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Alfonso Marini BERNARDO DI CLAIRVAUX E LA TERRASANTA Dispense Storia medievale II – Anno Acc. 2018-19 San Bernardo e la sua spiritualità Bernardo di Clairvaux conosceva il mondo dei cavalieri, le loro ambizioni, aspira- zioni, occupazioni, il loro modo di combattere, la forza e la violenza, le vanità anche nel vestire e nell’ornare i cavalli. Sono cose, queste ultime, che rimprovera nel trattato Lode della nuova cavalleria, non soltanto perché le vedeva quando si trovava a uscire dal monastero, ma perché le ricordava dalla sua giovinezza. Nel 1111-12 era entrato nel monastero di Cîteaux sotto il terzo abate, Stefano Harding, conquistato dall’ideale mo- nastico benedettino che in questo cenobio aveva avuto una nuova riforma in senso rigo- ristico, con la ripresa di una vita più povera, austera anche nelle forme architettoniche esteriori e nella liturgia, con impegno nel lavoro manuale dei campi. L’ordine cistercen- se (da Cistercium, la forma latina di Cîteaux) era nato da pochissimi anni, nel 1098, a opera di san Roberto di Molesme che a Cîteaux aveva fondato un nuovo monastero, la- sciando quello cluniacense di Molesme, nel quale tuttavia tornò alcuni anni più tardi, per desiderio dei suoi vecchi monaci che intendevano riformare il loro stile di vita. Pri- vati del fondatore, i cistercensi trovarono proprio in san Bernardo un grande propagato- re del loro ideale, tanto che essi vennero detti anche bernardini. Quando entrò a Cîteaux Bernardo aveva più di vent’anni, un’età ormai adulta per i suoi tempi, nei quali dopo i cinquant’anni un uomo già era a rischio di morte naturale e attorno ai quattordici un giovane diventava maggiorenne, con possibilità di sposarsi. Era nato nei pressi di Digione, in una famiglia in cui entrambi i genitori appartenevano alla piccola aristocrazia della Borgogna, regione tra le più vivaci sotto l’aspetto culturale e religioso. Conosceva bene dunque il mondo dei cavalieri e con trenta di essi, parenti e amici, entrò a Cîteaux, compiendo una scelta decisiva per la sua vita e per il futuro del nuovo ordine. Nel 1115 fondò, sempre in Borgogna, il monastero di Clairvaux (Chiaravalle), che divenne uno dei cinque monasteri-madre dei cistercensi e diede vita a filiazioni in varie parti d’Europa, come ad esempio in Italia il monastero di Chiaravalle Milanese. A Clairvaux rimase come abate fino alla morte, che lo raggiunse nel 1153. Ventun’anni dopo la morte, nel 1174, Bernardo fu canonizzato da Alessandro III e nel 1830 venne dichiarato da Pio VIII dottore della Chiesa. Doctor mellifluus, dottore dalle cui labbra scorre il miele viene detto per la dolcezza e la forza poetica di cui è ca- pace, per la profondità spirituale, per l’impeto d’amore che sa esprimere verso il centro della sua vita, il Cristo, e la sua madre Maria, di cui contribuisce a diffondere in Occi- dente il culto, che in precedenza era molto meno sviluppato. Ottantasei sermoni, composti in vari momenti della sua vita fino in punto di morte, dedicò a commentare il testo biblico dell’amore, il Cantico dei cantici, che la tradizione ebraica e quella cristiana avevano sempre interpretato in senso allegorico, come imma- gine dell’amoredi Jahvé e di Israele, di Dio e del suo popolo, di Cristoe della sua Chie- sa, del Verbo e dell’anima del fedele, in particolare, per gli esegeti medievali, l’anima del monaco; ottantasei sermoni nei quali egli commenta il Cantico soltanto fino al pri- mo versetto del capitolo III, degli otto che costituiscono questo poema. I sermoni - non soltanto quelli sul Cantico, ma molti altri che seguono il ciclo delle letture dell’anno li- turgico - Bernardo, ordinato sacerdote prima di diventare abate, li preparò per i suoi 1

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Alfonso Marini BERNARDO DI CLAIRVAUX E LA TERRASANTA

Dispense Storia medievale II – Anno Acc. 2018-19

San Bernardo e la sua spiritualità

Bernardo di Clairvaux conosceva il mondo dei cavalieri, le loro ambizioni, aspira-zioni, occupazioni, il loro modo di combattere, la forza e la violenza, le vanità anche nel vestire e nell’ornare i cavalli. Sono cose, queste ultime, che rimprovera nel trattato Lode della nuova cavalleria, non soltanto perché le vedeva quando si trovava a uscire dal monastero, ma perché le ricordava dalla sua giovinezza. Nel 1111-12 era entrato nel monastero di Cîteaux sotto il terzo abate, Stefano Harding, conquistato dall’ideale mo-nastico benedettino che in questo cenobio aveva avuto una nuova riforma in senso rigo-ristico, con la ripresa di una vita più povera, austera anche nelle forme architettoniche esteriori e nella liturgia, con impegno nel lavoro manuale dei campi. L’ordine cistercen-se (da Cistercium, la forma latina di Cîteaux) era nato da pochissimi anni, nel 1098, a opera di san Roberto di Molesme che a Cîteaux aveva fondato un nuovo monastero, la-sciando quello cluniacense di Molesme, nel quale tuttavia tornò alcuni anni più tardi, per desiderio dei suoi vecchi monaci che intendevano riformare il loro stile di vita. Pri-vati del fondatore, i cistercensi trovarono proprio in san Bernardo un grande propagato-re del loro ideale, tanto che essi vennero detti anche bernardini. Quando entrò a Cîteaux Bernardo aveva più di vent’anni, un’età ormai adulta per i suoi tempi, nei quali dopo i cinquant’anni un uomo già era a rischio di morte naturale e attorno ai quattordici un giovane diventava maggiorenne, con possibilità di sposarsi. Era nato nei pressi di Digione, in una famiglia in cui entrambi i genitori appartenevano alla piccola aristocrazia della Borgogna, regione tra le più vivaci sotto l’aspetto culturale e religioso. Conosceva bene dunque il mondo dei cavalieri e con trenta di essi, parenti e amici, entrò a Cîteaux, compiendo una scelta decisiva per la sua vita e per il futuro del nuovo ordine. Nel 1115 fondò, sempre in Borgogna, il monastero di Clairvaux (Chiaravalle), che divenne uno dei cinque monasteri-madre dei cistercensi e diede vita a filiazioni in varie parti d’Europa, come ad esempio in Italia il monastero di Chiaravalle Milanese. A Clairvaux rimase come abate fino alla morte, che lo raggiunse nel 1153. Ventun’anni dopo la morte, nel 1174, Bernardo fu canonizzato da Alessandro III e nel 1830 venne dichiarato da Pio VIII dottore della Chiesa. Doctor mellifluus, dottore dalle cui labbra scorre il miele viene detto per la dolcezza e la forza poetica di cui è ca-pace, per la profondità spirituale, per l’impeto d’amore che sa esprimere verso il centro della sua vita, il Cristo, e la sua madre Maria, di cui contribuisce a diffondere in Occi-dente il culto, che in precedenza era molto meno sviluppato. Ottantasei sermoni, composti in vari momenti della sua vita fino in punto di morte, dedicò a commentare il testo biblico dell’amore, il Cantico dei cantici, che la tradizione ebraica e quella cristiana avevano sempre interpretato in senso allegorico, come imma-gine dell’amoredi Jahvé e di Israele, di Dio e del suo popolo, di Cristoe della sua Chie-sa, del Verbo e dell’anima del fedele, in particolare, per gli esegeti medievali, l’anima del monaco; ottantasei sermoni nei quali egli commenta il Cantico soltanto fino al pri-mo versetto del capitolo III, degli otto che costituiscono questo poema. I sermoni - non soltanto quelli sul Cantico, ma molti altri che seguono il ciclo delle letture dell’anno li-turgico - Bernardo, ordinato sacerdote prima di diventare abate, li preparò per i suoi

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monaci; per il cistercense Bernardo Pignatelli di Pisa divenuto papa col nome di Euge-nio III (1145-1153) compose il De consideratione, un ampio trattato in cui, indicandole cose che il pontefice deve considerare (un procedimento che precede la contemplazione e porta a essa), traccia un ritratto spirituale del pontefice ideale, diverso dal papa giurista che ormai andava affermandosi proprio in quegli anni; scrisse inoltre opere di argomen-to morale, come I gradi dell’umiltà e della superbia, o teologico, come La grazia e il libero arbitrio. Bernardo restava monaco contemplativo nel profondo della sua anima: per lui la Gerusalemme celeste è anticipata in terra proprio tra le mura del monastero dalla pace spirituale che vi si gode, nella ruminatio della Parola di Dio e nella preghiera, nella ricerca dell’unione col Cristo, lo sposo desiderato, che, anche se realizzata per brevi attimi, illumina la vita nell’attesa del nuovo incontro. Gli scritti qui presentati - che costituiscono dunque una piccola parte della produzio-ne di Bernardo - sono di tono e di contenuto diverso. L’ardente amore del santo si può rintracciare nella tenerezza espressa verso i luoghi santi della Palestina o in alcuni passi delle lettere inviate a persone amiche; appaiono evidenti la centralità di Dio e la critica e il disprezzo per le inutili glorie e le ostentazioni esteriori del mondo aristocratico, in nome di una più significativa ed essenziale scelta di vita al seguito del Cristo. Ma se un misticismo vi si esprime in maniera dominante, non è quello del rapimento, della visio-ne, della contemplazione, dell’altezza della preghiera e della profondità dell’introspe-zione spirituale: è quello del martirio, non visto però come abbandono nelle mani del carnefice nella testimonianza di una fede incrollabile quanto pacifica. Qui siamo di fronte al martirio armato, al martirio militare, alla mistica del sangue e della morte, su-bita ma anche imposta. Il Cristo sposo, amante dell’anima, mostra un volto difficilmente rintracciabile nel Vangelo e nel Nuovo Testamento (salvo, forse, in alcuni passi dell’A-pocalisse, peraltro assolutamente simbolici): l’immagine di colui che chiede vendetta sul malvagio e che «nella morte del pagano è glorificato». È una «mistica» che altre vol-te comparirà, con diversi segni, nella tradizione spirituale e politica dell’Occidente e della stessa Chiesa, se la Lode della nuova cavalleria verrà stampato per l’esercito pon-tificio ancora nel 1860 sotto Pio IX1 ma che ribalta il tradizionale valore della militia Christi, intesa fin dall’antichità come una milizia spirituale, tanto che il miles Christi per eccellenza era diventato nell’alto Medio Evo il monaco. In questi testi militia e mi-les valgono «cavalleria» e «cavaliere», come normalmente nel linguaggio profano del XII secolo, ma è evidente che Bernardo può giocare sul loro doppio valore semantico, dato che nel linguaggio religioso i termini mantenevano il loro significato. Ovviamente questo gioco va perduto nella traduzione italiana. Si tratta di due mistiche diverse? Ai nostri occhi sì: la seconda è un palese travisa-mento della logica evangelica. Anche uno storico deve avere il coraggio di dirlo, senza trincerarsi dietro troppi distinguo; non per sovrapporre anacronisticamente la propria mentalità a quella di un uomo del XII secolo, ma proprio per far notare che la dialettica era presente già allora se un altro uomo nato nell’ultimo ventennio di quello stesso seco-lo (1182), Francesco d’Assisi, che tanto aveva desiderato in gioventù nobilitarsi nella cavalleria, quando lasciò l’armatura lo fece in maniera davvero definitiva e qualche an-no dopo (attorno al 1220), durante la quinta crociata, mise a repentaglio la vita andando disarmato dal Sultano d’Egitto, in guerra contro i cristiani, per predicargli il Cristo. Fatta questa onesta premessa, lo storico deve però continuare dicendo che la diversi-tà, evidente ai nostri occhi, non era tale per san Bernardo e nemmeno per la maggioran-

1 Delle laudi di una nuova milizia. Libro di S. Bernardo reso italiano, tedesco, francese ed inglese; e messo a stampa per l’esercito pontificio, Tipi della Civiltà Cattolica, Roma 1860.

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za degli uomini del suo secolo. Se si vuole quindi comprendere quanto l’abate di Clair-vaux esprime in questi scritti, bisogna accettare l’unitarietà dei suoi valori religiosi, cer-cando di penetrare nella sua psicologia e negli avvenimenti della sua vita. Bernardo era un entusiasta, le scelte che faceva comportavano il coinvolgimento totale della sua per-sona, come si è visto per l’entrata in monastero, nella quale coinvolse una trentina di uomini. Abbracciato l’ideale cistercense, in sua difesa sviluppò una polemica con l’ordine cluniacense, quello che, riformato il monachesimo benedettino agli inizi del se-colo X, era il più diffuso quando nacque la riforma di Cîteaux. Trovò a rispondergli il pacato e profondo abate di Cluny (dal 1122 al 1156) Pietro il Venerabile - con cui man-tenne poi relazioni di amicizia -, il quale contrappose alle rigide esigenze di austerità del cistercense un atteggiamento fatto di comprensione, tolleranza e discrezione anche nei riguardi dello stile di vita di un monaco. Bernardo si impegnò a fondo a difesa della riforma della Chiesa e nello stesso tempo della sua ortodossia tradizionale, contribuendo in gran misura a risolvere lo scisma nato nel collegio dei cardinali nel 1130 con una doppia elezione papale, a favore di Innocen-zo II invece che di Anacleto II (1138). Contro quanto insegnava Pietro Abelardo si lan-ciò a più riprese, facendo cadere sulla testa del filosofo che applicava il metodo raziona-le la condanna del concilio di Sens (1140). Ma l’ortodossia era minacciata più che dal metodo del maestro Abelardo, anch’egli divenuto monaco e sicuramente non deviante dalla fede, dalla grande diffusione che prima della metà del secolo XII stavano avendo a livello popolare le eresie. Alcune erano di carattere evangelico, cioè, leggendo e inter-pretando letteralmente il Vangelo, si limitavano a mettere in dubbio certi aspetti della dottrina cattolica, accentuando il valore e l’esigenza di povertà ed essenzialità, anche nei riti religiosi; altre erano invece di tipo dualistico e tendevano a rifiutare in blocco la Chiesa cattolica, contrapponendole una propria chiesa e predicando il rifiuto del mondo, della carne, della materia, ritenuti dominio - se non creazione - del male come entità metafisica. Si trattava, in quest’ultimo caso, dei càtari (vocabolo greco che significa pu-ri), che però si denominavano buoni cristiani. Tali eresie stavano avendo un grande svi-luppo soprattutto in tre zone europee: Renania, Italia centro-settentrionale (quella dei Comuni) e attuale Francia meridionale, regione che allora veniva chiamata tutta Proven-za ed esprimeva una raffinata cultura nella lingua d’oc. Invocato da più parti Bernardo nel 1145, nonostante fosse malato, si incamminò per il meridione francese a predicare contro gli eretici: trovò folle di persone che lo ascoltarono, ma anche confutazioni; con la parola e i miracoli sembrò che riuscisse a ricondurre all’ortodossia la maggioranza e così lui stesso pensò; ma fu più lungimirante il suo segretario Goffredo, il quale scrisse che per riconvertire quelle masse sarebbero stati necessari anni di predicazione. Infatti, partito Bernardo, l’eresia pullulò come prima. Quasi sessant’anni dopo, nel 1203, pas-sando per quei territori, il canonico Domenico di Calaruega capì che andava compiuta un’azione specifica in tal senso e perciò fondò l’Ordine dei Predicatori (o Domenicani, 1206); nel 1208 il papa Innocenzo III, dopo l’uccisione di un suo legato, bandì la crocia-ta contro gli Albigesi (il termine, dalla città di Albi, indicava i catari della zona), con la quale i signori del nord francese distrussero insieme l’eresia e la civiltà provenzale con la sua lingua. Bernardo si era ingannato per la scarsa valutazione che aveva della gente di umile condizione: la considerava ignorante e incapace di discutere di problemi di fe-de, poteva essere tutt’al più guidata. Questo atteggiamento non era soltanto suo, ma cor-rispondeva a quello della maggioranza degli ecclesiastici e delle gerarchie della Chiesa, prevalentemente di estrazione aristocratica. Spirito aristocratico anch’egli per prove-nienza sociale e per esperienza religiosa, il santo non comprendeva le esigenze reali del

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popolo cristiano, che ormai non concedeva più fiducia al modello monastico e gerarchi-co, ma chiedeva coerenza di vita con il dettato evangelico e una rivalutazione del valore religioso della vita dei laici nonché della loro apostolicità. Era un mondo in fermento, che vedrà poi accettate in ambito ortodosso molte di queste istanze con l’approvazione data al primitivo gruppo francescano da Innocenzo III nel 1210 e con altre iniziative si-mili dello stesso papa. Non bastava quindi una predicazione passeggera quanto trionfa-le, ma Bernardo non possedeva gli strumenti concettuali e psicologici per comprenderlo. Resta ammirevole il suo sforzo, che fu davvero grande per lui, non soltanto per le malat-tie, ma proprio perché egli, monaco nel profondo, non gradiva allontanarsi dal monaste-ro e dalla sua esperienza contemplativa, benché per essa si sia parlato - come per altri mistici - di «contemplazione operosa», volendo indicare che l’abate di Clairvaux poteva trovare i suoi spazi contemplativi anche, se non proprio, in queste attività esterne. A noi importa notare, in conclusione, non solo la serietà, ma lo slancio e il coinvolgimento af-fettivo ed emotivo col quale Bernardo si impegnava in tutte queste imprese in difesa della Chiesa contro scismi, nuove teorie filosofiche, eresie. Tale passione difensiva ave-va però come corrispettivo l’enfatizzazione del pericolo, dello scontro e della negatività dell’avversario. Se la cristianità, cioè in pratica nel XII secolo l’Europa di fede cristiana, poteva te-mere questi nemici interni, vi era un pericolo esterno obiettivamente ancora più temibi-le, pericolo insieme militare e religioso: l’Islam. I musulmani arabi e turchi in realtà da tempo non erano in espansione, ma sulla difensiva di fronte al contrattacco che i cristia-ni portavano per terra e per mare. Avevano perso la Sicilia a opera dei normanni che avevano costituito un regno unitario e compatto comprendente l’isola e l’Italia meridio-nale: il regno di Sicilia appunto, il cui primo re era stato incoronato nel 1130. Nella pe-nisola iberica la reconquista li stava progressivamente respingendo, anche se soltanto nel 1492 ne saranno cacciati completamente. Infine dal 1099, a seguito della prima cro-ciata, i cristiani occupavano al di là del mare la Terra Santa, organizzata in Regno di Gerusalemme, la città santa che dal VII secolo si trovava nel cuore dei territori musul-mani. Ma l’immaginario collettivo non per questo minimizzava per l’Europa e per la fe-de cristiana il pericolo islamico e d’altronde la spinta musulmana era ben lontana dall’esaurirsi, come mostra la storia dei secoli successivi (escludendo la reconquista cri-stiana nella penisola iberica), diciamo dalla riconquista di Gerusalemme da parte del Sa-ladino nel 1187 alla presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453 e oltre, almeno fino alla battaglia di Lepanto del 1571. C’era chi considerava l’Islam un’eresia del cristianesimo, chi paventava l’unione di musulmani ed eretici europei per abbattere Chiesa e cristianità. Certo bisogna rilevare che non tutti avevano nei confronti del mondo islamico tale atteggiamento di paura-aggressione. Gli studiosi si rivolgevano ai pensatori arabi del passato o loro contempo-ranei per riscoprire Aristotele o per acquisire nuove conoscenze matematiche e scienti-fiche. Il già ricordato abate di Cluny Pietro il Venerabile mantenne un atteggiamento di-verso da quello di Bernardo verso l’Islam, pur considerato un avversario da confutare e non certo da incontrare secondo una sensibilità ecumenica del nostro tempo; egli si preoccupò di tale confutazione per mezzo non della spada, ma di un Trattato contro la setta dei saraceni e durante un suo viaggio in Spagna nel 1141 fece tradurre in latino il Corano perché la discussione avvenisse con cognizione di causa. Bernardo era di carattere impetuoso e non incline alla conciliazione o alla conviven-za con gli avversari, anche in ciò come la maggioranza della classe dirigente politica ed ecclesiastica del suo tempo. Il suo amore per il Cristo lo spingeva a difendere in tutti i

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modi la sua Chiesa e i suoi fedeli dal pericolo e dalla tirannide dei pagani2, il suo cuore si scioglieva nel pensiero dei luoghi santi toccati dal Salvatore bambino o immolatosi per l’umanità, soprattutto per il Santo Sepolcro, il santuario della cristianità. Questi luoghi dovevano, per giustizia, essere cristiani. Ciò che ai nostri occhi può sembrare contraddizione era invece in Bernardo parte di una stessa spiritualità; quel Cristo che si presentava dolcissimo ai suoi fedeli aveva il volto guerriero e vendicatore contro i suoi avversari, emissari del demonio. Si trattava di uno scontro tra bene e male, tra giustizia e iniquità, in cui i singoli uomini perdevano la loro individualità. Era quindi naturale che la strada di Bernardo si incrociasse con quelle dei Templari e della seconda crociata. Si può dire che dagli anni Venti del XII secolo fino alla morte il santo non abbia mai smes-so, fra i tanti suoi pensieri, di averne uno per quanto avveniva in Terra Santa, come te-stimoniano eloquentemente i testi qui riportati. I cavalieri del Tempio Il regno di Gerusalemme non era vicino all’Europa cristiana, se si tiene conto dei tempi e dei mezzi di trasporto e di comunicazione del secolo XII. I guerrieri della prima crociata, terminata l’impresa nel 1099, erano tornati in patria e non molti uomini armati erano rimasti ai signori delle entità politiche feudali create in Terra Santa, cioè, dal nord al sud, contea di Edessa, principato di Antiochia, contea di Tripoli e regno di Gerusa-lemme, del cui re gli altri signori erano vassalli. Oltremare erano stati costruiti castelli come nel cuore d’Europa, ma le controffensive musulmane restavano un pericolo in-combente e soprattutto i predoni potevano scorrazzare in territori non sufficientemente protetti. La difesa della Terra Santa era dunque un problema importante nei primi de-cenni del secolo XII e, se per i sovrani e i signori europei poteva non essere proprio primario, lo era assolutamente per i papi, che della crociata e della conquista palestinese si erano fatti promotori fin dal convegno di Clermont del 1095, dove Urbano II lanciò il famoso grido «Dio lo vuole». Lo stesso papa concesse ai crociati, partiti nel 1096, l’indulgenza plenaria, la remissione totale della pena derivata dal peccato che con di-versi sviluppi successivi avrebbe avuto un posto non secondario nella storia del cristia-nesimo. Quello della Terra Santa era dunque avvertito a livello generale primariamente come un problema religioso e ciò aiuta a comprendere l’atteggiamento di san Bernardo; ov-viamente diverso è il caso particolare di cavalieri che al di là del mare cercassero fortu-na e territori o di mercanti che vi stabilissero basi commerciali (ma non tutti gli storici sono convinti che le crociate abbiano realmente portato vantaggi economici all’Occidente). Da queste esigenze nascono i Templari, il primo ordine monastico-cavalleresco sorto con finalità di difesa militare fin dalle sue origini. Nel 1118-1119 - a vent’anni dalla fine di quella che era la crociata, non ancora classificata come prima - alcuni cavalieri pre-valentemente di area franca decidono di scegliere una vita consacrata non entrando in monastero - come pochi anni prima aveva fatto il cavaliere Bernardo - ma dedicandola alla difesa dei pellegrini che si recavano ai luoghi santi, presidiando le vie che conduce-vano a Gerusalemme. L’iniziativa parte da ambiente aristocratico, come d’altronde la maggior parte di quelle monastiche del tempo, ma a maggior ragione non poteva essere che così trattandosi di guerra, che era in mano alle classi privilegiate, per tradizione e

2 Bernardo definisce i musulmani «pagani»; in lui non compare l’idea che essi siano «eretici».

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per i costi di cavallo e armatura. I fondatori, come si è detto, sono cavalieri, e tra i primi nove di essi si trovano Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, che già nel 1110 aveva-no costruito in Terra Santa una torre per l’ospitalità e la protezione dei pellegrini, e An-drea di Montbard, che sarà quinto maestro dei Templari (1153-1156); entro il 1125 arri-vano Folco d’Angers e Ugo conte di Champagne, la stessa regione di Payns, posta im-mediatamente a nord della Borgogna di san Bernardo, del quale non solo Andrea è zio materno, ma lo stesso Ugo di Payns, secondo alcune ipotesi, è parente. Non è difficile comprendere il coinvolgimento affettivo e anche «ideologico», potremmo dire, dell’abate di Clairvaux nel progetto di questi cavalieri appartenenti al suo ambiente so-ciale e familiare. Lui che aveva lasciato la cavalleria per entrare a Cîteaux, vede ora prospettarsi un tipo di cavalleria religiosa in cui la forza, la baldanza, il coraggio e l’abilità sono finalizzati alla difesa dei cristiani e dei luoghi santi a costo della vita; una cavalleria che lui, monaco ex cavaliere, cercherà di rendere il più monastica possibile nella spiritualità e nel tipo di vita. Si ricordi però che la professione monastica resterà sempre per lui al di sopra di ogni altro impegno, come mostrano alcune lettere qui ri-prodotte in cui egli ribadisce che nessun monaco può, volontariamente o per costrizione, lasciare la sua vita di preghiera nel monastero per imbarcarsi nella spedizione crociata. Bernardo non fondò né progettò i cavalieri del Tempio: incontrò inevitabilmente la loro strada e rimase loro vicino, sicché anche in seguito i rapporti tra templari e cister-censi rimasero privilegiati. I templari ebbero le loro origini in Terra Santa e pronuncia-rono il primo voto davanti al patriarca di Gerusalemme; il re Baldovino II, già tra il 1119 e il 1120, li accolse in una sala del suo palazzo che, situato presso la spianata del Tempio, venne identificato proprio con il Tempio di Salomone distrutto dai romani e trasformato dai musulmani nella moschea di al-Aksa; trasferitosi poi il re nella torre di Davide, tutto l’edificio rimase all’ordine che venne detto del Tempio, da cui il nome di templari a quelli che ufficialmente vollero chiamarsi «Poveri cavalieri di Cristo». Il progetto e la realtà iniziale dei Templari avevano bisogno di una regola e di un ri-conoscimento dal centro, poiché si trattava non solo di religiosi, ma di un tipo assolu-tamente nuovo. Si pensi che, formalmente, agli ecclesiastici era vietato portare le armi e anche andare a caccia (quest’ultimo divieto rimase anche per i Templari, con l’ecce-zione della caccia al leone). Perciò nel 1127 Ugo di Payns e altri cinque «poveri cavalie-ri» si recarono prima a Roma dal papa Onorio II, poi in Francia, nei loro territori di ori-gine; e a Troyes, nella Champagne, a circa dodici chilometri a sud di Payns, si riunì un concilio locale per organizzare il nuovo ordine, sotto la presidenza del legato papale Matteo, cardinale vescovo di Albano, e con la partecipazione di arcivescovi, vescovi, abati. Tra questi ultimi il terzo abate di Cîteaux, Stefano Harding, e probabilmente quel-lo di Clairvaux, cioè Bernardo. Il concilio approva una regola, che secondo alcune fonti sarebbe stata composta da san Bernardo su richiesta di Ugo. Ma, a parte i dubbi di alcu-ni storici sulla stessa partecipazione del santo a questo concilio, la regola ebbe subito dopo, tra il 1128 e il 1130, una nuova redazione dovuta al patriarca di Gerusalemme Stefano di Chartres, il cui testo latino è stato conservato, come una più ampia versione francese del 1140 circa. Quindi non si può attribuirla a Bernardo, anche se egli può averne ispirato ampiamente l’impianto e la spiritualità3. Ma i Templari continuarono a

3 Afferma che Bernardo compose la regola dei Templari FERRUCCIO GASTALDELLI in San Bernardo, Let-tere, I, Milano 1986, pp. 134-135, nota 2 alla lettera 21 (Opere di San Bernardo, VI, 1). In questa lettera, inviata al legato papale Matteo, cardinale vescovo di Albano, tra la fine del 1127 e i primi del 1128 Ber-nardo si scusa di non poter intervenire al prossimo concilio di Troyes per questioni di salute (questa lette-ra non è tra quelle selezionate). Gastaldelli ricorda altre fonti che invece testimoniano della presenza del

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rivolgersi a lui per averne un testo esortativo e infine, dopo tre richieste del loro primo maestro, il santo compose la Lode della nuova cavalleria ai cavalieri del Tempio (Ad milites Templi de laude novae militiae), in una data che va da poco dopo il concilio di Troyes al 1136, anno della morte di Ugo di Payns, cui il libro è dedicato. L’opera nella prima parte, secondo il suo titolo, è una lode dei cavalieri del Tempio e della funzione che essi svolgono sia all’interno della società cristiana, sia nella difesa esterna contro i musulmani. Va subito notato che agli occhi di Bernardo la maggiore contrapposizione presente nella sua società non è tra violenza e non-violenza, ma tra la nuova cavalleria religiosa e i cavalieri «profani», del mondo feudale, volti a combattersi reciprocamente per insulsi motivi di orgoglio, stupide ripicche, desiderio vanaglorioso di primeggiare. Questa è in fondo per Bernardo la vera violenza, assolutamente inutile, anzi fortemente dannosa per la tranquillità e l’ordinato vivere della società cristiana; violenza perché tale nelle motivazioni e nei fini, o meglio perché esercitata senza un ve-ro fine. I Templari, come già i crociati (e Bernardo lo ripeterà con maggior passione ne-gli appelli per la seconda crociata), hanno invece un fine nobile, una giusta causa per la quale combattere e uccidere o restare uccisi, che non è soltanto quella di difendere i pel-legrini cristiani né di mantenere alla cristianità i santi luoghi della presenza terrena di Cristo, ma di opporsi al male, al demonio, che vuole dilagare e che ha il suo braccio ar-mato nei «pagani». Se non ci fosse l’aggressione da parte loro, scrive Bernardo, non bi-sognerebbe ucciderli, attendendo fiduciosamente la fine dei tempi per la loro conversio-ne, come si fa con gli ebrei, difesi appassionatamente dal santo un decennio dopo contro la terribile realtà dei primi pogrom anti-giudaici che in Renania accompagnarono la se-conda crociata, come già era avvenuto durante la prima. Certo può fare effetto leggere, nella Lode della nuova cavalleria, che l’uccisione di un pagano- cioè di un musulmano - non è un omicidio, ma un malicidio; a questo neologismo bernardino si possono dare due interpretazioni: la prima intendendo mali genitivo di malus, malvagio, quindi «ucci-sione di un malvagio»; la seconda prendendo mali come genitivo di malum, il male, quindi come uccisione del male. Non è facile affermare con decisione cosa intendesse veramente Bernardo, ma in ogni caso non si trattava certo di una bella considerazione del nemico, di cui viene sminuita l’umanità. Nella seconda parte del Liber ad milites Templi Bernardo abbandona i toni guerre-schi e passa a scrivere di ciò che lo appassiona di più, l’oggetto e il fine dell’impegno dei Templari, cioè la Terra Santa. Al termine della lode per i cavalieri arriva al Tempio, il loro luogo di residenza, guerresco per le armi, monastico per la preghiera e la vita in comunione fraterna, quindi passa alla città santa che lo racchiude, innalzando un saluto e una lode a Gerusalemme. Da qui inizia un cammino che ripercorre la vita terrena di Gesù Cristo: Bethleem, Nazareth, il monte degli Ulivi e la valle di Giosafat, il Giordano, il luogo del Calvario, il Sepolcro. Si sofferma a lungo sulla tomba vuota di Cristo, «che ha come il primato tra i luoghi santi e desiderati», ricordo della morte del Salvatore, che è stata per gli uomini «la liberazione dalla morte». Bernardo non si recò mai in Terra Santa e non si preoccupa di seguire descrizioni che ne erano state fatte in diversi tempi. Il suo è un viaggio spirituale, in cui sulla base della lettura allegorica propria dell’esegesi medievale, in particolare di quella monastica, si innalza a considerazioni di carattere morale e soprattutto teologico. Ogni luogo ha un significato dello spirito, par-

santo al concilio, che si aprì il 13 gennaio 1128, concludendo: «La Regola, composta da Bernardo, si ispi-ra a quella di san Benedetto; dopo essere stata ritoccata, fu approvata dal concilio; due anni dopo, sarà nuovamente ritoccata dal patriarca di Gerusalemme Stefano di Chartres che si ispirerà a quella dei Cano-nici regolari».

