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MUSICA » ARTI » OZIO SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 12 MAGGIO 2012 ANNO 15 N. 19 S C ANNE R S LA «VECCHIA SIGNORA» E IL POETA SIMONCELLI KY-MANI MARLEY, AUTOBIOGRAFIA MICHAEL GIRA FEMMINISTE CONTRO HOLLYWOD: JANE FONDA SUSAN SARANDON MICHELLE RODRIGUEZ SULLA STRADA DI CANNES 65: ARGENTO, SIMONETTI, BERTOLUCCI, LLOYD, KAUFMAN, MORETTI, TRINTIGNANT, TRAPERO, WAKAMATSU, SALLES JR. santa pace», spiega di santa pace», spiega di santa pace», spiega di

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MUSICA » ARTI » OZIO

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 12 MAGGIO 2012 ANNO 15 N. 19

SCANNERS

LA «VECCHIA SIGNORA» E IL POETA SIMONCELLI

KY-MANI MARLEY, AUTOBIOGRAFIA MICHAEL GIRA

FEMMINISTE CONTRO HOLLYWOD: JANE FONDASUSAN SARANDON MICHELLE RODRIGUEZ

SULLA STRADA DI CANNES 65: ARGENTO, SIMONETTI, BERTOLUCCI, LLOYD,KAUFMAN, MORETTI, TRINTIGNANT, TRAPERO, WAKAMATSU, SALLES JR.

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(2) ALIAS12 MAGGIO 2012

FESTIVAL DE CANNES

Marilynin «costaazzurra».per divideredi MARIUCCIA CIOTTA

●●●Il soffio di Marilyn Monroeresta sospeso, ghiacciato all'infinitonell'istantanea del poster ufficialedel Festival de Cannes numero 65 ela candelina non sarà mai spentasulla torta che celebra i cent'annidel cinema come lo conosciamonoi, nella forma «lungometraggio difinzione», e i cinquanta dallascomparsa dell'attrice (5 agosto1962) dalla pelle così iridescente eviva «da dare l'illusione chetendendo la mano si potessetoccarla», parola di Billy Wilder.

Ed è il conflitto irrisolto tra corpoe immagine, enigma tra reale eriflesso schermico, che fa dell'attriceil simbolo perfetto dell’invenzionedei fratelli Lumière. Così sarà lei,Marilyn, a far da bandiera al festivalpiù ambizioso del mondo, lei chenon è diva e neppure pin-up, néideale misterioso di donna comeGreta Garbo né pop-corn Venuscome Betty Grable. Allude allebellezze seriali da calendario anni40, ma è unica. Macchina deldesiderio si smonta da sé nellaparodia delle polpose ragazze daStudios, senza aura e aureola,deliziose e igieniche come ilchewing gum, o come le pubblicitàdel dentifricio di cui farà il verso inQuando la moglie è in vacanza.

Marilyn appartiene agli anni 50,post-Roosevelt, post-guerra,post-noir quando l'imperativodomestico indica la via oscena di«come sposare un milionario», equando Hollywood, ammazzata ladiva – Rita Hayworth agonizzanteSignora di Shangai – si ritrova tra lemani l'innocua casalinga Doris Day.Ed eccola trasfigurare la donninaappesa alle voluttà maschili,stereotipo cangiante, indocile allemanipolazioni, dispositivo dierotismo a orologeria.

Marilyn, decalcomania daincollare sulla Vespa, si anima nellarivolta dell'essere doppio, figuratragi-comica, oggetto erotico attivo,potente e inafferrabile chesmaschera lo sguardo. Scende daicartelloni, esce dal coro dellebellezze in serie e si fa persona,«come se la Betty Boop dei disegnianimati di Fleischer o la Daisy Maedi Al Capp avesseromiracolosamente trovato un'animae un corpo di donna dovealloggiare» (Barthelemy Amengual).Un'astrazione in carne e ossa,un'assenza-presenza. E che mairiuscirà a conciliare il sé con il suoaltro pubblico.

Si dice che Marilyn soffrisse neltentativo di farsi apprezzare comeattrice – studierà il Metodoall'Actors Studio – ma la suafilmografia si incarica di smentire.Sarà diretta da Roy Ward Baker,John Huston, Joseph Mankiewicz,Tay Garnett, John Sturges, FritzLang, Howard Hawks, HenryHataway, Jean Negulesco, OttoPreminger, Billy Wilder, JoshuaLogan, George Cukor. Il Gotha diHollywood. La sua eterna battagliatra pop-market e pop-art con glistruggenti ritratti di Andy Warholdicono il passaggio tra la fine dellamitologia hollywoodiana e lamodernità, dal New Deal aKennedy. Nei suoi lineamentipassano in continua metamorfosi levamp e le fidanzatine d'America,nessuna e tutte. E il cinema si fermanel guardarla, e come lei si disperanell'impossibilità di scendere dalloschermo e vivere.

di GABRIELLE LUCANTONIO

●●●Durante la conferenza stampadi presentazione del 65˚ Festival diCannes, il direttore artistico, ThierryFrémeaux, ha dichiarato: «Dracula 3d,il nuovo film di Dario Argento, è ladimostrazione che i grandi registi nonmuoiono mai». L'ultimo adattamentocinematografico del romanzo di BramStocker sarà presentato nella«Scéance de minuit». La pellicola hauna fotografia (realizzata dal grandeLuciano Tovoli) dalle tonalità caldecome il sangue e l'amore e cheevocano l'eleganza degli horrorprodotti dalla Hammer, negli anni’60. Un gotico façon Argento. ConThomas Kretschmann, Rutger Hauer,Asia Argento e Marta Gastini, primaincursione di Argento nel cinema 3D.Ma non è solo seguire una tendenzaalla moda. Il regista romano è semprestato uno sperimentatore. InProfondo rosso (1975) aveva usato laSnorkel. In Tenebre (1982) la Louma.Per Phenomena (1985) aveva fattovenire dalla Germania una macchinada presa montata su una gru enormeper realizzare una ripresa dall'alto. Neparliamo con Argento:

●È il tuo ritorno in Italia dopoalcune esperienze americane(«Giallo» e i due Masters of Horror:«Pelts» e «Jenifer»). Cosa ti hannoportato queste esperienze?Sono state esperienze importanti, mihanno dato tanto entusiasmo e tanta

voglia di fare e di continuare.

●Tuo fratello Claudio Argento nonè tra i produttori di «Dracula 3D»...Sono tre anni che non lavoriamo piùinsieme.

●Perché hai scelto di realizzare unadattamento del «Dracula» diBram Stocker.?Dracula mi ha sempre interessatomolto. Il romanzo come i diversi filmrealizzati finora mi hanno sempreaffascinato. Di recente, ho riletto illibro e ci ho trovato degli elementiche non sono mai stati davverosfruttati e sviluppati. Pensosoprattutto alle metamorfosi diDracula in animali o in creaturebestiali. È un aspetto interessante cheapre a molte possibilità estetiche evisive. Ho puntato molto su questoelemento. Ci sono quindi tantissimieffetti speciali. Ma non è stato l'unicoelemento a motivarmi. Mi ha spintoanche lo sviluppo del 3D. Ha fatto deiprogressi incredibili rispetto alpassato. Adesso si possono fare cose

che erano impensabili anni fa. Hopensato che se sceglievo questaangolazione, poco affrontata finora,del personaggio, potevo, con il miostile e la mia personalità e l'ausilio del3D, dare una mia lettura personale,più dinamica e moderna, di Dracula.

●In «Dracula 3D» c'è il granderitorno del direttore della fotografiaLuciano Tovoli nel tuo cinema.Volevo rifare un horror con dei coloripiù accesi di quelli che si usano nelcinema attuale. Dei colori propriocome quelli degli horror antichi(quelli della Hammer per intenderci).Ho pensato che collaborare di nuovocon Tovoli sarebbe stata un'ideagiusta. È un grande esperto ditecnologia, e scegliendo di adoperareil 3D, mi sembrata la persona idealeda chiamare.

●Tovoli ha realizzato le fotostupende di «Suspiria» (1977) e«Tenebre» (1982). Come avetelavorato su «Dracula 3D» ?Abbiamo lavorato sempre insieme e

siamo stati sempre molto uniti nelledecisioni da prendere.

●Quali movimenti di macchina il3D ti ha permesso di realizzare?Ho usato le Alexa, delle telecamere diultima generazione dell'Arriflex. Lamacchina da presa del 3D è peròmolto pesante, molto ingombrante. Èquindi molto difficile muoverla. Almassimo potevo fare un carrello. LaSony mi ha dato una steady cam, una

macchina di nuova generazione,molto bella, ma più leggera (anche sesempre pesante) che mi ha permessodi muovermi in modo più facile. C'èinvece, grazie al 3D, la possibilità direalizzare delle inquadrature cheprima erano impossibili fare. Il miointeresse principale non è il 3Dproiettivo ma la profondità. Abbiamosfruttato anche la dimensioneproiettiva, ma al livello registico miinteressava maggiormente laprofondità dell'inquadratura.

●Quanto tempo per le riprese?Abbiamo girato per 10 settimane.C'era un buon ambiente sul set. Latroupe si sentiva responsabilizzatadalla novità del 3D in italia. Si sonotutti impegnati molto. È più facilelavorare in queste condizioni.

●Perché non hai girato il film inTransilvania?All'inizio volevo girare in Transilvania.Sono andato a fare dei sopralluoghi emi sono reso conto che non era piùpossibile. I castelli sono stati tuttitrasformati in Bed and Breakfast. Ilpresidente della Film Commission -Torino Piemonte, Steve Della Casa,mi ha suggerito di trovare dellelocation nella sua regione. Abbiamoquindi girato in un borgo medievale,Ricetto di Candelo, nei presso diBiella. È un villaggio ancoraperfettamente conservato. Gli abitantidel paese ci tengono molto e fanno ditutto per non snaturare la suabellezza architettonica. Il castello

DIVISMO BIANCOE DIVISMO NERO

CANNES 2012

SEAN PENN E HAITI●●●Cannes organizza il 18 maggio, all’Agora del festival, una serata-colletta per Haitipresentata da Giorgio Armani, « Carnaval in Cannes », per sostenere le associazioni J/PHaitian Relief Organization (J/P HRO) di Sean Penn, Artists for Peace and Justice di PaulHaggis e Happy Heart’s Fund di Petra Nemcova, nate per aiutare a ricostruire Haiti e lesue istituzioni artistico-culturali dopo il catastrofico terremoto del 12 gennio 2010 cheha causato centinaia di migliaia di morti. Il festival ha organizzato serate simili per aiutarel’Institut Pasteur e la ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia. Star della serata ilpopolare gruppo haitiano Ram. L’associazione di Penn (1200 persone, il 97% haitiani) sioccupa soprattutto di assistenza ospedaliera, programmi educativi ed edilizia.

Nel profondorosso Argento

«Ho riletto il libro e ho trovato elementi che nonsono mai stati davvero sviluppati...le metamorfosidi Dracula in animali o in creature bestiali».Il maestro italiano parla del suo «Dracula in 3D»

CANNES / SCANNERS

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(3)ALIAS12 MAGGIO 2012

INTERVISTA ■ CLAUDIO SIMONETTI

Il bacio di Draculaal ritmo paurosodel theremine dei violini ziganidi GABRIELLE LUCANTONIO

●●●Dracula 3D è la 13a splendidacolonna sonora del compositoreitalo-brasiliano Claudio Simonetti perDario Argento (11 dove era regista e 2solo produttore). Una collaborazioneche ha sempre prodotto ottimi frutti.

●Dracula 3D si svolge nell'’800.Cosa implica ciò a livello musicale?Fin da ragazzino ho sempre amato ifilm di vampiri, sono quindi moltofelice di aver scritto una colonnasonora per il mio personaggiopreferito, Dracula, in un film direttoda Argento! Essendo un film incostume d'epoca, la musica nonpoteva che essere classica. Houtilizzato l'orchestra, come avevo giàfatto per La Terza Madre (2006),anche se qui è in un modo piùintenso e sofisticato. Qua e là homischiato qualche synth conl'orchestra.

●Una colonna sonora che pare unviaggio nella storia delle musichehorror, con l'utilizzo del theremin,come negli anni '50, e di archi connote dissonante...Per Dracula 3D ho usato moltissimo iltheremin, il più antico strumentoelettronico della storia. È compostofondamentalmente da due antenneposte sopra e a lato di un contenitorenel quale è alloggiata l'elettronica. Ilcontrollo avviene allontanando eavvicinando le mani alle antenne. Lostrumento è considerato moltodifficile da suonare proprio perché losi suona senza toccarlo e devo direche sono impazzito per usarlo almeglio. Ho mischiato il Theremin conl'orchestra e l'effetto è davverovampiresco, soprattutto grazie allearmonie dissonanti. L'ho usatopersino nel brano gotico/rock deititoli di coda Kiss Me Dracula.

●Ci sono anche delle sonorità«zingaresche»...Un altro grande protagonista dellacolonna sonora è il violino, suonatoproprio alla maniera zingaresca. ADario è piaciuto moltissimo. Questo

strumento ci fa vivere subitol'atmosfera dei Balcani, è stato il miomodo di esprimere lo spirito«rumeno» di Dracula. Il contributodella concertista inglese GabrielleLester, è stato importante. Hacollaborato con Michael Nyman inmolte sue colonne sonore e fa partedell'Orchestra Città Aperta.

●Perché hai scelto di registrare conl'Orchestra Città Aperta di CarloCrivelli?Ho scelto di registrare con l'OrchestraCittà Aperta a Fossa (Aq) perché misembrava giusto lavorare in Italia enon andare in Bulgaria, come ormaimolti compositori italiani fanno percontenere i costi. A parità di costi, hopreferito stare in Italia e lavorare conmusicisti italiani che non hannoniente da invidiare a nessuno. Devoringraziare Carlo Crivelli che si stadedicando allo sviluppo di questaorchestra. Ormai le orchestre italianesono state tutte incredibilmentesmantellate. Ricostruirne una nuova ecompetitiva è una cosa giusta da fareSono molto soddisfatto del risultato.

●Come per «La Terza madre»(2007), hai utilizzato i Daemonia, iltuo secondo gruppo -l'altro sono iNew Goblin- nel brano rock deititoli di coda.Il brano dei titoli di coda si chiamaKiss Me Dracula. Ha il testo in inglesee la voce di Silvia Specchio, giàprotagonista del musical ProfondoRosso (del quale ho realizzato lemusiche nel 2007). Il brano si troverànella colonna sonora del film e anchenel cd nuovo di Simonetti Project. Ilgruppo non si chiama più Daemonia.Il nome Daemonia è troppo limitativoe poco rappresentativo della miamusica.

Oltretutto è difficile promozionareun gruppo con questo nome alleradio e in tv in un paese come ilnostro. Il videoclip in 3d di «Kiss meDracula» lo abbiamo girato a Ricettodi Candelo, nei luoghi del film. È statorealizzato da Gabriele Albanesi, ilregista del Bosco fuori (2006) e diUbaldo Terzani Horror Show (2010).

Dario Argento e alcune sequenze e foto di scenadi «Dracula». Il film, presentato fuori concorsoa Cannes 65, è interpretato da Marta Gastini,Rutger Hauer, Asia Argento, Miguel Angel Silvestree Miriam Giovanelli. Nella foto in basso l’autoredelle musiche, Claudio Simonetti

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GERENZAARABI

«Dopo la battaglia»arriverà la guerra?Nasrallah in garacon «la primavera»

APICHATPONG WEERASETHAKUL●●●Torna a Cannes la Palma d’oro 2010 con Mekong Hotel (proiezione speciale),documentario girato sul fiume al confine fra Thailandia e Laos. Sarà presidente dellagiuria di Locarno 2012 questo poliartista thai, tra i più originali fabbricanti di immaginidel mondo, architetto con master in cinema alla School of the Art Institute di Chicago.Pluripremiati i suoi 5 lungometraggi, i corti, i doc, a partire da Lo zio Boonmee che siricorda le vite precedenti e da Syndromes and a Century («uno dei migliori film deldecennio»). Dal 1998 espone in numerosi musei del mondo e sarà a Documenta 2012di Kassel con la sua nuova videoistallazione. Fra i lavori recenti il film online per Mubi(Ashes, 2012) e per il Walker Art Center, Usa (Three Wonders of the World, 2012).

ROMAN POLANSKI●●●Già acquistato per il mercato italiano dalla Lucky Red (presente sullaCroisette anche con il film inaugurale, Moonrise Kingdom di Wes Anderson), saràevento controverso del festival il documentario di Laurent Bouzereau RomanPolanski: a film memoir, dedicato alla vita, alle opere e alle complesse vicendeprocessuali di uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo, che si racconta,guardandosi indietro per ripercorrere la sua carriera e i controversi avvenimenti dicui è stato protagonista. Lo intervista l’amico Andrew Braunsberg, produttore dialcuni dei suoi migliori film. Il doc è prodotto da Luca Barbareschi (CasanovaMultimedia). La proiezione è il 17 maggio, alle ore 17.00, nella Sala del Sessantesimo.

di ROBERTO SILVESTRI

●●●La «primavera araba» ancora incorso, e la rivoluzione permanente«per la libertà, la dignità e lademocrazia» in maghreb, Egitto emashreq, con le sue ripercussioni,non sempre positive ma non tuttefacilmente decifrabili, arrivano anchequest’anno sulla Croisette. Il registaegiziano Yousry Nasrallah 60 anni,allievo prediletto di Yussef Chahine eil decano della nuova onda algerina,Merzak Allouache, sono stati invitaticon i loro nuovi film: After the battle(Dopo la battaglia), in concorso (e,con il Cosmopolis di Cronenberg ePattinson il mio favorito «sullacarta») e Il pentito alla Quinzaine,dopo che in Francia è stato appenadistribuito il penultimo Allouache,Normal. Entrambi sono direttamentecollegati con gli avvenimenti che damolti mesi stanno modificando lageopolitica del Mediterraneo (e conla censura, tuttora operante). Quale èil tema del film di Nasrallah, unabitué della Croisette, ex giornalista,documentarista (suoi bellissimi filmsul velo) e autore di Furti d’estate,Mercides e The Gate of Sun (Bab ElChams), dal romanzo di Elias Khourysulla nakba? Una riflessione sullademocrazia, particolarmentenecessaria oggi mentre la Siria,crogiuolo di etnie, sta esplodendo.«Democrazia - ha detto Nasrallah inuna recente intervista a SabineLange - non è potere assoluto dellamaggioranza, né populismo, cioéquel che vuole la gente, ma rispettodei diritti delle minoranze, che sonoparte del popolo. E una democraziache non riconosce le opinioni,qualunque esse siano, di questeminoranze, religiose, politiche,culturali, sessuali, non è democrazia!La democrazia implica responsabilitàindividuale. Mentre in tempirivoluzionari spesso accade che unimprovviso, cieco impulsodemagogico rimpiazza la nozione didemocrazia. E questo è esattamenteil tema del mio nuovo film After theBattle. Un mix tra finzione edocumentario, basato sugliavvenimenti politici che vanno dalreferendum del marzo scorso,quando le modifiche costituzionalifurono votate con forzaturapopulista, fino alle elezioni politichedel prossimo novembre». Con tuttoquel che sta accadendo al Cairo sipresume che Nasrallah (che ha giratomolto durante le lotte, e non solo inpiazza Tahrir) starà in salamontaggio fino alla notte prima dellaproiezione di Cannes.... MK2, gestitada Karmitz, sessantottino drasticofinito poi sarkozysta, lo distribuirà inFrancia assieme a Like Someone inLove di Kiarostami e On the Road diWalter Salles jr. Alla 44e Quinzainedes réalisateurs, in cui un terzo èlatinoamericano, si vedrà invece ElTaaib (Il pentito) di MerzakAllouache (con il cortoanglo-marocchino in gara The cursedi Fyzal Boulifa). L’Acid ha incartellone The End, esordio delmarocchino Hicham Lasri. Facileessere stati contro il partito unico ola dittatura di Mubarak. Più difficilerispondere alle domande che questidue film porranno: che tipo di Egittoe di Algeria vogliamo adesso? Gliislamisti rispondono «due paesi conla sharia» e a chi si dice contrario allasoluzione wahabita rispondono: «Seicontro il popolo!». Ovvio che si dovràavere il coraggio di dare una rispostadavvero, finalmente rivoluzionarie, aquesta domanda. Né Riad. Nè Qatar.

dove abbiamo girato si trova invece aMontalto Dora, vicino ad Ivrea.

●Come hai realizzato il cast?Dracula è interpretato da ThomasKretschmann. Avevo già lavorato conlui per La Sindrome di Stendhal(1996), in cui interpretava il maniacoomicida. Durante le riprese, all'epoca,avevo pensato che sarebbe statoperfetto in vampiro. Ha un'aria unpo' vampiresca, anche se è un uomomolto bello. Così quando ho deciso direalizzare Dracula 3D, ho pensatosubito a lui. Nel film però il suoaspetto cambia continuamente. VanHelsing invece è interpretato daRutger Hauer. Sono entrambiolandesi. Invecchiando, Hauer ha poiacquisito una presenza molto forte,più carismatica. Mina è interpretatada Marta Gastini, un'attrice moltogiovane che ha lavorato nel Rito diMikael Hafstrom. Lucy invece,l'amica di Mina, è interpretata daAsia. Mi piace lavorare insieme a lei.Con mia figlia c'è un'intesa moltoforte, molto bella.

●Gli sceneggiatori (l'esperto dicinema horror Antonio Tentori eStefano Piani) hanno collaboratocon te per la prima volta...Sì, sono tutti nuovi. Ma ci sono ancheio tra gli sceneggiatori.

●C'è poi un collaboratore storico, ilcompositore Claudio Simonetti...Sì, ha scritto una bella musica, moltohorror. Ci sono anche delle sonoritàche ricordano i Balcani.

●Per la prima volta un tuo filmsarà presentato a Cannes....Thierry Fremaux, il direttore delfestival, mi ha invitato due anni fa aLione. Con l'Institut Lumière, che luidirige, aveva organizzato un omaggiodedicato a me, nel quale avevaproiettato cinque film miei . Mi avevadetto che se avessi avuto qualcosa dipronto per la selezione dei film perCannes, me lo avrebbe preso a scatolachiusa. Invece ha voluto comunquevederlo prima. Però gli è moltopiaciuto e ne sono davvero contento.

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IN COPERTINA:Un’opera originaledi Mannig Gurekianispirata al manifestodel 65˚ Festival de Cannes

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(4) ALIAS12 MAGGIO 2012

AMERICA SULLA CROISETTE ■ KAUFMAN, WES ANDERSON, NICHOLS, DANIELS

È nelle «lezionidi cinema c’è NormanLloyd, l’amico di Orson

L’ASIA SULLA CROISETTE ■ IN CONCORSO E NELLE SEZIONI PARALLELE

Kiarostami giapponeseWakamatsu affrontaMishima. E la Corea

NORMAN LLOYD●●●Attore, produttore e regista del cinema e del teatro (fu co-fondatore delMercury Theater assieme Orson Welles), famoso per la sequenza di Saboteur (1942) diAlfred Hitchcock (è lui il «nazista» che precipita dalla Statua della Libertà) NormanLloyd, 97 anni, amico di Chaplin e Renoir, è una straordinaria e poliedrica personalitàdella cultura americana e ha un punto di vista unico sulla storia cinema. Il critico diHollywood Reporter e scrittore Todd McCarthy modererà l’incontro con Norman Lloydil 24 maggio in sala Bunuel. Tra i suoi film The Streets of New York, Within These Walls, AWalk in the Sun e Reign of Terror e molti episodi delle serie tv di Alfred Hitchcock. Nel1989 è il preside in L'attimo fuggente di Peter Weir, con Robin Williams.

