Ambientiamoci 9 12 2010:Layout 1 · 2014. 11. 28. · Guglielmo di Occam è noto per il suo...

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Racconti di ecologia Giorgio Nebbia

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  • Racconti di ecologia

    Giorgio Nebbia

  • Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “At-tribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indi-rizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libe-

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    EcoalfabetoCollana diretta da Marcello Baraghini e Stefano CarnazziCoordinatore della collana: Edgar Meyer

    © 2011 Giorgio Nebbia

    © 2011 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

    ISBN 978-88-6222-156-6

    www.stampalternativa.it

    email: [email protected]

    foto di copertina: © gjfoto - Fotolia.com

    Ecoalfabeto – i libri di GaiaPer leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti eoriginali. Spiegare in modo accattivante, convincente. Offri-re stimoli per la crescita personale. Trattare i temi della con-sapevolezza, dell’educazione, della tutela della salute, delnuovo rapporto con gli animali e l’ambiente.

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  • Introduzione

    L’ecologia è una disciplina scientifica – o forse unamaniera di vedere il mondo – che si occupa dei rap-porti degli esseri viventi fra loro e col mondo circo-stante.Giorgio Nebbia, pioniere dell’ecologia, scienziato, gior-nalista e lucido divulgatore delle tematiche ambienta-li, propone in questo libro una serie di riflessioni – cheabbiamo voluto chiamare “racconti” perché hanno ilfascino e la scorrevolezza delle narrazioni – tra le piùargute della sua vasta produzione intellettuale e saggi-stica. Attraverso gli articoli, divisi in capitoli tematici,si spazia su (quasi) tutto lo scibile della sostenibilitàambientale: dalle origini del termine “ecologia” ai ri-tratti di alcuni pionieri, dalle considerazioni sull’im-portanza dell’acqua e del sole alla necessità della rici-clo-logia . In questi articoli, in questi “racconti”, in queste “lette-re”, Nebbia (collaboratore di Gaia, l’associazione chein partnership con Stampa Alternativa promuove que-sta collana: altri suoi gustosi scritti si possono trovarenella sua rubrica all’interno del portale www.gaiaita-lia.it) si rivolge agli insegnanti, agli studenti, allaclasse dirigente, ai cittadini attenti ai destini del no-stro piccolo pianeta. Con parole semplici. Ricordandofatti e persone. Avanzando proposte. Unendo analisiscientifica e buonsenso. Scorrendo le pagine di Ambientiamoci si impara ad

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  • amare la robinia e la ginestra, si incontrano GarrettHardin e la sua parabola della mucca, si scoprono leradici (italiane) dell’energia geotermica, si ripercorreper qualche attimo la vicenda di Seveso, si comprendeperché la scelta nucleare è errata. L’autore ci prendegentilmente per mano e ci racconta storie di inquina-menti, di scoperte scientifiche, di uomini del futuro.Ma anche di escrementi (l’oro nelle fogne), della vicen-da dell’intossicazione delle operaie di un’oscura fab-brica americana, dei meccanismi dell’energia osmoti-ca. Insomma, attraverso storie e aneddoti ci parla diacqua, di energia, di merci, di rifiuti, di lavoro e am-biente, di pace. In una parola: di ecologia. Per conosce-re e capire l’ambiente che ci sta attorno. E rispettarlo.Per “ambientarci”.Giorgio Nebbia è uno dei padri nobili del movimentoambientalista italiano e internazionale. È stato – ed èancora – uno dei protagonisti di assoluto rilievo nellostudio della questione ambientale, affrontata nell’otti-ca del chimico, dell’economista e del merceologo. Libe-ro docente di Merceologia, ne è stato professore ordina-rio (ora emerito) presso la Facoltà di Economia e Com-mercio dell’Università di Bari dal 1959 al 1995. Nellastessa facoltà ha insegnato Ecologia dal 1972 al 1994.Si è occupato dei processi di trasformazione delle ri-sorse naturali in merci, del carattere dei sottoprodottie delle scorie dei processi di produzione e di consumoe del loro nuovo destino nei corpi riceventi naturali.Di questa circolazione natura-merci-natura ha elabo-rato una contabilità economico-ecologica. Proprio

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  • l’analisi di tale circolazione consente di esaminare glieffetti delle attività antropiche sugli ecosistemi, di rico-noscere le attività che sono dannose per l’ambiente e diidentificare i mezzi per ricostruire una buona “sinto-nia” fra gli esseri umani e la natura.Oltre ad una quarantennale attività di docente (assie-me all’analisi del ciclo delle merci, Nebbia ha orienta-to i suoi studi sull’energia solare, sulla dissalazionedelle acque e sulle questioni relative alla risorsa ac-qua), è stato ed è attivo nei principali movimenti didifesa dell’ambiente – soprattutto a fianco delle popo-lazioni che lottavano contro le centrali nucleari, le fab-briche inquinanti, la speculazione edilizia e la caccia– ed è stato deputato (dal 1983 al 1987) e senatore (dal1987 al 1992) della Sinistra indipendente. Noto a livello internazionale anche per la partecipa-zione alle prime conferenze mondiali sull’ambiente elo sviluppo (Stoccolma 1972, Vancouver 1976), i mate-riali da lui prodotti sono di dimensioni imponenti:una parte (specie riguardante l’attività parlamentare)è stata anni addietro depositata presso l’Archivio diStato di Roma, mentre un’altra enorme parte (riguar-dante gli aspetti tecnici e militanti dell’attività am-bientalista) è ordinata con cura presso la FondazioneMicheletti di Brescia.Le riflessioni di Ambientiamoci rappresentano un po’ il“succo” della sua imponente mole di lavoro scientificoe accademico, scritti però con la freschezza e la chia-rezza che contraddistinguono la sua opera. Ogni pe-riodo – pur nella assoluta facilità di lettura – è denso

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  • di spunti e va letto e riletto costantemente. Gustatevi laprosa limpida di Nebbia, è quanto di più stimolante cisia nel panorama ambientalista.In Ambientiamoci si ritrova tutta la verve ma anche laprofondità del pensiero di Nebbia, la densità delle ri-flessioni eppure la leggerezza di lettura, il rigorescientifico eppure la capacità di raccontare e appas-sionare. Spero che ai lettori questo libro faccia lo stes-so effetto che fa a me: la sensazione di aver ascoltato leparole di un maestro saggio e paziente.

    Edgar Meyerpresidente Gaia Animali & Ambiente

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  • Occam e l’elogio della semplicita’à

    Un bravo studente di liceo (ce ne sono di bravi, anche mol-to bravi, e ci sono dei bravi insegnanti) mi ha scritto chie-dendo che cosa c’entra con l’ambiente il frate francescanoinglese Guglielmo Occam che avevo citato in un articolo.Secondo me c’entra e molto, perché molti problemi am-bientali possono essere risolti proprio adottando scelte, oazioni, o processi “semplici” e della virtù della semplicità siè fatto propugnatore proprio questo Occam.Guglielmo di Occam era nato a Ockham, nel Surrey, in In-ghilterra, alla fine del XIII secolo. Aveva studiato al MertonCollege di Oxford, che a quel tempo era un importantecentro intellettuale, poi è diventato francescano e ha stu-diato e insegnato a Parigi e Oxford fino al 1323. La sua vi-ta successiva è stata in gran parte occupata dalla contro-versia col papa Giovanni XXII, e i suoi successori, su temicome il concetto di povertà evangelica e il quesito se l’im-peratore potesse deporre il papa. Nel 1324, Guglielmo fu

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    Pionieri

  • convocato come imputato ad Avignone, dove il papa eraesiliato; riuscì a scappare e a rifugiarsi presso Ludovico IVil Bavaro a Pisa e Roma e finalmente a Monaco. Morto cir-ca nel 1349, probabilmente scomunicato perché eretico, èstato sepolto nella chiesa francescana di Monaco, distruttaall’inizio dell’Ottocento.Guglielmo di Occam è noto per il suo principio di parsimo-nia, o di semplicità, spesso chiamato “rasoio di Occam”,che afferma l’inutilità di fare con più, quello che si può fa-re con meno; in latino: “quia frustra fit per plura quod po-test fieri per pauciora”. Risparmio al lettore la ricostruzio-ne di dove e quando è stato scritto questo passaggio, masta di fatto che il principio di Occam ha influenzato Luteroe molti filosofi successivi, da Locke a Bertrand Russell. Eancora oggi, in un periodo di scetticismo verso la saggezzafrancescana, su internet si trova addirittura un sito dedica-to ai seguaci del pensiero di parsimonia e semplicità:www.ilrasoiodioccam.it.Nella ricerca scientifica, il rasoio di Occam invita a tagliarevia, con un rasoio appunto, le teorie e gli esperimenti ec-cessivi e inutili nella ricerca della verità. In ecologia invitaa ricercare i fenomeni che influenzano la natura e l’am-biente semplificando le teorie, le operazioni e le analisi.Prendiamo il caso della raccolta dei rifiuti solidi: una buo-na soluzione consisterebbe nel cercare di rendere minimala richiesta di discariche e di inceneritori e di recuperaretutto quello che è possibile dai rifiuti stessi. Non sono ub-bie, anzi questo principio è imposto dalla legge italiana edeuropea; per raggiungere questo obiettivo, come è noto,occorre convincere le persone a riconoscere che una parte

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  • delle componenti dei rifiuti può essere trasformata in nuo-ve merci a condizione che le varie frazioni siano separatecorrettamente: tutto il vetro a parte, tutta la plastica a par-te, tutta la carta e i cartoni a parte.L’operazione è un po’ scomoda e fastidiosa e richiede unpo’ di impegno personale. Più comodo è fare una finta rac-colta differenziata, come purtroppo spesso avviene.Prendiamo il caso degli imballaggi: si trovano in molte cit-tà dei contenitori che invitano a mettere insieme bottigliedi vetro e plastica. Il principio di semplicità richiederebbeai cittadini di mettere da una parte le bottiglie di vetro edall’altra le bottiglie di plastica, in modo da consentire il ri-ciclo di ciascuna delle due materie separate con processisemplici ed efficienti e ben noti. Quando vetro e plasticasono miscelati, occorre un complicato processo di separa-zione e la frazione del vetro così recuperato è contaminatada parti di plastica che rendono meno efficiente il recupe-ro e generano altre scorie inquinanti. Lo stesso vale per laplastica che è più difficile da recuperare e trasformare innuovi manufatti di plastica riciclata se è contaminata datracce di vetro o metalli.Per il recupero della carta e dei cartoni accade la stessa co-sa. Guardate le bocche spalancate dei cassonetti destinatia raccogliere la carta: anche le persone volonterose metto-no in tali cassonetti i contenitori di tetrapak, che non sonoriciclabili insieme alla carta perché contengono plastica ecere, quando non mettono addirittura i sacchetti delle im-mondizie tali e quali.Potrei citare altri casi: il principio di semplicità suggerireb-be di costruire strade ed edifici nelle zone non franose, per

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  • evitare i danni e i costi delle frane e delle alluvioni, di pre-disporre processi con un minor consumo d’acqua, menoenergia, eccetera; in un mondo dominato dal dogma che“di più è meglio” si capisce che non abbia molto ascolto laparola di frate Guglielmo che suggerisce che “di meno èmeglio”, nel nome del minore consumo di risorse naturali,del minore inquinamento dell’aria e delle acque.

