Alle origini della moda

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24,00 Ci si dà a Parigi, senza parlarsi, una specie di appuntamento pubblico, ma molto preciso, tutte le sere al Corso o alle Tuileries, per guardarsi in viso e disapprovarsi a vicenda. Ci si aspetta al passaggio reciprocamente, in una passeggiata pubblica; qui si sfila uno davanti all’altro: carrozze, cavalli, livree, stemmi, niente sfugge agli sguardi, tutto è osservato con curiosità o malignità; e, secondo che si sia in buono o in pessimo arnese, ci si rispetta o ci si disprezza. In questi luoghi dove tutti si ritrovano, dove le donne si riuniscono per sfoggiare una bella stoffa e per raccogliere il frutto della loro toilette, non si passeggia con una compagna per desiderio di conversazione; ci si unisce insieme per farsi coraggio sulla ribalta, per familiarizzarsi con il pubblico e fortificarsi contro le critiche. J. De La Bruyère MONTEFALCONE STUDIUM STUDI e RICERCHE DIABASIS Alle origini della moda Diana Colombo Diana Colombo Alle origini della moda Dal costume nazionale al sistema della moda DIABASIS Diana Colombo (Milano, 1944), ricercatrice pres- so il Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, dopo gli studi sulla Lombardia spagnola nel Cin- que-Seicento e sul rapporto tra militari e civili nei primi secoli dell’età moderna, ha rivolto le ricerche più recenti all’emergere del potere della Moda nel Seicento, quando la parola Moda viene usata e si diffonde. A questi temi ha dedicato, tra l’altro, i saggi Alle origini della Moda in «Symbolon» e Ap- punti sul “secolo alla Moda” in Studi in onore di Marino Berengo. Che cos’è la Moda? È cercando una risposta a que- sta domanda che, dal Seicento, letterati moralisti poeti e satirici si affaticano intorno a un potere nuovo e invadente che governa il mondo ormai detto moderno. Accomunata alla Modernità dalla medesima radice etimologica, la Moda l’accompa- gna nella formazione di una società, individuale e collettiva, in profonda trasformazione. Gli uomini del Seicento, abituati all’uso di costumi nazionali che erano complete carte d’identità, rispettose del- la gerarchia sociale, vedono ormai prender piede, sconcertati e confusi o attirati e complici, un modo di abbigliarsi e comportarsi che sempre più rifiuta ogni dichiarazione di appartenenza e preferisce in- vece una libertà di scelta difficile e scandalosa, ma orgogliosamente esibita. Nel piacere di costruirsi da sé la propria immagine. La Moda si rivela così, ai suoi inizi, portatrice di un ruolo fortemente critico nei confronti della tradi- zione e capace di liberare da molti obblighi, imposti dalle leggi e dalle consuetudini. Ma mostra anche, fin da subito, una forza costrittiva ambiguamente attraente e altrettanto pesante. Incrociando la na- scita dell’opinione pubblica e il potere sempre più invasivo del denaro, la Moda dà vita a una nuova costellazione che fonda l’età moderna. Esplorarne le origini è l’intento e lo scopo di questa ricerca. cop_modaOK_stampa11mm.indd 1 cop_modaOK_stampa11mm.indd 1 16-02-2010 17:32:56 16-02-2010 17:32:56

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Le origini della moda – e quindi dell'attuale sistema della moda – risalgono al Seicento. Diana Colombo comincia da qui la sua indagine accurata e brillante sugli inizi di un "comportamento" che va ben oltre, da sempre, il nostro modo di vestire. Come diceva, a ragione, l'abate benedettino Agostino Lampugnani nel XVII secolo, «le usanze seguono il vestito». Moda e moderno hanno una comune radice etimologica e sono in rapporto strettissimo. Portandosi più vicina alla nostra epoca, l'autrice riporta sul tema le testimonianze di grandi uomini di cultura, come – tra gli altri – Baudelaire, Nietzsche e Leopardi.

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€ 24,00

Ci si dà a Parigi, senza parlarsi, una specie di appuntamento pubblico, ma molto preciso, tutte le sere al Corso o alle Tuileries, per guardarsi in viso e disapprovarsi a vicenda.Ci si aspetta al passaggio reciprocamente, in una passeggiata pubblica; qui si sfi la uno davanti all’altro: carrozze, cavalli, livree, stemmi, niente sfugge agli sguardi, tutto è osservato con curiosità o malignità; e, secondo che si sia in buono o in pessimo arnese, ci si rispetta o ci si disprezza.In questi luoghi dove tutti si ritrovano, dove le donne si riuniscono per sfoggiare una bella stoffa e per raccogliere il frutto della loro toilette, non si passeggia con una compagna per desiderio di conversazione; ci si unisce insieme per farsi coraggio sulla ribalta, per familiarizzarsi con il pubblico e fortifi carsi contro le critiche.

J. De La Bruyère

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ombo Diana Colombo

Alle origini della modaDal costume nazionale al sistema della moda

D I A B A S I S

Diana Colombo (Milano, 1944), ricercatrice pres-so il Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, dopo gli studi sulla Lombardia spagnola nel Cin-que-Seicento e sul rapporto tra militari e civili nei primi secoli dell’età moderna, ha rivolto le ricerche più recenti all’emergere del potere della Moda nel Seicento, quando la parola Moda viene usata e si diffonde. A questi temi ha dedicato, tra l’altro, i saggi Alle origini della Moda in «Symbolon» e Ap-punti sul “secolo alla Moda” in Studi in onore di Marino Berengo.

Che cos’è la Moda? È cercando una risposta a que-sta domanda che, dal Seicento, letterati moralisti poeti e satirici si affaticano intorno a un potere nuovo e invadente che governa il mondo ormai detto moderno. Accomunata alla Modernità dalla medesima radice etimologica, la Moda l’accompa-gna nella formazione di una società, individuale e collettiva, in profonda trasformazione. Gli uomini del Seicento, abituati all’uso di costumi nazionali che erano complete carte d’identità, rispettose del-la gerarchia sociale, vedono ormai prender piede, sconcertati e confusi o attirati e complici, un modo di abbigliarsi e comportarsi che sempre più rifi uta ogni dichiarazione di appartenenza e preferisce in-vece una libertà di scelta diffi cile e scandalosa, ma orgogliosamente esibita. Nel piacere di costruirsi da sé la propria immagine.La Moda si rivela così, ai suoi inizi, portatrice di un ruolo fortemente critico nei confronti della tradi-zione e capace di liberare da molti obblighi, imposti dalle leggi e dalle consuetudini. Ma mostra anche, fi n da subito, una forza costrittiva ambiguamente attraente e altrettanto pesante. Incrociando la na-scita dell’opinione pubblica e il potere sempre più invasivo del denaro, la Moda dà vita a una nuova costellazione che fonda l’età moderna. Esplorarne le origini è l’intento e lo scopo di questa ricerca.

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Il volume è realizzato con il contributodel Dipartimento di Storia dell’Università di Siena

Coordinamento editorialeGiuliana Manfredi

Redazione Sara Vighi

Progetto graficoBosioAssociati, Savigliano (CN)

CopertinaEmanuela Nosari

In copertinaIllustrazione di Emanuela Nosari

ISBN 978-88-8103-654-7

© 2010 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia

telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047www.diabasis.it [email protected]

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Diana Colombo

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D I A B A S I S

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A Marco, figlio.

C’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra. Walter Benjamin

Quando è moda è moda.Giorgio Gaber

Chaque époque a ses maladiesChaque époque a ses médécines.

Emilio Villa

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Capitolo primoIl secolo alla moda

Capitolo secondoUna qualità moderna

Vezzosissima deaMirar novitàL’età del disinganno

Capitolo terzoLa persona di moda

Il fiore azzurroVestire a prammaticaVestiss a fantesii

Capitolo quartoRinegar l’usanza

Forme e coloriAbiti nuoviL’età dell’apparenza

Capitolo quintoBuon gusto

Capitolo sestoAppuntamento pubblico

Il corsoRito e moda

Capitolo settimoPrometeo come Proteo

MaschereLa frenesia d’esser deiDon Dinero

Capitolo ottavoIl potere della moda nell’epoca moderna

Qual Circe o MedeaInfinito carnevale

Bibliografia

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Questo libro è il risultato di una lenta ricerca impostata nel 1997 presen-tando una relazione, intitolata appunto Alle origini della Moda, al convegno“Simbolo, Conoscenza, Società”, tenuto a Napoli presso l’istituto Suor OrsolaBenincasa (gli atti in «Symbolon», a. III, n. 5-6).

Ricerche successive sono state pubblicate nel 2000 (Appunti sul «secolo allaModa» in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, Franco Angeli, Milano 2000)e nel 2004 (La persona di moda nell’età moderna in «La società degli Individui»,n. 20). Nell’ottobre 2005 una relazione intitolata Qual Circe o Medea: il poteredella moda nell’epoca moderna è stata presentata a Siena al convegno “Generee potere. Sovranità, sfera pubblica e società in Antico Regime”.

Queste scritture, rielaborate e arricchite, sono alla base del testo, che inparte ha usufruito di fondi di ricerca.

