AMARCADE

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AMARCAKDE

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Un saggio sui mitici periodi da bar in compagnia dei "cassonati" quali Pac-Man, Space Invaders and company

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AMARCAKDE

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gianlorenzo barolloClubzahir.blogspot.com

cristina de milatocristinademilato.blogspot.com

direzione editorialemassimiliano zazzi

via galleria fanzago 1924121 bergamo035247984

EDITORE, fumetteria e scuola di fumetto

[email protected]: COMIXREVOLUTION

stampa a cura di:stamperia edcom bergamo - via

© 2012 gianlorenzo barollo© 2012 ComiXrevolution

stampato in italia nell’ottobre 2012

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AMARCADERICORDI E FANTASIE

DELLA PRIMA

ETA’ DEL VIDEOGAME

Gianlorenzo Barollo

TESTI DI GIANLORENZO BAROLLOILLUSTRAZIONI DI CRISTINA DEMILATO

UNA PRODUZIONE COMIXREVOLUTION E ASSOCIAZIONE A&F

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SOMMARIO

ARCADE REWIND .........................................................................................4PRIMA VISIONE ............................................................................................7YING,YANG E PONG .....................................................................................9THE HARDER THEY COME: SPACE INVADERS ..............................................14LA MINACCIA GIALLA: PAC MAN .................................................................21IN UN GUSCIO DI NOCE: ASTEROIDS ..........................................................28L’ENIGMA DELLA MENTE: QIX ...................................................................33LA LUNA IN UNA STANZA: LUNAR LANDER..................................................38LA GUERRA DI PIERO: GYRUSS ....................................................................41DEDICATO AGLI “OTTOMANI”: DEFENDER .................................................45IL SEGNO DI SAKNUSSEN: DIG DUG ...........................................................48GASATO & SBIELLATO: SPRINT E GRAND PRIX .............................................51TI PRENDO E TI PORTO VIA: GALAGA .........................................................54L’UOMO E LA SCIMMIA: DONKEY KONG ....................................................59L’ARCA-DELL’AMICIZIA: SCRAMBLE...........................................................643D REVOLUTION: ZAXXON ........................................................................68UN DÌ VEDREMO: TIME PILOT ....................................................................72LÀ IN MEZZO AL MAR: SEA WOLF ..............................................................77TRE PER UNO: MOON CRESTA ....................................................................80THE SFIGA RULES: Q*BERT ........................................................................83L’ULTIMA GUERRA: MISSILE COMMAND ....................................................86BALZELLON, BALZELLONI: FROGGER .........................................................90MA LE GAMBE.... JUNGLE HUNT ................................................................93YOU ARE IN THE ARMY NOW: BATTLE ZONE ..............................................96ULTIMI CENTESIMI ...................................................................................100

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INTRODUZIONE

IL PERCOME E IL PERQUINDI

L’adrenalina frizzante della sfi da e il dolceamaro del ricordo sono i sapori di questo piccolo racconto, che si insinua nelle pieghe sof-fi ci della giovinezza a cento lire per riscoprire le lusinghe tentatrici dei videogiochi da bar.E’ l’epopea degli antichi arcade che hanno contaminato l’immaginario della prima generazione elettronica italiana, una breve stagione pennellata dalla freschezza del sense of wonder e dalle lusinghe di un mondo migliore, popolato di avventure virtuali, ma ricco di emozioni assolutamente reali.Benvenuti nel magico tour!

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ARCADE REWIND

Attenzione, questa burrosa madeleine non si gusta col tè. Non sia-

mo nel salotto buono e polveroso della zia e neppure in compag-

nia d’un ciarliero lupo di mare su un battello che si gode l’imbrunire

cullato dalle placide correnti del Tamigi. L’arena dei nostri ricordi

è costellata di frizzanti schermi tv, fregi illustrativi dai colori squil-

lanti, è irta di cavi serpentini, pulsanti e manopole tentatrici. Siamo

nell’Arcadia della prima generazione dell’intrattenimento elettronico,

quella che in Italia fece da sottofondo allo spartiacque tra gli anni ‘70

della politica a mano armata e gli anni ‘80 dell’edonismo reaganiano.

E i protagonisti siamo noi che negli angoli ombrosi dei bar di periferia

ancora impregnati dall’odore di cicche e dalle litanie dei jukebox ci

misuravamo con le prime febbri dell’era videoludica.

