere e analizzare le informazioni relative agli accordi di pace e al loro – ancora attuale – fallimento è di grande utilità perché permetterà loro di leggere in modo critico la realtà odierna, dandogli la possibilità di connettersi e comprendere la storia presente del conflitto, veicolata dai mezzi di informazione, testimoni, gruppi e organizzazioni impegnate ecc.L’insegnante fornirà quindi agli studenti dei documenti relativi a tre maggiori accordi stipulati dalle due parti: il Trattato di Oslo del 1993, gli Accordi di Camp David del 2000 e la Road Map del 2003. A gruppi, gli studenti leggeranno i documenti cercando di individuare i seguenti elementi:

• Gli accordi sono stati conclusi tra le due parti in conflitto da sole o con l’aiuto di una intermediazione esterna?

• Quali soggetti hanno avuto un ruolo nella stipula degli accordi? Che ruolo hanno avuto?

18 Dal 2002, il manuale è stato adottato da alcuni (ancora pochi) insegnanti palestinesi e israeliani delle superiori per insegnare la storia nel loro istituto. Il manuale è stato prodotto dal PRIME (Peace Research Institute in the Middle East) ed è stato tradotto in Italia a cura della casa editrice “Una città”.

• Cosa veniva richiesto alle due parti in conflitto? Quali passi dovevano compiere per rispettare gli accordi di pace?

• Quali questioni venivano prese in considerazione dagli accordi (es. sicurezza di Israele, creazione dello Stato Palestinese, risorse idriche, rifugiati palestinesi, insediamenti israeliani, status di Gerusalemme ecc.)?

• Perché secondo voi gli accordi esaminati non hanno portato alla pace sperata? Quali sono le ragioni alla base del loro fallimento?

Una volta terminato il lavoro in gruppo, la classe si riunirà e l’insegnante guiderà una discussione per confrontare le diverse risposte date dagli studenti.

Se ci fosse abbastanza tempo a disposizione, si potrà dare il compito agli studenti di elaborare una piccola ricerca, utilizzando le risorse disponibili su internet (alcuni siti vengono consigliati nella bibliografia allegata alla presente unità didattica), sul seguente tema:

• Quali gruppi sono impegnati per una risoluzione pacifica del conflitto oggi? Quali sono le loro proposte?

In classe, gli studenti potranno poi presentare le loro relazioni, di modo da condividere le informazioni raccolte. L’insegnante potrà quindi proporre la visione di un filmato sull’azione di alcuni gruppi, palestinesi, israeliani e/o internazionali, impegnati per la pace. Si consiglia in particolare il documentario sull’associazione Parents Circle, “Behind the Intentions”, reperibile su internet.

2.2.5 VERIFICA

Verrà chiesto agli studenti di elaborare un testo ragionato sul conflitto israelo-palestinese mettendo in luce:

1- Le sue origini2- Le parti in conflitto3- Le loro ragioni4- Le cause del fallimento delle proposte di pace5- Le possibili soluzioni proposte da gruppi/associazioni dal basso

ALLEGATO 1

DOSSIER STORICO-INFORMATIVO:

La questione israelo-palestinese dalle origini ai nostri giorni.19

In che consiste la questione israelo-palestinese?

La questione israelo-palestinese nasce dal fatto che due popoli, quello Arabo-Palestinese e quello

Ebraico-Israeliano, rivendicano entrambi dei diritti nazionali sullo stesso territorio.

Affrontando l’argomento dal punto di vista storico, è necessaria una breve premessa. La Palestina,

come l’Italia e qualsiasi altro stato moderno, ha avuto confini diversi a seconda del tempo; le

popolazioni che vi hanno abitato, le lingue che si sono parlate e le religioni che si sono professate,

sono il risultato di numerosi avvenimenti storici. Nei secoli passati è stata infatti conquistata, persa

e poi riconquistata da molti popoli: Egizi, Filistei, Ebrei, Romani, Bizantini ecc.

In epoca più recente, nei quattro secoli che vanno dal 1500 alla Prima Guerra Mondiale, questa

regione faceva parte dell’Impero Ottomano: era quindi governata dai turchi e abitata in

maggioranza da popolazioni arabe, che parlavano lingua araba e professavano religione islamica.

Per il resto, il 20-25% erano arabi cristiani e l’8% ebrei.

Con la Prima Guerra Mondiale l’Impero Ottomano è sconfitto e smantellato per cui le due grandi

potenze europee, Francia e Inghilterra, si spartiscono il Medio Oriente: la Palestina e la Giordania

vanno sotto il controllo (il mandato) britannico, la Siria e il Libano sotto quello francese. È in

questa fase che la Palestina assume gli odierni confini: a nord il Libano e la Siria, a est la Giordania,

a sud l’Egitto.

Quando nasce la questione ebraica in Palestina?

