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ALMANACCO ROMANO STORIA DELLA «RELIGIONE DELL’ARTE» # www.ilcovile.it f

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ALMANACCO ROMANO

S T O R I A D E L L A «R E L I G I O N E

D E L L’ A R T E »

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I TESTI DEL COVILE6

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#STORIA DELLA «RE-LIGIONE DELL’ARTE»DI ALMANACCO ROMA-NO. SULLE TRACCE DEL-L’«IMAGE INTERDITE» DIBESANÇON, UN DISCORSOCHE A SUA VOLTA RIENTRANEL PIÙ VASTO TEMA DELLAS T O R I A D E L L’ I C O N O C L A -STIA E DELL’ICONDULIA. #

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STAMPATO IN FIRENZE PRESSOIL COVILE NELL’AGOSTO 2013.

P R I M A E D I Z I O N E O N L I N E N E L B L O G ALMANACCO ROMANO LUGLIO 2009.

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L'ARTE COME SUCCEDANEODELLA RELIGIONE.

~ UNO SCAMBIO DI RUOLI NEL SETTECENTO TEISTA ELIBERTINO: IL SACERDOTE VIENE ALLONTANATO DALLASCENA PUBBLICA, AL SUO POSTO ENTRA L’ARTISTA, NONPIÙ IDEATORE ED ESECUTORE EGREGIO DI UN’OPERAESTETICA, BENSÌ MEDIATORE TRA GLI UOMINI E L’ASSO-

LUTO. ~

L termine del XVIII secolo, Novalistracciava un bilancio e avanzava unacongettura metafisica in un fram-

mento pubblicato su Athenäum (1799):A

Poeti e sacerdoti erano in origine una cosasola, e soltanto i tempi successivi li hannoseparati. Il vero poeta però è sempre anchesacerdote, così come il sacerdote autenticoè sempre rimasto poeta. Ora perché mai

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non dovrebbe l’età futura ripristinare questoantico stato di cose?.

Fantasiosa ricostruzione storica, confusa esofferta constatazione della scissione moderna,romantica profezia della ricomposizione di unsupposto stato di cose originario, più pagano —andrebbe aggiunto — che cristiano. Dove maic’era stato infatti un sacerdote poeta? Forse nel-l’antico Egitto, di certo in molte immagini deifilosofi presocratici, non certamente nel cristia-nesimo, anzi il cattolicesimo, riecheggiando lareligio romana, aveva compresso ogni misticismo,evitando le figure profetiche, assegnando al sa-cerdote la consapevolezza e la lucidità, senza si-tuazioni estatiche: si consacrano uomini che han-no studiato il diritto canonico, non degli ispirati(il carisma casomai scenderà dopo). Però quel-l’annuncio che il «ripristino» dell’artista-sacer-dote sia alle porte coglie nel segno uno dei feno-meni principali della modernità e sul quale gli in-numerevoli discorsi intorno alla secolarizzazionesono scivolati via senza trattenere una riflessionespecifica alla storia dell’arte contemporanea. Laleggenda della liquidazione di ogni arte religiosa— per parafrasare il titolo di una celebre operaschmittiana — non è stata mai confutata.

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Il Settecento teista e libertino volge al termi-ne, affiorano qua e là le prime ipotesi della nega-zione atea, ed ecco il geniale romantico rivelareuno scambio di ruoli: il sacerdote viene allonta-nato dalla scena pubblica, al suo posto entral’artista, non più ideatore ed esecutore egregio diun’opera estetica, bensì mediatore tra gli uominie l’Assoluto. Calano i credenti nelle promessecristiane ma crescono i fedeli della nuova religio-ne dell’arte. A essa spetta la redenzione, non tan-to, anzi non più, la cura delle forme, la creazionedella bellezza che accarezza i sensi, ma una pre-suntuosissima promessa del Paradiso in terra. IlBeato Angelico o Raffaello o Velázquez non ga-rantivano il Cielo, non pretendevano di sostituirele loro opere ai piaceri dell’aldilà, né tantomenodi mettersi al posto dei sacerdoti e dei vescovi.L’arte, la letteratura o la filosofia stavano accantoalla fede cristiana, potevano essere sublimi godi-menti dell’aldiqua che difficilmente entravano incollisione con le faccende divine, casomai ne era-no un anticipo, una allegoria. Ma l’ultima gildaavanguardistica del Novecento si presenta comeuna setta di redenti e annuncia una sua propriasalvezza al pubblico che si vorrà schierare conessa. L’arte come gnosi, come spazio dove è an-

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cora legittimo affrontare il tema salvifico, anchese sempre più denudato delle coloriture metafisi-che e ridotto a disperato gioco.

Spesso questa onnipotente arte si vuole anchesostituire alla politica, ed è la lunga storia dell’en-gagement, dai nazionalismi romantici ai ribellismicomunisti e anarchici. Nei recenti decenni, tutta-via, la politica subisce la medesima degradazioneche toccò in sorte alla religione rivelata, ragionper cui l’arte si trova nella straordinaria situazio-ne di ereditare tutto, dagli spiritualismi d’ognisorta all’autorità del potere, dalla verità del dog-ma alla forza di legittimizzazione con la qualerende lecito ogni gesto, al carisma che transu-stanzia le cose. Vi corrispondono altrettante cor-renti artistiche degli ultimi due secoli, talvoltapiù di una per ciascuno di questi beni ereditati oforzatamente avocati dalla religione e dalla poli-tica, che così appaiono estinte.

Con la nascita dei primi gruppi organizzati,dei primi squadroni dell’avanguardia, grossomodo con quel Lukasbund (o Nazareni, come lichiamavano i popolani romani) che si ricollega ai‹primitivismi› quattrocenteschi per rilanciare lafede cristiana aggredita dalla modernità — quasispettasse all’arte rialzare le bandiere della Chiesa

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di Roma —, fino al Wiener Aktionismus che, ri-correndo perfino ai paramenti liturgici cattolici,celebra sacrifici più cruenti di quelli dei misteripagani, il collettivo artistico tende all’anonimato,vicino alla comunità di monaci, come sognavaWackenroder, collettivo di «operai di Dio» — se-condo una definizione di Mario Praz per i Luka-sbrüder — che saltano il tramite religioso e co-struiscono sul terreno estetico la casa della sal-vezza. Diretti messaggeri celesti, quasi angeli.Ma nessuno li ha investiti di qualcosa né li ha ini-ziati: da soli, con un talento via via meno dimo-strabile, soltanto per volontà artistica e, talvolta,per conferma di un confratello, di un critico, diun mallevadore appartenente alla medesima settacioè, si autoproclamano artisti e definiscono arti-stiche le loro opere. Viene a mancare il fondamen-to di una estetica precettistica, oggettiva, la peri-zia tecnica costatabile, la rappresentazione tradi-zionale di un oggetto. La stessa estetica diventainvenzione artistica, soggettiva come tutto il re-sto.

Eppure, nonostante un secolo di sociologismi,a parte pochissime eccezioni — per esempio,quella luminosa di Hans Sedlmayr —, quasi nessu-no ha tenuto a mettere in rilievo come l’arte mo-

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derna sia sorta sullo sfondo dell’ateismo, mentresi sono sprecate le analisi sulle connotazioni so-ciali delle arti del passato, che sarebbero statecondizionate dal feudalesimo o dall’imperiali-smo. Qui però si tratta di questioni ben più cru-ciali delle coloriture sociali, si sta infatti toccan-do il cuore dell’opera d’arte, il suo carattere am-biguamente metafisico per cui un quadro che è iltrionfo della materia e del piacere sensuale rivelaal contempo un mondo nascosto, svelando qual-cos’altro sia pure per una visione fugace. Allora,il venire a mancare l’ordinato universo gerarchi-co, dove Dio è il sovrano e gli angeli i suoi messiluminosi, in un mondo oscuro che ha bisogno vi-tale della luce celeste e che si pasce di ogni siapur approssimativa apparizione, produce un seriosquilibrio del quadro o della scultura. Ricacciatanella pura materialità, animata soltanto dall’in-gegnosità esasperata dell’autore, che rasenta d’o-ra in poi l’esercizio mentale funambolico, l’operad’arte nell’epoca dell’ateismo cambia il suo sta-tuto e trasforma pian piano anche i suoi caratterimateriali. La bella pittura plastica diviene pom-pieristica decorazione mentre la nuova arte degli‹operai di Dio› si vuole sempre ascetica, gotica,primitiva, schiacciata, livida, dissonante, malin-

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conica, insoddisfatta. L’infelicità diventa la cifradell’avanguardia, anche quando si presenta ludicae scherzosa, nel migliore dei casi, Abrgrund-glück,felicità d’abisso, come chiude un verso GottfriedBenn. Del resto,

non c’è arte se non c’è incarnazione, e in checosa del resto si incarnerebbe se non nel-l’immagine dell’uomo e in quella del mondoquale si è rivelata all’uomo?

diceva il russo Weidlé.Ci si conforta con un luogo comune: in tempi

angosciosi l’arte non può che essere angosciosa,teoria dello specchio nero, smentita però da se-coli di storia dell’arte che in periodi travagliatis-simi e inquieti seppe offrire una festa per gli oc-chi e per lo spirito, basti pensare al Rinascimentoitaliano. La storia dell’arte dell’Otto-Novecentoè — salvo miracolose epifanie — quaresimale,mortificante, perché sembra chiedere sempre allospettatore una prova iniziatica per accedere allasalvezza di cui l’artista è il sacerdote dispensato-re. Novalis ha visto giusto, si può provare a rileg-gere le principali correnti moderne alla luce dellasua profezia. Oggi, nelle tenebre, avanza a tasto-ni una umanità che ha perduto le mète, le speran-ze, i conforti sacramentali e perfino quelli simbo-

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lici della antica arte; vive nella bruttezza elevata asistema dalla industrializzazione e vagheggia ilbello come in nessuna altra epoca mai, perché laparentesi estetica permette ancora una fuoriusci-ta provvisoria, e forse illusoria, dall’inferno diuna vita segnata dalla morte. Disposta a lasciarsiirretire dalle più sottili trovate e a giocarsi l’ani-ma per degli scontati calembours metafisici, quellapovera umanità si incammina in interminabilipellegrinaggi verso tutti i luoghi dove aleggiauna parvenza d’arte, anche se sotto forma di pa-rodia della bellezza. Nostalgia dell’Assoluto, di-cono i sociologi. Delusa, ahimè.