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tendo dall’etimologia attribuita al suo nome e rincorrendo una catena di citazioni bibli-che, che a volte danno l’effetto di uno scoppiettare di fuochi di artificio. Betlhleem è la «casa del pane» in cui apparve il pane disceso dal cielo nato dalla Vergine; Nazareth è il «fiore», perché il profumo del Dio bambino aspirato dai profeti ha preceduto il sapore del frutto gustato dagli apostoli e dai cristiani; per altri luoghi la meditazione, la con-templazione geografico-spirituale, parte dal loro significato nella Scrittura: la misericor-dia di Dio e il suo perdono nel Giudizio finale (Giosafat), il battesimo di Cristo con la presenza dell’intera Trinità (il Giordano), la croce salvifica di Cristo (il Calvario). Dopo il Sepolcro, i luoghi dove si colgono i frutti della salvezza dalla morte, Betfage, «casa della bocca», «villaggio di sacerdoti… dove è racchiuso il mistero della confessione e del ministero sacerdotale», e Betania, «casa dell’ obbedienza», dove fu risuscitato Laz-zaro e dove si ricordano i due generi di vita religiosa simboleggiati dalle sue sorelle Ma-ria e Marta, quella contemplativa e quella attiva, e «la meravigliosa demenza di Dio ver-so i peccatori e la virtù dell’obbedienza insieme ai frutti della penitenza», per l’unzione fatta a Gesù da questa Maria, identificata con la Maddalena penitente4. Questa seconda parte del Liber ad milites Templi, più lunga della prima, diviene nel suo complesso un’esposizione delle verità della fede, soprattutto della redenzione derivata dalla morte e risurrezione del Cristo, perché i Templari in primo luogo difendono tale patrimonio: «Queste delizie del mondo, questo tesoro del cielo, questa eredità dei popoli fedeli sono affidati alla vostra fede, carissimi, consegnati alla vostra perizia e al vostro coraggio». Così Bernardo, terminato il viaggio spirituale per una Terra Santa simbolica, torna a ri-volgersi direttamente ai cavalieri del Tempio, senza dimenticare che essi difendono an-che la Terra Santa storica, materiale, non meno reale dell’altra, anzi - come sempre nella lettura allegorica o figurale - condizione della realtà superiore che simboleggia. Le ric-chezze spirituali sono quelle «che l’annuncio profetico promette» e sono elargite ai Templari, a condizione che essi facciano affidamento non sulle proprie forze, «ma sem-pre e soltanto nell’aiuto di Dio… Non a noi Signore, non a noi ma al tuo nome da’ glo-ria (Salmo 115,1), affinché in tutte le cose sia benedetto lui, che addestra le vostre mani alla battaglia e le vostre dita alla lotta (Salmo 144,1)». Se si leggono con un po’ di attenzione i testi selezionati, si nota che concetti, imma-gini, citazioni bibliche e persino parole e frasi non solo si ritrovano uguali o simili in di-verse lettere inviate in occasione della seconda crociata, ma già erano presenti più di dieci anni prima nella Lode della nuova cavalleria: il parallelo è particolarmente inte-ressante fra questo trattato e la lettera 363; in entrambi, per esempio, è descritto quasi con le stesse frasi il contrasto tra cavalleria (militia) in nome di Cristo e cavalleria mon-dana, detta con gioco di parole malitia. Bernardo mostra una forte coerenza non solo all’interno del suo pensiero, ma anche nei suoi atteggiamenti a distanza di anni: quanto egli dice per Templari e crociati e le stesse citazioni bibliche che accompagnano e so-stanziano la sua argomentazione hanno a volte il sapore dello slogan, nel senso di qual-cosa ripetuto più volte e più o meno nello stesso modo5. Per quanto riguarda la sua coerenza nel tempo si veda la sua corrispondenza con la regina di Gerusalemme Melisenda, alla quale scrive a più riprese e in diverse occasioni,

4 Vedi la nota al testo della Lode della nuova cavalleria. 5 Nella seconda parte del Liber ad milites Templi Bernardo presenta una panoramica pressoché completa dei luoghi cristiani della Terra Santa, ma anche altrove nelle sue opere si trovano accenni, etimologie e interpretazioni simili, a conferma della ripetitività di concetti e letture bernardine: ad es. nella lettera 77 o in alcuni sermoni per la Vergine, che qui ritengo inutile riportare. Ma il riferimento ai luoghi della Pale-stina in Bernardo è sempre simbolico.

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spesso per sostenerla, sia nel dolore per la morte del marito, sia di fronte alle responsa-bilità di governo che venne a trovarsi sulle spalle. Non tutti, come s’è detto, si trovarono d’accordo con l’atteggiamento di Bernardo. Ma certo anche la sua avversione e la sua preoccupazione per la violenza che i cavalieri esercitavano all’interno della cristianità erano ampiamente condivise, almeno negli am-bienti ecclesiastici, e da molto tempo. Fin dal secolo precedente, prima della crociata, la Chiesa aveva cercato di porre un freno al disordine provocato dalle disfide aristocrati-che, che significavano non soltanto scontro armato tra i signori, ma anche scorrerie nelle campagne, razzie e violenze compiute sui loro servi. Franco Cardini scrive che si tratta-va di una guerra di tutti contro tutti, «che si risolveva spesso in danni ingenti per gli enti ecclesiastici e le relative proprietà nonché sempre in un supplemento di sofferenze per i miseri, gli imbelli, insomma i pauperes e le miserabiles personae la tutela delle quali il diritto canonico assegnava alla Chiesa»6. Si iniziò già dalla fine del sec. X a vietare i combattimenti nel giorno di Pasqua e nelle domeniche. Verso la metà del sec. XI si an-dò diffondendo dal basso e dall’alto un vasto movimento religioso reclamante la pace di Dio, che si cercò di concretizzare nella tregua di Dio, imposta da sinodi e autorità reli-giose, per la quale il combattimento era vietato sotto pena di scomunica dal giovedì alla domenica compresi; contro quanti infrangessero la tregua vennero istituite anche milizie diocesane, anticipatrici in un certo senso di quelle armate che, nella crociata, si sarebbe-ro lanciate contro gli infedeli. Si comprende meglio così quella specie di equazione che sottostà al pensiero di Bernardo tra peccatore cristiano e aggressore pagano, entrambi ispirati da Satana. I Templari dunque furono molto cari all’abate di Clairvaux, che sottolineò la loro vocazione non solo di cavalieri combattenti per il bene contro il male, non solo di possi-bili martiri di Cristo, ma anche di monaci che dovevano condurre una vita di preghiera, di obbedienza, di castità e di povertà, senza lusso nelle vesti e nel vitto, senza nessun orpello esteriore. La regola dei Templari stabilisce la loro organizzazione e il loro stile di vita. Hanno a capo il maestro del Tempio, la cui autorità gerarchica e paterna corri-sponde a quella dell’abate (che, negli ordini monastici centralizzati come quello di Clu-ny è a capo di tutti i monaci, non di un solo monastero); questi è assistito da un consi-glio formato da fratelli saggi, mentre le decisioni più importanti richiedono il parere del capitolo. I monaci-cavalieri portano il mantello bianco con la croce rossa sulla spalla, che li contraddistingue rispetto agli scudieri e a quanti solo temporaneamente si unisco-no loro per combattere, senza alcun voto monastico. Vi è dunque una precisa gerarchia interna, il cavaliere è un nobile e un combattente, che per esigenze della sua missione, oltre che del suo stato sociale, ha bisogno di vario personale che lo aiuti, poiché il com-battente medievale a cavallo è una vera e propria macchina da guerra che da sola diffi-cilmente può essere messa in funzione. Le donne non sono ammesse nelle case dei Templari. La regola inizia con l’indicazione dell’ufficio liturgico che i «poveri cavalie-ri» ogni giorno devono osservare, con l’obbligo di sostituirlo con la recita di vari Padre nostro alle diverseore in caso di impedimento. Il vitto è più abbondante e sostanzioso di quello dei monasteri e ciò è facilmente comprensibile perché i cavalieri devono essere ben in forze per combattere. I «poveri cavalieri di Cristo» si diffusero presto per tutta Europa, anche se il loro compito principale rimase quello di difendere i luoghi santi e la loro casa generalizia re-stò il Tempio di Salomone a Gerusalemme, finché fu possibile. Con una struttura cen-

6 F. CARDINI, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’Ordine templare, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 1994, p. 43.

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tralizzata, l’ordine si suddivise, in Terra Santa e in Europa, in commende, rette da un commendatore (che in diversi documenti viene anche detto procuratore, maestro, mini-stro, istitutore o precettore): Gerusalemme città, regno di Gerusalemme, Tripoli, Antio-chia, Inghilterra, Francia, Poitou, Provenza, Aragona, Portogallo, Puglia, Ungheria. Dal 1139, con una bolla del papa Innocenzo II, l’ordine riceve una serie di privilegi, come la dipendenza diretta dalla Santa Sede, l’assoluta autonomia nell’elezione del maestro, la presenza di sacerdoti propri (cappellani) indipendenti dai vescovi diocesani e una più generale esenzione dalla giurisdizione episcopale. I Templari accumularono progressi-vamente grandi ricchezze, non solo immobiliari (per le donazioni che ricevevano come gli altri ordini monastici), ma anche in denaro, per l’abile amministrazione di tale patri-monio immobiliare, in cui si dimostrarono particolarmente capaci (d’altronde le loro ca-se delle diverse commende d’Europa non servivano certo direttamente alla difesa dei pellegrini, né come baluardi antimusulmani, tranne che nella penisola iberica); così, grazie alla disponibilità di denaro liquido, iniziarono una vera e propria attività bancaria. Tramite le loro case si potevano trasferire somme consistenti senza spostamento di mo-neta, ma semplicemente con lettere di cambio, di cui i «poveri cavalieri» furono in pra-tica gli inventori nell’Europa medievale. Autonomia da autorità laiche e religiose, ric-chezza, fiorente attività economica, organizzazione accentrata, forza militare, fama di valore e coraggio in combattimento: tutto ciò portò rispetto e ammirazione, ma anche ostilità per la loro potenza, con accuse di orgoglio e di avidità, che tornarono drammati-camente nei processi che segnarono la loro fine. Per quanto riguarda la progressiva diffusione al di fuori della Terra Santa, si tenga anche conto che dalla metà del XII secolo i cristiani furono pian piano rigettati dai loro possedimenti d’Oriente. Sono avvenimenti che Bernardo non vide, perché nel 1153 mo-rì. Dopo il fallimento della seconda crociata - di cui lui era stato predicatore - e la man-cata riconquista della contea di Edessa persa nel 1146, una nuova offensiva musulmana guidata dal famoso Saladino tolse la stessa Gerusalemme dalle mani dei cristiani (1187) e i Templari dovettero abbandonare la casa del Tempio, spostando la loro sede centrale a San Giovanni d’Acri, sulla costa palestinese. Inutile per riconquistare la città risultò la terza crociata (1189-1192), nonostante la partecipazione dell’imperatore Federico I Bar-barossa (che vi morì) e del re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Anche la quarta (1202-1204) e la quinta crociata (1217-1221) andarono fallite e soltanto Federico II di Svevia, imperatore, re di Sicilia e re di Gerusalemme, riottenne la città a seguito di ac-cordi diplomatici con il sultano d’Egitto, che vi estendeva il suo dominio (1229). Ma questo suo regno d’oltremare era ristretto a Gerusalemme e Betlemme con un corridoio che le collegava a Nazareth e ad alcune postazioni sulla costa, da Ascalona a sud fino a Beirut a nord, al confine con la contea di Tripoli. Nel 1244 la città col sepolcro di Cristo e quella con la grotta della sua natività tornarono definitivamente in mano musulmana, mentre in meno di un quarantennio, nonostante le due ultime crociate (sesta nel 1248-1254; settima nel 1270) condotte dal re di Francia san Luigi IX, a uno a uno caddero i domini cristiani: nel 1268 il principato di Antiochia; nel 1288 la contea di Tripoli; nel 1291 i restanti capisaldi, Tiro, Sidone, Beirut e per ultimo San Giovanni d’Acri. Gli or-dini monastico-militari dovettero lasciare la Terra Santa; gli Ospitalieri di San Giovanni andarono prima a Rodi, poi divennero gli attuali Cavalieri di Malta trasferendosi in quest’isola; i Templari spostarono il loro centro a Cipro; rimasero un forte e ricco ordine in Europa finché le loro ricchezze fecero gola al re di Francia Filippo IV il Bello, che a partire dal 1307 organizzò contro di loro una congiura, riprendendo voci inconsistenti e inventando accuse che rimasero nella fantasia dei secoli successivi, fondendosi con una

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pretesa tradizione esoterica che lo storico deve assolutamente rigettare (a meno che non voglia fare la storia di queste fantasie, popolari o pseudo dotte che siano). La realtà sto-rica ci parla della fine dei Templari, con lo svolgimento di inchieste e processi da parte del re di Francia, del papa Clemente V e di tribunali diocesani. Cinquantaquattro di essi furono mandati al rogo dall’arcivescovo di Sens nel 1310. Nel 1311 il concilio generale (cioè, con linguaggio moderno, ecumenico) di Vienne, in Francia, non espresse condan-ne, ma il 22 marzo del 1312 Clemente V con la bolla Vox in excelso ne soppresse (o «sospese») l’ordine7, concedendo gran parte dei loro beni agli Ospitalieri di San Gio-vanni, che pagarono ingenti somme al re di Francia. Il 18 marzo 1314 furono mandati al rogo a Parigi l’ultimo maestro dei Templari Giacomo di Molay e il precettore di Nor-mandia Geoffroy de Charnay, come relapsi, cioè per aver ritrattato le confessioni estorte loro in precedenza, in interrogatori in cui era prevista normalmente la tortura: di fronte alla rovina del loro ordine vollero affermarne la assoluta innocenza a costo della morte. La seconda crociata Nel 1144 cadde in mano musulmana la città di Edessa ed entro due anni, come s’è detto, l’intera contea. Per riconquistarla e soprattutto per difendere dal pericolo i luoghi santi - dopo un appello della regina di Gerusalemme Melisenda - partì la seconda cro-ciata, guidata dall’imperatore Corrado III di Hohenstaufen e dal re di Francia Luigi VII. Il papa Eugenio III la bandì il 10 dicembre 1145, con una bolla inviata al re di Francia; questi chiese l’aiuto di Bernardo di Clairvaux, perché la predicasse; il santo, dopo un espresso ordine del papa, iniziò la predicazione da Vézelay il 31 marzo 1146. «Comincia allora per lui una serie di viaggi che per circa due anni lo terranno spesso lontano dal suo monastero. In Lorena, nella Fiandra e nell’Artois egli passa a proclama-re l’indizione della guerra santa e a invitare gli uomini ad arruolarsi nell’armata di Cri-sto. Viene a sapere che ha un rivale nel monaco cistercense Raoul [Radulfus], il quale, senza alcun mandato, solleva le folle delle rive del Reno contro i Giudei. Bernardo ac-corre sul posto, gli si oppone risolutamente e prende con sé le reclute che quello aveva già radunato. A Magonza e a Worms, così come a Bruges e a Liegi e ovunque, ottiene il trionfo che già aveva conosciuto in Italia, in Germania e in Aquitania. A Francoforte sul Meno si intrattiene con l’imperatore Corrado III; quindi discende nella Germania del sud fino a Costanza e alla fine del mese di dicembre assiste alla dieta di Spira. Purtrop-po i nobili e i prìncipi non rispondono alla sua chiamata con lo stesso entusiasmo delle folle che, d’altra parte, non possono far nulla senza i loro capi. Bernardo, a forza di mi-racoli, riesce a convincere l’imperatore, poi rientra in Borgogna attraversando la Vallo-nia, la Piccardia e la Champagne; arriva a Clairvaux nel febbraio 1147, dopo aver predi-cato, negoziato, sofferto mille fatiche per un anno intero. Nel frattempo invia lettere ed emissari in tutto l’Occidente: in Inghilterra, in Spagna, in Boemia, in Italia e in Baviera e finanche in Moravia, in Polonia e in Danimarca. Dopo aver trascorso solo quattro giorni nel suo monastero, Bernardo parte per Étampes dove assiste al consiglio di Luigi VII, alla presenza di ambasciatori dell’Imperatore e del re di Sicilia. Designa Sugero8 ad assumere il comando durante l’assenza del re di Francia e quindi torna a Clairvaux,

7 Barbara Frale trovò nell’Archivio Segreto Vaticano una bolla di Clemente V che assolve i Templari. Ta-le bolla non riuscì però a fermare la distruzione dei Templari, né a evitare il loro scioglimento (o «sospen-sione») da parte dello stesso Clemente V. 8 Abate di Saint-Denis a Parigi.

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dove non si fermerà che poche settimane. Riprende il viaggio diretto a Treviri, quindi va a Francoforte, dove in marzo si terrà una nuova dieta». Questo il quadro dell’attività di san Bernardo offerto da uno dei suoi studiosi più ap-passionati, Jean Leclercq9, che sottolinea il successo, almeno tra le folle, riscosso dalla sua propaganda, prima in Francia, poi in Germania; nel 1147 il papa Eugenio III si recò in Francia e nello stesso anno partirono per via di terra l’esercito francese (fine maggio) e quello tedesco (fine giugno). Ma un così roseo inizio non vide affatto un felice svol-gimento. Sconfitte militari, contrasti fra i capi, dissidi tra crociati e signori feudali di Terra Santa e persino la crisi matrimoniale tra Luigi VII ed Eleonora d’Aquitania (che, ottenuto infine lo scioglimento, sposerà il futuro re d’Inghilterra Enrico II) caratterizza-rono questa spedizione, che non ottenne alcun risultato positivo, anzi sfatò il mito dell’invincibilità dei cavalieri europei e diede forza alla progressiva riconquista musul-mana, di cui s’è detto in precedenza. Nel settembre 1148 tornò in Europa Corrado, nell’estate 1149 lo seguì Luigi. Il regno di Melisenda restava esposto al pericolo più di prima. Bernardo si sentì in parte responsabile dell’insuccesso, cui si aggiungeva quello della crociata contro i Vendi (popolo slavo pagano residente al di là dell’Elba), che egli aveva sostenuto anche partecipando di persona nel marzo 1147 alla dieta di Francoforte. Fu invitato ancora a predicare la crociata, a capo della quale nel convegno di Chartres del 7 maggio 1150, presente il re di Francia, si volle addirittura mettere lui, che alla fine, do-po un primo rifiuto, dovette accettare. Questo convegno non ebbe la partecipazione di quelli degli anni precedenti; Bernardo scrisse a Pietro il Venerabile rammaricandosi che questi non vi fosse intervenuto e invitandolo a un nuovo convegno a Compiègne per il 15 luglio. Pietro, di cui si è notatala diversa spiritualità, non vi si recò, e non solo lui: ormai questa avventura crociata era terminata. Bernardo ne portò in sé la pena fino alla morte, sopraggiunta tre anni dopo. Scritti di Bernardo selezionati L’impegno di san Bernardo per il regno di Gerusalemme (nella persona della sua re-gina Melisenda), i Templari, la crociata negli anni dal 1124 al 1153 è documentato, ol-tre che nella Lode della nuova cavalleria (attribuibile agli anni Trenta del secolo XII), nelle lettere, selezionate in base alloro argomento dall’ampio epistolario dell’abate di Clairvaux, composto di 548 missive, di cui 499 sue. Non sono state selezionate tutte le lettere riguardanti i temi qui trattati, ad esempio manca la lettera 247 a papa Eugenio III del maggio 1146, in cui Bernardo affronta il problema dello scontro tra l’arcivescovo di Bourges Pietro e quello di Reims Sansone a causa della nuova incoronazione di re Luigi VII nell’alta corte di Bourges del Natale 1145. Qui la reggenza durante la spedizione crociata del re fu affidata a Sugero, abate di Saint-Denis e Luigi fu nuovamente incoro-nato da Sansone invece che dal vescovo del luogo, come avrebbe dovuto avvenire. Eu-genio per punizione privò del pallio arcivescovile Sansone, ma a distanza di qualche mese, quando la crociata è ormai bandita e Bernardo stesso ha avuto l’incarico di predi-carla, l’abate di Clairvaux interviene presso il papa, con toni decisi e rimproveranti, in difesa dell’arcivescovo di Reims. Nelle ultime righe della lettera Bernardo annuncia di aver iniziato la predicazione della crociata e che molti uomini rispondono all’invito: «Si svuotano città e castelli ed ormai sette donne non trovano nemmeno un sol uomo».

9 ]. LECLERCQ, San Bernardo. La vita, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 165-166.

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Sono state selezionate dunque diciotto lettere dal 1124 al 1153. Sono riportati infine due passi del trattato dedicato a Eugenio III De consideratione (composto tra il 1148 e il 1153), brevi ma significativi: nel primo, riguardante l’esito negativo della seconda cro-ciata, della quale era stato posto a capo lui stesso, Bernardo traccia un’appassionata di-fesa del suo operato insieme a un’aspra critica del comportamento dei capi crociati, di-chiarati privi di fede; nel secondo il santo ricorda al papa gli impegni per la conversione dei non cristiani, tralasciando per un momento i toni e gli argomenti della guerra e dello scontro a favore di uno slancio missionario, non privo però della richiesta di un deciso intervento contro coloro che portano traviamento dalla fede, gli eretici. Nota ai testi L’edizione critica latina delle opere di Bernardo di Clairvaux è in Sancti Bernardi Opera, voll. I-VIII, a cura di J. Leclercq, H.M. Rochais, C.H. Talbot, Roma 1957-1977. Le medesime opere, sia nel testo latino sia in traduzione italiana a fronte, sono raccolte in Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, vol. I-VI, Milano 1984-1987. La traduzione italiana dei testi qui selezionati è mia, anche se confrontata con quelle esistenti. Nelle citazioni scritturali l’indicazione di capitoli e versetti è di uso moderno, poiché nel sec. XII la Bibbia non era ancora stata suddivisa in capitoli (lo fu a partire dal secondo decennio del sec. XIII), né in versetti (introdotti nelle edizioni a stampa del sec. XV). La traduzione delle citazioni non segue il testo della Conferenza Episcopale Italia-na (CEI) né altre traduzioni moderne, che si basano sul testo originale dei libri scritturali (ebraico e greco), mentre Bernardo, come i suoi contemporanei, leggeva la Vulgata lati-na di san Girolamo, che a volte può essere diverso dalla corretta traduzione moderna. Solo la numerazione dei Salmi non segue la Vulgata, ma quella ebraica, più diffusa nel-le moderne edizioni della Bibbia (un numero più alto per i salmi dal 10 al 147).

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BREVE CRONOLOGIA della vita di Bernardo di Clairvaux

con riferimento ad alcune sue opere qui considerate 1090 ca Bernardo nasce a Fontaines-lès-Dijon (villaggio a 2 km da Digione), terzogeni-to di Tescelino, uno dei più importanti vassalli del duca di Borgogna, e di Aletta, figlia del potente feudatario borgognone Bernardo di Montbard; ha cinque fratelli (Guido, Ge-rardo, Andrea, Bartolomeo, Nivardo) e una sorella (Umbelina). Lo zio materno, Andrea di Montbard, diventerà templare nel 1129, gran maestro dell’Ordine dal 1153 alla morte (1156). 1097-98 Bernardo viene inviato alla scuola dei canonici di Saint-Vorles a Châtillon-sur-Seine dove studia le discipline del trivium (soprattutto grammatica e retorica). 1107-1108 Morte della madre Aletta. 1112-1113 Ingresso, con circa trenta parenti e amici, nel monastero di Cîteaux, fondato nel 1098 da Roberto di Molesmes. 1114 I trenta novizi emettono la professione solenne dinanzi a Stefano Harding, terzo abate di Cîteaux (dopo Roberto e Alberico). 1115 Cîteaux realizza con un gruppo di suoi monaci la sua quarta fondazione, Clair-vaux; Bernardo ne viene nominato abate. 1115-1116 Bernardo viene consacrato abate e sacerdote da Guglielmo di Champeaux, vescovo di Châlons-sur-Marne. 1119 ca. Tescelino, padre di Bernardo, entra nel monastero di Clairvaux e poco dopo vi muore (1120). 1122-24 (o 1128) Bernardo e Guglielmo di Saint Thierry (benedettino, dal 1121 abate di St.-Thierry) trascorrono un periodo insieme nell'infermeria di Clairvaux, è un’importante occasione di confronto su questioni teologiche e spirituali e Bernardo viene introdotto alla lettura e alla comprensione del Cantico dei Cantici. 1124 Lettera 359 contro Arnoldo di Morimond. 1127-29 Primo intervento di Bernardo in vicende esterne all'ambiente monastico: nella lite tra Luigi VI, re di Francia (1108-1137), e Stefano di Senlis, arcivescovo di Parigi, per la sostituzione del capitolo di Nôtre Dame (cfr. Ep 45-47). 1128 (13 gennaio) Apertura del concilio di Troyes durante il quale viene redatta la pri-ma regola dei Templari; 1130-38 Bernardo si schiera a favore del papa Innocenzo II (1130-1143) nello scisma contro l'antipapa Anacleto II (cfr. Ep 124-140, 189; Super Cantica 24). 1130 (ottobre) Al concilio di Étampes, convocato da Luigi VI, Bernardo espone pub-

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blicamente la propria posizione e orienta i partecipanti a favore di Innocenzo II. 1131 Viaggio di Bernardo a Liegi e in Aquitania; primo scontro a distanza tra Bernardo e Pietro Abelardo a proposito della sostituzione, operata dalle monache del Paracleto e ritenuta da Bernardo arbitraria, del termine coti-dianum con supersubstantialem nella recita del Pater noster. 1132-35 (o 1129-31) Liber ad milites Templi. 1133 Primo viaggio di Bernardo in Italia. 1135 inizio della composizione dei Sermones Super Cantica Canticorum. (febbraio-marzo) Viaggio di Bernardo in Germania; (marzo) Guglielmo di Saint-Thierry entra nell'ordine cistercense; (maggio) secondo viaggio di Bernardo in Italia; 1137-38 Terzo viaggio di Bernardo in Italia (cfr. Ep 144). 1139 Concilio Lateranense II al quale partecipa anche Bernardo; il concilio, dopo la fine dello scisma di Anacleto II, condanna gli errori dei seguaci di Pietro di Bruys (condan-nato al rogo a Saint-Gilles tra il 1132 e il 1133) e di Arnaldo da Brescia (che sarà impic-cato e il suo corpo bruciato a Roma nel 1155); 1140-1141 Attiva partecipazione di Bernardo al concilio di Sens per la condanna di di-ciannove proposizioni di Pietro Abelardo (Ep 187-194,327, 330-336, 338). 1142 Morte di Abelardo; Bernardo scrive a Ermanno vescovo di Costanza per invitarlo a cacciare Arnaldo da Brescia, rifugiatosi a Zurigo (cfr. Ep 195-196). 1143 (o 1144) Lettera a Bernardo di Evervino, prevosto dei premonstratensi di Stein-feld, sulla diffusione di una setta eretica (dalle caratteristiche catare) in Renania. 1145 (15 febbraio) Bernardo Pignatelli di Pisa, abate del monastero cistercense delle Tre Fontane “Ad Aquas Salvias” di Roma, è il primo cistercense ad essere eletto papa, con il nome di Eugenio III (cfr. Ep 237-238, 508); morirà nel 1153, come Bernardo; (maggio-giugno) Bernardo si reca in Linguadoca per combattere le idee eretiche dei ca-tari e del monaco Enrico (cfr. Super Cantica 65-66; Ep 241-242). (1° dicembre) Eugenio III invia al re di Francia Luigi VII (1137-1180) una bolla per l’organizzazione della crociata. 1146 (1 marzo) Eugenio III, con la bolla Universis fidelibus Dei, indice solennemente la seconda crociata e incarica Bernardo della sua predicazione in Francia, Baviera, Germania e Fiandre; (31 marzo) a Vézelay grande riunione per l'annuncio ufficiale della seconda Crociata (cfr. Ep 363).

