Amico treno non ti pago. Perché ho viaggiato senza pagare il biglietto

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Un assaggio del libro di Angelo Maddalena, con prefazione di Ivan Cicconi

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~atropo · narrativa~7

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angelo maddalena

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illustrato da irene cavalchini

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.orgTu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizio-ne di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana AtropoCollana diretta da: Anna Matilde SaliGrafica e copertina: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo

© Copyright 2011, Ass. cult. Erisvia Reggio 15, 10153 [email protected] edizione Febbraio 2013ISBN 9788890693939

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IllegalitÀ: il dito o la luna?

Il capitano e gli ufficiali della nave erano diven-tati talmente prigionieri della loro maestria, così fieri, arroganti e presuntuosi, che per il solo gusto d’eseguire navigazioni sempre più brillanti, gira-rono la nave verso nord per navigare verso acque via via più perigliose.

Mentre la nave raggiungeva latitudini sempre più alte i passeggeri e i marinai iniziarono a la-mentarsi delle proprie condizioni di vita. «Dio mi fulmini se questo non è il peggior viaggio che ho mai fatto», esclamò un vecchio marinaio. Una pas-seggera si lamentava per il freddo perché le donne ricevevano meno coperte degli uomini. Altri pro-testavano per i calci con cui si trattava un pove-ro cane. Un marinaio messicano perché riceveva un quarto dei soldi dei marinai inglesi. Un nativo americano ricordava di essere stato privato delle sue terre ancestrali e rivendicava il diritto a un indennizzo. L’omosessuale protestava per l’appel-lativo di frocetto con il quale il capo marinaio si rivolgeva a lui.

Uno dei passeggeri era un professore univer-

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sitario e fregandosi le mani esclamava: «Ma tut-to questo è terribile! È immorale! Razzismo, ses-sismo, specismo, omofobia e sfruttamento della classe proletaria! È discriminatorio! Dobbiamo ottenere giustizia sociale. Equi diritti per il mari-naio messicano, salari più alti per tutti i marinai, un indennizzo per l’indiano, eque coperte per le signore, un diritto garantito di succhiare cazzi e niente più calci al cane!».

Fra tutti, un mozzo si permise timidamente di obiettare: «Avete tutti buone ragioni per protesta-re. Ma mi sembra che ciò che dobbiamo davvero fare sia girare la nave e puntare a sud, perché se continuiamo verso nord prima o poi naufraghe-remo sicuramente e allora i vostri salari, le vostre coperte, e il tuo diritto a succhiare cazzi saranno inutili, perché annegheremo tutti». Nessuno però lo degnava d’attenzione.

Gli ufficiali seguivano attentamente lo sviluppo delle proteste e a nome del Capitano promettevano che i problemi sarebbero stati risolti compatibil-mente con le difficili condizioni della navigazione e comunque raccomandavano il rispetto delle re-gole della nave.

Alle prime concessioni i passeggeri e i mari-nai celebrarono queste come grandi vittorie, ma il giorno successivo si rendevano conto che le condizioni erano cambiate di poco e si sentivano

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nuovamente insoddisfatti. Allora di nuovo il moz-zo con fare sempre più deciso: «Se lasciamo mano libera a quei pazzi a poppa affogheremo tutti. Se riusciremo a salvare la nave, allora potremo pre-occuparci delle condizioni di lavoro, delle coper-te per le donne e del diritto di succhiare cazzi. Ma prima dobbiamo girare il vascello. Se alcuni di noi si uniscono, elaborano un piano e si fanno corag-gio riusciremo a salvarci. Non ci vorrebbero molti di noi – sei o otto basterebbero. Potremo assaltare la poppa, rovesciare quei folli fuori bordo e girare la nave verso sud». Il professore alzò il naso e dis-se in modo gravoso: «Io non credo alla violenza. È immorale».

La storia andò avanti per giorni con l’ufficiale in seconda che, molto comprensivo, consigliava ai passeggeri di organizzare altre proteste, purché non violente, nel rispetto delle regole della nave, per ottenere altre concessioni dal Capitano. Ad ogni concessione seguivano i festeggiamenti per le loro vittorie rivoluzionarie, ma il giorno dopo con-tinuavano a sentirsi insoddisfatti.