Avanguardia delle avanguardie fu la gilda, me-dioevaleggiante e volta al passato, dei Nazareni.Sotto l’incalzare della modernità, nel pieno delleguerre napoleoniche, son loro che per primi siorganizzano in reparti d’assalto, ricorrono allemetafore militari, annullano l’individualità arti-stica nel gioco di squadra, impongono uno stilepittorico di gruppo, delle tecniche ‹ideologiche›(l’affresco, per esempio), i manifesti con cui lan-ciare le proprie battaglie. Si tratta infatti diun’arte che concepisce dei nemici mortali: chi ècontro di noi, diranno i pii pittori, chi non con-divide il nostro progetto salvifico, è dannato.

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Così corrotta e dannata sarà tutta l’arte che nonsi mette al servizio di una visione del mondo: ilcattolicesimo prerinascimentale per il Lukasbundcome la modernità con un’anima per il Futuri-smo. Ma i Nazareni non si limitano a intrapren-dere per primi queste guerre estetiche della mo-dernità, fondano l’avanguardia come ordine reli-gioso, carattere che resterà impresso a ogni cor-rente che faccia tabula rasa dell’arte prima di lei eaccanto a lei, anche di quelle che si ispirano aprincipi del tutto atei. Perché gli avanguardistisono monaci di una religione dell’arte che siafferma quando il cristianesimo sembra subire ipiù duri colpi della storia. Non è un caso allorache proprio nella Roma cattolica, dove surretti-ziamente (e inconsapevolmente), i Lukasbrüderintroducono questa religione dell’arte, appaianole prime icone di un simile culto. Il primitivismodei neoquattrocenteschi diventa arma contro lastoria, volontà di percorrere al contrario l’umanastoria (così come altri, più tardi, tenteranno diaccelerarla in avanti), ma il revival nasconde ilnuovo, nulla forse più anticattolico dell’entusia-smo di questi pittori romantici che pensano direinventare la tradizione a loro piacimento, checonfondono Novalis con i Padri della Chiesa e

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Raffaello con i santi. C’è chi affresca un paradisoincantato sulle orme del Beato Angelico, ma nel-la gloria degli angeli e dei santi colloca pittori epoeti. I nuovi sacerdoti dell’Assoluto spiritualiz-zato provano a imporsi alla devozione dei fedeli.

Più tardi l’intuizione di Novalis viene tradottain filosofia da Schelling: religione che si trasfor-ma in arte. Hegel ne trarrà le conseguenze: Asso-luto che si rivela nella filosofia, morte dell’arte.Allora in molti si affanneranno su tale annunciomacabro, ricamandoci magari fantasiose utopie.Appena una stagione precedente l’altra terribilenotizia della ‹morte di Dio›. Comunque, le prin-cipali teorie su questo tema, le metamorfosi del-l’arte, vengono elaborate dalla cultura tedesca,poco esperta, almeno durante lunghi secoli, inquestioni di belle forme, e tale penuria di formeviene compensata con spiritualità e concettualismo,due capisaldi dell’attività estetica moderna, men-tre la bellezza diventa argomento tabù, quasi ri-membrandola si evocasse l’antico cattolicesimo —che brillava come sostanza celeste della grandearte, e così la vide ancora Novalis —, cattolicesi-mo sul quale le teorie hegeliane, luterane, sem-brano trionfare.

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Giunge infine Nietzsche e ne trae con decisio-ne le conclusioni:

la musica, con un suo posto a parte rispettoalle altre arti, l’arte indipendente in sé, chenon già, come queste, offre riproduzioni dellafenomenalità, ma piuttosto parla la linguadella volontà medesima, cavandola immedia-tamente dall’«abisso» come la sua più vera,più originaria e più diretta rivelazione. Conquesto eccezionale potenziamento di valoredella musica, quale sembrava scaturire dallafilosofia di Schopenhauer, anche il musicistacrebbe enormemente di valore e diventò or-mai un oracolo, un sacerdote, una specie diportavoce dell’«in sé» delle cose, un telefonodell’al di là — da allora in poi non parlò sol-tanto di musica questo ventriloquo di Dio —parlò di metafisica… .1

Le arti un tempo figurative impararono a piegar-si davanti alla musica, abolirono la figura e si fe-cero sue ancelle. Così divennero tutte telefonidell’aldilà, mentre folle di artisti si spacciavanoper ventriloqui di Dio.

Dirà un novecentesco, lo scrittore spagnoloJosé Bergamin:

1 Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift.

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Se, per esempio, ci ricordiamo delle correntipiù significative della pittura, cominciandoda quella religiosa, che naturalmente non èuna religione della pittura, ma al contrariouna pittura della religione — una pitturateatrale della religione: una teatralità o po-polarità religiosa —, per arrivare al cubismoche corre il rischio di trasformarsi in una re-ligione razionale della pittura — o almeno inuna morale religiosa del dipingere —, saràfacile mettere in evidenza in ogni pittore unamano felice o infelice nel suo modo naturaledella pittura e prendere il coraggio a duemani per vedere quello che ogni pittura ha diriflesso e di trasparenza, di simulazione tea-trale, di autentico simulacro, di idolatria e diverità, di invenzione o di creazione poetica.2

Era insomma scontata la falsità dell’arte, anchequando illustrava la verità evangelica, e non am-biva a sostituirsi a quella verità. La moralistica ri-cerca dell’autentico (sempre contra la corruzione,gli inganni, dell’arte bella) si impone, dal movi-mento tedesco dei pittori romantici in poi, di-ventando il Leitmotiv di tutte le avanguardie.

2 «La importancia del demonio y otras cosas sin importancia» inLos cuatros vientos Madrid, 1933.

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Allora, di fronte alle più allucinate immagini eanche alla distruzione allucinante delle immagini,ai desolanti procedimenti mentali che sostitui-scono la sensuale imagerie di un tempo, ci si ripeteche solo quest’arte negativa dà corpo alla dispe-razione contemporanea, scambiando la causa perl’effetto. Tra i pochi invece a ricordare comel’arte possa essere un freno al nichilismo contem-poraneo piuttosto che una sua eco — senza perquesto risultare puerilmente consolatoria —, Ern-st Jünger ammoniva negli anni Trenta:

In una realtà come quella odierna, dove lavita di milioni di uomini è dominata dalleoperazioni di congegni automatici e dove leforme si somigliano come in un salone deglispecchi, la responsabilità dell’artista è parti-colarmente grande. Egli opera da solo per lamoltitudine, e in nome di tutti deve offriretestimonianza che l’energia creatrice non èestinta. È lo spirito che gli guida la mano,che gli regge la penna, il pennello, lo scal-pello.

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I MAGHI DEL BRUTTO.

~ QUANDO L’ARTISTA SI INTERROGA SUL SENSO DELL’ARTEPIUTTOSTO CHE SULLA TECNICA DA IMPIEGARE. ~ E I TEO-RICI DELL’ESTETICA TRIBOLANO A TAL PUNTO NELLA RI-CERCA DEL NUOVO BELLO DA FINIRE PER ACCLAMARE ILMOSTRUOSO. ~ IL CASO DI FRIEDRICH SCHLEGEL, APPREN-

DISTA STREGONE. ~

Va anche detto che nelle epoche precedenti alla nostrai pittori […] compivano il proprio apprendistato pressoun maestro, come fanno i giovani calzolai e i sarti. Oraperò la superbia e la presunzione sono penetrate neigiovani, l’uovo vuol essere più intelligente della gallina,l’esperienza dei vecchi non viene più rispettata, ognunovuol essere il maestro di se stesso, crede di sapere tuttoe oppone resistenza al destino che Dio gli ha assegnato.C. D. FRIEDRICH

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NCIPIT l’èra della superbia artisticacome neppure tra i geni del Rinasci-mento. I sacerdoti della religione este-

tica in realtà son quasi tutti papi. Incredibile cheJ. S. Bach, in livrea da domestico, sia contempo-raneo degli enciclopedisti e preceda soltanto divent’anni la nascita di Beethoven. Nell’ultimoscorcio del Settecento e il primo del secolo suc-cessivo, accadono apocalissi della storia e avventidi messia artistici: Canova, Mozart e Beethoven.Ma non è ancora chiaro se aprano o chiudano persempre la storia del bello. Si assistette infatti an-che a immani catastrofi estetiche, sbigottimenti,terrori.

I

.Non è un caso che il maggior lavoro si svolgain Germania, eternamente resistente alla cultura‹romana›. All’inizio, Friedrich Schlegel «avevapredetto l’avvento di una nuova epoca, un terzoregno nell’arte e nell’estetico»; così in seguito,novello Battista, predicava la pienezza dei tempiper una rinascita religiosa. Il 7 maggio 1799, alfratello razionalista impenitente, annunciava tut-to compreso:

Colla religione, amico mio, non intendo dav-vero scherzare: si tratta invece di una cosa se-rissima, poiché è venuto il tempo di fondarne

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una […]. Sì, io vedo già venire alla luce la piùgrande nascita della nuova età.3

Manteneva però una diffidenza settecentescaverso il cristianesimo e un erotismo non ancoraannacquato dal romanticismo:

Proprio perché il cristianesimo è una religio-ne della morte, potrebbe venir trattato conun estremo realismo e potrebbe benissimoavere le sue orge come l’antica religione del-la natura e della vita.4

Considerava il suo romanzo Lucinde, il «traa-tum eroticum Lucinda», «un libro religioso». I so-gni di Friedrich Schlegel erano comuni a quelli dimolti suoi contemporanei.

Sono speranze e sogni che derivano dal re-taggio cristiano dell’Occidente. La costanterivoluzione interiore avente come mèta il re-gno di Dio è una continuazione del «Prote-stantesimo» immanente al Cristianesimo, unaescatologia che esige che gli uomini non sol-tanto credano, ma siano anche attivi. Dalmomento che la teologia alla fine del Sette-cento in Germania non diceva queste cose

3 Per le digressioni confessionali di Friedrich Schlegel, si è debitoridella Introduzione di Vittorio Santoli ai Frammenti critici e scrittid’estetica, Firenze, 1967, qui pp. XXVII- XXVIII.