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1147 (6 aprile) Bernardo riceve papa Eugenio III a Clairvaux; (22 aprile) Bernardo è a Parigi per la discussione, alla presenza di Eugenio III, del caso di Gilberto de la Porrée; il giudizio viene rinviato al concilio di Reims convocato per il 22 marzo 1148; scambio di lettere tra Bernardo e Ildegarda di Bingen (Ep 366). 1148 (marzo-aprile) Al concilio di Reims Bernardo viene incaricato di esporre i presun-ti errori teologici sulla Trinità di Gilberto de la Porrée, vescovo di Poitiers (cfr. Super Cantica 80); ma Gilberto non viene condannato; viaggio di Bernardo in Renania per contrastare la predicazione antisemita del monaco cistercense Radolfo (cfr. Ep 363, 365); disfatta dei Crociati in Terra Santa (cfr. De Consideratione II, 2); (8 settembre) muore Guglielmo di Saint-Thierry; 1148-53 De Consideratione ad Eugenium papam. 1150 (7 maggio) Nel concilio di Chartres viene conferito a Bernardo il comando di una nuova crociata (cfr. Ep 256, 364, 521); l'incarico viene confermato il 19 giugno da Eu-genio III, ma ben presto il progetto viene abbandonato; viaggio di Bernardo in Bretagna e forse in Normandia. 1153 (marzo o aprile) Viaggio di Bernardo a Metz; (8 luglio) a Tivoli muore papa Eugenio III; (20 agosto) a Clairvaux muore Bernardo; alla sua morte le fondazioni o affiliazioni claravallensi sono 167 su 345 monasteri ci-stercensi; 1174 (18 gennaio) Papa Alessandro III canonizza san Bernardo. 1830 (20 agosto) Papa Pio VIII proclama Bernardo Dottore della Chiesa.

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LODE DELLA NUOVA CAVALLERIA AI CAVALIERI DEL TEMPIO

A Ugo, cavaliere di Cristo e maestro della cavalleria di Cristo, Bernardo, abate di Clairvaux solo di nome: combatti la buona battaglia (2 Timoteo 4,7). Carissimo Ugo, per tre volte, se non mi sbaglio, mi hai chiesto di scrivere un’esortazione per te e i tuoi commilitoni e di lanciare la penna - dato che non mi è permessa la lancia - contro la tirannide dei nemici, affermando che vi sarei stato di non poco aiuto se vi avessi incoraggiato con uno scritto, non potendolo fare con le armi. Ho rimandato un po’ la cosa non perché la richiesta mi sembrasse poco importante, ma per-ché non mi si rimproverasse un consenso leggero e precipitoso, se da inesperto avessi preso su di me un compito che una persona migliore avrebbe potuto realizzare meglio, rendendo forse meno adeguata per colpa mia una cosa estremamente necessaria. Ma siccome sembrava che con questa attesa abbastanza lunga volessi eludere il compito e perché la mia non sembrasse cattiva volontà piuttosto che incapacità, alla fine ho fatto quel che ho potuto: giudichi il lettore se l’ho soddisfatto. Tuttavia anche se a qualcuno non piacerà affatto o sembrerà insufficiente, non me ne importerà; ciò che conta è che, nei limiti del mio sapere, non sono venuto meno al tuo desiderio. I. Esortazione ai cavalieri del Tempio l. Si è diffusa la notizia che da poco è nato un nuovo genere di cavalleria, e proprio in quella regione dove un tempo Cristo, nascendo dall’alto (Luca 1,78), abitò e fu visto con il suo corpo, perché dove allora scacciò con la potenza della sua mano (Isaia 10,13) i principi delle tenebre, anche adesso disperda e distrugga con la mano dei suoi forti i loro servitori, la gente senza fede (Efesini 2,2 e 5,6), realizzando ancorala redenzione del suo popolo e facendo sorgere di nuovo per noi una salvezza potente nella casa di Davide suo servo (Luca 1,68-69). Dicevo, un nuovo genere di cavalleria, sconosciuto ai secoli precedenti, che senza stancarsi combatte nello stesso tempo una doppia lotta, sia contro i nemici in carne ed ossa, sia contro gli invisibili spiriti malvagi (Efesini 6,12). E certo io non credo ci sia da stupirsi né ritengo raro che con le sole forze del corpo ci si opponga con valore al nemico. E non direi nemmeno straordinario - anche se lodevole - dichiarare guerra con forza d’animo ai vizi o ai demòni, visto che il mondo è pieno di monaci. Ma chi non riterrebbe degno di ogni ammirazione il fatto - con tanta evidenza insolito - che sia l’uomo materiale sia quello spirituale si cingano con forza ciascuno della propria spada, si fregino con onore della propria cintura? Senza paura e sicuro da ogni parte il cavaliere che riveste il corpo con la corazza di ferro e l’animo con quella della fede (cfr. 1 Tessalonicesi 5,8); difeso da entrambe le armi, non teme il demonio né l’uomo. E non ha paura della morte chi desidera morire. Infatti, che viva o che muoia, cosa può temere colui per il quale vivere è Cristo e morire un guadagno (Filippesi 1,21)? Vive con fiducia e volentieri per Cristo, ma preferisce annientarsi ed essere con Cristo: è meglio questo (Filippesi 1,23), infatti. Andate dunque avanti sicuri, cavalieri, e con animo intrepido cacciate via i nemici della croce di Cristo (Filippesi 3,18), sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù (Romani 8,38), ripetendovi in ogni pericolo: Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore (Romani 14,8). Con quanta gloria ritorneranno vittoriosi dalla battaglia! Quanto beati moriranno martiri in battaglia! Gioisci forte atleta se vivi e vinci nel Si-

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gnore; ma esulta di più e gloriati se morirai e ti unirai al Signore. La vita è ricca di frutti e la vittoria di gloria, ma a entrambe va anteposta a buon diritto una santa morte. Infatti se sono beati quelli che muoiono nel Signore (Apocalisse 14,13), non lo sono molto di più quelli che muoiono per il Signore? 2. Che uno muoia nel letto o in battaglia, sarà senza dubbio preziosa davanti al Si-gnore la morte dei suoi santi (Salmo 116,15), ma in battaglia è certamente tanto più preziosa quanto più gloriosa. La vita è tranquilla quando la coscienza è pura, la vita è tranquilla quando la morte è aspettata senza paura, anzi è desiderata come dolce ed è ac-cettata con devozione. O milizia davvero santa e sicura e assolutamente libera dal dop-pio pericolo che corrono spesso quei cavalieri per i quali la ragione del combattere non è Cristo. Quante volte infatti tu, che militi nella cavalleria del mondo, combatterai col timore di uccidere un nemico nel corpo e te stesso nell’anima, oppure di poter essere tu ucciso da lui, sia nel corpo sia nell’anima. Il pericolo o la vittoria per un cristiano si va-lutano dall’atteggiamento interiore. Se la causa di chi combatte è giusta, l’esito della battaglia non può essere cattivo, così come non può essere considerato buono il risulta-to, se non proviene da una causa buona e da una giusta intenzione. Se ti accadesse di es-sere ucciso con la volontà di uccidere un altro, moriresti da omicida. Se invece vinci e uccidi un uomo con la volontà di prevalere o di vendicarti, vivi da omicida. E non con-viene né al morto né al vivo né al vincitore né al vinto essere omicida. Che vittoria infe-lice se hai la prevalenza su un uomo ma soccombi al male e, dominato dall’ira o dalla superbia, inutilmente ti vanti di aver prevalso su un uomo. Vi è tuttavia chi uccide un uomo non per ansia di vendetta o per ambizione di vittoria, ma soltanto per difendersi. Ma nemmeno questa vittoria mi sembra buona, perché, tra i due mali, è meno grave mo-rire nel corpo che nell’anima. Se il corpo viene ucciso non è detto che muoia anche l’anima; solo l’anima che ha peccato morirà (Ezechiele 18,4). II. La cavalleria del mondo 3. Quale dunque il fine o il frutto di questa cavalleria del mondo - che non chiamerei milizia, ma malizia - se l’uccisore compie peccato mortale e l’ucciso muore per l’eternità? Infatti, per usare le parole di san Paolo, sia chi ara sia chi trebbia deve farlo nella speranza di riceverne i frutti (1 Corinzi 9,10). Invece, cavalieri, perché questa in-credibile pazzia, perché questa insopportabile furia di combattere con tante spese e fati-che, ma con nessun guadagno se non la morte o il delitto? Bardate i cavalli con seta e ricoprite le corazze con non so quali frange; dipingete le lance, gli scudi e le selle; orna-te le redini e gli speroni di oro, argento e gemme e con tanto sfarzo correte verso la mor-te con un furore di cui dovreste vergognarvi se non foste così stupidi. Queste sono inse-gne militari oppure ornamenti da donna? Credete che le armi dei nemici avranno rispet-to dell’oro, risparmieranno le gemme, non potranno trapassare la seta? Infine avete spe-rimentato di persona che tre cose sono necessarie prima di tutto a chi combatte: che il cavaliere sia valoroso, abile e prudente nel difendersi; senza troppi impacci nel cavalca-re; rapido a colpire. Voi fate crescere i capelli come le donne e ciò è un grosso ostacolo per la vista; fate inciampare i vostri piedi in camici lunghi e larghi; seppellite le mani morbide e delicate in maniche ampie e avvolgenti. Ma soprattutto - ciò che preoccupa di più la coscienza di un guerriero - il motivo per cui viene intrapreso questo tipo di milizia tanto pericolosa è leggero e frivolo. Niente altro tra di voi provoca guerre e suscita liti, se non un irrazionale moto di rabbia, o un’inutile fame di gloria, o qualunque brama di

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possesso. Per questi motivi non è affatto tranquillo né uccidere né morire. III. La nuova cavalleria 4. Invece i cavalieri di Cristo combattono tranquilli le battaglie del loro Signore, non temendo affatto di commettere peccato uccidendo un nemico né di correre un pericolo con la propria morte, dal momento chela morte subita o infetta per Cristo non è assolu-tamente un crimine e merita una grandissima gloria. Uccidendo si guadagna per Cristo, morendo si guadagna Cristo, che senza dubbio accetta volentieri la morte del nemico come vendetta e che più volentieri offre se stesso come consolazione al cavaliere. Il ca-valiere di Cristo uccide tranquillo, muore più tranquillo ancora. Giova a se stesso se muore, a Cristo se uccide. Infatti non senza motivo porta la spada: è al servizio di Dio (Romani 13,4) per punire i malfattori e premiare i buoni (1 Pietro 2,14). Quando uccide un malfattore non è certo omicida ma, per così dire, malicida, cioè vendicatore di Cristo contro quelli che si comportano male (cfr. Romani 13,4), ed è considerato difensore dei cristiani. Quando invece viene ucciso è sicuro che non è finito, ma arrivato. Dunque la morte che dà è un guadagno di Cristo, quella che riceve un guadagno suo. Nella morte del pagano il cristiano si gloria, perché Cristo è glorificato; nella morte del cristiano si mostra la liberalità del Re, che prende con sé il cavaliere per dargli la ricompensa. Sul pagano dunque si rallegrerà il giusto quando vedrà la vendetta; del cristiano diranno gli uomini: C’è un premio per il giusto, c’è Dio che fa loro giustizia sulla terra (Salmo 58,11-12). Tuttavia i pagani non dovrebbero essere uccisi, se in qualche altro modo si potesse impedire loro di vessare o di opprimere tanto i fedeli; ora invece è meglio che siano uccisi piuttosto che la verga dei peccatori sia lasciata sul destino dei giusti, per-ché i giusti non stendano la loro mano verso il male (Salmo 125,3). 5. Non è così? Se colpire con la spada non è mai permesso al cristiano, perché l’araldo del Salvatore ordinò ai soldati di accontentarsi delle loro paghe (Luca 3,14) e non proibì loro invece ogni tipo di servizio militare? Se invece, com’è vero, è permesso a tutti quelli stabiliti a ciò da Dio e che non abbiano fatto alcuna professione più elevata, da chi piuttosto che dalle loro mani e dal loro valore può essere difesa Sion, la città della nostra fortezza, per la protezione di tutti noi, perché, scacciati i trasgressori della legge di Dio, vi entri sicuro il popolo dei giusti (Isaia 26,2) che custodisce la verità? Con tranquillità d’animo possiamo dunque abbattere le genti che vogliono la guerra (Salmo 68,31) e fare a pezzi quelli che turbano (Galati 5,12) la nostra pace e disperdere dalla città del Signore tutti gli operatori di iniquità (Salmo 101,8) che ardono dalla voglia di prendersi le inestimabili ricchezze del popolo cristiano riposte in Gerusalemme, profa-nare i luoghi santi e possedere in eredità il santuario di Dio. Siano sguainate le due spa-de dei fedeli contro le teste dei nemici per distruggere chiunque si levi contro la cono-scenza di Dio (2 Corinzi 10,4-5), che è la fede dei cristiani, perché non dicano le genti: dov’è il loro Dio? (Salmo 114,2). 6. Espulsi i pagani, il Signore ritornerà nella sua eredità e nella sua casa, della quale dice irato nel Vangelo: Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta (Matteo 23,38), e per mezzo del profeta Geremia così si lamenta: Ho lasciato la mia casa, ho abbandona-to la mia eredità (Geremia 12,7); realizzerà la parola del profeta: Il Signore ha redento il suo popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sul monte Sion e gioiranno dei beni del Signore (Geremia 31,11.12). Rallegrati, Gerusalemme, e sappi che è giunto il

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tempo in cui sarai visitata. Gioite e innalzate lodi tutte insieme, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme, il Signore ha levato il suo santo braccio davanti agli occhi di tutti i popoli (Isaia 52,9-10). Vergine d’Israele, eri caduta e non c’era chi ti risollevasse. Alzati ormai, scuotiti dalla polvere, vergine prigioniera figlia di Sion (Isaia 52,2). Alzati, ti dico, e sta’ su, dritta (Baruc 5,5), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio (Baruc 4,36). Non sarai chiamata più dere-litta, e la tua terra non sarà più chiamata deserto, perché il Signore si è compiaciuto in te e la tua terra sarà abitata (Isaia 62,4). Volgi intorno i tuoi occhi e guarda: tutti que-sti si sono radunati e sono venuti da te (Isaia 49,18). Questo è l’aiuto mandato a te dal Santo (cfr. Salmo 20,3). Per mezzo di questi per te si è ormai realizzata del tutto quell’antica promessa: Ti innalzerò per i secoli, come gioia di generazione in genera-zione, e succhierai il latte dei popoli e ti allatterai alla mammella dei re (Isaia 60,15); e ancora: Come una madre consola i suoi figli, così io vi consolerò e in Gerusalemme sa-rete consolati (Isaia 66,13). Vedete con che ricca testimonianza degli antichi è attestata la nuova cavalleria e che cosa, così come abbiamo udito, vediamo realizzata nella città del Signore della forza (Salmo 48,9)? Purché l’interpretazione letterale non pregiudichi il senso spirituale: cioè purché manteniamo la speranza per l’eternità di tutto ciò che prendiamo dalle parole dei Profeti applicandolo al nostro tempo, affinché di fronte a ciò che si vede non svanisca ciò che si crede e la miseria dei fatti non sminuisca la ricchez-za della speranza, la realtà delle cose presenti non sia la scomparsa di quelle future. Al contrario, la gloria temporale della città terrena non distrugge i beni del cielo, ma li ga-rantisce, a patto che non dubitiamo affatto che questa città è figura di quella che è la no-stra madre nei cieli (Galati 4,26). IV. Lo stile di vita dei cavalieri del Tempio 7. Ma per l’emulazione o per la vergogna dei nostri cavalieri che sono al servizio non di Dio, ma del diavolo, parliamo ora brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di Cristo e di come si comportino in guerra o in pace, perché risulti chiaramente quanto siano differenti tra loro la cavalleria di Dio e quella del mondo. Per prima cosa non manca mai la disciplina e l’obbedienza non viene mai disprezzata, poiché, secondo la testimonianza della Scrittura, il figlio indisciplinato morirà e opporsi è un peccato di sortilegio e non volere assoggettarsi è quasi un delitto di idolatria (1 Samuele 15,23). Si va e si torna a un cenno del superiore, si indossa ciò che egli ha donato e non si pre-tende altro vestito o alimento. Nel vitto e nel vestiario ci si guarda da tutto ciò che è su-perfluo, pensando solo al necessario. Si vive in comune, con uno stile gioioso e sobrio, senza mogli e senza figli. E perché non manchi nulla della perfezione evangelica, abita-no nella stessa casa seguendo una sola regola senza proprietà privata, attenti a conser-vare l’unità di spirito nel vincolo della pace (Efesini 4,3). Si potrebbe dire che tutta la moltitudine ha un cuore solo e un’anima sola (Atti 4,32), dato che ognuno si preoccupa di non seguire affatto la propria volontà, ma piuttosto di obbedire a chi comanda. In nessun momento siedono oziosi o vanno in giro a curiosare10 ma sempre, quando non vanno fuori - il che avviene proprio raramente -, per non mangiare gratis il pane (2 Tes-salonicesi 3,8), riparano gli strappi delle armi o delle vesti, rimettono a nuovo quelle vecchie, sistemano quelle in disordine e infine eseguono quanto impone la volontà del Maestro o la necessità della comunità. Tra di loro non viene preferita alcuna condizione

10 Alla fine del periodo precedente e all’inizio di questo Bernardo si richiama alla Regola di san Benedet-to, capp. 3 e 48.

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(cfr. Romani 2,11): ci si affida al migliore, non al più nobile. Si prevengono a vicenda nell’onorarsi (Romani 12,10); portano l’uno i pesi dell’altro, per adempiere così la leg-ge di Cristo (Galati 6,2). Una parola insolente, un’occupazione inutile, un riso smodato, un mormorio anche tenue o delle chiacchiere, se vengono colti, non vengono mai lasciati impuniti11. Dete-stano gli scacchi e i dadi, odiano la caccia e non si divertono, come di solito, con l’uccellagione. Rifiutano e aborriscono come cose inutili e pazze menzogne (Salmo 39,5) gli attori, i maghi, i cantastorie, le canzoni oscene e gli spettacoli di giochi. Porta-no i capelli corti, sapendo, secondo san Paolo, che è una vergogna per il maschio far crescere la chioma (1 Corinzi 11,14). Mai eleganti, di rado lavati, piuttosto ispidi per i capelli trascurati, sporchi di polvere, scuri di pelle per l’armatura e il forte calore. 8. Quando poi si avvicina la battaglia, si proteggono dentro con la fede, fuori col fer-ro, non con l’oro, perché, armati e non ornati, nei nemici incutano terrore, non provo-chino l’avidità. Vogliono avere cavalli forti e veloci, non bardati di stoffe colorate o di piastre preziose, pensando alla battaglia, non alla parata, alla vittoria, ma non alla gloria; e curando di suscitare paura, non ammirazione. Quindi si ordinano e si schierano in campo non turbolenti o impetuosi per eccessiva leggerezza, ma con ponderatezza e con ogni cautela e prudenza, come è stato scritto a proposito dei padri. Come veri Israeliti si avviano tranquilli alla battaglia. Ma quando si arriva al combattimento, allora, messa da parte la calma di prima, si precipitano contro gli avversari come se dicessero: Non odio forse quelli che ti odiano, Signore, e non mi struggo davanti ai tuoi nemici? (Salmo 138,21). Reputano i nemici come pecore e, anche se sono pochissimi, non hanno mai paura della loro barbara crudeltà o del loro numero soverchiante, perché non presumono delle proprie forze, ma sperano la vittoria dalla potenza del Signore degli eserciti. Han-no piena fiducia che per lui sia facile, secondo le parole dei Maccabei, imprigionare molti nelle mani di pochi e che davanti al Dio dei cieli non faccia differenza portare la liberazione in molti o in pochi: perché la vittoria in guerra non dipende dalla grandez-za dell’esercito, ma dal cielo viene la forza (1 Maccabei 3,18-19). Lo hanno sperimen-tato molto spesso, tanto che il più delle volte uno solo ha quasi inseguito mille e due hanno messo in fuga diecimila (Deuteronomio 32,30). Infine, in maniera in certo senso ammirevole e singolare, si mostrano più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, così che quasi non so come pensare di chiamarli, cioè se monaci o cavalieri: ma forse è più giu-sto dar loro tutti e due i nomi, perché è noto che a essi non manca né la mansuetudine del monaco né la forza del cavaliere. Cosa bisogna dire di ciò, se non che dal Signore è stato fatto questo ed è meraviglioso ai nostri occhi (Salmo 118,23)? Tali servi si è scelto Dio e li ha radunati dai confini della terra tra i più forti di Israele, che custodiscono con vigilanza e fedeltà il letto del vero Salomone, il sepolcro, tutti impugnanti la spada ed espertissimi nella guerra (Cantico 3,7-8). V. Il Tempio 9. Il Tempio di Gerusalemme, nel quale abitano insieme, come costruzione non è certo pari a quello antico e famosissimo di Salomone, ma non è inferiore per la gloria. Infatti tutta la magnificenza di quello consisteva in cose corruttibili: l’oro e l’argento, la perfetta squadratura delle pietre, i legni di diverse qualità; invece tutto l’ornamento e lo

11 Cfr. la Regola di san Benedetto, cap. 4.

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splendore dell’amabile bellezza di questo è la pia religiosità e il ben regolato stile di vita degli abitanti. Quello era da ammirare per i vari colori; questo da venerare per le diverse virtù e le azioni sante: alla casa di Dio infatti si addice la santità, egli non si compiace tanto dei marmi lucidi quanto dei buoni costumi e ama le menti pure più delle pareti d’oro. Tuttavia anche questo Tempio è decorato, ma con armi, non con gemme, e le pa-reti sonori coperte, invece che con le antiche corone d’oro, con scudi che pendono tutt’intorno; al posto dei candelabri, dei turiboli e dei vasi, la casa è difesa da ogni parte con redini, selle e lance. Come tutte queste cose dimostrano chiaramente, i cavalieri fer-vono di quello stesso zelo per la casa di Dio, dal quale una volta fu fortemente infiam-mato il loro Capo: Gesù, armata la sua mano non con la spada ma con una frusta che aveva fatto con delle cordicelle, entrò nel Tempio, ne espulse i mercanti, sparse il dena-ro dei cambiavalute e abbatté i tavoli dei venditori di colombe, giudicando assai inde-gno che la casa di preghiera (Matteo 21,12-13) fosse contaminata da simili affaristi. Spinto dunque dall’esempio del suo grande re, l’esercito devoto resta in attesa nella san-ta casa con i cavalli e le armi, ritenendo molto più indegno e di gran lunga più intollera-bile che le cose sante siano profanate dagli infedeli che infestate dai mercanti; e, respin-ta dalla casa come dagli altri luoghi santi tutta la sporca e tirannica rabbia degli infedeli, essi al suo interno giorno e notte sono occupati in compiti tanto onesti quanto utili. Fan-no a gara a onorare il Tempio di Dio con continui e sinceri ossequi, immolando in esso con perenne devozione non certo carni di animali, secondo il rito degli antichi, ma dav-vero offerte pacifiche (Esodo 32,6): l’amore fraterno, la sottomissione devota, la povertà volontaria. 10. Queste cose avvengono a Gerusalemme e tutto il mondo ne è colpito. Le isole ascoltano e i popoli osservano da lontano (Isaia 49,1) e ribollono da Oriente e Occiden-te, come un torrente che sommerge la gloria dei pagani (Isaia 66,12) e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio (Salmo 45,5). Si osserva con grande gioia e avvie-ne con grande utilità che, fra tanti uomini che affluiscono al Tempio, ben pochi non so-no scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi, spergiuri e adulteri (cfr. 1 Timoteo 1,9-10), sicché la loro partenza non solo produce senza dubbio un bene, ma provoca una doppia gioia, dal momento che essi con la loro andata allietano i loro vicini, col loro ar-rivo quelli che si affrettano a soccorrere. Giovano dall’una e dall’altra parte, non solo proteggendogli uni, ma non facendo più violenza agli altri. Così si rallegra l’Egitto nel-la loro partenza (Salmo 105,38), ma della loro protezione si rallegra altrettanto il monte Sion ed esultano le figlie di Giuda (Salmo 48,12). A ragione si gloria il primo di essere liberato dalla loro mano violenta, il secondo ancor di più si gloria di esserlo grazie alla loro mano. Il primo volentieri perde i suoi crudelissimi devastatori, il secondo accoglie con gioia i suoi fedelissimi difensori, e dove Sion si consola con tanta dolcezza, quello viene abbandonato con suo estremo vantaggio. Così Cristo sa vendicarsi contro i suoi nemici, che non solo su di loro, ma anche per mezzo di loro spesso trionfa in modo tan-to più glorioso quanto più potente. Con gioia e con utilità comincia ormai ad avere come difensori quelli che a lungo sopportò come avversari e fa del nemico un cavaliere colui che un tempo di Saulo persecutore fece Paolo predicatore. Perciò non mi meraviglio se anche la corte del cielo, secondo la testimonianza del Salvatore, esulta di più per un peccatore che fa penitenza che per moltissimi giusti che non hanno bisogno di peniten-za (Luca 15,7), dato che la conversione di un peccatore e di un malvagio senza dubbio giova a tante persone, quante quelle cui aveva nuociuto la sua vita precedente.