La questione nasce alla fine dell’Ottocento, quando un giornalista ebreo austriaco, Teodor Herzl,

afferma la necessità di costruire uno Stato per gli Ebrei in Palestina, perché “solo nella terra degli

avi promessa da Dio, gli Ebrei potranno sentirsi uguali a tutti gli altri popoli e non essere

discriminati”, come era avvenuto in Europa per secoli da parte delle popolazioni europee. Da queste

idee nasce il Sionismo, un movimento politico internazionale il cui fine è l'affermazione del diritto

all'autodeterminazione del popolo ebraico mediante l'istituzione di uno stato ebraico in Sion (Terra

di Israele o Palestina o Terra Santa) che ha legami storici e religiosi con il popolo ebraico. Lo

slogan più noto del movimento sionista è stato “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.

19 Rielaborazione dello stesso DOSSIER, curato dal gruppo BDS Pisa, da parte di Assopace-Pisa.

Con il Sionismo comincia una lenta immigrazione di ebrei in Palestina, inizialmente molto lenta

poiché solo una minima parte degli ebrei europei era disposta a lasciare gli stati in cui abitavano da

secoli e di cui si sentivano cittadini. Per la costruzione di un nuovo Stato, erano però indispensabili

tre elementi fondamentali: il territorio, la popolazione e l’accordo con una potenza mondiale che

permettesse la realizzazione di questo progetto.

Le radici dello stato di Israele (1917-1948)

L'occasione si presenta con il mandato britannico: la Gran Bretagna, grande potenza mondiale di

allora, passa a controllare la Palestina dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano e nel 1917 con la

“Dichiarazione Balfour” approva e aiuta il progetto sionista. L’Inghilterra era infatti interessata a

creare, in quelle terre abitate in maggioranza da arabi, una colonia di coloni europei filo-britannici,

che le agevolasse il controllo sul Canale di Suez, molto strategico per i suoi traffici. Gli inglesi

avevano però già promesso nel 1915 la Palestina agli arabi, per l’aiuto prestato nella lotta contro

l’impero Ottomano. La stessa terra viene dunque promessa a due popoli: quello arabo già presente

nell’area e quello ebraico, allora in minoranza.

Per favorire l’immigrazione ebraica in Palestina, gli inglesi promulgano leggi e regolamenti volte a

favorire l’acquisizione di terre da parte degli ebrei europei. Riconoscono inoltre all’Organizzazione

Sionista la giurisdizione sulla popolazione ebraica, creando così un embrione del futuro stato

ebraico. Le popolazioni arabe vengono invece svantaggiate in ogni modo, anche attraverso la

suddivisione in piccole comunità e lo strangolamento della loro economia. L’immigrazione, grazie

a tali politiche, aumenta e vengono costituite le prime colonie agricole (kibbutz). Nel 1929 gli

ebrei sono saliti a 170.000, rispetto ai 56.000 del 1895.

Il Nazi-fascismo in Europa, con le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei, determina un

ulteriore incremento dell’immigrazione e fa sì che migliaia e migliaia di ebrei emigrino in Palestina.

Dal 1932 al 1938, in soli 6 anni, partono per la Palestina il doppio di quelli che erano emigrati nei

130 anni precedenti. Nel 1936 gli ebrei sono 400.000. Aumenta quindi sempre di più

l’acquisizione di terre, seppur delle nuove terre solo il 5,6% del territorio sottratto ai palestinesi

viene comprato, mentre il resto viene occupato (nel 1925 solo il 7% del territorio era in possesso di

ebrei).

A partire dagli anni ’30 il rapporto Palestinesi-Ebrei, sino ad allora pacifico, diventa conflittuale, a

causa del massiccio arrivo di ebrei, dell’occupazione di molte terre arabe, della politica inglese di

discriminazione delle popolazioni arabe e dell’intenzione dichiarata da parte ebraica di soffocare

l’economia palestinese (con discriminazioni dei palestinesi, cui viene impedito di lavorare).

Le tensioni sfociano nella Grande Rivolta Araba (1936-39), la lotta della popolazione araba nel

tentativo di arrestare la spoliazione della propria terra, che si realizza in uno sciopero generale di 6

mesi, attentati e scontri armati quotidiani tra palestinesi, immigrati ebrei europei e inglesi. La

rivolta araba viene repressa nel sangue da parte del governo inglese, che manda in Palestina

20.000 soldati.

Nascita dello stato d’Israele (1947-1949)

Nel 1947 l’Inghilterra rinuncia al mandato sulla Palestina.

Le Nazioni Unite, per porre fine alle tensioni nella zona, propongono come soluzione il “Piano di

Spartizione della Palestina” (Risoluzione 181) secondo cui si sarebbero dovuti formare due stati

indipendenti con:

- il 56,5% del territorio agli Ebrei (che erano 500.000, il 30% del totale),

- il 42,5% ai Palestinesi (che erano più del doppio,1.150.000, il 70%).

La città di Gerusalemme, dentro il territorio palestinese, sarebbe diventata zona internazionale

controllata dalle Nazioni Unite. I due stati sarebbero stati misti, ma mentre in Israele popolazione

araba ed ebrea sarebbe stata quasi pari, nello Stato Palestinese gli Ebrei sarebbero stati in netta

minoranza.