4 Ibid. p. 153.

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con sufficiente intensità, gli artisti e gli scrit-tori ripresero i grandi temi della teologia e litrasfigurarono a modo loro.5

Nella fusione — post-lessinghiana o anti-les-singhiana — delle arti, Friedrich Schlegel indicavala formula, classica tutto sommato: ut piura poe-sis e viceversa. Ma poi aggiungeva: se venissemeno al-l’uomo l’arte della pittura gli verrebbe amancare uno dei mezzi più efficaci per collegarsial divino. Trascorso qualche decennio, sulla sciadi Wagner, i tedeschi si convinceranno che è nel-la musica la mistica scala per unire cielo e terra ela pittura dovrà fare sforzi disperati per diventareut musica, l’astrattismo allora sarà una conseguen-za di tale volontà musicale. Ma se la pittura ècreazione che mima Dio «dobbiamo cercare lasua origine nella libertà e nell’arbitrio».6 Non èinsomma artigianato, ma in quanto arte ‹divina›fa a meno delle tecniche, le supera, le travolge,per comunicare con il cielo. Perciò il pittore e ilsacerdote coincidono più che mai, arti magichesono qui arti mistiche, rappresentazione del tra-scendente, capacità di dischiudere le tende e mo-

5 Rudolf Zeitler, «La costruzione della storia dell’arte come storiadello Spirito in Friedrich Schlegel», saggio uscito per la prima voltain Italia e in lingua italiana: Critica d’arte, nn. 25–26 (1958), p. 24.

6 Ibid. p. 101.

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strare l’iconostasi, come nella Madonna di Raf-faello. Ahimè, niente di divino venne fuori daipur stimabili affreschi e quadri dei nostri tede-schi, come si trattasse di maghi che si affannanoper entrare in contatto con l’aldilà e continuanoa riecheggiare soltanto parole troppo umane.

Allora, i teorici tribolarono a tal punto nellaricerca del nuovo che rinvennero il brutto. Certo,erano solo dei teorici, potevano dire quel che vo-levano, avevano ideato strampalatissime dottrinecui il rude artista opponeva il lavoro serio, sprez-zante dei bamboleggiamenti filosofici. Invece, daun certo punto in poi, artista e teorico coincido-no sempre più, e l’artista si interroga angosciatosul ‹senso dell’arte› piuttosto che sulle tecniche.Colui che al massimo era stato un demiurgo abi-lissimo pretende di divenire un amoroso reden-tore e un Dio onnipotente, a costo di legarsi al-l’estremo Negativo. Faust docet, ma troppo diffi-denti per stabilire patti con il Maligno, ci si lasciaandare all’estetica, si venera la manifestazioneestetica del demoniaco, il deforme, il mostruoso,l’horror.

Friedrich Schlegel, tra i primi, dice parole for-ti, imbarazzanti per il tempo:

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Mai il bello. Il bello è così lontano dall’essereil principio dominante della poesia modernache molte delle più splendide opere modernesono palesemente rappresentate dal brutto,tanto che si è costretti ad ammettere (a ma-lincuore) che esiste una rappresentazionedell’immensa ricchezza del reale nel suomassimo disordine e della disperazione cau-sata dall’eccesso e dal conflitto delle energieper la quale è necessaria un’uguale se nonmaggiore forza creatrice e sapienza artisticache non per la rappresentazione di quellaricchezza e di quelle energie in perfetta ar-monia.7

L’apologia del brutto all’orecchio educato dalneoclassicismo suona soprattutto ridicola. La Ro-mantik sembra inseguire l’assurdo, e l’illogico di-venta risibile. Nel mondo della tradizione, il bel-lo ha una veste sacra, il brutto evoca gesti goffi eschernevoli del diabolico. I giorni saturnali pro-ducono il temporaneo rovesciamento dell’uni-verso, la volta celeste che sprofonda sulla terra eil trionfo del bestiale nell’alto dei cieli; risate car-nevalesche, poi il ciclo gerarchico riprende il so-pravvento, il mondo torna al suo posto. Ma se il

7 Fr. Schlegel, Über das Studium der griechischen Poesie, tr. it. Na-poli 1988, p. 66.

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brutto sopravanza sempre il bello vuol dire chequesto moderno si fonda su una eterna risata. IPadri della Chiesa ammonivano: il luogo dove siride ininterrottamente è l’Inferno.

Schlegel scontò la pena. Fu irriso da contem-poranei e dai posteri. Oscillante tra la filosofia ela poesia, campò abbastanza per dover decidereun mestiere e fu una dolorosa scelta: professored’università o giornalista, politico o riformatorereligioso, seduttore o padre di famiglia, pensato-re o lirico, erudito o creativo, filosofo di Stato odilettante. Vennero fuori tutte le contraddizioniche la morte precoce risparmiò ai Novalis e aiWackenroder. Era impossibile fare il ‹Goethe ro-mantico›, non fosse altro che per pregiudizio sfa-vorevole allo stato di quiete ‹olimpica›. Si fu co-stretti alla vita movimentata, in giro per le cittàd’Europa. Il dotatissimo scrittore sfiorò la mise-ria, Brentano lo soprannominò «Messer Friedri-ch dalle tasche vuote». Fece infiniti progetti,sempre irrealizzati. L’avvocato, padre o zio deiNazareni subì, come loro, risatine di scherno. Infondo, si trattava delle prime avanguardie eSchlegel si spendeva come loro promoter.

Dopo un secolo di dileggi, Ernst Robert Cur-tius gli dedicò un saggio con una bella apertura:

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Abbiamo molto da farci perdonare da Frie-drich Schlegel perché nessun grande autoredel periodo della nostra fioritura è stato cosìincompreso, anzi con tanta malignità diffa-mato.8

Figlio di un ecclesiastico luterano, nipote diun drammaturgo, fratello di un letterato, pigro,lussurioso (nel suo Lucinde esaltava «l’emancipa-zione della carne»), dissoluto (nella vita godettedi molti piaceri), mangione pantagruelico e gras-so come non si può perdonare a un romantico,rubizzo in contrasto con i pallori dei suoi confra-telli, ma altrettanto estremo: non si consumònella tisi, lui esplose, morì di colpo apopletticoper troppo cibo e vino.

Ma se Schlegel fu un precursore del Brutto inestetica, anticipatore di Rosenkranz, c’è un lun-go percorso settecentesco che precipita poi nelcaos post-rivoluzionario. Herbert Dieckmann loha ricostruito in un breve saggio.9 La valutazionedel brutto è affine alla giustificazione del male:

8 E. R. Curtius,«Friedrich Schlegel und Frankreich», tr. it in Lette-ratura della letteratura, Bologna, 1984, p. 79.

9 Si tratta di «L’orrido e il terrificante nelle teorie dell’arte delXVIII secolo» raccolto poi in una traduzione italiana di saggi diDieckmann, Illuminismo e rococò, Bologna, 1979 e che qui viene rias-sunto.

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estetica e teodicea, brutto e peccato, mostranoqualche affinità nel XVIII secolo. Naturalmentequi si parla della «rappresentazione seria del brut-to», ché la satira e la salacità attraverso il deformeerano sempre esistite. Ma è soltanto con la crisidell’autonomia del bello che si riconosce il brut-to. In origine è la comédie larmoyante, il piaceredelle lacrime. Moses Mendelssohn, il suocero diSchlegel, è forse il primo a occuparsi delle ‹sen-sazioni miste›. In una lettera parla del diletto percerte situazioni raccapriccianti.10 D’altra parte,Addison aveva già messo in evidenza che anchel’evocazione di un letamaio può procurare godi-mento, certo per la bravura dell’artista nella de-scrizione, non per l’oggetto in sé. Comunque,«finché il brutto è stato l’antitesi del bello — scri-ve Dieckmann —, esso non aveva alcun valoreproprio, il bello dominava incontrastato».11 Dide-rot, parlando della flagranza prodotta dall’attoresulla scena, fa non poche considerazioni sul pia-cevole spettacolo del brutto. Ma è Burcke che sispinge ad ammettere che il dolore è una qualitàpositiva. Arriverà a dire che «l’idea di una penacorporale […] produce il sublime»,12 inaugurando

10 M. Mendelssohn, Briefe über die Empfindungen, VIII libro.11 Dieckmann cit., p.170.12 Burcke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the

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una possente teoria, del tutto moderna, i cui ri-sultati letterari finiranno nella raccolta di Praz,La morte, la carne e il diavolo.

Dieckmann sta attento però a non confonderela ribellione alle regole, per esempio la celebra-zione lessinghiana del genio con l’apologia delbrutto. Lessing infatti non nega l’utilità delle re-gole, le attenua appena in un antiaccademismoben temperato. È Mendelssohn a spingersi inquesta indagine sulle nostre più nascoste propen-sioni anche nell’arte. «Ogni spavento illusorio»,ogni spettacolo del brivido, dunque, è sempregradevole.13 I fratelli Schlegel amplieranno ilconcetto, ma già Johann Elias, un loro zio, avevadetto: «a un pittore è lecito descrivere cose nau-seabonde quanto a un poeta».14

Sublime and Beautiful, London 1958, p. 86.13 Si veda la lettera di Mendelssohn a Lessing del 23. 11. 1756 (Mo-

ses Mendelssohns Gesammelte Schriften, Leipzig 1848, vol. V, p. 45).14 Cit. in Dieckmann, p. 205.

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IL PITTORE CHE INVENTÒL'OPERA D'ARTE TOTALE.

~ PHILIPP OTTO RUNGE, «TEOLOGO DEL COLORE», FA DERI-VARE DAL SUPPOSTO TRAMONTO DEL CATTOLICESIMO LADECADENZA DELLA PITTURA TRADIZIONALE. ~ SI PRESEN-TA ALLORA COME NUNZIO DELLO SPIRITO ASTRATTO DEL-

LA RIFORMA LUTERANA E PREDICA UN’ARTE ASTRATTA. ~

I parla di Philipp Otto Runge come diun «teologo del colore» e l’appellativola dice lunga sui mutamenti del ruolo

dell’artista. Del resto, il delicato pittore cerca nelcolore, come nella composizione, nella forma delquadro, perfino nel rapporto tra i quadri, un sen-so nuovo, e nel medesimo tempo si interroga sulsenso dell’arte. Prometeica battaglia che arriva aconcepire una liturgica Gesamtkunstwerk, congrande anticipo su Wagner.

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Fin dall’inizio, la cultura romantica tedescatendeva alla sinestesia, alla prosa musicale o allapittura poetica. Runge sognava un’opera d’arte to-tale, con i quadri esposti alle pareti mentre nellastessa sala un’orchestra avrebbe eseguito una ‹co-lonna sonora› di questa pittura e Ludwig Tieckdeclamato poesie ispirate alle opere circostanti.