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11. Salve dunque città santa, che lo stesso Altissimo si è santificato come suo taber-nacolo (Salmo 46,5), affinché molti si salvassero in te e per te. Salve città del gran Re (Salmo 48,3), dalla quale fin dall’inizio non sono quasi mai mancati miracoli nuovi e lieti per il mondo. Salve signora delle genti, prima delle province (Lamentazioni 1,1), possesso dei patriarchi, madre dei profeti e degli apostoli, iniziatrice della fede, gloria del popolo cristiano, che dall’inizio Dio ha sempre sopportato che fosse assalita, perché ciò fosse occasione di valore e di salvezza per gli uomini forti. Salve terra della promes-sa, che offri gli alimenti della vita, un tempo facendo scorrere latte e miele (cfr. Esodo 3,8; 13,5, ecc.) solo per i tuoi abitanti, ora offrendo al mondo intero i rimedi della sal-vezza. Terra buona, buonissima, che, accogliendo in quel tuo fecondissimo seno il gra-no del cielo dall’arca del cuore del Padre, hai prodotto dal seme divino una grande mes-se di martiri, e inoltre da ogni altro genere di fedeli come fertile campo hai fatto fruttare in molti modi su tutta la terra il trenta, il sessanta, il cento (cfr. Matteo 13,8). Per cui saziati con gioia e nutriti magnificamente dall’abbondanza della tua dolcezza (Salmo 31,20), quelli che ti hanno vista spandono dappertutto il ricordo della ricchezza della tua soavità e fino all’estremità della terra parlano della grandezza della tua gloria a quelli che non ti hanno vista e narrano le meraviglie (Salmo 145,5-7) che avvengono in te. Cose gloriose si dicono di te, città di Dio (Salmo 87,3), ma anche noi dobbiamo dire poche cose semplici di quelle delizie che hai in abbondanza, a lode e gloria del tuo no-me. VI. Bethleem 12. Prima di tutto, per il ristoro delle anime sante, considera Bethleem, la casa del pane, dove con il parto della Vergine per la prima volta apparve quel pane vivo che era disceso dal cielo (Giovanni 6,51). Sempre là viene mostratala mangiatoia ai pii animali e nella mangiatoia il fieno del prato virginale, perché così il bue conosca il suo padrone e l’asino la mangiatoia del suo Signore (Isaia 1,3). Ogni uomo infatti è fieno e tutta la sua gloria è come il fiore del fieno (Isaia 40,6). Ma poiché l’uomo, non comprendendo l’onore in cui è stato creato, è stato paragonato agli animali sciocchi ed è divenuto si-mile a essi (Salmo 49,13), il Verbo, pane degli angeli, si è fatto cibo degli animali, per-ché abbia il fieno di carne da ruminare chi si è del tutto disabituato a cibarsi di quel pa-ne, fino a quando, restituito alla dignità primitiva grazie all’uomo Dio e da animale di nuovo mutato in uomo, possa dire con Paolo: Anche se abbiamo conosciuto Cristo se-condo la carne, ora non lo conosciamo più così (2 Corinzi 5,16). Per quanto ritengo che nessuno possa dire veramente ciò, se non abbia prima ascoltato, come Pietro, quelle pa-role di Cristo, che è la Verità: Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita; la carne invece non serve a nulla (Giovanni 6,64). Del resto chi trova la vita nelle parole di Cri-sto, non cerca più la carne ed è del numero dei beati, che non hanno visto e hanno cre-duto (Giovanni 20,29). Infatti il latte serve solo al bambino (cfr. 1 Corinzi 3,1-2) e il fieno solo all’animale (cfr. Genesi 42,27). Chi invece non trova inciampo nella Parola, è un uomo perfetto (Giacomo 3,2), adatto a nutrirsi di cibo solido (cfr. Ebrei 5,11-14) e, anche se col sudore del suo volto (Genesi 3,19), mangia il pane della Parola senza suo danno. Ma in più, sicuro e senza scandalo parla della sapienza di Dio solo tra i perfetti (1 Corinzi 2,6), preparando cose spirituali per uomini spirituali (1 Corinzi 2,13), men-tre invece ai bambini o agli animali è prudente, secondo la loro capacità, proporre sol-tanto Gesù, e Gesù crocifisso (1 Corinzi 2,2). Tuttavia un solo e identico cibo, che viene soave dai pascoli del cielo, è ruminato dall’animale e mangiato dall’uomo e dà all’uomo

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le forze e al bambino il nutrimento. VII. Nazareth 13. Si vede anche Nazareth, che si interpreta come fiore, dove quel Dio bambino che era nato a Bethleem fu nutrito come il frutto che cresce nel fiore, perché l’odore del fio-re precedesse il sapore del frutto e dalle narici dei profeti si infondesse come un santo liquore nelle bocche degli apostoli e, mentre gli ebrei restavano contenti del tenue odo-re, ristorasse i cristiani col suo forte sapore. Tuttavia aveva percepito questo fiore Nata-naele, perché profumava soave sopra ogni aroma (Cantico 4,10), per cui diceva: «Da Nazareth ci può essere qualcosa di buono?». Ma non contento affatto della sola fra-granza, seguì Filippo che gli rispose: «Vieni e vedi» (Giovanni 1,46). Anzi, tanto attratto dal diffondersi di quella meravigliosa dolcezza e reso più avido del sapore solo da un sorso di quel buono odore, seguendolo stesso odore si preoccupò di arrivare senza indu-gio fino al frutto, desideroso di sperimentare più pienamente ciò che aveva tenuemente preavvertito e di gustare di persona ciò che aveva odorato senza vederlo. Vediamo se anche l’olfatto di Isacco abbia mai presagito qualcosa di ciò che stiamo trattando. Così dice di lui la Scrittura: Appena sentì il profumo delle sue vesti senza dubitare che fosse Giacobbe disse: «Ecco l’odore di mio figlio come l’odore di un campo abbondante che il Signore ha benedetto» (Genesi 27,27). Sentì il profumo del vestito, ma non riconobbe la persona che lo indossava, e, rallegrato dal solo odore esteriore della veste, come di un fiore, quasi non gustò la dolcezza del frutto interiore, dato che non arrivò a conoscere né il figlio che aveva scelto, né la più grande realtà nascosta. Che significa ciò? La lettera è la veste dello spirito, la carne quella del Verbo. Ma nemmeno adesso gli ebrei comprendono il Verbo nella carne, la divinità nell’uomo, né sotto il rivestimento della lettera riconoscono il significato spirituale, e palpando da fuori la pelle di un capretto, simbolo dell’antico antenato che commise il primo peccato, non arrivano alla nuda verità. Infatti chi veniva nona fare, ma a togliere il peccato, apparve non nella carne del peccato, ma a somiglianza della carne del pecca-to (Romani 8,3), affinché, come disse egli stesso, quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi (Giovanni 9,39). Ingannati da questa somiglianza gli ebrei, ciechi ancora oggi, benedicono profetica-mente colui che non conoscono, poiché ignorano chi sia colui del quale leggono conti-nuamente nelle Scritture e nei miracoli, e non comprendono chi profanano con le pro-prie mani, legandolo, flagellandolo, prendendolo a pugni, nemmeno quando risorge. Se infatti lo avessero conosciuto, non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria (1 Corinzi 2,8). Percorriamo in breve anche gli altri luoghi santi, se non tutti, poiché non possiamo ammirarli singolarmente, almeno alcuni, ricordando brevemente i più famosi. VIII. D Monte degli Ulivi e la Valle di Giosafat 14. Si sale sul monte degli Ulivi, si scende nella valle di Giosafat, per pensare alla ricchezza della misericordia di Dio, senza mai nascondersi l’orrore del giudizio. Infatti, anche se nella sua grande misericordia (Daniele 9,18) è molto facile al perdono (Isaia 55,7), sono tuttavia un immenso abisso i suoi giudizi (Salmo 36,7), con i quali si dimo-stra veramente terribile verso i figli degli uomini (Salmo 66,5). Anche Davide da un lato indica il simbolico monte degli Ulivi quando dice: Salverai uomini e animali Signore, come hai moltiplicatola tua misericordia, Dio (Salmo 36,7-8); ma nello stesso salmo,

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d’altro lato, ricorda anche la valle del giudizio, dicendo: Non venga su di me il piede della superbia e non mi muova la mano del peccatore (Salmo 36,12), e confessa di ave-re un grande terrore del precipizio di quella valle, quando pregando in un altro salmo di-ce così: Trafiggi le mie carni col tuo timore, poiché sono spaventato dai tuoi giudizi (Salmo 119,120). Il superbo precipita in questa valle e va in rovina; l’umile vi discende e non corre alcun pericolo. n superbo scusa il suo peccato, l’umile se ne accusa, sapendo che Dio non giudica due volte la stessa colpa e che se giudicheremo noi stessi non sa-remo giudicati (1 Corinzi 11,31). 15. Inoltre il superbo, non pensando quanto sia orribile cadere nelle mani del Dio vi-vente (Ebrei 10,31), tira fuori facilmente parole malvagie per trovare scuse ai suoi pec-cati (Salmo 141,4). È davvero una grande malvagità non avere pietà di te stesso e re-spingere l’unico rimedio al peccato, la confessione, covandoti il fuoco in seno (Proverbi 6,27) piuttosto che gettarlo via, senza prestare ascolto al consiglio del Sapiente che dice: Abbi pietà della tua anima tu che sei gradito a Dio (Siracide 30,24). Perciò chi è cattivo con se stesso, con chi può essere buono? (Siracide 14,5) Adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo sarà cacciato fuori (Giovanni 12,31): fuori dal tuo cuore, se tu stesso, umiliandoti, ti giudicherai. Il giudizio del cielo avverrà quan-do dall’alto lo stesso cielo, insieme alla terra, sarà chiamato a separare il popolo (Sal-mo 50,4) del principe di questo mondo, e nel giudizio devi temere di non essere gettato con lui e i suoi angeli (Matteo 25,41), se sarai trovato non giudicato. Del resto l’uomo spirituale, che tutto giudica, non è giudicato da nessuno (1 Corinzi 2,15). Perciò dunque il giudizio comincia dalla casa di Dio (1 Pietro 4,17), per ché il giudice, quando verrà, trovi già giudicati i suoi, che egli conosce, e allora non abbia più nulla da giudicare di loro quando devono essere giudicati coloro che non condividono la fatica e i tormenti degli uomini (Salmo 73,5). IX. Il Giordano 16. Come è lieto il Giordano, che si gloria di essere stato consacrato con il battesimo di Cristo, quando accoglie in sé i cristiani! Certamente mentì quel lebbroso della Siria che preferì non so quali acque di Damasco alle acque di Israele (cfr. 2 Re 5,12)12 dal momento che il nostro Giordano ha dato prova tante volte del suo devoto servizio a Dio quando, fermando miracolosamente la sua corrente, ha offerto un passaggio asciutto nel suo letto sia a Elia (cfr. 2 Re 2,1-8), sia a Eliseo (cfr. 2 Re 2,13-14), sia anche - per ri-cordare un fatto più antico - a Giosué e a tutto il popolo (cfr. Giosuè 3). E poi, quale fiume è più importante di questo, che la stessa Trinità ha consacrato a sé con una sua chiara presenza? Il Padre fu udito, lo Spirito Santo visto, il Figlio vi fu anche battezzato. Perciò per volere di Cristo tutto il popolo fedele sperimenta nell’anima quella stessa guarigione che Naaman sentì nel corpo per la parola del profeta Eliseo. X. Il luogo del Calvario 17. Si esce da Gerusalemme verso il luogo del Calvario (Giovanni 19,17), dove il vero Eliseo, deriso da ragazzi stupidi (cfr. 2 Re 2,23), ha comunicato il riso eterno ai suoi, dei quali dice: Ecco io e i miei ragazzi che mi ha dato Dio (Isaia 8,18), i ragazzi buoni che, in contrasto con quelli che fanno il male, il salmista esorta alla lode dicendo: Lodate il

12 Si tratta di Nàaman, la cui guarigione è narrata nel cap. 5 di 2 Re.

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Signore, ragazzi, lodate il nome del Signore (Salmo 113,1), finché nella bocca dei santi bambini e lattanti si compirà la lode (Salmo 8,3) che era caduta dalla bocca degli invi-diosi, di quelli dei quali così si lamenta: Ho nutrito e fatto crescere dei figli, ma essi mi hanno disprezzato (Isaia 1,2). Così salì sulla croce il nostro uomo calvo, esposto al mondo per il bene del mondo; realizzando la giustificazione dei peccati (Ebrei 1,3) col viso nudo (2 Corinzi 3,18) e la fronte scoperta, non si vergognò per l’ignominia di una morte infamante e dura e non si spaventò di quella pena, per strapparci dall’eterna ver-gogna, per restituirei alla gloria. E non è strano: di che cosa avrebbe dovuto vergognarsi lui, che ha lavato i nostri peccati (Apocalisse 1,5) non come l’acqua che scioglie lo sporco trattenendolo in sé, ma come il raggio di sole che asciuga mantenendo la sua pu-rezza? Sì, è la sapienza di Dio che tocca ogni cosa grazie alla sua purezza (Sapienza 7,24). XI. Il sepolcro 18. Il sepolcro ha come il primato tra i luoghi santi e desiderati: si sente più devozio-ne dove Gesù riposò morto che dove passò da vivo e commuove di più il ricordo della sua morte che della sua vita. Forse perché la morte sembra più dura e la vita più dolce, forse perché alla debolezza umana piace di più la pace del sonno che la fatica dell’agire, la sicurezza della morte che il giusto cammino della vita. Per me la vita di Cristo è la regola del vivere, la morte la liberazione dalla morte. La sua vita ha istruito la vita, la sua morte ha distrutto la morte. La sua vita è stata laboriosa, ma la sua morte preziosa; ed entrambe estremamente necessarie. Infatti come potrebbe giovare la morte di Cristo a chi vive nell’ingiustizia o la sua vita a chi muore nella dannazione? Forse la morte di Cristo libera dalla morte eterna chi ancora vive male fino alla morte? Forse la santità della sua vita ha liberato i santi padri morti prima di Cristo? Infatti è scritto: Qual è l’uomo che vivrà e non vedrà la morte, strapperà la sua anima dalla mano dell’inferno? (Salmo 89,49). Ora dunque, poiché entrambe le cose ci erano necessarie, sia vivere pia-mente, sia morire con sicurezza, vivendo ha insegnato a vivere, morendo ha reso sicura la morte, poiché è stato nel sepolcro nell’attesa di risorgere e ha creato per quelli che muoiono la speranza di risorgere. Ma ha aggiunto anche un terzo beneficio, senza il quale gli altri non avrebbero avuto valore: ha perdonato i peccati. A che potrebbe giova-re infatti per la vera e somma beatitudine la vita più retta o più lunga a chi fosse tenuto legato anche al solo peccato originale? Prima c’è stato il peccato, la morte è una conse-guenza, per cui se l’uomo lo avesse evitato non avrebbe provato mai la morte. 19. Perciò peccando ha perso la vita e ha trovato la morte, sia perché già prima Dio aveva detto così, sia perché senza alcun dubbio era giusto che, se avesse peccato, l’uomo morisse. Infatti cosa poteva essere più giusto che ricevere il taglione? Dio è la vita dell’anima e l’anima., è la vita del corpo. Peccando volontariamente, col suo volere ha perso la vita, senza suo volere perda anche la capacità di dare la vita. Ha respinto spontaneamente la vita quando non volle vivere; non sia in grado di darla a chi o quando vorrà. Non ha voluto essere retta da Dio; non possa reggere il corpo. Se non obbedisce a chi è superiore, perché deve comandare a chi è inferiore? Il Creatore ha trovato la sua creatura ribelle a sé; l’anima trovi ribelle a sé la sua serva. L’uomo è stato trovato tra-sgressore della legge divina; anche lui trovi nelle sue membra un’altra legge, che lotta con la legge della sua mente e lo fa prigioniero della legge del peccato (Romani 7,23). Il peccato, come è scritto, pone una separazione tra noi e Dio; anche la morte pone una

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separazione tra il nostro corpo e noi. L’anima non ha potuto essere divisa da Dio se non peccando, il corpo non può esserlo da lei se non morendo. È una punizione troppo dura per l’anima subire dal sottomesso la stessa separazione che prima aveva osato contro il creatore? No, non c’è niente di più congruente che la morte abbia procurato la morte, la morte dello spirito quella del corpo, la morte colpevole quella come pena, la morte vo-lontaria quella di necessità. 20. L’uomo dunque era stato condannato, secondo le sue due nature, a questa doppia morte, una spirituale e volontaria, l’altra corporale e necessaria; a entrambe ha posto ri-medio con amore e potenza il Dio uomo per mezzo della sua unica morte corporale e volontaria e con quella sua unica morte ha distrutto entrambe le nostre. A buona ragio-ne: infatti, senza aver commesso la colpa, si è assunto la pena di entrambe le nostre morti, quella spirituale compenso della colpa, quella corporale debito della pena, e con la sua morte volontaria e soltanto nel corpo ci ha mèritato la vita e la giustizia. Se, in ca-so contrario, non avesse patito con il corpo, non avrebbe saldato il debito; se non fosse morto volontariamente, quella morte non avrebbe avuto compenso. Ora, come si è detto, il compenso della morte è il peccato13 e il debito del peccato la morte, ma se Cristo ha rimesso il peccato ed è morto per i peccatori, ormai il compenso è annullato e il debito è saldato. 21. Ma come sappiamo che Cristo può rimetterei peccati? Senza dubbio per il fatto che è Dio e può tutto ciò che vuole. Ma come sappiamo che è Dio? Lo provano i mira-coli: infatti compie opere che nessun altro può fare. Per non parlare degli oracoli dei profeti e della testimonianza della voce del Padre venuta giù dal cielo su di lui dalla magnifica gloria (2 Pietro 1,17). Allora se Dio è per no chi è contro di noi? (Romani 8,31) Se è Dio che giustifica, chi è che può condannare? (Romani 8,33-34). Se è lui, non un altro, a cui ogni giorno ci confessiamo dicendo: Contro te solo ho peccato (Sal-mo 51,6), chi meglio, anzi chi altro può rimettere quanto è stato peccato contro di lui? Come non può lui, che può tutto? Io, se voglio, posso perdonare il male fatto contro di me e Dio non potrebbe rimettere quanto commesso contro di sé? Se dunque l’onnipotente può rimettere i peccati e se lo può lui solo, contro di cui solo si pecca, beato l’uomo cui egli stesso non imputerà il peccato (Salmo 32,2). Abbiamo imparato così che Cristo con la potenza della sua divinità ha potuto sciogliere i peccati. 22. Della sua volontà di scioglierli chi può dubitare? Infatti lui che ha vestito la no-stra carne e ha subito la nostra morte, si può pensare che negherà a noi la sua giustizia? Lui che volontariamente si è incarnato, volontariamente ha patito, volontariamente è stato crocifisso, potrà trattenere da noi soltanto la giustizia? Si ve de chiaramente, dun-que, che quanto ha potuto come Dio ha voluto come uomo. Ma ancora, da dove traiamo fiducia che ha eliminato anche la morte? Sicuramente dal fatto che lui, che non l’ha me-ritata, l’ha subita. Per qual motivo sarebbe di nuovo preteso da noi ciò che lui ha già pa-gato per noi? Lui che ha sopportato il compenso del peccato, donandoci la sua giustizia, ha pagato il debito della morte e ha ridato la vita. Morta la morte, ritorna la vita, così

13 Lasciandosi andare alla ripetizione degli stessi termini, con veri e propri giochi di parole, qui Bernardo usa un’espressione che sembra impropria, anche in relazione a quanto scritto da lui; eppure ritengo che non si possa tradurre diversamente, come altri hanno invece fatto (ad es. COSIMO DAMIANO FONSECA, in Opere di san Bernardo, cit. p. 469: «La conseguenza del peccato è la morte»), poiché in latino la lettura mi sembra chiarissima: «Mortis meritum est peccatum et peccati debitum mors».

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come, eliminato il peccato, torna la giustizia. Nella morte di Cristo la morte è messa in fuga e la giustizia di Cristo ci viene attribuita. Ma come ha potuto morire chi era Dio? Perché era anche uomo. Ma in che modo la morte di quell’uomo ha avuto valore per un altro? Perché era anche un uomo giusto. Certo, dunque, essendo uomo ha potuto morire, essendo giusto ha dovuto farlo non gratis. Infatti un peccatore non può pagare il debito della morte per un altro peccatore, perché ognuno muore per la propria colpa. Chi inve-ce non ha l’obbligo di morire per sé, lo deve forse fare senza utilità per un altro? Quanto è più indegno che muoia chi non ha meritato la morte, tanto è più giusto che viva colui per il quale muore. 23. «Ma», si potrebbe dire, «che giustizia è che un innocente muoia per un empio?». Non è giustizia, ma misericordia. Se fosse giustizia non morirebbe gratis, ma per il suo debito. Se morisse per il suo debito, morirebbe certo lui, ma quello per il quale muore non vivrebbe. Se però non è giustizia, tuttavia non è contro giustizia, altrimenti Dio non potrebbe essere allo stesso tempo giusto e misericordioso. «Ma anche se il giusto può senza ingiustizia pagare per il peccatore, in che modo uno solo può pagare per molti? Infatti potrebbe sembrare sufficiente secondo giustizia che uno solo, morendo, restitui-sca la vita solo a un altro». A ciò può rispondere l’apostolo Paolo, che dice: Come infatti per la colpa di uno solo su tutti gli uomini è venutala condanna, così per la giustizia di uno solo su tutti gli uomini è venutala giustificazione per la vita. Come infatti per la di-sobbedienza di un solo uomo molti sono stati costituiti peccatori: così anche per l’obbedienza di un solo uomo molti saranno costituiti giusti (Romani 5,18-19). Ma allo-ra uno solo ha potuto restituire a molti la giustizia e non ha potuto restituire la vita? Per un solo uomo - dice Paolo - la morte e per un solo uomo la vita. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti avranno la vita (1 Corinzi 15,21-22). Quindi? Uno solo ha peccato e tutti sono ritenuti colpevoli, e invece l’innocenza di uno solo sarà attribuita solo a un altro innocente? Il peccato di uno solo ha procurato la morte a tutti e la giustizia di uno solo restituirà la vita solo a uno? La giustizia di Dio ha avuto più for-za a condannare che a restaurare? O ha potuto più Adamo nel male che Cristo nel bene? Il peccato di Adamo mi sarà imputato e la giustizia di Cristo non si estenderà fino a me? La disobbedienza di Adamo mi ha perso e l’obbedienza di Cristo non mi gioverà? 24. «Ma», si potrebbe dire, «a ragione tutti contraiamo la colpa di Adamo, nel quale tutti abbiamo peccato, perché quando peccò eravamo in lui e siamo stati generati dalla sua carne con la concupiscenza della carne». Eppure noi nasciamo da Dio secondo lo spirito molto più propriamente che da Adamo secondo la carne, e secondo lo spirito noi fummo in Cristo molto prima che secondo la carne in Adamo, se abbiamo fiducia di es-sere compresi anche noi tra quelli, di cui parla l’apostolo Paolo: Egli (il Padre) che ci ha scelti in lui (il Figlio) prima della creazione del mondo (Efesini 1,4). Che sono nati da Dio lo attesta poi anche l’evangelista Giovanni, quando dice: I quali non da sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio sono nati (Giovanni 1,13); e ancora Giovanni nella lettera: Chiunque è nato da Dio non pecca (1 Giovanni 3,9), poiché la generazione dall’alto lo custodisce. «Ma», si può dire, «la concupiscenza della carne attesta un collegamento della carne, e il peccato che sentiamo nella carne prova chiaramente che secondo la carne discendiamo dalla carne del peccatore». Ma tut-tavia quella generazione spirituale è sentita non nella carne, bensì nel cuore, almeno da coloro che possono dire con Paolo: Ebbene, noi abbiamo il sentire di Cristo (1 Corinzi 2,16), nel quale sentono di aver progredito fino a tanto, da dire con ogni fiducia: Lo

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stesso Spirito rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio (Romani 8,16), e ancora: Noi invece non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spi-rito che è da Dio, per conoscere le cose che ci sono state donate da Dio (1 Corinzi 2,12). Per mezzo dello Spirito che è da Dio, dunque, la carità è stata diffusa nei nostri cuori (Romani 5,5), così come per mezzo della carne che è da Adamo la concupiscenza rimane insita nelle nostre membra. E come la concupiscenza, che discende dal progeni-tore dei corpi, in questa vita mortale non si allontana mai dalla carne, così la carità che procede dal Padre degli spiriti non viene mai meno (1 Corinzi 13,8) nel proposito dei fi-gli, almeno di quelli perfetti. 25. Se dunque siamo nati da Dio e siamo stati eletti in Cristo, che giustizia è questa, che faccia più danno la generazione umana e terrena di quanto abbia forza quella divina e celeste, che la successione carnale vinca l’elezione di Dio e la concupiscenza della carne trasmessa nel tempo comandi al suo eterno disegno? Anzi, se per un solo uomo la morte, perché non molto di più per un solo uomo, e quell’uomo, la vita (cfr. Romani 5,12 e 17)? E se tutti moriamo in Adamo, perché in modo molto più potente non avremo tutti la vita in Cristo (cfr. 1 Corinzi 15,22)? Infine il dono non è come la colpa: infatti da una sola colpa venne il giudizio per la condanna, invece da molte colpe venne la grazia per la giustificazione (Romani 5,15-16). Cristo dunque, essendo Dio, ha potuto rimetterei peccati ed, essendo uomo, ha potuto morire ed, essendo giusto, morendo ha potuto pagare il debito della morte e lui solo ba-stare a tutti per la vita e la giustizia, dal momento che da uno solo il peccato e la morte si erano estesi su tutti. 26. Ma con assoluta necessità è stato anche previsto che, rinviata la morte, si degnas-se di vivere per un po’ uomo tra gli uomini, per spingere alle cose invisibili con la ric-chezza e la verità delle sue parole, per sostenere la fede con opere mirabili, per educare i costumi con opere rette. Perciò cosa non ha fatto per la nostra salvezza il Dio uomo, che sotto gli occhi degli uomini ha vissuto in sobrietà, giustizia e pietà (Tito 2,12), ha parla-to delle verità, ha operato miracoli, ha patito ingiustamente? Si aggiunga la grazia della remissione dei peccati, cioè che rimetta i peccati gratis, ed è compiuta l’opera della no-stra salvezza. E non bisogna temere che per perdonare i peccati manchi il potere a Dio o la volontà a chi ha patito, e ha patito tanto per i peccatori, se tuttavia, com’è giusto e ne-cessario, siamo trovati solleciti a imitarne gli esempi e a venerarne i miracoli, non siamo increduli dei suoi insegnamenti e ingrati verso le sue sofferenze. 27. Così tutto di Cristo ha avuto valore per noi, tutto è stato di salvezza e tutto neces-sario e la sua debolezza non ci ha giovato meno della sua maestà perché, anche se co-mandando con la potenza della divinità ha tolto via il giogo del peccato, tuttavia moren-do con la debolezza della carne ha abbattuto il potere della morte. Per cui dice bene l’apostolo Paolo: Ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma anche quella sua follia, per la quale volle salvare il mondo, per confutare la sapienza del mondo, confondere i sapienti - cioè che, pur essendo di natura divina, uguale a Dio annientò se stesso prendendo la natura del servo (Filippesi 2,6-7); pur essendo ricco, per noi si è fatto bisognoso (2 Corinzi 8,9), da grande piccolo, da alto umile, debole da potente; ebbe fame, ebbe sete, si stancò nel cammino, e tutte le altre cose che soffrì per sua volontà, non per necessità - dunque questa sua specie di follia non fu per noi via di prudenza, modello di giustizia, esempio di santità? Perciò dice sempre l’apostolo Pao-

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lo:Ciò che è stoltezza di Dio, è più sapiente degli uomini (1 Corinzi 1,25). La sua morte quindi ci ha liberato dalla morte, la sua vita dall’errore, la sua grazia dal peccato. La sua morte ha raggiunto la vittoria per la sua giustizia, poiché lui giusto, pagando ciò che non aveva rubato (cfr. Salmo 69,5), a buon diritto riprese tutto ciò che aveva perso. La sua vita, che è per noi modello e specchio di vita e di dottrina, ha compiuto ciò che la ri-guardava per mezzo della sapienza. La sua grazia ha rimesso i peccati in base a quel po-tere che, come è stato detto, ha realizzato tutto ciò che ha voluto. Così la morte di Cristo è la morte della mia morte, perché lui è morto affinché io vivessi. Infatti come può non vivere colui per il quale muore la Vita? Chi avrà paura di sbagliare nella via della mora-le o della conoscenza della realtà con la guida della Sapienza? Come sarà ritenuto col-pevole colui che la Giustizia ha assolto? Lui stesso si proclama la vita nel Vangelo, di-cendo: Io sono la vita (Giovanni 14,6). Le altre due cose poi le testimonia l’apostolo Paolo quando dice: Lui, che è stato costituito per noi giustizia e sapienza da Dio Padre (1 Corinzi 1,30). 28. Se dunque la legge dello spirito di vita in Cristo Gesù ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte (Romani 8,2), perché moriamo ancora e non siamo subito ve-stiti di immortalità? Perché si compia la verità di Dio. Infatti, poiché Dio ama la miseri-cordia e la verità (Salmo 84,12), è necessario che l’uomo muoia, come Dio aveva pre-detto, ma che risorga dalla morte, affinché Dio non si dimentichi di avere misericordia (Salmo 77,10) Così dunque la morte, anche se non domina per sempre, tuttavia per la verità di Dio rimane in noi solo temporaneamente, come il peccato, anche se non regna più nel nostro corpo mortale (Romani 6,12), tuttavia non manca del tutto in noi. Per questo Paolo da una parte si gloria di essere stato liberato dalla legge del peccato e della morte, ma dall’altra parte si lamenta di essere gravato ancora da tutte e due queste leggi, sia quando grida con dolore contro il peccato: Trovo un’altra legge nelle mie membra, ecc. (Romani 7,23), sia quando geme, gravato (cfr. 2 Corinzi 5,4) senza dubbio dalla legge della morte, aspettandola redenzione del suo corpo (Romani 8,23). 29. Sia queste considerazioni, sia molte altre simili vengano suggerite con l’occa-sione del sepolcro ai cristiani, secondo la ricchezza della sensibilità di fede di ciascuno, credo che una dolcissima devozione si infonda in chi contempla e che sia davvero utile vedere da vicino, anche con gli occhi del corpo, il luogo della quiete del corpo del Si-gnore. Anche se certo è ormai vuoto delle sacre membra, tuttavia è pieno dei misteri più nostri e più lieti. Nostri, dico, nostri, se non solo crediamo senza ombra di dubbio, ma abbracciamo con ardore ciò che dice l’apostolo Paolo: Per il battesimo siamo stati se-polti (insieme a lui)14 nella morte, affinché come Cristo è risorto dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una vita nuova. Se infatti siamo diventati una sola pianta con lui nella somiglianza della sua morte, lo saremo anche nella somiglianza della risurrezione (Romani 6,4-5). Quanto è dolce per i pellegrini, dopo la grande fatica del lungo viaggio, dopo moltissimi pericoli per terra e per mare, finalmente riposare là, dove sanno che ha riposato anche il loro Signore! Penso che di fronte alla gioia non sentano più la fatica del cammino e non calcolino l’entità delle spe-se, ma, come chi ottiene la ricompensa del la fatica e il premio del viaggio, secondo la frase della Scrittura gioiscono intensamente di aver trovato il sepolcro (Giobbe 3,22). E non si creda che per caso o all’improvviso, come per mutevole opinione del favore po-

14 Nella citazione manca «cum illo», che ho reintegrato tra parentesi, per far meglio comprendere il senso del passo paolino.