L’amico Proust potrebbe insorgere reclamando la mancanza di stile

ma non ne avrebbe le ragioni perché, a dispetto dell’armamentario di

cavi e prese elettriche, ciò che conta adesso nel nostro modesto rac-

conto è proprio il piccolo interruttore della memoria: una levetta che,

naturalmente e in totale economia, è piazzata nella nostra testa. E al-

lora per attivare il circuito della nostalgia potrebbe bastare un clango-

re metallico, una posata sfuggita di mano, a ricordare il suono di una

moneta da cento lire infilata nel grembo di un colorato cassone. Un

suono inconfondibile, subito seguito da un singulto o un gargarismo

di ringraziamento: “glub”, “wargle”, “firulin”. Ossequi onomatopeici in

videolingua che ci ringraziano per aver scelto la ditta.

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Il compagno Conrad allora potrebbe obiettare che il racconto di

un’avventura non può essere una fredda sequela di “zero” e “uno” e

neppure ricomporsi sulla liscia superficie della tela catodica dimenti-

cando lo spessore delle linee d’ombra. Seguendo un consiglio di tale

portata davvero non basta spulciare cronologie e cronache per narrare

la stagione degli Arcade, perché il senso autentico dell’avvento resta

imprigionato nell’entusiasmo sognante di una generazione elettronica

in erba, una generazione affascinata dal prodigio di un fittizio “dialo-

go” con intelligenze artificiali più che dalla spiegazione tecnica. Come

giustificare l’esistenza di quei puntini gialli senza gambe che divora-

vano pillole energetiche? Da che galassia spuntavano le potenti astro-

navi sputapiselli?

Domande secondarie poiché allora l’urgenza era dettata dal gioco.

Dovevamo ribattere a suon di record e centinaia di monetine da cento

alla sfida che ci veniva proposta da un ignoto villain, un distante av-

versario con un irritante sorriso stampato sulle labbra. Non avevamo

anticorpi per le lusinghe dell’arrembante marketing, o meglio, per le

allettanti sirene del “nuovo” che ammaliano la gioventù d’ogni epoca.

Facciamo allora come il capitano Marlowe e, buttata l’ancora, lascia-

moci pure carezzare dal fiume del tempo stappando in compagnia

d’amici una preziosa bottiglia d’amarcord. Sul volto le cicatrici degli

eventi, nel cuore briciole dell’entusiasmo che fu. Ma non sarà un rac-

conto di tenebra. Anzi il cammino ci condurrà in una foresta di luci e

colori tali da gareggiare con i neon che tappezzano i boulevard di Las

Vegas. Questa storia infatti, per dirla con Rod Serling, apre una porta

ai confini della realtà per affacciarsi sullo sterminato panorama della

realtà virtuale, una dimensione che oggi non corre più su un binario

parallelo, ma entra ed esce dalle nostre vite, ne fa parte a pieno titolo.

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E a volte sa diventare la sede dei nostri interessi primari.

Negli anni ‘70 del secolo scorso fa le magie di internet e della comuni-

cazione senza confini erano di là da venire, le possibilità di svago e in-

terazione offerte da Second life, Command & conquer e dai Sims erano

a pannaggio della fantasia di pochi visionari scrittori di fantascienza

(ricordiamo i muri tridimensionali di Fahrenheit 451 immaginati da Ray

Bradbury o le scatole empatiche di Philip K. Dick). Eppure schivando

perfidi missili e balordi fantasmini, noi imberbi videogiocatori intui-

vamo un mondo nuovo, un mondo che forse i produttori di ”armadietti

mangiasoldi” non capivano ancora, un mondo tutto da inventare, ben

oltre la lapidaria scritta “Game Over”.

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PRIMA VISIONE

In principio erano i ritrovi da cui stare lontani, raduni per aspiranti

alcolisti, dove dietro coltri di fumo imperavano i bestemmiatori della

briscola. Erano circoli politicizzati, metterci il naso significava sotto-

scrivere una muta adesione ideologica. Poteva essere il ritrovo dei so-

cialisti, ma tranquilli, nulla a che vedere con wonderboys craxiani del

garofano rampante. Nella polverosa provincia della Bassa, la “Milano

da bere” era un distante miraggio e il Circolino, al massimo, si pavoneg-

giava di un tavolo da biliardo verde fiammante più che dei punti per-

centuali dell’”onda lunga”. Poteva essere il baretto dell’oratorio vigi-

lato da suore armate di sguardi affilatissimi e leste nel sottrarti il resto

monetario delle sudate rotelle di liquirizia a beneficio di qualche ignota

missione africana. Oppure un locale disimpegnato ma leggermente a la

page, dove gli sfattoni del paese ordinavano bianchini appellandoli con

la leziosa dicitura di “aperitivi”. In principio era questo lo scenario dei

bar, povero e settario. Di scarso interesse per manipoli di ragazzini che

preferivano fabbricare interminabili “giocate” nei cortili di casa ar-

mati di una fantasia che difficilmente troverà eguali. Spiego l’azzardo:

il nostro immaginario di young generation era sottoposto per la prima

volta dal dopoguerra a una tale quantità di suggestioni che ci consen-

tiva di “navigare” con grande libertà da uno scenario ludico all’altro,

anticipando ciò che oggi è diventato il “caricamento” di un videogame.