Dopo l’ennesima vittoria il mozzo si arrabbiò: «Maledetti idioti!», urlava, «Se solamente alcuni di voi rinvenissero e si unissero e assaltassero la ca-bina potremo girare la nave e salvarci. Ma non fate che lamentarvi di inutili dettagli come le condizioni di lavoro e giochi d’azzardo e il diritto a succhiare

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cazzi». I passeggeri e i marinai s’infuriarono: «Inu-tili!», urlò il messicano, «pensi sia una cosa ragio-nevole che io riceva un salario che è un quarto di quello degli inglesi? Questo è irrilevante?». «Come puoi definire i miei problemi triviali?», urlò l’omo-sessuale, «non capisci quanto sia umiliante sentirsi chiamare frocetto?». «Calciare il cane non è un inu-tile dettaglio», urlò l’amante degli animali, «è bru-tale e crudele!». Il mozzo cercò di replicare: «Questi problemi non sono inutili o triviali. Ma se parago-nati al vero problema – il fatto che la nave è ancora diretta a nord – i vostri problemi sono cosucce tri-viali, perché se non giriamo la nave in tempo an-negheremo tutti». La risposta del professore non si fece attendere: «Fascista!» urlò. «Controrivoluzio-nario», aggiunse la passeggera. E tutti i passeggeri e i marinai, uno dopo l’altro, si misero a chiama-re il mozzo «fascista» e «controrivoluzionario». Lo spinsero via e tornarono a lamentarsi dei salari, delle coperte per le donne, del diritto di succhiare cazzi e del modo in cui il cane veniva trattato.

La nave continuò a dirigersi a nord e dopo un po’ fu schiacciata tra due iceberg e tutti annega-rono; con questo tragico, e prevedibile, epilogo si chiude il racconto La nave dei folli, che ho preso a prestito da Theodore Kaczynski.

La nave è la metafora della nostra società che secondo Kaczynski naviga verso l’autodistruzione.

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Dal 1996 sconta la pena dell’ergastolo per aver in-viato pacchi postali esplosivi provocando 3 morti e 23 feriti. Rivendicava le sue azioni con la sigla fc, Freedom Club, ma la firma passata alla storia e co-nosciuta in tutto il mondo è quella di Unabomber, appellativo coniato dai mass media tratto dal co-dice utilizzato dall’fbi per identificarlo.

Le storie vissute in prima persona da Angelo Maddalena, che diventano diari e performances, assomigliano molto, in modo metaforico, ai “pac-chi” di Unabomber*. Non provocano danni fisici ma squarciano la nostra mente addormentata e omologata al pensiero unico. Ci costringono a ri-flettere sul nostro essere, sul rispetto delle regole, sulla illegalità (?) dell’assalto alla poppa della nave contro l’hybris della cabina di comando.

Amico treno non ti pago è il suo pacco bomba con-tro i capitani e gli ufficiali che disegnano le rotte della nostra vita quotidiana ma è anche il mezzo per provocare, incontrare, dialogare e stimolare la riflessione dei viaggiatori e dei ferrovieri. Anche questi hanno motivi per lamentarsi e ogni tan-to protestano per la scarsa qualità del servizio e per le condizioni di lavoro. Ma anche loro, come

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* L’Unabomber americano (Theodore Kaczynski), non va con-fuso con l’Unabomber della cronaca italiana attivo tra il 1994 e il 2006 principalmente nel Nord-Est Italia, la cui identità ri-mane tutt’ora ignota.

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i passeggeri e i marinai della nave di Kaczynski, stentano a riconoscere la follia dei capitani e degli ufficiali. Come il mozzo anche Angelo propone di infrangere le regole dettate dalla cabina di regia, pratica una illegalità per fermare la folle tracotan-za del capitano di turno.

Angelo non paga il biglietto. La sua illegalità sot-trae al sistema ferroviario 10,15 euro, arriva forse a 30 quando prova a viaggiare sul Frecciarossa. Ma se il suo “pacco bomba” servisse a fare aprire gli occhi ai viaggiatori e ai ferrovieri e convincerli ad assaltare la cabina di regia, i 30 euro potrebbero diventare una piccola e straordinaria goccia capa-ce di catalizzare tutta l’acqua dei mari che circon-dano lo stivale e impedire ai capitani e agli ufficiali di farli diventare delle pozzanghere putride.

