Altrestorie_13

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n occasione dell'8 marzo, festa della donna, AltreStorie dedica il nuovo numero a storie ed esperienze femminili. Grazie ad alcune testimonianze dirette emergono le tante vicende di un secolo, il Novecento, che ha segnato il cammino dell'emancipazione delle donne attraverso il lavoro e nuovi ruoli sociali. Chiude il numero la consueta rubrica de

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La preparazione del corredino

Nell’ambito delle numerose attività dell’O.N.A.I.R. (Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta) all’inizio del 1934 fu aperta a Trento la Scuola professionale per vigilatrici d’infanzia (denominata, dal 1942, Scuola professionale di puericultura) che svolse la sua attività fi no al 1977. La sede della Scuola fu inizial-mente in via S. Margherita pres-so l’Istituto provinciale di assi-stenza all’infanzia, poi, dopo il bombardamento del 2 settembre 1943, fu ospitata in alcuni edifi -ci che l’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana gestiva nella vicina Frazione di Vigalzano. In seguito la sede della Scuola ritornò in città prima in piazza Fiera e poi in via Orsi.La Scuola aveva il compito di preparare giovani donne trenti-ne alla professione di vigilatrice dell’infanzia, da svolgere sia nelle famiglie, sia negli istituti di assistenza all’infanzia dopo un addestramento che forniva una specializzazione nella cura del bambino dai primi mesi di

La scuola professionale per vigilatrici d’infanzia di Trento

di Patrizia Marchesoni

vita fi no al sesto anno di età.Alla scuola erano ammesse annualmente non più di 30 ra-gazze di età compresa tra i 18 e i 35 anni in possesso di licenza elementare di grado superiore; i corsi duravano un anno e pre-vedevano sei mesi di lezioni teoriche (anatomia, fi siologia, patologia, igiene, psicologia in-fantile, ginnastica, canto) e sei mesi di tirocinio presso l’Istitu-to provinciale di assistenza per l’infanzia e presso le strutture ospedaliere della città, oltre a corsi di economia domestica e lavori femminili.Al termine del percorso scola-stico era la stessa O.N.A.I.R. che procurava alla diplo-mata il lavoro e ne seguiva l’assunzione garantendo e tutelando la professionalità attraverso il “Decalogo del-la vigilatrice” e dettando le modalità e le condizioni con-trattuali: i documenti necessari per l’assunzione, il periodo di prova, lo stipendio e le previ-denze, le licenze e il riposo set-timanale, l’obbligo di portare la

divisa, il certifi cato di servizio, il licenziamento e i rimborsi per i viaggi. Il tipo di insegnamento e l’ambiente in cui le ragazze ricevevano la formazione era improntato alla signorilità e al-l’eleganza, cosa che le avrebbe preparate ad affrontare il lavoro che, inevitabilmente, era richie-sto dalle famiglie abbienti. Molte di loro furono assunte come vigilatrici da famiglie nobili o di industriali e seguen-do la famiglia ebbero modo di viaggiare sia in Italia che all’estero. La Scuola le preparava ad esse-re pronte a queste nuove espe-rienze e consapevoli del ruolo che la vigilatrice era tenuta a svolgere nella famiglia che la chiamava a curare i propri fi gli.Dal “Decalogo della vigilatrice d’infanzia”: (art. 5) La Vigi-latrice è, nella famiglia dove è chiamata a prestare l’opera sua, un elemento di notevole importanza, perché le viene affi dato il bambino, che è la parte più cara della famiglia; perciò essa deve comprendere l’importanza della sua missione e sapersi contenere in confor-mità. Essa diventa una collaboratri-ce dei genitori e perciò deve chiedere che le sia dato un posto giusto, che i bambini e il personale di servizio le abbiano rispetto, che è necessario il suo prestigio, il quale deve essere dalla Vigilatrice mantenuto nel modo più rigoroso. La Vigilatri-ce non mangerà né dormirà col personale di servizio e saprà con lo stesso mantenere rap-porti corretti…L’Archivio O.N.A.I.R. (Opera nazionale di assistenza all’Italia redenta) diventato poi nel 1960

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Divisa estiva per vigilatrice di infanzia

Il mantello deve arrivare a cm 23 da ter-ra.

L’orlo deve essere alto cm 5.

Il doppio petto, con fi nte larghe cm 10, deve essere sormontato cm 7.L’allacciatura dal collo al basso, va fat-ta con occhielli rifi niti in stoffa e con bottoni messi alla distanza di cm 10.

La mantellina deve arrivare a cm 2 dal punto di vita: il nodo ricamato a punto pirello sulla parte sinistra della man-tellina.

Le tasche sono tagliate.

La schiena ha una falda cucita fi no a cm 40 dall’orlo.

Ritorno da un giro nel parco

O.N.A.I.R.C. (Opera nazionale di assistenza all’infanzia delle regioni di confi ne) è conservato presso l’Archivio della Provin-cia autonoma di Trento. Nel 1997 è stato predisposto l’inventario a cura di Fabio Mar-goni cha ha anche pubblicato il saggio “Per l’assistenza fi sica e spirituale delle Terre redente: l’attività dell’Onair-Onairc e il suo fondo archivistico presso l’Archivio provinciale di Trento in “A scuola! A scuola! Popola-zione e istruzione dell’obbligo in una regione dell’area alpina secc. XVIII-XX”, ed. Museo storico in Trento, 2001, pp. 245-260.Le informazioni sull’Onair-Onairc qui riportate, sono state ricavate dalla scheda dell’Ente redatta dal dott. Livio Cristofo-lini, direttore dell’Archivio pro-vinciale, che si ringrazia per la collaborazione.