Scontri con plotoni nazisti, complotti di supercattivi, blitz della Swat,

tutto avveniva nelle nostre teste collegate in rete live and wireless.

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Inutile cercare nella memoria la pagina riferita alla prima comparsa in

paese di un arcade.

Un pioniere di sicuro ci sarà stato. Probabilmente qualche esercente

che già trafficava in calciobalilla e flipper e magari s’era stufato della

fauna dei biliardisti. Assidui consumatori, sì, di caffè e Campari, ma

anche vocianti e molesti, quando non inclini alla pratica della scom-

messa illecita che, se giungeva all’orecchio del maresciallo, poteva ar-

recare noie con la locale istituzione dei carabinieri.

Così, su dettatura dei piazzisti, sbarcano - in prova - i primi “casson-

etti” da gioco. Immagino fosse una versione a colori dello Space invad-

ers, forse un Lunar lander, tanto per saggiarne la capacità d’assorbire

le monetine della clientela. Poche settimane di rodaggio riempiono i

forzieri e nell’arco di pochi mesi il contagio si diffonde : ogni bar pro-

pone all’occasionale avventore il suo game-corner, mini sale giochi

che formicolano principalmente di ragazzini appena teenager. Il pas-

saparola viaggia tra compagni di scuola, di banco in banco, da classe

a classe, magari durante l’intervallo: si disquisisce con descrizioni ap-

prossimative, spiegazioni smozzicate. Mancano i termini di paragone,

la faretra degli aggettivi contiene ben pochi dardi. Ancora una volta è

l’immaginazione a imporsi, a costruire ponti tra i racconti lasciati in

sospeso, interpretando mute gesticolazioni, montando colori e forme a

volontà dove non restavano che spazi bianchi, non numerati. Tanto che

quando s’arrivava a destinazione, faccia a faccia col video, la prima

meraviglia era scoprire la differenza tra il crepitante impasto dei bit

concepito oltreconfine e l’ardito costrutto siglato dalla nostra fantasia

a briglia sciolta.

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YING, YANG E PONG

Un singolo schiocco in tono basso, gentile, come la bacchetta ab-

bandonata sulla pelle tesa del tamburo. Tre istanti scarsi e, se

tutto va bene, giunge la replica: identica. E’ la lingua primitiva del

Pong, primo gioco dell’era dei videogame. Un linguaggio elementare

che però subito distingue sonoramente gli “armadi elettronici” dagli

altri giochi da bar: gli scoppi legnosi della pallina del calciobalilla e le

argentine scampanellate dei flipper.

Frugando nei miei ricordi penso d’avere avvistato il primo monolitico

Pong su qualche rivista piuttosto che dal vivo, in “video e scossa”.

Scrutavo con avidità la foto cercando di comprendere come funzion-

asse, ma nell’articolo ci si contentava di strombazzare l’eccitante an-

ticipazione dell’ultima mania targata stelle e strisce. Il Pong appariva

ai giovani d’allora come un oggetto misterioso prodotto della superiore

ingegneria americana, l’ulteriore dimostrazione che sul piano della

scienza gli Usa potevano bagnare il naso a qualsiasi trovata del blocco

sovietico. Del resto chi aveva messo piede sulla Luna? Non certo i cos-

monauti griffati falce e martello. Noi ragazzetti filoamericani eravamo

cresciuti a pane e cowboys, invaghiti delle divise dei nordisti e delle

gesta dei combattenti per la libertà incarnati dal colosso pistolero John

Wayne. E su questo filone di freedom from the States, il Pong, per

quanto lineare e spartano, faceva intendere che l’autostrada a stelle e

strisce della modernità in salsa elettronica era percorribile da tutti col

pedaggio di una misera monetina.

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Ma torniamo un attimo sulla Terra, visto che in concreto lo scatolone

che faceva impazzire le folle consisteva in un televisore infilato in un

cabinato di legno. Il comando era costituito da un paddle, ossia una ma-

nopola un poco più scorrevole di quella della cucina a gas di mammà.

Insomma l’opera di un freak dell’elettronica, Nolan Bushnell, il primo

a intuire il potenziale economico del gioco in video, ma come spesso

accade ai pionieri - chiedetene qualcosa a Colombo e Meucci -, non fu

in grado di godere in pieno i frutti della sua scoperta/invenzione.