Il biglietto che Angelo non paga impone ai com-pagni di viaggio e poi agli spettatori delle sue rap-presentazioni di riflettere e di scoprire che la nuo-va linea, per far viaggiare gli ufficiali con i treni ad alta velocità da Torino a Napoli, è costata due miliardi di biglietti.

Anche la maestria dei capitani dell’alta velocità assomiglia molto a quella del capitano della nave dei folli: pieni di hybris navigano nelle acque peri-gliose del “mercato”, con rotte inedite disegnate da arditi “project financing”. La sfida che hanno lan-ciato è stata quella della costruzione di nuove trat-

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te ferroviarie con “soldi privati”, per offrire un ser-vizio garantito solo dal “mercato”, senza aiuti dello Stato. I capitani hanno raccontato e continuano a raccontare che è il “mercato” a garantire il viaggio con il Frecciarossa o con l’omologo Italo.

Superbi, orgogliosi, tracotanti come il capitano della nave, ma, in questo caso, anche bugiardi, per-ché i biglietti che gli ufficiali pagano per viaggiare su quei treni coprono a mala pena i costi di ma-nutenzione e gestione delle nuove tratte dedicate e riservate per le loro corse. Sulla tratta Torino-Mi-lano ad esempio, se fosse solo il “mercato” a garan-tire la copertura dei costi, dovrebbero pagare un biglietto almeno tre volte più costoso. Bugiardi dunque, ma anche ladri, perché sono invece pro-prio tutti i passeggeri e i viaggiatori di tutte le altre linee di terra e di mare sui quali si scarica il costo dei due terzi del viaggio degli ufficiali.

L’illegalità di 30 euro è il pacco bomba che squarcia una truffa di 60 miliardi di euro, la cifra spesa per questa follia. Di questa cifra infatti solo un terzo è rintracciabile nelle pieghe del bilancio dello Stato degli ultimi venti anni. Un altro terzo è finito nei circa duemila miliardi di debito pubblico, con un provvedimento definito “anodino” persino dai giudici della Corte dei Conti, e dopo che per anni ci hanno raccontato la favola che erano soldi privati garantiti dall’inedito e truffaldino “project

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financig”. L’ultimo terzo infine è quello che è stato scippato all’amico “treno universale” che lo Stato (cioè tutti noi passeggeri e marinai) sovvenziona ogni anno con circa 4 miliardi di euro. Un furto, ogni anno, per venti anni, di un miliardo di euro, che, anziché per migliorare il servizio per i pendo-lari o garantire i treni notturni e a lunga percor-renza sulla linea storica, sono stati dirottati sull’al-ta velocità. Folli, bugiardi, ladri e con la faccia di bronzo di chi continua a raccontare che è il “mer-cato” a garantire il servizio riservato ai capitani e agli ufficiali.

Amico treno non ti pago: un pacco bomba? Un in-vito all’illegalità? Un tentativo di assalto alla cabi-na di regia? Una proposta di némesis contro l’hy-bris dei Capitani?

I diari e le azioni di Angelo sono tutto questo in-sieme. L’urlo di un mozzo che ci invita a guardare la luna e non il dito che la indica.

Ivan Cicconi

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amico treno non ti pago

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«La condizione di individui che combat-tono da soli può essere dolorosa e poco attraente, ma un fermo e vincolante impe-gno all’azione comune sembra destinato ad arrecare più danni che vantaggi. Si po-trebbe scoprire che le zattere sono fatte di carta assorbente, quando la possibilità di salvarsi è già svanita.»

Z. Bauman, Voglia di comunitÀ

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Anni in Trenitalia

Ancora in marcia…I testi che leggerete fanno parte di un bacino di

appunti che ha dato vita a una narrazione teatra-le dal titolo Amico treno non ti pago (teatro azione o teatro verità o teatro di insurrezione che dir si può o si voglia). Negli anni seguenti a queste scritture ci sono stati passaggi ed evoluzioni, e soprattutto scoperte, tra queste spiccano due pubblicazioni francofone: Zero euro zero fraude. Trasports gratuits pour toutes et tous, Le monde libertaire editions, e Le livre-acces, Collectif sans ticket, Editions du Ce-risier.