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Giovanna Simoncelli:“Ci sentivamo qualcuno”

Alla fi ne del 1951 avevo letto per caso su “Alba” notizie sulla scuola per puericultrici di Trento. In quel tempo stavo preparandomi, da privatista, all’esame di terza media e ho fatto la domanda d’iscrizione. Prendevano, ogni anno, 30 ragazze: non era obbligatorio aver fatto le scuole medie, ma erano preferite quelle che ave-vano il diploma. Era una scuo-la-convitto: si stava lì a dormi-re, a mangiare... era un istituto, si stava dentro, si lavorava e si aveva 6 ore settimanali di liber-tà, una mezza giornata.La direttrice era Pia Marchetti, una signorina molto energica. Ci dava anche lezioni di ana-tomia.Lì arrivavano bambini che era-no quasi tutti fi gli di ragazze madri. Le madri venivano ad allattarli, ma spesso li lascia-vano lì e non si facevano più

vedere.Ogni due settimane avevamo un cambiamento di turni: dove-vamo alternarci notte e giorno con i bambini che andavano dai prematuri ai divezzi, questi erano tanti, più di 120. Stavano in grandi sale, set-te-otto per box. (Le allieve tenevano un diario che veniva sottoposto alla lettura della direttrice, dove riportavano, con un proprio commento, ogni loro nuova esperienza o la veri-fi ca di un apprendimento. Scri-ve Giovanna Simoncelli, l’11 gennaio 1953: “Quanti dentini nuovi; sembravano altrettanti chicchi di riso che contrastava-no col colore rosso della bocca. Qualcuno più piccino invece, aveva le gengive ingrossate e trasparenti, segno che i dentini sarebbero usciti prestissimo. La nostra direttrice in una del-le sue lezioni, ci aveva spiegato

l’ordine con cui vengono i den-ti, ed ho potuto constatare che anche nei nostri bambini, sono venuti così” n.d.r.).Insomma era una specie di asilo nido dove i bambini stavano in attesa di essere messi in un or-fanotrofi o.Dunque ho frequentato questa scuola, che si trovava in via Gocciadoro, dall’ottobre del 1952 all’ottobre del 1953: un anno, la scuola durava solo un anno, ma non avevamo un minuto libero. Ci alzavamo prestissimo, alle 6 andavamo a messa nella cappella interna (era obbligatorio); alle 6 e 3/4 eravamo già in reparto. Il pranzo si consumava in una grandissima sala e a turno si andava a servire alla tavola del-la direttrice (con lei sedevano anche le diplomate che erano le nostre dirette sorveglianti). La scuola era divisa tra una

Ginnastica di bimbi e allieve

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Pesatura del neonato

parte pratica ed una teorica, c’erano lezioni di anatomia, di igiene, di alimentazione infantile, di pedagogia (segui-vamo i metodi dell’Agazzi) di galateo... Dopo sei mesi c’era un esame pratico e teorico (la pagella semestrale riporta i voti ricevuti per la condotta, l’ordi-ne, la diligenza, il profi tto nello studio, l’assistenza al bambino lattante, l’assistenza al bambi-no divezzo, l’educazione infan-tile, l’economia domestica, il lavoro, il canto, la ginnastica n.d.r.).Dopo sei mesi ti davano lo “speciale”, cioè tu avevi un bambino per conto tuo: dove-vi decidere tutto, dalla visita medica al cambio di dieta (lì i bambini spesso avevano biso-gno di cure particolari per cui al “lattario” c’erano diete molto diverse).Prima della fi ne della scuola ci

portavano al reparto maternità dell’ospedale Santa Chiara e lì dovevamo assistere ai parti, accogliere e, dopo il taglio del cordone ombelicale, medicare e fasciare il bambino.L’anno terminava con un esame fi nale.Quando ho fi nito la scuola, nell’autunno del 1953, avrei voluto andare a Roma (volevo vedere il Papa) e invece la di-rettrice Marchetti mi ha detto: “No, tu non vai a Roma, vai dove ti dico io. Vai a Venezia che lì c’è una buona famiglia di antico stampo”.Era la scuola che ti procurava il posto di lavoro, contrattava lo stipendio ed era sempre la scuola che teneva i contatti con la famiglia durante il servizio. La scuola di Trento era come una famiglia, era come avere una famiglia alle spalle: sapevi che potevi essere ripresa ma

anche protetta.Entrando in servizio presso una famiglia (erano solo le famiglie aristocratiche e facoltose quelle che potevano permettersi una puericultrice) avevi la possi-bilità di provare per un mese prima di decidere. La famiglia poteva anche ri-chiedere la divisa della scuola: noi eravamo come le suore, avevamo un velo blu con un davantino rigido e un cappotto bello, marrone.La scuola addestrava ad avere un comportamento formale secondo le regole del galateo, moralità, discrezione. “Voi do-vete distinguervi dal personale di servizio!” Ci dicevano.E per davvero, diventare pue-ricultrici in quel tempo signi-fi cava una promozione sociale: ci sentivamo qualcuno! (testi-monianza raccolta da Quinto Antonelli).