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Capitolo terzo

La persona di moda

Il fiore azzurroAlla fine del Seicento, quando comincia a pubblicare le prime redazioni

del capitolo sulla Moda dei suoi Caractères, Jean de La Bruyère afferma:

La persona di moda somiglia a quel fiore azzurro che cresce spontaneamente nei solchi,dove soffoca le spighe, danneggia le messi usurpando un posto destinato a qualche cosadi meglio; e che ha valore e bellezza solo in virtù di un fatuo capriccio, che nasce e tra-monta quasi nello stesso istante: oggi è ricercato, le donne se ne adornano, domani verrànegletto e restituito al popolo. La persona di merito invece è un fiore che non viene ricor-dato per il suo colore, ma che viene chiamato col suo nome, coltivato per la sua bellezzao per il suo profumo; una di quelle cose […] che sono di tutti i tempi e di voga antica, sti-mato dai nostri padri e da noi dopo di loro, il cui pregio indiscutibile non potrebbe maiessere scalfito dall’avversione o dall’antipatia di qualcuno: un giglio, una rosa.

O si è persona di moda, o persona di merito. La persona di moda dura poco,la persona di merito invece somiglia a quelle virtù, perfette, ed eterne, che nonpassano e che bastano a se stesse senza bisogno di ammiratori o protettori. Lapersona di merito che vuol essere alla moda sarà, per questo, meno stimata1.

La similitudine non lascia scampo, o modanti o virtuosi. E del resto lacontrapposizione tra la moda e la virtù – che è invece per l’Iconologia di Ce-sare Ripa una «giovanetta alata e modestamente vestita» – è uno degli argo-menti più correnti fra quelli che hanno accompagnato le prime riflessionisull’essenza e la forza misteriosa della moda.

Angelico Aprosio appunto contro la moda in quanto «nemica capitalis-sima della Virtù», scrive il suo Scudo. «Il mio intento fu di scrivere contro laModa, o vogliam dire contro le vanità e contro i vitii» dichiara fin dal princi-pio dell’opera, che ci viene presentata come un richiamo pressante alle armicontro le «otiose piume che hanno dal Mondo la Virtù sbandita». Ed è pro-prio sulla rovina della virtù e dell’innocenza che George Etherege costruirà,qualche decennio dopo, il suo man of mode, in una commedia che si pro-pone, secondo il giudizio di un critico del primo Settecento, di mettere inpessima luce la natura umana ormai corrotta e degenerata all’estremo2.

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Gli uomini alla moda messi in scena da Ben Jonson in Epicenia sono in-fatti oramai stufi di prediche barbose e di morali che spronano sempre allepie usanze e alla carità e desiderosi invece di altri argomenti. «Parlami dispille, di piume, di dame, di gingilli e roba simile» insistono gli stravagantigiovanotti londinesi, che amano solo le donne capaci di perder la testa «peruna piroetta idiota, uno sgargiante nastro francese, una cravatta alla moda»3.Chiaro esempio di Virtù sconfitta e sostituita dalla Moda. La quale, se mai,pretende la compagnia di nuove e altre virtù – virtù magari minuscole – e diqualità a lei specifiche: buon gusto, stile, spirito, galanteria, saper vivere. Ilrequisito che si richiede a un vero gentiluomo è ormai più che altro la capa-cità di saper essere «sempre elegante, sempre corretto / come stesse andandoa un banchetto / sempre incipriato, sempre profumato»4.

È davvero «difficile scrivere di questo secolo» per un testimone dell’epocacome Galeazzo Gualdo Priorato, nobile militare e letterato, autore nel 1666 diuna conosciuta Relatione della città e stato di Milano. È difficile capire comeanche chi ha rischiato mille volte la vita, sparso il sangue e conquistato la di-gnità con onerose fatiche, finga di non esserne ambizioso, e rifiuti quell’onore,proprio dei cavalieri, che è segno e testimone non effimero di virtù. È difficilecapire chi vuol ormai vivere secondo la moda e si accontenta di riporre la pro-pria gloria nel saper riconoscere e apprezzare la vaghezza d’una pittura, il ri-dicolo di una commedia, il dolce suono d’una musica e su tutto la sontuositàe la novità degli abiti. Cose che non lasciano traccia, che in poche ore son di-gerite, che procurano un onore posticcio, quell’onore mondano che è sempreprovvisorio e cade nel disprezzo se non viene sostenuto dalle ricchezze, l’onoreche dipende dalle apparenze momentanee e dagli applausi del volgo5. Chequindi andrà chiamato con un altro nome. Non è più onore, ma fama.

Onore e fama non sono la medesima cosa, aveva spiegato Stefano Guazzo;l’onore è più che la fama e la fama, la dea dalle cento bocche, non è che unaparte dell’onore, quella parte che dipende solo dall’opinione6, che ha bisognodi testimoni che possano riferirne, che vuole che lo si venga a sapere, che haperennemente bisogno di un palco e di un pubblico7.

Anche un gesuita che sa come va il mondo come Baltazar Gracián si lamentadi un secolo disgraziato, in cui la virtù è considerata forestiera e la malizia la fog-gia più in uso, e però sa bene che «un bel portarsi» è il miglior ornamento dellavita e che bisogna adattarsi «a lo moderno» tanto negli ornamenti dello spiritoche in quelli del corpo, anche quando sembra migliore il passato8. E un aristo-

Capitolo terzo48

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cratico come Virgilio Malvezzi, consigliere politico alla corte di Madrid, può di-chiarare che ciò che mette in movimento le intenzioni del mondo è l’opinione, ela prima che nasce ne è il primo motore, il primer movil9.

L’opinione regina del mondo. E certo la moda, nella contesa tra la pre-minenza degli antichi e dei moderni, ci dice che la fama ha preso oramai ilposto dell’onore.

Se la moda è follia malattia «infettione», l’uomo di merito l’uomo saggiol’uomo virtuoso dovrebbe perciò evitare di lasciarsene contagiare, almeno se-condo chi critica, con la morale o con la satira, i costumi del tempo. Perchéè solo per colpa della moda che più d’una dama e di un attillato damerino,troppo occupati a mettersi «in gran parata e a quattro spilli», dimenticano otralasciano persino le orazioni, come sottolinea verso la fine del secolo il mo-ralismo irriverente di Carlo Maria Maggi osservando la società milanese10: ese vanno in Chiesa, lo fanno solo per farsi vedere. Riprendendo evidente-mente anche a Milano quelle abitudini contro cui era intervenuto duramenteCarlo Borromeo negli anni della controriforma. A Milano infatti – è sempreGualdo Priorato a ricordarlo – Borromeo aveva ordinato che nelle chiese uo-mini e donne fossero separati a evitare gli scandali suscitati da chi le frequen-tava piuttosto per vagheggiar le donne, e chiaccherare insieme che peracquistare indulgenze e curarsi l’anima11.

D’altra parte la corte di Roma e gli ecclesiastici sono tra i primi a esibirenuovi lussi e nuove usanze. «Che dirai, o lusso moderno, che molte volte t’in-gegni di comparir più delizioso ne i sacerdoti, che nelle Dame?» chiede Apro-sio, che se la prende anche con i Predicatori Ridicoli e i Predicatori Buffoni12.I sacri manti dovrebbero coprire corpi toccati dalla santità, non essere una«gualdrappa per la libidine»13. Che poi spesso invece i sacri manti vengonodimenticati e i religiosi preferiscono vestirsi da civili per meglio ingegnarsicol lusso e con le novità vestimentarie. Mentre nei chiostri la moda insegnanuove fogge e nuove pieghe «al docil velo monacale»14.

Le Instructiones minuziose di Carlo Borromeo, intervenute per regolare l’ab-bigliamento e il contegno da tenersi in pubblico di sacerdoti ed ecclesiastici (cuiviene ordinato per esempio di radersi la barba) sembrano ormai dimenticate.Esiste perfino un predicare alla moda15. Addirittura «il brio di modezzare co’modanti ha infettato ad alcuni religiosi il cervello», così che se ne vanno in giroprofumati nella barba, come osserva Lampugnani nella Carrozza di Ritorno.

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E certo anche lui sa che non sono abusi nuovi e che le sue parole riman-dano a una lunga tradizione di critica del malcostume ecclesiastico.

Ma il punto è, e Lampugnani se ne rende ben conto, che adesso «il Mondoscusa questi abusi come fatti alla Moda»16. E già nella Carrozza da Nolo avevascritto a questo proposito:

Tanto più che se la Moda stesse né soli termini del vestire, più occasione di ridere chedi danno ci recherebbe. Ma il fatto sta che tali Modanti ci sono che invece d’haverguarnito il corpo alla Moda, han l’animo vestito di doppiezza, e di perfidia e quandoaltrui apportano alcun male, sembra loro bene, perché è fatto, dicono essi, alla Moda,come dir vogliano, che fansi licito d’ingannare e di mentire e di toglier l’altrui, per-ché è industria alla Moda17.

È così che spesso la moda soppianta l’etica e la virtù.

In questo confondere e strapazzare la virtù sembra quindi risiedere il mo-tivo più profondo dell’ostilità che la moda può suscitare.

Doppo che tu hai scelta la rensa per le camicie, il raso per il giubbone, il panno per ilsaio, la rascia per la cappa, la seta per le calze, dopo che tu hai infastidito il sarto perla fattura di questo tuo attillato vestito, doppo che ti sei lavate le mani con i saponettimuschiati, doppo che si son setolati i tuoi panni, dato il lustro alle tue scarpe, tirateesquisitamente le calze, bilicati i taffetà con i quali te le leghi, e ti sei messo il collare,e specchiato e raccomodato e pavoneggiato, e fatto per un pezzo mostra di te per iluoghi consueti, che tempo ti resta da procurare il governo della casa, o per l’essaminedella tua conscienza, o per pensare ad emendare la dissoluta vita tua?

ammonisce e rimprovera fin dalla fine del Cinquecento il già ricordato pre-dicatore spagnolo Padre Tommaso Trujillo18.