Il piano viene accettato dagli Ebrei, ma non dai Palestinesi e dagli altri Stati Arabi, che non

accettano lo squilibrio nella divisione delle terre a vantaggio degli ebrei.

Prima guerra arabo-israeliana (1948-1949)

Il 15 maggio 1948 gli ebrei proclamano la costituzione dello Stato di Israele.

In seguito alla proclamazione unilaterale, da parte ebraica, dello stato di Israele, una coalizione di

stati arabi della regione (Egitto, Giordania, Siria, Iraq) muove guerra al nuovo Stato, anche per

fermare l’espulsione massiccia dei palestinesi.

La guerra si conclude con la vittoria di Israele, meglio armata degli stati arabi e rifornita dalle

potenze occidentali.

La vittoria consente al nuovo stato sionista di occupare più territorio di quello assegnato dalle

Nazioni Unite. Israele prende il 78%, mentre ai Palestinesi resta il 22%della Palestina: la Striscia di

Gaza sotto il controllo dell’Egitto, la Cisgiordania (West Bank) e Gerusalemme Est sotto il

controllo della Giordania. Gran parte della popolazione araba viene espulsa dal territorio

conquistato. La massiccia diaspora palestinese viene chiamata Naqba (catastrofe).

È allora che nasce il problema dei profughi palestinesi: molti arabi si rifugiano infatti nei campi

profughi in Libano e in Giordania, mentre i 200.000 palestinesi rimasti all’interno dello Stato di

Israele vengono espropriati e discriminati. L’11 Dicembre 1948 l’ONU adotta la Risoluzione 194

che prevede il diritto al ritorno dei profughi palestinesi in Palestina, oltre a un risarcimento per le

perdite di terra e casa, prevedendo compensi per quelli che non desiderano esercitare tale diritto.

La questione israelo-palestinese, da quell’anno fino ai nostri giorni, riguarderà dunque sempre due

aspetti: il territorio e la popolazione. Da una parte Israele che crea nuovi insediamenti e favorisce

l’immigrazione ebraica da tutto il mondo. Dall’altra parte i palestinesi che tentano di riconquistare il

territorio perduto e restare in Palestina. Una resistenza che porta, nel 1964, anche per iniziativa della

Lega Araba, alla nascita dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e del

movimento di resistenza palestinese AL FATAH, guidato da Arafat.

La guerra dei sei giorni (1967)

In seguito a numerosi scontri di frontiera tra Israele ed i suoi vicini arabi, in particolare la Siria, il

Presidente egiziano Nasser decide di espellere il contingente di interposizione delle Nazioni Unite

(United Nations Emergency Force - UNEF) dalla penisola del Sinai nel maggio 1967. L’Egitto

ammassa quindi alla frontiera con Israele circa 1000 carri armati e quasi 100.000 soldati, chiudendo

poco dopo lo Stretto di Tiran alla navigazione di qualsiasi imbarcazione israeliana o che

trasportasse materiale strategico. Queste iniziative riscuotono vastissimo appoggio da tutti i paesi

arabi. Israele risponde con uguale mobilitazione richiamando 70.000 riservisti in aggiunta alle

regolari unità dell’esercito e, il 5 giugno 1967, lancia un attacco preventivo all’Egitto. Con una

guerra lampo di soli sei giorni, l’esercito israeliano sconfigge gli eserciti di Siria ed Egitto e

conquista tutta la Palestina, sottraendo le Alture del Golan alla Siria e il deserto del Sinai

all’Egitto; si annette inoltre la parte est di Gerusalemme e sposta la sua capitale da Tel Aviv a

Gerusalemme. I paesi Arabi negano di aver pianificato l’attacco e affermano che l’azione di Israele

non è da considerarsi preventiva, bensì un atto di aggressione ingiustificato e illegale.

Con la Risoluzione 242 le Nazioni Unite dichiarano che Israele deve ritirarsi dal territorio sottratto

ai palestinesi. Israele non si ritira e stabilisce un’occupazione militare stabile su tutta la

Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che da allora prendono nome di “Territori Occupati”. Si verifica

così un nuovo esodo di palestinesi che si aggiungono alla massa di profughi del conflitto del 1948.

Nasce allora la strategia di occupazione israeliana attraverso gli insediamenti di coloni ebrei nei

territori occupati, intorno a Gerusalemme Est e lungo il fiume Giordano. Una strategia attuata da

tutti i governi israeliani che si sono succeduti da allora fino a oggi e che viola la risoluzione 242

dell’ONU.