«25 novembre,il giorno delsuicidio. YukioMishima e igiovani». Nel filmdi Wakamatsuanche l’incontrodel 1969all’universitàcon il Movimento

GLI SCIAMANIDEL CINEMA

Gli scrittori, De Lillo, Hemingway, Kerouac...Lestar, Brad Pitt, Robert Pattinson, Bruce Willis,Nicole Kidman, Matthew Conaughey...i grandiregisti, da Philip Kaufman a Jeff Nichols

di GIULIA D’AGNOLO VALLANNEW YORK

●●●Dom DeLillo e Jack Kerouac,Robert Pattinson e Kristen Stewarta parte, pensare agli Stati Unitid’America a Cannes 2012 significaprima di tutto segnalare il ritornodi Philip Kaufman. Avventurosoesploratore di grandi storienordamericane - la conquista dellafrontiera, quella dello spazio - diaspre guerre condotte per la stradedel Bronx, nei gelidi palazzidell’alta finanza o alle prese conultracorpi forse nemmeno troppodiversi da noi, Kaufman ha dasempre manifestato sugli schermianche un grande amore per laletteratura (Milan Kundera, HenryMiller e il marchese de Sade sonogli autori con cui ha già dialogato).Hemingway and Gellhorn, il filmcon cui l’autore di The Right Stufftorna quest’anno alla Croisette,sembra la combinazione ideale diquelle due passioni. È infatti lastoria avventurosa del matrimonioletterario tra Ernest Hemingway ela grande giornalista MarthaGellhorn, instancabie cronista diguerra (iniziò in Spagna),dall’occhio lucidissimo e dallaprosa ancor più vivida, la cuicarriera (spesso ingiustamenteoffuscata dalla fama diHemingway) ha reso possibilequelle di grandi star delgiornalismo di guerracontemporaneo come ChristianeAmanpour, Laura Logan e MarieColvin, recentemente rimastauccisa in Siria. Tutto girato intornoa San Francisco (dove Kaufmanvive da anni e dove sono statericreate Cuba, la Spagna, KeyWest, New York, Londra e laGermania) Hemingway andGellhorn, una produzione Hbo,sarà presentato fuori concorso eaccompagnato da una «lezione diregia» condotta dallo stessoKaufman.

È invece piena di nomi menocollaudati il resto della selezioneUsa. A parte, in apertura,Moonlight Kingdom di WesAnderson (love story tra duedodicenni che scappano insiemenella wilderness di un’isola

britannica, scritto da RomanCoppola, con Bruce Willis, BillMurray, Frances McDormand,Edward Norton, Tilda Swinton eJason Schwartzman), e inmancanza degli attesissimi nuovifilm di Terrence Malick e PaulThomas Anderson, ThierryFremaux ha dovuto giocare di«giovani scoperte», il che va un po’contro le sue tendenza abituali mapotrebbe portare un po’ di ariafresca in una selezione che daqualche anno è sembrata piuttostoprevedibile. Quello che aspettiamocon più curiosità è Mud, il nuovofilm di Jeff Nichols, sorpresa l’annoscorso prima a Sundance e poi allaSemaine de la Critique cannensecon il premiato Take Shelter.Ambientato su un’isola delMississipi, Mud è la storia di duebambini e della loro amicizia conuno strano cacciatore di taglie(Matthew McConaughey). Lawless,scritto e musicato da Nick Cave, ediretto da John Hillcoat (The Road)è ambientato nella Virginia delproibizionismo e ispirato dallegesta dei tre fratelli Bonderant,fabbricatori di alcol illegale(diottimo whisky clandestino sioccupa anche The Angel’s Share diKen Loach...). Con Shia Lebeuf,Tom Hardy, Guy Pearce, GaryOldman, Mia Wasikovska e Jessica

Chastain. Una partita di pokerandata storta fa si che la mafiachiami in campo contro Ray Liottail noto fixer Jackie Cogan (BradPitt) in Killing Them Softly, nuovolavoro dell’elegante autore di TheAssassination of Jesse James by theCoward Robert Ford, AndreiDominik che dopo il sognante,stilizzato western di qualche annofa sembra passato a una gangsterstory contemporanea dal toccoquasi comico. Laureato invecedalla sezione «Un Certain Regard»(dove aveva debuttato con ilvincitore di Sundance, Precious) èLee Daniels, in concorso con ThePaperboy, tratto da un romanzo diPete Dexter (anche sceneggiatore)in cui Zac Ephron torna nel paesedella Florida in cui è nato peraiutare il fratello giornalista arisolvere il caso di un uomocondannato a morte forseingiustamente. Nel cast ancoraMatthew McConaughey, NicoleKidman e John Cusack. Giàanticipato come uno dei grandicasi cinematografici dellaprossima stagione, il vincitore diSundance 2012, Beasts Of theSouthern Wild, dell’esordientenewyorkese Benh Zeitlin (unpirotecnico gesto di realismofantastico su Katrina e unprofondo sud Usa quesi estinto) èparte della sezione Un CertainRegard. Annunciato dopo laconferenza stampa ufficiale, è inUn Certain Regard anche GimmeThe Loot, del newyorkese AdamLeon, recente vincitore di Sxsw aAustin. La lunga liason tra Cannese la DreamWorkd Animation èconfermata anche quest’annodalla presenza di Madagascar 3:Europe’s Most Wanted (con voci diBen Stiller, Chris Rock, JadaPinkett Smith e Jessica Chastain).Ed è obliquamente un po’americano - sempre fuoriconcorso - anche Maniac, liberoadattamento dal terrificanteclassico horror di Bill Lustig,diretto dal francese FranckKhalfoun. Niente America allaSemaine della Crique, direttaquest’anno dal critico CharlesTesson. Mentre alla Quizaine desRealisateurs è arrivato Room 237,cult di Sundance e granderompicapo sul kubrickiano TheShining, insieme a The We and I,di Michel Gondry (ambientato inun liceo del Bronx).

Assolutamente a non perdere, la«lezione di vita» a cura delnovantasettenne Norman Lloyd,co-fondatore del Mercury Theaterinsieme a Orson Welles,collaboratore di Charlie Chaplin,di Alfred Hitchock e di RobertAldrich e testimone preziosissimodi quasi un secolo di storia diHollywood.

di MATTEO BOSCAROLTOKYO

●●●Anche se non particolarmentenutrita, la partecipazione estremoorientale a Cannes 65 è da seguire conun occhio di riguardo per una serie diritorni e quasi debutti e per unarecente tendenza «transnazionale» delcinema asiatico che trova nelprestigioso evento francese unadefinitiva conferma. La parte delleone la fa sicuramente la Corea delsud con ben due lungometraggi inconcorso, a coronamento di unmovimento che nell'ultimo decennio,a livello di cinema autoriale ecommerciale di qualità ha riservatomoltissime buone sorprese. Nondimenticando poi che, come avvenneper il cinema giapponese non moltotempo fa, si sono riscoperti

recentemente, grazie al Far East diUdine, alcuni gioielli del cosiddettodecennio perduto, gli anni 70. Inconcorso il regista sud coreano HongSang-soo porterà In Another Countrydove vedremo Isabelle Huppertinterpretare tre diversi personaggi che«si recano» in un paese costiero dellapenisola coreana. L'attrice francesesarà la sola straniera in un cast cherecita, per la maggior parte, in inglese.L'altro film di Seul in concorso, forse ilpiù atteso, è Taste of Money, firmatoda quel Im Sang-soo che con il remakeThe Housemaid aveva partecipato giàal concorso per la Palma d'Oro dueanni fa. La feroce critica dell'upperclass cominciata con quel film sembracontinuare in questo Sapore dei soldiche fin dal titolo si preannuncia unadura presa di posizione verso ipotentati economici che finiscono perdominare le scelte politiche esoprattutto la vita delle persone. Tantopiù adesso che l'economia coreana èdiventata una realtà stabile e benvisibile con i suoi prodotti tecnologicianche nei nostri negozi, la domandaperò è, tutto questo «progresso» a cheprezzo è stato raggiunto? Im Sang-sooci porta con questo suo ultimo lavoroall'interno di una di queste grandifamiglie, una zaibatsu si direbbe ingiapponese, e di come il protagonista,un giovane ambizioso, vengarisucchiato nel gorgo dei giochi dipotere di queste «alte» sfere.

L'ultimo film estremo orientale ingara per la Palma d'Oro, Like Someonein Love, è un lavoro ibrido, scritto ediretto dall’iraniano Abbas Kiarostamie interamente girato in Giappone conattori e staff del luogo e ci presenta,speriamo in maniera originale, untema su cui già molto è stato detto eprodotto cinematograficamente, cioè

il fenomeno molto nipponico delprostituirsi per permettersi un altostandard di vita. Qui la protogonista èuna studentessa universitaria cheaccetta di farsi pagare e continuarecosì gli studi in cambio del rapportocon un anziano professore. Èinteressante notare come un altroregista iraniano, Amir Naderi, haseguito lo stesso percorso diKiarostami con l’omaggio alla cinefiliaCut, a Venezia 2011, girato inGiappone. Like Someone in Love faparte in maniera obliqua della piccolarappresentanza giapponesequest'anno a Cannes. Vedremo infattisolo due film dal paese del sol levante,The Legend of Love and Sincerity, partemusical, parte commedia, diretto daTakashi Miike e soprattutto 11. 25 TheDay He Chose His Own Fate di KojiWakamatsu. Mi si conceda

CANNES / SCANNERS

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(5)ALIAS12 MAGGIO 2012

FUORI CONCORSO ■ BERNARDO BERTOLUCCI INCONTRA NICCOLO’ AMMANITI

Due fratellastri in fugadall’inquietudine.Il ritorno del maestro

CLAUDE MILLER●●●Omaggio al regista francese, erede della nouvelle vague, scomparso a 70 anni il 4aprile scorso, con la proiezione del film che aveva appena finito di montare, ThérèseDesqueyroux, dal romanzo di François Mauriac già film di Franju nel 1962, con AudreyTautou nel ruolo del titolo, e Gilles Lellouche. Il film chiuderà il festival il 27 maggio nelGrand Théâtre Lumière. Nato a Parigi nel 1942, all’Idhec tra il 1962 e il '63, assistente diBresson e Godard, Miller diventa l’allievo prediletto di Truffaut. Nel 1976 esordiscecome regista in La Meilleure facon de marcher, cui seguono Gli aquiloni non muoiono in cielo(’77), Guardato a vista (’81), La piccola ladra (’88), L'accompagnatrice (’92) Il sorriso (’94)Betty Fisher ed altre storie (2001) e La piccola ladra (2003), da Checov.

A nove annidi distanza da«The Dreamers»,arriva «Io e te»che il registaha tratto daun romanzo brevedello scrittoreromano

un'annotazione personale. Da quandoebbi l'occasione di intervistarlo nel2005 per Alias - era sconosciuto ai piùo comunque era stato dimenticato - ilvecchio Wakamatsu ne ha(ri)guadagnata di strada e dipopolarità internazionale e questonon può che farci piacere. Il film cheporterà a Cannes è l'atto finale dellatrilogia che esplora, in modo moltopersonale, la storia del Giappone nellaseconda metà del XX secolo. Dopol'enorme United Red Army del 2007 eCaterpillar di tre anni successivo, ilregista giapponese approda(finalmente) a Cannes nella sezioneUn Certain Regard in virtù pensiamoanche del tema affrontato. Questolavoro infatti ci racconterà, in modopartigiano e non potrebbe esserealtrimenti avendo Wakamatsu vissutoquegli anni in prima linea, gli ultimianni della vita di Mishima Yukio(interpretato dal talentuoso Arata) finoal famoso suicidio quindi, e del suorapporto con i movimenti giovanilidell'epoca. Il titolo inglese non rendebene l'idea quanto quello giapponeseche recita, «25 novembre il giorno delsuicidio. Yukio Mishima ed i giovani».A questo proposito è interessantenotare come nel film figuri anche laricostruzione di un famoso dibattitoavvenuto in un università occupata

nel 1969 fra Mishima e la TodaiZenkyoto, un gruppo di sinistra delmovimento studentesco. Wakamatsusembra ritornato ai ritmi diproduzione da «pink eiga» degli annisessanta. Questo film invitato allaCroisette è infatti il secondo a uscirenel 2012: un paio di mesi fa alla JapanSociety di New York è stato proiettatoin anteprima mondiale Petrel HotelBlue e in agosto ne uscirà un terzo.

Insomma un energia da ventenne peril settantaseienne regista giapponeseche con budget limitati e quindi unaqualità delle immagini che per forza dicose non è qualitativamente altissima,ora come non mai sembra averemoltissime cose da dire soprattuttoalle nuove generazioni a cui la trilogiasul ventesimo secolo è praticamenterivolta. Il che è avvalorato dal fatto chetutti i suoi film che uscirannoquest'anno potranno essere visti inGiappone dagli studenti pagando unterzo del prezzo usuale, come a direche a Wakamatsu importa davvero farpassare i suoi messaggi.

Completano la presenza estremoorientale il genio e la poesia diApichatpong Weerasethakul che dopoaver vinto la Palma d'Oro due anni orsono con Uncle Boonme Who CanRecall His Past Lives, ritornerà fuoriconcorso con il mediometraggioMekong Motel e il cinese Lou Ye. Unodei registi più odiati dalle istituzionipatrie Ye vinse qui a Cannes il premioper la miglior sceneggiatura conSpring Fever, dopo che gli era statoproibito di girare per cinque anni acausa del suo precedente lavoro,Summer Palace. Il suo Mystery verràpresentato nella sezione Un CertainRegard e promette ancora una volta dicreare molto scompiglio.

di ALESSANDRA VANZIROMA

●●●Bentornato BernardoBertolucci! Ci dev’essere undestino speciale già scritto neinomi P.P.P. Pasolini, R.R.Rossellini, B.B. Bertolucci eBrigitte Bardot, voilà ecco ilcinema! La prima volta avevo 16anni, il film era vietato ma io eroincinta e riuscii ad entrarenascondendo la faccia dietro lespalle di Massimo mio marito.Ultimo tango a Parigi 1972. Nonun film, una bomba allanitroglicerina sul perbenismo esulla morale cattolica! Il film cheha radicalmente rivoluzionato laconsapevolezza sessuale di unagenerazione di italiani. Per laprima volta veniva mostratol’indicibile, l’erotismo. Nei corpisensuali di Marlon Brando eMaria Schneider, sempre inmovimento, emotivamente inbilico, che inciampano, sirotolano, scivolano, sirincorrono, si prendono ecadono in un tango disordinatoe passionale che mescola, fondein un impasto sensuale, eros ethanatos, guidati, spiati, direttidalla macchina da presa diBertolucci.

Quel film ci regalò un verosoffio di libertà, una spinta, uncolpo di vento, diede il via allarivoluzione sessuale. Un veroaffronto per la morale del tempocosì forte da essereproporzionale solo alla reazioneche causò, il film fu condannatoal rogo e a Bertolucci tolsero idiritti civili. Semplicementepazzesco. Anni dopo, nel 1982,dieci dall’uscita del film, in unindimenticabile serata alla SalaPalatino occupata lo rividiproiettato a «Ladri di Cinema»,una bellissima rassegna. B.B.aveva già fatto Novecento nel1976 e La luna nel 1979, maUltimo tango a Parigi era ancoraillegale, fummo tutti correi,come disse Bertolucci primadella proiezione, regista,organizzatori e pubblico delreato di visione proibita di operad’arte. L’assurda vicenda siconcluse solo nel 1986. Nelfrattempo l’avevo conosciuto, miaveva voluto vedere per la partedella fidanzatina del ragazzoprotagonista ne La Luna, ma erogià troppo grande e non sapevo

abbastanza l’inglese, lingua incui si girava in presa diretta, epoi ero paralizzatadall’imbarazzo, veramente«imbranata». Mi ricordo peròche Claire Peploe, sua moglie,bravissima e bellissima regista,faceva il tifo per me e mi disse diriprovarci il giorno dopo,facendo finta di essere un’altra,mi venne il panico e non ciriuscii.

Il cinema di Bertolucci haaccompagnato la nostra storia,l’ha raccontata sempre da unpunto di vista nonconvenzionale, mai piccoloborghese, anticipando i linguaggie le commistioni con le nuovetecniche e con le altre arti:l’epica e il racconto , ilmelodramma e il tragico.Bertolucci ha uno specialeintuito nella scelta degli attori esoprattutto delle attrici dallastupenda Alida Valli dellaStrategia del ragno allabellissima Sanda de IlConformista e di Novecento,dall’intensità e bravura di DebraWinger (Il tè nel deserto) allasorprendente Tea Falco laprotagonista di Io e te, questonuovo film che verrà proiettato il23 maggio al festival di Cannes,fuori concorso, in cui ho avuto lafortuna e l’onore di fare unpiccolo ruolo, e che arriva, feliceritorno, a nove anni da Thedreamers che è del 2003. Non èstata la prima volta che holavorato con B.B., era giàaccaduto nel 1996 nel film Ioballo da sola: ho una scenad’ubriachezza molesta insieme aCarlo Cecchi che finisce con una«scandalosa pipì» ridanciana eprovocatoria che faccio sotto losguardo basito della giovane LivTyler.

Io e te nasce da un romanzobreve di Niccolò Ammaniti che èpoi stato sceneggiato dallo stessoAmmaniti insieme a Bertolucci,Umberto Contarello e Francesca

Marciano: è la storia del legameche si crea tra due fratellastri,stesso padre due madri diverse,che quasi non si conoscono masi trovano obbligati dallecircostanze a dover convivereper una settimana nascosti agliocchi del resto del mondo. I duegiovanissimi attori sono entratinei personaggi senza sforzoapparente, con l’ aderenzanaturale della mano che infila unguanto, Bertolucci ha un donospeciale nel dirigere gli attori,una totale empatia nei loroconfronti che rende possibilequello stato di grazia per cuil’attore si affida al regista. Lui,Iacopo Antinori, Lorenzo, nelfilm, ha 14 anni, credo anchenella vita, è un ragazzinosilenzioso, ai limiti dell’autismo,lo sguardo azzurro e denso, atratti impenetrabile, preciso efreddo, si organizza una fugadalla madre ansiosa e soffocanteapprofittando di una gitascolastica; lei Tea Falco, Olivia,nel film ha 21 anni, nella vitapoco di più credo, è la suasemisconosciuta sorellastra,un'altra madre, un'altra città diprovenienza, un altro mondo,altri problemi, l’eroina, i debiticon i pusher, la rotainesorabilmente in arrivo, inervi, il malessere fisico totale. Ilgiovane fratello non riesce aliberarsi di lei, all’inizio sonocome cane e gatta, alla fine dellasettimana sono fratello e sorella.

Non voglio svelare la storia delfilm, che si discosta abbastanzadal libro, ne posso assumereun’identità critica che nonm’appartiene, ma posso senzaalcun timore dire che questofilm mi piace e mi ha sorpresoper la sua freschezza, agilità,semplicità leggera anche neldolore. Il rapporto tra questi duefratelli sconosciuti è del tuttodiverso da quello incestuoso deiprotagonisti di The Dreamers, eanche lo sguardo di Bertolucci èdiverso, qui non c’è voyeurismoma complicità e affetto perentrambi, le inquadrature, ilritmo veloce del montaggiodanno al film un andamento cherestituisce il senso diinquietudine e provvisorietà deisentimenti dei due ragazzi E’bello lavorare con Bernardoperché c’è una famiglia stabile dicollaboratori che lo circonda eprotegge affettuosamente: ClairePeploe, Metka Kojak, FiorellaAmico, Barbara Melega, FabioCianchetti, Cinzia Sleiter,Francesca Marciano, FrancoPiersanti, Gianni Silvestri,Veronica Lazar e tanti altriperché lui è un grande maestrodel cinema col cuore giovane daragazzo, è lui quell’Olmo piccolodi Novecento col cappello tuttoornato di rane vive infilzate, ilcosmopolita parmense innestatoadolescente nella pigra e mollecapitale che protegge le suememorie ancestrali e poetichedella bassa contadina eipergalattica, in cui convivonouna saggia e profondaconoscenza del mondo e uninsaziabile curiosità per la vita.

Da sinistra il regista americano Philip Kaufman e due immagini di Nicole Kidman, a Cannes in «The Paperboy» di Lee Daniels.Il regista giapponese Koji Wakamatsu, il manifesto del suo film su Mishima e un’immagine del Mishima più «macho».Tea Falco e Jacopo Olmo Antinori in «Io e te» e Bernardo Bertolucci

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. 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Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(6) ALIAS12 MAGGIO 2012

CANNES / SCANNERS

Un altro sforzofemminista...

INTERVISTE ■ SUSAN SARANDON, MICHELLE RODRIGUEZ E JANE FONDA

GUERRA ALLE DONNEE HOLLYWOOD

di LUCA CELADALOS ANGELES

●●●La dimensione trans-politicadella questione femminile unisce iburqa al femminicidio. In Italia il«corpo delle donne» è stato posto alcentro della questione culturale da unregime politico-mediatico che hamassicciamente aggiornatoconcezioni abberranti e arcaiche chepalesano oggi un retaggio violento didelitti «passionali». Ma l’anomaliaitaliana ha un contesto universale.

Il corpo femminile promette così diessere anche al centro dellacampagna elettorale nordamericanadopo che nelle primarie i candidatirepubblicani hanno fatto a gara asuperarsi su posizioni sempre piùoltranziste; un attacco diretto in granparte alle conquiste di 40 anni dimovimento su diritti riproduttivi,discriminazione sul lavoro e violenzacontro le donne. Un programmaconservatore che ha come obbiettivofinale l’abrogazione della leggesull’aborto auspicata dalla destraintegralista; in questo senso nonpotevano essere più programmatici itentativi di restringere l’accesso aicontraccettivi e le leggi varate aripetizione in stati repubblicani, cheimpongono sonogrammitransvaginali (con «obbligo divisionare il feto») alle donne cherichiedono di terminare la gravidanza.La «War on Women» è diventatainsomma l’ultima «culture war»,come se attorno alla questionefemminile di concentrassero assiemele torbide ossessioni e le aspirazioniretrograde conservatrici.

Non sorprende che nei sondaggiMitt Romney soffra un deficit del 20%fra le elettrici. I temi della «guerra alledonne» riverberano in questo giornianche a Hollywood, aggregatoredell’immaginario e quindistoricamente laboratorio anche diimmagine femminile. Di donne,cinema e impegno abbiamo parlatocon tre attrici che nei loro film – efuori - hanno contribuito molto aformare un idea e uno sguardofemminile.

SUSAN SARANDONDalla lotta contro la guerra a quellaper la giustizia sociale, da Thelma eLouise a Dead Man Walking; una vitadedicata all’impegno politico dentro efuori dallo schermo.

Nel cinema pietre miliari chevanno da Louis Malle (Pretty Baby eAtlantic City) a Bull Durham e unagalleria di personaggi che esprimonouna femminilità complessa,intelligente e indipendente. Comeloro Sarandon è allergica ai soprusi: èin Nicaragua negli anni ottanta controla guerra sporca di Reagan e in primafila, 20 anni, dopo contro le avventureirachene dei Bush. Nel 2000 è stataprotagonista della campagnapresidenziale del Green Party di RalphNader, vicina alle lotte sindacali degliattori e degli sceneggiatori diHollywood e più recentementeanimatrice della campagna persconfiggere il governatorerepubblicano anti sindacale delWisconsin Scott Walker.

●Quali sono i film di cui èparticolarmente fiera per l’impattosociale che hanno avuto?Dead Man Walking, perché è riuscitoa definire il dibattito attorno alla penadi morte. E ora il libro su cui è basatoè tradotto in 16 lingue e all’epoca unacopia del film venne regalata al Papache in seguito chiarificò ulteriormentela posizione della chiesa dato che inquesto paese la religione e la Bibbiasono spesso addotte a giustificazionedella pena capitale e quindi la sua èstata certamente una voceimportante. Poi l’Olio di Lorenzoperché la malattia rara di cui trattaera praticamente sconosciuta e il filmcontribuì alla comprensione della suadiagnosi. Ma forse ancora piùimportante era fare luce sull’operato egli interessi delle multinazionlifarmaceutiche nel contestodell’emergenza Aids e l’effetto che

questi hanno tuttora sulla ricerca e losviluppo di medicinali e lo stigma checolpisce i malati. Il personaggio delbambino protagonista di quel filmpalesava queste problematiche.