Perché come aveva spiegato Virgilio Malvezzi nel Coriolano.

[la virtù] solo ignuda si può giudicare. Non vi è abbigliamento che non la deformi; ellaè di tutte le cose ornamento e di se stessa ornamento e sostanza. […] L’odio, la rab-bia, l’invidia non la toccano; sono tarli, solo nelle vesti allignano.

Virtù devozionale e virtù civile. Lampugnani sottolinea che le usanze sre-golate della moda deturpano e malmenano la civile conversazione. Come diceJean de La Bruyère, in un tempo in cui ormai tutto viene regolato dalla moda,solo la virtù è così poco di moda da andare oltre il tempo19. Carlo Maria Magginelle sue Rime commenta, da parte sua, che tutto quello che ci si può procu-

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rare al presente è, al più, una virtù appena discreta, insegnata con discrezionenon «dal vero che morde, ma dal falso che loda». È la discrezione che dettaormai la morale del tempo, la dolce discrezione, dottoressa della moda del vi-vere, che sa trovare «’l drizz de dà la grazia al stort»20, che sa presentare, e faraccettare come onesti e diritti, comportamenti corrotti e distorti.

Non si sa più cosa sia dire la verità, osservare la parola data: chi ancora citiene, a mantener la parola, è visto come un uomo dei tempi andati, di modoche nessuno lo imita o lo frequenta, quantunque tutti continuino ad ammi-rarlo. In questo modo la prudenza di Baltasar Gracián continua a insegnareche non si deve ragionare all’antica, anche se sa che è la menzogna, usandocome ruffiano il gusto, che ha spodestato quell’integrità che pure, con perfettacontraddizione barocca, considerava la più sublime delle virtù di cui avrebbedovuto coronarsi il suo saggio Discreto21.

Tutte queste critiche certamente raccontano un clima, atteggiamenti di untempo di cui è così difficile scrivere, come osservava Gualdo Priorato, untempo che vede magari cattolici come Carlo Borromeo o, ancora un secolodopo e per rimanere in Italia, come l’Arcivescovo di Benevento VincenzoMaria Orsini22, intenti ad applicare i decreti tridentini, accomunati ai ministridel culto puritano e calvinista nella condanna di un modello di comporta-mento sempre più diffuso, quello dell’uomo di moda. Cattolici e protestanti,divisi nella dottrina religiosa, ma accomunati nella condivisione e nella difesadi quello stile di vita che definiva l’uomo virtuoso.

Fatti di un tempo, l’età barocca, per definizione ricco di contraddizioni edi un intreccio di nuovo e antico che proprio nella compresenza e nella ten-sione tra questi opposti ha visto attribuirsi la sua più specifica caratteristica.

Tutte queste critiche però sono anche vecchi e nuovi stereotipi. Bersaglipolemici fissi nella polemica di ogni tempo contro i suoi malcostumi, e par-ticolarmente duri nella letteratura di un secolo, come s’è visto, scontento e infondo, nonostante l’apparenza, così poco indulgente con se stesso.

Gli stereotipi che l’abate Secondo Lancellotti cercherà di smantellare coni 50 Disinganni dell’HOGGIDÌ, opera scritta per dimostrare a tutti gli HOGGI-DIani, (che «con profondi sospiri, con lunghi e sazievoli lamenti» «tassanoora la maniera del vivere, ora il tenore e corso delle stagioni»), quanto sia as-surdo credere che il mondo sia HOGGIDÌ attorniato o afflitto da miserie e ca-lamità peggiori che nel passato23.

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E allora torniamo alla persona di moda di La Bruyère per cercare, al di làdell’antitesi moralistica moda/virtù24 – e quindi moda/etica – altri aspetti pe-culiari di questa qualità moderna che è la moda.

La caratteristica più appariscente è il ritmo veloce con cui cambia ogni moda,«che a pena un zorno dura»25, che si annoia di tutto, che ama solo il mutamento;il suo essere passeggera. Ancora Montesquieu scriverà al suo destinatario, nelleLettres persanes26, a proposito del rapido vortice delle mode degli abitanti di Pa-rigi: «che mi varrebbe quivi fare un’esatta descrizione dei loro abiti e abbiglia-menti? Prima che tu avessi ricevuto la mia lettera ogni cosa sarebbe cangiata».

Caratteristica, questa incostanza della moda, che fa sì che in molti luoghila locuzione alla moda voglia dire stravagante e nuovo e mai sentito o visto edel tutto insolito. «Diciamo cervello alla moda per significare cervello strava-gante e fantastico, dal mutar che si fa tutto giorno della moda nel vestire»27.

Come il fiore azzurro, la persona di moda nasce e tramonta quasi nello stessoistante e ha quindi bisogno di rinnovarsi continuamente, ha bisogno di fogge eusanze sempre diverse e vistose, non è di tutti i tempi. E se ancora c’è chi puòsostenere che è assai difficile smettere una consuetudine ormai radicata, graziea quell’alleanza che il tempo e le cose28 spesso stringono, per convenienza, con-tro i cambiamenti – «la consuetudine è una potentissima legge» ribadisce PioRossi nel suo Convito29 – Gracián suggerisce invece che nei tempi della modala consuetudine diminuisce l’ammirazione e smorza l’attenzione e l’aspettativaaltrui. Se la consuetudine era stata il pilastro su cui la società premoderna avevabasato abitudini di vita e scelte politiche e religiose e legislative, adesso non sideve più ragionare all’antica né basarsi sull’autorità degli antichi e bisogna adat-tarsi al presente. E al presente, tutto il nuovo piace, proprio in virtù della sua no-vità. È nel gusto per l’attualità che trovano fondamento la stima e il successo30.

Anche per questo, più che altro, il fiore azzurro cresce «spontanea-mente»: e la persona di moda rifiuta regole ed esempi imposti, preferisce in-ventare o cercare «gli artifizi degli ingegni più inventionieri»31, per quantodestinati a durare poco, preferisce rinnovarsi da sé continuamente. Conqui-stata da questo inventare, che non vuol più dire scoprire qualcosa di non an-cora conosciuto, o di cui si è persa la memoria, ma significa definitivamentecreare qualcosa di mai dato.

Come scrive in una delle sue Rime Cesare Caporali

io mi fo co i panni la persona.

Capitolo terzo52

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La creazione richiede se mai la complicità di sarti, camiciai, parrucchieri,venditrici di merletti, ricamatrici se si vuole precedere di almeno qualchegiorno «quelli che sanno»; anche se questo significa sfidare le leggi suntuariee rischiare il carcere, multe salate, anche di essere banditi dalla propria città32.O di essere pubblicamente spogliati degli ornamenti fuori norma.

Il mercoledì delle ceneri del 1622, appena terminato il carnevale, alla cortedel sovrano spagnolo, Filippo IV, ci si affrettò a mettere in esecuzione la pram-matica in atto condannando subito chi non era stato pronto a mettersi in re-gola, finita la festa. Così molti furono portati in prigione «o perché lerivertiglie havevano pizzi, o perché i collari erano maggiori di quel che si co-stumava e il resto del vestito era contra il bando». Ad alcune donne furonostrappate direttamente le verghe d’argento dalle pianelle33.

Sempre sotto il regno di Filippo IV, il governatore e capitano generaledello Stato di Milano, il marchese di Leganes, rimettendo in vigore, per rime-diare agli scandali provocati dalle meretrici, bandi e ordini da tempo trascu-rati, proibisce loro di passeggiare in carrozza, per la città e i suoi borghi, digiorno o di notte, sotto pena della frusta in pubblico e della perdita dellegioie, dei monili d’oro e d’argento e delle vesti che indossano, delle quali pos-sono essere svaligiate, e spogliate impunemente34.

Vestire a prammaticaSi può dire allora che vestirsi alla moda vuol dire vestiss à fantesij35 invece

di vestirsi a prammatica. Prammatiche e leggi suntuarie avevano per secoliregolato la vita civile e la gerarchia sociale, oltre che il mercato e le spese dilusso, disciplinando con meticolosità minuziosa perfino la lunghezza delleguarnizioni e la quantità di drappo che «al più» si poteva usare per una zi-marra o una sottana. Tra concessioni e divieti, le leggi suntuarie avevano fattodi abiti ornamenti e usanze lo strumento capace di affermare nazionalità,ceto, professione, genere, condizione civile, età. In un’epoca, tra l’altro, chenon conosceva molti altri strumenti d’identità, oltre ai titoli nobiliari o ai ro-toli di documenti che i soldati portano sempre con sé: di entrambi i docu-menti infatti si faceva un gran mercato.

Una stoffa una piuma un colore le perle un saluto un inchino un copri-capo erano segni distintivi, un codice di identità che la legge aveva protettopunendo i disubbidienti ma poggiando sul bisogno di identificazione e sul-l’orgoglio dell’appartenenza.