Dopo il 1967: resistenza palestinese e guerra del Libano

Nel 1969 viene eletto Arafat come presidente dell’OLP, che pone le sue basi operative

prevalentemente in Giordania. Nel 1970 uno dei movimenti di resistenza palestinese (quello di

Habbash) organizza il dirottamento di tre aerei , che poi vengono fatti esplodere. Lo stesso anno

la Giordania distrugge le basi dei movimenti palestinesi dalle quali partivano le azioni contro

Israele: è il Settembre nero. Dopo questo fatto, l’OLP si trasferisce in Libano. Nel 1972 una

fazione armata di Al Fatah compie un attentato alle Olimpiadi di Monaco, con numerosi morti tra

gli atleti israeliani.

Nel 1974 si verifica una svolta diplomatica importante: Arafat è invitato all’ONU come

rappresentante del popolo Palestinese; il Consiglio Nazionale Palestinese di fatto considera ormai lo

Stato d’Israele un fatto storico e chiede di costruire un proprio Stato indipendente a fianco di quello

israeliano, nei Territori Occupati (Gaza e Cisgiordania, ossia il 22% della Palestina storica).

Il 6 giugno 1982 Israele invade il Libano per eliminare la resistenza palestinese e i suoi leader

rifugiati in quel paese (dove si trovano molti dei campi profughi palestinesi). Ad agosto l’OLP

accetta il cessate il fuoco e lascia Beirut.

Il 16 settembre, miliziani falangisti libanesi, con il consenso degli Israeliani, penetrano nei campi di

Sabra e Shatila e per 40 ore compiono massacri e violenze con 3.000 morti e scomparsi.

In Libano gli israeliani saccheggiano anche il Centro di ricerche palestinesi distruggendo 25.000

volumi e manoscritti, al fine di annientare non solo l’OLP, ma qualsiasi segno dell’identità e della

storia del popolo palestinese. I crimini e le responsabilità israeliane in Libano saranno riconosciute

da una commissione del parlamento israeliano nel 1983: Sharon, ministro della difesa, è costeretto

a dimettersi, anche se successivamente rientrerà nella scena politica israeliana.

Tra il 1987 e 1992 si sviluppa la Prima Intifada nei territori occupati. Scoppia dopo 20 anni di

occupazione, una rivolta spontanea non armata di massa della popolazione, con manifestazioni,

scioperi, disobbedienza civile, chiusura di negozi, boicottaggio dei prodotti israeliani. Segue una

repressione spietata con coprifuoco, migliaia di arresti, uccisioni (2.000 morti, 100.000 feriti) e

demolizioni.

Dal 1993 al 2000: gli Accordi di Oslo

Nel 1993 si stabiliscono gli accordi di Pace di Oslo tra Arafat, Peres e Rabin.

Il processo di pace, voluto dagli USA per stabilizzare il Medio Oriente (strategico per il petrolio),

divideva i territori occupati (Cisgiordania e Gaza), in tre zone: zona A, sotto il controllo completo

dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP - entità creata con gli stessi Accordi di Oslo); zona B,

sotto il controllo amministrativo dell'ANP e il controllo militare israeliano; zona C, sotto il totale

controllo israeliano. Nei primi mesi tutte le città sarebbero state liberate (zona A), mentre nell’arco

di 6 anni quasi tutto il territorio rimanente (zone B e C) sarebbe poi passato gradualmente ai

palestinesi. L’accordo si fondava sulla convinzione che il rispetto e l’attuazione del processo di

pace avrebbe creato un clima di fiducia fra i due popoli con la possibilità alla fine di risolvere i

problemi più spinosi: territori occupati, insediamenti abusivi dei coloni e status di Gerusalemme.

Il processo di pace funziona solo i primi mesi: vengono liberate città come Gerico e Gaza, e

Arafat può tornare in Palestina dopo 25 anni di esilio. Dopodiché il processo si interrompe, anche

per l’assassinio di Rabin, nel 1995, da parte di un estremista israeliano contrario al processo di

pace. Le difficoltà sono sentite da entrambe le parti: gli israeliani denunciano le continue violenze e

attentati, che minacciano la loro sicurezza; i palestinesi, invece, lamentano la mencata applicazione

degli accordi e soprattutto il proseguire degli insediamenti di coloni nei territori occupati. Con il

tracollo del processo di pace, le zone palestinesi autonome liberate, separate tra loro da strade e

insediamenti israeliani, si trovano in una situazione economica disastrosa.

Nel 2000 si aprono i negoziati di Camp David, voluti dal Presidente degli Stati Uniti Clinton alla

fine del suo mandato. Per la prima volta sono in discussione i principali punti di scontro: lo status di

Gerusalemme, il ritorno dei profughi, il problema dell'acqua, la sorte degli insediamenti ebraici nei

territori occupati. Il vertice si conclude con un nulla di fatto a causa dell'inconciliabilità delle

posizioni sui problemi principali. Riesplode la violenza.

Dopo il 2000: l’attualità

Nel settembre 2000, la provocazione di Sharon (capo del Likud, il partito della destra israeliana)

che si reca sulla Spianata delle Moschee con centinaia di poliziotti, fa esplodere la Seconda Intifada,

che si estende oltre ai territori occupati, anche nelle regioni arabe d’Israele come la Galilea. Questa

seconda rivolta è segnata da un livello di conflitto molto più alto della prima, con scontri molto

violenti tra palestinesi ed esercito israeliano e la rioccupazione militare di tutte le città palestinesi.