    Marie Curie e la scoperta del polonio

    Uno dei più importanti capitoli dell’ecologia ha a che farecon gli effetti della radioattività. Una pagina della storiadella fisica e della natura cominciata in un capannone coltetto dalla copertura sconnessa che lasciava passare lapioggia. In quel laboratorio improvvisato di Parigi c’era unmucchio di terra scura sul pavimento, un bancone e unagiovane donna, laureata in fisica e in matematica che, alcaldo e al freddo, passava le sue giornate a trattare quellaterra scura a venti chili per volta, con acidi, e a filtrare e aridisciogliere i residui con altri acidi ancora. Accanto a leiil marito, un giovane professore di fisica, controllava ognifrazione di materiale separato con un apparecchio (di suainvenzione) che misurava la presenza di “raggi” capaci diprovocare una scarica elettrica fra due elettrodi. Raggi si-mili a quelli emessi dall’uranio e dal torio.La giovane fisica di origine polacca, Marie Sklodowska(1867-1934) sposata Curie, aveva osservato che un mine-rale di uranio, la pechblenda, emanava i misteriosi “raggidell’uranio” in quantità molto maggiore di quanto potesse

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  • essere giustificato dal suo contenuto di uranio: era come senel minerale fosse presente un altro elemento molto più at-tivo dell’uranio stesso.Maria e il marito Pierre Curie (1859-1906), dopo un grannumero di separazioni, nel giugno del 1898 poterono rife-rire di aver identificato un nuovo elemento chimico moltoattivo, con proprietà chimiche simili a quelle del bismuto.“Suggeriamo”, scrissero nella loro pubblicazione, “che ilnuovo elemento sia chiamato ‘polonio’ dal nome del Paesedi origine di uno di noi”. Dopo altri sei mesi di lavoro, po-terono descrivere l’esistenza di un altro elemento ancora,che emanava i raggi dell’uranio con una intensità un milio-ne di volte superiore a quella dell’uranio, con comporta-mento chimico simile a quello del bario, e chiamarono lanuova sostanza “radio” e il fenomeno “radioattività”.Per accertare la natura delle nuove sostanze, i Curie riusci-rono a farsi regalare, e in parte comprarono di tasca pro-pria, alcune tonnellate di scorie residue delle miniere dipechblenda di Joachimsthal in Boemia (oggi Jachymov,nella Repubblica Ceca). Finalmente, nel 1903 Marie Curieriuscì a isolare cento milligrammi di cloruro di radio puro,e tale ricerca fu l’argomento della sua tesi di laurea in chi-mica.Ben presto fu scoperto che il radio era prezioso per la cu-ra dei tumori; una troppo lunga esposizione, però, provo-cava ferite e tumori. L’arma che uccide e risana – era iltitolo di un romanzo popolare del tempo – destò un’enor-me impressione nell’opinione pubblica in tutto il mondo.I Curie si rifiutarono di brevettare il procedimento di pre-parazione del radio che fu ben presto fabbricato su scala

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  • commerciale. Il governo austriaco, di cui allora Joachim-sthal faceva parte, vietò le esportazioni della pechblendache si trovava nel suo territorio e si mise a estrarre il radiosul posto. Quasi contemporaneamente, il radio fu prodottoin Francia, negli Stati Uniti, in Svezia. Ma, al di là delle ap-plicazioni pratiche, le scoperte dei coniugi Curie aprironole porte alla comprensione della natura dell’atomo e delsuo nucleo, alla radioattività artificiale, alla fissione e allafusione nucleare, insomma al mondo moderno.Altrettanto romanzesca quanto la storia del radio è la vitaentusiasmante e drammatica di Marie Curie. In pochi annidiventò nota in Francia e in tutto il mondo; tuttavia, nono-stante la celebrità, i Curie non solo non diventarono ricchi,ma dovettero fare i conti con ristrettezze economiche alle-viate solo in parte dall’assegnazione, nel 1903, del premioNobel per la fisica. Nello stesso anno 1903, Pierre Curie fuproposto per la Legion d’Onore, la massima onorificenzafrancese, ma replicò che gli occorrevano non medaglie,quanto piuttosto un buon laboratorio in cui continuare lesue ricerche. Pierre Curie morì a Parigi nel 1906, investitoda un carro a cavalli, e Marie rimase vedova a 38 anni condue bambine: Irene (1897-1956), che avrebbe ottenuto ilpremio Nobel per la fisica nel 1935 col marito Frederic Jo-liot (1900-1958) per la scoperta della radioattività artificia-le, ed Eva (1904-2007), a cui si deve una bella biografia del-la madre, pubblicata nel 1937 e tradotta anche in italiano.Nonostante l’impegno familiare e l’insegnamento, MarieCurie continuò le ricerche sulla separazione, purificazionee sulle proprietà del radio, che le valsero nel 1911 un se-condo premio Nobel, questa volta per la chimica. Il succes-

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  • so, che fino ad allora in Francia mai una donna, stranieraper di più, aveva raggiunto, destò, come spesso capita, ge-losie e invidie e la Curie fu al centro di una campagna de-nigratoria: dapprima fu accusata di essere ebrea, proprionegli anni in cui la Francia era travolta da un’ondata di an-tisemitismo culminata nel caso Dreyfus, poi di esserel’amante del collega Paul Langevin (1872-1946), un fisicoanche lui. Queste accuse le preclusero l’elezione, che sa-rebbe stata ben meritata, all’Accademia di Francia.Eppure, Marie Curie rimase fedele al suo impegno di stu-diosa, di madre e al suo altruismo: durante la Prima Guer-ra Mondiale (1914-1919) organizzò delle unità mobili dota-te di apparecchi per raggi X che permettevano, nelle vici-nanze del fronte, di identificare rapidamente e con sicurez-za le ferite dei soldati. Marie stessa, con la figlia Irene di-ciottenne, guidava uno dei laboratori mobili.Nel 1918, alla fine della guerra, Marie Curie poté finalmen-te entrare nel nuovo Istituto del radio di Parigi, tanto desi-derato, dove aveva a disposizione laboratori adeguati, an-che se l’Istituto era dotato soltanto di una piccolissimaquantità, un solo grammo, del radio necessario per le suericerche, quando la produzione mondiale del prezioso e co-stoso elemento, da lei scoperto, ammontava ormai a varichilogrammi.Una giornalista americana organizzò allora, nel 1926, unviaggio che portò Marie Curie, già malata, in numerose cittàe università americane dove tenne faticosamente varie con-ferenze e fu accolta entusiasticamente come “la donna delradio”. Come premio per tanta fatica riuscì a raccogliere ifondi per acquistare due grammi di radio per il suo Istituto.

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  • La leucemia provocata dal contatto, per trent’anni, contanto materiale radioattivo uccise Marie Curie nel 1934.Per iniziativa del presidente francese Mitterrand, nel 1995le sue ceneri, insieme a quelle del marito Pierre, furonoportate nel Pantheon, il tempio della gloria della Francia.Credo che ogni fisico, ogni chimico, ogni studioso, ognidonna, direi, dovrebbero essere orgogliosi di avere qualco-sa in comune con una persona come Marie Curie. Vorreiche la sua passione e la sua storia umana, più che la spe-ranza di cattedre, stipendi, onori e interviste televisive,spingessero un numero crescente di giovani studiosi aesplorare il mondo della natura con lo stesso disinteresse,premessa essenziale per le scoperte capaci di alleviare ildolore dell’umanità.

    Vladimir Ivanovich Vernadskij: la biosfera e la noosfera

    Era il gennaio 1945, un inverno terribile di bombardamen-ti, di lotte sanguinose per sconfiggere definitivamente i te-deschi, la stagione della drammatica scoperta dei campi disterminio nazisti. Proprio in mezzo a tanto sangue, la rivistaamericana American Scientist pubblicava, come messag-gio di speranza, un articolo intitolato: “La biosfera e la noo-sfera”, scritto dal russo Vladimir Ivanovich Vernadskij(1863-1945). L’articolo era preceduto da una presentazionedel grande ecologo americano George Evelyn Hutchinson(1903-1991) che annunciava, con dolore, che pochi giorniprima l’autore era morto, ottantaduenne, nell’Unione Sovie-

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  • tica. Il dolore della comunità scientifica era ben giustificatoperché Vernadskij era stato un personaggio straordinario esorprende che, con tanti ecologi ed ecologisti in circolazio-ne, si parli così poco di lui in Italia.Vernadskij, nato nel 1863, aveva studiato nella Russia zari-sta partecipando ai movimenti giovanili di protesta control’assolutismo degli Zar. Dopo un periodo di studi in Germa-nia, Vernadskij era diventato professore di geochimica nel1890, poi membro dell’Accademia delle Scienze e presi-dente di una speciale commissione per lo studio delle ri-sorse naturali, incaricata di identificare i giacimenti di mi-nerali di importanza economica sparsi nello sterminato im-pero russo. Vernadskij aveva studiato, in particolare, i mi-nerali radioattivi che erano stati scoperti e descritti pochianni prima dai coniugi Curie.Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, Vernadskij avevacontinuato i suoi studi e l’insegnamento. Non era iscritto alPartito comunista, ma fu rispettato e apprezzato dal gover-no bolscevico e da Lenin (1870-1924) e poi da Stalin(1878-1953) che lo incaricarono di continuare a dirigere laCommissione per le risorse naturali e anzi di intensificarnel’attività. In un periodo della storia russa che molti libri de-scrivono come oscuro, violento, intollerante, questo non-comunista fu nominato presidente della prestigiosa Acca-demia delle Scienze dell’Urss, girava il mondo e passò alcu-ni anni, dal 1924 al 1926, a Parigi presso l’Istituto Pasteur.A Parigi insegnò all’università, mettendo a punto la nuovarivoluzionaria visione biogeochimica della grande unità ditutto il mondo biologico e inanimato che sta alla base del-la moderna ecologia. Nel periodo parigino apparvero, pri-

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  • ma in francese e poi in russo, due opere fondamentali diVernadskij: La Geochimica e La Biosfera.Nella Parigi di quegli anni Venti – l’“età dell’oro dell’ecolo-gia”, come l’ha chiamata il biologo italiano Franco Scudo(1935-1998) – vivevano e insegnavano il grande matemati-co italiano Vito Volterra (1860-1940), che descrisse le leggifondamentali della coesistenza delle popolazioni animali, eil russo Vladimir Alexandrovitch Kostitzin (1883-1963),emigrato dall’Unione Sovietica dopo un passato di rivoluzio-nario, a cui si devono altre opere fondamentali di biologiamatematica.Le lezioni di Vernadskij erano seguite dal gesuita PierreTeilhard de Chardin (1881-1955), che conduceva ricerchedi paleontologia in Cina e a cui si deve il concetto di “noo-sfera”, la forma in cui la storia naturale dell’uomo si com-pleterà come trionfo della mente.Tornato nell’Urss, Vernadskij si batté con successo perchél’Accademia delle Scienze sovietica restasse indipendentedall’influenza politica del governo, e continuò le sue ricer-che sui minerali strategici e radioattivi che avrebbero assi-curato all’Unione Sovietica la produzione industriale e lavittoria contro il nazismo.Ma, soprattutto, Vernadskij va ricordato per aver elaborato,in forma compiuta la grande visione unitaria della vita sulpianeta. Una vita che si basa sulla circolazione degli ele-menti dall’atmosfera alle piante, agli animali, al suolo, e poidi nuovo all’atmosfera e alle acque; di questi cicli vitali fan-no, naturalmente, parte gli esseri umani.Oggi sono stati inventati nuovi termini: si parla di visione“olistica”, unitaria, appunto, dell’ecologia, ma il concetto di