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Si sa che il verde è il colore della nazione tedesca; quando il re va all’as-semblea, sia lui che gli altri signori sono vestiti di verde36. Si sa che la seta èstoffa da titolati, che l’oro e l’argento compete solo ai principi e la piuma d’ai-rone la possono portare solamente i feudatari di alto rango e che le perle sonoil fregio proprio della nobiltà, grazie alle quali le nobildonne si conoscono esi distinguono dalle ignobili. È per questo che quando a Venezia si decidonoleggi37 che proibiscono di portar perle (fuorché alle donne maritate per i primidue anni di matrimonio e, ovviamente, eccettuata la dogaressa) le gentildonneveneziane ne fanno invece l’apologia davanti al Senato38. Le perle, dicono inun supposto discorso, sono «antico e proprio nostro ornamento». Siamo natenobili, come voi senatori, ma per consuetudine e per legge non possiamo inalcun modo partecipare ai pubblici governi, a noi «conviene trattar l’ago e ilfuso ed attendere alla cura domestica della famiglia e non della Repubblica».Le pubbliche lodi, gli applausi, anche se frutto di virtù, non convengono a unaonesta matrona: gli ornamenti sono i nostri onori, e i nostri pregi, non toglie-teceli. Non c’è altra apparente distinzione tra le più vili di noi e le più nobiliche quella che ci ingegnamo di rendere evidente con gli abiti e con gli orna-menti39. Ma se non ci permetterete di vestire conforme al nostro grado, allora«quest’habito muteremo», e «dietro questa mutazione delle donne, seguiràche anche gli habiti si mutino degli uomini» e, si minaccia, a mutazione d’a-bito «par che segua mutazione di costumi».

Se le perle e altri lussi sono permessi solo alle donne maritate e per i primianni di matrimonio, le meretrici sono da tempo sottoposte a un segno di rico-noscimento, in genere di colore giallo, come a Bologna e in Toscana per tuttoil Cinquecento. A Bologna, con bando del 27 maggio 1525, si ordina che deb-bano portare sulla spalla una benda gialla, «longa due braccia e larga un quartoin luogo del sonaglio che altre volte portavano, e sì che tal benda si possa benvedere da ciascuno»40. Mentre l’obbligo, a Siena e Firenze, di portare un velogiallo continua l’uso già decretato dal diritto romano41. Allo stesso modo si sa,d’altra parte, che le donne vedove devono, in molte città, velarsi la testa42.

Dall’aspetto, dall’abito e dai portamenti della persona si comprende bene spesso e sidiscerne un milanese da un astigiano, un ferrarese da un mantovano, un pavese da unpiacentino, un vercellese da un casalasco

spiegava Stefano Guazzo43. Nelle differenze da stato a stato e da città a città,l’appartenenza ai quali era appunto dichiarata da abito ornamento o gesto,

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le leggi suntuarie dettavano norme valide dentro e fuori casa, in città e invilla, controllando quello che si portava in tavola, il tipo di carne e di dolcie il numero delle portate dei banchetti e intervenendo sulla vestizione dei de-funti e sugli addobbi delle cerimonie funebri. Distinguevano soprattutto icittadini dai forestieri, che in generale potevano «vestirsi in quegli abiti chea loro piacerà»44.

La lenta evoluzione di fogge e costumi poteva dipendere da un precisogesto fondativo. Al matrimonio del conte di Altavilla, celebrato a Napoli neiprimi anni del Cinquecento, l’apparizione nel bel mezzo della festa nuziale didon Francesco Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara e luogotenente del-l’imperatore Carlo V, con un sobrio e austero abito nero, da spagnolo chemarca la sua differenza e superiorità sui baroni napoletani, tutti vistosamentecoperti d’oro, istituisce il nuovo colore – e la nuova etica, la gravità spagnola– che sarà a lungo quello proprio ed esclusivo del gentiluomo in armi45.

Ma anche quando il mutamento di abitudini e forme era dovuto al caso,o più semplicemente alle gambe storte di un sovrano che avevano allungatodi colpo tuniche e mantelli o alle belle chiome di qualche principe che ave-vano allungato le capigliature, la nuova maniera aveva continuato a iscriversidentro questo stesso sistema, non aveva smesso di essere un codice civile e re-ligioso preciso, anche se trasgredito, dove «l’estrinseco» dichiara «l’intrin-seco»46 e l’abito dichiara l’identità.

Adesso però che questa gerarchia sociale è in crisi, la velocità con cui lemode e le usanze cambiano riflette questa confusione e la prammatica diventaper lo più un nome senza soggetto che cede il posto alla fantasia e al capriccio.

Non ci si può più fidare dell’abito, che è spesso ormai un «abito mentito».E un abito mentito è un modo d’ingannare47. È così che il fiore azzurro usurpaun posto destinato a qualcosa di meglio e soffoca le spighe. Difatti se i mo-danti fossero tutti nobili, come spiega il solito Lampugnani, non sarebbe poiun gran male. Non farebbero che continuare a dichiararsi, grazie alle nuovemode, isolati e distinti dagli ignobili. Ma vedere perfino la minuta gente seguirele stesse moderne affettazioni crea incertezza e disorientamento. In questo stalo scandalo48. Vedere che perfino lo speziale vuole strapazzare la seta e l’oro.Vedere una gerarchia civile così sconvolta che non si rintraccia più la disparitàdelle condizioni e vedere che il plebeo veste da gentiluomo e il gentiluomo daprincipe «quasi che continuassero ancora le feste saturnali»49. Mentre i prin-

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cipi, soprattutto in Italia, si vogliono tutti imperatori, e cercano di trasformarel’origine imperiale del loro dominio in una celebrazione eroica del proprio po-tere ripetendo in statue e ritratti la postura e gli attributi dell’imperator. Decre-tando attraverso questo processo mimetico la propria legittimità ma anche lapropria subordinazione a Carlo V e ai suoi successori50.

Non dappertutto si cede però con facilità alla confusione dei ceti portatadalla moda. Ancora nel 1670 un gentiluomo come Giovan Francesco Spinola,della grande famiglia genovese, nobile filospagnolo, istruendo il proprio figlioNicolò, a proposito del vestire raccomanda:

Il vostro habito doverà esser conforme all’uso, all’età, e al grado.

E invita a schivare le fogge straniere e a evitare ogni singolarità o nuova in-venzione che possa «farvi seguitare con gli occhi». Ma anche lui sa che se laparsimonia civile si può ancora forse praticare – come spera – fra i gentiluo-mini della sobria Repubblica di Genova, altrove non si tralasciano certo altreprospettive51. Questo altrove potrebbe anche essere per esempio la Lombar-dia, di cui era nota ovunque da tempo la fantasia stravagante nell’uso di guar-nizioni e ornamenti. La fama dell’eccentricità milanese nell’abbigliamento erastata infatti già ironicamente omaggiata anche da Castiglione e commentatacon sospetto da Stefano Guazzo52.

Oppure questo altrove potrebbe essere anche il Veneto; due stati, la Lom-bardia e il Veneto, che Lampugnani e anche l’Aprosio conoscevano bene.Non è certo un caso se La Carrozza da Nolo e La Carrozza di Ritorno partonoda Bergamo e da Padova, le cui fiere ben fornite di queste nuove invenzionisono all’origine dei viaggi immaginati da Agostino Lampugnani. Alla fiera diBergamo, per esempio, c’è la contrada che è chiamata dei Milanesi, per lamolteplicità delle merci, e delle curiose mercanzie, che «con la comodità dicondurle per acqua, somministra l’industria di quella gran città»53.

Non tutti i gentiluomini infatti erano dotati della prudenza di GiovanFrancesco Spinola. E del resto le prime sregolatezze le praticavano già datempo proprio quei titolati che incuranti di quella diversità tra nobili untempo rispettata54 «vanno sempre vestiti come principi e accompagnati comeduchi», e a cui però dispiace fino all’anima vedersi confusi con i ceti inferiorie che non sopportano che non continui ad apparire evidente, come do-vrebbe, alcuna differenza di abbigliamenti e di servitù tra loro e gli igno-bili55. Secondo quanto considerava già un secolo prima, nel 1581, Nicolao

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Guinigi, gentiluomo lucchese autore di un memoriale intorno alla pramma-tica dei vestimenti indirizzato alle magistrature milanesi.

Certo le leggi suntuarie, garanti e depositarie di questa differenza, le cuinorme avevano dato ordine e forma alla vita civile, sono nei tempi della modale meno rispettate e le più consapevolmente trasgredite. Sono anche le piùdifficili da imporre quando non aiuta più il riguardo che ogni ceto dovrebbericonoscere, da sè, alla propria qualità e insieme «all’impossibilità» del pro-prio stato. Ma l’estraneità che molti ormai dovevano provare verso il rigorosoprotocollo imposto, verso tutte «quelle catonerie del vestire a prammatica»56,è forse pari solo allo sbalordimento dei moralisti dell’epoca di fronte agliabusi del vestire e anche all’estraneità o distanza che noi ormai possiamoprovare davanti al testo di quelle norme.

E tuttavia, leggi come quella «contro il velo», approvata in Francia nel200457, hanno ripreso l’intento di intervenire per regolare gli usi e i significatidi ciò che si indossa. Le polemiche però nate intorno a questa decisione hannoribadito tutta la complessità e delicatezza che accompagnano l’identità legataall’abito, e quindi la difficoltà di qualunque intervento normativo in questocampo e il rischio forte di autoritarismo. La molteplicità di significati ormaidepositata in ogni oggetto di vestiario rimanda a una possibilità di scelta in-dividuale che si intreccia con dichiarazioni collettive e insieme con l’annulla-mento di ogni significato distintivo provocato dalla moda, rendendoveramente ardua la valutazione di questi segni.

Un’antica tradizione che celebra ancora oggi a Catania la festa di S. Agatavede le donne intuppatedde: completamente ricoperte cioè, in questo giorno, daun abito che le nasconde dalla testa ai piedi, impedendone la vista. Protetteperò da questa maschera uniforme hanno il diritto, per tutto il giorno, di andaredove vogliono e di chiedere e ottenere dagli uomini tutto ciò che desiderano58.