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polare, il sepolcro abbia raggiunto così celebre fa ma, poiché Isaia lo aveva predetto apertamente molto tempo prima: Vi sarà, dice, in quel giorno la radice di lesse, che si leverà come vessillo dei popoli; le genti lo invocheranno e il suo sepolcro sarà glorioso (Isaia 11,10). Vediamo dunque adempiuto nella realtà ciò che leggiamo profetizzato, cosa nuova per chi guarda, ma antica per chi legge, perché così vi sia gioia per la novità e non manchi autorità per l’antichità. E ciò basti per il sepolcro. XII. Betfage 30. Che dirò di Betfage, piccolo villaggio di sacerdoti che stavo per tralasciare, dove è racchiuso il mistero della confessione e del ministero sacerdotale? Il nome Betfage viene interpretato come «casa della bocca». Infatti è scritto: La parola è vicina, nella tua bocca e nel tuo cuore (Romani 10,8). Ricordati di avere la parola non solo in uno di essi, ma in entrambi. La parola nel cuore del peccatore opera una salutare contrizione, la parola nella bocca toglie la vergogna dannosa, perché non impedisca la necessaria con-fessione. Dice infatti la Scrittura: C’è un pudore che conduce al peccato e c’è un pudore che conduce alla gloria (Siracide 4,25). È buono il pudore per il quale ti vergogni di aver peccato o di peccare e, anche se non c’è alcun testimone umano, temi lo sguardo di Dio più di quello dell’uomo, con una vergogna tanto maggiore quanto più pensi che ve-ramente Dio è più puro dell’uomo e che è offeso da chi pecca in maniera tanto più gra-ve, quanto più lontano da lui è ogni peccato. Senza dubbio questo tipo di pudore scaccia l’obbrobrio, preparala gloria, perché o non lascia passare affatto il peccato, o col penti-mento punisce quello commesso e con la confessione lo rimuove, se questa è la nostra gloria; la testimonianza della nostra coscienza (2 Corinzi 1,12). Invece se qualcuno si turba di confessare ciò di cui pure prova compunzione, tale pudore inopportuno provoca il peccato e distrugge la gloria della coscienza, perché, chiusa la porta delle labbra, non permette che esca il male che la compunzione si sforza di espellere dal profondo del cuore, mentre, sull’esempio di Davide, bisognerebbe dire: Non chiuderò le mie labbra: Signore, tu lo sai (Salmo 40,10). Credo che anche Davide rimproveri se stesso per que-sto pudore stolto e irrazionale, quando dice: Poiché ho taciutosi sono invecchiatele mie ossa (Salmo 32,3). Per cui chiede che sia posta una soglia intorno alle sue labbra (Sal-mo 141,3), perché sappia aprire la porta della bocca alla confessione e chiuderla alla propria giustificazione. Inoltre pregando chiede apertamente ciò al Signore, sapendo che la confessione e la magnificenza sono opera sua (Salmo 111,3). Grande è il bene della duplice confessione - cioè che proclamiamo la nostra malvagità e la magnificenza della bontà e della forza divina - ma è un dono di Dio. Infatti Davide dice: Non far cadere il mio cuore in parole malvagie per trovare scuse ai miei peccati (Salmo 141,4). Perciò è necessario che i sacerdoti, ministri della parola, siano solleciti a vigilare su questi due punti, cioè di imprimere la parola del timore e della contrizione nei cuori dei peccatori con grande moderazione, perché non abbiano mai paura della parola della confessione, così che aprano i cuori e non chiudano le bocche; ma non assolvano chi è compunto, se non si sarà anche confessato, perché con il cuore si crede per la giustizia, ma con la bocca si fa la confessione per la salvezza (Romani 10,10). Del resto non esiste la con-fessione da parte di un morto, che non c’è. In conclusione, chi ha la parola nella bocca e non ce l’ha nel cuore, è falso o stupido; chi nel cuore e non nella bocca, è superbo o pauroso.

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XIII. Betania 31. Anche se ho molta fretta, non debbo passare del tutto sottosilenzio la casa dell’obbedienza, cioè Betania, il villaggio di Maria e Marta nel quale Lazzaro fu risusci-tato (cfr. Giovanni 11,1-44), dove ci vengono presentatela figura dei due tipi di vita15, la meravigliosa clemenza di Dio verso i peccatori e la virtù dell’obbedienza insieme ai frutti della penitenza16. In questo luogo basti rilevare brevemente che né l’ardore per la buona azione, né la quiete della santa contemplazione, né la lacrima della penitente po-terono essere accette fuori da Betania a colui, che ebbe un’obbedienza tanto grande, che preferì perdere la vita piuttosto che essa, fatto obbediente al Padre fino alla morte (Fi-lippesi 2,8).

*** Queste sono dunque le ricchezze che l’annuncio profetico promette dalla parola del Signore: Il Signore consolerà Sion, consolerà tutte le sue rovine e farà del suo deserto un luogo di delizie e della sua solitudine un giardino del Signore; in essa si troverà gioia e letizia, rendimento di grazie e voce di lode (Isaia 51,3). Queste delizie del mon-do, questo tesoro del cielo, questa eredità dei popoli fedeli sono affidati alla vostra fede, carissimi, consegnati alla vostra perizia e al vostro coraggio. Sarete capaci di custodire sicuramente e fedelmente quanto vi è affidato dal cielo, se non confiderete mai nella vo-stra perizia o nel vostro coraggio, ma sempre e soltanto nell’aiuto di Dio, sapendo che l’uomo non troverà potenza nella sua forza (1 Samuele 2,9), e perciò dicendo con il pro-feta: Il Signore è il mio sostegno e il mio rifugio e il mio liberatore (Salmo 18,3); Cu-stodirò presso di te il mio coraggio, perché Dio è il mio difensore, il mio Dio la sua mi-sericordia mi starà innanzi (Salmo 59,10-11); Non a noi: Signore, non a noi: ma al tuo nome da’ gloria (Salmo 115,1), affinché in tutte le cose sia benedetto lui, che addestra le vostre mani alla battaglia e le vostre dita alla lotta (Salmo 144,1).

15 Si tratta dell’interpretazione simbolica o figurale delle due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria. Viste nel-la tradizione esegetica come figure rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, poiché Mar-ta, la più grande, si dà da fare per servire Gesù, mentre Maria sta ferma ad ascoltare la sua parola, per questo rimproverata dalla sorella, ma lodata dal Signore (Luca 10,38-42). Bernardo, sulla linea di altri au-tori suoi contemporanei, non sembra in questo brano dare palese preferenza alla contemplazione, benché la sua scelta monastica vada in questa direzione; ma forse non è un caso che nel citare le due sorelle ante-ponga, almeno a livello affettivo, Maria a Marta. 16 Il riferimento è all’episodio della pubblica peccatrice che versa sui piedi di Gesù, baciandoli, lacrime e olio profumato, e viene da lui perdonata «quoniam dilexit multum» («perché ha molto amato»), narrato da Luca 7,36-50, ambientato nella casa del fariseo Simone, forse nel villaggio di Nain. Cambiano alcuni par-ticolari in Matteo 26,6-13 e Marco 14,39, per i quali l’episodio si svolge a Betania nella casa di Simone il lebbroso e l’unzione è fatta da una donna- senza alcun riferimento al fatto che fosse una peccatrice- sul capo di Gesù e non sui piedi, quindi manca anche il particolare della donna che li asciuga con i suoi ca-pelli. Giovanni 12,1-8 (anticipato in Giovanni 11,2) colloca l’unzione a Betania, forse in casa di Lazzaro (poiché si dice che sua sorella Marta serviva a tavola), ad opera dell’altra sorella di Lazzaro, Maria, che unge i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli, ma non è affatto definita peccatrice. La tradizione ese-getica - seguita da Bernardo - unificò i vari particolari di questi racconti e identificò la donna con Maria sorella di Lazzaro, che divenne quindi anche «peccatrice» e venne ulteriormente identificata- senza però riferimenti scritturistici- con Maria di Magdala, di cui si dice solo: «dalla quale erano usciti sette demòni» (Luca 8,2); tale figura divenne modello della penitente per gli autori medievali.

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Dalle LETTERE di Bernardo di Clairvaux17 l. Lettera 359 A Papa Callisto18 da parte dei monaci di Clairvaux (dicembre 1124 - gennaio 1125) Desiderano che sia trattenuto l’abate di Morimond, che si accinge ad andare pellegrino a Gerusalemme19.

Al sommo pontefice Callisto, il piccolo gregge (Luca 12,32) di Clairvaux, esprime la devotissima obbedienza della dovuta sottomissione e la preghiera dei peccatori, se può qualcosa. Poiché ci rallegriamo che voi occupiate il posto di chi diceva che la sua preoccupazione quotidiana era la premura verso tutte le Chiese (2 Corinzi 11,28), la nostra piccolezza non teme un rifiuto presso gli orecchi della vostra pietà, anche se occupati in affari più grandi, dato che ci spinge una grande necessità. Infatti non potete ascoltare come cosa da nulla ciò che state per ascoltare, quello che avete fatto a uno dei miei più piccoli lo avete fatto a me (Matteo 25,40). D’altra parte questa causa non è soltanto nostra, ma di tutto il nostro Ordine, e per essa lo stesso vostro figlio padre di tutti noi20 sarebbe venuto da sé alla presenza della vostra maestà o certo avrebbe incaricato di scrivere in suo nome questa lacrimosa lamentela, se

17 Vengono proposte diciotto lettere; i numeri da 1 a 18 indicano solo la loro successione in questa piccola antologia, in base al criterio cronologico. Si indica poi il numero della lettera nell’epistolario bernardino, che – come si potrà notare – non segue invece la cronologia. L’indicazione del destinatario e il breve rias-sunto del contenuto delle singole lettere sono ripresi dall’edizione critica dell’epistolario, ma ovviamente non sono dello stesso Bernardo. 18 Callisto II, 1119-1124. 19 Questa lettera fa parte di un piccolo gruppo riguardante Arnoldo, abate di Morimond (una delle cinque abbazie-madri dell’ordine cistercense), il quale nel 1124 decise di lasciare l’abbazia e di recarsi in Pale-stina, insieme ad alcuni dei suoi giovani monaci, per fondarvi un monastero, secondo Bernardo di fronte a difficoltà nel governare la comunità monastica (cfr. lettera 141 del 1137). Questo progetto vide il santo fortemente contrario, impegnato a far sì che Arnoldo vi rinunciasse o che vi fosse impedito direttamente dal papa, poiché per Bernardo il monaco deve restare nel suo monastero per realizzare la sua vocazione, tanto più se si tratta di un abate, che ha obblighi pastorali e paterni verso gli uomini a lui affidati. Nulla è più importante, nemmeno un pellegrinaggio in Terra Santa o la volontà di fondarvi un monastero, se ciò è fatto solo per desiderio personale, senza il consenso dei superiori. Tale consenso, secondo quanto scrive Bernardo, non c’era stato da parte dell’abate generale di Cîteaux, che manteneva il controllo sulle altre quattro abbazie-madri cistercensi, che da Cîteaux erano state fondate. Arnoldo aveva ottenuto però il con-senso del papa Callisto, poi aveva chiesto quello dell’abate di Cîteaux, partendo nel dicembre del 1124. Bernardo scrisse nel dicembre 1124 personalmente ad Arnoldo (lettera 4), ad Adamo, uno dei monaci che volevano seguirlo (lettera 5), a Bruno di Colonia, fratello di Everardo, un altro monaco al seguito di Ar-noldo (lettera 6) e ancora ad Adamo nel febbraio 1125 (la lunghissima lettera 7, divisa in venti paragrafi); tra il dicembre 1124 e il gennaio 1125, insieme alla comunità di Clairvaux, inviò questa lettera al papa. Ho selezionato questa lettera perché mi sembra importante per collocare l’interesse di Bernardo per la Terra Santa entro le sue dimensioni reali; per il monaco la vera Gerusalemme, anticipo di quella celeste, resta il monastero (vedi più avanti anche la lettera 459); non è invece il caso di pubblicare qui le altre let-tere di questo piccolo gruppo, poiché gli argomenti in esse sviluppati toccano prevalentemente il proble-ma spirituale del legame con il monastero, indipendentemente dalla Terra Santa, che in pratica non vi viene nemmeno nominata. 20 Cioè l’abate di Cîteaux, in quegli anni Stefano Harding, terzo abate dal 1109 al 1133, anno in cui si di-mise; morì nel 1134.

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fosse stato a casa quando questa lettera è stata inviata; ma è avvenuto che per caso allora fosse assente e ancora ignaro di questo fatto. Ma non teniamo sospese a lungo le viscere della vostra sollecita carità: uno dei nostri fratelli abati, quello che era detto di Morimond, abbandonando del tutto sconsiderata-mente lo stesso monastero cui era preposto, spinto da spirito di leggerezza ha deciso di dirigersi a Gerusalemme, ma prima, a quanto dicono, tenterà la prudenza della vostra circospezione cercando di poter estorcervi in qualche modo il permesso al suo errore. Se in ciò gli offrirete un qualche assenso - che non avvenga! - valutate bene voi stesso che occasione di grande distruzione possa essere per il nostro Ordine, perché, sull’esempio di costui, qualunque abate si sentisse aggravato dal peso pastorale, subito lo lascerebbe, ritenendo di poterlo lasciare liberamente, soprattutto presso di noi, dove non è un grande onore e sembra un grave onere. Inoltre, a maggior desolazione della casa a lui affidata, ha preso come compagni del suo vagabondare i migliori e i più perfetti che vivevano sotto di lui, e tra di essi anche quel nobile ragazzo che prima, non senza scandalo, aveva portato da Colonia21 - crediamo che ciò non vi sia sfuggito - adesso per maggiore scandalo ha l’ardire di portarselo con sé. Se, come ci è stato riferito, dice che in quella terra lui vuole seminare le osservanze del nostro Ordine e che perciò conduce con sé una moltitudine di fratelli, chi non vede che là sono necessari più cavalieri per combattere che monaci per cantare o piangere? Ma da ciò la nostra disciplina religiosa trarrà moltissimo detrimento, perché per chiunque bra-masse vagare, sarebbe facile senza alcun rischio. 2. Lettera 31 A Ugo, conte di Champagne, fattosi cavaliere del Tempio22 (1125) Si congratula con Ugo per aver intrapreso la cavalleria sacra e promette il ricordo dei suoi benefici. Se per la causa di Dio ti sei fatto da conte cavaliere e povero da ricco, in questo certo mi congratulo con te, com’è giusto, e in te glorifico Dio, sapendo che questo è un cambia-mento della destra dell’Eccelso (Salmo 77,11). Invece, lo confesso, non sopporto sere-namente il fatto che la tua gioiosa presenza mi sia stata tolta, non so per quale giudizio di Dio, sicché non posso vederti nemmeno ogni tanto, mentre non avrei mai voluto stare senza di te, se fosse stato possibile. Posso infatti dimenticarmi del vecchio amore e dei benefici che hai dato con larghezza alla nostra casa? Possa non dimenticarli mai Dio stesso, per il cui amore lo hai fatto, perché io, che non sono affatto ingrato, per quanto è in me terrò fermo nella mente il ricordo della dolcezza della tua generosità (Salmo 145,7) e, se fosse possibile, lo mostrerei di fatto.

21 Corrado, figlio del duca di Baviera. 22 Conte di Troyes dal 1093 all’anno in cui è inviata questa lettera, unificò la Champagne e fu molto at-tento alle realtà religiose. Nella contea di Troyes venne fondata proprio l’abbazia di Clairvaux (1115), di cui fu abate Bernardo, ma trovò ospitalità anche il suo avversario Abelardo, che vi fondò il monastero del Paracleto, nel quale si ritirò più tardi Eloisa. Prima di farsi templare, Ugo già due volte si era recato in Terra Santa. Vi tornò nel 1125 ed entrò tra i cavalieri del tempio, dopo aver nominato erede il nipote Teo-baldo di Blois, diseredando e disconoscendo il figlio avuto dalla seconda moglie, che riteneva non suo. A Troyes si riunì nel 1128 il concilio che approvò i cavalieri del tempio e diede loro la regola.

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O con che animo contento avrei provveduto nello stesso tempo al tuo corpo e alla tua anima, se mi fosse stato concesso di essere insieme! Poiché non è così, se non ti posso avere con me, in tua assenza non mi resta che pregare sempre per te. 3. Lettera 175 Al patriarca di Gerusalemme23 (1130) Preceduto dal patriarca, risponde familiarmente alle sue lettere e gli raccomanda i ca-valieri del Tempio. Essendo stato raggiunto molto spesso da scritti del patriarca, sembrerò ingrato ormai se non risponderò. Ma se saluto chi mi ha salutato, che ho fatto di più? (Matteo 5,47). Tu infatti mi hai prevenuto con le tue dolci benedizioni (Salmo 21,4), tu per primo ti sei de-gnato di visitarmi con le tue lettere d’oltremare; tu mi hai sottratto i primi obblighi di umiltà e di carità. Che restituirò di altrettanto degno? In fondo non mi hai lasciato niente che possa contraccambiare in pari modo, poiché ti sei preoccupato di farmi parte del te-soro dei secoli, cioè del legno della croce del Signore. Ma allora devo tralasciare ciò che posso, perché non posso affatto fare ciò che devo? Almeno manifesto il mio affetto e la mia volontà rispondendo e ricambiando i saluti, la sola cosa consentita di fronte a tanto spazio di terra e di mare. Ma mostrerò, se mai ne avrò il tempo, che non amo affatto a parole o con la lingua, ma in opere e verità (l Giovanni 3,18). Vi prego, ponete i vostri occhi sui cavalieri del Tempio24 e aprite le viscere della vostra grande pietà a difensori della Chiesa tanto valorosi. Sarà sicuramente gradito a Dio (1 Timoteo 5,4) e caro agli uomini se aiuterete quelli che hanno messo le loro anime a difesa dei fratelli (cfr. Gio-vanni 15,13). Quanto al luogo al quale mi invitate25 il fratello Andrea vi dirà la mia vo-lontà26.

23 Guglielmo di Messines (presso Ypres), fiammingo, appena divenuto in quest’anno patriarca di Gerusa-lemme. 24 Proprio attraverso i Templari Guglielmo di Messines aveva preso contatto con Bernardo. Si noti il pas-saggio dal tu al voi. 25 Si tratta dell’offerta di un terreno per l’edificazione di un’abbazia cistercense, filiazione di Clairvaux, che fece a Bernardo anche il re di Gerusalemme Baldovino II. Il luogo era vicino a Gerusalemme, sul Mons Gaudii presso la tomba di Samuele (oggi Nabi Samwil). Bernardo era contrario e girò la proposta a Ugo di Fosses, abate dei Premonstratensi, che accettò. La contrarietà era probabilmente dovuta all’aria poco salubre e al rischio di incursioni musulmane, secondo alcuni anche al fatto che l’abate dell’abbazia madre aveva l’obbligo di visitare ogni anno le figlie, secondo le norme cistercensi. Il diniego di Bernardo può forse spiegare il fatto che solo dopo vario tempo egli si decise a rispondere al patriarca, quando non poteva più evitare di farlo di fronte al dono della reliquia della santa croce. 26 Ferruccio Gastaldelli (Opere di san Bernardo, VI. Lettere, Parte Prima, Milano 1986, p. 736 nota) ipo-tizza che sia il fratello carnale di Bernardo, più giovane di lui e anch’egli monaco a Clairvaux, di cui il santo si servì per varie missioni, citato nella lettera 184 al papa Innocenzo II.

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4. Lettera 355 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda)27 (1141) Raccomanda dei Premonstratensi pellegrini a Gerusalemme. Vedete quanto mi attenda da voi, se oso raccomandarvi anche altre persone, benché rac-comandare questi fratelli Premonstratensi sia forse più superfluo che temerario. Si rac-comandano tanto per il loro merito, che non hanno bisogno di quello altrui. Se non mi sbaglio, saranno trovati uomini saggi, ferventi nello spirito, pazienti nelle tribolazioni (Romani 12,11-12), capaci nell’azione e nella parola. Hanno indossato l’armatura di Dio e hanno cinto la spada dello Spirito, che è la parola di Dio, non contro la carne e il sangue, ma contro le forze del male che sono nel mondo spirituale (Efesini 6,12.17). Accoglieteli come guerrieri pacifici, mansueti con gli uomini, violenti con i demòni. Anzi in essi accogliete Cristo, che è la causa del loro pellegrinaggio. 5. Lettera 354 Alla regina di Gerusalemme Melisenda, figlia del re Baldovino e moglie di Folco (1143-1144) Come si debba comportare dopo la morte di suo marito Folco. All’illustrissima regina di Gerusalemme Melisenda Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di trovare grazia presso il Signore. Tra i molti impegni e preoccupazioni della corte reale mi sembrerebbe proprio fuori luogo scriverti, se in te vedessi soltanto la gloria del tuo regno, la tua potenza e la nobile origine. Tutte queste cose valgono agli occhi degli uomini e quelli che non le hanno in-vidiano quelli che le hanno e dicono beato l’uomo cui appartengono. Ma che senso ha questa beatitudine nel possedere quelle cose, che una per una inaridiscono velocemente come l’erba e presto cadono giù come le foglie delle piante (Salmo 37,2)! Sono buone ma instabili, mutevoli, destinate a passare e a morire, perché sono beni della carne; e della carne e dei suoi beni è stato anche detto: La carne è solo erba e tutta la sua gloria è come il fiore dell’erba (Isaia 40,6). Perciò scrivendoti non ho dovuto riverire molto queste cose, nelle quali il piacere è bugiardo e la bellezza inutile (Proverbi 31,30). Accogli in poche parole quanto voglio dire; infatti, benché abbia molto da dirti, tuttavia abbrevierò il discorso per i molti impegni tuoi e miei. Accogli da una terra lontana un consiglio breve ma utile, dal quale, come da un piccolo seme, possa crescere in futuro un grande raccolto; ti prego, accogli un consiglio dalla mano di un amico che non cerca il proprio interesse, ma il tuo onore, perché per un consiglio nessuno può esserti più fe-dele di chi vuole bene non alle tue cose, ma a te. Morto il re tuo marito, con il piccolo re

27 Melisenda era figlia di Baldovino II, re di Gerusalemme dal 118 al 1131; sposò Folco d’Angiò, che di-venne re nel 1131 e morì nel 1143. Melisenda fu reggente per il piccolo figlio Baldovino III, al quale però non concesse di governare con la maggiore età (1145). Si ebbe una temporanea divisione del regno, poi una breve guerra civile; solo nel 1152 Melisenda cedette il regno al figlio e si ritirò a Nablus, continuando a intervenire negli affari del regno. Morì nel 1160, due anni prima del figlio. Nella lettera 289 (qui la n. 16) del 1153 Bernardo si rallegra con la regina perché si comporta in maniera pacifica, senza ulteriori specificazioni né riferimenti al figlio.

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ancora poco idoneo a reggere gli affari del regno e a dare continuità alla carica di re, gli occhi di tutti guardano a te e solo su di te si appoggia tutto il peso del regno. È necessa-rio che tu metta mano ad azioni forti e nella donna mostri l’uomo, compiendo ciò che va compiuto con spirito di ponderazione e di fortezza. Bisogna che tu disponga ogni cosa con tale prudenza e moderazione, che tutti coloro che ti vedranno dalle opere ti giudi-chino re piuttosto che regina, perché non si dica tra le genti: «Dov’è il re di Gerusa-lemme»? (Salmo 79,10). Tu dirai: «Ma non sono capace, perché si tratta di compiti grandi, al di sopra delle mie forze e del mio sapere. Queste sono azioni da uomo, ma io sono una donna, debole di corpo, instabile di cuore, sprovveduta nelle decisioni, non abituata agli affari di stato». Lo so, figlia, lo so che sono grandi impegni, ma so anche che, se sono straordinarie le onde del mare, straordinario è nei cieli il Signore (Salmo 93,4). Sono impegni grandi, ma grande è il nostro Signore e grande è la sua forza (Salmo 147,5). 6. Lettera 206 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda) (?) Raccomanda un suo parente e in poche parole ammonisce la regina a vivere in modo da regnare in eterno. La gente sa che ho la vostra amicizia e molti che stanno per partire per Gerusalemme chiedono di essere raccomandati da me alla vostra Eccellenza. Tra loro c’è questo mio giovane parente, che, come dicono, è forte in combattimento e gentile nel comporta-mento, e io sono felice che, quando è venuto il momento, abbia scelto di militare per Dio anziché per il mondo28. Perciò fate com’è vostra abitudine e, grazie a me, vada bene a lui, come è stato per tutti gli altri miei parenti che tramite me hanno potuto farsi cono-scere da voi. Per il resto, state attenta che i desideri materiali e la gloria mondana non vi ostacolino sulla via del regno del cielo. Infatti che vantaggio c’è a regnare pochi giorni sulla terra ed essere privati del re-gno eterno dei cieli? Ma confido nel Signore che farete sempre meglio e, se è vera la te-stimonianza che vi rende il mio carissimo zio29 Andrea, a cui credo molto, regnerete sia qui sia in eterno, per la misericordia di Dio. Abbiate cura dei pellegrini, dei bisognosi e soprattutto dei prigionieri, perché con tali offerte si merita Dio (Ebrei 13,16). Scrivetemi più spesso, perché non sarà di peso a voi e farà piacere a me se verrò a sapere in modo più ampio e preciso che è vostro impegno preoccuparvi del bene.

28 Non si sa chi sia questo giovane parente di Bernardo, che dal contesto sembra essere diventato templa-re. 29 Andrea di Montbard, zio materno: il vocabolo latino avunculus è infatti preciso. A lui è inviata l’ultima lettera riportata in questa breve antologia, la n. 288 dell’Epistolario bernardino.