Atti di brutale repressione colpiscono l’intera popolazione palestinese, ridotta allo stremo e chiusa

in campi profughi o in città sovraffollate, devastate dalle incursioni israeliane. In questo contesto si

afferma sempre più la nuova strategia di Hamas (“Movimento di Resistenza Islamica”, nato a Gaza

nel 1988) e di alcuni gruppi armati palestinesi di ricorrere ad attentati suicidi contro i civili

israeliani.

Sharon vince le elezioni nel 2001 e avvia la costruzione del muro: una barriera di cemento armato

alta 8 metri, con filo spinato e torrette di controllo con cecchini e telecamere, check-point che

limitano la mobilità dei palestinesi. Il muro, che alla fine sarà lungo 750 km, viene costruito

all’interno dei territori occupati e si snoda lungo tutto il confine, a difesa di Israele e degli

insediamenti. La sua edificazione è stata condannata dalla Corte Internazionale di Giustizia

dell’Aia nel 2004 in quanto contraria al diritto internazionale.

Nel 2004 muore Arafat, leader dell’OLP, e viene eletto come suo successore Abu Mazen (del

movimento Fatah), mentre in Palestina continuano le azioni terroristiche e le dure ritorsioni

israeliane contro i civili palestinesi. Nel 2005 Sharon fa sgomberare la Striscia di Gaza, in

maniera unilaterale.

Nel 2006 la pesante guerra di Israele in Libano provoca migliaia di vittime civili tra la

popolazione libanese e 800.000 profughi palestinesi.

Nel 2006 Hamas vince le elezioni legislative con una larga maggioranza. Tale vittoria, pur

riconosciuta regolare da organismi internazionali, non viene accettata da Israele, USA ed Europa, in

quanto giudicano Hamas un’organizzazione di natura “terroristica”. Israele arresta o uccide molti

dei leader di Hamas e imprigiona molti suoi parlamentari, impedendo al Parlamento palestinese di

riunirsi. Viene imposto un duro embargo economico internazionale contro i palestinesi, che

favorisce lo scatenarsi di una guerra civile tra Hamas e Fatah, uscito sconfitto dalle elezioni. Uno

scontro che porta Abu Mazen a sciogliere il governo legittimo guidato da Hamas e si conclude nel

2007 con la divisione del territorio palestinese in due parti in mano alle due fazioni , con Hamas

che controlla la Striscia di Gaza, mentre Fatah la Cisgiordania.

Da allora la Striscia di Gaza, una minuscola fascia costiera lunga 40 km e larga 10 km dove vivono

ammassate un milione e mezzo di persone, è sottoposta a un blocco totale da parte di Israele e

vive di soli aiuti umanitari, con uno scarso accesso ad acqua potabile, alimenti, istruzione e cure

mediche.

A metà del 2008 Hamas dichiara una tregua unilaterale, attuando la cessazione del lancio di razzi

con l’accordo di vedere allentato il blocco di Gaza. Israele però intensifica il blocco (anche degli

aiuti umanitari), peggiorando ancora le condizioni dei palestinesi; Hamas non rinnova la tregua

nel dicembre 2008 e ricominciano gli attentati. La risposta di Israele è l’operazione militare Piombo

Fuso, un duro attacco alla Striscia di Gaza tra fine dicembre e metà gennaio 2009, che ha causato la

morte di 1.307 palestinesi e 13 israeliani ed almeno 5.300 feriti. Anche dopo la cessazione

unilaterale delle ostilità armate da parte di Israele, la criticità della situazione rimane alta a causa del

perdurare di una condizione di violenza a bassa intensità, con incidenti quotidiani, e del totale

blocco israeliano sulla Striscia di Gaza.

ALLEGATO 2

Mappe mute del Medio Oriente e di Israele/Palestina.

ALLEGATO 3

Israele – Palestina:Cronologia del Muro fino al 200420

1947 – Le Nazioni Unite tracciano il confine tra Palestina ed Israele (linea verde).

1967 – All'indomani della Guerra dei Sei giorni, in Israele si inizia a pensare alla realizzazione di un muro che segua il tracciato della linea verde. Il progetto, caldeggiato anche da Yitzhak Rabin, non si concretizza. Negli anni successivi viene ripresa l'idea da diversi governi, ma i lavori non hanno mai inizio.

28 Settembre 2000 - Ariel Sharon visita la Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Inizia la seconda Intifada, con numerosi attentati suicidi contro civili israeliani.

Aprile 2002 – L'aumento degli attentati terroristici da parte di kamikaze palestinesi fa riemergere in Israele la proposta del Muro. A giugno il nuovo governo israeliano di Ariel Sharon, decide di costruire una barriera concreta per separare Israele dalla Cisgiordania con lo scopo di impedire ai palestinesi di entrare in Israele in modo incontrollato. La costruzione del Muro prevede la confisca di terreni e lo sradicamento di grandi uliveti a Jenin e altrove.