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  • unità bio-geochimica della vita sul pianeta nasce propriocon gli studiosi sovietici. Il loro contributo è poco noto for-se perché molte delle loro opere sono state scritte in rus-so, ma c’è stata anche una specie di pigrizia, da parte ditanti, nei confronti della ricerca delle radici culturali del-l’ecologia. A tale pigrizia si deve la limitata circolazione inItalia delle opere di Vernadskij, anche di quelle scritte infrancese e pubblicate in Francia. La Geochimica non èmai stato tradotto in italiano, pur essendo un libro ricco diinformazioni e di intuizioni.Vernadskij, per esempio, parla chiaramente delle alterazio-ni del clima dovute alla modificazione della composizionechimica dell’atmosfera. Nel 1926 era già quindi chiaro ilconcetto di quello che oggi chiamiamo “effetto serra”. Ver-nadskij parla del ruolo dell’ozono stratosferico come filtrodelle radiazioni ultraviolette solari biologicamente dannosee delle conseguenze di quello che oggi chiamiamo il “bucodell’ozono”. Negli studi biogeochimici di Vernadskij eranodescritti chiaramente i danni dell’erosione del suolo e i pe-ricoli di perdita di fertilità dei terreni a causa delle attivitàantropiche irrazionali.L’altro bel libro di Vernadskij, La Biosfera, ha avuto solodi recente una traduzione parziale in inglese, da cui è sta-ta realizzata una traduzione, parziale anch’essa, in italia-no, pubblicata dall’editore red di Como con una buona in-troduzione di Jacques Grinevald. Alcuni altri scritti diVernadskij sulla storia e filosofia della scienza (con unabella introduzione di Silvano Tagliagambe) sono stati tra-dotti e pubblicati per la prima volta in italiano in un librodistribuito insieme al numero di agosto 1994 della rivista

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  • mensile Teknos, pubblicata a Roma. La Biosfera e laNoosfera, a cura di Daniele Fais, è stato pubblicato a Pa-lermo da Sellerio nel 1999 (traduzione dal francese de LaBiosphére, Paris, Fuderot, 1997).Ma forse l’opera più interessante, quasi il testamentoscientifico e spirituale, è il breve saggio del 1945 pubblica-to in America e anche questo non tradotto in italiano, sul-la biosfera e la noosfera. Vernadskij usa il termine “noosfe-ra” con un significato diverso da quello, trascendente, usa-to da Teilhard de Chardin. Per Vernadskij la noosfera è l’in-sieme delle modificazioni operate sulla biosfera dalle atti-vità derivate dalla mente umana.Vernadskij spiega bene che tali modificazioni possonoessere negative per i grandi cicli biogeochimici da cuidipende la sopravvivenza della stessa specie umana, manota che tali modificazioni – se dominate dalla menteumana, anziché dall’avidità di gruppi o singoli – possonoanche essere positive, possono contribuire al progressoumano attraverso l’uso razionale e illuminato delle ric-chezze della natura.Un avvertimento e un messaggio di speranza di grandevalore che vengono da uno scienziato passato, a testa al-ta e rispettato, attraverso lo zarismo e l’epoca sovietica,giustamente onorato in Russia, tanto che a Mosca porta-no il suo nome l’Istituto di Geochimica dell’Accademiadelle Scienze, un grande viale, una stazione della metro-politana. In onore di Vernadskij sono stati emessi fran-cobolli e innumerevoli libri ne ricordano la figura el’opera.

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  • Cecil Pigou e le radici dell’economiaambientale

    Se si cercano le radici dell’economia ambientale, della di-sciplina che cerca di capire come è possibile compensare idanni economici arrecati dalla violenza all’ambiente, si de-ve andare a cercare Arthur Cecil Pigou (1877-1959), eco-nomista inglese, allievo, all’Università di Cambridge, di Al-fred Marshall (1842-1924), che nel 1908 successe a que-st’ultimo sulla cattedra di Economia. Pigou scrisse nel 1912 la sua principale opera, Ricchezzae benessere, di cui pubblicò varie riedizioni col titolo Eco-nomia del benessere, a partire dal 1920. Fra le altre sueopere si può ricordare L’economia dello stato staziona-rio, pubblicata nel 1935 in piena crisi economica, in untempo che assomiglia sotto molti aspetti a quello odierno.Fu uno dei primi sostenitori dell’imposta sul reddito e del-l’intervento dello Stato per correggere i “fallimenti delmercato”, fonti di diseconomie esterne, di danni e costi peralcuni soggetti economici in seguito all’operare, anche selecito, di altri soggetti economici.Le anticipazioni di Pigou non solo trovano conferma neglieventi di questo inizio del XXI secolo, ma possono farcicomprendere meglio quello che ci aspetta. Il contributo diPigou alla “economia del benessere” si può così riassume-re: nella vita economica le azioni di ogni soggetto economi-co non sono isolate, ma influenzano, nel bene e nel male,altri soggetti economici circostanti, “esterni”, e da questistessi sono influenzati. Se una fabbrica sta vicina ad altre(si pensi ai poli industriali), ne trae vantaggio perché tutte

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  • mettono in comune servizi, strade, aeroporti e ciascunatrae beneficio da questa integrazione; le economie integra-te però possono anche essere fragili proprio perché dipen-dono l’una dalle altre. D’altra parte, ogni attività di un sog-getto economico può provocare “diseconomie esterne”,cioè danni e costi ai soggetti economici vicini.Immaginiamo un soggetto economico, un vignaiolo, cheproduce uva, un bene utile, e che, vendendola, guadagnadiciamo 100 lire all’anno; un giorno accanto alla vigna si in-sedia una fabbrica di scarpe, in modo del tutto legittimo,anzi lodevole perché produce una merce, le scarpe, di cuic’è bisogno e fa lavorare gli operai e assicura benessere al-le loro famiglie. Però dal camino della fabbrica escono deifumi che ricadono sulla vigna vicina e danneggiano l’uva alpunto che il vignaiolo, dopo l’arrivo della fabbrica, guada-gna soltanto 50 lire all’anno. Il vignaiolo va dal fabbricantedi scarpe e gli chiede un risarcimento per il danno subito.A questo punto si possono avere vari eventi. Il fabbricantetira fuori dalle sue tasche le 50 lire perdute dal vignaiolo eil vignaiolo ritorna a guadagnare 100 lire all’anno ed è con-tento, così il fabbricante di scarpe può continuare a inqui-nare (e la natura non è contenta), ma guadagna di meno edeve recuperare i soldi dati al vignaiolo; può farlo aumen-tando il prezzo delle scarpe, che vengono a costare di piùe si vendono di meno, e il fabbricante deve ridurre la pro-duzione licenziando gli operai, con danno alle loro famiglie,oppure il fabbricante può diminuire il salario agli operai,sempre con danno alle loro famiglie.Oppure il fabbricante di scarpe, invece di dare 50 lire al vi-gnaiolo, con la stessa cifra compra un filtro da mettere sul

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  • camino in modo da non inquinare più, e sono così conten-ti la natura, il venditore di filtri e il vignaiolo che, cessatol’inquinamento, ricomincia a produrre l’uva che gli assicu-ra un guadagno di 100 lire all’anno. Ma il fabbricante discarpe deve recuperare le 50 lire spese per il filtro e tor-niamo al caso precedente. A questo punto fabbricante eoperai vanno dallo “Stato”, da un’autorità superiore a tutti,e chiedono che sia ristabilita una situazione di giustizia:che il vignaiolo e il fabbricante siano compensati per il lo-ro lavoro, gli operai abbiano lo stesso salario di prima, lescarpe costino come prima e possano essere più facilmen-te vendute. A questo punto lo “Stato” può dare 50 lire alfabbricante di scarpe e sono contenti tutti: vignaiolo, fab-bricante di scarpe, fabbricante di filtri, operai, acquirentidelle scarpe ed è contenta anche la natura non più inqui-nata. Ma lo “Stato” deve recuperare le 50 lire aumentandole tasse al vignaiolo, al fabbricante di scarpe, al venditoredi filtri, agli operai e agli acquirenti di scarpe, e alla fine so-no scontenti tutti.A meno che, come suggerisce Pigou, le tasse non siano ap-plicate sulla base del reddito e pesino di meno sui redditiminori. La parabola del vignaiolo riflette eventi davanti atutti noi ogni giorno. I fabbricanti di una merce (diciamo dioggetti di plastica) hanno un legittimo guadagno e assicu-rano un salario ai loro operai, ma purtroppo l’aumento del-la plastica in circolazione fa aumentare la massa dei rifiutiinquinanti e danneggia la salute degli abitanti di un Paese.Si può applicare un’imposta sugli oggetti di plastica e conil ricavato pagare gli ospedali in cui ricoverare gli ammala-ti, ma in questo caso gli acquirenti comprano di meno la

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  • merce inquinante; diminuiscono i rifiuti e gli ammalati, mai fabbricanti sono costretti a fabbricare meno plastica e li-cenziano gli operai. Lo Stato, per assicurare un reddito aidisoccupati (la cassa integrazione), deve aumentare le tas-se o diminuire le pensioni e le spese per gli ospedali.Un altro caso: il consumo di carbone, petrolio, gas natura-le ed elettricità fa aumentare l’inquinamento atmosfericodovuto all’anidride carbonica che provoca mutamenti cli-matici e costi; per diminuire queste diseconomie esternegli Stati fanno pagare qualche soldo a chi usa combustibilied elettricità (la cosiddetta “carbon tax”) per indurlo aconsumarne di meno; i minori danni al clima comportanoperò minori guadagni per chi vende energia e merci dipen-denti dall’energia e per i lavoratori dei relativi settori.Che fare? I governanti si arrovellano su questi probleminelle innumerevoli conferenze sul clima: forse farebberobene a rileggere Pigou per far sì che le diseconomie ester-ne, sociali e ambientali che ci sono sempre, non ricadanosulle classi meno abbienti e che anche i ricchi paghino.