I testi che leggerete hanno tutta l’immediatezza e le derive autobiografiche degli appunti di viag-gio. Li voglio lasciare così come li ho scritti, perché sono appunti di qualcosa che è in movimento e che al tempo stesso ha trovato una forma definitiva, cioè quella della narrazione orale. L’unica cosa che mi viene da dire, ed è un’autocritica, è che rileg-gendo dopo tre o quattro anni queste pagine, vi ho trovato un certo eccesso, in certe parti, di autore-ferenzialità. Se qualcuno coglierà e noterà questo

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eccesso, sappia che io ne sono consapevole e che potrei anche evitare di lasciare questa forma. Non lo faccio per i motivi suddetti e anche perché, per chi avesse difficoltà a capirlo, anche quando i ri-ferimenti sono troppo personali, è bene ricordare che l’io che si racconta, è sempre, fatti tutti i distin-guo possibili, un io collettivo. Che non dimentica, anzi, che si ricorda fin troppo che la sua esperienza è testimonianza di altri che non riescono, per un motivo o per l’altro, forse anche per impossibilità di mezzi e di coscienza, a raccontare le repressioni e le oppressioni subite in nome di un foglio di carta (sia esso un documento, un permesso di soggiorno, un biglietto di un mezzo di trasporto pubblico). In ogni caso, il messaggio strampalato e scanzonato, se proprio si deve parlare di messaggio, è quello che scrivono alcuni anonimi redattori della rivi-sta «Nonostante Milano» e cioè che quello che si racconta qui «è alla portata di tutti e di ciascuno, il segreto sta nel cominciare». Cominciare (o rico-minciare) a riprendersi la vita fino in fondo, fino ai limiti del possibile.

Febbraio 2011, Milano

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Prima di partire

Questi scritti sono un atto d’amore. E di dolore!Partono da una profonda passione per un mez-

zo e un modo di viaggiare tra i più poetici, pubblici (ancora per poco) ed ecologici (ma non troppo, si-curamente più di quello su gomma e cemento sem-pre più in foga fino alla nausea e alla catastrofe più o meno imminenti).

Partono da una storia personale di deportazio-ne malcelata, vissuta sulla mia pelle, prima incon-sapevolmente, poi consapevolmente.

Partono dall’incontro con i deportati economici che tra Sicilia e Belgio (ma anche tra Sicilia e Fran-cia, Sicilia e Germania…) attendono ancora rispo-sta e riscatto e, perché no, vendetta.

Sono stati scritti in un periodo storico e politi-co in cui i progetti dell’Alta Velocità (Tav in Val di Susa e in Brennero) sono in doloroso corso. Sono nati anche dall’incontro con le realtà della Val di Susa e del Brennero.

Anni prima di questi scritti, l’editore del mio primo romanzo o “reportage narrativo” mi aveva chiesto di scrivere un libro sulle stazioni ferrovia-rie deserte. Questi scritti non rispondono a quella proposta, ma sviluppano in realtà paesaggi e pro-spettive che stanno “dietro” quell’argomento. Sono il frutto di una curiosità e di una passione strug-

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gente per lo svelare responsabilità e cause che hanno portato a questa situazione.

Mentre in Francia e in Germania iniziano i pri-mi grandi scioperi dei ferrovieri, provo a stampare questi scritti. Senza pretese. Senza vie d’uscita.

Disperazione rabbiosa e indomita.Tanto per dire a chi c’era a chi c’é e a chi ci sarà,

che qualcuno che non stava a guardare e provava a rompere il velo c’era.

Bologna, ottobre 2007

Perché sono scomparsi i cantastorie?

Perché sono scomparsi i cantastorie? Io l’ho sco-perto recentemente, ascoltando le parole di uno di loro, intervistato da una giornalista. L’intervi-sta si può trovare su Youtube. Lui si chiama Cicciu Busacca. La giornalista gli chiede: «Perché lei non canta più per le strade come faceva una volta?». E lui risponde: «Ma ccu tutti sti rumori, ’sti muturina, ’sti machini… come faccio a cantare?». L’intervista è dell’inizio degli anni ’80. Cicciu Busacca fino a pochi anni prima aveva riempito piazze anche di due o tremila persone, e con una chitarra e la voce, a volte senza neanche microfono, raccontava una storia che durava anche due ore. È una cosa inim-maginabile per noi oggi. Cicciu Busacca, senza sa-