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Maria GagliardiLiliana Linardi:“Era faticoso lavorare alla macchina”

Operaie dello stabilimento Michelin di Trentoin una foto del 1960

Si sono conosciute in fabbri-ca diventando amiche. Maria Gagliardi e Liliana Linardi en-trarono alla Michelin di Trento a 18 anni, nel 1951. Ne sono uscite, per andare in pensione, 31 anni dopo, nel 1982. La storia del più importante stabilimento industriale del Trentino, chiuso nel 1997 e di cui non rimane più traccia se non nei ricordi di chi c’era, è un po’ anche la loro. Sfogliano attente il numero di “AlteStorie” che parla della Michelin. La fabbrica di via Sanseverino nella quale, all’ini-zio, venivano realizzati i fi lati di cotone per i pneumatici e, in

seguito, i cavetti d’acciaio, era una struttura paternalistica che dava servizi sociali e ricreativi ma voleva mano libera in ter-mini di condizioni di lavoro e retribuzione. La signora Maria ricorda bene quando, nel settembre del ’51, mise per la prima volta un piede al di là del cancello, per le visite mediche. “Mi dissero che ero troppo piccola e che non c’era niente da fare. Mi rivolsi al dirigente e gli chiesi: “Secondo lei pos-sono mangiare solo le persone alte?”. Il giorno dopo ero già alla macchina, operaia, assunta al

reparto G21, prima copiatura del fi lo. Lì sono rimasta fi no alla pensione”. Maria è nata a Napoli ma ha sempre vissuto a Trento, la mamma era di Villazzano e nel 1942 la famiglia, con i sei fi gli, “sfollò” in città. “C’era miseria nel dopoguerra e lavorare alla Michelin voleva dire il posto e uno stipendio sicuri. Toccavo il cielo con un dito al momento dell’assunzione”. L’amica Liliana, orfana di guerra, è invece di Cimone e restava a dormire anche per due settimane di fi la nel dormitorio dello stabilimento.

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“Il 2 aprile 1951 fu il mio primo giorno di lavoro. Riuscii ad entrare come operaia grazie al cavalier Ebranati, pre-sidente dell’Associazione orfani di guerra”, dice. “Pensi che, in un primo momento, non mi pre-sero perché erano venuti a sape-re che lavoravo già nello studio dell’avvocato Vinante. Ma io avevo bisogno di un posto fi sso e il cavalier Ebranati parlò direttamente con il ragionier Dalla Fior della Michelin e, in-somma, fui assunta”. G21, G22, G23 erano i nomi dei reparti nei quali Liliana ha lavorato per più di trent’anni. Da 26 anni anche la fi glia Fran-ca è in fabbrica, ora nello stabili-mento di Spini di Gardolo. Sono donne forti. Dimostrano ricono-scenza nei confronti di chi ha dato loro lavoro ma non dimen-ticano affatto, anzi, rivendicano, le lotte, dure e sacrosante, per i diritti di tutti che dalla fi ne degli anni Sessanta ai primi Settanta hanno fatto di quella fabbrica un terreno innovativo di scontro per la conquista di condizioni di

lavoro e retributive migliori . “Ho sempre scioperato per i nostri diritti, dice la signora Maria, e con me anche Liliana”. “Eravamo iscritte al sindacato metalmeccanico della Cisl di Beppino Mattei, era un uomo che credeva in quello che fa-ceva”. “Era faticoso lavorare alla mac-china, anche se, nel corso del tempo, ti ci affezioni un po’. Faceva un gran caldo, c’era polvere dappertutto e non ci si poteva fermare neanche per andare in bagno o fumarsi una sigaretta. Il controllo, da parte dei capi reparto, era severo. E poi si lavorava a cottimo e il minimo previsto dovevamo garantirlo, se no erano guai”, dicono all’unisono. “Le manifestazioni ce le siamo fatte tutte, abbiamo fermato i camion olandesi che dovevano entrare in fabbrica, siamo anda-te in Provincia con tutti gli altri, e tante altre cose. Quello che non accettavamo - continuano - erano solo i van-dalismi.

Negli anni, risultati positivi ne abbiamo avuti. Nei nostri con-fronti c’è stata tanta solidarietà anche se nel 1974, dopo 400 ore di sciopero, non è andata molto bene”. Ora, Maria e Liliana non solo continuano a vedersi ma vanno ai ritrovi che regolarmen-te la Michelin promuove duran-te le feste per gli ex dipendenti. “Lo sa - dice Maria - quando passo davanti alla Michelin, e vedo che non c’è più nulla, mi viene come un tuffo al cuore. In fondo ho passato lì gli anni migliori della mia vita e non dimentico che quella fabbrica ha dato lavoro e da mangiare a tanta gente. Ma senta, il ‘posto’ della me-moria lo fanno?” “Certo che - aggiunge Liliana - potevano almeno lasciare in piedi il tea-tro, dove ci siamo riuniti tante volte, o un pezzo di capannone, per ricordare. Ma si sa, i soldi…”. Eh sì, il dio Soldo ha sempre distrutto parecchio, da sempre, ma non la memoria, per fortuna (intervista a cura di Paolo Piffer).

Lo stabilimento Michelinalla vigilia della chiusura

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Canada. Il venticinquesimo anniversario di matrimonio di Ferdinando Zanolli e Valeria Furletti(foto archivio Furletti)

Valeria Furletti Zanolli, classe 1915, nativa di Villa Del Monte, raccolse le memorie autobiografi che della propria vita in un diario scritto nel 1987. Edito nel 1998 dalla rivista “Il sommolago” (n. 2), questo testo non rappresenta certamente, come scrive il curatore dell’edizione Quinto Antonelli, né una “scrit-tura in qualche modo testamentaria, né una ‘confessione’”, bensì un’importante “testimonianza storica, culturale, etnografi ca, di interesse più generale”. In questa sede si propone un breve passaggio.