    Girolamo Azzi e la prima cattedradi ecologia

    Ormai le parole “ecologia” ed “ecologico” sono entrate nellinguaggio comune per indicare le più svariate cose: la ben-zina ecologica, le patate ecologiche, la casa ecologica, ec-cetera, al punto che sono stati dimenticati l’origine vera eil significato di “ecologia”.I lettori più informati pensano che l’ecologia sia nata ai

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  • tempi delle battaglie antinucleari o ai tempi dell’incidentedi Seveso; quelli ancora più informati ricordano le lotte“ecologiche” contro la contaminazione radioattiva dovutaalle esplosioni nucleari o contro i pesticidi e le denuncedella “Primavera silenziosa” fatte da Rachel Carson (1907-1964) nel 1962; i più informati di tutti, infine, sanno che laparola “ecologia” è stata usata per la prima volta dal biolo-go tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866. Questoammiratore e divulgatore di Charles Darwin (1809-1882)spiegò che occorreva studiare le interazioni degli esseri vi-venti fra di loro e con l’ambiente inorganico circostante, irelativi scambi di materia e di energia e indicò l’ecologiacome l’“economia della natura”.Pochi però ricordano che una cattedra universitaria di eco-logia è stata creata in Italia già nel 1922 a Perugia e affida-ta a Girolamo Azzi (1885-1969), studioso dimenticato, manon per questo meno interessante. Se non fosse stato periniziativa dell’Associazione Turistica Pro Loco di Imola, lacittà in cui Azzi è nato nel 1885, non avremmo neanchel’unica biografia disponibile, Girolamo Azzi, il fondatoredell’ecologia agraria, stampata in appena 500 copie dallacasa editrice La Mandragora (Via Selice 92, 40026 Imola,www.editricelamandragora.it).Appena laureato in Scienze naturali, Azzi – grazie alla suabuona conoscenza di ben sette lingue straniere, fra cuiportoghese, svedese e russo – fu assunto dall’Istituto Inter-nazionale di Agricoltura di Roma, in un certo senso il pre-cursore di quella che sarebbe diventata l’odierna Fao, l’or-ganizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazio-ni Unite, con sede ancora a Roma. Ad Azzi fu affidata la re-

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  • dazione del Bollettino dell’Istituto e con tale incarico co-nobbe studiosi russi e tedeschi che conducevano ricerchesui rapporti fra agricoltura e clima. Del resto, in questocampo già in Italia esisteva l’Ufficio Centrale di Meteorolo-gia e Geodinamica che dal 1876 pubblicava, ogni dieci gior-ni, la Rivista Meteorico-agraria, sospesa nel 1920.Nello stesso 1920 una commissione dell’Accademia deiLincei riconosceva l’importanza di una disciplina autono-ma, l’ecologia agraria, e auspicava l’istituzione di una cat-tedra universitaria di questa disciplina che fu affidata nel1924 proprio al professor Azzi. In tale veste, Azzi ebbe con-tinui rapporti internazionali e nel 1934 fu invitato nel-l’Unione Sovietica dal celebre professor Nikalaj Vavilov(1887-1943) che conduceva le stesse ricerche nel suo Pae-se. Non bisogna dimenticare che erano gli anni della gran-de crisi, della necessità di aumentare la produzione agrico-la, della “battaglia del grano” fascista in Italia.Per i suoi rapporti scientifici con l’Unione Sovietica, Azzi fuguardato con sospetto dal regime fascista; eppure il suo te-sto Ecologia agraria, pubblicato in Italia nel 1928, con va-rie ristampe, fu tradotto in russo, in portoghese per il Bra-sile, in bulgaro, e poi in spagnolo, in inglese, in francese.Nel 1929, per conto dall’Istituto Internazionale di Agricol-tura, Azzi scrisse una monumentale opera, di 1165 pagine,in francese sui rapporti fra clima e produzione di frumen-to. Per questi suoi contributi, Azzi fu invitato in tutto ilmondo per conferenze su quella che sembrava la nuova viaper comprendere come le piante reagiscono ai mutamenti“ecologici” dell’ambiente circostante.Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), Az-

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  • zi continuò a essere invitato a tenere lezioni e conferenzein molti Paesi stranieri (dove è ancora conosciuto e ricor-dato molto più di quanto non lo sia in Italia), sostenendol’importanza dell’ecologia agraria: una specie di uomo di“pubbliche relazioni” per la sua disciplina, come lo ha defi-nito il professor Alessandro Baltadori, che ha scritto l’affet-tuosa presentazione del libro sul profesor Azzi, prima ri-cordato, e che è stato, dopo il 1955, il suo successore sullacattedra di Perugia.Girolamo Azzi morì nel 1969 e i pur pochi scritti, riprodot-ti nel volume già citato, illustrano bene alcuni aspetti dellasua attività e dei suoi interessi che si estendevano dall’eco-logia all’agricoltura, alla geografia, all’economia. Ricordo diavere conosciuto, quando ero un giovane assistente a Bo-logna, il professor Azzi, già anziano, quando ben pochi sa-pevano che cosa fosse questa ecologia, la strana materiache insegnava. Hanno fatto bene i suoi amici a ricordarlo,sia pure in un piccolo “libro sommerso”, di quelli che sfug-gono alla grancassa pubblicitaria, e mi auguro che qualchelettore sia tentato di procurarsene una copia e magari diamare un poco l’ecologia, quella vera.

    Georgescu-Roegen, padre dell’economiaambientale

    Se qualcuno mi chiedesse quale testo leggere per impara-re qualcosa di economia dell’ambiente, un insegnamentoche da alcuni anni a questa parte si sta diffondendo fra lediscipline economiche anche in Italia, suggerirei un libro il

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  • cui titolo in italiano potrebbe essere “La legge dell’entropiae il processo economico”, anche se il libro in italiano non èmai stato tradotto. L’autore è un professore di origine ro-mena, Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1990); in italianosono comunque disponibili vari altri suoi libri che spazianodall’economia agraria, al comportamento dei consumatori,a varie rielaborazioni delle idee contenute nel libro fonda-mentale prima ricordato. Una raccolta dei saggi più “am-bientalisti” fu pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1998 coltitolo Energia e miti economici, con una breve biografia.Georgescu-Roegen ha avuto una lunga vita avventurosa;nato a Costanza, in Romania, vinse giovanissimo una catte-dra di statistica nell’Università di Bucarest e, come brillan-te professore, visitò varie università in Inghilterra e negliStati Uniti nei turbolenti anni Trenta del secolo scorso. Nel1937 rifiutò una cattedra negli Stati Uniti e ritornò in Ro-mania con l’idea di essere utile al suo Paese. Oltre all’inse-gnamento, diresse il Ministero del Commercio estero in unperiodo in cui la Romania era corteggiata dai sovietici e dainazisti per le sue ricchezze petrolifere. Nell’agosto 1944Bucarest fu occupata dall’esercito sovietico e nel 1944-45Georgescu-Roegen fu segretario generale della commissio-ne romena per l’armistizio; nel 1948 si trasferì negli StatiUniti e ottenne una cattedra di economia nell’UniversitàVanderbilt di Nashville, nel Tennessee, una sede abbastan-za decentrata rispetto al circuito delle grandi facoltà eco-nomiche americane.Georgescu-Roegen è stato un economista dissidente, etero-dosso; non lo sentirete mai nominare dagli economisti seriufficiali, perché è andato a esplorare dei territori di confine

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  • fra l’economia, la fisica e l’ecologia e perché da tale esplora-zione ha tratto la sua critica, appunto, ai “miti” dell’econo-mia tradizionale. Nella seconda metà dell’Ottocento, e nel-la prima metà del Novecento, vari studiosi hanno messo inevidenza alcune analogie fra fenomeni biologici e fisici e fe-nomeni economici. L’economia è la scienza di come soddi-sfare i bisogni umani di cibo e di merci, in un mondo, in unasocietà, in cui sono limitati lo spazio, le risorse energetichee minerarie, la fertilità dei campi, limiti descritti esattamen-te proprio dalla biologia e dalla fisica. Come è possibile allo-ra far crescere continuamente il benessere, il numero e lamassa dei beni materiali, come richiede l’economia, quandoesistono degli oggettivi limiti fisici e biologici nelle risorsenaturali? Gli economisti seri rispondono che è possibile per-ché le risorse dell’ingegno, della scienza, della tecnica, sonoillimitate: basta investire denaro ed energia per dilatare ibeni che la Terra può offrire.Georgescu-Roegen non è d’accordo e ha elaborato una suateoria, che ha chiamato di “bioeconomia”, mettendo in evi-denza i vincoli imposti all’economia dalle ineluttabili leggifisiche della termodinamica, quelle che descrivono la con-tabilità, la ragioneria, delle trasformazioni dell’energia. Èinfatti l’energia che tiene in moto tutti i fenomeni economi-ci e produttivi, è il flusso dell’energia che sta alla base delflusso di denaro. L’energia, quella del Sole e quella richie-sta per fabbricare i concimi e per muovere i trattori, forni-sce i raccolti agricoli; l’energia occorre per trasformare ipomodori nella conserva che arriva nei negozi; l’energia oc-corre per trasformare i minerali in acciaio e per far muove-re le automobili e i treni e per far funzionare i computer.

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  • Possono cambiare i prezzi del petrolio o dell’elettricità, mala quantità di energia necessaria per produrre una tonnel-lata di grano o di plastica o per tenere accesa una lampadi-na, pur variabile a seconda della tecnologia dei processi odei prodotti, non può scendere al di sotto di una soglia, fis-sata dalla fisica. E, una volta usata per un processo, l’ener-gia non si recupera più, non torna più disponibile per rifa-re lo stesso processo; se ne perde sempre un poco. Si diceche ogni processo trasforma l’energia a bassa entropia inenergia a più alta entropia, e l’economia deve fare i conticon questa continua perdita e dissipazione di energia utile,con questo continuo aumento dell’entropia.Georgescu-Roegen ha ampliato questa visione sostenendoche si deve tenere conto non solo dell’energia, che si de-grada sempre, ma anche della materia. Si ha un bel dire delriciclo dei materiali usati; raccogliere separatamente lacarta usata è certamente virtuoso perché si evita di taglia-re nuovi alberi per fare nuova carta, ma non ci si illuda delriciclo illimitato. L’atto stesso di usare la carta, o un qual-siasi altro bene, ne altera e peggiora la qualità; un giornaleusato è fatto di carta ma è anche “contaminato” con inchio-stri e additivi; quando si ricicla un chilo di giornali si puòstare certi che la carta riciclata recuperata sarà sempremeno di un chilo; la differenza è costituita da inchiostri,sporcizia, eccetera. Insomma, nel produrre e nell’usare unamerce “si perde” sempre un poco, sia dell’energia, sia del-la materia utili. Il messaggio non è di disperazione: è possi-bile soddisfare i bisogni materiali di cibo, merci, servizi, co-noscenza, mobilità, se si tiene presente che le quantità e iltipo dei beni necessari devono essere scelti tenendo conto

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  • della disponibilità non solo di denaro, ma di risorse natura-li e di energia. La legge dell’entropia stimola, non frena, in-novazione e progresso.Molti ritengono che, per la sua opera, Georgescu-Roegenavrebbe meritato il premio Nobel per l’economia. Non l’haavuto, ma in compenso ancora oggi è riconosciuto comepadre dell’economia ambientale e viene letto e discusso.