Il velo che copre completamente la persona, uso che ancora ai primi del Set-tecento riguardava a Venezia le fanciulle da marito, può talvolta permettere quindistrane e inattese libertà. Il seducente Zendaletto, l’abito nazionale delle giovani ve-neziane, non ne mortifica l’aspetto, ma emula se mai la cintura di Venere, agliocchi di chi, come Pietro Michiel59, di famiglia patrizia, sa ben guardarle:

Con artificio stava appuntato sul capo; con malizia copriva e discopriva il volto; coneleganza si attortigliava alla vita, e quest’artificio, questa malizia, questa eleganza da-vagli il potere veramente magico di abbellire le brutte e di far vie maggiormente spic-car le attrattive delle belle.

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Agli inizi del Novecento sarà la veletta, ornamento prediletto da donneeleganti e da femmes fatales, a ereditare il compito di coprire di mistero, dimeraviglia e di “distanza” maliziosa l’erotismo femminile60.

Come insegnava Virgilio Malvezzi a metà Seicento, gli esempi non andrebberomai semplicemente imitati ma, come il cibo, andrebbero mutati, digeriti, animati.Possono solamente aiutare a costruire un «buon giudizio», ma è pericoloso se-guirli in modo conforme, dal momento che gli uomini, «non nella spezie, manegli individui», sono mutati e mutano continuamente. Questa la regola61 di unpolitico e storiografo vicino ai più vivaci centri culturali del suo tempo, ma anchea lungo consigliere alla corte di Madrid, mentre si discute, in Italia e in Europa,degli esempi degli antichi e dei moderni e ai più avvertiti tra i suoi contempora-nei sembra proprio che il mondo voglia incominciare a vivere in tutt’altro modorispetto al passato, tanto negli affari sacri che profani.

Gregorio Leti è uno di questi: sa riconoscere che in ogni tempo il mondosi è mostrato stravagante nelle sue continue mutazioni, ma ciò nonostante èconvinto di trovarsi al principio d’una nuova età dell’universo. Due le ragionifondamentali, ecclesiastica l’una, politica l’altra. E sono «tante mutazioni digoverno e di Signorie» e il fatto che «mai la Religione s’era veduta tanto con-fusa nella confusione di tanti pareri nè mai così sottomessa e rinversata»62.

In questa situazione, l’insistenza di principi e sovrani che di continuo ripro-pongono bandi e gride e disposizioni sulle gioie e gli ornamenti, sopra i nastrie le piume, contro il lusso e le pompe, può solo riaffermare l’affanno con cui sicerca di tenere sotto controllo, oltre ai dazi e al mercato, anche un ordine socialesconnesso e turbato. Un ordine sociale a cui i lunghi anni di guerra, guerreggiatao aspettata e preparata, in quello che non era solo il secolo alla moda ma pursempre un secolo di ferro, avevano offerto un’occasione in più per improvvisericchezze o fulminee povertà. Un ordine sociale in cui il pomposo formalismo,quel ricompattarsi irrigidito e conformista nel cerimoniale e l’etichetta di nuovie vecchi aristocratici, che caratterizza soprattutto la vita di corte e i rituali del po-tere – dove il punto d’onore si è ormai convertito in puntiglio –, prova continua-mente a difendersi dagli attacchi di chi preferisce «vivere a modo suo»63

esibendo i propri usi sociali nelle strade e nelle piazze.Quando perfino le donne di bassa mano vestono seta. e gli uomini si sono

talmente assuefatti alla delicatezza delle vesti da ridursi ormai inabili a maneg-giare le armi e a portare addosso corazza e corsaletto, un moralista come

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padre Tommaso Trujillo certamente si scandalizza. E trova ancora più scan-daloso che questi eccessi, ormai comuni alle corti dei principi e dei grandi,siano trapassati non solo nei nobili e nei cittadini, ma addirittura negli arti-giani e «negli uomini di più vile offitio, i quali piuttosto si levano il pan dibocca, che rimanersi da queste superfluità»64. Se l’ambizione e il denaro pos-sono essere doti bastanti per conquistare abbigliamenti titoli onori e compor-tamenti, già trasgressivi, dei ceti superiori, si può anche pensare, come diceun proverbio diffuso in Spagna in quegli anni, che «ci sarà pure qualcosa chefa l’hidalgo, ma il sangue è pur sempre rosso»65. E chi governa può condivi-dere il medesimo interesse, se le sue casse sono vuote.

Quando nel 1623 Filippo IV di Spagna, seguendo le proposte del suo on-nipotente ministro, il conte-duca d’Olivares, e della Junta Grande de Rifor-mación, aveva ritenuto necessario porre riparo ai molti inconvenienti cheandava sperimentando nelle cose di governo con una grande riforma, avevaindirizzato a tutti i sudditi dei suoi Stati i Capitulos de Reformación66. I prov-vedimenti, che miravano a ridurre alcuni privilegi di nobiltà e clero e insiemea limitare l’emorragia di ricchezze provocata dalle spese di lusso, cercando semai di restaurare il commercio interno, erano giocati in gran parte sulle normesuntuarie. I Capitoli infatti intervengono non solamente sull’amministrazionedella giustizia o sull’eccessivo numero degli Officiali, sui matrimoni e le dotio la creazione di monti di pietà, ma, e sono la maggior parte, su guarnizionie lechuguillas, sui troppi criados occupati solo per ostentazione nelle case deigentiluomini, su titoli e formule di cortesia. In Spagna interventi simili ac-cendono subito la fantasia dei satirici e Francisco de Quevedo comporràquello stesso anno il sonetto Al haber quitado los cuellos y las calzas atacadas67

mentre tutta una letteratura polemica prospera intorno a questi temi.Se possono suscitare il riso dei poeti, le leggi suntuarie possono però preoc-

cupare ancora, e non poco, quei cittadini, o artefici e mercanti che, grazie aimutamenti delle mode, mantengono con agio le proprie famiglie e costruisconofortune che rendono ricche le città e magari dovrebbero contribuire all’aumentodelle gabelle e delle entrate regie. Intervenire con obblighi e divieti vuol dire in-tervenire non solo nel codice sociale ma anche nell’equilibrio economico e sve-lare l’aspetto di imposizione fiscale di queste norme che nel Seicento punisconoi trasgressori ormai soprattutto con multe e sanzioni in danaro. Se i Capitoli del1623 impediscono l’importazione in Spagna di drappi d’oro, di seta, di lana e i

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ricami di ogni genere, tutte cose che si fabbricavano ancora in abbondanza nellostato di Milano che pure, in quanto parte del dominio spagnolo, deve sotto-stare alle stesse norme, si capisce che i rappresentanti della città lombarda si af-fannino a reagire con determinazione, suggerendo che su questi Capitoli sistenda un «perpetuo silenzio»68. Ogni prammatica interviene nell’equilibrioeconomico: se si proibiscono i tessuti d’oro e di seta si favoriscono gli affari deiproduttori di lane e fustagni e di quelle materie, come olio e saponi, che servonoalla loro fabbricazione. È anche chiaro però che basta avere danaro per per-mettersi qualunque trasgressione, o che cercare di proporre nuove mode puòessere il modo migliore per aggirare le proibizioni suntuarie.

Anche se non mancavano forse, da tempo, soluzioni più banali o scaltre.Franco Sacchetti ci racconta in una sua novella il modo arguto con cui le donneper lo più usavano rispondere, con un semplice cambio di nome, al giudiceAmerigo degli Amerighi che tentava di denunciarle quando le incontrava conindosso ornamenti vietati. Se il problema erano i bottoni – «questi bottoni voinon potete portare» – c’è chi risponde: «messer sì, posso, che questi non sonobottoni, sono coppelle; e se non mi credete, guardate, ei non hanno il picciuolo,e ancora non c’è niuno occhiello». Se le leggi prevedono che sia notificata chiporta gli ermellini, la donna accusata protesta: «non iscrivete, no, che questinon sono ermellini, anzi sono lattizzi69. Dice il notaio: che cosa è questo lattizzo?E la donna risponde: è una bestia. E il notaio mio come bestia rimase»70.

Vestiss a fantesiiSe è vero quindi che quasi ovunque la prammatica sta diventando soprat-

tutto oggetto di scherno, perché vietare non giova e perché sempre più di fre-quente la trasgressione può essere riparata da una multa – che trasformaqueste leggi in tasse sul lusso – è anche vero che le disposizioni suntuarie, siache vengano accettate e richieste o rifiutate e trasgredite, giocano ancora unruolo fondamentale nella pratica economica e sociale della vita cittadina.