Mio maritto è ritornato dàl bel-gio in estatte nel 1950. In prin-cippio si pensava, che anchio con i fi gli di andare nel Belgio;Mà poi si à cambiatto idea, per-che, quelle miniere erano assai pericolose e in salutevoli sollo pòcchi anni pottevano, resiste-re, molti venivano ammalatti, Còsì e ritornato à casa. Ma lavori non cè nèra, fortuna che sono statte aperte le emi-grazioni per il Canada, E con la buòna ocasione che si aveva lò zio, che erra giù da anni in Canada, le à fatto il ricchiamo à mio maritto. abitavano in Cumberland. In settembre 1951

è partitto per il Canada. e pure à lavorare in minierra del car-bone che pure il zio e due fi gli lavoravano la il terzo fi glio èra mecanico; A cominci[a]tto con là paga meno di un dòllero all’ora. Poi sappeva adopperare il driler che faceva quel lavoro anche in Belgio cosi prendeva alquni centesimi di più. In quel fratem-po ci à fatto il richiamo à noi e siamo arivatto qui in Canada nel 1952 in novembre.Il viaggio è statto non male ma nemeno bène. Però non mi sono alarmata ò messa paura. Sono sempre statta tanto oqupata con

Valeria Furletti Zanolli:“Ma lavori non cè nèra”

i due fi gli, 2 bauli 2 valigge e due borse à mano.La fi glia aveva 4 anni e poco più compia i 5 in dicembre. Il fi glio 3 anni proprio il suo compleanno nella medima ora che la nave à lasciatto il porto di Gènnova.I primi giorni èrano tutti in copertà cantavano suonavano, èrano belle giornatte di sole, Eravamo in 1200 paseggeri in più quelli di servizio.Si andava à mangiare in più turni. in una grandiosa salla dà pranzo, il mangiare èra buòno con botiglie di vino in tavola, I primi giorni la salla èra af-folatta. Arivatti in alto mare nemeno un quarto di persone erano à mangiare. Erano ammalate con mal di mare. Si doveva stare atènti nèi coridoi e nelle scalle che ti rimandavano àdosso.lo sono statta fortunata che non ò mài rimandato guardare i fi gli, pero per alquni giorni ò mangiatto pocco, lodore dei cibbi mi faceva nausea, Molte donne stavano malle e piange-vano dicendo se debbo farre un viaggio còsì non ritorno più in Italia.In maggior parte èrra donne chiamate dai maritti, Vi erano anche ragazze chiamate dai fi danzatti a sposarsi quì in Canada avevano il suo tempo asegnato se non si sposavano dovevano ritornare in Italia,Per loro e stata facile avevano il suo tèmpo libero, andavano al cinema àl bàllo, Io non ò avuto locasione nemeno di vedere queste salle.

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Proprio sulla parete d’ingresso, lungo il corridoio, è appeso un suo ritratto a matita del pittore Mario Disertori, lo zio. E’ stato fatto mentre su Trento cadevano le bombe alleate e veniva col-pito il ponte di San Lorenzo, era il 1944. Poco prima del sa-lotto, dove, tra l’altro, c’è uno splendido Moggioli e un altro suo ritratto, sempre dello zio, è in bella vista il “certifi cato al patriota”, fi rmato dal generale Alexander. Duccia Calderari, 93 anni com-piuti da poco e, nonostante qualche acciacco, una memoria lucida, ci riceve nella bella casa di Trento. Quasi si schermisce, “non so quanto potrò esservi utile”, premette. Di famiglia benestante, imparentata con i Disertori da parte di madre, Beppino era suo cugino, Duccia Calderari non era solo croceros-sina ma anche staffetta partigia-na. Nel dopoguerra, ha donato la casa di via Spalliera, dove vive, al movimento dei Focola-ri, ai quali ha aderito. “L’8 settembre 1943 fu per me una giornata indimenticabile. Ero crocerossina all’ospedale Santa Chiara e si fece a gara per far scappare i soldati italiani ri-coverati, prima che arrivassero i tedeschi”, afferma. “Tutte le mattine, durante la visita nei reparti con i medici, c’erano dei letti vuoti. Sa cosa rispondeva-mo ai dottori che ci chiedevano, pro forma, dove erano i malati? Che erano probabilmente in giardino. Era la nostra parola d’ordine per far capire che erano scappati, almeno quelli che po-tevano muoversi. Quando sono arrivati i tedeschi hanno trovato ben pochi soldati nei loro letti”. Nella sua casa ha ospitato molti personaggi della Resistenza? “Sì, certo. Il mio lavoro era quello dell’accoglienza. Tutti si

Duccia Calderari:“Ero crocerossina all’ospedale Santa Chiara”

rifugiavano in casa mia. Quando Manci fu arrestato, arri-varono qui in sei. C’era trambu-sto e confusione. In questa casa si sentivano al si-curo”. Com’è che si è avvicinata ai personaggi della resistenza trentina? “E’ partito tutto dal-l’ospedale. Lì c’era un nucleo di persone, Pasi, Visentini, ed altri. Io non potevo sopportare l’invasione del mio Paese da parte dei tedeschi. Non mi sono avvicinata alla resistenza per ragioni di carattere politico ma soltanto per fare qualche cosa e ho messo a disposizione la mia casa. I miei genitori, e anch’io, erano sfollati in una casetta sulle pendici del Bondone. Scendevo dalla montagna, andavo in ospe-dale e poi venivo qui a mangia-re. Mi ricordo quando i tedeschi cercarono Carlo Scotoni a casa sua. Non lo trovarono. Di solito si rifugiava nella ca-nonica di Cognola ma, quel giorno, era a casa mia e dopo, con la moglie, partì per Pado-va”. Chi ricorda maggiormente fra tutti quelli che ha ospitato? “Un po’ tutti. Venivano qui per riposarsi. Ascoltavamo musica insieme. Si sentivano tranquilli. Ero legata a loro da un profondo sentimento di amicizia. C’è stato anche un brutto mo-mento quando un frate cappuc-