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perlo, stava denunciando l’era del rumore totale (la nostra, di chi è nato a partire dagli anni ’70 del xx secolo) e la fine dell’era del silenzio. E stava denun-ciando, più precisamente, una delle cause di quello stravolgimento: l’automobile. Una delle invenzioni più disastrose della storia dell’umanità. Così la de-finisce Colin Ward nel libro Dopo l’automobile. Ri-cordando che il numero delle persone ammazzate negli incidenti stradali sono state superiori di gran lunga a quelle ammazzate durante le guerre degli ultimi tre secoli, però lui si riferiva ai dati di ini-zio xx secolo e si riferiva alla sola Inghilterra. Se ci penso bene, penso a Nicola, Roberto, Enzo, Lillo, e altri nomi e volti… mia madre ha rischiato di per-dere la vita in un incidente stradale, invece non ho mai conosciuto persone che hanno perso la vita in guerra, ma tante, decine, forse centinaia, tra feriti e ammazzati, nelle e dalle automobili. Era l’inizio de-gli anni ’80 quando trovai mia madre all’ospedale con il volto bendato e la gamba ingessata, anno più anno meno l’Italia trionfava ai mondiali di Spagna, grazie ai goals di Pablito Paolo Rossi. Invece era il 1993 quando ho fatto la mia prima testimonian-za diretta, il primo contatto fisico. All’entrata del mio paese, era il mese di luglio o agosto, con un mio compagno arriviamo in macchina dalla par-te di Barrafranca, stiamo per entrare a Pietraper-zia, ma subito prima di arrivare al centro abitato

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siamo costretti a rallentare e a fermarci… un no-stro compaesano e coetaneo e compagno di giochi d’infanzia piange e urla accanto alla sua automo-bile cappottata. Cerchiamo di capire che succede, sotto la strada, in un lato della strada che scende, c’è altra gente. Qualcuno mi chiede aiuto, è un ra-gazzo che porta sulle braccia una giovane donna. Mi chiede di prenderla in braccio perché lui non ce la fa a salire. È la prima volta, e l’ultima, che tengo fra le braccia un corpo senza vita.

Nel 2002 ho compiuto un gesto liberatorio, mi sono liberato di un’arma impropria. Così mio cugino definì l’automobile. E lui guida e gli piace anche. Non come altri che anche se non gli piace, si sono fatti inculcare l’amore per l’automobile, e poi… quando io ho smesso di guidare, quelli come mio cugino e altri che hanno davvero l’amore per l’automobile, Gianfilippo, Calogero, che guidavano da quando avevano 11 anni, mi dicevano che ave-vo fatto bene a smettere. Invece quelli e quelle che magari hanno preso la patente per raccomanda-zione e obbligati dai genitori (dalle mie parti ci fu un’inchiesta a inizio anni ’90 che portò in carcere alcuni funzionari della motorizzazione civile di Enna, a tal proposito), mi contestavano: la sorel-la di un mio amico addirittura si rifiutò di parlare con me per alcune ore perché a detta sua io ero un “integralista”.

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Un giorno che me ne andavo a Caltanissetta in autostop, incontrai u zì Vicinzu. U zì Vicinzu ha un ristorante nel mio paese. Era capitato che mi aveva dato un passaggio da Caltanissetta per Pietraper-zia perché lui andava a prendere la frutta e la ver-dura al mercato di Caltanissetta. Quando gli dissi che stavo andando a Caltanissetta mi chiese «E come ci vai, a piedi?». «No, a passaggi». E lui, che sapeva che c’erano tanti altri che come lui andava-no e tornavano da Caltanissetta ininterrottamente, e che magari senza quella possibilità avrei avuto poche occasioni di incontrarli pur abitando nello stesso paese, si stupì. Forse aveva anche qualche pregiudizio, della serie che senza un’automobile privata un uomo non è un vero uomo. E mi disse «Ma vidi stu carusu, è così questo ragazzo, si cerca a dispirazijoni!».