Settembre 2002 – Viene resa pubblica una mappa parziale del percorso della barriera.

Marzo 2003 - Sharon dichiara l’allargamento del Muro e l'intenzione di portarlo lungo la Valle del Giordano, portando sotto il controllo israeliano tutta l'area.

Luglio 2003: Il Ministero della Difesa israeliano annuncia la conclusione della prima fase del Muro, per un totale di 145 km sui 728 km progettati. Il governo israeliano destina altri 171 milioni di dollari per la costruzione del Muro. Il costo totale è di 3 miliardi, circa 4 milioni di dollari al kilometro. Ogni giorno, lavorano circa 500 ruspe su questo progetto di costruzione, uno dei più grande della storia del paese.

Ottobre 2003 – La fascia di sicurezza ha quasi raggiunto i 180 km di lunghezza. Diverse le tipologie di costruzione: dalle muraglie in cemento armato ai reticolati; dai valli ai terrapieni con sistemi di protezione elettronica. Lungo il suo percorso, il muro taglia in due molti paesi palestinesi. Alcuni si ritrovano totalmente isolati dal territorio circostante.

14 0ttobre 2003 – Alcuni Paesi arabi chiedono che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU denunci come illegale la barriera tra Israele e Palestina. Il rappresentante USA al Consiglio pone il veto perché nella risoluzione manca una condanna specifica agli atti terroristici contro Israele.

20 Fonti: www.asianews.it e “Il Muro dell’apartheid” di Anarchists against the wall

21 0ttobre 2003 – L'Unione Europea presenta una nuova risoluzione all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui si afferma che la costruzione del muro è contraria alle leggi internazionali. Nello stesso tempo si chiede ai palestinesi di bloccare gli atti di terrorismo. Israele e l'Autorità Palestinese sono invitati al rispetto della Road Map e ad impegnarsi per la costituzione dello Stato palestinese entro il 2005. Voti: 144 a favore, 4 contrari (Israele, USA, Isole Marshall, Micronesia), 12 astensioni.

8 Novembre 2003 – L'Ufficio di Coordinamento per i problemi umanitari dell'ONU (OCHA) rende noti i dati relativi all'impatto del Muro sui palestinesi. Secondo le Nazioni Unite il muro segue solo per l'11% la Linea verde; requisisce il 14% della West Bank; causerà sofferenze a 680 mila palestinesi.

9 Luglio 2004 - Il Tribunale Internazionale di Giustizia dell’Aja condanna l’edificazione del muro come contraria al diritto internazionale e decide che deve essere abbattuto.

15 Settembre 2005 - La Corte Suprema d'Israele ha giudicato all'unanimità che una parte della barriera di separazione è illegale riferendosi a quella parte edificata in territorio occupato.

Il Muro di Separazione tra Israele e Cisgiordania

La famiglia di Betlemme

Una fattoria imprigionata dal muro. Una famiglia che resiste

Muri di campagna. Bilal Jado è un ragazzo palestinese di 21 anni, alto e forte. Vive in una fattoria alle porte di Betlemme, in mezzo alla campagna e agli animali, dove la sua famiglia risiede da generazioni. Il viso di Bilal s’illumina quando mostra orgoglioso le terre coperte di ulivi dove è nato, ma s’incupisce quando indica il muro. Alto, freddo, grigio. Il muro di separazione che il governo israeliano ha cominciato a costruire nell’estate del 2002 è apparso all’improvviso nella vita di Bilal e della sua famiglia. “Ovviamente, sapevamo quello che stava succedendo, ma non pensavamo che sarebbe arrivato così presto”, racconta Bilal. “Una mattina sono venuti qui alcuni uomini in abiti civili. Hanno annunciato alla mia famiglia che i lavori per la costruzione della barriera stavano per cominciare nella campagna attorno a casa nostra. Hanno offerto un indennizzo per abbandonare la terra dove tutti i miei familiari ed io stesso siamo nati. La sera mio padre ci ha riuniti tutti in cucina. Ci ha chiesto cosa ne pensassimo, ma in realtà tutti conoscevamo già la risposta”. “Per quanto la nostra vita potesse diventare dura – dice Bilal - nessuno di noi voleva lasciare la nostra casa. Qualche giorno dopo la visita di quelle persone, sono arrivati i bulldozer e i camion. Adesso c’è quello che potete vedere guardando fuori”. Dalla veranda della casa di Bilal, all’ombra di rampicanti che sembrano eterni, il muro si vede in tutta la sua lunghezza. Chilometri di cemento, torrette di guardia e sistemi di sicurezza sofisticati. “Noi cerchiamo di continuare a vivere normalmente”, spiega il ragazzo, “ma niente è più come prima”.