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7. Lettera 363 Agli arcivescovi della Francia orientale e della Baviera (agosto-settembre 1146) Esorta a prendere le armi contro gli infedeli per la difesa della Chiesa d’Oriente. Inol-tre, contro un predicatore violento, insegna che gli Ebrei non devono essere perseguita-ti e tanto meno uccisi. Ai signori e padri carissimi arcivescovi e vescovi e a tutto il clero e il popolo della Francia orientale e della Baviera, Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di abbon-dare nello spirito di fortezza. l. Vi parlerò dell’impresa di Cristo, nella quale è oggi la nostra salvezza. Dico ciò per-ché l’autorità del Signore e anche la considerazione della vostra utilità scusino l’indegnità della mia persona. Sono di poca importanza, ma con non poco affetto tutti vi amo nel cuore di Cristo Gesù (Filippesi l, 8). Questa è la ragione di scrivervi ora, questa la causa per cui oso incentrarmi per lettera con tutta la vostra comunità. Lo farei più vo-lentieri a viva voce se, come vorrei, se ne offrisse la possibilità. Ecco ora il tempo da accogliere, ecco ora il giorno di un’abbondante salvezza. La terra si è scossa e ha tre-mato (Salmo 18,8), perché il Dio del cielo ha cominciato a perdere la sua terra. La sua, dove è stato visto e per più di trent’anni ha vissuto uomo tra gli uomini, proprio la sua, che lui ha illuminato coni miracoli, che ha consacrato col proprio sangue, nella quale apparvero i primi fiori della risurrezione. E ora, per colpa dei nostri peccati, gli avversa-ri della croce hanno sollevato il capo sacrilego, devastando in punta di spada la terra be-nedetta, la terra della promessa. È vicino il momento in cui, se non ci sarà chi resista, irromperanno nella stessa città del Dio vivente, distruggeranno i posti dove è stata ope-ratala nostra redenzione, profaneranno i luoghi santi, arrossati dal sangue dell’Agnello immacolato. Che dolore! Già spalancano la bocca sacrilega contro lo stesso sacrario del-la religione cristiana e si preparano a invadere e calpestare lo stesso letto in cui per noi la nostra Vita si addormentò nella morte. 2. Che fate, uomini forti? Che fate, servi della croce? Darete ciò che è santo ai cani e le perle ai porci (Matteo 7,6)? Quanti peccatori in Terra Santa, confessando i loro peccati con le lacrime, ottennero il perdono dopo che l’immondezza dei pagani era stata elimi-nata dalle spade dei padri! Il maligno vede ciò ed è geloso, digrigna i denti e si rode (Salmo 112,10). Incita i vasi della sua iniquità deciso a non lasciare nemmeno i segni o le orme di una pietà così grande, se mai - che Dio ce ne scampi - dovesse entrarne in possesso. Ciò sarebbe davvero un dolore inconsolabile per tutti i secoli futuri, perché perdita irrecuperabile, e rimarrebbe infinita vergogna ed eterno disonore particolarmente per questa pessima generazione. 3. Che pensare, fratelli? Forse la mano del Signore si è indebolita (Isaia 59,1) o è diven-tata incapace di salvare, dato che a proteggere e restituire a sé la sua eredità chiama dei vermi piccoli e deboli? Non può forse mandare più di dodici legioni di angeli (Matteo 26,53), o meglio, dire una sola parola (Matteo 8,8) e la terra sarà liberata? Sì, ne ha to-talmente il potere, se vuole; ma vi dico: Il Signore Dio vostro vi mette alla prova (Deu-teronomio 13,3). Si volge a guardare i figli degli uomini, se ci sia chi capisca il suo pe-ricolo e si interroghi (Salmo 14,2) e se ne addolori. Dio infatti ha misericordia del suo popolo e offre una possibilità di salvezza a chi ha compiuto gravi colpe. 4. Considerate di quale artificio si serve per salvarvi e stupitevi ;contemplate l’abisso della sua pietà e abbiate fiducia, peccatori. Non vuole la vostra morte, ma che vi conver-

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tiate e viviate30 perché procura questa occasione non contro di voi, ma per voi. Cos’è infatti se non un’occasione di salvezza particolarmente ricercata e che solo Dio poteva inventare il fatto che l’Onnipotente si degni di invitare al suo servizio omicidi, rapinato-ri, adulteri, spergiuri e tutti gli altri criminali come fossero persone che hanno sempre seguito la giustizia? Non disperate, peccatori: il Signore è benigno. Se vi volesse punire non solo non richiederebbe il vostro servizio, ma non ne accette-rebbe nemmeno l’offerta. Ripeto, pensate alla ricchezza della sua bontà, fate attenzione all’altissimo disegno della compassione: fa in modo - oppure finge - di aver bisogno di dare come paga a chi combatte per lui l’indulgenza per le colpe e la gloria eterna. Bisognerà perciò dire beata questa generazione abbracciata dal tempo di un’indulgenza così abbondante, trovata viva da quest’anno della clemenza del Signore, un vero giubi-leo. Questa benedizione infatti si diffonde in tutto il mondo e tutti insieme accorrono al segnale della vita. 5. Poiché dunque la vostra terra è feconda di uomini forti ed è notoriamente piena di ro-busta gioventù - vostra lode in tutto il mondo - e la fama del vostro valore ha riempito la terra, preparatevi anche voi virilmente e per lo zelo del nome cristiano afferrate le armi fortunate. Finisca quella vecchia non milizia, ma - diciamolo chiaramente - malizia, con la quale abitualmente vi abbattete l’un l’altro, vi rovinate l’un l’altro per distruggervi l’un l’altro. Perché una passione così feroce, miserabili? Uno trafigge con la spada il corpo del suo prossimo, di cui forse muore anche l’anima; ma neppure il vincitore riesce a sfuggire: una spada trafigge anche la sua anima (Luca 2,35), perché non possa gioire che sia caduto solo il nemico. Dare tutto se stesso a una lotta così è da pazzi, non da va-lorosi; non va attribuito all’audacia, ma all’imbecillità. Adesso però tu, forte cavaliere, tu, uomo valoroso, puoi combattere senza pericolo dove vincere è gloria e morire un guadagno (Filippesi 1,21). Se sei un mercante esperto, se sai riflettere sulle cose del mondo (1 Corinzi 1,20), ti indico uno scambio vantaggioso, non fartelo sfuggire. Prendi il segno della croce e otterrai l’indulgenza per tutte quante le colpe, di cui ti confesserai con cuore pentito. Questa merce, se si compra, costa poco; se si mette con devozione sulle spalle vale senza dubbio il regno di Dio. Hanno fatto bene dunque quelli che hanno già preso l’insegna del cielo; anche gli altri, per non essere stupidi, faranno bene ad af-frettarsi e ad afferrare ciò che può salvarli. 6. Di un’altra cosa, fratelli, vi ammonisco, non solo io ma insieme a me l’Apostolo di Dio: non bisogna credere a ogni persona (l Giovanni 4,1). Ho saputo e gioisco che in voi ferva lo zelo di Dio, ma è necessario che non manchi del tutto l’equilibrio della ra-gione. Gli Ebrei non devono essere perseguitati, non devono essere trucidati e nemmeno messi in fuga. Chiedete a quelli che conoscono la Sacra Scrittura cosa è stato profetato degli Ebrei nel Salmo (58,12): Dio mi ha rivelato sui miei nemici - è la Chiesa che parla - di non ucciderli: perché non si dimentichi mai il mio popolo. Essi sono per noi come uno scritto vivente che ci mette sempre davanti agli occhi la passione del Signore. Per-ciò sono stati dispersi in tutte le regioni, perché, espiando la giusta pena di un delitto co-sì grande, dappertutto siano testimoni della nostra redenzione. Perciò nello stesso Salmo la Chiesa continua a dire: Disperdili e abbattili con la tua forza, Signore mio difensore. Così è avvenuto: sono stati dispersi, sono stati abbattuti, sopportano una dura prigionia sotto i principi cristiani. Ma a sera si convertiranno (Salmo 58,15) e nel tempo opportu-no ci sarà scampo per loro (Sapienza 3,6). Infine, quando saranno entrate tutte le genti,

30 La frase non è una citazione letterale, ma riecheggia parole del profeta Ezechiele, in particolare 18,23-32 e 33,11.

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allora tutto Israele sarà salvo (Romani 11,25-26), dice san Paolo, anche se chi muore nel frattempo rimane nella morte (Giovanni 3,14). 7. Non dovrei dire che, dove mancano gli ebrei, è un dolore vedere i cristiani compor-tarsi peggio di loro nel prestito a usura, se ancora si deve chiamarli cristiani e non ebre i battezzati. Se gli Ebrei vengono del tutto eliminati, come si potrà più sperare la loro sal-vezza promessa alla fine, la loro conversione che verrà alla fine? È chiaro che anche i pagani, se stessero ugualmente sottomessi in vista della fine che deve venire, ugualmen-te dovrebbero essere attesi a quel giudizio piuttosto che assaliti con le spade. Invece adesso, dato che hanno cominciato a essere violenti contro di noi, bisogna che respinga-no la violenza con la violenza coloro che non senza motivo portano la spada (Romani 13,4). Appartiene alla pietà cristiana, come debellare i superbi, così risparmiare i sotto-messi31 soprattutto gli Ebrei, cui appartengono la legge, la promessa, i padri e da cui secondo la carne viene il Cristo, che è Dio benedetto sopra ogni cosa nei secoli (Roma-ni 9,4-5). Tuttavia bisogna esigere da loro che, secondo i termini del mandato papale, liberino da ogni riscossione di interessi tutti coloro che prenderanno il segno della croce. 8. Miei carissimi fratelli, devo avvertirvi di un’altra cosa: se qualcuno, a cui piace pri-meggiare tra voi, vorrà partire prima dell’esercito crociato con una sua spedizione, non ascoltatelo assolutamente, anche se si fingesse mandato da me - il che non è vero - o mostrasse come mia una lettera che voglio riteniate non scritta da me, ma del tutto falsa, per non dire fraudolenta. Bisogna che si scelgano come capi uomini valorosi ed esperti e che l’esercito del Signore parta tutto insieme, così che in ogni luogo sia forte e da nes-suno possa subire violenza. Infatti nella precedente spedizione, prima che fosse presa Gerusalemme, ci fu un uomo di nome Pietro, di cui anche voi, se non sbaglio, avete spesso sentito parlare. Egli dunque, dominando una folla che credeva in lui e andando avanti solo con i suoi, li espose a pericoli così grandi, che nessuno o pochissimi di loro si salvarono dal morire di fame o di spada. Perciò bisogna stare molto attenti che non vi tocchi la stessa fine, se anche voi farete nello stesso modo. Ve ne scampi Dio, che è benedetto nei secoli (Ro-mani 9,5) sopra ogni cosa. Amen. 8. Lettera 365 Ad Enrico arcivescovo di Magonza contro fratel Radolfo che era stato d’accordo ad uc-cidere gli Ebrei (agosto-settembre 1146) Accusa il monaco Radolfo32 che armava i fedeli per uccidere gli Ebrei. Al venerabile signore e carissimo padre Enrico, arcivescovo di Magonza, Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di trovare grazia presso Dio (Luca 1,30). l. Ho ricevuto con la dovuta venerazione la lettera, espressione del vostro affetto; ma per il gran numero di impegni la mia risposta è breve. L’aver affidato a me il vostro lamento è segno e pegno di affetto e prova di particolare umiltà. Infatti chi mai sono io, qual è la famiglia di mio padre, perché mi si riferisca il disprezzo subito da un arcivescovo e l’offesa ricevuta da una Chiesa metropolitana? Non sono invece un bambino piccolo che

31 VIRGILIO, Eneide, VI, 853. 32 Si trattava di un monaco cistercense. Nel silenzio di molte cronache contemporanee (ma non di Ottone di Frisinga nei Gesta Friderici imperatoris), un cronista ebreo, Efraim bar Jakob, riporta notizia del mas-sacro di ebrei nelle città della Renania e dell’impegno di Bernardo in loro difesa.

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non sa come entrare e come uscire (l Re 3,7)? Tuttavia non ignoro l’eterna parola di verità (Salmo 119,43)che viene dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24,5): È necessario che avvenga lo scandalo, ma guai a colui per causa del quale avviene (Matteo 18,7)! Quell’uomo di cui si tratta nella vostra lettera non viene da un uomo né a nome di un uomo (Galati 1,1), ma non è nemmeno mandato da Dio. Se si vanta di essere monaco o eremita, e perciò si arroga la libertà o il servizio della predicazione, può e deve sapere che il monaco non ha la missione di insegnare, ma di piangere, e che per lui la città deve essere un carcere e la solitudine un paradiso. Ma lui, viceversa, considera la solitudine come un carcere e la città come un paradiso. Uomo senza cuore, uomo senza dignità, la cui stoltezza è stata sollevata sopra un candelabro perché appaia a tutti quelli che sono in casa (Matteo 5,15)! 2. Tre suoi atteggiamenti devono essere assolutamente rimproverati: l’abuso della pre-dicazione, il disprezzo dei vescovi, la licenza di approvare l’omicidio. È un genere di autorità mai sentito: Sei forse più grande di nostro padre Abramo (Giovanni 8,63) che, quando Dio glielo proibì, depose la spada che aveva sollevato per comando di lui stes-so? Sei forse più grande del principe degli apostoli, che al Signore chiese: Signore, dob-biamo colpire con la spada? (Luca 22,49). Conosci invece tutta la sapienza degli Egi-ziani (Atti 7,22), cioè la sapienza di questo mondo, che è stoltezza presso Dio (1 Corinzi 3,19); risolvi il problema di Pietro in modo diverso da chi disse: Metti a posto la spada, perché chiunque impugnerà la spada, di spada morirà (Matteo 26,52). La Chiesa con-vincendo o convertendo gli Ebrei giorno per giorno non trionfa su di loro in modo più ampio di quanto farebbe se li sterminasse in punta di spada tutti insieme una volta per sempre? È stata stabilita inutilmente la grande preghiera universale della Chiesa, che viene offerta dal sorgere del sole fino al tramonto (Salmo 50,1) per «i perfidi giudei»33, perché il Signore Dio strappi il velo dai loro cuori (cfr. 2 Corinzi 3,14-16) e siano tirati fuori dalle loro tenebre verso la luce della verità? Se la Chiesa non sperasse che quelli che sono increduli crederanno, sembrerebbe superfluo e inutile pregare per loro (2 Maccabei 12,44); ma con occhio pietoso ha considerato che il Signore possiede uno sguardo d’amore, lui che rende il bene per il male e l’amore per l’odio. Non vale più quanto è stato detto: Bada a non ucciderli (Salmo 59,12)? Non vale: Quando la totalità delle genti sarà entrata, allora tutto Israele sarà salvo (Romani 11,25-26)? Non vale: Edificando Gerusalemme il Signore radunerà i dispersi di Israele (Salmo 147,2)? Sei tu quello che renderà bugiardi i profeti e svuoterà tutti i tesori della pietà e della misericor-dia di Gesù Cristo? La tua dottrina non è tua, ma di quel padre che ti ha mandato (cfr. Giovanni 7,16) e credo che ti basti essere come il tuo maestro. Egli era infatti omicida fin dall’inizio (Giovanni 8,44), bugiardo e padre della menzogna. Scienza mostruosa, sapienza infernale, contraria ai profeti, nemica degli apostoli, sovversione della pietà e della grazia! Eresia tutta immonda, prostituta sacrilega che, ingravidata dallo spirito di falsità, ha concepito il dolore e partorito l’ingiustizia (Salmo 7,15)! Vorrei continuare, ma non è il caso. Infine, per riassumere in breve tutto ciò che penso di questi fatti, quest’uomo si ritiene importante, è pieno di arroganza e si sforza di farsi un nome pari a quello dei grandi della terra (2 Samuele 7,9), come dimostrano le sue parole e le sue azioni; ma non ha i mezzi per portare a termine (Luca 14,28) l’opera. Vi saluto.

33 La preghiera per la conversione dei «perfidi giudei», con queste precise parole, era inserita nella liturgia del venerdì santo fino alla riforma liturgica immediatamente successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Attualmente la preghiera per gli Ebrei rimane nella liturgia del venerdì santo, ma senza queste parole e con toni diversi, anche in relazione alla missione del popolo eletto.

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9. Lettera 544 A tutti gli abati cistercensi (novembre 1146-maggio 1147)34 Ammonisce che nessun monaco parta per la spedizione in Terra Santa. A tutti gli abati, reverendi signori e amati fratelli, il fratello Bernardo, chiamato abate, con l’augurio di abbondare della grazia di Dio. Anche se per obbligo dello stato religioso l’ardore della mia carità si estende a qualun-que fedele, tuttavia la mia attenzione è maggiore verso quelli con cui il comune proposi-to di vita mi ha fatto quasi una sola cosa. Perciò godendo insieme delle vostre prosperi-tà, mi affliggo delle vostre avversità non diversamente delle mie. Conosco, perché rife-ritemi da molti, le mormorazioni contro di voi di alcuni vostri fratelli e io stesso ho udi-to in parte che, disprezzato il proposito di vita santissima, si affrettano a lanciarsi verso il mondo in tumulto. Cos’altro significa il fatto che Abiron e Dathan, che mormoravano contro Mosè, furono inghiottiti dalla terra, se non che le menti di tali persone sono state sepolte dai desideri delle cose terrene35? Cosa hai a che fare con la moltitudine tu che hai deciso per la sin-golarità? Perché cerchi la gloria del mondo, tu che hai scelto di essere trascurato nella casa del tuo Dio (Salmo 84,11)? Cosa offre l’andare in giro per le regioni a te che hai professato di condurre la vita nella solitudine? Perché cuci la croce sulle vesti tu che non cessi di portarla nel tuo cuore, se conservi la vita religiosa? Evitando dunque troppe parole, dico a livello generale non per mia autorità, ma per quella apostolica: Se qualche monaco o converso andrà nella spedizione, sarà sottoposto al debito giudizio di scomu-nica. State bene. 10. Lettera 459 A G. di Staufen36 (poco dopo gennaio 1147) Scusa dal pellegrinaggio crociato un tale Enrico, che ha indossato l’abito monastico. Bernardo, chiamato abate di Clairvaux, al diletto figlio in Cristo G. di Staufen37 salute e preghiere. Il mio carissimo figlio, tuo fratello Enrico, ha deviato il suo cammino verso di me e, su mio consiglio, non ha abbandonato il proposito del segno di salvezza38 che aveva preso, ma ne ha assunto di gran lunga di migliori: fattosi infatti come un povero per Cristo po-vero, ha deciso di vivere con l’abito monastico nella casa dei poveri di Cristo.

34 Jean Leclercq ha espresso qualche dubbio sull’autenticità di questa lettera, pensando che possa essere attribuita a qualche collaboratore di Bernardo. 35 Cfr. Numeri cap. 16. Il nome di Abiron nella Vulgata latina e nelle correnti traduzioni italiane è Abiram. 36 Il destinatario è della casata degli Staufen, come dunque suo fratello Enrico, che Bernardo ha convinto a lasciare il proposito della crociata e a farsi cistercense. Questa lettera è una palese dimostrazione di co-me Bernardo, anche nel pieno della crociata che aveva predicato nel gennaio 1147 in Germania, abbia in cima alla sua scala di valori la conversione al monachesimo. 37 Secondo il Tüchle si tratta di Goffredo di Staufen. 38 Cioè il segno della croce sulla veste; il termine «crociato» non è ancora in uso al tempo di Bernardo.

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Ciò non ti deve sembrare né grave né aspro, perché con Maria ha scelto la parte miglio-re, che non gli sarà tolta (Luca 10,42), e si è rivestito dell’immagine di chi va a Gerusa-lemme, non quella che uccide i profeti (Matteo 23,37), ma quella della quale si parteci-pa nella concordia (Salmo 122,3). Consolati dunque con queste parole (l Tessalonicesi 4,18) e ricorda cosa vi siete detti fra di voi pochissimo tempo fa. E in tutte le cose com-portati con lui così da ottenere riconoscenza da me e da lui e misericordia (cfr. 1 Timo-teo l,13 e 16) da Dio. Sta bene, mio sempre diletto. 11. Lettera 458 Al duca Ladislao, ai nobili e al popolo della Boemia (poco dopo il 13 febbraio 1147)39 Incita tutti alla spedizione verso Gerusalemme e affida l’impresa al vescovo della Mo-ravia. Al duca Ladislao, ai nobili e a tutto il popolo della Boemia, Bernardo, abate di Clair-vaux: salute spirituale in Cristo. l. Devo parlarvi dell’impresa di Cristo, nella quale è anche la vostra salvezza. Lo dico subito perché l’autorità del Signore, la considerazione della vostra utilità e lo slancio d’amore che è in me scusino presso di voi l’indegnità della mia persona. Sono di poca importanza, ma con non poco affetto tutti vi amo nel cuore di Gesù Cristo (Filippesi 1,8). Ora lo zelo mi spinge a scrivere ciò che più volentieri a viva voce mi sforzerei di incidere nei vostri cuori se, come vorrei, se ne offrisse la possibilità. Però lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Matteo 26,41). Il corpo corruttibile non può sottomettersi al desiderio dell’anima e la massa materiale non è capace di seguire la velocità dello spirito. Ma perché me ne lamento? È lontana da voi una parte di me, ma quella che vale di meno. Il mio cuore invece si apre a voi, Boemi, il mio cuore si è dilatato (2 Corinzi 6,11) fino a voi, anche se la di stanza delle nostre terre tiene lontano il corpo pesante. 2. Ascolti dunque la vostra comunità la parola sincera, ascolti la parola di salvezza e stringa con le devote braccia dell’anima l’abbondante offerta di indulgenza. Questo tempo infatti non è uguale agli altri che son passati finora. Dal cielo viene una nuova ricchezza di misericordia. Beati quelli trovati vivi da quest’anno della clemenza del Si-gnore (Isaia 61,2), anno del perdono un vero giubileo. Vi dico che il Signore non fece altrettanto per ogni (Salmo 147,20) generazione precedente e non effuse un dono di grazia così abbondante sui nostri padri. Considerate di quale artificio si serve per sal-varvi; contemplate l’abisso della sua pietà e stupitevi, peccatori: fa in modo (o finge) di aver bisogno, mentre invece vuole provvedere alle vostre necessità. Questo disegno vie-ne dal cielo; non è di un uomo ma procede dal cuore della pietà di Dio. 3. La terra si è scossa e ha tremato (Salmo 18,8), perché il Signore del cielo ha comin-ciato a perdere la sua terra, dove è stato visto e per più di trent’anni ha vissuto uomo tra gli uomini. La sua, che ha onorato con la sua nascita, ha illuminato con i miracoli, ha consacrato col sangue, ha arricchito con la sepoltura. La sua, dove è stata udita la voce della tortora (Cantico 2,12), quando il figlio della Vergine raccomandò l’amore della castità. La sua, dove apparvero i primi fiori della risurrezione. I malvagi hanno comin-ciato a occupare questa terra della promessa e, se non ci sarà chi resista, spalancheranno

39 La lettera 458 ha molte frasi simili o uguali a brani della 363 inviata nel 1146 agli arcivescovi della Francia orientale e della Baviera; manifesta quindi un lavoro di segreteria che riutilizza frasi e concetti di una precedente missiva.

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la bocca contro lo stesso sacrario della nostra religione e si preparano a macchiare lo stesso letto in cui per noi la nostra Vita si addormentò nella morte e a profanare il sanc-ta sanctorum, i luoghi arrossati dal sangue dell’Agnello immacolato. 4. Ascoltate ancora una cosa che dovrebbe commuovere qualunque cristiano, anche se dal cuore duro. Il nostro re è accusato di tradimento: gli si rimprovera di non essere un dio, ma di aver simulato falsamente ciò che non era. Chi di voi gli è fedele si alzi, di-fenda il suo signore dall’infamia del tradimento attribuitogli, affronti una lotta sicura, dove vincere è gloria e morire un guadagno (Filippesi l, 21). Perché indugiate, servi della croce? Perché vi nascondete, se non vi mancano la forza del corpo e le sostanze terrene? Prendete il segno della croce e il Sommo Pontefice, vicario di Pietro, cui è stato detto: Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in cielo (Matteo 16,19), vi offre questa piena indulgenza per tutte le colpe di cui vi confesserete con cuore pentito. Prendete il dono che vi è offerto e fate a gara nel superarvi l’un l’altro per vincere un’irripetibile possibilità di indulgenza. 5. Vi chiedo e vi prego che nessuno pensi di anteporre i propri affari all’impresa di Cri-sto, e che, per cose che si possono o si potrà trattare in altri momenti, lasci andare ciò che in futuro non si può più riavere. E per sapere quando, per dove, come si debba anda-re, ascoltate poche parole: l’esercito del Signore partirà nella prossima Pasqua e in gran parte ha deciso di passare per l’Ungheria. È stato anche stabilito che nessuno indossi abiti variopinti o di pelle e nemmeno di seta e che non si mettano sulle borchie dei ca-valli ricoperture d’oro o d’argento; soltanto sugli scudi e sul legno delle selle che si adopereranno quando si andrà in battaglia sarà consentito a chi lo vorrà di mettere oro o argento, perché in essi splenda il sole (cfr. l Maccabei 6,39) e per il terrore siano disper-se le forze dei pagani. Più ampiamente e più a lungo dovrei proseguire il discorso, se non aveste presso di voi il vescovo di Moravia, uomo santo e dotto, che voglio pregare di darsi pensiero di esortare con grande cura riguardo a ciò la vostra comunità, secondo la sapienza datagli (2 Pietro 3,15) dal Signore. Vi ho mandato anche una copia della lettera del papa; con la massima attenzione dovete ascoltarne l’esortazione e osservarne le decisioni. Vi saluto. 12. Lettera 457 A tutti i fedeli (dopo il 13 marzo 1147) Sulla spedizione in Terra Santa. Stabilisce la festa dei santi Pietro e Paolo come giorno in cui radunarsi a Magdeburgo (per una spedizione crociata contro i popoli pagani al di là dell’Elba). Ai signori e padri reverendi arcivescovi, ai vescovi e ai principi e a tutti i fedeli di Dio, Bernardo, abate di Clairvaux: abbiate spirito di fortezza e di salute spirituale. Non dubi-to che sia stato udito nella vostra terra e divulgato con grandi discorsi come Dio abbia risvegliato lo spirito dei re (Geremia 51,11) e dei principi per far vendetta in mezzo ai popoli (Salmo 149,7) ed estirpare dalla terra i nemici del popolo cristiano. Gran bene, grande ricchezza della misericordia divina! Ma il maligno vede ciò e prova la sua solita invidia, digrigna i denti e si rode (Salmo 112,10); perde molti di quelli che teneva stretti con vari crimini e misfatti: i più perduti si convertono, allontanandosi dal male, pronti a fare il bene. Ma teme un altro danno molto più grande dalla conversione dei pagani, perché sa che

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tutti entreranno e che allora anche l’intero Israele dovrà essere salvato (cfr. Romani 11,25-26). Gli sembra che ora questo momento sia imminente e con astuta malizia si dà da fare per vedere con quale inganno possa opporsi a tanto bene. Perciò ha prodotto un seme cattivo, dei figli scellerati (Isaia 1,4), i pagani, che la forza dei cristiani - per dirlo con vostra pace troppo a lungo ha sopportato, nascondendosi che la insidiavano rovino-samente e non calpestando col suo calcagno le loro teste (cfr. Genesi 3,15) velenose. Ma poiché la Scrittura dice: Il cuore sarà inorgoglito prima della rovina (Proverbi 16,18), avverrà per volere di Dio che la loro superbia sarà presto umiliata e non sarà im-pedita perciò la via per Gerusalemme; poiché il Signore ha affidato alla mia piccolezza di predicare questo lieto annuncio della crociata, rendo noto che il re, i vescovi e i prin-cipi radunatisi a Francoforte hanno deciso che le forze dei cristiani si armino contro di loro e innalzino il segno di salvezza per distruggere totalmente o magari per convertire quelle nazioni, promettendo loro la stessa indulgenza dei peccati concessa a quanti sono partiti per Gerusalemme. Molti hanno preso il segno in quello stesso luogo, contempo-raneamente ho incitato all’impresa gli altri, perché i cristiani che ancora non hanno pre-so il segno per la via di Gerusalemme sappiano che otterranno per sé la stessa indulgen-za con questa spedizione, se tuttavia proseguiranno in essa seguendo il piano dei vesco-vi e dei principi. Una cosa è assolutamente proibita: fare un patto con essi per qualsiasi ragione, né per denaro né per altro tributo, finché, con l’aiuto di Dio, non si distrugga la loro religione o il loro popolo. Parlo anche a voi, arcivescovi e vescovi vostri suffraga-nei, impegnatevi totalmente ad avere la massima sollecitudine per questa impresa e, quanto più potete, adoperatevi con passione e diligenza perché sia compiuta virilmente. Secondo il volere di Dio siete ministri di Cristo e perciò con maggior fiducia si esige da voi che vigiliate sulla sua impresa per quanto vi spetta. Anch’io lo chiedo e lo supplico nel Signore (l Tessalonicesi 4, l) il più possibile. L’aspetto di questo esercito, nelle ve-sti, nelle armi, negli stemmi, sarà poi lo stesso di quello dell’altro esercito, poiché la stessa retribuzione protegge entrambi. Tutti gli uomini radunati a Francoforte hanno poi deciso: che una copia di questa lettera fosse portata ovunque; che i vescovi e i preti ne dessero l’annuncio al popolo di Dio; e che sigillassero col segno della santa croce e armassero contro i nemici della croce di Cristo, che sono al di là dell’Elba, tutti coloro che devono radunarsi a Magdeburgo nella festa degli apostoli Pietro e Paolo. 13. Lettera 380 A Sugero abate di Saint-Denis (aprile 1150) Sulla pericolosa situazione della Chiesa d’Oriente. Al padre pieno d’amore e signore Sugero, per grazia di Dio abate di Saint-Denis, Ber-nardo, chiamato abate di Clairvaux, con l’augurio di salute e con le preghiere di cui è capace nel Signore. Ho ricevuto la parola che mi hanno portato il Maestro del Tempio40 ed il fratello Gio-vanni41 così lieto come se credessi che venisse da Dio. Infatti ormai la Chiesa d’Oriente invoca così miseramente che chiunque nonne condivide la sofferenza con tutto il cuore dimostra di non essere figlio della Chiesa. Ma come sono stato lieto dell’annuncio, così

40 Everardo di Barres. 41 Personaggio non identificabile se non come monaco.

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sono stato triste per la data troppo vicina, nella quale non ho potuto assolutamente veni-re incontro al vostro amore42. Infatti avevo promesso al vescovo di Langres43 di avere con lui nello stesso giorno un colloquio, che per fiducia verso di me aveva chiesto su questioni grandi e gravi. Ad essi44 però ho indicato la data in cui, se per voi va bene, verrò lieto45 con lo stesso vescovo, che potrà essere molto utile all’incontro. 14. Lettera 364 A Pietro abate di Cluny (aprile 1150) Invita Pietro all’assemblea di Chartres, dove bisogna decidere sull’aiuto alla Chiesa d’Oriente. A Pietro suo affezionatissimo padre, per grazia di Dio venerabile abate di Cluny, il fra-tello Bernardo di Clairvaux manda saluti e tutte le preghiere che può nel Signore. l. Credo che sia arrivato ai vostri orecchi, anzi nel più profondo del cuore, il gravissimo e pietoso lamento della Chiesa d’Oriente. È giusto che secondo la vostra grandezza mo-striate un grande affetto alla madre vostra e di tutti i fedeli, soprattutto ora che è tanto fortemente afflitta, in così grave pericolo. È giusto che lo zelo della casa di Dio vi divo-ri (Salmo 69,10) tanto di più, quanto più importante è il posto che vi occupate per sua stessa volontà. Se viceversa rendiamo duri e insensibili i nostri cuori, se giudichiamo piccola questa piaga e non ci addoloriamo di questa rovina (Geremia 8,21), dov’è il no-stro amore verso Dio, dov’è l’affetto per il prossimo? Anzi se non ci diamo da fare per preparare, il più possibile in fretta, un piano e un rimedio a mali e pericoli così grandi, come non dimostreremo di essere ingrati verso colui che nel giorno del pericolo ci na-sconde nel suo tabernacolo (Salmo 27,5), di meritare una punizione più giusta e più for-te per il fatto di restare indifferenti sia verso la gloria di Dio sia verso la salvezza dei fratelli? Ho ritenuto di suggerirvi ciò, con fiducia e familiarità, per la benevolenza che l’eccellenza vostra si degna di mostrare verso la mia indegnità. 2. Infatti i nostri padri, vescovi di Francia, insieme con il re e i principi, verranno a Chartres la terza domenica dopo Pasqua46 per trattare di questo progetto: mi auguro, di meritare di avere qui la vostra presenza. Siccome è evidente che questo progetto ha as-solutamente bisogno di grandi idee di grandi uomini, offrirete a Dio un servizio sicura-mente gradito se non riterrete estranea a voi la sua impresa, ma proverete lo zelo del vo-stro amore nella tribolazione, ora che se ne presenta l’opportunità (Salmo 9,10). Sapete infatti, affezionatissimo padre, sapete che l’amico si prova nella necessità. Perciò confi-do che la vostra presenza darà un grande apporto a questo progetto, sia per l’autorità della santa Chiesa di Cluny, di cui siete a capo per disposizione di Dio, sia soprattutto per la sapienza e la grazia che egli vi ha donato, per utilità del prossimo e per il suo stes-so onore. Egli si degni ora di ispirarvi ancora, perché non vi sia gravoso venire e unirvi ai suoi servi, che devono radunarsi nel suo nome e per lo zelo del suo nome, con la vo-

42 Si tratta dell’assemblea di Laon, convocata per i primi di aprile 1150 da Sugero, abate dell’abbazia re-gia di Saint-Denis e reggente durante l’assenza di Luigi VII, per annunciare il suo progetto di ripresa della crociata ed iniziare a raccogliere i fondi. 43 Goffredo de la Roche-Vanneau, ritornato dalla crociata. 44 Cioè Everardo e Giovanni. 45 Si tratta dell’assemblea di Chartres che si terrà il successivo 7 maggio, nella quale Bernardo fu procla-mato capo della crociata. 46 7 maggio 1150.