●In generale crede che il cinema siaancora uno strumento efficace perveicolare temi di impegno sociale?Guardi, credo che i film abbianosempre un impatto profondo sullacultura. E di solito è proprio questo ilproblema (ride), il problema è che ifilm cosiddetti apolitici in realtàpromuovono implicitamente lo statusquo e quindi spesso indirettamenteavvallano anche il razzismo, ilsessismo e la discriminazione manessuno li identifica come «politici».Appena però un film critica il sistemaallora diventa un film politico e quindiveleno al botteghino. Ma il sempliceatto di far ridere può essere politico.Cosa vogliono le donne, ad esempio.O il Nutty Professor di Eddie Murphyche considero implicitamente un filmpolitico per il semplice motivo che tifaceva tifare per il ciccione, perchériuscisse a conquistare la ragazza equante volte accade questo in unfilm? E il suo alter ego untuoso edandy invece risultava odioso e ilfatto di collocarti nelle scarpe delgrassone e di percepire il dolore diquel punto di vista è un atto«sovversivo».

●A proposito di film sovversivi,quest’anno è il ventesimoanniversario di «Thelma e Louise»…Un altro film politico, sì, e ancoranecessario. E Geena (Davis) che hafondato l’Institute for Gender inMedia ha studiato esattamentel’incidenza delle donne nel cinema enella televisione, quanti personaggifemminili appaiono e dove e quantebattute hanno. Ed emerge un quadroancora profondamente sfavorevole adonne, ragazze e a personaggifemminili autentici. Nessuno ne parlama è evidente il messaggio disubalternità contenuto in quellestatistiche. E credo che dobbiamotutti prenderci delle responsabilitàper non raffrorzare quegli stereotipi.

●Come vede il futuro?Sono ottimista. Davvero. Perché vedoi ragazzi di questa generazione, quelladi Occupy Wall Street e il tipo diinformazione che impongono; e poi, agiudicare da mio figlio di 19 anni chenon è interessato al consumo, nonsegue i reality Kardashian in tv epreferisce fare musica, credo che iragazzi di oggi stiano ponendo delledomande molto importanti. Il fattoche l’economia sia in questo stato eche non esista più un mercato dellavoro, impone un ripensamentoradicale. E credo che da questo puntodi vista Obama abbia deluso moltiragazzi che l’avevano votato in quellache era la loro prima elezione. Ma iocredo che i ventenni esprimanoancora con forza le loro convinzioni eabbiano voglia di partecipare e viverevite autentiche. E quindi ho speranza.D’altra parte anche chi ha la mia etàha il dovere di contribuire in modocostruttivo, non possiamo arrendercialla negatività. È chiaro che stiamoassistendo a un collasso, ma forse ènecessario per trovare nuovi modelli.Certo è tragico che così tanta genteabbia perso il lavoro prima diraggiungere la sicurezza. Ma forse èanche vero che si trattava di lavorinon proprio amati e forse potrebbeessere questa la via per produrre piùimprenditori di se stessi, persviluppare idee e mestieri chepossano renderci più felici. C’è moltagente che riesce a inventare piccolibussines che permettono di passarepiù tempo in famiglia. Insomma forsepotrà venire del bene anche da questitempi disperati. Per esempio finire leguerre ed evitarne altre. Mi preoccupacome i reduci che tornano, spessotraumatizzati dai molteplici turni alfronte, siano già dimenticati daquesto paese. Potrebbero essere unaenorme risorsa, come la gigantescapopolazione homeless che abbiamo.Ma ripeto, in fondo rimango ottimistaanche perché ogni volta che nella mia

vita è accaduto qualcosa chesembrava un cataclisma è stata poianche un’opportunità per cambiare,per pensare diversamente alle cose.

●Per esempio?Quando fai dei figli, per esempio, ecominci a convivere più intimamentecon la morte. Almeno per me è statocosì. Non avevo mai pensato allamortalità fin quando non hopartorito; ora invecchiando comincioa vedere le cose diversamente, ainquadrare la vita da una diversaprospettiva, mi preoccupo meno dellepiccole cose e cerco di vedere tutto ilquadro. A volte in tempi di grandecambiemento è necessario trattenereil respiro.

●È per quanto riguarda il futurodel cinema?I nuovi strumenti, il fatto che sipossano fare film al computer, èdestinato ad allentare il controllodegli studios. Ci sono più autori chefanno film, si tratta solo di capirecome distribuirli. Ci attende unarivoluzione simile a quella che hastravolto l’industria della musica.Nuovi mezzi di distribuzionesignificheranno molti più film; moltibrutti e alcuni belli.

MICHELLE RODRIGUEZ30 anni vissuti con grinta prima sullestrade di San Antonio poi a SantoDomingo e Puerto Rico coi genitori einfine le «mean streets» di Jersey Citydove si fa espellere da scuola bencinque volte. Scoperta da KarynKusama per Girlfight, dà autenticavita al bellissimo personaggio diDiana che si riprende un identità a

forza di pugni nelle palestre delpugilato femminile. Poi un decennioall’insegna del «genere», di alternefortune e qualità. Fra la serialitàall’ingrosso di Fast&Furious eResident Evil c’è tempo anche perBlue Crush, Machete e Avatar.Comunque una serie ininterrotta diragazze che «spaccano», per Michelleuna linea di coerenza.

●Come ti sei ritagliata uno spazio aHollywood?Ho come l’impressione che se tu noncorrispondi all’ideale di «tipicaragazza» non sanno bene cosa fare dite - gli sceneggiatori intendo. Nonsanno cosa farti fare: «non può essere

la girlfriend, non possiamo strapparglii vestiti, non è abbastanza sexy…chegli facciamo fare»? Sono perduti.(Ride). Per quanto mi riguarda credodi essermi fatta un culo così da tredicianni e sai cosa, non mi paganoneanche tanto. È da Girlfight che nonho un ruolo da protagonista e in uncerto senso mi sono chiusa molteporte da sola perché non amoscendere a compromessi. E quindi misono abituata ad un certo tipo diruolo, di ragazza tosta,combattimenti, azione. Se tu vuoi farpassare un certo tipo di messaggio èquello che ti offrono, e adessofinalmente è come se si fosserosvegliati e hanno capito che si può

fare quello che io ho sempre fatto econ buon profitto e a me viene dadire «Ah, ce l’avete fatta a capirlo!».

●Hai incontrato resistenza neglistudios?Credo che la differenza fra ingenuità eignoranza sia l’intenzione. E se tu seiintenzionato a chiudere gli occhi adun certo tipo di realtà nulla te lo puòimpedire. Soprattutto se vuoirimuovere il fatto che è arrivato ilmomento in cui anche le ragazzevogliono la loro parte, la loro parte dipotere, che il mondo è cambiato checi sono sceneggiatrici capaci discrivere il proprio materiale…e inparte la colpa è di noi stesse perchéglielo abbiamo permesso. Mi faincazzare e mi fa anche paura. Ilpotere è ancora lì. Ed è per questo cheal più presto voglio appendere ladivisa e attaccare il mitra a un chiodoe mettermi a a scrivere, sviluppareprogetti miei, scoprire un nuovomondo di creatività, perché credo cheHollywood sia pronta per questo. Ilpericolo maggiore è l’ignoranza dellepersone potenti che scelgono divivere nel passato.

●Perché ti sei specializzata nelgenere action?Per tanti anni ho considerato il generedi azione il modo migliore perraggiungere molte persone, piuttostoche un film impegnato di integritàartistica ma che vedono in cinque. Eora perlomeno siamo giunti al puntoin cui anche in questo genere unadonna può stare alla pari col resto delcast, non è obbligata a strapparsi didosso i vestiti o fare la sexy, non èobbligata cioè a ostentare quella chechiamo «l’energia Cleopatra». Comedicevo c’è voluto del tempo perchéper molti anni non c’è stata laconcezione di un mezzo termine. Senon eri sexy allora ti facevano farel’uomo, ed è falso, non è così. Unadonna ha una propria forza e unproprio equilibrio fra la principessaguerriera e lo spirito di Cleopatra. Ecredo che riconoscerlo e renderlotangibile nelle sceneggiature perHollywood sia stato un lungo tragittoancora incompiuto. Finalmente oggici troviamo ad avere film comeHunger Games, Salt e Wanted oppureL’uomo che odiava le donne e misembra un bel progresso anche setrovo che una ragazza non debbanecessariamente essere violentata perprendere coscienza. È una forzainteriore che deriva dallaconsapevolezza tenace di chi sono io,chi sono veramente dentro, ciò chevoglio e quello per cui sono disposta abattermi. È un messaggio cherivolgerei soprattutto alle culture cheopprimono ancora le donne, unmessaggio necessario anche in moltipaesi dove magari è in atto unaliberalizzazione, una svoltademocratica e Hollywood rimanecomunque un punto di riferimento

Di donne, cinema e impegno abbiamo parlatocon tre attrici che nei loro film – e fuori - hannocontribuito a formare un idea e uno sguardo«molto» femminile dentro l’immaginario collettivo

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(7)ALIAS12 MAGGIO 2012

CANNES 65 ■ IL DIVO FRANCESE PIU’ ANARCHICO

Vian, Desnose Prevert...e ora Haneke

In alto a sinistra Jane Fonda, amica del«manifesto» fin dagli anni 70. SusanSarandon (foto in alto) e Jean-LouisTrintignant (in basso)

culturale, capace di trasmetteredeterminati valori e parte di questivalori deve essere anchel’empowerment femminile. E se crediche la cosa non ti riguarda comefilmaker, che stai solo producendodivertimento pieno di esplosioni ezombies, beh allora ti sbagli di grossoperché anche questo tipo di filmtrasmette determinati valori. Leimmagini hanno sempre un pesospecifico e contengono messaggi chepossono ispirare a essere migliori. Èuna responsabilita chepersonalmente prendo moltoseriamente e mi sembra che cimuoviamo nella direzione giusta.

●Ti senti parte del movimentoispanico Hollywood?Se devo esser sincera la questioneispanica non mi interessa molto, nonmi identifico principalmente come«latina». Quello che mi sta a cuore è laquestione femminile perché comediceva John Lennon «le donne sono inegri del mondo», ed è questo che mipreoccupa. Nella mia cultura c’è unasorta di matriarcato sommerso, forsedovremmo essere più «svedesi» (ride)capisce cosa voglio dire? Lo so imaschi odiano quella roba.. «Cosa?Tu stare sopra? Dai amore, almenofacciamo a turno..» (ride)

●Ti sembra che Hollywood siadiventata più qualunquista rispettoal passato?Oggi il mondo va così. Sono fortunataad essere nata quando sono nata, nel1978. Ho 33 anni, ho visto il mondopassare da telefoni di terra aitrovapersona ai cellulari, i videogiochida Atari a aXBox e i computer daCommodore a Apple. Ho visto lechatroom di Yahoo diventareFacebook e poi Twitter; il mondo oggiè saturo di informazione e questocomporta l’ossessione di farsi notare,di essere visto. Mi ricorda quelleragazzine che si vedono a Tokyo coicapelli biondi e le uniformi dascolarette che fanno di tutto perdistinguersi dalla folla. È lacaratteristica della Me-Generation diragazzi che urlano per farsi sentireanche quando magari non ne hannouna ragione. A volte mi spaventaperché mi sembra quasi unagenerazione perduta e credo chetocchi anche a noi trentenni guidarli efungere da ponte fra loro e ciò che èstato prima. Siamo io e i miei colleghia stare fra loro e la generazioneconservatrice. Invece è proprio questanuova generazione così satura diinformazione a dover capire in chedirezione muovere il futuro. E credoche Hollywood abbia un ruoloimportante in questo.

JANE FONDA«Hanoi Jane» e Barbarella i voltiestremi di un personaggio, quello diJane Fonda, impressosull’immaginario sixties come voltoprotagonista della new Hollywood acavallo fra studio system econtrocultura, quella dei Raging Bullse Easy Riders a cui è legato il nome delfratello Peter. Così come quello delpatriaraca, Henry, lo era stato aFurore e La parola ai giurati – unanome e una dinastia quella dei Fondache lega l’America di Steinbeck e delNew Deal a quella dei diritti civili edel Vietnam. Esponente di quellastagione è «esule» parigina durante ilmaggio ’68 e da allora militantecontro la guerra in sud est asiatico, unimpegno che ne farà la bête noir delladestra più ancora che la Giovannad’Arco del movimento e che continuatuttora. Una vita vissuta a piene manisenza rimorsi. O quasi.

●Come è avvenuta la sua presa dicoscienza politica?Non sono mai stata una hippie, anchese negli anni ’60 tutti lo erano. E glihippie, come Mia Farrow o i Beatlesandavano in India, visitavano gliashram, si vestivano con letonache…Io pensavo che andasserolaggiù per trovare la verità e cosìanch’io ci sono andata in quegli anni,ma invece della spiritualità mi hacolpito la politica. Volevo capire cosa

si potesse fare per migliorare le cose,non avevo mai visto povertà su quellascala, non potevo credere ai mieiocchi. Mi sembrava assurdo essereaccanto a quella gente esemplicemente farsi le canne,semmai mi dava voglia di iscrivermiai Peace Corps che ne so, di scavarepozzi. Ma avevo già 32 anni con unbambino piccolo e non potevoiscrivermi così invece sono tornatanegli Stati Uniti d’America per cercaredi fare qualcosa qui.

●Ha anche vissuto in Francia…In un certo senso non credo che sipossa capire davvero cosa significhiessere americano finché non si escedal paese. Solo quando sono andata avivere in Francia ho compresodavvero il buono e il meno buono delmio paese. C’ero stata diverse volteprima, ma quando sono andata aviverci veramente, quando mi sonoinnamorata di Roger Vadim, erano glianni di Kennedy, del suo assassinio edella guerra in Vietnam e la miacoscienza politica deriva dal periodopassato in Francia. Mi trovavo làdurante il maggio e gli europei eranomolto più politicizzati di noi,coscienti delle dinamiche politiche eho imparato molto. Ero molto amicadi Simone Signoret e lei mi portavasempre ai comizi di Sartre e deBeauvoir, e questo mi ha formatomolto, anche come attrice. Non sareidiventata una militante senza laFrancia di quegli anni. A Parigi vedevola televisione americana e decine dimigliaia di miei compatrioti chemorivano in guerra e altri migliaia chela guerra la contestavano e questo mi

fece sentire ancora più americana eho deciso di unirmi a loro. Misembravano persone che credevanonel giusto e che volevano marcareuna differenza. In Francia gente comeSimone Signoret in Vietnam c’erastata. Mi raccontavano di quantofosse sbagliato combattere quellaguerra e credere di vincerla. Per menon c’era alternativa ad impegnarsicontro la guerra.

●Finì per andarci anche leiAll’apice della guerra mi contattaronoalcuni reduci del Vietnam che eranocontro la guerra. L’esercito aveva BobHope e le star della Uso che facevanospettacoli in giro per le basi, comizipatriotici che esaltavano la guerra persollevare il morale dei soldati e noivolevamo fare qualcosa di opposto.Perché non formare un gruppoalternativo di attori che visitasse isoldati, ma con un messaggio controla guerra. Io sapevo, avevo incontratoun saccco di soldati che la pensavanocosì, avevano giornali, siorganizzavano... si chiamava G.I.Movement. E così noi partimmo daquei giornali, dai racconti chefacevano gli stessi soldati e da queitesti facemmo uno spettacolo.C’eravamo io, Donald Sutherland eun gruppo di attori e lo spettacolo sichiamava FTA - Fuck the Army.Abbiamao cominciato a fare il girodelle basi militari – beh diciamovicino alle basi, perché dentro non cifacevano certo entrare - qui inAmerica, poi alle Hawaii, Okinawa,Filippine, Subic Bay, Clarke Air ForceBase, il Giappone. Facemmo ancheun documentario sul tour.

●E poi?Beh l’impegno è stato un po’ il miodato costante (ride). Ho lavoratocontro la guerra e oggi sono attiva nelmovimento contro la violenza alledonne. In Georgia, lo stato dove hovissuto molti anni, aiuto i ragazzipoveri a non ficcarsi nei guai quandosono molto giovani. A non rimanereincinta, ad esempio, e a proteggersidall’Aids. E abbiamo delle cliniche nelSud. Con Gloria Steinem abbiamo poifondato un’organizzazione chepromuove una maggiore presenzadelle donne nei media; i mass mediacreano una percezione e se le donnevi rimangono invisibili questoinfluisce su chi i media li consuma esulla considerazione che abbiamo dinoi stesse. C’e molto lavora ancora dafare su questi temi.

●Rimpiange qualcosa?Certo, chi di noi non ha rimpianti? Ionelle mia vita ho fatto una cosa cherimpiangerò fino alla morte: farmifotografare su una batteria antiaereaNord Vietnamita, perché quella fotomi ha fatto apparire come se fossicontro il mio paese, contro i soldati,che è l’opposto di chi sonoveramente. È stata una leggerezza,l’ho fatto senza pensare, sotto l’effettodelle emozioni del momento, era ilmio ultimo giorno nel paese e primache potessi riflettere era fatto. Dopomi sono resa conto dell’effetto cheavrebbe avuto, ma era troppo tardi,non posso farci niente. Quando hocompiuto 60 anni ho capito che stavainiziando il mio ultimo atto esappiamo tutti quanto sianoimportanti i «terzi atti». La prima

parte della tua vita può ancheapparire ridicola, ma nell’ultimo attohai la possibilità di dargli un senso.Non ho mai avuto paura della morte,ma ho visto morire mio padre esapevo che moriva con tanti rimpiantie non voglio che questo sia anche ilmio caso. So di non essere stata lamigliore mamma per mia figlia, lei ènata nel momento in cui ero moltoimpegnata nella militanza e so di nonessere stata abbastanza presente nellasua vita. Parte del mio percorso nelterzo atto è di guadagnare il suoperdono. Trovo che con lacompassione, il perdono sia ilsentimento più importante nella vita.

●Cosa prevede per il futuro?Non so, non riesco a fare previsioni.Ma sa cosa mi preoccupa di più?L’acrimonia che c’è oggi e che ai mieitempi non esisteva, si poteva esserdemocratici o repubblicani ma c’eraancora un dialogo, un livello di civiltà.Oggi c’è un astio ideologico che nonammette compromessi, gli ideologhirigidi di oggi tradiscono i valorifondamentali di questo paese e sonodavvero preoccupata per questo

anche se credo ancora chefondamentalmente siamo un buonpaese e gli Americani non cicascheranno. Allo stesso tempo sonomolto preoccupata per il pianeta;stiamo distruggendo il sistema disupporto da cui in quanto umanidipendiamo per sopravvivere equesto mi fa molta paura. Occorresvegliarci molto in fretta e credo chele donne in particolare debbanoessere protagoniste di questo,dobbiamo avere coscienza del nostropotere di farlo. Come donnepossiamo parlare per il pianeta,abbiamo una connessione più forte eciò che viene fatto contro le donnenel mondo è la stessa violenza cheviene usata sul pianeta. Dobbiamoresistere e porgli fine, credo che gliuomini si uniranno a noi ma sonoconvinta che sta a noi essere le leader.

Jean-Louis Trintignant, 80 anni,torna al cinema al fianco di Rivae Huppert. E lo ha fatto, comesempre, solamente per «Amour»di ANGELA ZAMPARELLI

●●●Tra le molte cose di cui siamograti a Trintignant c’è la sua infedeltàagli addii. A Venezia, nell'87,presentava La vallée fantôme diTanner: «Non girerò più» diceva, conuna voce che non gli avevo maisentito, la sua. Per fortuna ci ripensò.Le apparizioni negli anni 90 sonorare, tutte memorabili. Tiene abattesimo Jacques Audiard formandoinsieme a Mathieu Kassovitz unacoppia da Sorpasso (Regarde leshommes tomber), per Chéreau inCeux qui m'aiment prendront le trainsi sdoppia e interpreta due gemelli, inFilm rosso di Kieslowski è presenzairrinunciabile e assoluta. E poi lostraordinario, cinico colonnello cui dàvita in Fiesta... Negli anni duemilasceglie il teatro. Se non contiamoImmortal di Enki Bilal dove recita solocon la voce, la sua ultima presenza èJanis e John di Samuel Benchetrit, lacui protagonista era sua figlia, Marie.Era stata proprio sua figlia aincoraggiarlo a tornare in teatroinsieme, con spettacoli di poesiaintimi e bellissimi, che lui credevafosse difficile dire davanti a tantagente. Dopo la morte di lei, primapensò di smettere, poi riuscì acontinuare per dichiararle il suoamore. Non voleva sottrarre neancheun attimo al teatro, ma per Haneke hafatto un’eccezione. Il progetto era inpiedi dal 2009 e Amour sarà a Cannes,tra i favoriti del concorso. Torna sullaCroisette che lo lanciò con Un uomo euna donna di Lelouch e lo premiòcon la Palma d’oro per il suo timidoma implacabile giudice di Z - l’orgiadel potere di Costa Gavras (1969),

sfiorando il premio con un altrogiudice, quello di Film rosso, chearrivò dritto al nostro cuore. Questavolta, accanto a Emmanuelle Riva(l’attrice francese di Hiroshima monamour, che con Trintignant girò nel’65 un episodio, nel curioso film diGianni Puccini, Io uccido, tu uccidi)daranno vita a una coppia diottantenni, Georges e Anne, colti, exinsegnanti di musica in pensione conuna figlia che vive all’estero, IsabelleHuppert, anch'ella insegnante.L’amore della coppia è messo a duraprova quando Anne è vittima di unpiccolo ictus. Non è difficile capire,sin dall'uso dei nomi, che questipersonaggi sono parenti stretti dellacoppia Binoche-Auteil di Niente danascondere e di tutti gli altri film, daFunny Games a Codice sconosciuto, incui qualcosa irrompe a sconvolgere iltran tran di una famiglia borghese.Niente da nascondere nasceva daldesiderio di lavorare con DanielAuteil così come forse questo Amourè stato scritto per Trintignant, dueattori unici - per Haneke - apossedere un segreto: «qualcosa chehanno dentro e che spinge a chiedercicosa c'è dietro il loro sguardo». Perconvincerlo a girare Il ConformistaBertolucci gli raccontòsemplicemente la verità: che quelpersonaggio non era un conformista,ma un uomo che, per nascondere lapropria diversità, sceglieva di esserecome gli altri. Per parlargli di Filmrosso Kieslowski lo incontròall'aeroporto di Orly e chiacchieranoinsieme di automobili; ignoriamo seper Haneke sia stato difficileconvincere Trintignant. Ma il suorigore nel denunciare la

manipolazione di ognirappresentazione filmica, la suaattenzione agli attori e l'uso dei lunghipiani sequenza per rispettarne laverità, non devono essere sfuggiti aTrintignant. L’amore per la musica diBach, la ricerca costante di queltiming interiore che Haneke pensa unregista debba possedere perprovocare la reazione del pubblico almomento giusto, hanno certocontribuito a far crescerel’ammirazione di Trintignant per lui.Un frammento di secondo in piùnelle durata di un’inquadratura puòmandare all’aria tutto. «Il cinema -dice Haneke - è una questione direspiro». In Italia Amour arriverà il 31ottobre, accompagnato da Haneke eTrintignant, grazie a Teodora).Sarebbe bello che per quel periodoTrintignant arrivasse fin qui anchecon il suo spettacolo teatrale che dadue anni porta in tournée: TroisPoètes libertaires du XX siècle: Vian,Prévert, Desnos. Ad Avignone, loscorso gennaio, congedandosi dalpubblico aveva detto «è l'ultima voltache lo recitiamo e sono contento chesia stato qui». Ma ora che una nuovadata teatrale è annunciata ad Arles l’8giugno.... Tra tutti i suoi spettacoli,grandissimi, quello dei Tre poeti èforse il più bello di tutti. «È facile - midiceva pochi mesi fa ad Amiens -sono felice». Lo spirito anarchico deitre poeti lo ispira e dà vita a un mixprodigioso che sembra uscito dalpiano cocktail descritto da Boris Vianne La schiuma dei giorni. Poesied’impegno civile convivono contocchi surreali e ironici, con lafisarmonica di Daniel Mille e ilvioloncello di Gregoire Korniluk ad