Le barriere tra gli uomini. Il muro in questa zona rientra nel tratto della barriera chiamato Jerusalem envelope, pensato per annettere a Gerusalemme gli insediamenti israeliani sorti attorno a Betlemme. La fattoria degli Jado resta all’interno della barriera e viene separata da Betlemme. E la famiglia di Bilal, nove persone in tutto, resta sospesa in una sorta di limbo amministrativo. “La nostra posizione è particolare”, spiega Azem, lo zio di Bilal, mentre guarda malinconico le terre che appartenevano alla sua famiglia e che adesso sono state requisite, “viviamo in territorio israeliano, ma non abbiamo i documenti. I funzionari israeliani ce lo hanno spiegato: loro annettono le terre, non le persone che ci vivono. Quindi non siamo in possesso dell’ID Card (documento di riconoscimento che la municipalità di Gerusalemme rilascia ai residenti che possono grazie a quella entrare in città ndr) e perciò non possiamo andare a Gerusalemme. Ma, allo stesso tempo, il muro ci separa da Betlemme e, quando i lavori saranno terminati, non potremo più andare a far la spesa in città: saremo da questa parte del muro. Non più cittadini di Betlemme, non ancora cittadini di Gerusalemme. Contiamo sulla solidarietà di amici che hanno i documenti per fare compere e soprattutto per vendere i prodotti della fattoria…per vivere insomma”. “Per il governo israeliano – continua zio Azem - è come se non esistessimo, anche se comunque dobbiamo pagare le tasse. A volte, ci viene in mente che forse il muro lo costruiscono con i nostri stessi soldi. Ma dalla nostra casa non ci muoviamo”. Quanto sia cambiata la vita della famiglia Jado lo si capisce dal piccolo Zyad, il fratellino di 8 anni di Bilal. Due anni fa, per andare a scuola, il bimbo impiegava venti minuti. Giusto il tempo di trotterellare, con uno zainetto troppo grande per lui, dietro al fratello che portava le pecore al pascolo e di raggiungere poi Betlemme. Adesso Zyad è costretto a compiere un giro tutto attorno al muro per raggiungere la scuola più vicina dove gli è consentito andare. C’impiega due ore. “Lo devo accompagnare”, racconta Bilal con un atteggiamento paterno che stride con i suoi 21 anni, “troppa strada da fare da solo. Perdo tanto tempo, ma per il suo bene lo faccio. Io ho smesso presto di studiare, ma Zyad deve continuare. Ho cominciato subito a occuparmi delle pecore e mi è sempre

piaciuto girare per queste terre, mi sentivo libero. Potevo rilassarmi e godermi l’aria fresca, ma adesso devo stare attento perché i lavori continuano ogni giorno e la mattina troviamo un tratto nuovo di muro. Tempo fa mi potevo anche distrarre, perché tanto le pecore conoscevano perfettamente l’area attorno alla fattoria. Adesso anche loro sono smarrite, Sharon - aggiunge Bilal scoppiando a ridere - dovrebbe scusarsi anche con loro”. Sembra che in futuro, una volta finiti i lavori di costruzione, verranno predisposti dei cancelli per l’attraversamento del muro. I pass saranno rilasciati a chi dimostrerà di avere una necessità assoluta di doversi recare a Betlemme. Vivendo del lavoro della loro fattoria, la famiglia Jado difficilmente godrà di questo permesso. “Non credo che al governo israeliano interessi il fatto che ho tutti i miei amici dall’altra parte”, racconta Bilal. “Per ora, facendo dei chilometri e aggirando il muro nella zona dove non è stato terminato, riesco a raggiungere Betlemme, ma alla fine resterò lontano da tutte le persone che conosco da sempre, dai ragazzi con i quali sono cresciuto e che per me sono come fratelli”.

L'orizzonte negato. Bilal si fa strada attraverso gli ulivi per mostrare la strada che percorre la sera dopo il lavoro per incontrare i suoi amici. Dopo una mezz'ora buona di cammino tra sassi e alberi rimasti, visto che i lavori per la costruzione del muro hanno comportato l’abbattimento di centinaia di piante, incontra un gruppo di coetanei che passano il tempo a chiacchierare vicino al muro. “Non c’è lavoro”, spiega Bilal quasi a cercare di giustificare i suoi amici, “non hanno nulla da fare e allora vengono qui, per stare assieme”. Sono in tanti e si assomigliano. Tutti ripetono le stesse accuse: “gli israeliani ci rubano la terra e abbattono i nostri alberi che rappresentano la nostra identità, ci chiudono in un ghetto”. Si sfogano tirando sassi contro la barriera, guardati a vista da uomini armati che presidiano lo svolgimento dei lavori. Si sfogano scrivendo sul muro minacce e slogan e, uno di loro dotato di particolare fantasia, ha disegnato le orme di un paio di piedoni enormi che scavalcano il muro.“Puoi chiudere qualcuno oltre un muro”, spiega Bilal con un sorriso amaro, “ma non puoi impedirgli di fantasticare. Io penso che, a fatica, potrei accettare di vivere in questo modo. Potrei accettare di fare i salti mortali per fare la spesa. Potrei accettare di fare dei chilometri per raggiungere un luogo che in linea d’aria dista pochi metri. Potrei accettare d’incontrare i miei amici da qualche altra parte, ma quello che proprio non riesco ad accettare è il fatto che qualcuno ha cambiato il mio orizzonte. Da quando sono nato l’unico viaggio che potevo permettermi era quello immaginario che compivo guardando libero l’orizzonte. Oggi questo muro me lo impedisce. No…questo non lo accetterò mai”.