    Barry Commoner: chiudere il cerchiodella natura

    Nel 1972, in coincidenza con la prima conferenza “ecologi-ca” delle Nazioni Unite, quella di Stoccolma sull’“Ambienteumano”, apparve un libro del biologo americano BarryCommoner (nato nel 1917) intitolato Il cerchio da chiu-dere. Il libro ebbe un successo mondiale grandissimo, fupubblicato subito in italiano dall’editore Garzanti e una se-conda edizione italiana, ampliata, apparve nel 1986. Il “cer-chio” è quello della natura, nella quale i fenomeni della vi-ta vegetale e animale si svolgono secondo cicli chiusi; nel-la natura non esistono rifiuti perché le spoglie dei vegetalie degli animali e gli escrementi riportano in ciclo gli ele-menti chimici che essi contengono e che diventano fonti divita per altri vegetali; si può dire che nella natura non esi-ste la morte perché la materia di qualsiasi essere, alla finedel suo ciclo vitale, ritorna ben presto materia per altri. Lavita è il fine unico della natura e della vita stessa. Lo stes-so discorso è valso, per secoli, per le merci non alimentari,utili a fini umani, derivate dai vegetali e dagli animali: fibre

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  • tessili, legname come materiale da costruzione e fonte dienergia, saponi, concimi, coloranti, eccetera.Le molecole offerte dalla natura sono però complicate daconoscere e trasformare in prodotti commerciali; peraltrosono distribuite in tutto il pianeta in maniera, direi, “equa”e democratica; si trovano spesso nelle foreste o nei campidi Paesi abitati da persone “arretrate” e da tali Paesi arre-trati dovevano importarle i Paesi scientificamente, politi-camente e industrialmente più “progrediti”. Dopo un po’ disecoli, i Paesi industriali hanno cercato di liberarsi da que-sta dipendenza dalla natura e dalle importazioni e hannocercato di produrre le stesse, o simili, materie commercia-li per proprio conto per via sintetica dal carbone o dal pe-trolio, più abbondanti e accessibili. A questo punto, il cer-chio della natura si è rotto; le merci sintetiche si sono rive-late ben presto non biodegradabili, a lungo persistenti nel-le acque e nel terreno, spesso tossiche e inquinanti e si so-no formate quantità sempre più grandi di rifiuti intrattabi-li perché estranei alla natura: si pensi alle montagne di ma-terie plastiche e di imballaggi, ai residui di pesticidi, ecce-tera. A poco a poco le scelte industriali hanno portato a im-poverire il mondo della natura e a degradarlo con le scorie,e così si è avuta quella rottura del cerchio della natura de-nunciata dal libro di Commoner.Sembra che in questi tempi si debba ricominciare a cerca-re le materie prime rivolgendosi alla natura e alle sue risor-se, ad un qualche tentativo di “chiudere il cerchio”, nonperché è aumentata la saggezza e la consapevolezza dei go-verni, ma perché le materie su cui ci siamo basati finora,specialmente il petrolio, stanno diventando sempre più

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  • scarse e costose, perché l’inquinamento e il volume dei ri-fiuti stanno diventando insostenibili e perché la natura“fabbrica”, col Sole, e rinnova, anno dopo anno, sempre lestesse materie. C’è un bel lavoro da fare, per chimici, mer-ceologi (e, perché no?, anche per storici della tecnica), dalmomento che gran parte delle conoscenze del passato so-no andate perdute e bisogna ricominciare daccapo. Solo atitolo di esempio, in gran parte è andata perduta la tecno-logia di coltivazione e produzione della canapa e del lino, incui l’Italia era all’avanguardia. La tendenza alla sostituzio-ne di parte della benzina con alcol etilico di origine agrico-la costringe ad andare a ripescare le tecnologie di fermen-tazione, trasformazione dell’amido, degli zuccheri e dellacellulosa in alcol etilico, le tecniche di distillazione e con-centrazione dell’alcol. Vedo, ormai, sul tavolo dei nuoviecologisti vecchi trattati come quello di Giorgio Meloni,L’industria dell’alcol, tre volumi pubblicati da Hoepli neiprimi anni Cinquanta del Novecento, ormai una rarità bi-bliografica, nei quali sono esposti e spiegati tutti i proble-mi relativi a quello che è stato ribattezzato “bioetanolo”. Ilcosiddetto “biodiesel”, che è poi un derivato chimico (perla precisione un estere con alcol metilico) degli acidi gras-si presenti negli oli e grassi vegetali e animali, viene pro-dotto industrialmente da scarti di altre lavorazioni agroali-mentari e anche dai grassi residui della frittura (quando sidice che si possono riciclare anche gli avanzi di cucina!). Negli oli e grassi, gli acidi grassi sono combinati con unospeciale alcol che è la glicerina. Quando gran parte deigrassi erano utilizzati per la produzione del sapone (alpunto che anche la Puglia esportava gli oli di sansa in Ame-

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  • rica dove erano impiegati in saponeria: il colore verde del-le saponette di “palmolive” era quello degli oli acidi puglie-si), le industrie ottenevano come residuo la glicerina cheaveva vari usi industriali, fra cui l’impiego nella fabbricazio-ne di un potente esplosivo: la nitroglicerina.Dal 1950 in poi, l’uso dei saponi è declinato sotto la concor-renza dei detersivi sintetici e la glicerina derivata dai gras-si “naturali” è diventata scarsa e per molti anni la si è do-vuta fabbricare dal propilene derivato dal petrolio. La pro-duzione di biodiesel dai grassi naturali sta mettendo a di-sposizione, a basso prezzo, di nuovo grandi quantità di gli-cerina che ora è diventato conveniente utilizzare addirittu-ra come materia prima per la produzione di quello stessopropilene, derivato dal petrolio, da cui si otteneva finora laglicerina. Mezzo secolo fa intitolai “Le merci sintetiche” laprolusione al mio corso di Merceologia a Bari; sembrava al-lora che le sintesi dal petrolio e dal carbone potessero libe-rare i Paesi industriali dalla servitù delle importazioni daiPaesi sottosviluppati. Forse qualche futuro professore diMerceologia dovrà dare alla sua prolusione il titolo “Lemerci naturali”. Forse davvero il cerchio della natura si stachiudendo.

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  • Ecologia e storia

    Provate a parlare di ecologia con un conoscente: quasi cer-tamente vi risponderà che poche persone sono più attentedi lui ai problemi della natura, all’inquinamento dell’aria (emagari sta fumando), alla difesa della natura (anche se èun accanito cacciatore). E, soprattutto, molto probabil-mente vi dirà che lui è sempre stato un ecologista, che loera fin dal 1980 (per dire una data lontanissima). Altri po-tranno citare, a titolo di merito, l’iscrizione al Wwf da tem-pi ancora più lontani. Non si capisce allora come mai, contutto l’amore per l’ecologia in circolazione, il pianeta Terradebba registrare crescenti inquinamenti dell’aria e del ma-re, frane, scomparsa di specie vegetali e animali, tanto cheviene da chiedersi che cosa intenda tanta gente quandonomina l’ecologia.Il sostantivo “ecologia” è stato “inventato”, nel 1866, dalbiologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919), un ferventeseguace e divulgatore del pensiero evoluzionistico darwi-

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    Ecologia

  • niano: Charles Darwin (1809-1882) aveva pubblicato pochianni prima, nel 1859, il suo celebre libro sull’origine dellespecie, il risultato delle osservazioni fatte come naturalistanel suo viaggio di cinque anni intorno al mondo.In una delle sue conferenze (che venivano poi raccolte inlibri di grande successo, tradotti in numerose lingue), Ha-eckel fece notare che gli studi sull’evoluzione mostravanocome i vegetali e gli animali si adattino all’ambiente circo-stante a seconda delle sostanze che possono trarne per lapropria sopravvivenza. Così, i vegetali si nutrono dei com-posti inorganici presenti nell’aria e nel suolo e li rielabora-no, grazie all’energia solare, nelle sostanze organiche dellefoglie, delle radici e del tronco; gli animali si nutrono deivegetali; le scorie della vita vegetale e animale – le spogliedelle piante alla fine del ciclo vegetativo, gli escrementi e icorpi degli animali – ritornano nel mondo circostante e so-no decomposti da esseri viventi specializzati nel trasfor-marne i vari componenti di nuovo in nutrimento per altrivegetali e animali.C’è, insomma, un grande progetto planetario che ha comefine la propagazione della vita ed è basato su scambi di ma-teria ed energia fra gli esseri viventi e l’ambiente circostan-te: Haeckel disse che questi scambi sono simili a quelli cheavvengono nell’economia, quando gli esseri umani compra-no e usano e scartano le merci. L’“economia della natura”doveva perciò essere oggetto di una speciale disciplina cheHaeckel chiamò “ecologia”, appunto.Francamente, credo sia difficile parlare sensatamente diinquinamento, ambiente ed ecologia, se non ci immedesi-miamo in questa grande avventura culturale e scientifica,

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  • se non si ripercorrono le tappe dello sviluppo dell’ecologia.Gli ecologi dell’Ottocento avevano già chiaro il concetto di“limite” delle risorse naturali: quando ci sono troppi anima-li in un pascolo, troppi alberi in un bosco, non c’è cibo espazio per tutti e alcuni muoiono. Gli studiosi di ecologiahanno ben presto riconosciuto che la vita è bellissima, madolorosa. Alcuni animali, nel grande disegno della vita, so-no destinati a diventare nutrimento di altri animali preda-tori e la morte delle prede è accompagnata da sofferenze.Vegetali e animali, predatori e prede, parassiti e ospiti,svolgono funzioni ben precise e ubbidiscono a precise leg-gi che occorre conoscere se si vogliono limitare i danni deiparassiti ad alcune piante “economiche” senza avvelenarecon pesticidi l’intera biosfera, leggi che spiegano come oc-corra limitare la pesca e la caccia se non si vuole che i ma-ri o i boschi restino senza animali, eccetera.Una bella corsa attraverso centotrenta anni di ecologia èofferta dal libro dello studioso francese Jean-Paul Deleage,Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della na-tura (Napoli, CUEN), un libro che si legge come un ro-manzo, pieno di attori e di colpi di scena.Per esempio, negli anni fra il 1925 e il 1940 si incontrauna “età dell’oro” dell’ecologia, come l’ha definita lo stu-dioso italiano Franco Scudo in un libro pubblicato in in-glese alcuni anni fa: un quindicennio affollato di perso-naggi che, pur in tempi turbinosi (fascismo e nazismo inEuropa, rivoluzione sovietica in Russia), giravano per ilmondo e si scambiavano notizie e anche invettive, in unagara per strappare alla natura i segreti delle leggi dellavita.