accompagnarlo. In un'ora e mezza èun gatto che ha appena mangiato unuccellino e si scusa per l'accaduto conuna bimba che piange («se lo avessisaputo lo avrei mangiato tutto intero».Le chat et l'oiseau di Prévert”), o uncavallo al galoppo che fugge via da ungenerale (La complainte du cheval diPrévert) e poco dopo è un soldatospacciato sul campo minato (Fourmisdi Boris Vian), un condannato amorte, un evaso. «Non ho scelto i testipolitici ma quelli che parlano dellamorte e dell'amore» diceva la sera deldebutto, a Lattes, settembre 2009. Maciò che più colpiva era la forzarivoluzionaria del suo canto. Verso lafine arrivava Le Déserteur nellaversione più audace. Non quella piùnota, cantata da Mouloudji, JoanBaez, lo stesso Boris Vian, che finiscecon «prévenez vos gendarmes que jen’aurais pas d’armes et qu’ilspourront tirer», incisa l’indomanidella fine della guerra d’Indocina,leggermente ritoccata dalla censura.Ma quella che la censura appuntovietò sempre. Dopo aver spiegato lesue ragioni per non partire,Trintignant diceva senza addolcirenulla: «prévenez vos gendarmes quej’emporte des armes et que je saistirer». Nei mesi successivi si spinsefino alle coste del Nord Africa: Rabat,Agadir, Casablanca, ma il continentepiù grande in cui t’avventuravi era ilsuo cuore. D’estate a Sète diceva:«queste poesie mi hanno arricchito -poi si correggeva - mi hanno nutrito».Non è poca la differenza. Dentro unafortezza che era stata una prigionerisuonavano altre parole di libertà,quelle di Etranges Etrangers diPrévert, per i sans papiers, pubblicata

negli anni ’50. «Il poeta ha cercato didesentimentalizer tout» raccontava alpubblico, ma se non te lo diceva nonte ne accorgevi. Come riesca a trovarela musica ovunque, anche in versicosì scarni, disperati, è un mistero.Poi a Lione, in autunno, dopo ilDisertore aggiunse un’altra poesia diVian, A tous les enfants.Accompagnava i ragazzi in partenzaper la guerra con gli zaini sulle spallee gli occhi bassi sul loro dolore, poivolgeva indietro lo sguardo a chi restaa casa e li manda a morire. Nella suamano c’era davvero un’arma: lapoesia e nessuno mai avrebbe potutodisarmarlo. Nessun regista potrà maiottenere al montaggio ciò che luiprovoca mettendo vicini due testi. Ametà spettacolo si alza in piedi perdire Fourmis e non vedi più l’uomo diprima, ma un ragazzo, che raccontache ha messo il piede su una mina, esa che esploderà se lo toglie. La dice,torna a sedersi e subito attaccaun’altra poesia: Dans un petit bateaudi Desnos. C'è un ragazzo accantoalla sua amata, si culla sulla barca,muovendo dolcemente i remi. Inquello scarto improvviso c'è tuttoTrintignant: l'amore, la grazia con cuiguida la sua arte spericolata cheaccoglie e tiene dentro lo stessorespiro tutti i destini degli uomini,fino al verso finale, misterioso ebellissimo: «heureux qui envie le petitmatelot». Raramente il teatro è statovicino a svelare il mistero della vitacome in quel momento. Accostandodue poesie dissolve le barriere deltempo o spalanca ogni porta, che siaquella della prigione descritta in Ilscassent le monde dove un condannatovede calare la lama di ghigliottina macontinua a cantare basta che amo, oquella della gabbia dell’uccellino diQuartier libre di Prévert («ho messo ilmio chepì in gabbia e sono uscito conl’uccellino in testa…»). «Questi poeticonservarono sempre uno stupore dabambini» dice. È la stessa curiositàche gli vedi nello sguardo. Per questoforse il colore dei suoi occhi non èmai lo stesso. Perché come il mare e ilcielo si riflette in ciò che guarda.Procede verso la semplicità partendodal mistero, dalla solitudine aldialogo, dal surreale alla verità. Dueamici camminano ancora insieme, semette vicino due poesie dallo stessotitolo: Aujourd’hui, una di Desnos,scritta per un amico deportatodurante la guerra, l’altra di Prévert ededicata proprio a Desnos, che nel ‘44subì la stessa sorte: fu arrestato aParigi e deportato a Auschwitz. Morìl’indomani della liberazione aTerezin. Di colpo smise di scrivereslogan pubblicitari, testi radiofonici erecensioni di film, ma non di scriverepoesie. L’ultima, Dernier Poème, latrovarono in tasca a un suocompagno di prigionia e Trintignantla dice nello spettacolo sapendo chela poesia è il mezzo più veloce perportarti da chi ami se è lontano da te.

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(8) ALIAS12 MAGGIO 2012

di ALESSANDRO CAPPABIANCA

●●●Spirito critico, dio greco dellaburla, della satira e dell’ironia,Momus aveva buon gioco a dire tuttoil male possibile degli dei, acominciare da Giove; per questo,almeno a quanto racconta LeonBattista Alberti nel suo trattato(Momus) in latino (nella tradizione diLuciano), era stato cacciatodall’Olimpo ed esiliato sulla Terra,dove aveva modo di esercitare le suebeffe ed esercitare la sua irriverenza.L’Artefice degli uomini, dopo averlicreati, li invitò (narra ancora l’Alberti)a raggiungere la sua dimora in cima auna montagna, raccomandando loro,però, di stare attenti a non deviare dalgiusto sentiero. Alcuni di loro però,malgrado l’avvertimento, deviarono, esi trasformarono in mostri. Pertornare tra gli altri uomini, allora, sifabbricarono delle maschere di fango,chiamate «Finzioni». È questal’origine delle Maschere, e pocoimporta che il fango prima o poi, acontatto con l’umidità del fiumeAcheronte, si sciogliesse, rivelando ivolti mostruosi. Le Maschere,dunque, hanno origine da un sentieroe da un volto perduti, e dal tentativodi rimediare a questa perditacamuffandosi, facendosi passare peraltri. Sentiero perduto, volto perduto,ma anche tempo smarrito, presentesenza passato: lo smarrimento delpresente è il sottotitolo giusto per illibro che Roberto De Gaetano hadedicato a Nanni Moretti (edizionePellegrini, Cosenza, 2011), presidentedella giuria a Cannes 2012. Con

Moretti, secondo De Gaetano, è ingioco una radicale crisi della presenzadel soggetto nel mondo, che assumele forme della nevrosi e dellospaesamento, e trova la solacopertura nella costruzione dimaschere: io sono un autarchico, maanche, ancora prima, un ridicolo DonRodrigo manzoniano, e poi prete,regista d’un film su Freud,pallanuotista, pasticcere trotskysta,caimano (o squalo politico),psicanalista, perfino Papa. Tuttemaschere fragili, che si modellanosulla faccia del soggetto, «nonriuscendo però a nascondere le sueferite». Il cinema di Nanni Morettinon può non ricollegarsi, dunque, algrottesco della commedia all’italiana(già studiata da Maurizio Grande), maal tempo stesso ne utilizza iprocedimenti per una continuaricerca del senso perduto: «È ildramma comico – scrive De Gaetano– di una soggettività smarrita nelleforme inautentiche della vita sociale,rispetto alle quali non sa stare dentroné rimanere fuori, né isolarsi néadeguarsi». Il lavoro della commedia(come quello della comicità) sidestreggia tra senso, non senso eperdita di senso, indicando ladifficoltà, e al tempo stesso lanecessità, di costruire qualcosa (fossepure una semplice maschera) chedefinisca la nostra esistenza. Neesistono, certo, usi consolatori, eperfino mistificatori. Ne sa qualcosala comicità all’italiana, di cui Grandeaveva così bene messo in rilievo irisvolti qualunquistici: tristezza deinati sotto Saturno, in un paese in cui

nulla sembra mai cambiare.Carnevale di mascherepseudo-popolari, cinicamente postesotto il segno della rassegnazione: risofalso. Esistono infatti false lacrime,ma anche un riso falso. Lo avevaintuito bene Adorno, quando scriveva(in «È serena l’arte?») che nell’artecontemporanea «il gesto tragicosembra comico e la comicità apparedesolata» (in questo senso, ponevaKafka e Beckett come campioni delcomico). Tutte le varianti dellacommedia possono allora essereinterpretate come tentativi diesorcizzare l’anarchia fondamentaledella buffoneria allo stato puro,inquadrandola, per quanto èpossibile, in strutture narrative forti,capaci di renderla accettabile.

Alle strutture sgangherate eimprobabili della comicità «volgare»,ispirata alle «pratiche basse» popolari,alle azioni corporali e alle battute daidoppi sensi espliciti, si contrapponedunque la commedia, che cerca diricomprendere tutte queste pulsionidisordinate in una forma capace diricollegarle all’organicità di un filonarrativo coerente. Allo stesso modo,la diluizione del senso nei cliché dellavita sociale caratterizza la superficiecomica: «il loro intreccio determina ilcarattere doloroso della commedia diMoretti, quell’impasto di tragico e dicomico che definisce il trattopropriamente grottesco del suocinema».

«Il comico si inserisce là dove ilsenso si smarrisce, si perde o megliosi irrigidisce nella serie di clichéprivati e sociali che definiscono adogni livello la vita (…). Il tragico siinserisce e attraversa tutta lacommedia della vita, quando ladissonanza tra soggetto e mondo si fatroppo radicale». Sullo sfondo dellacommedia morettiana, si disegnaallora inquietante l’emergere del nonsenso: «l’insensato – scrive DeGaetano – con cui il senso stesso haun debito costitutivo».

L’orizzonte tragico della Stanza delfiglio si staglia minaccioso dietro lemaschere grottesche dei pazientidistesi sul lettino dello psicanalistaGiovanni Sermonti, e tuttavia restadisponibile a lasciarsi riassorbire daun’imprevista riconciliazione. Ilcaimano/Berlusconi assume lamaschera/Moretti ed ecco che ilgrottesco rassicurante (incarnatonella maschera di Silvio Orlando) sitramuta in grottesco nero. Ilsimbolico si dissolve del tutto, inHabemus Papam. I cardinali possonoattendere giocando, partecipando altorneo di pallavolo organizzato inVaticano dallo psicanalista Moretti, inattesa che il cardinal Melville (MichelPiccoli) venga ritrovato o ritrovi sestesso: ma intanto questi, già attore(in gioventù), si aggira per una Romasfumata e notturna. Piccoli porta illutto per la sua stessa vita e perl’istituzione che è stato scelto arappresentare, vagando per le strade,di giorno, di notte, in mezzoall’indifferenza o al blandointeressamento d’una folla estraneache si accalca su malinconici tram efa finta di non sentire i discorsisconclusionati che, come un vecchiofuori di testa, rivolge a se stesso.

Mai vista, al cinema, una Romacosì crepuscolare, con queiLungotevere notturni, percorsi daautobus cimiteriali, dai cui finestrinisi intravede solo uno scenario di buio.Piccoli percorre queste strade, nésconvolto né disperato – piuttosto,con una strana indifferenza, una sortadi apatia, propria di chi è andato oltresenza sapere come, e ora si trova avagare in un territorio sconosciuto.

Habemus Papam, malgrado i suoiintermezzi comici, rimane per questoun grande film sulla solitudine.Parlando del Bartleby di un altroMelville, Deleuze chiedeva aiuto aKafka nel definirlo «lo Scapolo», cioèqualcuno che, non avendo o nonavendo più veri legami, ha soltanto ilterreno «che occorre ai suoi duepiedi»: più propriamente, è Nessuno –il cardinal Melville, poi, lo è tanto piùin quanto non ci si potrebberagionevolmente aspettare esitazionee sgomento da chi fa parte, dopotutto, di una congrega che ritiene dipossedere la Verità (vizio dal quale,oltre ai cardinali, neppure certipsicanalisti sono del tutto esenti).Questo Nessuno, però, è in grado dirivelare, senza neppure volerlo, ilmondo come mascherata, gettandovilo scompiglio con la fuga. È forse allaricerca delle sue vecchie maschere diattore cecoviano (fallito)? Neppure suquesto ci è possibile, crediamo, farcialcuna illusione.

QUEL TOCCOLATINO

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LIBRI ■ DE GAETANO E IL CAPO DELLA GIURIA

Il mondo comemascherata.Nanni Moretti,i comici drammi

CANNES / SCANNERS

moderati arabi < 175 176 177 >

Dove sono gli oltre 500 desaparecidossahrawi? Dove le fosse comuni nelle quali

sono stati sepolti i loro corpi? Dove le prigioni segrete di Mohammed VI? Lo chiediamo a Tahar Ben Jelloun, paladino della monarchia di Rabat. Lo chiediamo a lui che non perde

occasione per elogiare la farsa di una viademocratica intrapresa dal Marocco.

Pasolini e la crisi. Gennaio è stato ilmese di Buster Keaton, febbraio di Kafka,marzo di Gramsci, aprile (e maggio, visto ilfestival di Cannes) sono, naturalmente, ilmese di Pasolini: «Sono qui, solo, con te,in un futuro aprile». Cosa ha da dire, a te,a me, Pasolini - sulla crisi che stiamovivendo?

A chi obietta che, essendo un poeta,Pasolini è uno che fa l’amore con lenuvole, risponderò che i poeti hanno ipiedi piantati sulle nuvole e gli occhipuntati sulla realtà. I poeti fanno l’amorecon la realtà.

A chi obietta che, essendo un profeta,Pasolini ha pre-visto tutto, risponderò chedi nessun Dio riferiva la voce: viveva escriveva «l’orgoglio e il dolore dellasolitudine».

Ma allora, Pasolini, chi era? Era uno cheaveva perso l’ideologia. E siccome erasenza paraocchi e senza consolazione,vedeva e sentiva «tutto dall’alto, dalontano, e tutto dal basso, da vicino».Quale ideologia aveva perso? L’ideologiadella sua adolescenza, comunista emarxista, l’ideologia che aveva conosciutoe riconosciuto nei corpi dei suoi amantiadolescenti.

Sennonché, verso la fine degli anniSessanta, continuando, ogni notte, «senzarimedio e senza alternativa», adamoreggiare con gli adolescenti, ha notatoche gli adolescenti di quegli anni, quei«corpi», non erano più quelli di una volta.Non che fossero un po’ diversi, no: eranoradicalmente diversi. «Il mondo ha eterni,inesauribili cambiamenti. Ogni qualchemillennio, però, succede la fine delmondo». «Se io oggi volessi rigirareAccattone, non potrei più farlo. Nontroverei più un solo giovane che fosse nelsuo ‘corpo’...».

«La fine del mondo». Fuor di metafora,la crisi di una civiltà, la vecchia civiltàmoderna. Una crisi che smascherava ipotenti, rendendoli ridicoli, e omologava igiovani, rendendoli infelici. «Scomparsadelle lucciole». «Grande mutazioneantropologica». «Rovesciamento radicaleoggettivo del mondo delle classidominate». «Vuoto culturale».

Quale è stato il limite di Pasolini?Continuare a cercare nella cultura disinistra, e soprattutto nel marxismo, lachiave per comprendere scientificamenteil fenomeno. Ma il marxismo era in crisi,era ed è parte della crisi organica dellavecchia civiltà moderna. «È cambiato il‘modo di produzione’». «Oggi pare chesolo platonici intellettuali (aggiungo:marxisti) abbiano qualche probabilità diintuire il senso di ciò che sta veramentesuccedendo».

Ma il problema non sono i limitiscientifici dell’analisi che Pasolini ha fattodella crisi. Il problema siamo noi. Lui hapassato gli ultimi anni della sua vitatestimoniando un vuoto culturale chegenerava «giovani infelici» capaci diuccidere «senza mandanti e senzaragione». Un gruppetto di questi giovaniinfelici lo ha ucciso e noi, nonriconoscendo in questa una crisi di civiltà,dal fondo della prigione dell’ideologia, ciconsoliamo con la leggenda della suamorte per «complotto»: «Soprattutto ilcomplotto ci fa delirare. Ci libera da tuttoil peso di confrontarci da soli con la verità.Che bello se mentre siamo qui a parlarequalcuno in cantina sta facendo i piani perfarci fuori. È facile, è semplice...». Ultimaintervista di Pasolini, a Furio Colombo,Tuttolibri, fine ottobre 1975.

www.pasqualemisuraca.com

di SILVANA SILVESTRI

●●●Il regista che aprì la strada alnuovo cinema argentino con MundoGrúa (’99), Pablo Trapero, sarà aCannes nel Certain Regard conElefante blanco e con il collettivo 7dias en La Habana. Il cineasta è statoa Cannes con film dai ruvidi soggetti,come Leonera, o Carancho o ildurissimo El bonearense (2002),protagonista un povero contadinodella provincia addestrato comepoliziotto del Gran Buenos Aires, unpercorso che rimanda ai tempi delladittatura e a manifestazioniautoritarie che non si cancellano cosìvelocemente in tempi di democrazia.Protagonisti di Elefante blanco sonoRicardo Darín, il grande attoreargentino che ormai anche il pubblicoitaliano ha imparato a conoscere(anche se con un’altra voce) con Ilsegreto dei suoi occhi e l’ultimo,ancora nelle sale Cosa piove dal cielo?e Jérémie Renier (Il ragazzo con labicicletta dei fratelli Dardenne). Sonodue sacerdoti impegnati in un difficileinsediamento suburbanocaratterizzato da povertà e crimine.La tematica del film è tanto piùinteressante in quanto il rapportodella chiesa con la popolazione inArgentina è piuttosto conflittuale peraver sostenuto e collaborato per lopiù con la dittatura. Questi (come cene sono stati tanti altri) sono duesacerdoti in prima linea: Geronimo(Renier) che stava lavorando nellagiungla amazzonica a un progetto diinsediamento ha avuto buona partedella sua squadra assassinata da forzeparamilitari Julian (Darìn) gli offre lapossibilità di lavorare con lui inArgentina per aiutarlo in un progettoa Villa Virgen, nei suburbi di BuenosAires, dove esplode la violenza.Geronimo si chiede se la chiesa è ilmezzo migliore per dare risposte allenecessità della gente, mentre Julianha deciso di muoversi nonnell’ambito della fede ma dellapolitica. Collabora con lorol’avvocatessa Luciana (MartinaGusman) che si professa atea e favacillare la fede di Geronimo oltre amettere a dura prova l’amicizia e lafede dei due sacerdoti.7 dias en La Habana porta a Cubauna schiera di registi: Trapero, BenicioDel Toro, lo spagnolo Julio Medem, ilpalestinese Elia Souleiman, ilfranco-argentino Gaspar Noè, ilfrancese Laurent Cantet oltre alcubano Carlos Tabio. Emir Kusturica èl’interprete sensazionale dell’episodiodi Pablo Trapero dal titolo Jam Session.Arrivato nell’isola per ritirare unpremio il regista fa un incontrod’eccezione: il tassista che lo porta inalbergo, scopre, è in realtà ilfamosissimo Alexander Abreu,trombettista di Cienfuegos,compositore, arrangiatore e cantante,che per vivere trasporta i turisti inautomobile. I registi sono stati invitatia comporre ognuno secondo la suasensibilità artistica un ritratto nonconvenzionale della città. Ogniepisodio si svolge in un giorno diversodella settimana: il lunedì Benicio DelToro fa incontrare un turista Usa conun tassista laureato in ingegneria chegli mostra luoghi inaspettati, martedìtocca a Trapero che per la prima voltagira fuori dal suo paese, mercoledìJulio Medem racconta di Cecilia di

fronte al dilemma se far decollare lasua carriera di cantante in Spagna orestare a Cuba e cercare di farfunzionare il suo rapporto ormai incrisi, giovedì Souleiman deveintervistare Fidel Castro e mentreaspetta l’ora fissata gironzola per lacittà, venerdì Gaspar Noè racconta digenitori di una adolescente lesbicache decidono di sottoporre la figlia aun rito di esorcismo officiato nellagiungla da un sacerdote di una settaafrocubana, sabato Juan Carlos Tabiosegue la vita quotidiana di Mirta, unadonna come tante che oltre ai suoidue lavori confeziona anche dolci perfar fronte alle spese familiari. Infinedomenica Cantet mette in scena lacerimonia che Martha e i suoi vicinidevono organizzare in onore dellavergine Oshun apparsa in sogno lanotte prima, con questa precisarichiesta. Altri cineastilatinoamericani in cartellone aCannes sono il messicano CarlosReygadas (Post Tenebras Lux) e ilbrasiliano Walter Salles jr. con laproduzione francoamericana dedicataalla bibbia della beat generation Onthe Road di Jack Kerouac che nel filmè interpretato da Sam Riley conGarrett Hedlund (Neal Cassady), TomSturridge (Allen Ginsberg) e ViggoMortensen (William Burroughs). Ilprogetto di fare un film risale allostesso scrittore: c’è una lettera del ’57di Kerouac a Marlon Brando dove glichiede di interpretare Cassady mentrelui avrebbe interpretato se stesso (SalParadise nel libro). Marlon Brandonon gli rispose mai. Coppola compròi diritti ma non riuscì a scriverlo, poici provò ancora inutilmente coninterpreti come Ethan Hawke e BradPitt. Infine dopo aver visto I diaridella motocicletta Coppola si rivolse aSalles che prima di girare il film harealizzato il documentario Sulla stradadi On the road dove ha ripercorso ilviaggio e incontrato i poeti beat checonobbero Kerouac. Un percorso diguerra, hanno commentato i giovaniattori statunitensi poco avvezzi alleriprese improvvisate e con camera amano. Il nuovo nuovo cinemaargentino come è chiamato, èrappresentato a Cannes da GonzaloTobal che ha già spopolato nei festivalinternazionali con i suoi cortivincendo con Ahora todos parecencontentos Cinéfondation a Cannes2007. In proiezione speciale saràprogrammato l’esordio nel lungo,Villegas, già al Bafici (festival delcinema indipendente di BuenosAires), commedia drammaticaapprezzata per la sua sensibilità eintensità di racconto. Due cuginitrentenni, uno yuppie e un musicistabohémien, viaggiano insieme daBuenos Aires alla città di GeneralVillegas (da cui il titolo) perpartecipare ai funerali del nonno,un’occasione per confrontareelementi di comportamenti maschilicontemporanei e del passato. Uno dei15 corti di Cinéfondation, selezionatitra 1.700 autori di 320 scuole dicinema del mondo - presidente dellagiuria Jean-Pierre Dardenne - è Pudever um puma dell’argentino EduardoWilliams, dell’Universidad del Cine.Un incidente porta un gruppo diragazzi a salire sui tetti del quartiere(proprio come nelle nouvellesvagues), passando poi nelle viscerepiù profonde della terra.

Il cineasta argenrtino Pablo Trapero (foto asinistra) e Nanni Moretti, presidente dellagiuria del 65˚ festival di Cannes (foto adestra)

SUDAMERICA

Traperocon Darínsacerdoteimpegnatoe 7 giornia Cuba

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Page 9: Alias_2012_05_12

(9)ALIAS12 MAGGIO 2012

OWN AIR

IL DOCUMENTARIO

LA MOSTRA

ALL THE LIGHTSUsa, 2012, 5’30”, musica: Kanye West, regia: HypeWilliams, fonte: Mtv

7Il clip, con Rihanna e lacollaborazione di un parterre dipopstar – tra cui John Legend,

Tony Williams, Alicia Keys, La Roux –inizia con immagini in b/n di una bambinaafroamericana che attraversa le stradeinnevate di New York, per poi proseguirecome un lyric video con le frasi del testotrasformate in lettering coloratissimo,lampeggiante e tipograficamentevariegato, alternato a immagini in cui simaterializzano West e Rihanna, investitida giochi cromatici stroboscopici. Se ilprologo con la piccola (che impersonaovviamente Rihanna) è un corpo a sé, ilresto di All The Lights è un’apologia di lucee colore, dove vengono riportati anche inomi delle star (incluso lo stessoWilliams, ormai un mito del music video).

LOCA PEOPLESpagna, 2010, 3’, musica: Sak Noel, regia: Sak Noel,fonte: Mtv Dance

1Alla turista olandese in visita aBarcellona non frega niente deicapolavori di Gaudì, lei è qui solo

per bere e divertirsi e godersi lacosiddetta «fiesta spagnola»,accompagnata per la città dallo stesso djdi Girona (anche regista del video) che,con questo brano di dance, ha riscossonotevole successo. Il video di Loca People– considerato «diseducativo» dall’Ente delturismo catalano – fa largo uso di letteringriportando frasi della canzone e i dialoghitra la ragazza e il musicista. La vocalist èEsthera Sarita (la ragazza del clip èDesirée Brihuega). Riprese di RogerMartin Solé.