Per avere un’idea dell’impatto causato dalla comparsa dei primi coin

op bisogna paragonarlo a una invasione aliena, del tipo Dalek in Doc-

tor Who. All’improvviso ti ritrovi negli angoli più spogli e polverosi

delle ammiccanti macchinette che ronzano misteriose. Il loro sguardo

è in bianco e nero, i tratti somatici abbozzati, di una geometria rudi-

mentale. Eppure mettendoci le mani sopra non puoi non avvertire il

brivido d’essere entrato in un’altra dimensione. Sì, per certi versi una

realtà più povera della nostra, una sorta di Flatlandia, la terra priva

della profondità. E’ un mondo astratto eppure essenziale. Nella con-

trapposizione delle due linee in perenne contesa si inscena una legge

del regno iperuranico, nella sorte del puntino sballottato da un campo

all’altro c’è la cruda drammaticità del destino dell’uomo. Potete ve-

derci la sfida manichea tra il Bene e il Male sul nero piano dell’infinito,

oppure la dinamica contesa dello Ying e dello Yang che col suo moto

inarrestabile dà origine al mondo. Il Pong in definitiva è un potente

esercizio di metafisica al prezzo di cento lire.

Sì, somiglia a un campo da tennis, o da tennis tavolo, ma è assente la

fiondata del servizio, sconosciuti volée e rovesci.

Qualche ardito distributore con una botta di fantasia si azzardò a dip-

ingere sulle fiancate dell’arcade scenette fumettistiche in stile pop art

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per sottolineare una vaga parentela del gioco con la disciplina prati-

cata nei templi di Wimbledon e Roland Garros. Una traccia labile, inac-

cettabile. E infatti sul terreno delle suggestioni sportive non fu certo

il Pong a iniziare alla nobile arte del tennis noi giovinetti. Ci voleva un

robusto sforzo di fantasia per vedere nelle oscillazioni della tremula

bacchetta i robusti passanti di Bjorn Borg e le calibrate voleè a rete

alla John McEnroe. La passione per le racchette giunse con i cartoni

animati, per la precisione dalla longilinea tennista Jenny. Timida fan-

ciulla dagli occhi di cerbiatto, uscita dagli studios nipponici, conquistò

stormi di adolescenti con i suoi intrecci sportivo-romantici. Io stesso

finii folgorato dalla moda: m’ero munito di una coppia di scarsissime

racchette di legno e corde in plasticaccia per ingaggiare ameni tornei

con le donzelle del vicinato. Ogni due, tre colpi la pallina finiva oltre la

recinzione, ma la caccia tra la frasche era parte del gioco. Una fortu-

nata strategia per i primi rendez vous privati con l’altro sesso.

Naturalmente il videogame non può negare d’essere legato a doppio

filo alla realtà commerciale e pertanto il Pong subì delle evoluzioni det-

tate dalla richiesta di mercato: entrò nelle case con le prime console

e si tramutò in un ipotetico “doppio” per sfide tra amici, o giù di lì.

Due nuove frontiere abbattute, una più importante dell’altra. Il fatto di

poter trasformare il videoscatolone di casa in uno strumento con cui

interagire era qualcosa di straordinario. L’idea di poter cancellare a

piacimento i volti istituzionali di Nicoletta Orsomandi e Mario Pastore,

i loro annunci a sorriso stretto e le compassate notizie, e sostituirli

con il muto rettangolo di gioco del Pong aveva un che di rivoluzionario.

Naturalmente alla fine degli anni ‘70 un simile trastullo virtuale era

alla portata di non molte tasche. Ma nei salotti di qualche amichetto

figlio di facoltosi io l’avevo visto il miracoloso scatolotto - non toccato

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per educazione, soltanto guardato e neanche con tanta insistenza per

amor d’etichetta - piazzato a negligentemente accanto al televisore.

Segno che forse il divertimento durava poco, un sorso di novità poi via

nel cesto delle robe vecchie. Personalmente coltivavo già il dubbio che

le cose poco sudate sono anche poco apprezzate e solo così arrivavo a

spiegare i mal-trattamenti di cotanto prodigio tecnologico.

L’altra novità offerta dalla magica console, come accennavo, era la

possibilità di giocare con un avversario in carne ossa. Prospettiva

questa che ho sempre trovato poco eccitante, vuoi perché le sfide in-

nescavano competizione e da qui malumori fonti di penose discordie,

vuoi perché la prospettiva di mettermi alla prova con una supposta

intelligenza artificiale, per quanto simulata nei circuiti stampati di una

macchinetta, era indubitabilmente più affascinante. Finalmente avevo

la possibilità di confrontarmi in prima persona con gli “alieni” tanto

sbandierati in libri e film. Un confronto muscolare con l’altro ostile

e misterioso. Niente bandiere da bruciare o ideologie da abbattere,

semplice lotta a “mani nude” con il Nemico. E basta. Aspetto che, in

seconda battuta, costituiva un sano esercizio di elasticità intellettuale,

un invito sottotraccia a non fossilizzarsi sulla contrapposizione, a non

dare troppo retta alle divise e agli slogan. Il male non ha una casacca,

anzi spesso le pugnalate arrivano da chi ti sta al fianco.