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  • L’americano Alfred Lotka (1880-1949), un matematico chelavorava per una compagnia di assicurazioni, dotato digrande passione per la biologia, nel 1925 formulò alcuneequazioni matematiche che spiegano come varia il numerodi prede (immaginate i conigli) e di predatori (immaginatele volpi) quando convivono nello stesso territorio.Se aumenta il numero delle volpi queste mangiano più co-nigli il cui numero diminuisce, ma se diminuisce il numerodei conigli c’è meno cibo per le volpi, il cui numero comin-cia così a diminuire; se le volpi diminuiscono, i conigli so-no divorati di meno e il loro numero aumenta; a questopunto le volpi, se trovano più conigli da mangiare, aumen-tano di numero, e il ciclo continua.Quasi contemporaneamente, il grande matematico italianoVito Volterra (1860-1940), professore universitario, acca-demico dei Lincei e senatore del regno, fu incuriosito dauna osservazione fatta dal genero, Umberto D’Ancona(1896-1964), un biologo marino: durante la Prima GuerraMondiale, quando la pesca nell’Adriatico era sospesa, si os-servò un aumento del numero dei pesci predatori e una di-minuzione dei pesci di cui essi si nutrivano (le prede).Ci doveva essere qualche rapporto fra il numero delle pre-de e dei predatori e Volterra raffinò la trattazione di Lotka,elaborando una teoria matematica della “lotta per la vita”.Altri dati sperimentali furono forniti da un giovane studio-so sovietico, Georgii Gause (1910-1986), nei primi anniTrenta del Novecento.Nel frattempo Volterra – uno degli undici professori uni-versitari che non giurarono fedeltà al fascismo – fu privatodella cattedra universitaria ed espulso dall’Accademia dei

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  • Lincei. Volterra continuò i suoi studi e tenne lezioni a Pa-rigi, dove viveva anche il russo Vladimir Kostitzin, rivolu-zionario in gioventù, poi professore nell’Urss, infine emi-grato in Francia, autore di altri perfezionamenti della teo-ria della lotta per l’esistenza.Nonostante l’odio fascista per Volterra, l’editore Einaudipubblicò nel 1942 un bel libro: La lotta per l’esistenza, incui D’Ancona espone il pensiero e le teorie del suocero an-tifascista ed ebreo, opera ormai rara, ma fondamentale perla comprensione dell’ecologia.Deleage racconta bene la storia e le avventure, fra Europae America, del gran giro cosmopolita di scienziati italiani,francesi, americani, russi, inglesi, delle loro scoperte e con-troversie che avrebbero influenzato lo sviluppo della scien-za “ecologia” del dopoguerraUna anche breve esplorazione della storia dell’ecologiapermette di capire le basi di tutti i fenomeni con cui ci dob-biamo confrontare oggi. Così, l’inquinamento appare comela conseguenza della immissione delle scorie – della vitanaturale e degli oggetti artificiali – in quantità eccessiva ri-spetto alla capacità ricettiva dell’aria e delle acque. E pro-prio la teoria di Volterra spiega che quando gli esseri viven-ti occupano uno spazio inquinato dai propri detriti il loronumero diminuisce, oppure essi si ammalano, proprio co-me accade a noi nell’aria inquinata delle città. Del resto, gliscritti sui “limiti alla crescita”, iniziati con un celebre librodel Club di Roma nel 1972, erano proprio basati su unaestensione delle leggi ecologiche della lotta per la vita.L’ecologia – quella vera, non il chiacchiericcio da salottoche viene spacciato per ecologismo o ambientalismo –

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  • spiega le ragioni dell’impoverimento dei mari, della rarefa-zione delle specie viventi, della perdita di diversità biologi-ca. E i mutamenti climatici di cui si discute oggi erano sta-ti descritti nei primi decenni del Novecento dal russo Vla-dimir Vernadskij, altro membro del circolo internazionaledi cui parlavo prima.Una buona storia dell’ecologia è (sarebbe) perciò medicinautile per gli amministratori, nazionali o locali, che dovran-no fare i conti con problemi ambientali, ma è in grado difornire anche a molti giovani ecologisti efficaci stimoli perle loro battaglie.

    George Perkins Marsh

    Nel 1864 appariva negli Stati Uniti il libro L’uomo e la na-tura, ossia la superficie terrestre modificata per operadell’uomo che, come dice l’autore, George Perkins Marsh(1801-1882), descrive “la natura e l’estensione dei cambia-menti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisichedel globo che abitiamo”.Il libro spiega, sulla base di quanto l’autore aveva paziente-mente e attentamente osservato nei suoi viaggi in Ameri-ca, Europa, Asia, Africa, come la vegetazione rappresentil’unica difesa efficace contro le frane e le alluvioni; come ildiboscamento sia l’unica certa origine dei danni e costi chele frane e alluvioni arrecano, come le dune abbiano un ruo-lo essenziale nella difesa degli ecosistemi costieri. Il librocontinua spiegando l’origine dell’innalzamento degli alveidei fiumi – un lungo capitolo è dedicato al Po – e dell’alte-

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  • razione dei profili delle coste. Il libro offre un grande qua-dro del nostro pianeta, del ruolo degli esseri viventi nelgrande ciclo di vegetali, di animali e di decompositori, uni-ti nell’evoluzione della vita, fino a quando la miopia, l’arro-ganza e l’avidità umana non alterano tali cicli, facendo rica-dere gli effetti negativi su chi li ha provocati, ma anche suchi non li ha provocati e sulle generazioni future.Si ritrovano in queste pagine la descrizione di quanto staavvenendo da decenni in Italia e la ricetta di quanto sareb-be opportuno fare.Marsh era nato a Woodstock, nel Vermont, nel 1801; figliodi un possidente, passò la giovinezza nel piccolo Stato del-la Nuova Inghilterra immerso nei boschi e nelle colline, fa-cendo buoni studi che gli hanno consentito di conosceremolte lingue straniere, oltre al latino e al greco, vivendo inuna casa con una buona biblioteca e circondato da perso-ne di buona cultura, coltivando senza sosta studi di geogra-fia, di filologia e di storia naturale.Ottenne meritati riconoscimenti come intellettuale e uomopubblico, tanto che nel 1849 venne nominato ambasciato-re degli Stati Uniti in Turchia. Marsh raggiunse Costantino-poli con la famiglia dopo un lungo viaggio che lo portò, fral’altro, a Pisa, Firenze, Roma, Napoli e durante il quale in-contrò uomini politici e intellettuali. Da tale viaggio nacqueil suo grande amore per l’Italia e per la Toscana. Tornato inpatria nel 1854, nel 1861 fu nominato ambasciatore degliStati Uniti presso il neonato Regno d’Italia, prima a Torinoe poi a Firenze.I fenomeni naturali che aveva osservato in tante parti delmondo nel corso di molti anni, indussero Marsh a racco-

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  • gliere tali osservazioni in un libro intitolato Man and Na-ture; or physical geography as modified by human ac-tion, di 560 pagine, pubblicato a New York nel 1864. Gliamici italiani sollecitarono l’autore a curare una traduzioneitaliana che fu pubblicata, dopo alcune vicissitudini, nel1870 dall’editore Barbèra di Firenze col titolo L’uomo e lanatura: ossia la superficie terrestre modificata peropera dell’uomo, un volume di 635 pagine, ristampato nel1872. Non era facile trovare, nelle biblioteche italiane,l’edizione italiana o quelle americane dell’opera di Marsh fi-no a quando, molto opportunamente, nel 1988 l’editoreFranco Angeli di Milano ha pubblicato la ristampa anasta-tica dell’edizione Barbèra del 1872, con una ricca e ampiaintroduzione di Fabienne Vallino. A tale introduzione di127 pagine deve ricorrere chi vuole sapere di più sulla vitadi Marsh e sui suoi rapporti con personalità italiane e stra-niere, specialmente nella seconda metà della sua vita pas-sata in prevalenza fra Roma e la Toscana. Marsh morì a Val-lombrosa, nel luglio 1882, durante una vacanza fra i boschiche tanto gli ricordavano il lontano Vermont. Marsh è se-polto a Roma nel cimitero cosiddetto “degli inglesi”, vicinoalla Piramide Cestia, accanto a Keats e Shelley, e a tanti al-tri, fra cui Labriola e Gramsci. La biblioteca di Marsh, sia laparte rimasta a Burlington, nella casa di famiglia del Ver-mont, sia quella rimasta in Italia, fu venduta e poi donatadall’acquirente all’Università del Vermont.L’influenza di Marsh sulla cultura geografica e naturalisticaè stata enorme. Ne è stato profondamente influenzato Le-wis Mumford (1895-1990) che “riscoprì” Marsh nel 1931con il libro The brown decades. Alla fine della Seconda

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  • Guerra Mondiale l’azione dell’uomo sulla Terra aveva as-sunto nuovi volti: la contaminazione radioattiva ad operadelle attività nucleari militari e civili, l’esplosione delle cit-tà, l’aumento della popolazione mondiale, gli effetti dellosfruttamento coloniale dei Paesi del “Terzo Mondo”, indus-sero alcuni studiosi a ripensare il tema centrale dell’operadi Marsh. Carl Sauer (1889-1975), Marston Bates (1906-1974), Lewis Mumford e altri decisero allora di tenere aPrinceton, nel 1955, un grande simposio i cui contributi so-no stati raccolti nei due volumi dell’opera curata da WilliamThomas Jr. e intitolata Man’s role in changing the face ofthe Earth (Chicago, 1956).Dagli anni Cinquanta del Novecento si sono tenute decinedi conferenze internazionali su quella che, grossolanamen-te, è stata chiamata “ecologia”, ma poche hanno avuto lospirito profetico che ha animato gli studiosi, i geografi, i na-turalisti della fine dell’Ottocento e della metà del Novecen-to: Marsh, Aleksandr Ivanovich Woeikof (1842-1914), Eli-seo Reclus (1830-1905), Paul Vidal de la Blache (1845-1918), Mumford.I problemi descritti da Marsh e quelli analizzati nel 1955sono gli stessi che abbiamo di fronte oggi, anzi aggravatidall’ulteriore aumento della popolazione, dalla crescentescomparsa di boschi e di copertura vegetale, dall’espansio-ne delle aree urbanizzate, dai mutamenti climatici anch’es-si indotti dalle attività umane, come appare dall’analisicondotta da Virginio Bettini e altri nel libro L’uomo cam-bia la faccia del pianeta. Mezzo secolo dopo il simposiointernazionale “Man’s role in changing the face of theEarth” (2008).

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  • La salvezza, o quello che è possibile salvare, per le genera-zioni future, vanno cercati nella diffusione di una culturache analizzi le condizioni dei fiumi e delle valli, che rallen-ti la distruzione dei boschi, che ricominci a imparare la le-zione del moto delle acque. Le pagine, per esempio, in cuiMarsh tratta il problema delle sabbie e delle coste e il ruo-lo delle dune sabbiose, meriterebbero un’attenta lettura,specialmente in questo periodo in cui in Italia esiste unafrenesia per l’apertura di nuovi porti turistici e insediamen-ti costieri.Chi sa che cosa direbbe Marsh se vedesse le coste della suaamata Toscana in cui si fa fatica a trovare le tracce di quel-le dune che ancora esistevano ai suoi tempi, in cui sonostati spianati e cementificati i reticoli di fossi scolmatori ecanali che pure gli ultimi Lorena avevano curato con amo-re? Cosa direbbe delle valli italiane disboscate, in cui ognipioggia più intensa allaga i fondo valle e spazza via case eabitazioni?La cosa più impressionante è che si conoscono esattamen-te i meccanismi con cui “l’opera dell’uomo” modifica la na-tura e la “superficie terrestre” e si conoscono esattamentegli effetti che tali modifiche provocano sulla vita non solodella natura, ma degli stessi esseri umani. Non a casoMarsh aveva proposto per il suo libro il titolo Man, the di-sturber. Troppo provocatorio per l’editore dell’Ottocento:figurarsi per i nostri contemporanei per i quali il progres-so, l’aumento dell’economia e del Pil possono avvenire sol-tanto “modificando” la natura, considerato compito prima-rio di una società moderna avanzata.