cino mi disse che girava intorno alla casa ‘un brutto fi guro’”. E Andrea Mascagni, morto po-che settimane fa, l’ha conosciu-to? “Sì, certo. Mi ricordo che feci con lui anche un viaggio da Bolzano a Trento su un camion tedesco. Una persona squisita, un grande amico. Ce ne fossero tanti. Ma tutti, Carlo Scotoni, Franco Bovelacci, Gino Lubich e gli altri erano persone oneste e integre moralmente”. Quando le si chiede della sua attività di staffetta, minimizza. “Ma sì, mi hanno mandata in giro alcune volte. A Cavalese, dove sulle monta-gne attorno c’erano i nostri, e dovevo portare un messaggio, una parola d’ordine, in farma-cia. Il viaggio di ritorno me lo sono fatto in parte a piedi perché avevano bombardato la linea ferroviaria. Poi ero andata a Padova a prendere dei volan-tini di Concetto Marchesi, con-segnatimi da Scotoni e Bove-lacci, nei quali era contenuto un appello. I volantini, che dovevo distribuire a Trento, dicevano che tutti erano chiamati a per-seguire un fi ne unico, lasciando da parte le appartenenze partiti-che. Tutte le settimane andavo a Bolzano, spesso in bicicletta, per avere notizie dei carcerati, tra i quali Gino Lubich”. Cosa ricorda dei giorni seguenti la liberazione? “C’erano molte conferenze pubbliche organiz-zate dai partiti. Capitai ad un incontro dei comunisti alla Fi-larmonica. Stavo in fondo alla sala, non avevo voglia di essere riconosciuta. Invece lo fui e mi presentarono a tutti con queste parole: ‘E’ una nostra compa-gna. Non appartiene al nostro partito ma ha lavorato nelle no-stre fi la’. Fu un atteggiamento leale, che apprezzai molto” (in-tervista a cura di Paolo Piffer).

Duccia Calderari in una foto degli anni quaranta allegata alla scheda della “Commissione provinciale Patrioti” attiva nell’imme-diato secondo dopoguerra

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Prijedor Bosnia Erzegovina. Ljeva Obala.La cooperativa si chiama Bio Food ed è nata all’interno dell’Associazione di donne bosniaco-musulmane Mostovi Priateljstva (Ponti di Amici-

zia); produce e commercializza ortaggi da ormai tre anni. Gesti-sce quattromila metri quadrati di serre ed un numero sempre maggiore di produttori della zona le conferisce i propri pro-dotti; il tutto è commercializza-to prevalentemente in Bosnia Erzegovina ma l’obiettivo è quello di esportare in Croazia, Slovenia ed Unione Europea, non appena sarà ottenuta la cer-tifi cazione “biologico”.Rappresenta una delle realtà di produzione agricola più impor-tante dell’area di Prijedor dove prima della guerra l’industria-lizzazione, concentrata attorno a quattro realtà produttive, oggi ferme, che da sole occupavano diecimila dipendenti, aveva avuto come effetto l’abbandono dell’agricoltura e delle sviluppo

delle tecnologie ad essa connes-se. Nel contesto di una Bosnia Erzegovina, che, nonostante sia una regione ricca di acqua e di terra fertile, si trova ad impor-tare oggi i due terzi di ciò che consuma!

Nella cooperativa Bio Food lavorano circa quindici don-ne, tutte bosniaco-musulmane: sono le «manager», le respon-sabili di produzione, le respon-sabili di vendita, le socie e tra loro anche il presidente ed i membri del Consiglio di ammi-nistrazione. Lavorano molto. Studiano ed imparano dagli esperti... e nel-l’inverno del 2003 sono riuscite a vendere dodici tonnellate di insalata sul mercato (serbo) di Banja Luka!Tra loro si contano soprattutto vedove. La guerra che ha scon-volto la Bosnia Erzegovina ha portato loro via i mariti, i fratel-li i padri e le ha rese profughe per dieci anni. Era il luglio del 1992 quando la Ljeva Obala, sobborgo bosniaco-musulma-

no di Prijedor in cui oggi sono rientrate, è stato teatro, tra i più tragici, di una delle tante azioni di pulizia etnica condotte dalle forze militari e paramilitari ser-be contro la popolazione civile non serba. Sono scappate nei boschi con l’angoscia nel cuore ed i bam-bini per mano per arrivare a Travnik e da qui nei campi di raccolta profughi della Croazia e della Slovenia per essere poi smistate in uno dei paesi del-l’Unione Europea: Germania, Austria, Svizzera, Svezia, Nor-vegia, Italia...Con grande dignità e forza, aiu-tandosi come tra sorelle, hanno affrontato queste terribili diffi -coltà: erano sì sole, ma giovani madri con un futuro da garanti-re a se stesse ed ai propri fi gli. Finita la guerra e non appena il contesto lo ha reso possibile, sono rientrate nella Prijedor che le aveva brutalmente cacciate. Tremanti, ma forti del proprio coraggio e della propria dignità di vittime innocenti sono arriva-te in città per affrontare i volti e i luoghi dai quali aveva avuto inizio il loro dramma. Non con sentimenti di odio e di vendetta, ma fi duciose nel-la giustizia e consapevoli che quella della coesistenza e della riconciliazione, e quindi del perdono, è l’unica, anche se dif-fi cile, via per dare un futuro alla Bosnia Erzegovina (e probabil-mente all’umanità). La soluzione al problema del-l’autosostentamento l’hanno cercata in se stesse e nella pro-pria capacità di lavorare ed im-parare, ma soprattutto di asso-ciarsi per aiutarsi e sostenersi a vicenda come nei momenti dif-fi cili della guerra; hanno costi-tuito un’associazione, dedicata all’amicizia, che crea ponti: oggi sono imprenditrici e capo-