Un’altra volta mi vide con la bicicletta automa-tica. Cioè, dopo aver abbandonato l’automobile e la patente, decisi di investire sul velocipede. Mi comprai con 500 euro una bicicletta col potenzia-tore elettrico. Di quelle che se ne vedono molte nel Nord Europa, ma anche nel Nord Italia. Quelle che se pedali e superi i cinque chilometri all’ora, auto-maticamente si aziona il potenziatore, che pesa 30 chili! A differenza del motorino che va a benzina, il potenziatore è elettrico! Quindi lo ricarichi come il telefonino! E se ti si scarica mentre sei in movi-

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mento… sei fottuto! Perché ci hai 30 chili e forse anche 40 da sostenere coi pedali. Poi se ti trovi in un paese di collina, sei fotutto e anche fritto. Al-lora un giorno u zi Vicinzu mi vede con questa bicicletta elettrica ricaricabile, e mi chiede dove vado. Io dico «Da mia nonna», cioè verso la parte alta del paese. E lui, che era dentro la sua Renò 5 credo bianca, mi disse «Ma perché non ti compri una macchina, non ti trovi un lavoro serio…» e poi aggiunse, per suggellare il tutto «In questo modo che esempio gli dai ai giovani?».

Questi sono aneddoti simpatici e significativi, di un tempo e di un clima, di un luogo magari pic-colo e periferico ma che rispecchia a suo modo un contesto generale, occidentale. Chiaro che quando rinunci a un mezzo privato valorizzi molto di più il mezzo pubblico.

Il 2007 è stato un anno importante per i tra-sporti pubblici ferroviari, o meglio, a settembre 2007 inizia la campagna antievasione di Trenitalia: «Viaggiare sul treno senza biglietto o con biglietto non timbrato, comporta l’applicazione di sanzioni, il personale di Trenitalia sta effettuando controlli a bordo treno e nelle stazioni». Questa voce inizia a uscire dagli altoparlanti delle stazioni e dei treni, ogni venti minuti circa, all’inizio della campagna, che parte esattamente il 17 settembre. Da quel mo-mento in poi, se non sbaglio, il personale viaggian-

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te dei treni acquista l’autorità di Pubblico Ufficiale. Con tutti gli annessi e connessi psicologici e giudi-ziari. Ci sarebbe da fare una ricerca su questi e altri aspetti. Ma qui stiamo narrando storie, fatti, con-flitti, in cammino e in evoluzione, per farli esplo-dere. E smascherare strategie di controllo e repres-sione, in modo diretto, individuale, con spirito di ricerca, ma immediato, senza dare troppo spazio alla ricerca sociologica, dedicandoci il più possibi-le allo scontro umano, al racconto dello scontro tra ufficialità (struttura rigida che può mascherare e nascondere responsabilità) e umanità (che preten-de di ragionare oltre e, se necessario, rompendo la struttura ufficiale).

Questo racconto inizia dall’inizio di quell’anno appunto. Anche se si porta dietro altri ricordi di anni precedenti, anni e anni…

A fine gennaio del 2010 dovevo andare da To-rino a Genova. È il 28. Parto con l’Intercity delle 11.20, da Porta Nuova. Per salire sul treno provo ad aprire la porta di un vagone. Afferro la mani-glia e faccio per aprire. Non ci riesco. Una signora accanto a me sta per entrare nell’altro vagone. La vedo nella sua pelliccia marroncina, i capelli grigio azzurri e due occhi vispi e furbi. Ma la cosa che mi colpisce di più è una copia di Dylan Dog (o Julia?) che tiene sotto il braccio. Mi dice qualcosa per dire che quella porta che non si apre è una delle tan-

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te “stranezze” di Trenitalia. E poi aggiunge, come per citarne un’altra che ha appena visto: «Ho visto due pulitori del treno, uno spruzzava un prodotto e un’altra passava una pezzuola molto delicata-mente», come per dire che non stava pulendo, ma stava facendo finta, o come per dire più metafori-camente, che certe lordure o zozzerie, non si pos-sono pulire facilmente e in poco tempo e con pochi mezzi, come mettere la polvere sotto il tappeto va, per capirsi. Salgo con la signora e ci sediamo nello stesso scompartimento, il primo. Poi sale un’altra ragazza e si siede vicino al finestrino, apre un com-puter portatile e comincia a scrivere. La signora e io siamo seduti nei posti vicino alla porta dello scompartimento, uno di fronte all’altro.