VILAINE CANAILLEFrancia, 2009, 3’15”, musica: Archimède, regia: autoreignoto, fonte: Youtube.com

8Semplice ma divertente l’idea digiocare con le copertine di albumfamosi che, in questo video della

band parigina, diventano «ritagli», collagenaturali, elementi grafici bidimensionaliinseriti in un contesto reale. Così ragazzie ragazze, in giro per le strade della città,sostituiscono i loro volti o altre parti delcorpo, con quelli fotografati sulle custodiedei vinili, da John Baez a Lennon-Ono, daMiles Davis ai Rolling Stones, ma nonmancano anche idoli francesi comeHallyday o attori-cantanti come Yanne eDutronc. Alla fine anche i volti dei duefratelli front man della band, Nicolas eFréderic Boisnard, si trasformano incopertine.

PORTE’ DISPARUCanada, 2009, 3’55”, musica: Malajube, regia: VincentMorisset, fonte: Youtube.com

7I 4 della band canadese, con altri5 personaggi, sono i protagonistidi un noir in una villa. L’immagine

ricorrente è il totale dei Malajube chesuonano (si distinguono per gli abitimonocromatici indossati: giallo, verde,rosso e blu), alternata a sequenze dove simassacrano secondo varie modalità. Portèdisparu è un riuscito divertissement, unasorta di catalogo di delitti. Fotografia diChristophe Collette, scenografia di JeanBabin.

A CURA DISILVANA SILVESTRI,CRISTINA PICCINO, MARCO GIUSTI,ROBERTO SILVESTRI,GIULIA D’AGNOLO VALLAN,ARIANNA DI GENOVA,MARIUCCIA CIOTTA

ULIDI PICCOLA MIADI MATEO ZONI. DOUCMENTARIO. ITALIA 2012Dalla selezione ufficiale del Torino FilmFestival esce un piccolo film di notevolespessore che parla del disagio giovanile intermini originali per il punto di vista e lapresenza di una protagonista dalla fortepersonalità. Il racconto procede via viaverso scenari sempre più ampi ecomplessi, proprio come si dipana la vitavivendola. Paola (Ulidi la chiama lamadre) era ancora minorenne quando hacercato di uccidersi ed è stata accolta dauna casa famiglia dove le medicine e ilpercorso su se stessa le hanno cambiatola vita. Non prova a tagliarsi più le braccia o almeno quasi mai. È sul punto di compiere18 anni e si può dire che sia lei stessa ad accompagnarci tra le sue compagne di cui siintuiscono le problematiche, con giornate più tranquille o più agitate. Come seguendoun percorso drammatico, un vero viaggio psichico, ecco l’incontro con la famiglia,forse all’origine di tanto autolesionismo, nell’apparente normalità, nella ruvidezza delpadre e nell’affetto iperprotettivo della madre, frammenti di possibili indizi, come sitrattasse di citare David Cooper. Invece il film è ispirato da «Fuga dalla follia, viaggioattraverso la legge Basaglia» di Maria Zirilli (ed. Mup) e nasce da uno spettacoloteatrale e dall’incontro speciale con la protagonista. (s.s.)

FARE FESTAA BARCELLONA

IL FILM100 METRI DAL PARADISODI RAFFAELE VERZILLO, CON LORENZORICHELMY, JORDI MOLLÀ. ITALIA 2012

0Un campione di atleticavorrebbe che suo figlioscegliesse l’attività sportiva,

mentre il giovane vorrebbe farsi prete.Monsignor Angelo Paolini (DomenicoFortunato), amico del padre, cercheràdi andare incontro ai desideri di tutti edue, organizzando una squadra di atletidel Vaticano.

IL RICHIAMODI STEFANO PASETTO; DI SANDRA CECCARELLI,FRANCESCA INAUDI. ITALIA 2012

0Ha vinto il festival del cinemaitaliano di Villerupt il film diPasetto, coproduzione

italoargentina. Racconta l’incontro aBuenos Aires di due donne moltodiverse tra loro: Lea è una giovaneitaliana che non vuole impegnarsi in unarelazione definitiva e Lucia è una fragilequarantenne che vive con un maritopremuroso nel quartiere bene dellacittà. Le due si incontrano, nasce unaforte attrazione e Lea vorrà seguireLucia in capo al mondo.

SPECIAL FORCES - LIBERATEL'OSTAGGIODI STÉPHANE RYBOJAD; CON DIANE KRUGER,BENOÎT MAGIMEL. FRANCIA 2011

0Afghanistan: la corrispondentedi guerra Elsa Casanova è presain ostaggio dai talebani e per

evitare la sua imminente esecuzione,un'unità delle forze speciali è inviata perliberarla. Inizia una ricerca incessantetra i rapitori che non hanno alcunaintenzione di lasciarsi sfuggire la loropreda e un gruppo di soldati cherischiano la vita per portarla a casa viva.

TUTTI I NOSTRI DESIDERIDI PHILIPPE LIORET; CON VINCENT LINDON,MARIE GILLAIN. FRANCIA 2011

0Claire è un magistrato di Lione:un giorno davanti a lei, intribunale, compare la madre di

una compagna di classe di sua figlia,«strozzata» dal sovraindebitamento.Decide allora di coinvolgere Stéphane,giudice esperto e disincantato masensibile al problema, nella sua battagliacontro le derive del credito alconsumo. Tra lei e Stéphane nascequalcosa: il desiderio di cambiare lecose e un legame profondo, masoprattutto l'urgenza di vivere questisentimenti. Liberamente ispirato alromanzo «Vite che non sono la mia» diEmmanuel Carrère, pubblicato in Italiada Einaudi.

WORKERS - PRONTI A TUTTODI LORENZO VIGNOLO; CON DARIO BANDIERA,FRANCESCO PANNOFINO. ITALIA 2012

0Tre storie, quella di Alicetruccatrice di cadaveri che perarrotondare accetta l’invito di

Saro che, la invita a sostenere la partedella moglie defunta in una cena difamiglia, la storia di Giacomo badante diun uomo paraplegico insopportabile.Infine Italo che lavora comeraccoglitore di sperma in unallevamento di tori da monta, mentre lasua ragazza lo crede un chirurgo. Trestorie di precariato con, tra gli altrinumerosi interpreti, Nino Frassica,Nicole Grimaudo, Paolo Briguglia, LucaTerracciano.

THE AVENGERS (3D)DI JOSS WHEDON; CON CHRIS HEMSWORTH,SCARLETT JOHANSSON. USA 2012

1Una schiera di eroi coi genimodificati nel sangue èchiamato a sventare Loki,

fratellastro bacato di Thor (ChrisHemsworth) supereroe conl’ossessione del martello. Gli altri sonoRobert Downey jr uno strafottenteIronman, Chris Evans Capitan Americacon la new entry Bruce Banner alias

l’incredibile Hulk. Il regista, da sempreun appassionato dei fumetti Marvel haun sepolcrale passato di successi comeBuffy l’ammazzavampiri e Angel.Distribuisce Walt Disney. (fi. bru.)

IL CASTELLO NEL CIELODI HAYAO MIYAZAKI. ANIMAZIONE. GIAPPONE1986.

8Incastonato tra due capolavori– Nausicaa nella valle del vento('84) e Il mio vicino Totoro ('88) –

Il castello nel cielo è il film d'esordio delloStudio Ghibli di Hayao Miyazaki chefirma soggetto, sceneggiatura e regia,disegna i personaggi e «costruisce» imodellini. Ogni inquadratura esplodenella vertigine di lampi e rapsodie visive,opere d'arte seriali ad alta quota, unatrama del fantastico complessa. Lputa èl’isola fluttuante nel cielo, abitata damusicisti e matematici privi di sensopratico, o meglio di vocazione alprofitto. Titolo e doppiaggio scelti inaccordo con la Ghibli da una Lucky Redammirevole nel distribuire tutto ilpatrimonio Miyazaki (il dvd del Castellonel cielo fu ritirato dalla Buena Vistadopo una breve uscita nel 2004). (m.c.)

CHRONICLEDI JOSH TRANK; CON MICHAEL B. JORDAN,MICHAEL KELLY. GB USA 2012

1Ci sono più Schlock e RogerCorman che Blues Brothers inquesta «cronaca» di vita di liceo

che combina solide radici mitologicoletterarie e intelligente backroundcinefilo dalla sensibilitàipercontemporanea non lineare, delcinediario da web per uno sguardod’insieme da Icaro a The Blair WitchProject a X-Men. Il film lievita verso unclamoroso finale volante. (g.d.v.)

DIAZDI DANIELE VICARI, CON ELIO GERMANO,CLAUDIO SANTAMARIA. ITALIA 2012

7Diaz non cerca il « colpevole»,vero o presunto, ma prova ariflettere (e a fare riflettere)

sulle conseguenze di quella democraziamalata, e sulle sue modalità. Come èpossibile che sia accaduto qui, tra noi,ora è la domanda di un racconto che sifonda sugli atti processuali e sullesentenze della corte di appello diGenova. L'assalto alla Diaz è la «scenamadre», ritorna, si dilata nel tempo(cinematografico), è l'imbuto in cui idiversi punti di vista convergono in unosolo (c.pi.)

HUNGERDI STEVE MCQUEEN, CON MICHAELFASSBENDER, LIAM CUNNINGHAM, STUARTGRAHAM, BRIAN MILLIGAN, LIAM MCMAHON.GB IRLANDA 2008

71981, Bobby Sands il militantedell’Ira trovato in possesso diarmi, condannato a una lunga

pena esige di essere trattato dal nemicocon lo status e la dignità del«prigioniero politico». Il sacerdoteirlandese cerca invece di riempire disensi di colpa il suo gesto, però restaconvinto della politicità del suo gestoestremo. La storia darà ragione a lui eai suoi compagni. (r.s.)

HUNGER GAMESDI GARY ROSS, CON JENNIFER LAWRENCE, LIAMHEMSWORTH. USA 2011

7Quello che resta delNordamerica diviso in dodiciprovince in diversi stati di

povertà. soggiogate a una Capitaletirannica, sfarzosa e decadente che,dopo aver brutalmente soffocato unarivoluzione, ogni anno esige il sacrificiodi 24 teenagers impegnati in unsanguinoso gioco di morte televisivo dalquale può emergere un solo vincitoresopravvissuto.. Più simile al modello dicinema leggero alla Twilight che a quellopiù costoso di Harry Potter conprecedenti più vicini della trilogia diSuzanne Collins (Mondadori in Italia)

sono il romanzo di Koushun Takami e ilfilm che ne ha tratto Kinji Fukasaku,Battle Royale. Lawrence porta all’eroinauna fissità magnetica, distante che ne faun personaggio stoico, doloroso,perfetto per l’era di Occupy WallStreet. (g.d.v.)

ISOLEREGIA: STEFANO CHIANTINI, CON ASIAARGENTO, IVAN FRANEK. ITALIA 2012

7Tre personaggi vivono nel loroisolamento e nel silenzio perchédolore o difficili situazioni

hanno segnato il loro destino. Isolenell’isola (siamo alle Tremiti), ma traloro si crea una profondacomprensione: una ragazza muta (AsiaArgento), l’anziato prete appena uscitodall’ospedale, l’immigrato senzadocumenti. Alta tensione emotiva,interpretazioni notevoli. Il film esce insala e si potrà vedere dal 16 maggioonline sul sito www.larepubblica.it (s.s.)

IL MIO MIGLIORE INCUBO!DI ANNE FONTAINE; CON ISABELLE HUPPERT,BENOÎT POELVOORDE. FRANCIA 2012

7Già pronto per un remake,gradevole divertimento,propone dopo il confronto

comico nord e sud quello della donnaalgida e dell’uomo ruspante. Poiché sitratta di un film francese c’è l’elementoche diverte i francofoni, il protagonistabelga dalle maniere grossolane chespiccano con una protagonistaintelletuale e snob dei quartieri alticome Agathe (Huppert) direttrice diuna galleria d’arte. Poiché ci troviamonei quartieri alti il rapporto esplosivomantiene un certo equilibrio e stile.(s.s.)

THE RAVENDI JAMES MCTEIGUE, CON JOHN CUSACK, LUKEEVANS. USA 2012

6Tenta la strada del thriller diambientazione storicaricostruendo tra Budapest e la

Serbia la Baltimora del 1849, gli ultimimisteriosi giorni di Edgar Allam Poeinterpretato con grande fascino da JohnCusack alle prese con un maniacoomicida. Aiutato dal prestante ispettoreFields (Evans), l’annoiatissimo Poe èanche costretto a scrivere un raccontoal giorno nel suo giornale «The Patriot»per tenere in vita la bella fidanzata cheun maniaco minaccia di uccidere. Nonbrilla per originalità. (m.gi.)

ROBA DA MATTIDI ENRICO PITZIANTI. DOCUMENTARIO. ITALIA2011

7A Quartu Sant'Elena inSardegna una casa in cui vivonootto persone con disagio

mentale si trova a rischio chiusuraperché l’associazione che la gestiscenon riesce più a fronteggiare le spese. Ilfilm ci mostra i meriti e le difficoltàdell’applicazione della legge Basaglia: lepersone che vivono nella casa ritaglianoil loro spazio, si impegnano nelle attivitàdella casa, hanno momenti disocializzazione e anche la possibilità diisolarsi. Un lavoro ricco di umanità.(s.s.)

SISTERDI URSULA MEIER; CON LÉA SEYDOUX, KACEYMOTTET KLEIN. FRANCIA 2012

7Storia di un amore doloroso eimpossibile, di una complicitàassoluta e feroce, di un mondo

diviso dall’alto delle stazioni sciisticheaffollate dai vacanzieri di lusso e il bassodi chi abita lì, i ragazzini delle casepopolari, i lavoratori stagionali. Simoneè un ragazzino quasi adolescente chevive con sua sorella, tanti uomini perstorie destinate a finire male e che vivequel fratellino come un peso. Ma lui èsempre occupato lavorando tra ivacanzieri dove ruba sci e altri accessorie li rivende. Un legame forte e violento.(c.pi.)

SINTONIEDARK SHADOWSDI TIM BURTON, CON JOHNNY DEPP, MICHELLE PFEIFFER, CHRISTOPHER LEE, ALICE COOPER. USA 2012Un castello neogotico domina l’immaginaria Collinsport, Maine. Burton gioca conl'immortalità in un bazar di memorabilia, tra lupi mannari e Crocodile rock, alla ricercaimpossibile di un presente dove fermarsi. Reduce dal blockbuster Alice - ben lontanadalla malinconia del «bambino ostrica» - Burton fruga nei bauli della paura, dietro allesue creaturine mostruose, tutte fil di ferro, canapa scucita, occhi sbilenchi,«autoritratti». Il vampiro Barnabas dei mille episodi Abc (’66-’71) salta fuori dallamemoria degli esseri anormali, reietti e cadaverici, galleria di incubi poetici dalle orbiteannerite, corpi disarticolati nel tratto di matita, esposti ora a Parigi e che tornano inquesto omaggio geniale a Dan Curtis che firmò già House of Dark Shadows (’70) per ilgrande schermo, con Jonathan Frid (qui in cameo). Depp riprende la sua faccia di cera -sotto la maschera da pirata ce n'è sempre un'altra - ed è Barnabas, signorino nella tenutadi Collinwood, padrone della città che dal 1750 porta il suo nome. Poi la maledizione.Poi il risveglio da vampiro nel 1972 alle prese con pantaloni a zampa d'elefante, orridigioielli di macramè, bambolotti deformi di gomma, hippies e adolescenti-lolite. Poi lalotta con la mefistofelica Angelique Bouchard (Eva Green, Dreamers) partner nella piùsexy scena catastrofica di sesso mai vista, unghiate da spaccare i muri e capriole sulsoffitto. Intriso di antichi piaceri Burton passa dalla Hounted Mansion ai pirati dei Caraibie non segue la parodia di Nosferatu né il coté romantico di Twilight ma orchestra unacommedia nera dai toni camp sull'essere sempre fuori dal proprio tempo. (m.c.)

DISOCCUPATO IN AFFITTODI LUCA MERLONI, CON PIETRO MEREU. ITALIA2012 WWW.OWNAIR.ITDopo essere stato licenziato iltrentottenne Pietro Mereu si mette alcollo un cartello con su scritto:«disoccupato in affito», un’idea che hapreso dall’iniziativa di un ragazzo inglesee come uomo sandwich gira per novecittà italiane, da Milano a Lecce, allaricerca di una nuova occupazione.Seguito dalla camera di Luca Merloni,scopre la realtà di un paese diviso trarassegnazione e voglia di cambiare. Lagente in ogni caso si confronta conMereu, è un’occasione per sfogarsi, ma ben poche sono le offerte di lavoro. Ildocumentario si può vedere su Own Air la prima piattaforma italiana in currentdownload che permette di scaricare legalmente i film del suo catalogo e trasferirlosul proprio dispositivo (Pc, Mac, iPad, iPhone, iPod, tablet e smartphone Android) aun prezzo dai 3,69 euro per i film già usciti al cinema ai 5,50 per le esclusiveassolute, a i 3,99 dei film mai usciti in sala. Ad esempio film usciti solo in dvd comeSummer Palace, Beyond the years, A crime, in esclusiva assoluta come Kaboom di GreggAraki o in contemporanea con le sale (come Enter the Void di Gaspar Noè),documentari italian (come L'incantatore di serpenti), cinema indipendente. (s.s.)

BIENNALE DELL’AVANA, CUBAXI EDIZIONE, FINO ALL’11 GIUGNOL’undicesima edizione della Biennale diarte contemporanea dell’Avana ètradizionalmente un appuntamentoimportante per gli artisti cheprovengono dai Caraibi, Sudamerica,Africa, Asia e Medioriente. Quest’annoil focus intreccia le produzioni visive conl’immaginario sociale dei paesi diprovenienza degli «ospiti» e cerca diinterpretare i nuovi modelli urbani ecollettivi di convivenza, senzadimenticare le istanze di una esistenzaecosostenibile. Organizzata dal centroWifredo Lam, fondata nel 1984, la Biennale cubana si espande in diverse sedi (perinformazioni www.bienalhabana.cult.cu) e nella sua «lista di invitati» - si spazia daHaiti al Venezuela agli Stati uniti, Brasile, Camerun, Giappone - figurano, fra gli altri,Andres Serrano, Carlos Garaicoa, Alejandra Prieto Suarez, Barthélémy Toguo,Esiebo, Machado, Colectivo Quintapata, Los Carpinteros, Abramovic, MariaMagdalena Campos, Tagushi, Villa. Il padiglione italiano è curato da Raffaele Gavarroche, nella sua mostra dal titolo «L’Etica prima della forma», ha chiamato arappresentare il nostro paese artisti come Flavio Favelli, Piero Mottola, ValerioRocco Orlando, Marinella Senatore e Giuseppe Stampone. Fra i conferenzieri piùinteressanti che sbarcano all’Avana, l’azionista Hermann Nitsch. (a. di ge.)

MAGICO

I FILM

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(10) ALIAS12 MAGGIO 2012

di FEDERICO SCOPPIO

Attore, cantante che del reggae hafatto la sua arte, ma soprattutto figliodi Bob Marley. Ma non di Rita, ilfiglio che Bob ebbe con lacampionessa giamaicana, la bellaAnita Belnavis. A pochi anni perde ilpadre e viene praticamente fattofuori dall’eredità e dai lussi che lafamiglia Marley aveva. In povertà, sitrasferisce con la famiglia dellamamma a Miami: Liberty City, unodei quartieri più malfamati diventa lasua casa. E a casa trova armi, droga,perdizione. Solo un lungo processodi redenzione lo fa diventare l’uomoche è oggi. Una vita - che è anche unpo’ la storia di alcuni aspetti di BobMarley e di quello che è successodopo la sua morte - che Ky-Maniracconta nella sua autobiografia:Dear Dad da Chinaski edizioni. Loabbiamo sentito.È appena passato l’anniversariodella morte di suo padre, qualeinsegnamento ha fatto suo?

Mi ha sempre affascinato il suomessaggio di un amore unico,smisurato, che coinvolge tutti gliamori possibili (One Love). Lo sentomolto vicino e ho il dovere diportarlo avanti e comunicarlo allagente. Un messaggio di unità diamore e di pace universale. Uninsegnamento fondamentale dellasua musica credo che sia anchequesto: la possibilità di contribuirealla vita del prossimo. La musica dimio padre si occupava esattamentedi questo. Però la forza di quellamusica è l’immortalità, dovuta alfatto che ognuno di noi, quando laascolta, ricava il suo insegnamento.

«Dear Dad» è un’autobiografia, inrealtà si parla anche di suo padre,escono dei tratti che non siconoscevano…Anche se il libro è intitolato Dear Dadnon parlo di mio padre in mododiretto. Nel libro racconto di me,della mia vita nel periodo della miainfanzia, e di tutto quello che hodovuto passare e affrontare, tutte leprove e le tribolazioni che ho vissutocrescendo. È un po’ come sededicassi la mia vita a lui, al suoricordo.

Il primo pensiero che le viene inmente quando ricorda suo padre?Molto spesso penso a lui, ormai nonpiù con rammarico. Quando erogiovane tante volte ho pensato che selui fosse stato ancora vivo, la mia vitasarebbe stata diversa. Ma poi me nesono fatto una ragione. La primaimmagine che ho di lui, è comunqueun’immagine che io non ho vissutoma che ho delineato a partire dairacconti di mia madre. Risale aquando loro due si incontrarono,ovviamente io non c’ero ma ungiorno lei mi raccontò comesuccesse. Mia madre da giovane erauna campionessa di ping pong, lui,inutile ricordarlo, il re della musica inGiamaica. Andò a vedere un torneo epare proprio che rimase colpito dalei, che, mi raccontò di sentire il suosguardo addosso diverse volte.Durante la competizione lui le fecearrivare un messaggio, avrebbe

voluto incontrarla, e lei rispose cheprima doveva vincere il torneo. Pocodopo, lei con la coppa in mano, siincontrarono fuori dal palazzettodello sport. Ecco, mi piacerebbemolto sapere con quali parole lacorteggiò, conoscerlo in un ambitocosì privato.

Nel libro si capisce che la sua storiaè la storia di un figlio escluso daiprivilegi della famiglia Marley, perun periodo dalla ricchezza,dall’eredità. Di chi è stata laresponsabilità dell’esclusione?Ci sono due fasi in questa storia un

po’ triste e dura. Quando mio padreera in vita, non ha fatto mancareniente a mia madre e a me, anche selui aveva un’altra famiglia. I problemisono iniziati dopo la sua morte, hopassato anni in cui non avevamoneanche i soldi per mangiare.

Cosa le è mancato?Lo scrivo nel libro, sognavo di avereun bagno come tutti noi dovremmoavere, le mie abitudini sono state permolti anni quelli di un ragazzoborderline. Davvero ci sarebberobastati trecento dollari al mese,avremmo potuto vivere degnamente

Ky-Mani,l’altra facciadi Bob Marley

INTERVISTA ■ L’ARTISTA PUBBLICA «DEAR DAD», L’AUTOBIOGRAFIA

Musicista e attore, il figlio nato dalla relazionecon Anita Belnavis è stato a lungo esclusodalla famiglia del re del reggae. «Dopo la suamorte io e mia madre abbiamo fatto la fame»

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(11)ALIAS12 MAGGIO 2012

IN PAGINA ■ ALCUNI STRALCI DAL LIBRO

Oceani di dolore.La storiadi un incuboascoltato alla radio

e io avrei potuto continuare gli studie non finire per strada.

I ricordi più vivi di suo padre?Ero molto piccolo quando mio padreera ancora in vita e purtroppo non homolti ricordi di lui. Un giorno vennea prendermi a Falmouth, il paese dicampagna dove vivevo in Giamaica.Venne con la sua jeep, prese me emia madre e ci portò con sé a NineMile. Quel giorno mi regalò ungiocattolo bellissimo, una fionda cheaveva portato dal suo viaggio negliStati Uniti, che poi però andò persaproprio durante quella gita. È un caroricordo della mia infanzia che horaccontato anche nel mio libro. E poiil ricordo più doloroso è stato ilmomento della sua morte. Non solonon potevo stargli vicino ma non mipermisero neanche di partecipare alfunerale che, come si puòimmaginare fu un evento per l’interaisola. Mia madre chiamò i mieifratelli più grandi ma sembra che lafamiglia decise che solo i parenti piùstretti avrebbero potuto partecipare.Seguii il funerale alla radio provandoun dolore immenso.