Donne di Prijedordi Annalisa Tomasi

Serra “Mostovi Priatelijstva”

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zare il loro progetto. Tra queste l’Associazione Progetto Prije-dor di Trento ([email protected]) che dal 1996 sostie-ne e promuove il rientro, la ri-conciliazione, lo sviluppo loca-le e costruisce ponti tra Prijedor e la comunità trentina ad altre regioni d’Europa con l’apertu-ra in particolare, avvenuta nel 2000, dell’Agenzia della demo-

crazia locale in collaborazione con il Consiglio d’Europa. Una nota di merito particolare va alle molte donne del Sindacato pensionati italiani della CGIL, sia nazionale che delle regioni Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Puglia, che hanno saputo costruire e mantenere con loro un forte legame di soli-darietà ed amicizia.

In ricordo di Maria Elisabetta VindimianLa redazione “Altrestorie” e la Direzione del Museo sto-rico in Trento aderiscono all’idea lanciata dall’Associa-zione Progetto Prijedor per intitolare una borsa di studio per uno studente di Agraria di Prijedor a Maria Elisabetta Vindimian: una prima iniziativa per tenerci vicino il sor-riso e la tenacia di questa donna straordinaria. Chi inten-desse aderire al progetto può versare un contributo sul conto corrente dell’Associazione Progetto Prijedor: Cassa Rurale di Aldeno e Cadine coordinate bancarie: CIN-A/ABI-08013/CAB-01802/cc. 000050351944

famiglia in grado di trainare con sé un’area, la Ljeva Obala, che grazie a loro sta trovando delle soluzioni al problema del lavoro e testimoniano a quella Prijedor che le aveva cacciate che insie-me è possibile ricostruire per il futuro. Molte associazioni europee hanno aiutato e continuano ad aiutare queste donne a realiz-

Serra “Mostovi Priatelijstva”

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Non le piace essere chiamata poetessa. Preferisce ricono-scersi per quello che è: una maestra a cui piace scrivere poesie e racconti. E’ giusto da 13 anni che Irene Suarez, una donna di origini piemontesi, è emigrata dal-l’Argentina, da Rosario, dove è nata. Ora vive a Trento con la fa-miglia, sta preparando la tesi di laurea, in scienze della for-mazione, e insegna a Pergine e Cembra ai ragazzi stranieri. “Avevo 14 anni quando ho scritto il primo racconto. Poi, la Società argentina degli scrittori, che era molto conser-vatrice e di diffi cile accesso, mi pubblicò alcune poesie. In seguito ho continuato e vin-to anche alcuni premi sia in Italia che in Argentina. Ora non scrivo da un po’. Penso a laurearmi”. Come defi nirebbe il suo modo di scrivere poesie? “E’ molto diffi cile riuscire a dirlo perché cambia nel tempo. Il “motore” che ti fa scrivere in un modo

a 15 anni è diverso da quello con il quale ti esprimi a 20 o a 40. Se proprio devo cercare un fi lo conduttore questo è la ‘rinun-cia’”. Ovvero? “Cioè l’impotenza di fronte alle cose che ti stanno davanti e non cambiano come vorresti. La consapevolezza che noi cittadini non possiamo fare molto”. Cosa le piacerebbe potesse cambiare e rimane invece sempre uguale? “La povertà e la follia della guerra. Non cambia la politica degli Stati Uniti verso i nostri poveri Paesi, sempre più impo-veriti. Non cambia questa globalizzazione, che non mi piace”. Che ricordo ha dell’Argentina? “E’ il ricordo dell’emigrante fi ltrato dalla soggettività e dal-la nostalgia. E’ un ricordo che, passando il tempo, è molto diffi cile ricostruire. L’Argentina della mia adole-scenza era l’Argentina peri-colosa, quella della dittatura

militare. Era l’Argentina nella quale mia mamma mi diceva sem-pre: “Mi raccomando non uscire senza documenti, mi raccomando torna presto, mi raccomando le amicizie, mi raccomando le letture”. Pensi che anche a Trento, se mi ac-corgo di essere uscita di casa senza documenti, torno a casa a prenderli. E poi c’è l’Argentina dell’83, della democrazia, della par-tecipazione, dei sogni, di un’idea di futuro. Adesso mi è diffi cile parlare dell’Argentina di oggi. Sono qui da troppi anni. Quando ci si allontana geografi camente da un posto per tanto tempo è diffi cile es-sere oggettivi”. Quali sono i poeti che sente a lei più vicini, i suoi punti di riferimento? “Senz’altro Pablo Neruda, in lui c’è tanta denuncia, e poi Garcia Lorca ma anche Alfonsina Storni, argentina nata in Svizzera, femminista, poetessa dei primi del Novecento, e poi Eugenio Montale. Sa, mi piacerebbe riuscire a leggere tutti i poe-ti nella loro lingua. E’ tutta un’altra cosa rispetto alle tra-duzioni. E’ un sogno”. Si sente più italiana o più argentina? “Non mi sento ita-liana, anche se sono cittadina italiana. Sono cittadina italiana nel mo-mento in cui posso decidere qualche cosa, quando posso lamentarmi o modifi care aspetti della realtà che mi sta intorno, quando posso parte-cipare. Mi dispiace molto, ad

Irene Suarez:“Mi sento un’insegnante”

Irene Suarez

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ANTE DIEMdi Irene Suarez

(Antes del día)Argentina.Tercer Mundo.24 marzo 1976.Argentina.Mi madre me sacude.La mañana es cálida aún,,el verano no terminó de irse.Es temprano (creo) yel sol no salió.Mi madre me sacude y me despierta.Golpe de Estado.- Madre, es peligroso?- Hija, no lo sé.Tercer Mundo.