Una città come Milano, per esempio, si è sempre considerata poco rigida perquanto riguarda gli usi vestimentari e spesso orgogliosa anche di quel tipo diprimato sulle altre città, quelle «nate si può dire con la pragmatica in capo», chela libertà del vestire le garantiva71. E si capisce, avendo fondato da tempo moltadella sua prosperità su mercanti orefici sarti ricamatori e profumieri il cui pa-rere del resto non mancava di richiedere, e spesso di ascoltare, ad ogni voce diprammatica. È quindi una città in cui le discussioni sulla libertà del vivere e del

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vestire toccano i tasti più diversi nel contrasto tra gentiluomini patrizi mercantidaziarii e artigiani, o nel conflitto di interessi tra gli artefici di corporazioni di-verse. Ma proprio per questo è anche una città in cui queste discussioni rive-lano informazioni preziose sul percorso che la moda sta compiendo. Ilmalumore e il subbuglio suscitato in città dall’annuncio di una nuova pramma-tica, verso la fine del Cinquecento e dopo le pressioni di Carlo Borromeo, ri-creato da Gerolamo Maderno in una bosinata scritta in quegli anni, da contodel fatto che piumette e pennacchietti, frange e fiocchi e le scarpe smerlettateingombrano acconciature e abbigliamenti, producono sperpero e sono la rovinadelle case; ma se si proibiscono, i mercanti come faranno? Che faranno i rica-matori e i sarti e tutti gli altri artigiani che lavorano in città?72 Non c’è d’averecompassione per nessuno, ma da sapere che la prammatica proibisce di vestissa fantesii, e che vestiss a fantesii, sbizzarrirsi in abiti di fantasia, nei fronzoli enelle sciccherie, può voler dire anche difendere la libertà del vestire, e il lavorodi molti artefici, contro chi pretende invece norme e regolamenti.

A pretendere leggi restrittive erano di solito i nobili, costretti a inseguire unprimato ormai in mano alla ricchezza e quindi a lasciarsi trasportare nelle spesee magari a indebitarsi e cadere in povertà. Poteva capitare così che una cittàcome Cremona, dove le magistrature cittadine erano saldamente in mano ai cetiaristocratici, richiedesse al governatore spagnolo una prammatica solo per sé,per difendere quella distinzione di persone che la libertà del vestire confondeva.

Vestiss a fantesij vuol dire dunque rifiutare le imposizioni suntuarie, rifiu-tare tutti i vecchi codici, rifiutare le distinzioni tra persone, nobili cavalierimercanti plebei e ignobili, vuol dire difendere la libertà del vestire e seguire,nelle usanze, solamente il proprio capriccio. Scegliere magari, per capriccio,un fiore azzurro qualsiasi, invece della solita disciplinata rosa, non seguire«ni la raison, ni l’usage», né la ragione né l’usanza, ma solamente il proprio«bizarre génie» come scrive La Bruyère73, rifiutare l’impeccabilità del giglio.

«Considerate i gigli, come crescono; essi non lavorano e non filano; eppureio vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito al parid’uno di loro»74, rammenterà più di un secolo dopo Charles Baudelaire pen-sando alla perfezione raggiunta dalla sublime semplicità di un dandy come LordGeorges Brummel. Beau Brummel, il dandy che sarà capace di un prodigio inparte ancora efficace, quello di aver ridato alla figura maschile la capacità diapparire vestita naturalmente, con sobria e distinta bellezza, proprio come un

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giglio. Il dandy capace di quel portento grazie al quale secoli di fogge maschilichiassosamente vistose (giustacuori e lattughe, calzoni a sbuffo, pizzi e nastri co-lorati) già ridimensionate dalla rivoluzione francese, appariranno irrimediabil-mente caotiche e pasticciate: inaugurando la Grande Rinuncia maschile afrivolezze e ornamenti, come la chiamerà Flugel75. Apparirà Brummel, «e nes-suno più osò togliere al costume maschile la semplicità che egli aveva ideato»76.

Era anche erede di una buona tradizione. L’abbigliamento maschile avevagià subito infatti in Inghilterra una decisa revisione nel 1666, quando a cortevenne studiato, e indossato per la prima volta da Carlo II, un nuovo modellodi vestito da uomo, in tre pezzi – giacca lunga, veste sotto e calzoni stretti alginocchio – che sarebbe rimasto a lungo immutato. Un modello semplificato,che prendeva ispirazione in ciò dalle suggestioni, spesso più che altro imma-ginate, dell’oriente, delle sue fogge e dei suoi tessuti che tanto incantavano gliEuropei, pare proprio per quell’immutabilità di forme degli ornamenti tradi-zionali che si rifiutavano invece in patria. I colti viaggiatori avevano riportatocon stupore, nelle loro testimonianze, soprattutto la persistenza dei modi di ve-stire e la decisa assimilazione tra gli abiti dei potenti e quella dei loro sudditi,oltre a un’ abitudine alla semplicità e funzionalità rispettosa del corpo: l’abitoper il corpo invece del corpo per l’abito77.

Tra il giglio di La Bruyère e quello di Brummel era però in Europa nata lamoda, condannata all’invenzione continua, ispirata da capriccio e fantasia.

I dizionari dell’epoca difatti, per esempio il Vocabolario della Crusca del1612, e poi quello del 1717, ma anche il Convito di Pio Rossi, definisconofantasia la potenza immaginativa dell’anima, sinonimo di capriccio o ghiri-bizzo. Il Dictionnaire universel di Antoine Furetière, uscito postumo nel 1690,ci ricorda che fantaisie viene dal greco phantasia, che vuol dire immagina-zione; è ciò che è opposto alla ragione e significa caprice, bizarrerie. E diceche caprice è un «déreglement d’esprit»; quel tipo di disordine che si producequando invece di seguire la ragione ci si lascia trasportare dall’umore del mo-mento, così come in musica e in poesia e pittura i capricci sono quei pezzi chenon hanno nessun nome certo (come il fiore azzurro) e che hanno successoper la forza del genio e non perché vengano osservate le regole dell’arte78.

Secondo il Nouveau Dictionnaire de l’Academie française del 1718, fanta-sia è inventare a piacere invece di seguire le regole dell’imitazione, è non co-noscere altre regole che quelle della propria immaginazione. E moda è la

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maniera in voga che dipende dal capriccio degli uomini. Voltaire scriverà nel-l’Encyclopedie che è la fantasia, più che il gusto, a produrre tante nuove modee Diderot troverà un legame tra un certo tipo di bizzarria e di capriccio e l’an-sia di perfezione. Osserva infatti che l’uomo bizzarro e capriccioso nel suoessere fantasque, estroso, è guidato, nella sua condotta e nei suoi giudizi, dallachimerica idea di pretendere dalle cose una sorta di perfezione di cui le cosenon sono in realtà suscettibili79. Di qui probabilmente gli altri caratteri chevengono attribuiti all’uomo bizzarro, l’impossibilità di fermarsi cioè, di riu-scire a trovare quello che cerca, e quell’umore tipico che lo tiene lontano, nelmodo di agire o di pensare, dal resto degli uomini.

Un umore che fonda il desiderio di novità sulla curiosità, una facoltà che giàGracián aveva identificato come la linea di confine tra il mondo animale e quelloumano, come il fondamento della conoscenza: «senza questa curiosità», avevascritto, «anche un uomo eccezionale può essere scambiato con gli animali».

Umori che rimandano al pensiero libertino, un pensiero libero da regole ecostumi consueti, capace di seguire capriccio e fantasia, e incostanza, senza dot-trina e senza giudizio, desideroso più che altro di mettere in risalto le varietà ele differenze, un pensiero che ama dubitare dei suoi stessi dubbi. Lo scettico LaMothe Le Vayer quando riflette, nei suoi piccoli trattati, su abiti mode e colori,si preoccupa soprattutto di allontanare ogni giudizio prestabilito e di relativiz-zare ogni asserzione fondata sull’apparenza esteriore degli uomini, mostrandoun quadro il più esteso possibile di costumi opposti e opinioni contrarie.

Possiamo certo sostenere, come si dice in Spagna, scrive, che «en el mejorpano ay major engano», che sono solo i più grossolani a indossare i panni piùfini; ma l’esperienza ci conferma che è vero anche tutto il contrario. I colori poi:basta allargare il proprio campo di osservazione, soprattutto basta uscire dal-l’Europa, per sapere che confermano la loro disponibilità a significati opposti.Il bianco, colore così luminoso da essere consacrato a Dio, in Cina è colore dellutto e di cattivo augurio, mentre il giallo, livrea dei gelosi, distintivo degli Ebreie delle femmes de joie, e, in Francia, dei traditori le cui case vengono imbrat-tate di giallo (come capitato a Charles di Bourbon macchiatosi di fellonia sottoFrancesco I) è altrove, somigliando all’oro, dedicato al culto divino.

Quanto alle mode, dice La Mothe Le Vayer, ciò che conviene è avvicinar-cisi ma dolcemente, senza eccessi, più che altro avendo cura di evitare quellestraordinariamente scomode o che portano pregiudizio alla salute80. Che è un

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modo per scavalcare qualunque normativa distintiva – o significativa di mag-giore o minore civiltà – riportando le scelte vestimentarie e di vita alla ricercadi agio e comodità personale.

Le scelte artistiche più innovative della seconda metà del Seicento si pro-pongono comunque di ribellarsi alle regole collaudate; «rompere le regole»(a tempo e luogo, «accomodandosi al gusto del secolo») sarà difatti la regolateorizzata da Giovan Battista Marino, nella sua ricerca di un rinnovamentodella poesia che passa attraverso quello «sviarsi alquanto» dal sentiero se-gnato, sempre pronto a inseguire un nuovo pensiero81. Lo stesso AgostinoLampugnani, autore anche di un romanzo, come la moda del suo tempo ispi-rava, Il celidoro, dichiarava nella dedica al lettore82:

non ho per bene che l’ingegno del compositore si lasci tanto legare alle regole, che ta-lora traripare non possa dal battuto sentiere de gli Antichi.