Che rapporti ha oggi con lafamiglia di suo padre?La mia famiglia è molto importanteper me, con i fratelli ho un rapportodi rispetto reciproco. Ho passato anniduri, anche se poi sono serviti per

capire molto della vita, anni in cuinon riuscivo a farmi riconoscerecome un appartenente alla famigliaMarley. Racconto nel libro che a uncerto punto le cose sono cambiate, imiei fratellastri sono diventati la miafamiglia dopo tanti anni di lotta. Loconfermano le mie collaborazionicon Damian, Julian e Stephen.

A Miami ha vissuto di espedienti,tra la droga e l’illegalità. A un certopunto ha cambiato rotta, cos’èsuccesso?Dovevo liberarmi del mio passato.Così mi sono rimesso in sesto, hopercorso l’unica strada cheveramente sapevo potessesoddisfarmi, quella della musica. Epoi ho la grande famiglia di bambinidel Loaf (Love over all foundation),una fondazione che ho istituito perpromuovere l’amore tramite lamusica, l’educazione, le attivitàsportive. Anche perché tutto ciòavviene tramite la musica, comefaceva mio padre. A breve saràpubblicato un mio nuovo disco,Evolution of a Revolution, nel qualecanto una rivoluzione che sicombatte non con le armi maattraverso la musica.

Ultimi progetti della fondazione?Presto inauguriamo una scuola inGiamaica e poi vorremmo riuscire aorganizzare attività musicali e

sportive all’interno delle scuoleprimarie, per far sì che tutti i ragazziabbiano la possibilità di scoprire learti e lo sport.

Oltre al disco, quali altri progettiha in ballo?Sto ultimando una collaborazionecon l’amico Alborosie e poi unapiccola parte nel sequel di Shottas,che tra poco uscirà nei cinema.

Cosa racconterà ai suoi figli di BobMarley?Costantemente racconto ai bambiniche mio padre era un re. Ma nonperché governasse qualche stato,perché si occupava di renderemigliori le vite degli altri uomini. E lofaceva con la sua grande musica.

Ecco alcuni estratti da «Dear Dad»,l’autobiografia di Ky-Mani Marleyappena uscita da Chinaski edizioni(prefazione di Alborosie, pag. 200, euro18)Davanti alla tv(...) Il giorno in cui mio padre morì,mi ricordo esattamente dove fossi ecosa stessi facendo. Immagino nonsarebbe stato così difficile daricordare visto che, senza eccezioni,ero nello stesso luogo ogni sera. Aquell’età, la mia intera vita eradominata dall’unica cosa cheamavo: il calcio. Ero al parco, nel belmezzo di una partita, quando mi siavvicinò un uomo. Non mi ricordochi fosse o se lo conoscessi, masicuramente ho bene in mente cosami disse: «Tua madre vuole che tuvenga con me, ora».

Naturalmente, ero proprio nel belmezzo della mia attività preferita, ecome qualsiasi bambino non avevonessuna intenzione di sentirmi direche il gioco era finito. Così iniziai ainterrogarlo. «Per che cosa?», chiesi. Iltizio mi rispose: «Non lo so, ma leidice che è necessario che tu venga acasa proprio adesso». Davvero? Iltutto mi risultava così strano. Non eramai successo prima che venissero achiamarmi al parco per andare a casa.Mai. Era Falmouth, un posto dovenessuno ti metteva fretta e a casa citornavi quando avevi finito di giocare.E succedeva sempre così. Nessuno mipressava, nessuno era preoccupato.Tutto era semplice e tranquillo. Maniente era semplice e tranquillo inquel caso. Era accaduto qualcosa.

Così, logicamente, la mia mentecominciò a correre, cercando dicapire quale fosse il problema. Madopo un secondo pensai: Okay.Questo non è un problema. Presi su lamia palla e mi incamminai versocasa. Mentre tornavo dal parcosaltellavo qua e là per la stradagiocando con la palla. Mi avvicinavosempre di più. Dove vivevamo erauna specie di strada a una sola corsia.Era come un piccolo vicolo, poiiniziava la fila di caseggiati. Una sortadi quartiere. Dalla nostra parte c’era ilnegozio del barbiere, subito dopo unacasa. La nostra era la secondaabitazione. Avevo appena passato laprima casetta e ancora pensavo trame e me: ma che cavolo sarà successodi così urgente da farmi smettere digiocare a calcio? Ricordo che stavocamminando e mi guardavo attorno.C’era qualcosa di anormale. Misipiede dentro casa e non c’eranessuno. ’Bene, okay. E lei dov’è?’, michiesi.

Uscii e ricominciai a camminare, equesta cosa iniziava davvero astranirmi perché non vedevo lenormali attività quotidiane dei vicini equant’altro. Continuai ad andarelungo il vicolo alla ricerca di unqualche segno di vita. Finalmente latrovai. In realtà la trovai due case piùgiù, nell’abitazione di un amico. Non

c’era solo lei, sembrava che l’interovillaggio fosse lì. In seguito scoprii cheerano tutti radunati inquell’abitazione perché c’era untelevisore, e quasi nessuno possedevaun piccolo schermo per poter vederel’unico canale della tv giamaicana. Mail nostro amico aveva questoprivilegio. Feci capolino, la casetta erapiena. Entrai con il mio pallone dacalcio sul fianco, ancora cercando dicapire cosa diavolo stessesuccedendo. Erano tutti riunitidavanti al televisore. Tutti con losguardo fisso sullo schermo. Restai lìin piedi, e ricordo che l’atmosfera eraproprio strana, sapete?

In tutta la mia giovane vita nonavevo mai vissuto una situazionesimile prima, né avevo mai visto tuttala mia gente nello stesso luogo e nellostesso momento. Qualcosa non stavagirando nel modo giusto. I loro voltisembravano svuotati. Nessuno aprivabocca. Nessuno dei ragazzi era in giroo a giocare. Tutti erano lì seduti,immobili, storditi, come zombie. Nonriuscivo a capire cosa stessesuccedendo, e così mi misi proprio inmezzo a tutta quella gente, e liguardai. Uno a uno, tutti quanti sirisvegliarono dal loro stupore einiziarono a rivolgere lo sguardo versodi me. Ora ero davvero sorpreso.Nessuno parlava. Proprio non mipiaceva l’espressione sulle loro facce.Poi qualcuno disse qualcosa,finalmente. Una giovane ragazza. Miguardò, interrompendo il brusio dellevoci dei presenti, e senza mezzitermini mi disse: «Tuo papà è morto».Silenzio. (...)Uno schiaffo moraleRicordo ancora adesso ciò cheaccadde a proposito della cerimoniafunebre, la ferita era ancora fresca, ildolore ancora presente. Ma eragiunto il momento per me di andareoltre. Ed è estremamente difficileparlarne. È difficile perché mi uccidedentro ancora oggi, dopo tutti questianni. L’episodio del funerale rimanefresco e attuale dentro di me, e questoperché non ho avuto la possibilità dipartecipare alle esequie di mio padre.Mio padre. Questa storia mi devastaancora oggi. Qualcuno potrebbechiedersi se fu una questione politica,cose insignificanti e drammatiche cheaccadono tra gli adulti, ma io non loso e non lo posso dire. Tutto quelloche posso affermare con certezza èche non sarebbe dovuta andare cosìper me. Ero solo un bambino. Unragazzino a pezzi per la morte di suopadre. Non c’era niente di politico inquesto. Punto. Per tutta la vita hocercato di non pensare a queste cosee lasciarle dove sono. Davvero. Maloro rimangono con me. E ho capitoche evitare di pensarci ed evitare diparlarne non significa che il doloresmetterà di farsi sentire. Proprio ora,mentre scrivo, è ancora intenso. Enon posso farci niente. Anche se lospirito non era più con quel corpo,

sarebbe stata l’ultima opportunità cheavrei avuto di vederlo fisicamente. (...)Andare avanti. Gli fecero un funeraledi stato. Era la notizia del giorno incittà e nell’intera isola. Io e la mammanon parlammo tanto della cosa, o perlo meno non me lo ricordo.Rammento soltanto che mi chiese sevolessi andare al funerale. Le dissi:«Certo, voglio andare».

So che cercò di trovare unapersona che potesse portarmi,addirittura chiamò a Kingston pervedere se ci fosse la possibilità chequalcuno venisse a prendermi. Manon accadde. Nessuno venne.Nessuno. Ricordo che restai adaspettare per tutto il giorno. Ma nonaccadde mai. Alla fine mi misi adascoltare il funerale e l’elogio a miopadre alla radio. La radio.

Fu un momento importante. Ilfatto che le nostre condizioni fosseroquello che erano e che andassimoavanti con niente e senza mezziavrebbe dovuto essere preso inconsiderazione. Non è che la gentenon lo sapesse. La gente sapevabenissimo di chi fossi figlio, dovevivevo e tutto il resto. Non era unsegreto. E proprio il fatto che non mifosse stata concessa la possibilità diessere presente al funerale di miopadre era stato per me uno schiaffomorale. Tosto. È questo il mio statod’animo sin da quel giorno.

Penso di ricordare di averneascoltato una buona parte fino aquando… credo… non ce la feci più.(...) Non so cosa stesse pensando lagente di me e della situazione in cuimi trovavo. Il figlio del Gong costrettoad ascoltare alla radio i funerali delpadre assieme a loro. Ero troppopiccolo per preoccuparmene. Tuttoquello che potevo pensare era a lui.Solo a lui.Nel ghettoMia mamma mi disse che mio padreaveva intenzione di comprare unaproprietà a Falmouth. Stava peracquistare una casa per noi. Ma poi siammalò di cancro e le cosecambiarono velocemente. E gliavvoltoi, si sa, aspettano con ansia divedere le loro prede cadere. Miamamma mi disse anche che sentì chela moglie di mio padre, Rita Marley,aveva detto: «Tutti i bambini bastardie le loro sporche madri soffriranno».Aperta parentesi. Chiusa parentesi.Wow. E così fu. Quello sarebbe statol’inizio di tutti i problemi a venire.Problemi che non si sarebbero risoltiin fretta. Non significava niente dibuono. Quel giorno segnò di fattol’inizio della lotta e di una battagliatutta in salita. Si trattava di chiarirechi sarei diventato. Quel momento fuintenso e avrebbe continuato adesserlo per molti anni a venire. (...)Sono cresciuto nel ghetto con altritredici bambini, la maggior parte deiquali senza un padre; tutti quantimolto, molto scalmanati, tutti quantipronti a qualsiasi cosa, in ognimomento. Ora ho un figlio che haquindici anni. A volte lo sgrido o lotratto un po’ bruscamente, ma inmodo paterno, senza mai abusaredella mia autorità. (...) Alla sua età eroassolutamente fuori controllo.Paragonato a quello che facevo io,posso dire che lui sia un santo. Aquindici anni giravo armato giorno enotte. E ogni notte, quando mianonna andava a letto e ioteoricamente avrei dovuto essere giàaddormentato, mi alzavo e uscivo perandare dietro l’angolo a venderecrack. Quindici anni. Qualsiasipunizione mi avessero dato, nonsarebbe servita. Avevo un sacco diamici nel quartiere, e a tanti di loroera morto il padre. Sapete già del mio,ma la maggior parte dei loro padri eramorta per ferite da arma da fuoco.

NATE PER CASOdi R. PE.Quando un artista inizia a comporre un brano spera sempre che possa diventare il suo«capolavoro», ma a volte i più grandi successi nascono per caso. Prendete ad esempio Loser, il branoche ha lanciato Beck. La canzone fu composta e registrata in sole sei ore. Beck l’avrebbe volentieriscartata perché riteneva il suo «rap» una cosa orrenda, tanto da coniare la frase «I’m a loser baby,so why don’t you kill me?», e solo le pressioni della label lo convinserlo a tenerla. Nel 1987 i BeastieBoys pubblicavano Fight for Your Right (to Party). Il brano voleva essere una presa in giro della scenarock, ma con la produzione di Rick Rubin divenne un successo planetario e, ironicamente, licatapultò proprio in quello showbiz che tanto odiavano. Anche l’inno del grunge, Smells Like Teen

Spirit dei Nirvana, fu partorito come un divertissement. Un riff che ricordava More Than a Feeling deiBoston eun titolo ispiratogli da una scritta che la sua ex aveva fatto su una parete, «Kurt Smells LikeTeen Spirit». E che dire dei Quiet Riot e della loro versione di Cum on Fell the Noize, brano degliSlade. Il pezzo fu osteggiato dal batterista Frankie Banali, che provò a boicottarne la riuscita in ognimodo. Ironia della sorte, proprio quell’odiato brano gli garantì il sospirato successo. Nella colonnasonora de Le iene spiccava Stuck in the Middle with You di Gerry Rafferty e i suoi Stealers Wheel, hitdel 1973. Un successo inaspettato visto che il pezzo altro non era che una parodia di Bob Dylan,tanto che molti pensavano fosse proprio dello stesso Dylan. Chiudiamo con i Guns N’ Roses e laloro Sweet Child o’ Mine. Si racconta che Slash stesse facendo degli esercizi alla chitarra, e che AxlRose ascoltando il riff rimase entusiasta al punto da assicurare tutti che quella sarebbe diventata laloro prossima hit. Un tira e molla in cui la spuntò, fortunatamente per la band, il cantante.

«Qualcuno potrebbe chiedersi se fu una questionepolitica, cose insignificanti e drammatiche,da adulti; ma io non lo so e non lo posso dire. Sosolo che non sarebbe dovuta andare così per me»

In grande due immaginidi Ky-Mani e la copertinadel libro. Il Leone di Giudae accanto Beck

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(12) ALIAS12 MAGGIO 2012

Due immaginidi Michael Gira.Sotto la copertinadell’album di Lou Reed«Sally Can’t Dance»e una fotodi Marc Bolan

INCONTRI ■ L’EX LEADER DI SWANS E ANGELS OF LIGHT

Michael Gira,l’imperturbabilemagnetismo

SEX PISTOLS STORYdi F. AD.

È appena riaffiorato in rete e va visto. Siintitola: Who Killed Bill? ed è undocumentario dedicato alle origini delpunk e dei Sex Pistols in particolare. Sivede qui:http://www.youtube.com/watch?v=Nwnj4fZ4nxM&feature=player_embedded).

Si tratta di un montato di spezzoni inonda nel ’76 sulla London WeekendTelevision. All'interno interviste algruppo e ai fan. La band è così giovaneche lascia a bocca aperta, con JohnnyRotten (nella foto) lapidario esplendidamente perentorio. «La nostraanarchia è dire basta - in maniera nonviolenta - a tutto quello che ci giraintorno», sentenzia il cantante. Oppure:«Non è una persona che cambia ma

l'atteggiamento nei suoi confronti diquelli che gli stanno intorno». Intervisteanche a Malcolm McLaren, a JohnnyRotten/Lydon subito dopo loscioglimento dei Pistols ecc. Si passa poial periodo con Sid con lunghe pause sulChelsea Hotel e la presunta stanza degliorrori - la numero 100 - arrivando finoalla reunion del '96, il Filthy Lucre tour.Qui c’è tutta la preparazione per il granritorno, le prove, il tè dei quattro

di CHIARA COLLI

Lo sguardo è di quelli che non fannopresagire nulla di buono. Gelido,intimidatorio, deciso. La bocca èsottile, da cui mai ci si aspetterebbeuna parola rassicurante.L’espressione è imperturbabile,cinica. Quella di chi ne ha vistetroppe. Michael Gira ha i connotati diun serial killer, ma un’onestà artisticauguale a pochi. Un carisma che hareso la sua musica inconfondibile,capace di penetrare a fondonell’ascoltatore. Un vero processocatartico, che è l’effetto di tutta lamusica a firma del musicistacaliforniano. Che si tratti di Swans,Angels of Light (la band - più acusticae pacata del main project - nata nel1998 a seguito dello scioglimentodegli Swans), della sua produzionesolista o delle band pubblicate con lasua etichetta Young God, tutto ciòche passa attraverso le mani diMichael Gira si trasforma in qualcosadi magnetico. E potenzialmentedevastante.

Attivo dai primi anni Ottanta,quelli del post punk più cupo edeviato, nel 2010 - a tredici anni dalloscioglimento - Michael Gira è tornatoa suonare con gli Swans (ma senza laex moglie Jarboe), pubblicando unlavoro in studio possente come MyFather Will Guide Me Up a Rope tothe Sky. Ed è proprio per trovare ilbudget necessario per la produzionedel suo seguito (The Greed, in arrivonel 2012), che il polistrumentistaamericano è stato da poco in tour inItalia, con uno show solista, incompagnia della sua chitarra acusticae un repertorio vastissimo da cuipescare. «Parte dei live sono legati aThe Milk of Michael Gira, unaraccolta dei miei lavori solisti dal2001 al 2010. Ma ci sono brani daognuno dei miei progetti». Un errareincessante, che continua nel percorsoverso The Greed. «Negli anni gliSwans hanno avuto un’evoluzionesignificativa, e il nuovo corso ha unadirezione più sonica e menoincentrata sulle parole. Ci sono branicalmi, arrangiati in versione country-psichedelica, ma altri fortementeritmati, lunghi e totalmente incentratisul suono». Un suono che per anni, èstato definito aggressivo. «Non sonouna persona costantementearrabbiata. Sono alla ricerca diun’esperienza che sia totale. Con gliSwans, ho spesso cercato dimescolare musica e aspirazionicinematiche: non si trattava di unsemplice attacco brutale, di punkrock. Ma del bisogno di creare unospazio, di innescare dei meccanismi.È un impulso inevitabile, perché iosono il primo ad avere bisogno diperdermi in masse di suono, e mipiacerebbe che anche il pubblicoprovasse la stessa esperienza».

Lo stesso pubblico con cui, dasempre, Gira ha un rapportocontroverso. Nei live ai tempi dellano-wave, fino a un recente concerto aDenver, in cui ha gentilmenteammonito il parterre in vena dichiacchiere con un impietoso«andate a leggere Pitchfork!». «Ilrapporto con il pubblico è semprestato pieno di tensioni. All’inizio citrattavano con indifferenza o condisprezzo. Ma era una fonte dienergia anche quella. Loro ed io

siamo vittime di una bestia feroce,che è il suono proveniente dal palco.E che continua a picchiare, finchénon ci appare dio. Quando erogiovane, mi sono letteralmentemassacrato nei live. Denti e costolerotte, sempre: facevo di tutto, erocome posseduto. E poi il giorno dopone sentivo le conseguenze...» (ride).

Un approccio diretto, quello diGira, che non viene meno neanchequando gli si chiede della reunion

degli Swans. «È stata una decisioneartisticamente molto egoistica. Holavorato per anni con gli Angels ofLight, finché non ho avuto un bloccodi oltre tre anni. Nel frattempo, sonotornato a sentire musica moltointrusiva, elettrica e più vicina aquella del mio primo gruppo. Equando mi sono messo nell’ottica discrivere canzoni, pensarle per gliSwans ha facilitato tutto il processo».Ma che nulla, nella sua vita, sarebbe

stato effettivamente «facile», MichaelGira deve averlo capito dagli inizi. «Aquindici anni vivevo in Germania, emio padre mi aveva mandato alavorare in fabbrica, per farmi vedereche fine avrei fatto se non mi fossicomportato bene. L’anno dopo miiscrisse a scuola, ma scappai. Hoviaggiato in autostop fino inJugoslavia, Grecia e poi Turchia, mafinii i soldi e andai in Israele, doveavevo degli appoggi. Ci ho passato unanno facendo l’elemosina, vendendosangue, lavorando in una miniera dirame. Alla fine mi arrestarono pervendita di stupefacenti: sono statooltre tre mesi in carcere e poi mihanno espulso dal paese». Tutt’altre(chiaramente) le difficoltà dell’artistadi oggi. Sebbene un minimo comunedenominatore - quello della sfida edella difesa di una propria, sudataautonomia - tra allora e oggi, sembrain parte esserci. «Nel 1990 ho fondatola Young God Records e da allora hoprodotto un buon numero di gruppi(Akron/Family, Devendra Banhart,Lisa Germano tra i tanti, ndr). Maoggi la situazione è critica, non potròpiù pubblicare nuovi lavori se non imiei. Sono a favore dello streaming,ma il download per me è statodevastante. È una questione che miturba profondamente». Un’altra, dacui (paradossalmente) uscirà ancorapiù integro di prima.

di FRANCESCO ADINOLFI

Ci sono pezzi che nascono portandosiaddosso - nel titolo e nel testo - ilgerme della danza ma che in realtàper ritmo e struttura sonora nonrisultano affatto ballabili. Ancor piùinsolito è il fatto che provengano daartisti che hanno spesso celebrato neiloro dischi il gusto dello «scuotimentocorporale». Ebbene, purcontravvenendo alla certezza che ilrock sia per definizione suono inmovimento, i pezzi che seguonodimostrano come si possa vivere«rocking and rolling» anche standoimmobili. Partiamo conNightclubbing di Iggy Pop da TheIdiot, debutto dell'artista, scritto eprodotto con David Bowie. Lacanzone racconta di deambulazioninotturne da un club all'altro in cui«impariamo balli nuovissimi». Inrealtà il pezzo è fermo, con unincedere lento e angosciante. La vocequasi sonnolenta di Iggy è un invito afermarsi anziché a scuotersi. Sullastessa falsa riga Dance Dance Dance, ilpezzo scritto da Neil Young per i CrazyHorse. Molti rocker utilizzano il ballocome metafora sessuale («I wannadance with you», ad esempio), perNeil Young, invece, la danza è quindipiù una condizione di bellezza fisica ementale, un concetto solo cosmico.Come nel caso della ragazza descrittanel pezzo nemmeno sfiorata dal«fango del Mississippi». Non a casoNeil Young cambierà il testo allacanzone e la reintitolerà Love Is aRose. Anche i Roxy Music ci vanno giùpiano. Di sicuro più mossi di NeilYoung esaltano in Do the Strand (ilpezzo più riconiscibile dell'album ForYour Pleasure) lo Strand, balloinventato per l'occasione da BryanFerry che domanda al pubblico:«Stanchi del beguine? Il samba non èil vostro mondo?» Allora ci vuole loStrand, la soluzione a un rivoluzioneadolescenziale. Ovviamente non solonon viene fornita alcuna istruzione sucome ballarlo ma lo stesso brano ètutto fuorché danzabile. Di più: il saxdi Andy MacKay annulla qualsiasipossibilità di movimento. L'incedere

quasi sambesco induce, però, achiedersi se lo Strand non fosse unsambino rallentato. Il ritmo invariato,i fiati pungenti e quel coro inibisconoil movimento anche in Sally Can'tDance (pezzo portante dall'omonimoquarto album di Lou Reed). Inoltre ledisavventure di Sally sono cosìstrazianti (overdose, stupro ecc.) chepassa la voglia di ballare. Anche seReed assicura: «sha has a lots of fun».Mica vero. In The Flat Field, debuttodei Bauhaus, conteneva St. VitusDance, pezzo affatto ballabilenonostante il titolo (che rimanda allapatologia nota come La còrea diSydenham o più comunemente Ballodi San Vito) e il verso in cui PeterMurphy dice: «Ripensando ai beitempi antichi quando ballaresignificava esplodere». Le chitarre cosìurlanti e le percussioni reiterate,bloccano i piedi anziché liberarli.Dancing Barefoot è l’inno post-hippydi Patti Smith: piedi scalzi e ballare. Inrealtà l’incedere della canzone e iltesto evocano un senso di liberazionee euforia più spirituale che fisica: èuna musica che risucchia versol'essenza di sé («some strange musicdraws me in»), altro che pista daballo. Del resto che le danze a volte sipalesino solo nella testa di chi lepensa, è dimostrato da We Dance deiPavement con Stephen Malkmus chenel pezzo riconosce: «Balliamo, manessuno ballerà con noi in questabuffa città». Parole sante. Canzonepressoché acustica. Incredibile ancheBatdance di Prince (tema di Batman,il film dell'89) che contrariamente allastorica danzabilità di quel temastavolta mescola pacatamente funk,elettronica e frammenti di frasi dalfilm. Un ritmo robotico, ballabile soloin alcune minime parti. Marc Bolan eT. Rex vanno davvero oltre. Il testo diCosmic Dancer da Electric Warrior, tragli album più noti della band, recita:«Sono uscito ballando dal ventre, èstrano ballare così presto».Stranissimo, perché il ritmo è acusticoe lentissimo. Forse solo per ballerinicosmici? The Modern Dance,splendido brano che dà il titolo aldebutto dei Pere Ubu, sembra unoscherzo. La canzone ha una inizialestruttura ritmica movimentata cheperò si infrange contro pauseraggelanti e chitarre dissonanti. Eadesso chi balla?