Nel salotto del conte Filkenstein, amico deiromantici di Dresda, il giovane Runge ascoltòl’esecuzione dei concerti delle Quattro stagioni diVivaldi. Il fratello Daniel, anni dopo, ne rievo-cherà l’entusiasmo. Il veneziano stabiliva delleaffinità tra la sua musica e i ritmi dell’anno, il pit-tore tedesco meditava sulle assonanze tra le tona-lità cromatiche e le tonalità musicali, in anticiposulle alchimie di Marc e di Klee. Runge pensava adelle sinfonie visive, sinfonie filosofiche. Un siste-ma di corrispondenze segrete tra le stagioni del-l’anno, le ore del giorno, le età dell’uomo. Ela-bora un ciclo di Jahrzeiten e di Weltzeiten. Prova arappresentare il tempo nei quadri e perciò le teledelimitate da cornici non gli bastano. I paesaggiromantici del cuore adesso fuoriescono dalle sin-gole opere. Teorizza a lungo per mettere in sce-na la titanica cattura dell’universo, del tempo,della vita. Goethe, in una lettera al pittore, dice

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in modo compito di non essere riuscito a capiregranché delle Tageszeiten. Runge insiste nel suosforzo supremo di andare oltre la pittura, in unnon so dove, che sfugga alla raffigurazione tradi-zionale. Vuole sperimentare, creare nuove operee nuove sale per contemplarle e vuole contem-plazioni di tipo diverso: l’arte è ormai un altrorito. L’atteggiamento classicista, predicato daqueste parti, di rispetto per il passato, di nanisulle spalle dei giganti, viene cancellato da nuovemetafore: infanti che ripartono da zero. Il mitodi Novalis viene ora riecheggiato dai pittori.

A folgorarlo era stato il romanzo di Tieck,Franz Sternbalds Wanderungen (Le peregrinazioni diFranz Sternbald), una storia del tardo medioevoche ha per protagonista un pittore e che si snodatra descrizioni di quadri religiosi e conversazionisu quadri religiosi, mescolando effetti musicali edeffetti pittorici. Neomedievale e moderno, Run-ge scrive allora a Tieck: «Non siamo più dei Gre-ci…». Si accinge quindi al suo opus magnum. Figliodi un armatore, era nato a Wolgast, in Pomera-nia, nel 1777. Fin da piccolo, era stato un virtuosodelle silhouettes, creando cioè forme dall’ombra.L’inquietante sagoma oscura che accompagna icorpi luminosi. Con la sua bravura aveva stregato

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Goethe che gli richiedeva continuamente questefigurine nere. Un predicatore lo aveva indirizza-to verso il pietismo. Dopo aver anche tentato lastrada del commercio, fu dispensato in famigliadagli affari mondani e finalmente potette dedi-carsi all’arte anima e corpo.

Nel 1801 se ne va Dresda, attratto dalla fama dicapitale dell’arte e su esortazione di Caspar Da-vid Friedrich, ma con il più anziano maestro nonstringerà mai vera amicizia. Quattro anni dureràil suo soggiorno nella capitale della Sassonia, ep-pure in una vita breve quell’incompleto lustropuò corrispondere a un secolo. I fatti decisivi av-vennero qui. A Dresda incontrò la ragazza chepoi avrebbe sposato, si mise a studiare l’italiano,conobbe i fratelli Schlegel, Fichte, Jacobi eTieck che fu il suo patrono. Morì a trentatréanni. Il fratello Daniel ne raccolse le opere, gliscritti e le testimonianze orali, dedicandosi allamemoria dell’artista, proprio come fece Theovan Gogh, alla fine dell’Ottocento, con il fratelloVincent.

Fu un filosofo prima che un artista, ma di lì apoco, nella cultura tedesca, le due figure si ab-bracceranno in Nietzsche. I suoi quadri comun-que erano pensieri. Più che un paesaggista, «un

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allegorista», con tutto ciò che di medievale e dibarocco trascina con sé l’allegoria.

Era trascorsa appena una stagione dalla com-parsa a Dresda di un artista come Mengs, pittorefilosofico che, in quanto tale, infastidiva, fuoridai confini tedeschi, anche coloro che lo ammira-vano per il suo virtuosismo. Perché il RaphaelGermanicus non riduceva tutto a forma e colore.Adesso, quel grumo filosofico presente in Mengsdiventa radicale sostituzione della forma con spi-golosità filosofiche e della scienza della natura.Un processo di astrazione dell’arte, di spiritua-lizzazione, di ‹germanizzazione›, si potrebbedire, dell’arte moderna, che va in scena a Dresda.Tieck ha spinto Runge per questa strada. Il pit-tore chiama i suoi paesaggi «pensieri geroglifici»(ma anche «arabeschi», e purtroppo spesso sonosoltanto arabeschi). Un’arte concettuale che anti-cipa le avanguardie (e si spiega così la devozioneche molti capifila di questa nutriranno per Run-ge). Come gli avanguardisti, Runge si misura conla storia dell’arte per vibrare delle cesure violen-te, per interrompere il corso. E predicandol’«arte nuova», parla di corsi e ricorsi ma sottoli-nea il drastico tramonto dell’Occidente, la deca-

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denza la sente intimamente e la vede sconfinarein una tabula rasa.

Al momento di mettersi al lavoro per le sueTageszeiten si accorge di non possedere tecnica asufficienza. Torna allora a frequentare con umiltàl’Accademia. E mette a punto il progetto: le teledi ciascun ‹tempo› dovranno essere di circa cin-quanta metri e i colori saranno ispirati dai libridei mistici dedicati al significato simbolico deicolori. Runge stesso scriverà molte pagine di unateoria dei colori che sottoporrà a un Goethesempre più perplesso. Tutto il ciclo sarà ospitatoin un luogo appositamente costruito, che Rungenon riesce a immaginare e a progettare molto di-versamente da una cattedrale gotica. In questonuovo tempio dell’arte, il visitatore vedrà unquadro dopo l’altro accompagnato da una sinfo-nia in sottofondo scritta per contrappuntare i di-pinti dal musicista Ludwig Berger, amico del pit-tore, e dalle poesie e prose di Tieck, lette dal-l’autore. Ma il povero Runge, dubbioso e malin-conico, non riuscì a realizzare la sua utopia.

Nelle lettere di Runge a familiari e ad amiciappare l’appassionata volontà di creare quella chedefinisce ripetutamente un’«arte nuova», si badibene non un nuovo stile, una nuova tecnica, bensì

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una definitiva rottura con la tradizione artisticaoccidentale, un appello affinché le arti della pa-rola e quelle visive e sonore si intreccino per darevita a un universo estetico mai visto, dove l’uma-nità scorgerà l’alba della redenzione. Allora, ilcolore sarà l’equivalente della nota nelle trombeapocalittiche.

Fin dalla prima lettera in cui annuncia al pa-dre, che lo voleva commerciante, la sua vocazioneartistica, cita il capostipite dei pittori ‹religiosi›:

Ho letto una lettera di Albrecht Dürer, che aogni giovane pittore consiglia la Bibbia qualefonte inesauribile dell’arte, e in ciò egli haragione.15

Prima di ogni altra cosa, Runge medita su unalingua per esprimere l'intimo, lingua segreta do-ve è stato sepolto lo spirito nel corso dei secoli. Enaturalmente, accanto alla lingua esoterica, vuoleuno spazio chiuso, una confraternita dove usaresimile comunicazione:

sarebbe bello abitare nel cerchio di una fami-glia dove si può parlare gli uni con gli altri, esolo un folle vorrebbe rinunciare a essere fe-lice in essa. Credo che gli apostoli, i musicisti

15 In Ph. O. Runge, Hinterlassene Schriften, tr. it. La sfera e il coloree altri scritti sull’arte, Milano, 1985; lettera del 24 agosto 1798, p. 62.

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devoti, i grandi e bei pittori e poeti veramen-te volessero fondare una tale famiglia. Agliapostoli è riuscito, agli altri solo in parte.16

Primo accostamento tra gli apostoli e gli artisti,che in altre epoche sarebbe suonato oltremodoeccentrico. Fondare questa famiglia, una confra-ternita di artisti, è il compito che comincia a pre-figgersi, dove per «arte vera» «non si dovrebbeguardare al come uno ha detto qualcosa, ma seuno ha detto qualcosa»,17 se ha detto la formulamagica che schiude il paradiso spirituale.

È inutile cercare di ripetere l’arte antica, Run-ge manda in rovina le prescrizioni di Winckel-mann, «come ci è mai potuta venire in mentel’infelice idea di richiamare in vita l’arte antica?»,e con Winckelmann lo studio accademico che sirifaceva ai modelli della tradizione:

dinanzi a noi vi è qualcosa che sta crollando,noi ci troviamo al margine di tutte le religio-ni che sono nate dalla religione cattolica, de-cadono le astrazioni, tutto è diventato più ae-reo e leggero di quanto non fosse.18

16 Datata: Dresda 1801, pp. 63–64.17 Ivi.18 Datata: Dresda, febbraio 1802, p. 65.

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Comincia l’interminabile litania che ripete unaconstatazione storica, sempre nuova e sempreuguale: il mondo sta crollando, grande è il disor-dine sotto il cielo ma la situazione diventa eccel-lente. Un’opera d’arte servirà d’ora in poi a se-gnare un crocevia storico, a dannare il vecchio e abenedire il nuovo, a restaurare una religione deicuori, a «trattenere gli spiriti che fuggono» a farcoincidere «il bello e il buono». Per raggiungerequesti santi scopi, «noi dobbiamo ridiventarefanciulli».19 Da questa affermazione ai proclamidada c’è molta strada, un secolo di storia dell’arteper esempio, ma appare comune la volontà di in-fantilismo che sola concederebbe di praticarel’arte. Perché mai solo ai piccoli innocenti è con-sentito l’accesso nel regno della arti dove, per se-coli si richiedeva casomai sapienza, abilità e dun-que anni di addestramento? La risposta viene dasé quando si ricorda che il Regno della arti è di-venuto il Regno dei Cieli, i due Paradisi comba-ciano.

«Siamo sul punto di accompagnare a sepolturaun’altra epoca?», scrive all’amato fratello Danielil 9 marzo 1802. Di fronte a questi crolli di epochee di civiltà, al succedersi delle mode che con vio-

19 P. 66.

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lenza e con scienze raffinate sembrano infliggerecolpi decisivi alla stessa religione rivelata, nonresta che l’opera d’arte «eterna», «la più belladelle imprese» che prende avvio dalla «nostra in-tuizione di Dio». Altissima è la presunzione diquest’arte nuova, di fonte divina, di andamentoreligioso, eppure in Runge come nei teorici e ne-gli artisti novecenteschi c’è la convinzione che«difficilmente possa risorgere qualcosa che siapari alla bellezza dell’arte storica nel suo puntopiù alto». Uno scacco in partenza di fronte aquell’arte storica che senza proporsi mete divine(o forse proprio per questo) resta, nei suoi limitiumani e nel suo sfondo metafisico, irraggiungibi-le. Ma la lettura del pio Runge è diversa: la «de-cadenza» che ci allontana l’opera di Raffaello,Michelangelo e Guido deriva dal fatto che «lospirito ha abbandonato» l’arte. La sua morte —che indirettamente Runge evoca dal momentoche parla spesso di «resurrezione» — coincidereb-be con l’averla ridotta a «trastullo», a gioco. Econervosa di quel «puro gioco delle facoltà» cheKant aveva stabilito nella sua recente Critica?Runge si rende conto che l’arte ludica dei mo-derni può precipitare in breve la nobile attività in

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tecnica per ingannare il tempo, per illuderel’ozio.