L’iconologia di Cesare Ripa riassume queste sensibilità e queste insoffe-renze raffigurando il capriccio come un giovinetto vestito di vari colori e de-scrivendo gli uomini capricciosi come quelli che fanno dipendere le loroazioni da idee diverse «dall’ordinarie de gli altri uomini»: uomini quindi nonsolo governati da incostanza e varietà ma capaci di farsi delle leggi a parte,delle regole sregolate e disordinate, come è giusto per chi ha a che fare conquell’ossimoro che è la moda.

Nel mondo dei virtuosi per eccellenza, il mondo del melodramma, teatrocosì di moda dalla seconda metà del Seicento, le invenzioni a capriccio, lestravaganze scenografiche e le curiose apparenze hanno ormai la meglio sullevecchie buone regole dell’arte.

Come sempre in questi casi, c’è chi semplifica un po’ e confonde la ricercadi qualcosa di nuovo con il «non intendersi punto di musica»; chi pensa cheper diventare popolare possa bastare comporre «cose di poco studio e con mol-tissimi errori per soddisfare all’udienza», costretta così ad accontentarsi; chi èpersuaso che si debba allettare il popolo piuttosto cercando «lo strepito» chel’armonia, e a tutti costoro Benedetto Marcello dedicherà una sorta di parados-sale e comico manuale di precetti all’incontrario, il Teatro alla Moda83. Mettendoin scena debolezze e vergogne del meccanismo dello spettacolo, il teatro vistoda dietro, Marcello descrive le cattive abitudini che accompagnano la musicamoderna e i suoi personaggi, gli idoli del momento, compositori cantatrici e im-

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presari, poeti sarti di scena e madri delle virtuose, maestri di bella maniera, checonfondono il capriccio con i capricci o con l’ignoranza e la faciloneria.

Una critica che troveremo poi ripetuta con motivi analoghi per tutto ilSettecento, fino al libretto scritto da Giambattista Casti nel 1786 per un attounico, musicato da Salieri, che affronta soprattutto il rapporto, nel melo-dramma, tra la musica e la poesia. Intitolato Prima la musica e poi le parole, iltesto ironizza su un tipo di musica che va bene per tutto, che ha di eccellentesolo il fatto che si scrive in fretta e «che può adattarsi a tutto egregiamente»e rientra nel tipo di canzonatura che Casti riserva al nuovo modo di vivere insocietà, da lui comunque condiviso con un certo compiacimento84. Ben inse-rito nelle mondanità della sua epoca, l’abate irregolare e libertino, tanto mal-visto da Parini, ma letto e tenuto presente da Leopardi, ha vissuto infatti letrasformazioni di un ambiente governato dalle mode e ha riprodotto nellesue rime, con l’anticonformismo del suo libero pensiero, le tensioni di unmondo che si voleva nuovo e nasceva per molti aspetti già decrepito.

Note1. J. DE LA BRUYÈRE, Les caractères cit., De la mode, pp. 8 e 5.2. Il giudizio è di Robert Steele, sullo Spectator del 15 maggio 1711. Nell’ediz. dell’Uomo

alla Moda curata da V. Papetti, a p. 24.3. G. ETHEREGE, The man of mode cit., atto II, sc. II.4. B. JONSON, Epicoene or the silent woman (Epicenia o: la muta in Teatro a cura di N.E.

Condini, TEA, Torino 1988), atto I, sc. I. La commedia è stata rappresentata per la prima volta,alla fine del 1609 o all’inizio del 1610, dai Children of the Queen’s Revels ai Whitefriars.

5. G. GUALDO PRIORATO, Relazione della città e stato di Milano cit., p. 2.6. Dialoghi piacevoli del Sig. Stefano Guazzo, de Franceschi, Venezia, pp. 395-397, Dell’honore.7. M. DE MONTAIGNE, al cap. XVI, l. II, degli Essais.8. B. GRACIÁN, Oráculo cit., 14, La realidad y el modo e 120, Vivir à lo plático. Anche

Nietzsche nel capitolo Moda/moderno già citato si chiedeva, subito all’inizio, a propositodella moda (e delle virtù dell’Europa): «sarebbe essa realmente il loro rovescio?».

9. V. MALVEZZI, La libra de Grivilio Vezzalmi, traducida de italiano en lengua castillana. Pe-sanse las ganancias, y las perdidas de la Monarquia de Espana en el felicissimo reynado de FelipeIV el Grande, Gafaro, Pamplona y Naples 1639, p. 1.

10. C.M. MAGGI, Beltraminna vestita alla moda in Il teatro milanese, a cura di D. Isella, Ei-naudi, Torino 1964, vol. I, p. 165.

11. G. GUALDO PRIORATO, Relatione cit., p. 129.12. A. APROSIO, Lo Scudo cit., p. 173 e p. 332.13. G.M. MUTI, La Penna volante descritta in certe lettere alla moda, Benedetto Miloco, Ve-

nezia 1681, p. 59.14. Così ancora nel secolo successivo, nel Poemetto intitolato LA MODA con l’aggiunta di un

discorso accademico sullo stesso argomento, Landi, Firenze 1777, p. 9.15. A. APROSIO, Lo Scudo cit., cap. 44, Del predicare alla Moda, p. 332.16. A. LAMPUGNANI, Della Carrozza di Ritorno cit., pp. 51-52.

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17. A. LAMPUGNANI, Della Carrozza da Nolo cit., p. 78.18. T. TRUJILLO, Delle Pompe cit., Discorso ottavo, p. 31.19. J. DE LA BRUYÈRE, Les caractères cit., De la mode.20. «Trovare il destro di dare garbo allo storto». In C.M. MAGGI, Al fine d’una Comedia e

Al Sig. Dottore Lodovico Antonio Muratori in occasione d’un Discorso di Filosofia Morale soprala dritta Ragione in Le rime milanesi, a cura di D. Isella, Guanda, Parma 1994, p. 130 e p. 167.

21. B. Gracián nell’Oráculo cit., 120, Vivir a lo plático, in Acutezza e arte dell’ingegno, LV ene Il Discreto, p. 24.

22. Poi Papa Benedetto XIII. Da Arcivescovo, nel primo Sinodo Diocesano del 1686, ispi-randosi alle Instructiones di Borromeo, aveva condannato, negli ecclesiastici, un uso eccessivodi vesti laicali e l’indulgere a mode secolaresche nei colori, nelle trine, nei fiocchi. M. MANCINI,L’incontro tra l’Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini e la Diocesi di Benevento, tesi in Filosofia, a.a.2000/2001, Università di Siena.

23. S. LANCELLOTTI, L’HOGGIDÌ overo il mondo non peggiore ne più calamitoso del passato,Guerigli, Venetia 1627 (1° ediz. 1623), disinganno L, p. 661. Conosciuto a Parigi da De Gre-naille, che in La Mode ne discute le tesi, a p. 237.

24. E però ancora a fine Settecento il Dictionnaire des gens du monde di A.F. STICOTTI, editoa Parigi chez J.P. Costard nel 1770, alla voce Mode contrappone l’homme à la mode a l’hommevertueux.

25. Il Modazzazzo cit. 26. Nella lettera XCIX dell’ediz. di Amsterdam del 1760.27. L. LIPPI, Il Malmantile racquistato. Poema di Perlone Zimoli con le note di Puccio La-

moni, stamperia di S A.S. alla Condotta, Firenze 1688 (I ed. 1676). Nota al cantare 7, stanza40, p. 349.

28. Il pensiero di Bacone è riportato nel t. XI dell’Encyclopédie alla voce nouveauté.29. P. ROSSI, Convito cit., portata I, p. 94. 30. B. GRACIÁN, Oráculo cit., 3, Llevar sus cosas con suspensión.31. A. APROSIO, Lo Scudo cit., p. 263.32. Così la legge emanata a Venezia il 15 ottobre 1562. Anche Genova, con la legge del 9

maggio 1581 se la prendeva in modo particolare con «ogni e qualunque foggia nuova». I testiin A.S.M., Araldica, p.a., c. 139.

33. Relatione delle cose notabili stabilite nella Corte di S.M. Catholica, G.B. Malatesta, Mi-lano 1623.

34. La grida, data in Milano il 10 marzo 1640 in Libro delle Gride Bandi ed ordini fatti e pub-blicati nella città e stato di Milano nel governo dell’Eccellentiss. Sig. Don Diego Felipe de Guzman,marchese di Leganes, Malatesta, Milano 1645.

35. L’espressione è di G. MADERNO, Remò scià stà in Milan per la Prematica, col sò lamentstà fa dal sora scricc Baciòcch (Subbuglio accaduto in Milano per la Prammatica, col Lamentofatto dal soprascritto Baciocch) in G.P. LOMAZZO, Rabisch, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino1993 (I ed. 1589), p. 269.

36. Lo ricorda Henri Estienne. Portato poi in uso da alcuni gentiluomini francesi, il verdeera diventato il colore personale di Caterina de’ Medici. In Deux dialogues du nouveau langagefrançois (I ed. 1578) a cura di P.-M. Smith, Slatkine, Genève 1980, p. 208.

37. Parte presa nell’Eccellentissimo Consiglio di Pregadi. In materia di ori, perle e gioie, stam-pata per G.P. Pinelli, il 20 agosto 1644. Pubblicata il 22 dello stesso mese sopra le scale di S.Marco e Rialto, insieme al testo delle leggi precedenti, del 1599, 1609, 1633.

38. Apologia degli ornamenti delle donne davanti al Senato veneto in A.S.F., Manoscritti, c. 742.39. G. FRANCO in Habiti d’huomini et donne venetiane (Venezia 1610), dichiara che «Ritro-

vasi quattro qualità di donne in Venetia, le quali vanno vestite quasi tutte a un modo; né altra

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differenza è tra loro, che la maggior overo minor quantità di gioie: percioche le gentildonne so-pravanzano le altre con le perle di gran valuta».

40. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia Romagna, a cura di M.G. Muzzarelli,Pubblicazioni degli archivi di stato, Fonti XLI, CLUEB, Bologna 2002, p. 181.

41. A Siena e Firenze l’obbligo del velo giallo è ribadito dalle disposizioni del 1546,1568,1579e 1637. In L. CANTINI, Legislazione toscana, Stamperia Albiziana, Firenze 1800, tt. I, VII, IX e XVI.Sulla Normativa contro il lusso a Siena tra il 1548 e il 1620 la tesi di laurea di Roberta Di Lallo,Siena, a.a. 1999/2000.

42. A Siena, per esempio, e a Genova (M. CATALDI GALLO, La moda a Genova nel primoquarto del Seicento in Van Dyck. Grande pittura e collezionismo a Genova, Electa, Milano 1997).

43. S. GUAZZO, La Civil Conversazione cit., p. 102.44. Così precisano i Raccordi sopra la pragmatica del vestire pubblicati a Milano nel 1584.

In A.S.C.M., Araldica, c. 41.45. A. QUONDAM, Tutti i colori del nero. Moda “alla spagnola” e “miglior forma italiana”,

in Giovanni Battista Moroni. Il cavaliere in nero. L’immagine del gentiluomo nel Cinquecento,Skira, Milano 2005.

46. A. LAMPUGNANI, Della Carrozza da Nolo cit., pp. 3 e poi 4. 47. F. SBARRA, La Moda cit., p. 117.48. A. LAMPUGNANI, Della Carrozza di Ritorno cit., p. 20.49. In A. MANNO, Documenti cit., pp. 147-168.50. Sull’imperializzazione dei canoni iconografici dei principi della penisola M. FANTONI,

Carlo V e l’immagine dell’’imperator’ in Carlo V e l’Italia, Bulzoni, Roma 2000.51. G.F. SPINOLA, Instruttione familiare di Francesco Lanospigio nobile genovese a Nicolò

suo figliuolo, Tinassi, Roma 1670, p. 21.52. B. CASTIGLIONE, Il Libro del Cortegiano, l. II, cap. XXVII e S. GUAZZO, La civil conversa-

zione a cura di A. Quondam, Modena, Panini 1993 (I ed. 1574), nel l. II.53. A. LAMPUGNANI, Della Carrozza da nolo cit., p. 7.54. Cfr. per esempio la distinzione tra seminobili, nobili e nobilissimi nel l. II de La civil con-

versazione di Stefano Guazzo.55. A.S.M., Araldica, p.a., c. 139, Modo da ridurre le Genti dello Stato di Milano al vestimento

modesto. Sulle proposte di Guinigi, C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, La-terza, Roma-Bari 1988, p. 136.

56. Cfr. A. TASSONI, Dieci libri di pensieri diversi, Bidelli, Milano 1628, p. 520.57. La legge, del 15 marzo 2004, firmata da Jacques Chirac, proibisce l’ostentazione, nelle

scuole nei collegi o nei licei pubblici, di tutti quei simboli o segni vestimentari (signes ou tenues)che possano manifestare una appartenenza religiosa. La questione, e gli interventi che l’hannoanalizzata, hanno chiarito che l’obbiettivo principale della legge era l’uso del velo islamico.

58. Bibliotheca Sanctorum, Pontificia Università Lateranense, vol. I, p. 330. Ringrazio Gae-tano Greco cui devo questa informazione. Sul diritto di ‘ntuppatedda la novella di GiovanniVerga, La coda del diavolo.

59. P. MICHIEL, Origine delle feste veneziane, vol. III, Feste in onore di Federico IV di Dani-marca e Norvegia, dic. 1708.

60. Sculture e bassorilievi greci mostrano poi sempre velate le donne che partecipano ai ritiiniziatici, a rappresentare l’introspezione mistica, l’aumentata capacità di concentrazione e con-trollo su se stesse. Non si toglie il velo a una donna senza il suo permesso.

61. V. MALVEZZI, Il ritratto del privato politico cristiano estratto dall’originale d’alcune azioni del ConteDuca di San Lucar, Sarzina, Venezia 1635. Nell’edizione a cura di M.L. Doglio, Sellerio, Palermo 1993, allepp. 114-116. Il Conte Duca è naturalmente Gaspar de Guzman, conte di Olivares e duca di San Lucar.

62. Cfr. G. LETI, Il Cerimoniale cit., parte IV, l. I, p. 4.

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63. «Se ogn’uno può vivere a modo suo quando non vi entri l’offesa a Dio, io credo che pa-rimenti ogn’uno possa scrivere come li piace, quando non se ne offenda Apollo». Dalla premessaagli Amori di Apollo e di Dafne dramma cantato di metà Seicento di G.F. Busenello – membro,come Lampugnani, dell’Accademia degli Incogniti. La cit. da P. FABBRI, Il secolo cantante. Peruna storia del libretto d’opera nel Seicento, il Mulino, Bologna 1990, p. 131.

64. T. TRUJILLO, Delle Pompe cit., discorso secondo, p. 3 e discorso settimo, p. 27.65. «El algo hace al hidalgo, que la sangre toda es bermela». Ricordato da F. de Quevedo

nel Sogno dell’inferno in Sogni e discorsi, a cura di I. Bajini, Garzanti, Milano 1990. La primaedizione dei Sogni uscì a Barcellona nel 1627.

66. A.S.M., Dispacci, cc. 59-60, Capitulos de Reformación que V. Magestad se sirve de man-dar guardar por esta ley, para el govierno del Reyno. Data in Madrid il 10 febbraio 1623.

67. F. DE QUEVEDO Y VILLEGAS, Obra Poetica, II, Poemas satíricos y burlescos, ed. de J.M.Blecua, Castalia, Madrid 1970, p. 61, sonetto n. 607. Sulle discussioni nate in Spagna intornoalle disposizioni suntuarie v. anche M.G. PROFETI, Storia di O. Sistema della moda e scrittura sullamoda nella Spagna del Secolo d’Oro in Identità e metamorfosi del barocco ispanico, a cura di G.Calabrò, Guida, Napoli 1987, pp. 113-148.

68. Il Memoriale del 24 gennaio 1623 inviato in Spagna dai Conservatori del Patrimonio dellacittà e dal suo Vicario di provvisione, Cristoforo Archinti, in A.S.C.M., Araldica, cc. 41-51.

69. Pelli di agnelli lattanti. Cfr. R. LEVI PISETZKI, Il costume cit., p. 24.70. La novella 137 è ricordata da L.T. BELGRANO, Della vita privata dei genovesi, Tipogra-

fia del Regio istituto sordo-muti, Genova 1875, pp. 261-262.71. A.S.M., Araldica, p.a., c. 139, fasc. 5. Da una delle scritture pervenute nel 1565 al Ma-

gistrato ordinario incaricato di preparare una relazione sulla prammatica che doveva essereemanata nel 1568.

72. G. MADERNO, Remò cit., alla nota 35. Maderno era uno dei Savi dell’Accademia della Valdi Blenio di cui era Abate G.P. Lomazzo, cui era stata inizialmente attribuita questa bosinata.

73. J. DE LA BRUYÈRE, Les Caractères cit., De la société et de la conversation.74. Il Vangelo di Matteo, 6.75. J.C. FLUGEL, The Psychology of Clothes, Hogarth, London 1930 (Psicologia dell’abbiglia-

mento, Franco Angeli, Milano 1974).76. Anche se «nessuno seppe mantenersi a quel livello di squisitezza; e si ebbe il vestito senza per-

sonalità, irrigidito e volgarizzato nelle sue linee, quel vestito che tutti continuiamo a portare». Cfr. BeauBrummel di M. PRAZ in Fiori Freschi, Garzanti, Milano 1982, p. 210, anche per la cit. da Baudelaire.

77. G. BUTAZZI, Incanto e immaginazione per nuove regole vestimentarie: esotismo e modatra Sei e Settecento in L’abito per il corpo, il corpo per l’abito, Artificio, Firenze 1998.

78. Secondo Furetière, Dictionnaire cit., caprice è parola nuova «du temps d’HenriEstienne», a cui sembrava «molto strana».

79. Il pensiero di Diderot costituisce la definizione del termine bizarre nel Dictionnaire desgens du monde cit., t. V, Supplement, p. 435.

80. F. DE LA MOTHE LE VAYER, Opuscules ou petits traictez, chez A. de Sommaville et A.Courbé, Paris 1643-1647. Nel I tomo Des habites et de leurs modes differents, pp. 208-259; nelIII tomo Des couleurs, pp. 220-252.

81. G.B. MARINO, La ninfa avara in Opere, a cura di A. Asor Rosa, Rizzoli, Milano 1967, p. 569.82. Il romanzo, in cinque libri, e pubblicato sotto lo pseudonimo di Gio. Battista Mognal-

pina, era uscito nel 1642, a Venezia presso l’editore Oddoni.83. B. MARCELLO, Il teatro alla moda o sia Metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire

l’Opere italiane in Musica all’uso moderno, stampato a Venezia intorno al 1720, passim. Un’e-dizione recente a cura di R. Manica, Quiritta, Roma 2001.

84. G. MURESO, Le occasioni di un libertino (G.B. Casti), D’Anna, Messina-Firenze 1973, p. 151.

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