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  • Garrett Hardin e la parabola della mucca

    Immaginate un pascolo, grande ma non illimitato, attraver-sato da un ruscello ricco di acqua fresca e pulita, uno diquei pascoli che possono essere utilizzati da tutti gli abi-tanti del villaggio vicino. In Inghilterra si chiamano benicollettivi, “commons”, in Italia sono beni soggetti a “usi ci-vici”. Qualunque abitante del villaggio può pascolare i pro-pri animali o raccogliere la legna. Una primavera un pasto-re, abitante nel villaggio, porta a pascolare nel prato le suedieci mucche; le mucche passano l’estate al pascolo, trova-no nel ruscello acqua buona e nel prato erba abbondante,si nutrono e producono latte; i loro escrementi cadono sulterreno, vengono assorbiti e forniscono elementi nutritiviper la crescita dell’erba la primavera successiva. Alla finedell’estate sono contenti tutti: il pastore che ha venduto illatte abbondante con un buon guadagno, le mucche chehanno vissuto bene, il pascolo che è pronto a fornire erbaquando tornerà la primavera, il ruscello che ha le sue ac-que ancora incontaminate. Ma si sa come sono gli uomini: durante l’inverno il pastorepensa che potrebbe guadagnare di più se portasse a pasco-lare, come del resto è suo diritto in quanto membro del vil-laggio, cinquanta mucche invece di dieci. E così fa quandoarriva la primavera, ma adesso le mucche sono “troppe”, ri-spetto alla dimensione del pascolo e alla portata del ruscel-lo; il pascolo non fornisce erba sufficiente, anche perché glizoccoli delle mucche pestano e schiacciano l’erba e fannoindurire il terreno; gli escrementi di così tante mucche nonsono più assorbiti dal suolo e ristagnano nel terreno e scor-

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  • rono verso il ruscello che viene così inquinato e non è piùin grado di fornire acqua da bere.Alle fine dell’estate il pastore ha ottenuto un po’ più latte,ma non certo cinque volte di più dell’anno precedente, edè infelice perché sono sfumate le sue speranze di grandiguadagni; sono scontente le mucche che hanno trovato po-ca erba e poca acqua pulita; è scontentissimo il pascolo lacui fertilità è compromessa e il suolo indurito dagli zoccolidelle mucche ed è infelicissimo anche il ruscello perché lasua acqua è ora sporca. L’avidità del pastore ha fatto sì chela prossima primavera non ci sarà più erba né per cinquan-ta, né per dieci mucche e neanche per le mucche degli al-tri abitanti del villaggio che, come il pastore, hanno dirittoa pascolare nello stesso prato – di proprietà comune, comesi è detto – e neanche per quelle degli abitanti futuri.Si tratta di una parabola, proposta nel 1833 da un certoWilliam Forster Lloyd (1795-1852), un quasi sconosciutodemografo inglese, e “ripescata” da Garrett Hardin (1915-2003), professore di ecologia umana nell’Università dellaCalifornia, in un celebre articolo apparso nel dicembre1968 nella rivista Science.Il pascolo corrisponde alla Terra, un pianeta grande, riccodi beni materiali e di acque, che fornisce tutte le risorsenecessarie alla vita degli umani che hanno tutti uguale di-ritto, in quanto abitanti e “proprietari” del comune piane-ta. Le risorse sono sufficienti e si rinnovano finché gli uma-ni sono pochi e si accontentano di trarre dalla Terra queibeni che si rigenerano nei grandi cicli della natura. Maquando il numero delle persone aumenta, quando aumen-ta la loro avidità di possesso e di vantaggio individuale, ar-

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  • riva un punto in cui le risorse diventano insufficienti per glioccupanti di oggi e per quelli che verranno e il loro posses-so diventa motivo di competizione e di conflitti. In ecologiasi dice che un territorio, che può anche essere l’intera Ter-ra, grande ma non infinito, ha una capacità ricettiva o por-tante (una “carrying capacity”) limitata per gli esseri vi-venti, umani compresi, e per le loro attività “economiche”.L’articolo di Hardin fu tradotto in tutte le lingue (anche initaliano, su Sapere nel marzo 1969), fu ristampato decinedi volte nelle antologie che circolavano ai tempi della con-testazione ecologica e fu oggetto di roventi dibattiti, ormaidimenticati come è stato dimenticato l’autore. Su questocontroverso ecologo e pensatore, si veda utilmente il sitointernet: www.garretthardinsociety.org. C’è materiale perqualche bella tesi di laurea.La “parabola delle mucche”, il regalo che Hardin ci ha la-sciato, ripreso poi nei suoi numerosi scritti e libri, si prestaa varie interpretazioni. La più banale è che la crisi ambien-tale, lo sfruttamento delle limitate risorse naturali fino alloro impoverimento, dipendono dal numero “eccessivo” diesseri umani. Era la tesi di Thomas Robert Malthus (1766-1834), fortemente contestata da parte cattolica, anche sel’invito ad una paternità responsabile si trova nelle encicli-che Populorum progressio e Humanae vitae.L’altra lettura della parabola riguarda la contestazionedell’“economia”, la quale si basa sulla legge fondamentaledell’aumento della crescita della massa dei beni materialiusati, “consumati”, dagli individui e dalle comunità, espres-sa con quel curioso indicatore che è il “Prodotto InternoLordo”. La crescita economica in un pianeta di dimensione

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  • e risorse limitate comporta inevitabilmente l’impoverimen-to dei beni naturali disponibili ad altri componenti dellastessa comunità umana (nella parabola l’avidità di un pa-store toglie agli altri pastori la possibilità di usare lo stessopascolo) presente e futura.Una terza lettura riguarda come si può e chi deve regolarel’appropriazione individuale dei beni collettivi, consideran-do che, fino a quando tali beni sono di tutti, il più veloce, oil più “furbo”, o il più prepotente si appropria della maggiorparte e lascia poveri gli altri. Alcuni pensano che soloun’autorità centrale, uno “Stato”, possa e debba deciderequanto, dei beni comuni, ciascun soggetto economico puòottenere; altri pensano che il bene comune collettivo vadadiviso fra vari privati, ciascuno dei quali si comporterà neiconfronti degli altri usando il meccanismo dei prezzi e delmercato.Per farla breve, col povero professor Hardin se la sono pre-sa tutti: i cattolici per le prospettive di controllo della po-polazione, i comunisti per le proposte di liberalizzazionedei beni collettivi a favore del mercato, i conservatori peril pericolo di tentazioni comunistiche. Il che non escludeche Hardin abbia con coraggio descritto e indicato il pro-blema centrale non solo dell’economia e della democrazia,ma del futuro dell’umanità in questo pianeta di dimensionie risorse limitate e di crescente avidità dei suoi abitanti.Forse proprio nella gestione solidale e più giusta delle ri-sorse della Terra, nostra unica casa comune nello spazio,sta la ricetta per sradicare la violenza del terrorismo e del-le guerre e per aiutare l’umanità ad avviarsi verso un ge-nuino sviluppo umano.

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  • Robinia

    Io amo la robinia, una pianta bella, ma anche di grande in-teresse ambientale. Il suo nome botanico esatto è Robiniapseudoacacia, ma viene comunemente chiamata robinia oimpropriamente acacia per la sua somiglianza con le pian-te del genere Acacia. La robinia è originaria del Nord Ame-rica, forse della Louisiana, negli attuali Stati Uniti, ed è ar-rivata in Europa col flusso di semi di piante strane prove-nienti dal Nuovo Mondo. Carlo Linneo (1707-1778), ilgrande naturalista svedese a cui si deve la classificazionedelle piante, la chiamò così in onore di Jean Robin (1550-1629), erborista e farmacista dei re francesi, che avevaavuto l’incarico di organizzare l’Orto botanico dell’Univer-sità di Parigi. I semi di robinia erano capitati nelle sue ma-ni, pare, nel 1601; Robin li piantò e ne ottenne dei bellissi-mi alberi ornamentali, divenuti in poco tempo di gran mo-da e ben presto diffusi in tutta Europa.In Italia, la robinia fu coltivata per la prima volta già nel1602 nell’Orto botanico di Padova da dove si diffuse in Pie-monte e in Lombardia sia come pianta ornamentale, sia co-me specie forestale. Alessandro Manzoni (1785-1873) in-trodusse la robinia nel giardino della sua bella villa di Bru-suglio in Brianza e ne consigliò l’uso per il rimboschimentoe il consolidamento dei terreni collinari erosi.La robinia ha varie virtù: cresce rapidamente e spontanea-mente, con tronchi diritti che possono superare i 15-20metri di altezza e che raggiungono, in pochi anni, un dia-metro anche di un metro, sviluppando una gran massa difoglie che, per molti mesi, assicurano ombra e una grade-

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  • vole vista nel periodo in cui si formano grappoli di fioribianchi. Le robinie si prestano bene come piante ornamen-tali nelle città e nei parchi e giardini urbani anche perchéresistono bene all’inquinamento. Con la loro facile diffusio-ne e le radici profonde, rappresentano un economico e si-curo sistema di difesa del suolo contro l’erosione, un pro-blema che riguarda tante zone d’Italia, anche del Mezzo-giorno.Una seconda virtù è costituita dall’elevata resa di biomas-sa. La robinia è una “macchina” solare che cresce molto ra-pidamente fissando la radiazione del Sole per formare ma-teria vegetale: in molti casi, in un ettaro e in un anno si for-mano venti tonnellate di biomassa avente un valore ener-getico equivalente a quello di oltre cinque tonnellate di pe-trolio, e questo anno dopo anno. La terza virtù sta nel fat-to che la robinia è una leguminosa, cioè una pianta capacedi crescere senza bisogno di concimi perché fissa l’azotoatmosferico mediante batteri presenti in speciali nodulinelle radici. I batteri vivono in simbiosi con la pianta: trag-gono dalla pianta le sostanze necessarie alla propria vita e,in cambio, cedono alla pianta molecole organiche azotateche i batteri formano al proprio interno utilizzando l’azoto,gratuito, dell’aria. Piccole, quasi invisibili ma efficientissi-me fabbriche chimiche.Le foglie della robinia hanno, perciò, un elevato contenutodi proteine, dal 200 a 250 grammi per chilogrammo di fo-glie secche, e sono quindi adatte per l’alimentazione delbestiame, inoltre le foglie che restano nel terreno restitui-scono l’azoto al terreno stesso. I fiori della robinia attrag-gono le api che elaborano un miele di qualità, molto buono,

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  • commercializzato come “miele di robinia” (o di acacia): unettaro di robinieto può dare anche 800 chili di questo mie-le in un anno.Il maggiore interesse è rivolto al legno di robinia che è sta-to ed è usato come combustibile perché brucia bene, conpoco fumo anche quando è ancora umido, e con elevatopotere calorifico. Oltre che come combustibile, tale legno,fra i più duri e resistente agli incendi, è molto ricercato siaper la fabbricazione di mobili, giocattoli di legno, parquet,addirittura case, sia per la trasformazione in pali e traver-sine. In molte zone esiste il problema dello smaltimento ditraversine ferroviarie di legno rese resistenti all’attacco deimicrorganismi per addizione dell’inquinante creosoto; eb-bene i pali e il legname di robinia sono resistenti nel terre-no senza bisogno di alcun trattamento e sono, fra l’altro,utili per le palificazioni nelle miniere. Se la robinia ha tan-te virtù, qualche difetto dovrà pure averlo.Lo scrittore Carlo Emilio Gadda (1893-1973) aveva rim-proverato a Manzoni di aver avuto la malaccorta idea di dif-fondere una così “pungentissima” pianta. Effettivamente lespine del suo fusto sono fastidiose e inoltre la robinia è in-festante; se volete liberarvene farete una certa fatica, per-ché si diffonde in maniera invasiva e anzi soffoca altrepiante e tende a creare dei veri boschi di sole robinie. Levirtù tecniche e commerciali devono però essere prevalen-ti, perché la robinia è diffusa in tutti i Paesi dell’Europacentrale e orientale, dove si stima una presenza di due mi-lioni di esemplari.In Ungheria esiste addirittura un centro di ricerche, “Hun-garobinia”, dedicato alla diffusione delle conoscenze scien-

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  • tifiche, ma soprattutto applicative, della pianta e del suolegno. Le robinie crescono bene in ambienti molto diversi,anche in montagna, e la loro diffusione si sta estendendoanche in Africa e in altri Paesi. In Italia sono state e sonoabbastanza diffuse, come testimoniano i numerosi alberghie ville che ne portano il nome, anche se attualmente occu-pano appena 150.000 ettari, soprattutto nell’Italia setten-trionale. Un centro di ricerca sulla robinia come potenzia-le fonte energetica esiste a Porano, vicino Roma. Mi chie-do perché una maggiore attenzione a questa pianta non siadedicata in tutto il Mezzogiorno, dove terreni esposti al-l’erosione ce ne sono in abbondanza. Ancora una volta, dacapitoli meno conosciuti del regno vegetale, della biomas-sa “solare”, ci si possono aspettare occasioni di lavoro, evantaggi economici e ambientali.