STORIE ■ DA «NIGHTCLUBBING» ALLO «STRAND»

Nessuno si muova.Le canzoni subdoleche invitano a fintiballi e scatenamenti

RITMIIl musicistastatunitenseè da poco passatonel nostro paeseper un toursolista. «Sonoalla ricercadi un’esperienzatotale»

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(13)ALIAS12 MAGGIO 2012

Young MagicArriva la band statunitense, esponenti dispicco della scena glo-fi.Genova MERCOLEDI' 16 MAGGIO (HOP)Roma GIOVEDI' 17 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)Padova VENERDI' 18 MAGGIO (EX-MACELLO)

FilastineLe contaminazioni sonore dell'artistacaliforniano trapiantato a Barcellona. Conlui la cantante e producer indonesianaNova.Foligno (Pg) SABATO 12 MAGGIO(SERENDIPITY)Ravenna DOMENICA 13 MAGGIO (DARSENADI CITTA')

Jon Spencer BluesExplosionTorna in Italia uno dei più apprezzatiartisti d’oltreoceano.Bologna SABATO 12 MAGGIO (LOCOMOTIV)

Jay BrannanUno degli interpreti del film Shortbus èanche un apprezzato cantautore.Roma MARTEDI' 15 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)Milano GIOVEDI' 17 MAGGIO (LA SALUMERIADELLA MUSICA)

Anaïs MitchellLa cantante e autrice alt-folk, sullo stile diAni DiFranco.Conegliano Veneto (Tv) MARTEDI'15 MAGGIO (APARTAMENTO HOFFMAN)

MetallicaI pionieri del metal made in Usa.Udine DOMENICA 13 MAGGIO (STADIO FRIULI)

FanfarloLa indie band londinese torna in Italia perla prima volta come headliner.Milano SABATO 12 MAGGIO (MAGAZZINIGENERALI)

LostprophetsLa rock band gallese in Italia.Bologna MARTEDI' 15 MAGGIO (ESTRAGON)

IceagePunk rock per la band danese.Bologna SABATO 19 MAGGIO (LOCOMOTIV)

FriendsL'indie pop allegro e solare della band diBrooklyn.Segrate (Mi) SABATO 19 MAGGIO(MAGNOLIA)

DiagramsIl progetto solista di Sam Genders deiTuung.Torino VENERDI' 18 MAGGIO (SPAZIO 211)Roma SABATO 19 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

SleepStoner doom per la band californiana.Roma MERCOLEDI' 16 MAGGIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)Cortemaggiore (Pc) GIOVEDI'17 MAGGIO (FILLMORE)

Alex TuckerIn arrivo il musicista inglese, trasperimentazione, blues e folk.Roma GIOVEDI' 17 MAGGIO (INIT)Napoli SABATO 19 MAGGIO (RIOT STUDIO-A CASA)

CursiveLa storica band indie rock statunitense,precursori della scena emo, torna in Italiaper presentare il settimo album della lorocarriera, I Am Gemini.Livorno VENERDI' 18 MAGGIO (THE CAGE)Varese SABATO 19 MAGGIO (TWIGGY)

Dominic MillerIl chitarrista vanta collaborazioni con, tra itanti, Sting, Pino Palladino e Manu Katchè.Bologna SABATO 12 MAGGIO (BRAVO CAFFE')

Peter HammillTorna in Italia con la sua musica rarefattail leader dei Van Der Graaf Generator.Milano DOMENICA 13 MAGGIO (LA SALUMERIADELLA MUSICA)

Matt ElliottDai trascorsi elettronici con i Third EyeFoundation, l'inglese Matt Elliott è passatoal folk contemporaneo.Pisa GIOVEDI' 17 MAGGIO (STAZIONELEOPOLDA)Guagnano (Le) SABATO 19 MAGGIO(RUBIK)

The LemonheadsIl ritorno della band di Evan Dando per

riproporre il loro album più noto, It's aShame About Ray, a vent'anni dallapubblicazione.Mezzago (Mb) VENERDI' 18 MAGGIO(BLOOM)

Of Mice & MenMetalcore per la band californiana.Pinarella di Cervia (Ra) VENERDI'18 MAGGIO (ROCK PLANET)Assago (Mi) SABATO 19 MAGGIO (LIVEFORUM)

Hot Head ShowIl trio inglese, già in Italia al fianco deiPrimus, vede la presenza del figlio diStewart Copeland.Milano MARTEDI' 15 MAGGIO (BIKO)

Tuck & PattiIl duo tra il chitarrista e la cantante daanni porta in giro una riuscita formulaspettacolare ed interpretativa.Bari SABATO 12 MAGGIO (TEATRO FORMA)

Black Sun EmpireIl trio di dj e producer olandesi specialistidel darkstep e neurofunk.Livorno SABATO 19 MAGGIO (AURORA)

David RodiganL’artista, cittadino del mondo,rappresenta probabilmente il soundsystem per eccellenza del reggaecontemporaneo.Marghera (Ve) VENERDI' 18 MAGGIO(CS RIVOLTA)

Dj RuptureIl dj e producer newyorkese ospite nellalaguna.Venezia GIOVEDI' 17 MAGGIO (TEATROFONDAMENTA NUOVE)

AfterhoursTorna dal vivo con I brani del nuovolavoro, Padania, la rock band milanese.L'Aquila SABATO 19 MAGGIO (PIAZZADUOMO)

Il Teatro degli OrroriIl tour di presentazione dell'ultimo lavorodella band veneta, Il mondo nuovo.Sassari SABATO 12 MAGGIO (PINETADI BADDIMANNA-ABBABULA FESTIVAL)L'Aquila SABATO 19 MAGGIO (PIAZZADUOMO)

Marlene KuntzDopo la performance sanremese tornadal vivo la rock band piemontese.Ciampino (Rm) SABATO 12 MAGGIO(ORION)Firenze LUNEDI' 14 MAGGIO (OBIHALL)Milano MERCOLEDI' 16 MAGGIO (ALCATRAZ)Torino GIOVEDI' 17 MAGGIO (HIROSHIMAMON AMOUR)

S/V/N SavanaLa rassegna di ricerca e intrattenimentoha in cartellone i live di Blondes, HolyOther, Stellar OM Source, Uxo eFurtherset.Milano SABATO 19 MAGGIO (SPAZIOCONCEPT)

bevuto in giardino in tazze della zia. Epoi ampi stralci video dedicati aVivienne Westwood e ai suoi abiti.Ovviamente il Bill del titolo è ilpresentatore tv inglese Bill Grundy alcentro dell'intervista-disastro con iPistols. Fondamentale quello che dice unpolitico del tempo, tanto per rendere lospirito di quei giorni: «La maggior partedi questi gruppi migliorebbero solo conuna morte improvvisa».

Si sono ammorbiditi non poco i Blood RedShoes, duo à la White Stripes di Brighton. Ilterzo capitolo della loro carriera, In Time toVoices (V2/Coop Music), li vedeabbandonare il sound grezzo dei primi duelavori alla ricerca di qualcosa di più«mainstream». Il risultato è altalenante, manel complesso il disco presenta apprezzabilimomenti, specie verso il finale. The DandyWarhols non hanno mai scritto braniepocali (ma quanti possono dire di averlofatto?), ma alcuni anni fa riscossero un granseguito con il tormentone, Bohemian LikeYou, che però aveva il peccato originale diessere un plagio dei Rolling Stones. Ad ognimodo, da 18 anni battono la scena indie Usae con This Machine (Naïve/Self) fanno otto.Anche qui non troverete canzoni daricordare a distanza di anni, ma unadignitosa prova che guarda agli anni Ottantaper un gruppo più «appariscente» checoncreto. Molto meglio Jana Hunter e i suoiLower Dens che pubblicano il secondoalbum, Nootropics (Ribbon-Domino/Self). Ungran disco che sembra librarsi nell’aria, quasiimpalpabile. Ombre krautrock e fantasmidark wave e dream pop accompagnano lavoce soffusa della leader, ed è un gran belsentire. (Roberto Peciola)

INDIE ROCK

Il fascino morbidodel primo peccato

IL GIARDINOANALOGICO

A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI: [email protected] ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ

ULTRASUONATI DAGIAMPIERO CANESTEFANO CRIPPALUCIANO DEL SETTEGIANLUCA DIANAGUIDO FESTINESEGUIDO MICHELONEROBERTO PECIOLA

Ha appena debuttato con l'album Time's allGone (Innovative LeisureIL2005/Goodfellas; 2012), è un ex djdivenuto cantante e ha un'ossessione quasiterminale per tutto ciò che è analogico.Nick Waterhouse, californiano, è lafaccia ruvida di Mayer Hawthorne, è ilragazzino-entusiasta (25) che riprogrammase stesso in chiave retrò, che omaggia igenitori (dai loro ascolti arrivano lepalpitazioni per John Lee Hooker, VanMorrison, Aretha Franklin) e le sue stessescoperte (Mose Allison, Johnny ‘Guitar’Watson, Bert Burns, Arthur Alexander).Da questo cocktail di influenze si arriva aTime's all Gone, impavido ciclone di suoniche alla fine assomiglia a un album appenadissotterrato da un giardino congelatodegli anni Cinquanta. C'è un pizzico ditrutti i nomi menzionati ma soprattuttol'impatto ruvido ai suoni che fu del r&b diquell'era, di Bo Diddley o Ike Turner. Dipiù: l'ossessione analogica l'ha indotto aregistrare il disco in rigorosissimo mono aiGold Star Studios di Los Angelesfrequentato assiduamente in passato daPhil Spector e dai Beach Boys (lì, peraltro,è nata anche una porzione importante diPet Sounds). Lo accompagnano i Tarohs ele coriste Naturelles. Il risultato è a notealterne, con orecchie contemporanee nonpiù tanto abituate a quei suoni così chiusi epolverosi che possono penalizzareintuizioni sonore, fiati, voci. Ma tant'è, èuna scelta così consapevole («i dischi cheascolto sono stati registrati in quel modo»,dice) che la consolle con cui è statorealizzato il disco è addirittura una DanFlickenger appartenuta allo storico MuscleShoals Sound Studio. Waterson, cantantee chitarrista, gestisce anche la Pres rec.Occhio al doppio Sensacional Soul Vol.3 - 28 Spanish Soul Stompers1966/1976 (Vampisoul VAMPICD133/Goodfellas; 2012), terzo volume diuna serie spettacolare dedicata al soulspagnolo anni Sessanta-Settanta (in realtàuscì anche l'avvincente ¡Chicas! SpanishFemale Singers 1962-1974). Ora ciriprovano (ogni artista ha una schedadedicata in inglese e spagnolo). Si tengaconto che la Spagna fu l'unico paeseeuropeo - ad eccezione della GranBretagna - in cui l'incidenza del soul portòa un aumento esponenziale di club e artistidediti al genere (tra questi i Canarios e iPop-Tops). Ennesimo documentoindispensabile. In tutto 28 pezzi. Occhio aun filmato riapparso in rete. È unesperimento urbano tenutosi a Sydney nel1976 nei giorni in cui usciva Songs in theKey of Life, il disco di Stevie Wonder.Per promuovere l’album la casadiscografica equipaggiò un bus a due pianicon altoparlanti che diffondevano i pezzidell’album. Per alcuni passeggeri fu unmomento glorioso per altri l’esattoopposto. La cinepresa segue il bus e unintervistatore raccoglie impressioni. Moltodivertente. Qui:http://www.youtube.com/watch?v=GPxBA6P4ZsY

Nel nome (e in memoria non celebrativama propulsiva) di Mario Schiano. Iltrombettista Angelo Olivieri e ilsassofonista Alipio C Neto, riunisconouna compagnia di eletti e ci offrono ungioiello: If not (Terre Sommerse). Gli ospiti,tutti primi tra pari, sono Maria Pia De Vito(protagonista di un prodigioso,indimenticabile Dicitencello vuje), GiancarloSchiaffini, Eugenio Colombo, PasqualeInnarella, i contrabbassisti Silvia Bolognesi eRoberto Raciti, i percussionisti MarcoAriano, Ermanno Baron e Ivano Nardi. Ildoppio trio (Olivieri/Bolognesi/Ariano +Neto/Raciti/Baron) sforna magnificenze difantasia nell’improvvisazione meditata sutemi propri, di Schiano e amati da Schiano,come Lover Man. Atmosfera di fervore,inventiva massima di tutti. I due saxtenoristiDavid Liebman e Ellery Eskelingiocano ad attualizzare il «jazz moderno»,ma con la suite scritta da Eskelin NonSequiturs (Hat Hut/Ducale), tanto ambiziosaquanto insulsa, fanno un buco nell’acqua.Splendido invece l’idioma nervoso diJimmy Lyons nella ristampa preziosa diJump Up (Hat Hut/Ducale). Il 30 agosto1980 a Willisau con Sunny Murray e JohnLindberg. Da antologia. (Mario Gamba)

ON THE ROAD

JAZZ/1

Le scalcagnateteorie della Mosca

JAZZ/2

Indimenticabile«Dicintencello vuje»

HEAVY

Max Cavalera,schiavo del metal

THE BAMBOOSMEDICINE MAN (Tru Thougths)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Il quintetto australiano, insiemedal 2000, dalle ceneri dell'acid-jazzacquisisce una sempre maggiorconsapevolezza estetica nel rifarsi algenere soul quale paradigma di ulterioriesperienze sonore: e il loro neo-soul èinfatti un'azzeccata miscela di forti echivintage, accenni psichedelici, ritmi funkanni '60-'70 con arrangiamenti vigorosi; ela bella crepuscolare voce di Kylie Auldists'affianca, tra original e cover, a ospiticome Aloe Blacc, Daniel Merriweather,Megan Washington. (g.mic.)

GRAVELROADPSYCHEDELTA (Knick Knack Records)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Nuova uscita per il trio di Seattleguidato dal chitarrista e cantante StefanZillioux. Lavoro esclusivamente elettrico,in cui volumi e suoni saturano qualsiasispazio disponibile. Una sonorizzazioneche rischierebbe di annoiare, mafortunatamente la semplicità dei temi cisalvaguarda. Sul fondo l’orizzontehill-country blues e attorno Groundhogse The Black Keys. Ai posteri: Deep Blues,Nobody Get Me Down e Keep on Movin’.Alla storia lo psych-blues di Caves. (g.di.)

HARPIN’ ON BLUESA.O. BLUES (Autoprod-reverbernation.com)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Paolo Demontis, suonatore diarmonica, lo abbiamo ascoltato a Torino,nel marzo scorso, durante il concerto cheaccompagnava la premiazione dei vincitoridi «Piemonte Movie», rassegna dedicata aicorti d’autore. Suonava con l’Accademiadei Folli, in una sorta di estraneità alcontesto, come se lui e l’armonica fosserolì a tenersi compagnia senza badare alpubblico. Paolo ci ha mandato questopiccolo disco prodotto con la sua band,che profuma di cultura blues, a dispettodella giovane età di chi lo ha pensato.Nove brani celebri, rielaborati conestremo rispetto e sorprendente capacitàdi lettura. (l.d.s.)

CLAUDIO JACOMUCCIBEYOND (Blowout Records)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Si tratta di uno strumentistafantastico, uno dei più incantevoliinterpreti dell’accordion. È un artista peròche non consente a un genere diprimeggiare. Si dedica alle musiche che glipiacciono e, se già non sono per il suostrumento, le rivede per quello inarrangiamenti che le arricchiscono. Hauna comunicativa unica. Ogni paginadiventa con lui narrazione di un itinerariomagico. In questo cd c’è qualcosa di suoassieme a musiche di Gismonti, Pascoal,Taktakisshvili, Piazzolla e altri. Come colmiglior be bop che fu, probabilmentenemmeno con questa musica si balla, maballa l’immaginario, la fantasia. (g.ca.)

LIONEL RICHIETUSK EGEE (Universal)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Uno se lo immagina in (dorata...)pensione e invece ritorna. E che botto perMr. «All Night Long» nuovamente alnumero uno delle classifiche Usa dopoche fra ’70 e ’80 si contendeva i verticicon Michael Jackson. Ci è riuscito conquella che molti definirebbero una verafurbata, riprendere i vecchi pezzi einterpretarli insieme a stelle del countrydi diverse generazioni. Effetto nostalgiaassicurato, con qualche zampata di classe,vedi Easy insieme a Willie Nelson. (s.cr.)

EDMONDO ROMANOSONNO ELISO (I Dischi dell'Espleta/Felmay)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Primo capitolo di una annunciatatrilogia sulla dualità, Sonno eliso è dedicatoall'incontro-scontro tra maschile efemminile. Chi conosce Romano comestraordinario fiatista nato con prog e folk,poi approdato a esperienze di worldmusic, sappia che qui si va oltre: lambendoterritori vicini al minimalismo, creandotessiture sonore e arrangiamenti diun'eleganza «narrativa» stupefacente. Oude archi, duduk e percussioni assortite. Eospiti di gran livello. (g.fe.)

JACK WHITEBLUNDERBUSS (Third Man-XL)❚ ❚ ❚ ❚ ❚ E così, dopo aver tagliato i ponticon Meg, e dopo aver dato vita a progetticome Raconteurs e Dead Weather,eccolo alfine in versione solista. Undebutto notevole, che, semmai ce nefosse stato bisogno, lo pone nel gotha delrock contemporaneo. Se qualcuno siaspettava un, fisiologico, calo nella venacompositiva, viene smentito da questoBlunderbuss in cui la formula blues-rock-r’n’b da lui perseguita, segna un ulteriorepasso avanti. Un gran disco. (r.pe.)

Gli amanti del metal hanno qualcosa a cuiattingere, sempre o quasi grazie allaRoadrunner, a partire da Max Cavalera e isuoi Soulfly che tornano con Enslaved,tirata a 200 all’ora, suoni saturi e potenti e,per noi, inaspettatamente interessante alivello compositivo. Chi cerca sonoritàmeno estreme si può rivolgere agliShinedown che con Amaryllis pubblicano ilquarto album. Un buon lavoro in cui lacarica metal è mitigata da brani acustici ed’atmosfera che, pur non portando nulla dinuovo, si fanno apprezzare. Ancor più viratoverso l’hard rock versione radiofonica Usa èThe Strange Case of, seconda prova per gliHalestorm. Voce femminile e botteadrenaliche specie all’inizio che però via vialasciano spazio a melodie e suoni più«accomodanti». Finiamo con uno deglialbum più inutili dell’ultimo periodo, e ce loregalano, ancora una volta, i Nickelback,band pseudometal da un passato di successodovuto alla solita miscela rock duro-ballatemidtempo, che tanto piace al di làdell’oceano. Con Here and Now si superano,un disco che non lascia tracce di sé, se nonpessime con due brani raccapriccianti, WhenWe Stand Together e Kiss it Goodbye, e con lamelassa di Lullaby. (Roberto Peciola)

Nu jazz, electro-jazz, electro-swing esmooth jazz un po’ dappertutto, con ildoppio Summer Vibes (Proper) di ZuGroovies I, ovvero Andrea Zuppini che,su 27 brani di neo jazz dance, ospita anchesolisti rilevanti da Stanley Clarke aVincenzo Zitello, nonché molte cantantitra cui spicca l’ex corista Monica Magnani.Beautiful Music Vol. 1 (Columbia) a nomeThe Nightfly Suite è ovviamente unprogetto dello scozzese Nick the Nightfly:tripla raccolta dai titoli pomposi (OceanView, Royal Suite, Penthouse), 46 song anchebellissime (Aaron Neville, Tony Bennett,Michael Jackson, George Benson peresempio) ma assemblate con un ordine eun’ideologia che farebbero inorridireanche le più scalcagnate teorieadorniano-marxiste di ambitomusicologico. Se si pretende rigore ecoerenza, meglio allora guardare alleFunkhaus Studio Sessions (Sonar Kollektiv)dei berlinesi Jazzanova assieme alcantante britannico Paul Randolph, dove ilfunk, il soul, il post-bop, fra elettronica eimprovvisazione, possono dirsiinteriorizzati adeguatamente, a vantaggiodi un future jazz valido tanto per l’ascoltoquanto con la danza. (Guido Michelone)

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(14) ALIAS12 MAGGIO 2012

INTERVISTA

di MASSIMO RAFFAELICESENA

●●●La Juventus ha giocato il 25aprile a pochi metri da casa sua maStefano Simoncelli non è andato allostadio. Dice che non vuole soffriretroppo e soprattutto non gli va dimettersi in fila per ore sotto il sole, diessere schedato e perquisito. Ha vistocome sempre la partita in tv nelportico della villetta in collina a piccosulla città, frazione Acquarola, incompagnia di due labrador, Margot eTea, juventine ad honorem e tuttaviainquiete, in simili occasioni, per il fattodi saltare la passeggiata di metàpomeriggio in campagna. Firmatariodi pochi e sceltissimi versi, fra i poetiitaliani di fisionomia più definita, lapersona di Stefano assomiglia alla suapoesia, nei toni di una tenerezza che iltempo non ha scalfito ma, semmai, hacombinato al disincanto di chi havissuto ma anche sofferto, pagato,l’integrità dei sentimenti e persino laviolenza delle sue passioni. Le paroledi Stefano non vengono mai meno aun patto di fedeltà con se stesso e cioècon le persone che ha incontrato,amato o che semplicemente hannoattraversato la sua vita. Le sue parolene serbano il ricordo vivo in un motocircolare da cui affiorano presenze perlui decisive, suo padre, sua moglie, isodali di una rivista leggendaria, SulPorto, il maestro Vittorio Sereni, lepassioni primordiali come il tennis(che gli ha strinato il volto e datoluminosità ai suoi occhi in decenni dipartite) o il mito del calcio, chefatalmente incombe sullaconversazione.

●Nel tuo ultimo libro, «Terza copiadel gelo», la presenza del ricordo ètotale, con il ritorno di figureessenziali, tuo padre e tua moglie,entrambi troppo presto perduti.Sono figure che portano con séun’epoca, un’età della tuaesistenza…Questo libro nasce da una miaesigenza, perché a un certo puntodella vita sono morte quasi tutte lepersone che amavo piùprofondamente. Già nel 1983 eramorto Vittorio Sereni e per me è statoun trauma perché Sereni era unafigura carismatica alla quale io mirivolgevo per qualunque cosa, e luimi ascoltava, mi dava dei consigli enon sbagliava mai. A un certo puntomi sono trovato come a pedalarecontrovento, non avevo più nessunocui riferirmi, con cui parlare, e credoche il libro nasca dal desiderio di noninterrompere il dialogo con questepersone, dalla necessità diportarmele dietro, di accompagnarmia loro come fossero ombre. Hosentito quasi l’esigenza fisica di nonabbandonarle.