La sua stessa pittura non si accontenta più deipur devoti ritratti dei familiari, non si accontentadei quadri di cavalletto, ed escogita l’opera d’artetotale, l’incrocio di tutte le arti onde far soffiarein tal punto lo Spirito. Ma sempre pigiando il pe-dale della volontà dell’artista, quasi spettasse a luisolo di rimettere in ordine il mondo spirituale.Abbozza allora, nello spazio di una lettera fami-liare, una sintetica storia dell’arte confrontatacon la religione: dalla rigidità fastidiosa del sim-bolismo egiziano al culto cattolico di Maria che«rendeva bella la vita nel Cielo». Dal suppostotramonto della religione di Roma, Runge fa de-rivare il decadimento dell’arte plastica figurativa.Lo spirito della Riforma era invece «più astratto,ma in nulla meno interiore, e anche da esso devesorgere ora un’arte più astratta». L’excursus sto-rico si chiude con la convinzione che «non vi èun’opera d’arte la cui esistenza non sia fondatanella nostra propria esistenza».20 Che fare allorase tale convinzione si perderà nel pubblico cheacquista e guarda l’arte? Runge non osa neppurepensare fino in fondo questa orribile prospettiva

20 Pp. 68–73.

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ma comunque si incarica di rovesciare le sorti delmondo con le deboli forze dell’arte. Si era abi-tuati, nel leggere gli epistolari degli artisti delpassato, a rivalità in fatto di bravura e di successo,a lamentele per mancate committenze, a proget-ti, a entusiasmi, ad amori più o meno felici, non aproclami per rifondare il mondo.

Restano dei forti dubbi: «per quale ragione learti e i suoi trastulli, che non sono quanto di piùalto abbiamo […] e che persino possono condur-re all’idolatria» dovrebbero diventare il supportodella nuova spiritualità? Ma la risposta non è fa-cile, se ne rende conto lui per primo, se ne ren-deranno conto i più sensibili artisti degli ultimidue secoli, gli eresiarchi, i fondatori delle scuoleavanguardistiche, incalzati dalla medesima do-manda. «Per iscritto è difficile non dar luogo a in-comprensioni», dice nella stessa lettera al fratel-lo, e poi «qual è la via?». Cita Cristo e le sue ten-tazioni, si sente al centro della scena evangelica,l’imitatio Christi è diventata una reintepretazioneo forse, in certi momenti particolarmente ecci-tanti, una reincarnazione. «Per il momento pensosolo: allontanati da me Satana, perché mi sei sol-tanto noioso». Annuncia quindi una più lungamissiva, un saggio dove cercherà di mettere a

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fuoco la «nuova arte», altrimenti tanti pensieriche dovrebbero ricollocare al loro posto il cielo ela terra, rischiano di finire con l’esistenza del pit-tore. Niente altro che un altisonante sogno cuipone fine il risveglio.

Di fronte alla miseria del solipsismo romanticonon resta che il lascito di una traccia scritta, qual-che pagina che compensi la titanica sfida mancatae che magari, come un messaggio nella bottiglia,si offra a qualche altro adolescente che voglia ri-tentare e tornare a sognare. Ma c’è una versionereligiosa di tale piccolo calvario percorso dall’ar-tista teologo, sacerdote, santo, messia. Ce loespone Runge nella medesima lettera:

Il demonio ci conduce sulla cima del tempio,dove noi dovremmo mostrare tutto il nostrosplendore, e infine ci conduce nel vecchiomondo, ormai trascorso, dei cui splendoriegli ci vuole fare dono se cadiamo in ginoc-chio e lo adoriamo.

Idolatria sarà dunque inchinarsi allo splendoredel passato, ecco perché «non devo studiare inItalia»: per dedicarsi al totalmente nuovo, a costodi mostrare «un’enorme presunzione, un enormeorgoglio»,21 come ammette lui stesso. Raramente

21 Pp. 74–77.

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è stato detto meglio questo rifiuto ‹religioso› delpassato, il resistere alle tentazioni che l’arte mo-derna, di origine sempre nordica, esprime neiconfronti delle seduzioni della sensualissima pit-tura e della sensualissima scultura italiana anzi-tutto e in generale latina. Nessuno nega la bel-lezza di quelle opere e neppure il godimento chese ne ricava al giorno d’oggi, ma la si respingecome frutto della tentazione satanica nei con-fronti dell’uomo moderno e quindi morale, pri-ma protestante e poi genericamente ‹laico›, pic-colo Prometeo kantiano che tradisce però desi-deri smisurati.

Pochi giorni dopo, il 27 novembre del 1802,sempre da Dresda dove si è a lungo ispirato alla‹icona› della raffaellesca Madonna di S. Sisto, an-nuncia finalmente il suo quadro che sarà «la fonteanche di tutti i quadri che farò, la fonte dellanuova arte nonché fonte in sé per sé». A quelpunto il fratello capirà l’«avversione interiore [diPhilipp] a vedere ora Francia e Italia». Illuminatidalla lettera di Runge e dall’esperienza secolarepossiamo capire anche noi l’avversione o comun-que l’imbarazzo dei teorici e degli artisti dell’a-vanguardia, fino al silenzio e all’impaccio diAdorno, loro padre spirituale, rispetto al patri-

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monio antico italiano. Le più recenti eccezioni,le curiosità per i manieristi o l’appassionato stu-dio dei romanici da parte di Klee, sono una cita-zione, talvolta uno sberleffo, una violazione delbello che si vuole sacrilega o giocosa o semplice-mente, nel più diffuso dei casi, il saccheggio diun’aurea forma con la quale fregiarsi e di cui sen-tirsi eredi.

In quest’alba dell’arte nuova viene evocato Ja-kob Böhme, padre di tutti gli apprendisti teurgi-sti e si annuncia «la grande nascita del mondo»,dove gnosi e massoneria restano in sottofondo.La luce, prodotta dai mistici colori sui quali me-diterà Runge, sarà l’origine della rigenerazionedel mondo. Il colore si dovrebbe fare carne: ver-setto di questa gnosi artistica che zoppica, perchéa differenza della parola, luce e colore hanno giàpienezza fisica e sensuale. Il mysterium magnum diBöhme avvolge ora anche l’arte con i suoi mani-cheismi. Il pantesimo cerca una conciliazione conla Trinità e una trascrizione nei colori, sempre arischio di essere spenti da Satana. «Su questa lineapenso anche a un quadro dove noi si possa darfigura e senso all’aria, alle rocce, all’acqua e alfuoco». Leonardo da Vinci è il primo nome cheviene in mente a sentir parlare di raffigurazioni

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dell’aria e delle rocce, dov’è la novità? Perchénon provare umilmente a dipingere questi ele-menti (come farà un giorno con somma maestriaStifter nelle sue prose) invece di trasfigurarli inuna battaglia cosmica e apocalittica tra le forzedivine e quelle diaboliche? Perché la scelta delpaesaggio, che Runge come Friedrich e Caruscon molta teoria pongono al centro dell’‹artenuova›, non è soltanto un genere pittorico?

Perché, sembra risponderci Runge, se Dio èirrappresentabile, di quella natura che gli è spec-chio, possiamo dare però rappresentazione spiri-tuale, rivelare Dio nei quadri attraverso i riflessidivini dei paesaggi. Ben altra, estrosa, soluzioneproponeva un credente d’altri tempi come Teo-doro Studita quando sosteneva che poiché Cristoè nato da una madre raffigurabile, possiede unaimmagine rispondente a quella della madre, e senon si potesse rappresentare nell’arte vorrebbedire che sarebbe nato dal solo Padre e non daMaria.22 Invece Runge concepisce l’individuali-smo più sfrenato, al limite della incomunicabilità:«il prodotto più alto dell’arte è l’immagine diDio in noi», cioè «la visione individuale che cia-

22 Citato da padre Giovanni Pozzi nel suo fulgido Sull’orlo del visi-bile parlare, Milano, 1993, p. 63.

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scuno porta con sé», e trattandosi dell’Assolutoimmaginato nell’intimo, senza più rapporto conil mondo empirico, senza alcuna incarnazione nelmondo degli uomini: tutti gli espressionismisono possibili, scatenati per dare forma al Dio in-dividuale e nascosto. Di fronte a questo compitosublime perché mai l’artista-sacerdote, l’evoca-tore della divinità, dovrebbe perdere tempo e fu-rore mistico nell’umile attività del copiare? «Nonposso retrocedere» si dice convinto Runge, «Dioha voluto che fossi qui assegnato» e dunque «maimi adatterò a un vero e proprio copiare».23

Non si è precisato che negli anni in cui scrivequeste lettere la sua vocazione pittorica è ancorapiuttosto astratta, di quadri ne ha fatti ben pochi.Ma si sente chiamato, non si tratta neppure di ta-lento esperimentato, di mano felice, quanto disegno di predilezione divina affiorato nell’anima.Come sempre poi accadrà nelle avanguardie a ve-nire, prima delle opere ci saranno i proclami. Iltimido Runge i suoi proclami li confidava al de-voto fratello, proprio come più tardi farà vanGogh.