Non so se sia stato per questo contorto ragionamento che l’idea di fare

del “Pong a due” - chiave di volta della distensione Usa-Cina negli anni

‘70 - il tennis tavolo del 21esimo secolo sia naufragata miseramente.

Forse, più semplicemente, resta ancora più pratica ed emozionante la

competizione sul vecchio tavolino, spalettando dietro ai secchi rim-

balzi di quell’indomabile palletta bianca dall’anima sottovuoto.

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THE HARDER THEY COMESPACE INVADERS

Non potevano che essere i primi: invasori dallo spazio e per es-

tensione invasori dello spazio. Era l’avanguardia, l’avvisaglia di

un’occupazione dell’immaginario, ma soprattutto un’occupazione del

territorio virtuale denominato Tempo libero.

La prima volta che ho sentito qualcosa di abbinabile al concetto di

Tempo libero è stata la parola “bricolage”. Parola straniera, francese e

quindi di diritto ascrivibile al campo delle snobistiche bizzarrie. Infatti

descriveva un concetto ben noto e praticato al di qua dell’Alpe, il “fai

da te” che nel ventennio fascista era verniciato di orgogliosa autarchia.

L’italiano però, se non costretto dalle ristrettezze finanziarie, non è mai

stato affascinato dalla falegnameria, dalla tinteggiatura e dall’idraulica

post lavorativa. Scocciature da lasciare agli esperti nel settore, c’è la

partita in tivù che non aspetta o la briscola al bar di sotto e magari la

caccia alle sottane. Quella sempre aperta.

Naturalmente il Tempo libero per i ragazzi viaggia su altri binari, bru-

ciando differenti incombenze ricreative. Prima fra tutte il gioco. Le

immagini degli american boys intraprendenti e servizievoli tuttofare

- chi se la scorda la scena cinematografica dei lanciatori mattutini di

giornali - a caccia dei centesimi necessari ad acquistare dolci rovina-

denti e fumetti “rovinadellamoralegiovanile”, avevano poco a che fare

con la nostra realtà. In primo luogo gli abitanti delle popolose periferie

avevano pochi contatti con la realtà del micro commercio, poche le oc-

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casioni per accaparrarsi lavoretti retribuiti. E poi cominciavano a farsi

severe le regole sul lavoro minorile: il sindacato, ai tempi più braccia

che parole, aveva le idee molto chiare sul concetto di sfruttamento

e certamente dei giovinetti impiegati in attività di basso facchinari-

ato avrebbero suscitato reazioni poco edulcorate nei confronti del pa-

drone, ops del datore.

Insomma l’idea di procacciarsi risorse per coltivare passatempi con

un valore di mercato - leggi a pagamento - era ben oltre le nostre verdi

disponibilità. Se hai dieci anni nel cuore dei Seventies italici dipendi

interamente dalla borsa paterna e dalle mance dei nonni, ergo il por-

cellino salvadanaio non tintinnava, ma spesso grugniva a pancia vuota.

Questo non significa che si vivesse nell’anticamera dell’indigenza o

in una condizione di negligente abbandono perché, da che mondo è

mondo, i bambini hanno trovato il modo di divertirsi con mezzi propri.

Facile spiegarsi perché il pallone abbia tanto successo: mai escogitato

gioco più economico. Ventidue bipedi sgambettano attorno ad un uni-

co oggetto, per tacer del pubblico vociante. E alzi la mano chi ha più di

trent’anni e non s’è mai arrangiato a scimmiottare il pistolero Ringo o

Django estraendo di tasca pollice e indice ben carichi.

Al sottoscritto bastava un foglio da disegno e una matita, e quando lo

spazio bianco difettava passavo al retro, ai margini e pure agli inter-

stizi fra le righe di vecchi quaderni o i larghi margini di una pagina di

giornale. Il terrore dello spazio bianco proprio non mi sfiorava: sapevo

bene che nessun angolo avrebbe resistito alla valanga di inchiostro,

pennarello e grafite.