Europa.Primer Mundo.1996. Fin del sigloXenofobia.Racismo.Intolerancia.- Hija, es peligroso?- Madre, no lo sé.Primer Mundo.

(Prima del giorno)Argentina. Terzo Mondo.24 marzo 1976. Argentina. Mia madre mi scuote.La mattina è ancora tiepida,l’estate non ha fi nito di andarsene.È presto (credo) eil sole non è sorto.Mia madre mi scuote e mi sveglia.Colpo di Stato.- Madre, è pericoloso?- Figlia, non lo so.Terzo Mondo.

Europa.Primo Mondo.1996. Fine secolo.Xenofobia.Razzismo.Intolleranza.- Figlia, è pericoloso?- Madre, non lo so.Primo Mondo.-

ALTRESTORIE - Periodico di informazione. Direttore responsabile: Sergio BenvenutiComitato di redazione: Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Paolo Piffer, Rodolfo Taiani

Hanno collaborato: Quinto Antonelli, Livio Cristofolini, Annalisa Tomasi. Periodico qua-drimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132, ISSN-1720-6812. Progetto grafi co: Grafi comp - Pergine (TN)

Per ricevere la rivista o gli arretrati, fi no ad esaurimento, inoltrare richiesta al Museo storico in Trento.

Via Torre d�Augusto, 4138100 TRENTOTel. 0461.230482fax 0461.237418www.museostorico.ite-mail:[email protected]

esempio, che questo Paese abbia un presidente come Ber-lusconi, o che i medici debba-no fare sciopero e fermare gli ospedali. Nello stesso tempo, dopo 13 anni di Italia, non mi sento neanche profondamente ar-gentina. Diciamo che mi sento

più latinoamericana che euro-pea. E’ come una condizione “di mezzo”. Quando sono qui ho nostalgia dell’Argentina. Quando vado in Argentina ce l’ho dell’Italia”. Perché non le piace essere defi nita una poetessa? “Perché non ho mai pensato al mio fu-

turo in funzione della poesia. Io mi sento un’insegnante. E’ il mio contributo per cambiare il sistema, e lo faccio lavoran-do nella scuola. Ripassi tra 20 anni. Chissà, magari allora sarò diventata una poetessa” (intervista a cura di Paolo Piffer).

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Vite «al femminile»Segnaliamo i titoli di alcune opere edite dal Mu-seo storico in Trento nelle quali sono raccolte testimonianze dirette di vite «al femminile»: donne intellettuali, ma anche donne del popolo, il cui profi lo è affi dato all’analisi e al ricor-do di alcuni studiosi o semplicemen-te al racconto di diari ed epistolari dai quali emerge un ricco mondo di impegni ideali, valori e sentimenti.In ricordo di Bice Rizzi, pagine 110, 1989 (numero monografi co del «Bollettino del Museo trentino del Risorgimento»), con scritti di: Ser-gio Benvenuti, Giuseppe Colangelo, Renzo Francescotti, Renzo Monteleone, Cesaria Pancheri, Elisabetta Postal, € 10.00;Ernesta Bittanti Battisti: a quarant’anni dalla morte, pagine 285, 1997 (numero monografi co di «Archivio trentino»), scritti di: Quinto Antonelli, Sergio Benvenuti, Vincenzo Calì, Giuseppe Co-langelo, Gianni Faustini, Giuseppe Ferrandi, Sara Ferrari, Antonino Radice, Bice Rizzi e Walter Micheli, € 20,00;Cesare Battisti, Ernesta Bittanti: addio mio caro

Trentino: carteggio (luglio 1914-maggio 1915) a cura di Vincenzo Calì, Pagine 196, 1984, € 11,40;Salvemini e i Battisti: carteggio 1894-1957, a cura di Vincenzo Calì, pagine 344, 1987 (Fonti Archivio Battisti, 1), € 14,30;Mi chiamerò Serena, di Ines Pisoni, pagine 383, 2000, € 15,60; Una vita ai Morganti, di Annetta Rech, pagine 187, 1991, € 11,40;Valeria Bais, Amabile Maria Broz, Giuseppina Cattoi, Giuseppina Fi-lippi Manfredi, Adelia Parisi Bruse-ghini, Luigia Senter Dalbosco, a cura

di Quinto Antonelli, Diego Leoni, Maria Beatrice Marzani, Giorgia Pontalti, «Scritture di guerra», pagine 221, 1996, € 7,80;Antonietta Angela Bonatti Procura, Giorgina Brocchi, Elena Caracristi, Corina Corradi, Me-lania Moiola, Cecilia Rizzi Pizzini, Virginia Tran-quillini, Amelia Vivaldelli, Ines Zanghielli, a cura di Quinto Antonelli, Diego Leoni, Aldo Miorelli, Giorgia Pontalti, «Scritture di guerra», pagine 315, 1996, € 7,80.