Le proibizioni imposte dalla Storia: i pittorimoderni si accorgono dello iato profondissimo

23 Pp. 77–81.

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con il mondo della tradizione e riportano questosenso di distanza con alcuni divieti che pare lorodi dedurre dagli ultimi sviluppi della storia del-l’arte. Da un certo punto in poi si dirà perciò chenon si può più dipingere la figura umana o non si puòpiù dipingere tout court. Runge, agli albori, scri-ve in una lettera a Ludwig Tieck che «dopo ilGiudizio universale di Michelangelo» è impossibilerappresentare «gli uomini come la forza dei tem-pi [che] si agita in essi». La storia dell’arte ap-porta la testimonianza di migliaia di artisti chedopo Michelangelo smentiscono l’«impossibilità»teorizzata da Runge, ma lui replicherebbe che sitratta di epigoni pompiers, eterno pompierismo dichi non è illuminato dall’intuizione del nuovoruolo dell’artista vocato alla nuova arte. Adessoavanza, secondo Runge, il paesaggio come spec-chio dell’umano e del divino, fiori e alberi chetradiscono un certo sentimento umano; più tardisi dirà: dopo l’arte concettuale di Cézanne non sipotranno più dipingere paesaggi ingenui, succes-sivamente si reagirà agli intellettualismi francesicon la lava espressionistica tedesca: dopo i coloriche gridano non si può più rappresentare secondola pacata scienza rinascimentale, e così all’infini-to, semmai la storia avesse uno svolgimento infi-

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nito. Dall’altra parte c’è chi resiste, talvolta nel-l’oscurità talvolta nella esplicita ribellione, a que-sti divieti dell’epoca, che in quanto tali si potreb-bero anche chiamare imposizioni della moda. Macosì rubricando simili inibizioni, dimentichiamoche esse sono lette da chi vi soggiace come co-mandamenti divini:

Come comprendere del resto quest’arte senon muovendo dalle profondità di una misti-ca religiosa, dal momento che essa deve pro-cedere infine da questa e su questa anche sal-damente poggiarsi, altrimenti crolla come lacasa sulla sabbia?.24

La debolezza di quest’arte, al limite del vuotoconcetto, deriva dall’essersi sostituita all’idea re-ligiosa, nutrendosi soltanto di immagini mistiche.Si tolga invece l’impalcatura savonaroliana allaNatività della National Gallery di Botticelli: re-sterà gran parte dell’opera. Ma nessuno potrebbesostenere che la pittura del Quattrocento fioren-tino non sia colta, lussureggiante di idee, sempli-cemente che quella moderna di cui sentiamol’annuncio poggia soltanto su dei «geroglifici»;senza la spiegazione dei quali risulta un insiemedi inutili enigmi, e più tardi sarà fatta solo di

24 Pp. 83–85.

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concetti, ideine nella testa dell’autore, che po-trebbero perfino restarsene in mente sua.

Il 13 gennaio del 1803, Runge confida al padreche talvolta si sente attaccato:

«Lei non capisce niente d’arte»: ma se anchefosse non mi resta altro che prendere di qui lemie mosse. Ciò a cui io do il nome di arte è ineffetti fatto in modo tale che se lo si dovesseraccontare tale e quale nessuno lo compren-derebbe e io verrei ritenuto pazzo, folle,sciocco.

La lettera è ricca di progettualità altisonante,non a caso si misura con il padre, ma vale la penafermarci un po’ su queste righe. Tutti gli ‹innova-tori› moderni, che per comodità possiamo chia-mare avanguardisti, vengono all’inizio sospettatidi follia, mentre è certo che quando Giotto scio-glie la fissità bizantina o Paolo Uccello introducela prospettiva, pur rompendo con schemi secola-ri, riempiono di ammirazione il loro pubblicopiuttosto che essere considerati da questo fuoridi cervello. E gli stessi manieristi di cui si narranoestreme stravaganze, operano lunaticamente sulpiano biografico, l’opera non viene sospettata diessere inutile gesto demente. Il fatto è chel’innovazione moderna riguarda non temi o stili

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quanto lo stesso lavoro dell’artista e lo statutodell’opera d’arte. La più sfrenata fantasia baroccafu infatti contenuta in una concezione millenariadel quadro (o dell’affresco o della statua), ovveronella oggettività della tela dei colori delle velatu-re, di un lavoro che con impercettibili e infinitemodificazioni ripeteva un eterno schema: a chi siera addestrato dalla fanciullezza nel rappresenta-re su un determinato materiale figure umane epaesaggi naturali veniva commissionata la talescena storica o una vicenda biblica o privata, el’incaricato eseguiva di volta in volta inventandola composizione, il taglio di quella scena, sce-gliendo i colori, la luce, la plasticità e nei casi piùeccelsi anche il significato spirituale che quel-l’opera doveva sprigionare; ma ora è l’idea stessadi arte a cambiare di volta in volta, diventandouna fantasia soggettiva che si esprime senza più ilfreno della tradizione.Sfrenata, dunque, folle, l’arte non è più quella cheè stata da sempre ma l’invenzione che ciascun per-sonaggio, autonvestito di grazia, senza contro-prova di talento e di perizia tecnica, inventa libe-ramente. «Ciò a cui io do il nome di arte», diceRunge, e propone una mistica panteista cui nonbasta più il singolo quadro, che richiede l’opera

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totale; «ciò a cui do il nome di arte» dirà qualcunaltro e proporrà la tela nera, e qualcun altro latela bucata e basta, e il rifiuto del quadro, eun’idea virtuale di opera, un segreto mentale. Il«libero gioco» di Kant ne ha fatta di strada. L’e-stetica tedesca, soprattutto di timbro idealistico,l’ha trasformata in arte filosofica e subito dopo,si è confusa così tanto con i pensieri, che si è ri-dotta a metter in scena la sua morte. In questavoluttuosa necrofilia si presenta ormai da alcunidecenni, ma non si può escludere che qualcuno,più fantasioso, ne decreti la resurrezione mo-mentanea, sarebbe soltanto un cambio di segno,resterebbe infatti la sfrenata soggettività con cuiun essere umano si autoproclama artista e propo-ne una qualsiasi sua fantasia sotto il nome di arte.Sacerdozio universale ma senza neppure un testosacro sul quale poggiare.

L’ambizioso progetto veniva spiegato da Phi-lipp al padre: «conosco […] parecchi giovani» di-sposti a eseguire il piano epocale, ad Amburgodegli artigiani «potrebbero crescere sotto la miaguida», e subito scatta una presuntuosa analogia:«una istituzione di questo genere assomigliereb-be a quello che fu la scuola di Raffaello».25 Quan-

25 Pp. 85–88.

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do non si evoca Gesù Cristo e i suoi apostoli sivola direttamente ai massimi maestri del Rinasci-mento, o viceversa. Nel frattempo fa degli schiz-zi, «sono convinto che quando nella mia cartellane avrò cinquanta potrò considerarmi arrivato».Non è soltanto una posa tardo-adolescenzialeper cui basta poco e si gioca all’artista, è soprat-tutto che si mira a megalomani progetti, la rea-lizzazione dei quali conta poco; la tecnica cosìviene in ultimo, al primo posto c’è una idea. Inuna successiva lettera al fratello, scende nei moltidettagli delle sue Tageszeiten. Il Giorno e la Notte sipopolano di fiori animati, luce e colori si caricanodi significati simbolici. Due settimane più tardiaffiorano in un’altra lettera dei dubbi e delle pre-occupazioni sull’«esito di queste fantasie»26 e,passata una decina di giorni, si dilunga ancorasulla sua «incomprensibile paura»,27 l’artista ora —come il soggetto morale di Kant che dev’essere alcontempo giudice imputato e boia di se stesso —è committente, ideatore, esecutore, critico e sa-cerdote della sua arte. Del resto, non basta più«eseguire secondo regola e pratica», ma secondo

26 P. 90.27 P. 91.

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l’indicazione evangelica di Matteo «cercate pri-ma il regno di Dio e la sua giustizia».

Si infittiscono allora le lettere ricolme di sim-bolica, in cui Runge specula sui numeri e su geo-metrie mistiche, invoca la musica e la Bibbia, perconcludere il 6 aprile del 1803: «non è stupefacen-te e vano quando gli artisti di oggi per pronun-ciare il nuovo usano le antiche figure, gli dèi pa-gani e le persone allegoriche»: sì, da sempre gliartisti avevano dipinto dèi, e quando giunse l’an-nuncio del Dio unico e si affermò la religione cri-stiana, nessuno pensò di buttare a mare gli dèi ela figurazione pagana, appena si sfumarono lesomiglianze e in un gioco di mascheramenti sitrasformò le dame dell’Olimpo nella ragazzaebrea di Nazareth. Ora invece si voleva esclusiva-mente il mai visto, difficile anche da percepire.Non a caso, qualche riga più sotto Runge ag-giunge: «Rivive in me il desiderio di rileggerel’Apocalisse di Giovanni. Credo che non mi sarà,ora, veramente incomprensibile».28 Quale altrolibro prova a rivelare l’impossibile mai visto comequello supremo della Bibbia? Ogni annuncioavanguardistico, ogni ‹manifesto›, ha un tonoapocalittico che Runge coglie per primo e con

28 Pp. 98–101.

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serietà. Solo negli ultimi giorni dell’umanità,quando le donne gravide invidieranno le sterili, sisradicheranno le abitudini dell’umanità, a comin-ciare dalla prospettiva temporale che improvvisa-mente si chiude, e si potrà assistere veramente auno spettacolo del tutto inedito. Il mai visto allo-ra non sarà un brivido di moda quanto il terrifi-cante segnale di morte, anzi la visione propria deimorti. Ma guai a chi crederà ai falsi messia e allefalsi apocalissi, rivelazioni ingannevoli dell’Anti-cristo: si moltiplicheranno gli annunci dell’immi-nenza del giorno supremo confondendo le trom-be angeliche con le réclames circensi del nichili-smo moderno.

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L'EREMITA DEL BALTICO VOLTALE SPALLE ALL'UOMO.

LA RELIGIONE, BIASIMATA NELLE CHIESE E NEI MONASTE-RI, RISPUNTA NEI MUSEI. ~ MA È UNA RELIGIONE PROTE-STANTE, AVVERSARIA DELLA SENSUALITÀ DEI «MIGLIORIITALIANI», CHE SI AFFERMA PROPRIO QUANDO I PASTORIDEL GREGGE LUTERANO PERDONO PESO INTELLETTUALEE MORALE, CONTESTATI DALL’ILLUMINISMO. ~ IL CASO DI

CASPAR DAVID FRIEDRICH.

ORSE l’insofferenza romantica per l’artecome si era sempre fatta nasceva dalmaterialismo settecentesco, scaduto

spesso in stucchevole prosa. Ed ecco che rie-cheggiando le ansie di Runge, morto prematura-mente, il massimo rappresentante del romantici-smo in pittura, Caspar David Friedrich, solitarioche sarà preso a modello dai suoi tanti epigoni,osservare:

F

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può la pittura, o qualsiasi altra forma artisti-ca, venir esaurita, o non morirebbe come artese ad essa non potesse venir posto un fine piùalto?.29

Noi, con l’esperienza degli ultimi due secoli,potremmo rovesciare la domanda: porre un finetroppo alto non ha forse provocato la morte del-l’arte?