Una certezza che stava anche dietro la tracotanza degli invasori

spaziali concepiti da Lyle Rains e programmati da Ed Logg. Lungi

dall’adottare tattiche avvolgenti e subdole tecniche di intelligence e

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depistaggio come gli invasori portati su grande schermo da Cameron

Menzies - da cui prendono a prestito il nome - gli Space Invaders da

videogammare si piazzavano sullo schermo a mo’ di parata, secondo

la logica dell’orda d’oro mongolica. E devo ammettere che il primo ap-

proccio davanti a quella brulicante colonna di robot da combattimento

era stordente. Non si sapeva da dove cominciare: tu solo, loro decine.

Senza contare che non solo dovevi portare casa la pelle schivando per-

fidi fulminetti, ma l’opera di sterminio era zavorrata da un altro com-

pito: la difesa dei palazzi del potere. In sostanza tre spartani edifici

costruiti in un avveniristico materiale simile al biscotto integrale - o

così pareva - alla completa mercé dei missili nemici. A nostra dispo-

sizione un unico, triste e solitario, cannone semovente. Anche qui gli

autori si sono pigliati a prestito un classico degli anni d’oro della fan-

tascienza americana: “la Terra contro i dischi volanti” dove ad opporsi

ai piattini alieni c’era proprio un supercannone.

Una contrapposizione di prestanza e riflessi, senza la minaccia del

“lato oscuro della forza”, un braccio di ferro interplanetario scorciato

di dialogo e saluti. L’ammonimento astrale “klaatu barada nicto” di

“Ultimatum alla terra” era stato pronunciato e scordato; il tempo della

diplomazia era scivolato via come sabbia dalla clessidra rotta della

saggezza e a parlare restavano soltanto le armi.

Per governare il potente cannone, custode delle umane sorti, non

s’aveva che una corta impugnatura - detta poi joystick - e un pulsante

a far tuonare la bocca da fuoco.

La prima versione del videogame, quella in bianco e nero, era lentis-

sima. Dopo un paio di frustranti partite si intuiva che era necessario

acquisire il ritmo, fare fuoco nei giusti intervalli oppure il proiettile si

sarebbe infilato nei corridoi vuoti. Lo scenario era futuristico, ma la

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concezione dell’assalto si rifaceva alle guerre del ‘700 con gli ufficiali a

gridare ossessivamente “serrate le file” sopra il rullo dei tamburi. Una

muraglia umana faceva scudo ai colpi affinché i tiratori potessero ac-

coppare più avversari e assottigliare la schiera per creare una breccia

utile alla carica di cavalleria. E’ la triste e notoria logica della carne da

cannone che, pur imbellettata di ideali patriottici e insaporita di pros-

pettive di giustizia, viene servita in ogni guerra più o meno dall’inizio

della civiltà. Non ne fa difetto neppure l’ignota Potenza aliena che invia

i suoi droidi a fare il lavoro sporco, mentre i generalissimi si conten-

tano di svolazzare di gran carriera sopra i tumulti del campo di batta-

glia. Soltanto centrando il tronfio graduato con un tiro da fuori campo

imitando un provetto cecchino si poteva esprimere una concreta soli-

darietà alla manovalanza marziana, insieme a un non trascurabile bot-

tino di punti. Sì perché vincere è importante, ma in alcuni conflitti la

vittoria può curiosamente diventare un obiettivo secondario. Come in

una guerra per gioco...

La vita del soldato di fanteria è dura: chiedete a quelli che sono sbar-

cati a Omaha beach in bocca alle mitragliatrici dei tedeschi. Quanti

di loro hanno visto la fine della guerra? Ben pochi e seguendo questo

ragionamento nessun giocatore di Space invaders vedrà il termine del

conflitto: non ci saranno ghirlande di fiori, bandiere e baci di fanciulle.

Anzi una volta sgomberato il campo, pioverà una nuova orda, ancora

più veloce, più cattiva. L’obiettivo è sopravvivere più a lungo possibile

e vendere cara la pelle raggranellando punti. Davanti al cannone in-

combono quattro file di robot: le prime due sono affidate da bipedi tut-

tatesta, seguono simpatici transistor con gambette e braccia e infine

delle meduse sorrette da sottili tentacolini. Ognuno ha il suo valore.

Correttamente non si può parlare di taglia, visto che siamo in lotta

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su un campo aperto con due eserciti regolari impegnati in un con-

flitto ufficiale. Ma ricordiamo che pure in questi scontri con supposte

e condivise regole di ingaggio esistono laute ricompense per i soldati

che hanno la ventura di brillare nel massacro o nella decapitazione dei

capi avversari. Quindi, per quanto si voglia abbassare Space invaders

al rango di una versione elettronica del gioco dei birilli, la verosimigli-

anza con abitudini guerresche è tutt’altro che remota.