●Ma queste figure, già presenti neglialtri tuoi libri, qui si portano dietro,a strascico, altri nomi e altri fatti delromanzo di formazione. A un certopunto, per esempio, tu nomini, anzilo rammenti due volte, Omar Sivori:perché?Il calcio è una parte importante dellamia vita, io sono nato calciatore, hosempre giocato a calcio, quasi pertradizione familiare perché mio zio,Nevio Simoncelli, è stato un giocatoredella Reggina tra la fine degli annicinquanta e i sessanta, un buoncentrocampista, una specie di BeppeFurino, diciamo una carogna nata. Acasa mia si è sempre respirato calcio,mio zio quando avevo cinque o seianni mi portò a Valdagno, dove alloragiocava, a vedere qualche partita delMarzotto, ricordo ancora l’odore dellospogliatoio, della canfora. Ma la partitafondamentale, credo fosse il ’57, fuquando mio padre, juventinosfegatato, malato, mi portò a vedereun Bologna-Juventus con Sivori incampo, una giornata fredda, invernale:lì, quando le squadre si schierarono,da una parte i rossoblù e dall’altra ibianconeri, mio padre mi chiese «Qualè la squadra per cui devi tenere?». Iorisposi «I rossoblù, perché sono anchei colori del Cesenatico», e allora lui,passandomi uno scappellotto, disse

Roma, 1974. Stefano Simoncelli (il primo seduto sulla destra) insieme a Pier Paolo Pasolini,Walter Valeri e Ferruccio Benzoni, sodali della rivista «Sul porto». Sopra, Vidal e Platini

Sivori, la Juvee uno scudettovenuto dal buio

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

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(15)ALIAS12 MAGGIO 2012

STEFANO SIMONCELLI

Un’esistenza erraticatra fisica, sport e poesia

QUANDO GIOCAVO ALL’ALA

Elaboro una solida struttura di difesaincollandomi addosso articolidi quando giocavo all’ala,tessere di puzzle, spille da balia,fogli protocollo di compiti in classeconsegnati in bianco, sbiadite fotografiedello Sport Illustrato dove c’è Sivori,la faccia sporca, sporco di terraanch’io, forse sepolto da tempo,mentre qualcuno mi chiamacon un lungo fischioaccendendo un lumino da cimiterosopra un cortile d’inverno. Mi affaccioe vedo, sparse sulla neve, briciole di panecon tracce fresche di stivali da caccia.Nell’aria l’inconfondibile odoredi mentine Saila e tabacco.Esco dalla strutturae mi arrendo…(da Stefano Simoncelli, «Terza copia del gelo», Italic 2012)

«Nooo, per gli altri…». Vedi, ho amatomolto Michel Platini, ma ho adoratoSivori, un genio, un prestigiatore chedal niente faceva uscire i conigli, letortore… Certe volte si vedeva che nonaveva voglia ma se era in giornata…un tunnel, poi tornava indietro,ri-tunnel, come quella volta a Ferrinidel Torino che poi lo rincorse per ilcampo e gli diede un calcione… sì,Omar Sivori era fenomenale.

●Quando con gli amici poeti di qui,Ferruccio Benzoni e Walter Valeri,hai cominciato a scrivere poesie eavete fondato la rivista «Sul Porto»,il calcio entrava nelle vostrediscussioni?Walter non si interessava molto dicalcio, Ferruccio invece era un grandetifoso, anche lui, della Juventus.Avevamo un amico di Cesenatico chesi chiama Eros Sintini, una specie diSivori di provincia, che giocava nel

Cesena allenato da Radice, in serie A:in una partita di Coppa Italia, dovetitolare era Giovanni Toschi, ex delToro, a cinque minuti dalla fine Radicegli fa «Eros, scaldati che ti mandodentro» ma pare che Sintini gli abbiarisposto «Mister, per cinque minuti ionon entro a sostituire Toschi…». Si ègiocato la carriera, è finito al Carpi epoi al Cesenatico, per questo io eBenzoni prendevamo la macchina perandare a vederlo giocare ad Alfonsine,ad Argenta, nei paesi della Romagna:la domenica sera poi si andava amangiare con Eros, suoi ospiti, abottiglie di champagne…

●Proprio a Cesenatico in queglianni viveva un grande del nostrocalcio, Giorgio Ghezzi: come te loricordi?Giorgio era un uomo buono, unapersona straordinaria, aperta.Apprezzava molto il lavoro di Sul Portoe ci sovvenzionava, ogni numero noiandavamo da Giorgio e lui ci dava200.000 lire, che negli anni settantaerano soldi. A Cesenatico, nonostanteil suo albergo «Internazionale» e uncabaret che fece epoca in Italia, «Ilpeccato veniale», Giorgio era unisolato, non molto ben visto, perchéCesenatico è il classico paese dibastardi, di persone che amano piùdistruggere che costruire, che nonriconoscono il valore di una persona.La città infatti lo ha respinto.

●Ma quando voi di «Sul Porto»andavate in giro per l’Italia atrovare i poeti (Alfonso Gatto, PierPaolo Pasolini, Sandro Penna,Giovanni Raboni, FernandoBandini, Giovanni Giudici, GiorgioOrelli), vi capitava di parlare dicalcio con loro?Sereni non parlava mai di letteraturase non quando era preso per i capelli,preferiva parlare di calcio e tifava, anziin quegli anni più che altro soffriva,per l’Inter: siamo andati insieme avedere un Inter-Fiorentina, sarà stato il’77 o il ’78, in campo c’era Antognonimentre Vittorio stava in gradinata abraccia conserte, guardava la partitachiuso in un mutismo assoluto. AncheRaboni tifava Inter e amava il calcio,un amore però contrastato dalla suacompagna, Patrizia Valduga, e infattinegli ultimi tempi Giovanni ladomenica andava a casa di MaurizioCucchi, altro poeta interista, che avevaSky… Pasolini invece, lo sanno tutti,giocava a calcio, tifava Bologna ericordo che al suo funerale, quando loabbiamo accompagnato a Casarsa,sulla bara c’era proprio la maglia delBologna. Quanto agli altri, AlfonsoGatto era del Milan, Giovanni Giudicidel Genoa, accanitissimo, GiorgioOrelli invece di nessuno… Giorgio, chepoi ha scritto un Quadernetto delBagno Sirena, veniva tutti gli anni un

mese a Cesenatico, in luglio, allaPensione «Gaia» con sua moglieMimma e le bambine quando ilproprietario del Bagno Sirena eranoun nostro amico, Chino Biagini, chescriveva poesie e infatti la prima voltache Orelli andò lì chiedendo unombrellone, Chino, appena sentito ilnome, gli disse «Ma lei è quello che hascritto L’ora del tempo?». Orellitrasecolò al fatto che un bagninoconoscesse i suoi libri di poesia…Fatto sta che Chino ci avvisò,andammo a trovare Orelli e prestodiventò una consuetudine, tutti idopocena nella veranda dell’albergo:Giorgio era strepitoso ma non parlavadi calcio, perché parlava sempre diDante, di Tasso…

●Facciamo un passo indietro.Perché hai intitolato un tuo libroprecedente «Giocavo all’ala»?Io ho cominciato piccolissimo, avevosette o otto anni e giocavo nelcampetto davanti allo stadio diCesenatico, vicino a casa. Hocominciato ad allenarmi con Marcello

Faccini, un vero maestro, uno cheinsegnava calcio, forche e forche eforche, di piatto, di collo, di interno,ore e ore, finché a quattordici annivenne uno della Fiorentina, unosservatore, che dopo avermi vistogiocare chiese ai dirigenti delCesenatico di poter parlare con miopadre. Mio padre quando sentì che sitrattava di trasferirmi a Firenze, nonsolo rifiutò ma mi proibì da quelgiorno di mettere piede al campo. E’per questo che mi sono messo agiocare a tennis. Solo più tardi horipreso con il Cesenatico, dopo il ’68,per tre o quattro anni in serie D:debbo dire che non ero molto velocema avevo un gran dribbling, secco,giocavo tornante alla Domenghini,tornavo sempre indietro e mi piacevaancora l’odore dell’erba, della canfora,lo stare coi compagni. Una volta, inamichevole contro il Bologna, mi hamarcato Tazio Roversi, terzino dellaNazionale che rientrava da uninfortunio: il campo era mezzoallagato, dopo un paio di minuti mi èarrivata una palla e gli sono andato via

con una finta facendolo cadere dentrouna pozzanghera, dopo due minutiecco un’altra palla però stavolta mi èarrivata subito una slecca di Roversi edentro la pozzanghera ci son finito io.Quando mi sono rialzato, Roversi miha detto «Bambino, è finita, eh…».

●Il calcio di oggi, come lo vedi?Io sono malato di calcio, senza il calcionon potrei vivere ma mi rendo contoche ci sono molte, troppe, cose chenon vanno. Mio padre già diceva neglianni settanta «Non può andare avanticosì, prima o poi esplode, tutti ‘stisoldi dove li trovano» … Figurarsi oggi.A me piace il gioco in sé, persino lafatica di giocare e infatti, puramandoli, non mi identifico neifuoriclasse, non mi identifico in Platinima nel suo portaborraccia MassimoBonini che pure ho conosciuto, unragazzo simpaticissimo. Nella Juve dioggi io non mi identifico in Del Pieroma in Vidal che è una specie diNedved redivivo, il classico giocatoreche emana energia, quello che tira lacarretta per tutti.

●Come vedi il fatto che proprio DelPiero sia già stato, in corso d’opera,praticamente licenziato dallaJuventus?Un grande poeta di qui, RaffaelloBaldini, direbbe che è fadèga, cioè si fafatica a rispondere a una domandacome questa… Del Piero io l’ho amatomolto, soprattutto come personaprima che come calciatore, perché èsempre stato un uomo corretto,costruttivo. Penso che l’uscita delpresidente Agnelli sia stata moltoinfelice, anche se mi rendo conto chedal suo punto di vista era quasiinevitabile, perché Del Piero è unafigura grande e ingombrante e unocome lui, a questo punto, nonpotrebbe fare l’allenatore dei ragazzinio l’addetto stampa ma solo ilpresidente della Juve. Perciò pensoabbiano voglia di liberarsene.

●Un ultima domanda, fatale. LaJuventus ha appena vinto lo scudettoma tu, personalmente, cosa haiprovato?Credo che questo sia lo scudetto piùbello, in assoluto, perché viene dalMedioevo, perché viene dal buio…non ci ho creduto fino all’ultimo maalla fine ero lì con loro, coi giocatoridella Juve, finalmente fuori dal buioanche io…

●●●Stefano Simoncelli è nato aCesenatico nel 1950. All’iniziodegli anni settanta con gli amici diuna vita, Ferruccio Benzoni eWalter Valeri, ha fondato «SulPorto», rivista di letteratura epolitica cui collaborarono, inun’epoca di duro interdetto allapoesia, fra gli altri AttilioBertolucci, Alfonso Gatto, GiorgioCaproni, Vittorio Sereni, FrancoFortini, Giovanni Raboni e PierPaolo Pasolini. Dopo l’esordio diVia dei Platani (Guanda 1981) hapubblicato, con una prefazione diEnzo Siciliano, la raccolta Poesied’avventura (Gremese 1989).Laureato in fisica all’Università diBologna, giocatore classificato e alungo maestro di tennis, dopo lemolteplici esperienze diun’esistenza erratica è tornato apubblicare con Giocavo all’ala(Pequod 2004) e La rissa degli angeli(ivi 2006). Risale a qualche mese fal’uscita del suo ultimo volume,Terza copia del gelo (Italic). Vive aCesena e dirige con Walter Valerila rassegna internazionale «Ilporto dei poeti».

CIAO LUIS E GRAZIE LO STESSO DELLA REVOLUCION●●●Per chi ha apprezzato la sua proposta di calcio alternativo, il suo non essere mai banale, il suoprendersi sempre le responsabilità e non parlare mai degli arbitri, insomma il suo progetto di«revolucion cultural del balon», l’addio di Luis Enrique alla Roma e al calcio italiano è proprio una bruttanotizia. L’ennesima conferma che in questo paese senza cultura sportiva l’unico imperativo è vincere echi perde è solo un cretino, guai a dargli un’altra possibilità. La Roma ci ha provato a trattenerlononostante la contestazione di media e tifosi ma alla fine si è arresa alla volontà dell’allenatore spagnolodi lasciare per non essere riuscito a trasmettere le sue idee alla squadra, completamente scarico dopo11 mesi nel calcio più faticoso del mondo. Il direttore generale della Roma Franco Baldini, l’uomo chepiù di tutti aveva scommesso su Luis Enrique, ieri ha parlato di consunzione fisica per spiegare l’addio

del tecnico asturiano. «Aveva un dispendio di energie che a un certo punto lo ha fiaccato e che gli hafatto dire: stop un attimo, ho bisogno di fermarmi». Uno stress da panchina molto italiano che pure loavvicina a un altro allenatore spagnolo al quale è stato fin da subito accostato. Pep Guardiola, che ierida Barcellona gli ha mandato la sua solidarietà. «Ha fatto un lavoro straordinario. Lì non è un ambientefacile e io lo so perchè ci ho giocato. Non so perchè abbia lasciato, se Luis lo ha fatto è stato perchè neera convinto». Mentre il calcio italiano lo giubila riconoscendogli tutt’al più di essere un gran signore, anoi piace salutarlo con le parole di quei veri appasionati scettici di Kansas City 1927. «Tutto er velenoaccumulato in uno degli anni più matti de sta squadra e tutte le speranze e le pippe mentali chesbocceranno pe la stagione in arrivo non tolgono un grammo de amarezza. Facile che l'anno prossimogiocamo mejo e raccojemo de più ma, nse sa manco bene er perchè, già sappiamo che ce mancherai.Grazie Luis, se possibile, co te, se semo sentiti mpo più romanisti».

Il ritorno della Vecchia Signora nei ricordidel poeta Stefano Simoncelli, allievo di VittorioSereni, ex calciatore di serie D, maestro di tennis.Il mito e la passione del calcio da Pasolini a Vidal

●●●I soldi, la disastrata Lega Pro, li faanche così: mettendo un registratore incurva e ascoltando attentamente lecastronerie dei cosiddetti tifosi. Settemilaeuro entrano da Monza per cori razzistiverso un calciatore di colore del Pisa, 3.500dal Como per gli stessi cori nei confronti delcolored del Lumezzane (la differenza dellasanzione riguarda anche lo scoppio dipetardi, non gli sciocchi insulti razziali), 5.500euri li tira fuori la Pro Vercelli per cori«inneggianti alla discriminazione territorialerivolta all'arbitro», duemila la Spal per i corioffensivi «verso l'istituzione calcistica e alpresidente di Lega».

Magari urlassero solamente. Gli ultras delTeramo - ebbene sì, esistono anche quelli -in casa dell'Atessa Val di Sangro, non hannorestituito tre palloni, si sono arrampicatisulla rete di recinzione, a fine partita sonoentrati in campo e hanno rotto la rete diuna porta, tre bandierine del calcio d'angoloe divelto un pezzo della rete di recinzione.

Seicento euro di multa al Riano (Lazio)perché i propri tifosi, ogni volta che ilguardalinee arrivava a tiro, scuotevano conun grosso bastone la rete, obbligandolo adentrare in campo per sfuggire alla clava.

Nove mesi di squalifica per il guardalineedi parte del Casati Calcio Arcore - ogniriferimento è puramente casuale - il signorEzio Nova. Gli poteva andare peggio, vistoche la sanzione è legata al lancio dellabandierina contro il volto dell'arbitro ma«colpendolo, fortunatamente, dalla parte deldrappo».

Rozzano-Segrate (sempre Lombardia) èinvece stata sospesa per rissa collettiva. Equando si dice collettiva è da intendersi nelsenso letterale del termine. Infatti, secondoil referto arbitrale, non solo tutti i calciatoriin campo iniziavano a picchiarsi, ma alla zuffapartecipavano anche le riserve, i dirigenti eperfino «i calciatori sostituiti cherientravano in campo dagli spogliatoi perpartecipare alla rissa». Dici: qualcuno dafuori avrà invitato alla calma. Errore:«Contemporaneamente in tribuna le duetifoserie scatenavano una scazzottata cheandava avanti per alcuni minuti». L'arbitroavrebbe dovuto espellere tutti, così è statadata partita persa ad entrambe le squadreper 0-3.

Impossibile da riassumere il lungo elencodi malefatte avvenute in Puglia, nel derby traReal Statte e Andrisani. Meglio estrapolareun episodio, la fuga nello spogliatoiodell'arbitro inseguito da una mandriainferocita di dirigenti locali e calciatori. Unavolta riuscito a chiudere la porta,presumibilmente, si dev'essere sentito alsicuro. Grave errore, anche questo. Con unviolento calcio alla porta, un tifoso - si fa perdire, ovvio - scardinava la stessa e sbattevasulla testa del direttore di gara, trasportatoin ospedale, quattro punti di sutura per lui,tre in meno in classifica per il Real.

Un assedio collettivo, quello contro iguardalinee, messo in atto dalla societàsiciliane: sputi da tifosi e calciatori (SacroCuore Milazzo), petardi e mortaretti(Spadaforese), pietrisco (Città di Maletto),una lattina ancora piena intesta(Valguarnarese).

Voleva esserci, Francesco Pilloni,dell'Esseci Sigma (Sardegna). Benchésqualificato per due giornate, ha deciso disedersi ugualmente in panchina primadell'inizio della gara. Accortosi, l'arbitro loha invitato a salire in tribuna. All'inizio delsecondo tempo, rieccolo. Invitato di nuovoad abbandonare il campo, tornava in tribuna«da dove ingiuriava senza sosta il direttoredi gara». Ma solo fino al novantesimo, poi hasmesso.

UN REGISTRATOREPER I CORI RAZZISTI

Alessandro Del Piero, all’ultima stagionein maglia bianconera. In alto a destraOmar Sivori negli anni sessanta con la Juve,a sinistra il poeta Stefano Simoncelli

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Page 16: Alias_2012_05_12

(16) ALIAS12 MAGGIO 2012

di LUCIANO DEL SETTE

●●●Emma abita in un condominiodi via Curiel 8. Un giorno, su unpianerottolo del palazzo, incontraDario. Entrambi hanno la stranacertezza di essersi già conosciuti inun passato non definibile. Una voltachiusa la porta di casa, Emma ritornaa quando, bambina, si muoveva tragli oggetti di quel piccolo mondo cheera la sua cameretta. Dario, invece,scende le scale, e così facendo ritornaalla propria infanzia, che tante voltelo aveva visto nascondersi nel buiodel sottoscala. Via Curiel 8, corto dianimazione delicato e intenso, afirma delle pesaresi Magda Guidi eMara Cerri, classe 1979 e 1978, havinto la sezione Corti al Torino FilmFestival 2011. Il corto nasce dallapubblicazione, nel 2009, del libroomonimo di Mara, per OrecchioAcerbo. Ricordano le due amiche ecompagne di lavoro «Sono stati dueanni incredibili. Lavorare gomito agomito, sporcarsi le mani insiemedella stessa storia, realizzando un

desiderio che si era formato già daglianni di scuola. E non capire più dovefiniva il disegno e iniziava la vitaintorno». Il cammino di Magda eMara prende avvio dalla Scuola delLibro di Urbino, nella sezioneCinema di animazione. Di quelperiodo, conservano immagini felici«Nelle ore di laboratorio non c’eranoporte chiuse nelle aule, e forseneppure pareti. Era un continuorimando e scambio, un mescolarsi disegni, la condivisione delle storiereali e immaginate. Tutto all’insegnadi una convivenza stretta anche con icompagni delle altre classi». Cerrimuove i suoi primi passiprofessionali pubblicando su ilmanifesto, Lo straniero,Internazionale. Seguono illustrazionidi libri per ragazzi, fino al primo tuttosuo, 2004, per Fatatrac, Dentro gliocchi cosa resta, cui seguono A unastella cadente e Via Curiel 8, OrecchioAcerbo editore. Guidi, terminata lascuola, continua il percorso del filmdi animazione. Collabora con gruppimusicali, realizzando, ad esempio,un video per «I tre allegri ragazzimorti». E, insieme ad Andrea Petruccie Sergio Guttierez, l’animazione perun progetto teatrale di Chiara Guidi,L’ultima volta che vidi mio padre.Mara si aggiudica il Premio Lostraniero, 2008, e poi, sul soggetto diEmma, il Premio della Giuria e ilPremio Arte France nella Film ProjectCompetition del Festival dianimazione di Annecy. Magda, con ilvideo per «I tre allegri ragazzi morti»,vince il Premio della giuria alVideozoom di Tornaco (No) e conEcco è ora (2004) il Gran Premio dellarassegna romana Castelli Animati.

Acquistare questa e le altre opere che presenteremo nei prossimi numeri è semplice. Se seiinteressato manda una email a [email protected] scrivendo nome, cognone,indirizzo e numero di telefono al quale vuoi essere richiamato. Sarai ricontattato nel piùbreve tempo possibile e ti saranno forniti i dati bancari per l’acquisto. Una volta ricevuto ilbonifico ti spediremo la tavola. Non si tratta di un’asta: chi fa l’offerta per primo si aggiudical’opera. I fondi raccolti saranno trasformati in abbonamenti per scuole, fabbriche, carceri oassociazioni culturali.

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Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di

Sono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega diSono le cinque del pomeriggio di un giorno assolato e bruciante, una leggera brezza spira da nord ovest. Il gruppetto di ragazzi arriva alla spicciolata sulla Sheik Khazadzien Beach, un paio di chilometri a sud della città di Gaza, alle spalle sono ben visibili le rovine di due condomini sbriciolati dalle bombe dell’operazione “Piombo fuso” del 2009. Oggi per loro è un “mercoledì da leoni”. Arrivano in spiaggia dopo aver lavorato un’intera giornata - chi fa il muratore e oggi è disoccupato, chi lavora in un forno, chi fa il facchino al mercato, chi va ancora a scuola - perché questi i ragazzi, i ragazzi del Surf Club di Gaza, potranno finalmente provare le nuove tavole da surf rimaste bloccate per due anni al check point di Erez. Bloccate perché le tavole non erano né nella lista delle merci autorizzate a passare - la Striscia è sempre sotto embargo israeliano - né nella black list di quelle vietate delle autorità militari. Insomma uno stallo che sembrava senza soluzione. «Ne sono arrivate 22 ed eccole qui nelle mani dei nostri ragazzi», spiega Al Hindi Mansour fondatore del Club nel capanno sulla spiaggia bianca che è il punto di raccolta dei surfisti della zona. Certo la spiaggia di Gaza non è quella di Malibu, né sul mare si alzano barre da due-tre metri come davanti Big Sur in California, ma la voglia di cavalcare le onde la si vede negli occhi di Mahmud, Omar, Yussef, i ragazzi più grandi e più bravi del Surf Club. L’acqua non sembra troppo sporca, anche se ogni giorno vengono scaricati sessanta milioni di litri di liquami non filtrati perché i depuratori non funzionano, ma non importa se l’acqua è piena di colibatteri perché surfare non è uno sport, surfare è una fede. Nei quasi 365 chilometri quadrati di Gaza vivono un milione e seicentomila palestinesi, i tre quarti per mettere assieme il pranzo con la cena dipendono dagli aiuti alimentari internazionali, c’è l’assedio, le infrastrutture sono distrutte, la disoccupazione supera il 50% e Hamas è qui a imporre con manganello e kalashnikov la sua visione del mondo in stile iraniano. «Quelle onde che vede sono la nostra via di fuga », spiega Osama Al-Ryashi, vent’anni, «le cavalchi e almeno in quel momento ti senti davvero libero, scompaiono le paure, non c’è più l’assedio, ti liberi dall’oppressione e si respira a pieni polmoni». Fra gli osservatori un po’ interdetti sul bagnasciuga c’è spesso qualcuno di Hamas. Il surf non sembra visto di buon occhio, ma per quanto abbiamo cercato nelle sure del Corano le “teste d’uovo” del movimento integralista ancora non hanno trovato nulla contro il surf, ma non si può mai dire. Il Corano non vieta alle donne di fumare il narghilè, ma anche su questo Hamas ha trovato da ridire e la shisha è finita nella ormai lunga lista di cose proibite a Gaza. Perché l’importante è spegnere la gioia e la voglia di vita, non si legano col martirio a cui gli integralisti stanno sottoponendo tutta la Striscia. Non ci sono solo ragazzi nel Surf Club di Gaza. Ci sono anche quattro giovani promesse: si chiamano Rawan, Shourok, Sabah e Khoulad. Sono ragazzine di 14 anni sveglie e intraprendenti sulle onde. Certo la loro “mise” in acqua - calzoni, maglietta e cappellino - non è proprio delle più pratiche, ma già quelli di Hamas alzano il sopracciglio: ragazze che surfano.... «A noi la politica non interessa, amiamo il mare; ci interessano il surf e il nuoto, e mi creda vorremmo praticarli in santa pace», spiega di