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stra presenza, davvero molto desiderata. 15. Lettera 521 A Pietro abate di Cluny (maggio-giugno 1150)47 Lo esorta a non mancare all’incontro che si terrà sull’impresa della Terra Santa. Al venerabile signore e amico carissimo Pietro, per grazia di Dio abate di Cluny, il fra-tello Bernardo, abate di Clairvaux: salute e affetto profondo. È apparsa grande e grave su tutta la terra la questione del Signore. Proprio grande, per-ché il re del cielo sta perdendo la sua terra, la terra della sua eredità, la terra dove posa-rono i suoi piedi. I suoi nemici agitano le loro mani sopra il monte della figlia di Sion, sul colle di Gerusalemme (Isaia 10,32). Manca poco che sia tolto dalla terra il caro letto bello e fiorito nel quale il virgineo fiore di Maria fu sepolto con lenzuoli e aromi, che il suo sepolcro non sia più glorioso, ma ignominioso, a perpetua ignominia della fede cri-stiana. Minacciano di profanare i luoghi resi famosi dagli oracoli dei profeti e dai mira-coli del Salvatore, consacrati dal sangue e dalla parola di Cristo. Che sarà ciò se non di-struggere le fondamenta della nostra salvezza, le ricchezze del popolo cristiano? Il Si-gnore guarda dal cielo per vedere se c’è chi comprenda o Io cerchi (Salmo 14,2), se ci sia chi si addolori per lui; ma non c’è nessuno che aiuti (Salmo 22,12). Si sono intiepidi-ti i cuori dei principi, senza motivo portano la spada (Romani 13,4): è stata riposta den-tro pelli di animali morti, abbandonata alla ruggine, e non la sguainano, benché Cristo patisca dove già un’altra volta ha patito; però allora la subì in un solo angolo, mentre oggi questa passione si prospetta ancora più dura in tutto il mondo. Il Figlio di Dio ricorre anche a voi come a uno dei più grandi principi della sua casa. In-fatti quest’uomo nobile che se n’è andato in una regione lontana (Luca 19,12) vi ha af-fidato molto dei suoi beni sia spirituali che materiali ed è necessario che nel suo bisogno senta il vostro aiuto e il vostro consiglio. Sapete che nel convegno di Chartres si è fatto poco o niente per l’impresa di Dio. Lì è stata molto richiesta e attesa la vostra presenza. Per il 15 luglio è stato indetto un altro convegno a Compiègne, dove chiedo e supplico che la vostra nobiltà sia presente. Così bisogna fare, così esige la necessità, una necessità davvero grande. Per il resto, raccomando al vostro favore il vostro Gualchero - nipote del mio, anzi an-che vostro, Gualchero48 - un giovane che vi vuole molto bene perché è stato vostro al-lievo. Grazie a me vi sia più familiare di prima, così che sappia sempre che la mia inter-cessione gli ha portato un vantaggio. Vi saluta Nicola, mio come vostro: infatti è vo-stro49.

47 Anche in questa lettera tornano concetti, immagini e talvolta parole e frasi della 363 e della 458. 48 Questo secondo Gualchero era un giovane monaco passato da Cluny, di cui era abate Pietro, a Clair-vaux; la scelta di cambiare ordine non aveva però offuscato il suo affetto per il vecchio abate. 49 Nicola di Montiéramey, segretario di Bernardo, che evidentemente fu l’estensore materiale della lettera, lasciando questo suo saluto particolare all’abate di Cluny.

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16. Lettera 256 Al signor papa Eugenio (III) (maggio-giugno 1150) Spinge Eugenio a portare aiuto alla Chiesa d’Oriente, senza perdersi d’amino per la sconfitta subita con la perdita della città di Edessa. Si meraviglia di essere stato eletto a Chartres capo della crociata. l. Non è leggera la notizia che è risuonata: è proprio triste e grave. Triste per chi? Anzi, per chi non è triste? Solo i figli della violenza non avvertono la violenza e non si rattri-stano per le cose tristi, ma si rallegrano ed esultano negli eventi peggiori (Proverbi 2,14). Per tutti gli altri la tristezza è comune, perché la causa è comune. Avete fatto bene a elogiare e rafforzare con l’autorità della vostra lettera il giustissimo zelo della nostra Chiesa francese. Vi dico che in una causa così generale e così grave non bisogna agire tiepidamente e nemmeno timidamente. Ho letto in Seneca50: «Non è forte l’uomo a cui non aumenta il coraggio proprio nella difficoltà». E io aggiungo che l’uomo di fede de-ve avere maggior fiducia in mezzo ai flagelli. Le acque sono entrate fino (Salmo 69,2) all’anima di Cristo, è stata toccata la pupilla del suo occhio. Adesso bisogna sguainare entrambe le spade (cfr. Luca 22,38) di fronte alla passione del Signore, poiché Cristo patisce di nuovo là dove già un’altra volta patì. Chi deve farlo, se non voi? È Pietro che deve sguainarle entrambe ogni volta che è necessario, una per suo comando, l’altra di sua propria mano. Infatti proprio a proposito di quella che sembrava meno sua fu detto a Pietro: Rimetti la tua spada nel fodero (Giovanni 18,11). Quindi era sua anche quella, ma non doveva essere tirata fuori dalla sua mano. 2. Penso che sia tempo e che si debba tirarle fuori tutte e due in difesa della Chiesa d’Oriente. Non dovete trascurare lo zelo di colui del quale tenete il posto. Che senso ha avere il primato e rifiutarne il ministero? Voce di uno che grida (Isaia 40,3; Matteo 3,3; Marco 1,3; Luca 3,4; Giovanni 1,23): «Vengo a Gerusalemme a essere crocifisso di nuovo»51. Anche se alcuni sono tiepidi a questa voce, altri persino sordi, al successore di Pietro non è concesso fingere. Anche lui dirà: Se anche tutti si scandalizzeranno, io no (Marco 14,29). E non sarà atterrito dalle perdite del primo esercito, si darà da fare di più per ripararle. Forse l’uomo non deve fare quello che deve, poiché Dio fa quello che vuole? Io anzi di fronte a mali così grandi come cristiano e uomo di fede spererò in un futuro migliore e sarà per me solo gioia aver subito numerose prove difficili. Davvero abbiamo mangiato il pane del dolore e abbiamo avuto da bere il vino della sofferenza; ma perché diffidi, amico dello sposo (Giovanni 3,29), come se lo sposo buono e saggio non avesse tenuto da parte fino a ora il vino migliore, com’è sua abitudine (cfr. Giovan-ni 2,10)? Chi sa se Dio non cambi e ci perdoni e lasci dietro di sé la benedizione? (Gioele 2,14). È certo che l’alta divinità opera e giudica in questo modo: parlo a uno che lo sa. Quando mai sono venuti ai mortali grandi beni, che non siano stati prevenuti da grandi mali? Per tacere di altro, la morte del Salvatore non precedette quell’unico e par-

50 Ad Lucilium 22,7. 51 Allusione alla leggenda narrata negli Atti del martirio di Pietro dello Pseudo-Lino: Pietro si allontanava da Roma per evitare la persecuzione, gli apparve Cristo e l’apostolo gli chiese: «Quo vadis, Domine?» («Dove vai, Signore?»). La risposta fu: «Vado a Roma a essere crocifisso di nuovo». Il luogo, secondo la tradizione, si trova presso Roma lungo la via Appia (antica), a ottocento metri fuori dalla porta San Seba-stiano, dove attualmente sorge la chiesetta del Domine quo vadis? (Santa Maria in palmis), già esistente nel secolo IX.

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ticolare beneficio della nostra salvezza? 3. Tu dunque, amico dello sposo, dovrai provare di essere amico nella necessità. Se an-che tu, come devi, vuoi bene a Cristo con quell’amore che venne domandato tre volte al tuo predecessore (cfr. Giovanni 21,15-17), con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza, nulla terrai da parte, nulla negherai alla sua sposa in questo grande pericolo; ma spenderai tutte le forze, tutto lo zelo, tutta la sollecitudine, tutta l’autorità, tutto il potere che hai. Un pericolo straordinario esige un’azione straordinaria. Le fondamenta sono state scosse e bisogna opporsi con tutte le forze alla rovina quasi imminente. Tutto ciò l’ho detto proprio per voi, con fiducia, ma con animo fedele. 4. Infine c’è una notizia che, se non sbaglio, avrete già sentito, cioè che nell’assemblea di Chartres, con una decisione di cui mi meraviglio molto, mi hanno eletto come co-mandante militare e politico della crociata. Siate sicuro che non è stata né è mia inten-zione, né mia volontà e tantomeno mia possibilità - giudicando delle mie forze - arrivare fino a questo punto. Chi sono io per disporre le schiere degli accampamenti, per uscire alla testa degli armati? Ma anche se mi bastassero le forze, anche se ne avessi la capaci-tà, cosa c’è di più lontano dalla mia professione? Ma non devo dare lezioni alla vostra saggezza: sapete tutto. Vi scongiuro soltanto, per quell’amore di cui mi siete particolar-mente debitore, di non abbandonarmi al volere degli uomini, ma, secondo il vostro compito particolare, di indagare il disegno di Dio e di impegnarvi perché, come sarà la volontà in cielo, così avvenga. 17. Lettera 289 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda) (1153) Le insegna come comportarsi per compiere il proprio dovere di buona vedova davanti a Dio e di regina davanti agli uomini. All’amata figlia in Cristo Melisenda, regina di Gerusalemme, Bernardo, abate di Clair-vaux, augura misericordia da Dio sua salvezza (Salmo 24,5). l. Mi meraviglio che ormai da molto tempo non vedo una tua lettera, non ricevo i soliti saluti, mi sono quasi dimenticato della tua vecchia devozione verso di me, che ho spe-rimentato in molte occasioni. Ti confesso di aver sentito non so quale brutta notizia che, anche se non la credo sicura, mi ha addolorato perché, sia vera o sia falsa, fa sbiadire un po’ la tua reputazione. È intervenuto però il mio carissimo zio52 Andrea, a cui non posso assolutamente non credere, che in suo scritto mi dà notizie migliori, cioè che ti comporti in maniera pacifica e mansueta53, governi te e i tuoi domini con saggezza e con il consi-glio di persone sagge, hai affetto e familiarità per i fratelli del Tempio, fai fronte atten-tamente e saggiamente ai pericoli che minacciano la tua terra con decisioni e rimedi sal-vifici, secondo la sapienza datati da Dio. Queste, proprio queste sono le opere giuste di una donna forte, umile vedova, grande regina. Per te infatti non è indegno, dato che sei regina, essere vedova, perché, se tu avessi voluto, non lo saresti. Penso anzi che per te sia una gloria, soprattutto tra i cristiani, vivere non meno da vedova che da regina. Esse-re regina dipende dalla successione, rimanere vedova dipende dalla virtù; la prima cosa ti viene dalla famiglia, la seconda da un dono di Dio; alla prima sei nata felicemente, la

52 Zio materno (avunculus, come sopra nella lettera 206 a Melisenda), cui è inviata la lettera successiva (n. 288 dell’epistolario bernardino). 53 Riferimento alla raggiunta pace con il figlio Baldovino III, cfr. sopra, nota alla lettera 354 (n. 5).

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seconda l’hai raggiunta virilmente. È un doppio onore: l’uno secondo il mondo, l’altro secondo Dio, entrambi provengono da Dio. Non ti sembri piccolo l’onore della vedo-vanza, di cui dice san Paolo: Onora le vedove che sono davvero vedove (l Timoteo 5,3). 2. Certo presso di te è familiare l’esortazione di un altro salvifico detto dell’Apostolo, che ti insegna a compiere il bene non soltanto davanti a Dio) ma anche davanti agli uomini (2 Corinzi 8,21). Davanti a Dio come vedova, davanti agli uomini come regina. Attenta come regina, le cui azioni degne o indegne non possono essere nascoste sotto il moggio. Sono sul candelabro, perché appaiano a tutti. Rifletti come vedova, che non deve più piacere al suo uomo, perché possa piacere solo a Dio. Beata te se poni il Salva-tore come muro a protezione della tua coscienza e come antemurale per respingere il di-sonore. Beata te se come vedova lasciata sola ti affiderai totalmente alla guida di Dio. D’altronde non governi bene se non sei ben governata. La regina del sud venne ad ascoltare la sapienza di Salomone per imparare a essere governata e imparare così a go-vernare. Ed ecco qui più di Salomone (Matteo 12,42): parlo di Gesù e di lui crocifisso (1 Corinzi 2,2). Affidati a Lui per essere governata, a Lui per essere istruita su come devi governare. Come vedova impara che è mite e umile di cuore (Matteo 11,29), come regi-na impara che giudica i poveri con giustizia e prende decisioni eque in favore dei man-sueti della terra (Isaia 11,4). Quindi se ti preoccupi della dignità, sta’ attenta anche alla vedovanza perché, per esprimerti chiaramente ciò che penso, non puoi essere una buona regina se non sei una buona vedova. Chiedi da cosa si giudichi buona una vedova? Sicu-ramente da ciò che dice san Paolo: Se ha educato i figli, se ha dato ospitalità, se ha la-vato i piedi dei santi, se ha dato aiuto a chi soffriva tribolazioni, se ha seguito ogni ope-ra buona (1 Timoteo 5,10). Se fai queste cose, sei beata e sarà bene per te. Ti benedica il Signore da Sion (Salmo 128,5), figlia degna di ammirazione nel Signore e di ogni vene-razione. È stata mandata l’esortazione, si attende ora il seguito dalla vostra degnazione. È stata data l’occasione: non si ammette più scusa se la familiarità rinnovata da parte mia non sarà poi corrisposta spesso da voi con parole e lettere familiari. 18. Lettera 288 A suo zio materno Andrea, cavaliere del Tempio54 (1153) Lamenta l’infelice esito della spedizione sacra; desidera la venuta dello zio. l. La tua lettera, che hai mandato da pochissimo, mi ha trovato a letto malato. L’ho rice-vuta tendendo le mani; volentieri l’ho letta, volentieri l’ho riletta, ma ancora più volen-tieri ti avrei voluto vedere. Ho letto in essa il tuo desiderio di vedermi, vi ho letto anche il tuo timore per il pericolo della terra che il Signore ha onorato con la sua presenza; per il pericolo della città che ha consacrato con il suo sangue. Guai ai nostri principi! Nella terra del Signore non hanno fatto niente di buono; nelle loro terre, alle quali ritornarono velocemente, mostrano un’incredibile malizia e non hanno compassione della rovina di Giuseppe (Amos 6,6). Sono potenti per fare il male, non sono capaci invece di fare il bene.

54 Andrea di Montbard, imparentato anche con la famiglia del fondatore dei Templari, Ugo di Payns tra-mite il matrimonio del fratello Gauderico. Entrato tra i Templari verso il 1129, ne divenne gran maestro verso il 1153. Morì nel 1156, solo tre anni dopo san Bernardo.

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Ma confido che il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua ere-dità (Salmo 94,14). In futuro la destra del Signore gli darà forza (Salmo 118,16) e il suo braccio lo aiuterà (cfr. Salmo 89,22), perché tutti sappiano che è bene sperare nel Si-gnore piuttosto che sperare nei principi (Salmo 118,9). Fai bene a paragonarti alla formica. Infatti che altro siamo tutti noi se non formiche abi-tanti della terra e figli dell’uomo (Salmo 49,3), che sudano per cose inutili e vuote? Che ricchezza ha l’uomo per tutto il lavoro con cui si affatica sotto il sole (Qoelet 1,3)?Perciò ascendiamo sopra il sole e il nostro soggiorno sia nei cieli (Filippesi 3,20), andando prima con la mente là dove seguiremo anche col corpo. Là, mio Andrea, là sarà il frutto della tua fatica, là la tua ricompensa. Militi sotto il sole, ma per chi siede sopra il sole. Militando qui, da là aspettiamo i doni. Il pagamento della nostra milizia non viene dalla terra, non da quaggiù; la sua ricom-pensa viene da lontano e dagli estremi confini (Proverbi 31,10). Sotto il sole c’è penu-ria, sopra il sole abbondanza, nei nostri grembi daranno una misura buona, ripiena, colma, sovrabbondante (Luca 6,38). 2. Desideri vedermi e, come scrivi, il compimento del tuo desiderio dipende dal mio vo-lere. Infatti mi riveli di aspettare un mio comando su ciò. E che ti posso dire? Desidero che tu venga e ho timore che venga. Così, posto tra il volere e il non volere, sono stretto da tutti e due e non so che scegliere (Filippesi l, 22-23), se cioè soddisfare nello stesso tempo il tuo desiderio e il mio, o dar credito piuttosto a quanto si dice più spesso di te, che sei ritenuto tanto necessario alla terra da credere che per la tua assenza incomba su di essa una grande rovina. Perciò non oso comandartelo, tuttavia desidero vederti prima di morire (cfr. Genesi 45,28). Tu puoi vedere e sapere meglio se in qualche modo puoi venire senza danno e senza scandalo di quella gente. E potrebbe succedere che la tua venuta non sia proprio inutile. Forse, col favore di Dio, non mancherebbero quelli che ti seguirebbero nel ritorno per soccorrere la Chiesa di Dio, perché sei conosciuto e amato da tutti. Dio può fare che anche tu dica col santo patriarca Giacobbe: Ho attraversato questo Giordano appoggiato al mio bastone ed ecco ritorno con tre schiere (Genesi 32,10). Dico una sola cosa: se vuoi venire, non tardare, perché non succeda che tu venga e non mi trovi. Io infatti sono dato in libagione (2 Timoteo 4,6) e non credo di fare un lungo cammino sulla terra. Chi mi concederà, se Dio vuole, di rinfrescarmi un po’, pri-ma che me ne vada (Salmo 39,14), con la tua amabile e dolce presenza? Ho scritto alla regina55 come volevi, e sono felice della buona testimonianza che le dai. Per tuo tramite saluto nel Signore il maestro e tutti i vostri fratelli del Tempio e quelli dell’Ospedale. Salutando nel Signore per tuo tramite anche i reclusi56 e tutti i santi con i quali potrai parlare al momento opportuno, mi affido alle loro preghiere. Sta al mio posto presso di loro. Assai devotamente saluto anche con grande affetto il nostro Gerardo, che un tempo ha vissuto nella nostra casa e ora, come ho sentito, è stato fatto vescovo57.

55 Si tratta della lettera precedente, n. 289 dell’epistolario bernardino. La regina è ovviamente Melisenda. 56 Si intendono i religiosi che vivono in reclusione, i monaci. 57 Forse Gerardo vescovo di Betlemme dal 1147 al 1154, oppure Gerardo vescovo di Laodicea in quegli anni.

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Da LA CONSIDERAZIONE A PAPA EUGENIO

Libro II, capitolo I

Apologia per la rovina di Gerusalemme 1. Memore della mia promessa, per la quale già da tempo ormai ti sono obbligato, voglio mantenerla anche se in ritardo, o papa Eugenio, migliore tra gli uomini. Mi ver-gognerei del ritardo se fossi consapevole che vi è stata incuria o indifferenza. Non è co-sì, ma ho passato, come tu ben sai, un periodo difficile, che sembrava annunciarmi quasi la cessazione di ogni attività della vita e tanto più dei miei impegni, quando il Signore, provocato dai nostri peccati, sembrò che giudicasse prima del tempo il mondo, certo nella giustizia (cfr. Salmo 9,9 e 96,13), ma dimenticatosi della sua misericordia. Non ha risparmiato il suo popolo (Gioele 2,18), non la sua fama. Non si dice forse tra le genti: «Dov’è il loro Dio»? (Salmo 114,10; Gioele 2,17). E non è strano. I figli della Chiesa e coloro che sono ritenuti di nome cristiano sono abbat-tuti nel deserto (1 Corinzi 10,5), uccisi di spada o consumati dalla fame (cfr. Ezechiele 32,21; 35,8; Lamentazioni 4,9). La contesa si è diffusa sui principi (Salmo 107,40) e il Signore li fece errare in luoghi impraticabili, non lungo la strada. Sulle loro strade avvi-limento ed infelicità (Salmo 14,3), nelle segrete stanze degli stessi re (Salmo 105,30) paura, dolore e confusione. Quanto sono confusi i piedi di coloro che annunciano pace, che annunciano cose buone (cfr. Isaia 52,7; Romani 10,15)! Abbiamo detto: «Pace» e non c’è pace (Ezechiele 13,10), abbiamo promesso il bene, ed ecco lo sconvolgimento (cfr. Geremia 14,19; Isaia 17,14), come se in questa impresa avessimo usato temerarietà o leggerezza (2 Corinzi 1,17). Mi sono gettato in essa chiaramente, non come in una co-sa dubbia (1 Corinzi 9,26), ma per comando tuo, anzi, attraverso di te, di Dio. Perché dunque ho digiunato e non mi ha guardato, ho umiliato la mia anima e mi ha ignorato (Isaia 58,3)? Infatti in tutte queste cose non si è allontanato il suo furore, ma la sua mano è ancora stesa (Isaia 5,25). Intanto con quanta pazienza ascolta le voci sacrileghe e che bestemmiano gli Egiziani, perché con inganno li condusse fuori (Esodo 32,12), per ucciderli nel deserto? Eppure chi ignora che i giudizi del Signore sono veri (Salmo 19,10)? Ma questo giudizio è un abisso così grande (cfr. Salmo 36,7), che mi sembra che non a torto possa dirsi beato chi non sarà scandalizzato (Matteo 11,6) per esso. 2. E in che modo dunque la temerarietà umana osa rimproverare ciò che non è affatto capace di capire? Ricordiamoci dei giudizi del cielo, che sono da secoli (Salmo 25,6), se può essere una consolazione. Qualcuno infatti disse così: «Mi sono ricordato dei tuoi giudizi antichi, Signore, e mi sono consolato» (Salmo 119,52). Dico una cosa nota a tut-ti, ma ora nota a nessuno. I cuori degli uomini son fatti proprio così: ciò che sappiamo quando non è necessario, lo ignoriamo nella necessità. Mosè, quando stava per condurre fuori il popolo dalla terra d’Egitto, gli promise una terra migliore. Altrimenti infatti quando lo avrebbe seguito un popolo capace di gustare solo le cose della terra? Li con-dusse fuori, ma quelli condotti fuori non li introdusse nella terra che aveva promesso. Non è certo alla temerarietà del capo che si può imputare l’evento triste e impensato. Faceva tutto per comando di Dio, con Dio che aiutava e confermava l’opera con i segni che seguivano (Marco 16,20). «Ma - dirai - quel popolo fu di dura cervice (Esodo 32,9; Deuteronomio 9,13), e si comportava sempre polemicamente contro Dio (Deuteronomio

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31,27) e il suo servo Mosè». Va bene, quelli58 erano increduli e ribelli (Numeri 20,10); ma questi che cosa sono? Interroga loro stessi. Che bisogno c’è che io dica quello che loro stessi ammettono? Io dico una sola cosa: che potevano ottenere quelli - gli israeliti - che quando camminavano ritornavano sempre indietro (Ezechiele 1,17)? Anche loro, per tutto il cammino, quando non tornarono col cuore in Egitto? Se quelli caddero e mo-rirono per la loro iniquità (Salmo 73,19) ci meravigliamo che questi - i cristiani - fa-cendo le stesse cose, abbiano subito le stesse conseguenze? La rovina di quelli non fu contraria alle promesse di Dio (Galati 3,21); dunque nemmeno la rovina di questi. Le promesse di Dio non pregiudicano mai la giustizia di Dio. Ascolta un’altra cosa. 3. La tribù di Beniamino aveva peccato59: le altre tribù si preparano alla vendetta con il consenso di Dio. Egli stesso designò il comandante per i combattenti. Così vanno a combattere, confidando nella loro maggiore forza, nella causa più giusta e, ciò che è più importante, nel favore divino. Ma quanto è terribile Dio nei suoi giudizi sui figli degli uomini (Salmo 66,5)! I vendicatori dell’empietà volsero le spalle agli empi, i più ai me-no. Ma ricorrono al Signore e il Signore dice loro: «Assalite» (Giudici 20,23). Assaltano di nuovo e di nuovo sono sconfitti e dispersi. Così prima con il favore di Dio, la seconda volta anche per suo comando, i giusti iniziano una giusta lotta e soccombono. Ma quan-to inferiori nella lotta, tanto superiori nella fede vennero trovati. Che credi che avrebbe-ro fatto di me questi - i principi cristiani60 - se su mia esortazione avessero di nuovo as-salito e di nuovo avessero perso? Quando mi avrebbero ascoltato se li avessi esortati a ripetere la spedizione, ripetere l’impresa, nella quale già una prima e una seconda volta erano stati delusi? Tuttavia gli Israeliti, non considerando la prima e la seconda delusio-ne, per la terza volta obbediscono e vincono. Invece questi diranno: «Come possiamo sapere che il tuo discorso viene da Dio? Che segni fai perché ti crediamo?» (cfr. Gio-vanni 6, 30). Non è il caso che a queste domande risponda io stesso: mi si deve rispar-miare la vergogna. Rispondi tu per me e per te stesso, secondo ciò che hai udito e visto (cfr. Matteo 11,4), o secondo quanto Dio certamente ti ispirerà. 4. Forse ti meravigli che io, che mi ero proposto un altro tema, continui a parlare di queste vicende. Lo faccio non perché abbia dimenticato il mio proposito, ma perché non le ritengo estranee a esso. Di preciso, come ricordi, il mio discorso alla tua degnazione verte sulla considerazione. Ma questa è certo una grande impresa, che necessita di una considerazione non piccola. Se è necessario che le grandi cose siano considerate dai grandi, a chi compete questa cura se non a te, che non hai pari sulla terra? Ma riguardo a ciò tu ti comporterai secondo la sapienza e il potere dati a te dall’alto (Giovanni 19,11). Non compete alla mia umiltà indicarti di fare qualcosa in questo o in quell’altro modo. Basta che ti abbia suggerito che bisogna fare qualcosa perché la Chiesa sia consolata e sia tappata la bocca di quanti dicono cose ingiuste (Salmo 63,12). In mia difesa basta che siano state dette queste poche cose, perché la tua stessa coscienza riceva da parte mia tutti gli argomenti che possano scusare contemporaneamente me e te, almeno pres-so te stesso, anche se non presso quelli che giudicano i fatti dai risultati. Per ciascuno la giustificazione perfetta e assoluta è la testimonianza della sua coscienza (2 Corinzi

58 Bernardo si riferisce agli ebrei liberati dall’Egitto e ai cristiani crociati senza chiamarli per nome, ma indicandoli rispettivamente con i pronomi dimostrativi quelli (gli ebrei) e questi (i cristiani), sino alla fine del paragrafo. 59 Per l’episodio v. Giudici 20,2-30. 60 Ancora una volta Bernardo indica solo il pronome dimostrativo questi.