E veniamo ai fatti, o meglio alle mani: sì perché occhio e mano devono

stringere una salda alleanza per farsi strada nel duro mondo del vid-

eogame. Dopo le prime mille lire, sbolliti gli entusiasmi della novità,

si realizzavano un paio di fondamentali informazioni. Numero uno: il

movimento impresso alla manopola non corrispondeva istantanea-

mente allo spostamento del cannone. Numero due: il salvifico cannone

non sparava con la frequenza desiderata. E in più, quando gli alieni si

avvicinavano fino a poter vedere il “giallo” dei loro occhi, si agitavano

tanto che era quasi impossibile non finire arrostiti dai loro raggi.

La difficoltà di Space invaders - e di molti giochi al suo pari - sta nel

fatto che per colpire devi piazzarti sulla stessa traiettoria di fuoco

dell’avversario e in quel delicato frangente può piovere il malefico si-

luro che pone temporaneamente fine alla tua esperienza videoludica.

La saggezza del vecchio uomo d’armi sta nel coordinare il fuoco e lo

spostamento: colpisci e fuggi. Ma attenzione, non basta essere rapi-

di perché la matrice aliena si muove, un movimento laterale che dà

l’illusione di uno spostamento ondulatorio e progressivamente si tra-

muta in una inesorabile calata che arriverà fino allo zerbino di casa, se

non vi inceneriscono prima.

Così, ma stavolta al costo di svariati biglietti da 500 - lire of corse -,

si arrivava al secondo segreto di Space invaders: il ritmo. Muovere e

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sparare vanno inseriti in una precisa sequenza in modo da non sprec-

are colpi a vuoto o addirittura finire addosso al missile nemico sparato

a casaccio.

Non so se vi sia capitato di sparare con una pistola vera in un poligono

di tiro. Le dimensioni di un’automatica non sono molto lontane dalle

repliche giocattolo, il peso e la consistenza leggermente superiori. An-

che il grilletto cede con facilità impressionante. Si potrebbe concludere

che sparare sia un gioco da ragazzi: bè i fori lasciati sui bersagli rac-

contano spesso tutt’altra storia. Se non si dispone di un mitragliatore

e colpi infiniti - tipo alcuni sparatutto che andavano per la maggiore

negli anni ‘90 - per sventagliare l’avversario finché cade, allora si deve

comprendere che fare fuoco non è semplicemente puntare e premere

il grilletto. Occorre posizionare il corpo in una postura corretta e sta-

bile, coordinare i movimenti del braccio, stringere il calcio della pistola

per fare sì che il polso non ceda all’ultimo momento, regolare il res-

piro perché non interferisca col gesto e infine imprimere all’indice un

ordine secco, istantaneo. Per sparare si deve trovare l’attimo in cui la

visione del bersaglio e il vostro mondo interiore coincidono. Roba da lo

Zen e l’arte della polvere da sparo.

Ma tutto questo, direte, a che serve se mi voglio rilassare sparacchi-

ando agli Space invaders? Non serve a granché, mica dovete abbattere

i robottini a colpi di Beretta. Però rigiocando dopo anni, stranamente le

due esperienze si sono incrociate e ho fatto un singolare collegamento.

Movimento, tempo e respiro sono le componenti del ritmo e, per este-

nsione, del ballo. Le quattro file di alieni si agitano tutti a tempo, con

una sequenza di passi che di fatto è uno schematico balletto. La partita

di Space invaders allora non è più un duello, ma un bizzarro invito alla

danza. Guardate come allargano braccia e incrociano le gambe: gli ali-

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eni vi chiedono di entrare in sintonia con il loro indiavolato minuetto.

Sventate i loro “pestoni”, eliminate i contendenti più goffi. Emuli di

Tony Manero, stracciateli volteggiando sulla pista al ritmo di una suite

dei Daft Punk! Avanti, finché il fiato vi regge. Il limite sta nella testa:

per quanto potrete reggere questo dirty bit-dancing?

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LA MINACCIA GIALLAPAC MAN

I programmatori di giochi fino ad allora avevano cercato di coniugare la

scarsa disponibilità di bit con una parvenza di rappresentazione log-

ica della realtà: in sostanza, il cannone di Space invaders, per quanto

somigliasse a una pastiglia Valda, aveva un senso iconografico. Il Pong

sintetizzava in una linea bianca la racchetta del campione di turno. Il

Lunar lander, bè quello non andava molto lontano dal tremulo Lem

(Lunar escursion module), l’originale guscio d’alluminio delle missioni

Apollo che portò nel 1969 portò sulla Luna Armstrong, Aldrin e Col-

lins. Così dopo aver riprodotto in una manciata di puntini automobili,

carriarmati, aeroplani era tempo di spiccare il salto nel vuoto e questa

fantastica sfida porta il nome di Pac Man.