«Signora, volevo dirle che io non ho il biglietto»«E perché?» chiede lei«Eh… non l’ho potuto fare... la macchinetta non

funziona»«Beh puoi provare con un’altra macchinetta più

in l໫Sì, ma sono salito all’ultimo minuto»«Ma veramente» dice la signora, con un accen-

no di sorriso «mancano ancora venti minuti alla partenza»

«Va bene», faccio io.«E come fai se passa il controllore? Ti farà la

multa»

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«Eh vabè, ci parlo, gli spiego com’è andata, tro-veremo un accordo. Una volta, tra Genova e Mila-no, mi mancavano 5 euro per fare il biglietto che costava 10, ho proposto al capotreno, una donna giovane, come me?! di farle un ritratto – tu mi dai 5 euro per il ritratto e io te li ridò per farmi il bigliet-to – il giovane capotreno aveva accettato e aveva-mo fatto l’affare». La signora sorride, certo, non va sempre così, ma sempre si può trovare un accordo. Siamo umani, nonostante le campagne antievasio-ne vogliano imporci di disumanizzarci.

«No no, io pago sempre, pago sempre tutto» mi dice la signora non con un tono severo, ma sereno. «Da quando quel porco di Silvio è sempre più im-punito, mafioso e disonesto, io pago sempre, sono diventata legalitarista».

«Ma signora, lui deve pagare, non lei!» le dico sorridendo.

Intanto la ragazza che sta scrivendo al compu-ter si rivolge alla signora e dice «Sì signora, anche io pago sempre tutto, però il 13 dicembre scorso hanno messo la Freccia Rossa, e hanno tolto l’In-tercity per Salerno delle 9 e io ora sono costretta a prendere questo delle 11.20, in più una volta ho preso la Freccia Rossa e aveva 30 minuti di ritar-do», «Sìì sì, anche io l’ho presa, e aveva 30 minuti di ritardo, magari era la stessa» fa la signora. «E allora signora, qualche volta converrebbe anche

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non pagarlo ’sto biglietto», «Ecco, ora cominciamo a ragionare» dico io contento di essere arrivati al dunque in poco tempo. Dopo un po’ è passato il capotreno e io ero in bagno. È passato una secon-da volta e io stavo provando a memorizzare una canzone con la chitarra in mano per uno spettaco-lo imminente. La signora mi reggeva il testo della poesia di un poeta armeno. Il capotreno è passato e ha chiesto se i biglietti erano stati controllati. Io con la mano che avevo libera dissi e feci cenno di sì. Il capotreno se ne andò e la signora e la ragazza si misero a ridere divertite e complici. Nel prosieguo del viaggio, prima di arrivare a Genova, la signora mi disse che negli anni ’80, quando Lotta Continua e Autonomia Operaia proponevano di non pagare le bollette della sip perché finanziavano gli arma-menti, lei aveva aderito e non aveva pagato la bol-letta. «Allora anche lei è stata illegalista prima di diventare legalitarista» le avevo detto sorridendo, e il viaggio era finito così.

Anni prima in Francia avevo trovato un opu-scolo, Les autoriductions italiennes 1950/70, lo avevo tradotto e messo sul mio blog. Parla delle occu-pazioni delle case e delle autoriduzioni, cioè degli espropri proletari in Italia tra gli anni ’50 e ’70. Adesso in Francia è uscito un libro con quel titolo. C’è tutto un capitolo su quel periodo e quelle lotte

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in Italia. Sarebbe interessante rinverdire la memo-ria leggendolo.

Avevo riflettuto, leggendo e traducendo quelle pagine, sul fatto che oggi quando si dice autoridu-zione si pensa, soprattutto in certi ambienti , tipo del consumo critico/commercio equo e solidale/sviluppo sostenibile, si pensa ad autoridurre i pro-pri consumi per un pianeta più giusto. Mentre fino a trent’anni fa la parola autoriduzione significava andarsi a prendere le cose nei negozi e autoridur-re il prezzo, a piacimento. Si è persa la memoria di quando l’esperienza era una cosa sola: pensiero e azione, emozione e passione. Nel libro L’insurrec-tion qui vients c’è un passaggio che durante il mio primo periodo a Marsiglia, a fine 2008, mi ero ap-puntato e ricopiato: «Chi dice che diventare auto-nomi non debba voler dire imparare a fare a pugni per le strade, occupare case sfitte, rubare nei nego-zi, amarsi follemente».

Se è per questo anche Massimo Troisi, in una celebre scena di un suo film, dice a Robertino: «Robertì, tu non hai un complesso in testa, tu tieni n’orchestra, esci, vai nelle strade, vai a rubare, toc-ca i fimmini!».

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