Christian Eliahttp://it.peacereporter.net, 22/04/2005

ALLEGATO 4

TESTO di GOLDA MEIRTESTO di MAXIME RODINSON (VEDERE FILE ALLEGATO)

ALLEGATO 5

Prospettiva dei Palestinesi

Noi Loro

Interessi “Noi Vogliamo” “Loro vogliono”

Valori “ Noi crediamo” “Loro credono”

Emozioni “Noi ci sentiamo” “Loro si sentono”

Identità “Noi siamo” “Loro sono”

Prospettiva degli Israeliani

Noi Loro

Interessi “Noi Vogliamo” “Loro vogliono”

Valori “ Noi crediamo” “Loro credono”

Emozioni “Noi ci sentiamo” “Loro si sentono”

Identità “Noi siamo” “Loro sono”

BIBLIOGRAFIA SUL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

AA.VV, “Voci dal conflitto. Israeliani e Palestinesi a confronto”, EDS, 2002

Barnavi E., “Storia d’Israele”, Bompiani, 2001

Codovini G., “Storia del conflitto arabo israeliano palestinese”, Mondadori, 2002

Gallo G., «Confisca e colonizzazione della terra in Palestina», in “Israele-Palestina, due popoli una

terra”, a cura di S. Saccaridi, Editrice Tasca, 2001

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Morris B., “Vittime”, Rizzoli, 2001

Salem S., “Con il vento nei capelli; vita di una donna palestinese”, Giunti, 1993

Warshawsky M., “Programmare il disastro”, Shahrazad Edizioni, 2009

Su nonviolenza e conflitto:

Goss-Mayr J. E H., “La nonviolenza evangelica”, La Meridiana, 1991

Il conflitto israelo-palestinese per educare alla pace:

Dogliotti Marasso A., Tropea M.C., “La mia storia, la tua storia, il nostro futuro – un gioco di

ruolo per capire il conflitto israelo-palestinese”, EGA, 2003

Saccaridi S. (a cura di), “Israele-Palestina…due popoli, una terra…”, Editrice Tasca, 2001

Peace Research Institute in the Middle East (a cura di), “La storia dell’altro. Israeliani e

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Sacco J., “Palestina. Reportage a fumetti”, Mondadori Editore, 1999

Siti di associazioni pacifiste israeliane e palestinesi:

Centre for Conflict Resolution and Reconciliation, Betlemme – [email protected]

New profile, gruppo antimilitarista israeliano – www.newprofile.org/english/index.html

Jerusalem Centre for Women, ONG palestinese – www.j-c-w.org

International Solidarity Movement, movimento formato da attivisti palestinesi e internazionali -

www.palsolidarity.org

Alternative Information Center, Gerusalemme, organizzazione mista, palestinese-israeliana, di

informazione – www.alternativenews.org

Nevé-Shalom, Wahat-as-Salam (Oasi di Pace), villaggio comunitario di israeliani e palestinesi –

http://nswas.org/rubrique109.html e http://nswas.org/rubrique110.html

Ta’ayush: Arab-Jewish Partnership, gruppo di lavoro per la pace misto – http://www.taayush.org/

Parents Circle – Families Forum, associazione che riunisce famiglie israeliane e palestinesi che

hanno perso familiari nel conflitto - http://www.theparentscircle.com/

Siti italiani dove trovare informazioni sulle iniziative di pace in Israele-Palestina:

www.nonviolenti.org – curato dal Movimento Nonviolento

www.assopace.org – Associazione per la Pace

www.donneinnero.org – movimento delle Donne in Nero Italia

www.operazionecolomba.org – Comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini

www.peacelink.it – il sito dei movimenti per la pace italiani

Da vedere:

Exodus (1960) – di O. Preminger

Nozze in Galilea (1987) – di Khleifi M.

Promesse (2001) – di Glodberg, Shapiro e Bolado

Jenin Jenin (2002) – di M. Bakri

Private (2004) – di S. Costanzo

Route 181. frammenti di un viaggio in Palestina (2004) – di E. Sivan

Paradise now (2005) – di H. Abu-Assad

The Iron Wall (2006) – di M. Alatar

Il club antioccupazione delle nonnine infuriate (2006) – di I. Klinke

Behind the Intentions (2008) – di A. Bargur

Valzer con Bashir (2008) – di A. Folman

Il giardino dei limoni (2008) – di E. Riklis

http://closedzone.com/ (2009) - breve cartone animato sulla situazione di chiusura della Striscia di

Gaza a cura dell'associazione Gisha