Ancora una volta, è un comando religioso a in-timare ai suoi contemporanei di essere moderni:

nessuno ha il potere di frenare la nostragrande epoca fatale, l’epoca dell’inquietudi-ne e delle trasformazioni che si manifestanoin tutti i campi, dalle arti alle scienze, giac-ché Dio stesso l’ha originata e la porteràdunque a compimento. Combattere il pro-prio tempo significherebbe dunque rivoltarsicontro l’Onnipotente, la qual cosa è lontanada me.30

Léon Bloy polemizzerà con il conte de Maistrecon argomenti non dissimili: «non aveva capitoche nel 1789 Dio aveva cambiato la faccia delmondo». Dio che aveva garantito i tempi lenti del

29 C. D. Friedrich, Äußerung bei Betrachtung einer Sammlung vonGemälden von größtenteils noch lebenden und unlängst verstorbenenKünstlern, trad. it. Scritti sull’arte, Milano, 1989, p. 38.

30 Ivi, p. 39.

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feudalesimo con il suo carattere di eternità, ades-so veniva invocato dai credenti nella storia, in unapericolosa identificazione con essa. Dove era pe-rò scritta la fatalità dell’epoca? Non appariva unatentazione satanica verso il peccato di superbiaper cui l’inquietudine di sempre diventava segnodi una catastrofe cosmica?

La storia detta dei precetti estetici che se fos-sero impartiti dalle accademie di belle arti susci-terebbero scandalo, la storia si fa megafono dellavolontà divina, la storia impone i temi all’arte an-che nei quadri che storici non sono. Quando Frie-drich dipinge una chiesa in rovina, si giustifica:

è svanito il tempo della magnificenza del-l’edificio sacro e dei suoi ministri, e dall’in-sieme in rovina è come sorta un’altra epoca eun’altra necessità di chiarezza e di verità.31

Che cosa diverrà mai l’arte se rifiuta la «magnifi-cenza» a vantaggio di rovine e frammenti? Se laconsolazione che ha fino ad allora rappresentatodiventa forma luttuosa (non conforto del lutto),costruzione sinistra, memento mori senza resurre-zione della carne e soprattutto senza carne e san-gue, senza forma sensuale, puro concetto maca-bro?

31 Ivi, p. 42.

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Friedrich, l’eremita romantico, non teme diconfrontarsi anche con l’aspetto sociologico del-la faccenda. Il numero degli studenti di arte cre-sce sempre più, che ne sarà di loro quando entre-ranno nella professione? Il fattore quantitativodiventa d’altronde un elemento essenziale dellacrisi dell’arte tradizionale. Fuori del numerus clau-sus delle botteghe d’arte, divenuta una liberaprofessione, dove non si viene selezionati in baseal talento ma accolti per libera volontà di ‹essereartisti›; è naturale poi che questo esercito di pit-tori, scultori, architetti combatta la sua primabattaglia nella concorrenza, e si formino perciòbattaglioni di avanguardia che con teorie e prati-che stravaganti si vogliono distinguere dal restodelle truppe. «Alla base di tutto ciò non c’è forseun’ambizione sbagliata?» si chiede Friedrich. Neitanti nuovi mestieri che stanno rubando le brac-cia all’agricoltura — come si diceva un tempo,quando appunto l’agricoltura imperava — avanzaora anche quello dell’artista. Nel giro di due se-coli, i mestieri ‹creativi› incideranno notevol-mente nelle percentuali delle popolazioni occi-dentali, con un indotto che gareggia con la vec-chia industria pesante, in un intreccio con moda,media, turismo, ecc. Ma questo è il nostro tempo.

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Nel primo Ottocento, ci si domandava ancora:«Bisogna ricorrere alla massa, a un esercito dipittori, per promuovere l’arte?». Nella intermi-nabile guerra all’arte tradizionale, nelle battaglieper il nuovo assoluto che si ingaggiano dal roman-ticismo in poi, c’è pronto un esercito di artisti:

io chiedo, e lo faccio con particolare insi-stenza, si crede davvero che si possa inculcarein un uomo la ragionevolezza attraverso l’in-segnamento delle regole e la meccanicità de-gli esercizi, quando la natura gli ha rifiutatopredisposizione e inclinazione?.32

Domande ingenue, cui Friedrich aggiunge conmaggiore innocenza: non sarebbe meglio chequesta gente senza talento si preparasse a diveni-re abili uomini d’affari? I due mestieri diverrannouno solo nell’arte di domani.

Se l’eremita parla di questioni sociali è perchévi intravede profeticamente i segni del tempo, eDio nell’epoca romantica si manifesta nella sto-ria. Friedrich sembra meno radicale di Runge,quantomeno senza megaprogetti sull’essenzadell’arte, limitandosi a dipingere un quadro che èancora un quadro e che al massimo fuoriesce sullacornice per esuberanza magmatica. Però si tor-

32 Ivi, pp. 43–44.

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menta anche lui sul fatto che non si possa tornareindietro, neppure se si fosse Raffaello redivivo,perché si è figli del proprio tempo e questo tem-po moderno impone di separarsi dal passato, difrantumare la continuità delle generazioni e dicredere solo al futuro, futuro che in un attimo ègià nei rifiuti del passato, secondo la grande in-tuizione di von Baader. «Ogni epoca imprime atutto la sua impronta», il marchio di una finorasconosciuta schiavitù viene imposto dal romanti-cismo all’umanità occidentale. Di questa lottamortale con il passato, Friedrich parla con parolechiare:

Si combatte una guerra eterna contro il tem-po, giacché laddove nel mondo qualcosa dinuovo cerca di assumere forma, per quantosia vero e bello viene contrastato dal vecchio,dall’esistente e solo con la lotta e la contesapuò farsi spazio e affermarsi, finché non subi-rà l’assalto di qualcosa di più nuovo, a cui do-vrà cedere.33

Il mulino del tempo tutto macina, l’arte chesembrava echeggiare l’eternità del divino si fa oraeffimera schiava del tempo, ma non del presente,che solo in quanto immagine quotidiana del-

33 Ivi, pp. 47–48.

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l’eternità potrebbe avere una sua chance, schiac-ciato invece nella battaglia tra vecchio e nuovoche carica di ansia perfino l’istante. Lo scontrodegli adolescenti con i loro padri diventa allego-ria di una umanità che romanticamente si ma-schera da adolescente, falsi giovinetti, truccosfacciato e parodistico, per cui si dimentica o sidileggia la sapienza di secoli, e si ricomincia ognigiorno da capo, contro i padri, senza più diventa-re padri, senza generare, perché le opere sonovotate a quell’«assalto di qualcosa di più nuovo»,come dice Friedrich, che sicuramente le annien-terà.

Friedrich è dubbioso nella teoria quanto è si-curamente innovativo nell’opera. Diffidente ver-so chi si autoproclama sacerdote del nuovo, vor-rebbe conciliare ancora la semplicità del mestierecon l’attuale peso sociale che ha acquistato l’arte.Se si chiede come possa parlarsi di ‹progressodell’arte›, risponde negativamente, ma poi siconfonde con questa pazza corsa del tempo percui il meglio sta sempre dopo. Ricorre allora a unobiettivo non troppo radicale, di genere: la pit-tura dei nostri tempi sarà quella di paesaggio.Così decretavano anche altri, così suonava benein tedesco dove si era rimasti folgorati dalle in-

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terpretazioni goethiane della natura. Puntare sulpaesaggio voleva dire mettere da parte la figuraumana, o rimpicciolirla a tal punto, come faràproprio Friedrich, da tornare alle gerarchie me-dievali nelle proporzioni, girando definitivamen-te le spalle alla prospettiva rinascimentale e al suoumanesimo sotteso. Ma era anche un segno dellostrano panteismo che aveva travolto l’antica artedei giardini e prodotto la teologia neopagana chepiù corrode il cristianesimo rivelato e che si affer-merà nel comune sentire. Senza Goethe, però, eneppure Campanella e Bruno, che ebbero pochiseguaci tra i pittori, e non fosse altro che per mo-tivi cronologici, l’arte del Quattrocento fiorenti-no, o quella ‹lombarda› di Leonardo e dei suoiseguaci, per non dire di Dürer, avevano già mo-strato i segreti di una natura sottratta al materia-lismo e filtrata in un cristianesimo ‹eretico› chepur sapeva distinguersi dal paganesimo.Nell’entusiasmo per la riscoperta ci si dimenticadei celebri precedenti e sembra di assistere al-l’avvento di un’arte più spirituale di quella che ri-traeva gli umani o le scene storiche, perfino piùsacra di quella che metteva in scena Gesù e i suoisanti. I paesaggi si caricano di grandi valori,

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l’«infinito orizzonte» che contengono rimandadirettamente a Dio.

Friedrich può meravigliarsi allora di coloroche «dipingono sempre il terso cielo italiano, li-bero da foschia, nella cui luce persino gli oggettipiù distanti sembrano più vicini», accorciandomagari la distanza incerta che è segno del Dioromantico. Già, per secoli si dipinsero italici cielitersi, o turgidi di nubi leggere e dorate che si fa-cevano nere e minacciose soltanto negli sfondidelle crocifissioni o nelle anticipazioni delle im-magini apocalittiche. D’ora in poi, cieli scuri enordici, e piogge e asfalti bagnati nelle innume-revoli scene impressioniste, rompendo anche inquesto aspetto tematico con vecchie abitudini: ipaesaggi che dovremo avere sempre davanti agliocchi servono ad allietare la vita nella nostra valledi lacrime, conviene che siano immagini solari,squarci di felici esistenze, possibilità di riviveredei dettagli di paradisi in terra — e l’Italia eraedenica per eccellenza —, non permettendosil’arte figurativa quel gusto macabro che pure èconsentito alla letteratura e in modo particolarealla poesia che può civettare con il tetro, perchépoi si chiude il libro mentre l’opera della pitturase ne sta perennemente davanti a noi, e solo i ba-

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rocchi osarono ripetere il memento mori anche inquadri non devozionali, facendoci sospettare chein quell’epoca il gusto del corpo si estendeva adassaporarne con piacere anche il momento delladecomposizione, frutto di una fede, dalla formaoramai perduta, nella resurrezione della carne.

Parlando dell’altro polo della pittura romanti-ca tedesca, di quello dei Nazareni fiorito a Roma,Friedrich, già con il tono polemico incandescen-te delle future avanguardie, attacca duramente lafazione opposta.