AGENDA

La testimonianza di un protagonistaIl Museo storico in Trento inaugura la nuova col-lana «Progetto memoria» con la video-intervista rilasciata da Vittorio Gozzer nell’estate del 1999, alcuni mesi prima di morire. Nato a Mezzoco-rona nel 1918, Vittorio Gozzer, fu arruolato nel 1939 e assegnato nel 1943 in Croazia, dove fu fatto prigioniero dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre. Riuscito a fuggire, si riunì a Roma al fratello Giuseppe ed assieme si aggregarono a una

Il Museo storico in Trento, in collaborazione con l’Università della terza età e del tempo disponibi-le, ha animato tra il novembre 2003 e il febbraio 2004, grazie al contributo del proprio personale

formazione partigiana. Titolo: Vittorio GozzerRegia: Lorenzo PevarelloConsulenza storica: Giuseppe FerrandiRicerca materiali d’archivio: Riccardo PegorettiMusiche: Emilio GalanteProduttore esecutivo: Patrizia MarchesoniDurata: 50’Prezzo: euro 21,50 (disponibile in VHS e DVD)

e dei suoi collaboratori, numerosi corsi di storia contemporanea e storia locale nelle diversi sedi di Cavalese, Pergine Valsugana, Lavis, Pozza di Fassa, Lavarone e Volano.

La collaborazione con l’Università della terza età

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Alcide De Gasperi e la municipalità di TrentoIn occasione del cinquantesimo anniversario dalla scomparsa dello statista, numerose sono le iniziative promosse o sostenute dalla Provincia autonoma di Trento. Tra queste, il Museo storico propone un convegno sul ruolo e la fi gura di De Gasperi nei suoi rapporti con la municipalità di Trento in particolare nel pe-riodo precedente la prima guerra mondiale quan-do svolse il mandato di Consigliere comunale, di Deputato al Parlamento di Vienna e alla Dieta di Innsbruck. Verranno messe a fuoco le prime esperienze poli-tiche del futuro statista che a Trento si era formato anche come giornalista dirigendo il quotidiano

Giorno della memoria, 27 gennaio 2004Anche quest’anno, nell’anniversario dell’abbatti-mento dei cancelli di Auschwitz, della fi ne della Shoah e delle leggi razziali, nonché nel ricordo dei cittadini ebrei e italiani che hanno subìto la

deportazione, la prigionia, la morte, il Museo storico in Trento in collaborazione con il Comune di Trento, ha proposto alcune iniziative che hanno avuto un grande riscontro di pubblico. La celebrazione uffi ciale a Palazzo Geremia ha vis-suto, oltre al discorso del Presidente del Consiglio Comunale Marco dalla Fior e alle letture di Quin-to Antonelli, un momento molto importante quando la

I campi di sterminio nazistiIl Museo storico in Trento e il Gruppo di ricerca per la storia regionale Arbeitsgruppe regional-geschichte di Bolzano organizzano un doppio appuntamento a Bolzano e a Trento per presentare il volume a cura di Giovanna D’Amico e Brunello Mantelli, I campi di sterminio nazisti: storia, me-moria, storiografi a (Milano, Angeli, 2003). Il primo incontro si svolgerà a Bolzano il 24 mar-zo 2004 con inizio alle 18,00 presso l’Università

cattolico Il Trentino e, nel dopoguerra, Il Nuovo Trentino.Sabato 3 aprile 2004, a Trento, presso la Sala di Rappresentanza del Comune di Trento a Palazzo Geremia in via Belenzani, con inzio ad ore 9.00.Relatori: Lorenzo Bedeschi, Gianni Faustini, Giuseppe Ferrandi, Maria Garbari, Günther Pallaver, Fa-brizio Rasera.Commemorazione uffi ciale: Alberto Pacher, Sindaco di Trento. Ore 12.30:Cerimonia di scopertura a Palazzo Thun di una tar-ga commemorativa dedicata ad Alcide De Gasperi.

AGENDA

signora Gabriella Betta, vedova di Aldo Pantozzi, ha consegnato nelle mani del sindaco, in qualità di presidente del Museo storico, la casacca indossata dal marito durante l’internamento a Mauthausen. Il Sindaco Alberto Pacher ha ringraziato la Si-gnora e la famiglia del dono, sottolineando, in un intervento fuori programma, l’importante signifi -cato civile di un simile gesto. Alla sera il Museo storico, in collaborazione con Arcigay e Arcilesbica del Trentino, ha presentato al Teatro Cuminetti due documentari della regista Gabriella Romano sulla persecuzione degli omo-sessuali durante il fascismo.Il 3 febbraio, per le scuole superiori, sono stati rappresentati due spettacoli «Gente come uno» e «Patria potestà» prodotti dalla compagnia Alma Rosè che hanno proposto una rifl essione molto ef-fi cace ed intensa sulle persecuzioni della dittatura in Argentina.

di Bolzano in via Sarnesi, 1, sala A101. Vi parte-ciperanno oltre ai curatori anche Barbara Pfeifer e Cinzia Villani. Il secondo appuntamento, che vede la partecipazione anche di Gustavo Corni, è fi ssato invece a Trento per il giorno successivo, 25 marzo 2004, con inizio alle ore 17,30, presso lo spazio incontri del Museo storico in Trento, in via Torre d’Augusto, 41.

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Fotolibro, formato 32x24, 648 pagine, confezione in brossura cucita cartonata con cofanetto, 1260 fotografi e di cui 450 di grande formato Prezzo E 70,00

Volume in vendita presso le librerie, il Museo storico in Trento e il Museo storico italiano della guerra di Rovereto