Chi è quella pallina gialla? Una vitamina B12 passata sul tavolo operato-

rio del dottor Frankenstein? Una liscia palla da tennis schizzata via dal

prato di Wimbledon dopo un ace portentoso? Niente di tutto ciò. Pac

Man non ha gambe e corre come un dannato, non ha occhi ma sfrec-

cia automaticamente tra i muri del labirinto con una bocca munita di

instancabili ganasce, manifestazione del suo appetito incontenibile. Ha

ben poco di antropomorfo eppure si solidarizza alla svelta con il tondo

soggetto, stretto tra le pareti di un labirinto innominato e inseguito da

un irriducibile quartetto di fantasmini - loro sì - ad occhi spalancati.

Pac Man, targato Namco 1980, è un’invenzione giapponese. Il nome

deriva dall’onomatopea convenzionale per masticare: il munch-munch

nipponico che fa packu-packu. Ahimè, una delle tante cose che divi-

dono noi homo sapiens sul planisfero. Provate a spiegare a un inglese

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che il gatto fa “miao”, vi risponderà che a casa sua fa “meow”. Fosse

nato in Italia il nostro giallo amico si sarebbe chiamato Gnam Man.

Per parecchi anni Pac Man è stato sinonimo di videogioco, la figura più

popolare insieme al baffuto idraulico Mario. Di lui conosciamo soltan-

to il profilo, di fronte penso che potrebbe apparire come una carica-

tura dello “smile” che furoreggiava sulle spillette dell’epoca. Qualche

sconsiderato ha messo in giro la voce che la trovata della forma del

giallo protagonista avvenne di fronte a una modesta pizza d’asporto

privata della prima fetta, ma l’autore Toru Iwatani spiegò che Pac Man

era frutto di un lavoro di grafica e kanji (i “caratteri” giapponesi). In

pratica somma già la forma e il suono nell’unità del simbolo .

Il successo di Pac Man fu immediato e dirompente: era una novità as-

soluta, come resistere. Fino ad allora si era sparato, colpito e schivato.

L’impostazione dei videogame era sostanzialmente bellica: cannoni,

astronavi, sottomarini, al massimo un’auto in pista. Temi che potevano

risultare irritanti se non indigesti alla massa potenziale dei giocatori

pacifisti. Pac Man si presenta giallo e gagliardo, scintillante di colori,

sound personalizzato e soprattutto una mobilità a tutto campo nel la-

birinto disseminato di punti-pallina. E poi parla o almeno ha una sua

espressività nella masticazione, indice d’una personalità se non ve-

race, di sicuro vorace. L’appetito insaziabile di Pac Man è certo uno

dei tratti che lo rendono simpatico. Pur di completare i suoi “spuntini”

in santa pace siamo subito pronti a sfidare territori sconosciuti e fan-

tasmi guardiani.

Come interpretare il mondo di Pac Man? Il primo dato è che il nostro

si avventura in terreno non suo: il labirinto è un luogo ostile, conce-

pito per mettere in difficoltà l’eventuale visitatore. Pac Man inoltre

si presenta con l’obiettivo di “ripulirlo” dai succulenti puntini gialli

che - stando al punteggio - rappresentano un ambito bottino. Ma il suo

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catalogo comixrevolution

RingraziamentiL’idea non nasce da sola, è il frutto di stimoli e accidenti. Da qui il percorso di Amarcade, che è stato in gran parte condi-viso con un drappello di fedeli variamente votati alla disciplina dei coin op. Fabio Bacucco per il gusto della risco-perta e le innumerevoli partite giocate in puro spirito di revival.Diego Tadolti, inesauribile pozzo di ricordi e costante pungolo critico.Mio fratello Federico, socio e cospirato-re videolucido da una vita.Il mio parentado per il prodigo foraggia-mento a suon di centoni (cento lire in mo-neta intendesi ovviamente) che mi permise di esplorare la giungla dei bit e dei byte.Songkran per la pazienza, le invettive e i piatti caldi.E poi gli amici del tempo: Massimo, Roberto C. Roberto S. Fede piccolo, Laura e Giusy.

amarcade - € 9,00

valgard 1 (esaurito)valgard vol.1 - ristampa

valgard 2prequels

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AMARCAKDEAvete mai difeso la Terra da un’orda di robotici alieni?Avete mai sfidato un gorilla dispettoso in cima a un grattacielo?Avete mai inseguito quattro fantasmini blu in un labirinto al neon?Eccovi un viaggio tra ricordi e fantasie nella prima età del videogame. Per chi c’era e chi no

Insert coin e buona lettura