Non è disgustoso e nauseante vedere esanguiMadonne tenere in braccio Gesù Bambiniaffamati, le cui vesti sembrano fatte di carta?Va inoltre detto che l’insieme è spesso delibe-ratamente mal disegnato, con volute infra-zioni alle regole della prospettiva lineare edaerea. Tutti gli errori dell’epoca precedentevengono scimmiottati, ma il valore di quelleopere, il sentimento profondo, devoto e in-fantile che le anima, non può certo venirimitato meccanicamente, e questo non riusci-rà mai a degli ipocriti, per quanto abbianoperfezionato la simulazione sino al punto difarsi cattolici.34

34 Ivi, p. 58.

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Friedrich svela gli artifizi della prima avanguar-dia storica (o preistorica, in quanto molto distan-te dal Novecento). Benché questa si voglia sem-plice e spontanea, nient’altro che un ritorno alpassato religioso, alla tradizione, cela un insop-primibile artificio, in quanto il retrocedere è unasimulazione, una messa in scena, un primitivismoesibito in chiave estetica, una religiosità che ri-corre alla filosofia dell’arte. La simulazione si èperfezionata al punto da convertirsi alla ‹religio-ne bella›, ma la differenza tra cattolicesimo eprotestantesimo sta proprio nel resistere, da par-te del primo, alle sollecitazioni romantiche. Dalpunto di vista luterano, la critica di Friedrich in-veste l’infantilismo di ritorno: i nostri avi eranoveramente candidi come bambini e potevano ac-cettare i misteri liturgici e il culto delle immagi-ni, ma adesso come si fa a mantenere un tale abi-to forzatamente infantile?

Se persone adulte facessero i loro bisogninella stanza come i bambini, questo non ver-rebbe certo giudicato favorevolmente né tan-to meno accettato.35

Il paragone è pesante, diventare cattolici per ar-tifizi estetici sarebbe come defecare in pubblico,

35 Ivi.

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atto di demenza cui si piegano i pazzi dichiarati,come Nietzsche dopo la crisi di Torino. Ma Frie-drich sembra non prevedere quell’infantilismodichiarato e militante che già Runge ideava e chetutte le avanguardie o quasi tenteranno di con-quistare. Infanzia sta letteralmente per coloroche non parlano ancora, che sono ai balbetta-menti, alla comunicazione prelogica. L’arte nuo-va partirà da questo stadio, e ove non fosse ingrado di raggiungere un verosimile livello infan-tile, se insomma la scrittura automatica o altretrovate non garantissero l’assoluta in-fanzia etradissero folgorazioni razionali, le droghe per-metterebbero l’impossibilità di ragionare, il pri-mitivismo coatto. Farsi piccoli come infanti at-traverso le soluzioni chimiche per una iniziazionemoderna che consenta di conquistare il Regnodei Cieli.

L’eccessivo ricorso al colore, secondo Friedri-ch, rispecchia il suo tempo: «Ognuno vuole im-porsi con violenza, ognuno vuole superare l’al-tro»,36 magari anche nella nobile gara di chi è piùspirituale, di chi non si lascia irretire dalla mecca-nica verosimiglianza. Ma il risultato è che il colo-re grida, che l’opera conosce soltanto il tono dio-

36 Ivi, pp. 58–59.

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nisiaco, vergognandosi delle delicatezza apolli-nee, che si gareggia nei radicalismi, che la violen-za si trasfigura in arte o meglio l’arte si riduce agesto violento, sulla tela e più tardi sulla scenadella performance. Il dubbioso artista pomeranosa ricordare, non si è piegato a tal punto davantiagli imperativi dei contemporanei da dimenticarele opere di un tempo, il loro fulgore. Eppure ècosì folgorato dalla nuova voga spiritualista, daicomandamenti etici interiori, da risolversi allafine nel preferire l’idea dell’opera al suo aspettomateriale. Egli lamenta infatti che spesso vienecriticato chi «sa stimolare lo spirito e suscitarenell’osservatore riflessioni e sentimenti», mentre«troppo spesso giudicano il valore di un quadrosolo in base al grado di perizia e di abilità nel-l’uso del pennello, nel trattamento e nell’ap-plicazione del colore». Ebbene, bisognerebbe te-ner presenti i due corni della ricerca artistica ma,ammette, «se dovessi scegliere, preferirei anno-verarmi tra i primi».37

In un’altra pagina tornerà sull’argomento: c’èchi crede che

il pittore deve limitarsi a dipingere, non devevolere! […] Io dichiaro apertamente e libera-

37 Ivi, pp. 59–60.

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mente che mai e poi mai potrò concordarecon una simile concezione.38

Del resto una simile concezione riporterebbe allasituazione del pittore artigiano, mentre in cuorsuo l’artista si convince oramai di essere ispiratodirettamente da Dio e di parlare in suo nome al-l’umanità.

Devo ripetere quello che ho già detto piùvolte, ossia che l’arte non è, e non dev’essere,unicamente abilità tecnica […]. È invece ne-cessario che sia il linguaggio della nostrasensibilità, del nostro modo di essere, la no-stra devozione e la nostra preghiera.39

Se il filosofo dice un po’ cinicamente che la no-stra preghiera mattutina è diventata la lettura deiquotidiani, l’artista ancora una volta sembra sal-vare il delicato aspetto del sacro, la nuova pre-ghiera perciò sarà la recezione dell’arte, la con-templazione di un quadro romantico. Quandoqualcuno sostiene che

sia un bel viso […] che un bel deretano sonosoggetti degni per l’artista, essendo entrambiparte della natura, e il Creatore si rivela al-l’uomo attraverso la bellezza…

38 Ivi, p. 67.39 Ivi, p. 79.

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Friedrich tiene subito a dire che «questa opinionesull’arte» che corrisponde

a quella dei migliori greci e dei migliori ita-liani, confesso che non mi aggrada. Da un’o-pera d’arte io esigo elevazione dello spirito eimpeto religioso...40

La religione che viene dannata nelle chiese e neimonasteri deve rispuntare nei musei. Una reli-gione protestante, certo, avversaria della sensua-lità dei «migliori italiani», che si afferma mentre ipastori del gregge luterano perdono peso intel-lettuale e morale, contestati dall’illuminismo.Una libera interpretazione della natura cheprende il posto di quella del testo sacro, una ri-costruzione soggettiva della spiritualità affidataai pittori. E fuori dalle chiese Friedrich dipinge ilsuo Crocefisso, icona di un nuovo culto.

Epilogo. — La commistione religione-arte rag-giunse il massimo, come è noto, nella filosofia diSchelling. In un discorso pronunciato a Monacodi Baviera sul rapporto tra Le arti figurative e lanatura, il teorico idealista mostrava come ormai lavecchia tecnica dei pittori servisse addirittura aconcedere agli umani l’unica esperienza di im-mortalità, quella in qualità di spettatori, davanti a

40 Ivi, p. 81.

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un quadro che sottrae, appunto per miracoloestetico, l’attimo alla morte. Se ogni prodottodella natura

possiede per un solo istante la vera bellezzaperfetta, possiamo allora dire anche che pos-siede per un solo istante la pienezza dell’esi-stenza. Esso è in questo istante ciò che è intutta l’eternità: al di fuori di quell’istante loattende solo il divenire ed il perire. L’arte,rappresentando l’essenza in quell’istante, lasottrae al tempo; la fa apparire nel suo puroessere, nell’eternità della sua vita.41

In mancanza di altra, più certa, immortalità.Quando la carne sembra destinata alla dissolu-

zione, si afferma questa fugace visione dell’im-mortalità, per cui l’arte blocca, come Giosuè, iltempo nei limiti di un quadro. Ne deriva peròun’arte molto malinconica che trapela perfino neltema neutro dei paesaggi. Del resto, Et in Arcadiaego: così parlava la Morte in un paesaggio ‹clas-sico› di Guercino. Rendere viva una natura mortaè ben magra soddisfazione se il quadro divienel’unica speranza di sopravvivenza ed è perciò ca-ricato di significato smisurato. Unico accesso al-

41 Fr. W. Schelling, Ueber das Verhältnis der bildenden Künste zurder Natur, trad. ital. Le arti figurative e la natura, Palermo, 1989, p.52.

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l’Infinito. Un uso strumentale della pittura, unsoterismo per via estetica, dove il pittore natural-mente deve badare a cogliere l’attimo e trasfor-marlo in eternità, sacerdote o mago. Eppure,

certo, non ritornerà mai più un’arte che, sot-to tutti gli aspetti, sia la stessa di quella deisecoli precedenti, giacché la natura non si ri-pete mai. Non ci sarà mai più un Raffaello

e per raggiungere «la vetta dell’arte in un modoaltrettanto originale» ci sarà bisogno di «unanuova fede».42 Della poesia non si sarebbe dettoalla stessa maniera: Goethe era lì a smentirequanti avevano affermato che l’età dell’oro di O-mero e di Shakespeare era per sempre terminata. Ela musica, con Beethoven, si presentava autenticaarte dell’avvenire, senza però rompere con la tra-dizione di Haydn e di Mozart, sempre più assog-gettando casomai le arti figurative fino al puntodi farle astratte come lei, sottoposte alla sua pre-minenza gerarchica.

È allora l’arte sensuale, la raffigurazione deicorpi che pare avviarsi al tramonto, dal momentoche la credenza nella «resurrezione della carne»contrasta con la fede moderna nello spirituali-smo. Ormai l’ateismo si combatte sempre a colpi

42 Ivi, p 71.

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di spiritualismo, perciò il primo risulta semprevincitore. Arte e Grazia, arte in ogni aspetto sa-cra, dunque. A un drappello di pittori tedeschiSchelling affidava il compito di far sorgere l’artenuova e la nuova fede, e sembrava annunciareprofeticamente la congrega dei Nazareni:

Chi può negare che negli ultimi tempi sia ap-parsa di nuovo nell’arte tedesca una sensibili-tà molto più libera e originale che, se tuttoandasse per il meglio, alimenterebbe grandisperanze e creerebbe l’attesa di una spirituali-tà in grado di aprire nell’arte la stessa via, piùalta e più libera, che la poesia e le scienzeavevano percorso, e sulla quale soltanto po-trebbe germogliare un’arte che potremmodefinire veramente nostra, cioè un’arte dellospirito e delle forze del nostro popolo e dellanostra epoca?.43

A udire simili annunci, sulle rive del Mediter-raneo, si saranno provati già allora dei brividi dipaura.

43 Schelling, «Geschichte der zeichnenden Künste» in Le arti cit.,p. 87.

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INDICE GENERALE

L'arte come succedaneo della religione...............5

I maghi del Brutto...................................................19

Il pittore che inventò l'Opera d'arte totale......29

L'eremita del Baltico volta le spalle all'uomo.. 55

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La cornice di copertina è ripresa da De linguæ Latinæ elegantia,di Lorenzo Valla, Simonem Colineaeum, Parigi 1529.