    Sprecare meno natura

    Il primo decennio del 2000 è stato caratterizzato da eventimeteorologici (apparentemente) fuori dal comune: siccitàseguite da alluvioni, avanzata dei deserti e allagamento dipianure fertili, diminuzione della superficie e del volume deighiacci considerati “permanenti”. Ciascuno di questi eventiha destato chiacchiere senza fine, ma ben poco si è fatto perdare una risposta a tre domande: si tratta di eventi veramen-te fuori dal comune? In caso affermativo, qual è l’origine? Sele alterazioni derivano da azioni antropiche, ce la farà la Ter-ra a sopportare il “peso” di una popolazione umana crescen-te e di un crescente impoverimento delle risorse naturali?

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  • La “vita”, quella vegetale e animale e quella “economica”(cioè l’insieme della produzione e dell’uso di beni materia-li e di servizi), è resa possibile da una grande circolazionedi materia e di energia dai corpi della natura – l’aria, le ac-que, il suolo, il sottosuolo – agli esseri viventi, umani com-presi, e da un ritorno, negli stessi corpi della natura, deiprodotti di trasformazione della vita: gas della fotosintesi,delle respirazioni e delle combustioni, rifiuti solidi, eccete-ra. Mentre i cicli della vita vegetale e animale comportanol’emissione di “rifiuti” che vengono riassorbiti dalla naturae addirittura diventano nuove materie “utili” – gli escre-menti animali diventano concime per le colture vegetali,l’anidride carbonica emessa dalle respirazioni animali di-venta materia prima per la fotosintesi dei vegetali –, i ciclidella vita “economica”, la produzione di alimenti industria-li, di metalli, macchine, edifici, eccetera, comporta una sot-trazione di materie dalla natura – sabbia e ghiaia e argillaper i cementi e i laterizi, minerali, sostanze nutritive per ivegetali asportate dal suolo – che non si rigenerano maipiù, e un ritorno nei corpi naturali di scorie spesso non as-similabili, che alterano la qualità delle acque e dell’aria,rendendole meno utilizzabili dalla vita. Producono cioè in-quinamento.Tutto comincia dal Sole che, attraverso la fotosintesi, “fab-brica” ogni anno sui continenti circa cento miliardi di ton-nellate di biomassa vegetale secca: amido, cellulosa, pro-teine, grassi, eccetera. Di questa biomassa, circa cinquemiliardi di tonnellate ogni anno sono utilizzati come mate-rie prime commerciali dall’industria agroalimentare, dallazootecnia, dalle industrie del legno e della carta, della gom-

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  • ma, dei tessuti, eccetera. Gran parte dei “prodotti” alimen-tari e industriali ritornano abbastanza presto nella natura,ma per lo più come scarti che vengono sepolti nelle disca-riche o bruciati.La grande macchina “economica” che fornisce prodotti di“consumo” – sia pure in quantità e di qualità molto diverseda Paese a Paese – ai quasi 7.000 milioni di abitanti del pia-neta Terra, all’inizio del secondo decennio del 2000, richie-de inoltre, per il suo funzionamento, circa 12 miliardi ditonnellate ogni anno di carbone, petrolio, metano, eccete-ra. Anche questi derivano dal Sole e dal ciclo del carbonio,ma si sono formati centinaia di milioni di anni fa e la natu-ra ce li ha tenuti da parte nel sottosuolo, per ere geologi-che lunghissime: riserve che le nostre società umane stan-no svuotando in pochi secoli per far funzionare macchine eindustrie. E con questo siamo ad una sottrazione di circa17 miliardi di tonnellate all’anno di materiali organici.Gli “alimenti” derivati dal ciclo del carbonio attuale e quel-li fossili, necessari per l’economia, restituiscono nell’atmo-sfera gran parte del loro carbonio sotto forma di anidridecarbonica. Nel caso dei prodotti derivati dall’agricoltura sitratta dell’anidride carbonica sottratta pochi mesi o pochianni prima, ma nel caso dei combustibili fossili – carbone,petrolio, metano – l’anidride carbonica immessa “oggi” nel-l’atmosfera è quella sottratta dall’atmosfera milioni di annifa. Da qui, il graduale aumento della concentrazione del-l’anidride carbonica nell’atmosfera, con conseguente lentograduale riscaldamento della superficie terrestre per effet-to serra e modificazione del clima planetario. La costruzio-ne di macchine, strade, edifici, abitazioni, eccetera, richie-

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  • de altre materie tratte dalla natura sotto forma di rocce eminerali in quantità che si può stimare di circa venti miliar-di di tonnellate all’anno. Gran parte di questi materiali re-sta immobilizzata negli edifici, nelle fabbriche, nelle strade,per tempi lunghi o lunghissimi.Da questo conto è esclusa l’acqua che attraversa la “tecno-sfera” – case e città, fabbriche, campi, eccetera – in ragio-ne di circa mille miliardi di tonnellate all’anno, prelevatadal flusso continuo di acqua che scorre sulla superficie del-la Terra. L’acqua che esce da ogni casa, fabbrica o campocoltivato e ritorna alla natura è più o meno nella stessaquantità dell’acqua entrata, ma è stata addizionata conagenti chimici, residui di concimi, pesticidi, scorie alimen-tari, polveri, escrementi e la sua qualità – la sua possibilitàdi utilizzazione a fini biologici, e non solo umani e commer-ciali – peggiora. Ogni persona del peso medio di sessantachili “pesa” sulla Terra, movimentando ogni anno quasi seitonnellate di materiali (acqua esclusa, come si è detto). Ce la farà la Terra a sopportare una tale pressione umanasulle risorse naturali? Le società umane potranno soddisfa-re le proprie necessità di beni, di progresso, di sviluppo in-dividuale e sociale, di liberazione dalla povertà, di maggio-re giustizia distributiva, a condizione che tengano contodei precedenti numeri e che modifichino i modi di produr-re e di consumare, adattando i cicli economici a quelli del-la natura, utilizzando energie e materie rinnovabili che ilSole ricostruisce continuamente, depurando i rifiuti primache tornino nei corpi riceventi naturali. Un compito non fa-cile, ma che alcuni Paesi stanno già adottando; la storiamostra che quando le società umane hanno dovuto cam-

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  • biare le proprie abitudini, non sono diventate più povere,ma anzi hanno migliorato le proprie condizioni, con mino-re “spreco di natura”. Un compito che richiede ai gover-nanti e ai cittadini lungimiranza, coraggio e solidarietà.

    Agosto torrido: commerci e clima

    Davanti ai sempre più frequenti e vistosi segni di bizzarriedel clima ci sono due scuole di pensiero; alcuni ritengonoche ciò dipenda da un lento continuo riscaldamento plane-tario dovuto all’immissione nell’atmosfera di gas a “effettoserra” da parte delle attività umane di produzione e di con-sumo; altri ritengono che in certe stagioni ci sia stato dasempre “un gran caldo” e in altre “un gran freddo”, indi-pendentemente dal numero di automobili, dal consumo dicarbone e petrolio, dalla distruzione delle foreste, dal nu-mero delle mucche che, con il metano che emettono du-rante il metabolismo, alterano l’equilibrio energetico delpianeta, insomma dal lodato e vituperato Prodotto InternoLordo. Chi avrà ragione?La storia delle modificazioni umane della superficie del pia-neta ha interessato, fortunatamente, molti studiosi. Citeròsoltanto l’americano George Marsh, autore del famoso libroL’uomo e la natura, ossia la superficie terrestre modifi-cata per opera dell’uomo e gli atti di un convegno sullemodificazioni della Terra ad opera dell’uomo, pubblicati aChicago a cura di William Thomas Jr. nel 1956, un tema ri-preso nel 2008 dal geografo Virginio Bettini, nel volumeL’uomo cambia la faccia del pianeta. Mezzo secolo dopo

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  • il simposio internazionale “Man’s role in changing theface of the Earth”. Un interessante contributo al dibattitosui rapporti fra attività umane e clima è contenuto nel librodi Mike Davis Olocausti tardovittoriani. El Niño, le care-stie e la nascita del Terzo Mondo, pubblicato da Feltrinel-li nel 2002. L’autore è uno storico e geografo americano, au-tore, fra l’altro, di due libri sulla crescita e fragilità di LosAngeles, La città di quarzo (manifestolibri), e Geografiadella paura (Feltrinelli).In Olocausti tardovittoriani, Davis passa in rassegna lecause delle carestie, della fame e dei relativi olocausti chehanno colpito l’Asia, specialmente l’India e la Cina, ma an-che l’Africa e il Sud America, nella seconda metà dell’Otto-cento, dominato dalla grande regina Vittoria che ha regna-to sull’Inghilterra e sul suo grande impero coloniale dal1837 al 1901, quasi un secolo, appunto, quello “vittoriano”.Anche quelle carestie sono state provocate dal bruscocambiamento delle secolari successioni di piogge e di pe-riodi secchi, a sua volta dovuto contemporaneamente, siaa fenomeni “naturali”, sia a profonde modificazioni dellecondizioni del suolo provocate dai cambiamenti delle colti-vazioni agricole e della copertura vegetale e forestale. Frai fenomeni “naturali”, un ruolo importante hanno le oscilla-zioni della temperatura degli oceani centrali e meridionalicon conseguenti alterazioni del ciclo dei monsoni, attribui-te all’influenza delle oscillazioni periodiche (ogni undicianni) dell’intensità e del numero delle macchie solari. Talioscillazioni si verificano verso Natale e possono essere ver-so il “caldo” (El Niño) o verso il “freddo” (La Niña).I rapporti fra commerci e clima sono ben illustrati dal caso

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  • dell’India, colonia dell’Impero britannico per tutto l’Otto-cento, i cui governatori avevano “il dovere” di trarre dallacolonia le merci, fra cui il cotone e l’indaco, in grado di as-sicurare i massimi profitti, in patria, all’industria mani