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1,12). Per me non ha alcun valore essere giudicato (1 Corinzi 4,3) da quelli che dicono bene il male e male il bene, e considerano la luce tenebre e le tenebre luce (Isaia 5,20). E se è proprio necessario che avvenga una di queste due ipotesi, preferisco che la mor-morazione degli uomini vada contro di me che contro Dio. È bene per me se egli si de-gnerà di usarmi come scudo. Assumo volentieri su di me le lingue malevole dei detrat-tori e le frecce avvelenate dei bestemmiatori, perché non arrivino a lui. Non rifiuto di diventare inglorioso, per evitare che ci si avventi contro la gloria di Dio. Chi mi conce-derà di essere glorificato in queste parole: «Poiché per causa tua ho sostenuto l’obbrobrio, la confusione ha coperto la mia faccia» (Salmo 69,8)? La mia gloria è con-dividere la sorte di Cristo, di cui sono queste parole: «Gli oltraggi di chi ti biasimava sono ricaduti sopra di me» (Salmo 69,10). Adesso la penna può tornare al suo argomen-to e per suo tramite il discorso può procedere nei temi che mi ero proposto.

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Libro III, capitolo I

Le cose sottoposte al papa da considerare. Corregga gli eretici, converta i pagani, trattenga gli ambiziosi

2. (…) Ricordati di quelle parole: Sono debitore verso i sapienti e verso gli stolti (Romani 1, 14). Se non le ritieni indebitamente rivolte a te, ricordati anche di ciò, che lo spiacevole nome di debitore si adatta più a chi serve che a chi domina. Nel Vangelo un servo si sente dire: «Quanto devi al mio signore?» (Luca 16,5). Perciò se ti riconosci non dominatore, ma debitore verso i sapienti e gli stolti (Romani 1,14), devi preoccu-parti moltissimo e considerare con tutta l’attenzione che quelli che non lo sono diventi-no sapienti, quelli che sono sapienti non diventino stolti, quelli che lo sono diventati re-cuperino la saggezza. Ma nessun tipo di stoltezza, per così dire, è peggiore dell’infedeltà verso Dio. Dunque sei debitore verso gli infedeli, i giudei, i greci e i popoli pagani. 3. È importante perciò che ti impegni quanto è possibile perché gli increduli si con-vertano alla fede, i convertiti non si allontanino, i lontani ritornino, i perversi siano di-sposti nella rettitudine, quanti sono traviati vengano richiamati alla verità, quanti causa-no traviamento siano convinti con ragioni inconfutabili, perché, se è possibile, si cor-reggano essi stessi, o, se no, perdano l’autorità e la facoltà di traviare gli altri. Non devi affatto ignorare quale sia il peggior genere di stolti, cioè gli eretici e gli scismatici: sono questi infatti i traviati e i travianti, cani per la divisione, volpi per l’inganno. Sarà tua massima cura di correggerli perché non vadano in rovina, o di reprimerli perché non mandino in rovina. Per quanto riguarda i giudei ti scusa il tempo: hanno infatti il loro limite, che non si può anticipare61. Deve convertirsi prima la totalità dei popoli pagani (Romani 11,25). Ma su questi stessi popoli che rispondi? Anzi che risponde la tua con-siderazione a te che vai riflettendo su ciò? Perché i nostri padri hanno creduto di porre un limite al Vangelo, di trattenere la parola della fede mentre dura ancora l’infedeltà? Per qual motivo, mi chiedo, la predicazione che corre veloce sta ferma? Chi ha fermato

61 Bernardo ha sempre presente quanto scrive san Paolo nella lettera ai Romani 11,25-26: «Non voglio, fratelli, che ignoriate questo mistero, perché non siate presuntuosi, che la cecità è stata data a una parte di Israele finché non sia entrata la totalità dei popoli e allora tutto Israele sarà salvo».

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per primo questa corsa di salvezza? Forse ai nostri padri si oppose una causa che igno-riamo o una necessità. 4. Noi quale motivo abbiamo di fingere? Con quale ardire, con quale coscienza non offriamo Cristo a quelli che non ce l’hanno? Con questa nostra ingiustizia teniamo lega-ta la verità di Dio? Eppure è necessario che un giorno la totalità dei popoli arrivi. Aspettiamo che su di essi la fede cada dall’alto? A chi è successo di credere per caso? Come crederanno senza uno che predichi (Romani 10,14)? Pietro fu mandato a Corne-lio, Filippo all’eunuco62 e, se cerchiamo un esempio più recente, Agostino, inviato dal beato Gregorio, trasmise la forma della fede agli angli63. Tu continua fra te a meditare così di questi fatti.

62 Cfr. Atti 10,25 e 8,26. 63 Agostino, monaco romano, fu inviato da papa Gregorio I Magno (590-604) nel 596, insieme a un grup-po di monaci, a evangelizzare il popolo degli Angli, a cominciare dal Kent, il cui re Etelberto fu battezza-to nel 597. Prima della partenza Agostino fu consacrato vescovo e divenne il primo primate di Inghilterra, stabilendosi in quella che ancora oggi è la sede primaziale anglicana, cioè Canterbury; per cui è chiamato sant’Agostino di Canterbury.

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LIBER AD MILITES TEMPLI DE LAUDE NOVAE MILITIAE

PROLOGUS Hugoni, militi Christi et magistro militiae Christi, Bernardus Claraevallis solo nomine abbas: bonum certamen certare. Semel, et secundo, et tertio, nisi fallor, petisti a me, Hugo carissime, ut tibi tuisque commilitonibus scriberem exhortationis sermonem, et adversus hostilem tyrannidem, quia lanceam non liceret, stilum vibrarem, asserens vobis non parum fore adiutorii, si quos armis non possum, litteris animarem. Distuli sane aliquamdiu, non quod contem-nenda videretur petitio, sed ne levis praecepsque culparetur assensio, si quod melius me-lior implere sufficeret, praesumerem imperitus, et res admodum necessaria per me mi-nus forte commoda redderetur. Verum videns me longa satis huiuscemodi exspectatione frustratum, ne iam magis nolle quam non posse viderer, tandem ego quidem quod potui feci: lector iudicet, an satisfeci. Quamquam etsi cui forte aut minime placeat, aut non sufficiat, non tamen interest mea, qui tuae pro meo sapere non defui voluntati. I. SERMO EXHORTATORIUS AD MILITES TEMPLI I. Novum militiae genus ortum nupcr auditur in terris, et in illa regione, quam olim in carne praesens visitavit Oriens ex alto, ut unde tunc in fortitudine manus suae tenebra-rum principes exturbavit, inde et modo ipsorum satellites, filios diffidentiae, in manu fortium suorum dissipatos exterminet, faciens etiam nunc redemptioncm plebis suae, et rursum erigens cornu salutis nobis in domo David pueri sui. Novum, inquam, militiae genus, et saeculis inexpertum, qua gemino padter conflictu atque infatigabiliter decerta-tur, tum adversus carnem et sanguinem, tum contra spiritualia nequitiae in caelestibus. Et quidem uhi solis viribus corporis corporeo fortiter hosti resistitur, id quidem ego tam non iudico mirum, quam nec rarum existimo. Sed et quando animi virtute vitiis sive daemoniis bellum indicitur, ne hoc quidem mirabile, etsi laudabile dixerim, cum plenus monachis cernatur mundus. Ceterum cum uterque homo suo quisque gladio potentcr ac-cingitur, suo cingulo nobiliter insignitur, quis hoc non aestimet omni admiratione di-gnissimum, quod adeo liquet esse insolitum? Impavidus profecto milcs, et omni ex parte securus, qui ut corpus ferri, sic animum fidei lorica induitur. Utrisque nimirum munitus armis, nec daemonem timet, nec hominem. Nec vero mortem formidat, qui mori deside-rat. Quid enim vel vivens, vel moriens metuat, cui vivere Christus est, et mori lucrum? Stat quidem fidenter libenterque pro Christo; sed magis cupit dissolvi et esse cum Chri-sto: hoc enim melius. Securi ergo procedite, milites, et intrepido animo inimicos crucis Christi propellite, certi quia neque mors, neque vita poterunt vos separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu, illud sane vohiscum in omni periculo replicantes: Sive vivimus, sive morimur, Domini sumus. Quam gloriosi revertuntur victores de proelio! Quam beati moriuntur martyres in proelio! Gaudc, fortis athlcta, si vivis et vincis in Domino; sed magis exsulta et gloriare, si moreris et iungeris Domino. Vita quidem fructuosa, et vic-toria gloriosa; sed utrique mors sacra iure praeponitur. Nam si Beati qui in Domini mo-riuntur, non multo magis qui pro Domino moriuntur? 2. Et quidem sive in lecto, sive in bello quis moritur, pretiosa erit sine dubio in conspec-tu Domini mors sanctorum eius. Ceterum in bello tanto profecto pretiosior, quanto et gloriosior. O vita secura, ubi pura conscientia! O, inquam, vita secura, uhi absque for-midine mors exspectatur, immo et exoptatur cum dulcedine, et exdpitur cum devotione!

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O vere sancta et tuta militia, atque a duplici ilio pcriculo prorsus libera, quo id hominum genus solet frequenter periclitari, ubi dumtaxat Christus non est causa militandi. Quoties namque congrederis tu, qui militiam militas saecularem, timendum omnino, ne aut occi-das hostem quidem in corpore, te vero in anima, aut forte tu occidaris ab illo, et in cor-pore simul, et in anima. Ex cordis nempe affectu, non belli eventu, pensatur vel pericu-lum, vel victoria christiani. Si bona fuerit causa pugnantis, pugnae exitus malus esse non poterit, sicut nec bonus iudicabitur finis, uhi causa non bona, et intentio non recta prae-cesserit. Si in voluntate alterum occidendi te potius occidi contigerit, moreris homicida. Quod si praevales, et voluntate superandi vel vindicandi forte ocddis hominem, vivis homicida. Non autem expedit sive mortuo, sive vivo, sive victori, sive vieto, esse homi-cidam. Infclix victoria, qua superans hominem, succumbis vitio et, ira tibi aut superbia dominante, frustra gloriaris de homine superato. Est tamen qui ncc ulciscendi zelo, nec vincendi typho, sed tantum evadendi rcmedio interficit hominem. Sed ne hanc quidem bonam dixerim victoriam, cum de duobus malis, in corpore quam in anima mori levius sit. Non autem quia corpus occiditur, etiam anima moritur; sed anima, quae peccaverit, ipsa morietur. II. DE MILITIA SAECULARI 3. Quis igitur fìnis fructusve saecularis huius, non dico, militiae, sed malitiae, si et occi-sor letalitcr peccat, et occisus actcrnalitcr perit? Enimvero, ut verbis utar Apostoli, et qui arat, in spe debet arare, et qui triturat, in spe fructus percipiendi. Quis ergo, o milites, hic tam stupendus error, quis furor hic tam non ferendus, tantis sumptibus ac laboribus militare, stipendiis vero nullis, nisi aut mortis, aut criminis? Operitis equos sericis, et pendulos nescio quos panniculos loricis superinduitis; depingitis hastas, dypeos et scllas; frena et calcaria auro et argento gemmisque circumornatis, et cum tanta pompa pudendo furore et impudenti stupore ad mortem propcratis. Militaria sunt haec insignia, an muliebria potius ornamenta? Numquid forte hostilis mucro reverebitur aurum, gem-mis parcet, serica penetrare non poterit? Denique, quod ipsi saepius certiusque experi-mini, tria esse praecipue necessaria praelianti, ut scilicet strenuus industriusque milcs et circumspectus sit ad se servandum, et expeditus ad discurrendum, et promptus ad fe-riendum; vos, per contrarium oculorum gravamen ritu femineo comam nutritis, longis ac profusis camisiis propria vobis vestigia obvolvitis, delicatas ac teneras manus amplis et circumfluentibus manicis sepelitis. Super haec omnia est, quod armati conscientiam magis terret, causa illa nimirum satis levis ac frivola, qua videlicet talis praesumitur et tam periculosa militia. Non sane aliud inter vos bella movet litesque suscitat, nisi. aut irrationabilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscumque possessionis cupiditas. Talibus certe ex causis neque occidere, neque occumbere tutum est. III. DE NOVA MILITIA 4. At vero Christi milites securi praeliantur praelia Domini sui, nequaquam metuentes aut de hostium caede peccatum, aut de sua nece periculum, quandoquidem mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis, et plurimum gloriae me-reatur. Hinc quippe Christo, inde Christus acquiritur, qui nimirum et libenter accipit ho-stis mortem pro ultione, et libentius praebet seipsum militi pro consolatione. Miles, in-quam, Christi securus interimit, interit securior. Sibi praestat cum interit, Christo cum interimit. Non enim sine causa gladium portat: Dei enim minister est ad vindictam mal-efactorum, laudem vero bonorum. Sane cum occidit malefactorern, non homicida, sed,

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ut ita dixerim, malicida, et planc Christi vindex in his qui male agunt, et defensor chris-tianorum reputatur. Cum autem occiditur ipse, non periisse, sed pervenisse cognoscitur. Mors ergo quam irrogat, Christi est lucrum; quam excipit, suum. In morte pagani chri-stianus gloriatur, quia Christus glorificatur; in morte christiani, Regis liberalitas aperi-tur, cum miles remunerandus educitur. Porro super illo lactabitur iustus, cum vi derit vindictam. De isto dicet homo: si utique est fructus iusto? Utique est Deus iudicans eos in terra. Non quidem vel pagani necandi essent, si quo modo aliter possent a nimia inf-cstatione seu oppressione fidelium cohiberi. Nunc autem melius est ut occidantur, quam certe relinquatur virga peccatorum super sortem iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem manus suas. 5. Quid enim? Si percutere in gladio omnino fas non est christiano, cur ergo praeco Sal-vatoris contentos fore suis stipendiis militibus indixit, et non potius omnem eis militiam interdixit? Si autcm, quod verum est, omnibus fas est, ad hoc ipsum dumtaxat divinitus ordinatis, nec aliud sane quidquam melius professis, quibus, quaeso, potius quam quo-rum manibus et viribus urbs fortitudinis nostrae Sion pro nostro omnium munimine re-tinetur, ut depulsis divinae transgrcssoribus lcgis, secura ingrediatur gens iusta, custo-diens veritatcm? Secure proinde dissipentur gentes quae bella volunt, et abscidantur qui nos conturbant, et disperdantur de civitate Domini omnes opcrantes iniquitatcm, qui re-positas in Ierosolymis christiani populi inaestimabiles divitias tollere gestiunt, sancta polluere, et hereditate possidere Sanctuarium Dei. Exseratur gladius uterque fidelium in cervices inimicorum, ad destruendam omnem altitudinem extollentem se adversus scicntiam Dei, quae est christianorum fides, ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eo-rum? 6. Quibus expulsis revertetur ipse in hereditatem domumque suam, de qua iratus in Evangelio: Ecce, inquit, relinquetur vobis domus vestra deserta, et per Prophetam ita conqueritur: Reliqui domum meam, dimisi hereditatem meam, implebitque illud item propheticum: Redemit Dominus populum suum et liberavit eum, et venient et exsulta-bunt in monte Sion, et gaudebunt de bonis Domini. Laetare, Ierusalem, et cognosce iam tempus visitationis tuae. Gaudete et laudate simul, deserta Ierusalem, quia consolatus est Dominus populum suum, redemit Ierusalem, paravit Dominus brachium sanctum suum in oculis omnium gentium. Virgo Israel, corrueras, et non erat qui sublevaret te. Surge iam, excutere de pulvere, virgo, captiva filia Sion. Surge, inquam, et sta in excel-so, et vide iucunditatem, quae venit tibi a Deo tuo. Non vocaberis ultra derelicta, et ter-ra tua non vocabitur amplius desolata, quia complacuit Domino in te, et terra tua inha-bitabitur. Leva in circuitu oculos tuos et vide: omnes isti congregati sunt, venerunt tibi. Hoc tibi auxilium missum de sancto. Omnino per istos tibi iam iamque illa persolvitur antiqua promissio: Ponam te in superbiam saeculorum, gaudium in generatione et ge-nerationem, et suges. Lac gentium, et mamilla regum lactaberis; et item: Sicut mater consolatur filios suos, ita et ego consolabor vos, et in Ierusalem consolabimini. Videsne quam crebra veterum attestatione nova approbatur militia, et quod, sicut audivimus, sic videmus in civitate Domini virtutum? Dummodo sane spiritualibus non praeiudicet sen-sibus litteralis interpretatio, quominus scilicet speremus in aeternum, quidquid huic tempori significando ex Prophetarum vocibus usurpamus, ne per id quod cernitur evane-scat quod creditur, et spei copias imminuat penuria rei, praesentium attestatio sit eva-cuatio futurorum. Alioquin terrenae civitatis temporalis gloria non destruit caelestia bo-na, sed astruit, si tamen istam minime dubitamus illius tenere figuram, quae in caelis est

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mater nostra. IV. DE CONVERSATIONE MILITUM TEMPLI 7. Sed iam ad imitationem seu confusionem nostrorum militum, non piane Deo, sed diabolo militantium, dicamus brevitcr Christi equitum mores et vitam, qualiter bello domive conversentur, quo palam fiat, quantum ab invicem differant Dei saeculique mili-tia. Primo quidem utrolibet disciplina non deest, oboedientia nequaquam contemnitur, quia, teste Scriptura, et filius indisciplinatus peribit, et peccatum ariolandi est repugna-re, et quasi scelus idololatriae nolle acquiescere. Itur et reditur ad nutum eius qui praeest, induitur quod ille donaverit, nec aliundè vestimentum seu alimentum praesumi-tur. Et in victu et in vestitu cavetur omne superfluum, soli necessitati consulitur. Vivitur in communi, plane iucunda et sobria conversatione, absque uxoribus et absque liberis. Et ne quid desit ex evangelica perfectione, absque omni proprio habitant unius moris in domo una, solliciti servare unitatem spiritus in vinculo pacis. Dicas universae multitudi-nis esse cor unum et animam unam: ita quisque non omnino propriam sequi voluntatem, sed magis obsequi satagit imperanti. Nullo tempore aut otiosi sedent, aut curiosi vagan-tur; sed semper, dum non procedunt, - quod quidem raro contingit -, ne gratis comedant panem, armorum seu vestimentorum vel scissa resarciunt, vel vetusta reficiunt, vel inor-dinata componunt, et quaeque postremo facienda Magistri voluntas et communis indicit necessitas. Persona inter eos minime accipitur: defertur meliori, non nobiliari. Honore se invicem praeveniunt; alterutrum onera portant, ut sic adimpleant legem Christi. Verbum insolens, opus inutile, risus immoderatus, murmur vel tenue, sive susurrium, nequa-quam, uhi deprehenditur, inemendatum relinquitur. Scacos et aleas detestantur; abhor-rent venationem, nec ludicra illa avium rapina, ut assolet, delectantur. Mimos et magos et fabulatores, scurrilesque cantilenas, atque ludorum spectacula, tamquam vanitates et insanias falsas respuunt et abominantur. Capillos tondent, scientes, iuxta Apostolum, ignominiarn esse viro, si comam nutrierit. Numquam compti, raro loti, magis autem ne-glecto crine hispidi, pulvere foedi, lorica et caumate fusci. 8. Porro imminente bello, intus fide, foris ferro, non auro se muniunt, quatenus armati, et non ornati, hostibus metum incutiant, non provocent avaritiam. Equos habere cupiunt fortes et veloces, non tamen coloratos aut phaleratos: pugnam quippe, non pompam, victoriam, sed non gloriam cogitantes, et studentes magis esse formiclini quam admira-tioni. Deinde non turbulenti aut impetuosi, et quasi ex levitate praecipites, sed consulte atque cum omni cautela et providentia seipsos ordinantes et disponentes in aciem, iuxta quod de patrihus scriptum est. Veri profecto Israelitae procedunt ad bella pacifici. At vero uhi ventum fuerit ad certamen, tum demum pristina lenitate postposita, tamquam si dicerent: Nonne qui oderunt te, Domine, oderam, et super inimicos tuos tabescebam? irruunt in adversarios, hostes velut oves reputant, nequaquam, etsi paucissimi, vel saevam barbariem, vel numerosam multitudinem formidantes. Noverunt siquidem non de suis praesumere viribus, sed de virtute Domini Sabaoth sperare victoriam, cui nimi-rum facile esse confidunt, iuxta sententiam Macchabaei, concludi multos in manus pau-corum, et non esse differentiam in conspectu Dei caeli liberare in multis, et in paucis, quia non in multitudine excercitus est victoria belli, sed de caelo fortitudo est. Quod et frequentissime experti sunt, ita ut plerumque quasi persecutus sit unus mille, et duo fu-garint decem millia. Ita denique miro quodam ac singulari modo cernuntur et agnis mi-tiores, et leonihus ferociores, ut pene dubitem quid potius censeam appellandos, mona-chos videlicet an milites, nisi quod utrumque forsan congruentius nominarim, quibus

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neutrum deesse cognoscitur, nec monachi mansuetudo, nec militis fortitudo. De qua re quid dicendum, nisi quod a Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris? Tales sibi delegit Deus, et collegit a finibus terrae ministros ex fortissimi Israel, qui veri lectulum Salomonis sepulcrum vigilanter fideliterque custodiant, omnes tenentes gla-dios, et ad bella doctissimi. V. DE TEMPLO 9. Est vero templum Ierosolymis, in quo pariter habitant, antiquo et famosissimo illi Sa-lomonis impar quidem structura, sed non inferius gloria. Siquidem universa illius ma-gnificentia in corruptibilibus auro et argento, in quadratura lapidum et varietate ligno-rum continebatur; huius autem omnis decor et gratae venustatis ornatus, pia est habitan-tium religiositas et ordinatissima conversatio. Illud variis exstitit spectandum coloribus; hoc diversis virtutibus et sanctis actibus venerandum: domum quippe Dei decet sancti-tudo, qui non tam politis marmoribus quam ornatis moribus delectatur, et puras diligit mentes super auratos parietes. Ornatur tamen huius quoque facies templi, sed armis, non gemmis, et pro antiquis coronis aureis, circumpendentihus clypeis paries operitur; pro candelabris, thuribulis atque urceolis, domus undique frenis, sellis ac lanceis communi-tur. Piane his omnibus liquido demonstrantibus eodem pro domo Dei fervere milites ze-lo, quo ipse quondam militum Dux, vehementissime inflammatus, armata illa sanctissi-ma manu, non tamen ferro, sed flagello, quod fecerat de resticulis, introivit in templum, negotiantes expulit, nurnmulariorum effudit aes et cathedras vendentium columbas evertit, indignissimum iudicans orationis domum huiuscemodi forensibus incestari. Talis proinde sui Regis permotus exemplo devotus exercitus, multo sane indignius longeque intolerabilius arbitrans sancta pollui ab infidelibus quam a mercatoribus in-festari, in domo sancta cum equis et armis commoratur, tamque ab ipsa quam a ceteris sacris omni infidelitatis spurca et tyrannica rabie propulsata, ipsi in ea die noctuque tam honestis quam utilibus officiis occupantur. Honorant certatim Dei templum sedulis et sinceris obsequiis, iugi in eo devotione immolantes, non quidem veterum ritu pecudum carnes, sed vere hostias pacificas, fraternam dilectionem, devotam subiectionem, volun-tariam paupertatem. 10. Haec Ierosolymis actitantur, et orbis excitatur. Audiunt insulae, et attendunt populi de longe, et ebulliunt ab Oriente et Occidente, tamquam torrens inundans gloriae genti-um et tamquam fluminis impetus laetificans civitatem Dei. Quodque cernitur iucundius et agitur commodius, paucos admodum in tanta multitudine hominum illo confluere, ni-si utique sceleratos et impios, raptores et sacrilegos, homicidas, periuros atque adul-teros, de quorum profecto profectione, sicut duplex quoddam constat provenire bonum, ita duplicatur et gaudium, quandoquidem tam suos de suo discessu laetificant, quam il-los de adventu quibus subvenire festinant. Prosunt quippe utrobique, non solum utique istos tuendo, sed etlam illos iam non opprimendo. Itaque laetatur Aegyptus in profect-lone eorum, cum tamen de protectione eorum nihilominus laetetur mons Sicin et exsultent filiae Iudae. Illa quidem se de manu eorum, ista magis in manu eorum liberari se merito gloriatur. Illa libenter amittit crudelissimos sui vastatores, ista cum gaudio su-scipit sui fidelissimos defensores, et unde ista dulcissime consolatur, inde illa aeque sa-luberrime desolatur. Sic Christus, sic novit ulcisci in hostes suos, ut non solum de ipsis, sed per ipsos quoque frequenter soleat tanto gloriosius, quanto et potentius triumphare. Iucunde sane et commode, ut quos diu pertulit oppugnatores, magis iam propugnatores habere indpiat, faciat que de hoste militem, qui de Saulo quondam persecutore fecit

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Paulum praedicatorem. Quamobrem non miror, si etiam superna illa curia, iuxta testi-monium Salvatoris, exsultat magis super uno peccatore paenitentiam agente, quam su-per plurimis iustis qui non indigent paenitentia, dum peccatoris et maligni tantis procul dubio prosit conversio, quantis et prior nocuerat conversatio. 11. Salve igitur civitas sancta, quam ipse sanctificavit sibi tabernaculum suum Altissi-mus, quo tanta in te et per e generatio salvaretur. Salve civitas Regis magni, ex qua nova et iucunda mundo miracula nullis paene ab initio defuere temporibus. Salve domina gentium, princeps provinciarum, Patriarcharum possessio, Prophetarum mater et Apo-stolorum, initiatrix fidei, gloria populi christiani, quam Deus semper a principio propte-rea passus est oppugnari, ut viris fortibus sicut virtutis, ita fores occasio et salutis. Salve terra promissionis, quae olim fluens lac et mel tuis dumtaxat habitatoribus, nunc univer-so orbi remedia salutis, vitae porrigis alimenta. Terra, inquam, bona et optima, quae in fecundissimo illo sinu tuo ex arca paterni cordis caeleste granum suscipiens, tantas ex superno semine martyrum segetes protulisti, et nihilominus ex omni reliquo fidelium genere fructum fertilis gleba tricesimum, et sexagesimum, et centesimum, super omnem terram multipliciter procreasti. Unde et de magna multitudine dulcedinis tuae iucundis-sime satiati et opulentissime saginati, memoriam abundantiae suavitatis tuae ubique eructuant qui te viderunt, et usque ad extremum terrae magnificentiam gloriae tuae lo-quuntur eis qui te non viderunt, et enarrant mirabilia quae in te fiunt. Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei. Sed iam ex his quibus affluis deliciis, nos quoque pauca proferamus in medium, ad laudem et gloriam nominis tui. VI. DE BETHLEEM 12. Habes ante omnia in refectione animarum sanctarum Bethleem domum panis, in qua primum is qui de caelo descenderat, pariente Virgine, panis vivus apparuit. Monstratur piis ibidem iumentis praesepium, et in praesepio fenum de prato virginali, quo vel sic cognoscat bos possessorem suum et asinus praesepe Domini sui. Omnis quippe caro fenum, et omnis gloria eius ut flos feni. Porro homo quia suum, in quo factus est, hono-rem non intelligendo, comparatus est iumentis insipientlbus et similis factus est illis, Verbum panis angelorum factum est cibaria iumentorum, ut habeat carnis fenum quod ruminet, qui verbi pane vesci penitus dissuevit, quousque per hominem Deum priori redditus dignitati, et ex pecore rursus conversus in hominem, cum Paulo dicere possit: Etsi cognovimus Christum secundum carnem, sed nunc iam non movimus. Quod sane non arbitror quempiam dicere posse veraciter, nisi qui prius cum Petro ex ore Veritatis illud item audierit: Verba quae ego locutus sum vobis, spiritus et viva sunt; caro autem non prodest quidquam. Alioquin qui in verbis Christi vitam invenit, carnem iam non re-quirit, et est de numero beatorum, qui non viderunt et crediderunt. Nec enim opus est vel lactis poculum, nisi utique parvulo, vel feni pabulum, nisi utique iumento. Qui au-tem non offendit in verbo, ille perfectus est vi,, solido piane vesci cibo idoneus, et, licet in sudore vultus sui, panem verbi comedit absque offensione. Sed et securus ac sine scandalo loquitur Dei sapientiam dumtaxat inter perfectos, spiritualibus spiritualia com-parans, cum tamen infantibus sive pecoribus cautus sit pro captu quidem eorum propo-nere tantummodo Iesum, et hunc crucifixum. Unus tamen idemque cibus ex caelestibus pascuis suaviter quidem et ruminatur a pecore, et manducatur ab homine, et viro vires, et parvulo tribuit nutrimentum. VII. DE NAZARETH

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13. Cernitur et Nazareth, quae interpretatur flos, in qua is qui natus in Bethleem erat, tamquam fructus in flore coalescens, nutritus est Deus infans, ut floris odor fructus saporem praecederet, ac de naribus Prophetarum faucibus se Apostolorum liquor sanc-tus infunderet, Iudaeisque tenui odore contentis, gustu solido reficeret christianos. Senserat tamen bune florem Nathanad, quod super omnia aromata suave redoleret. Unde et aiebat: A Nazareth potest aliquid boni esse? Sed nequaquam sola contentus fra-grantia, respondentem sibi: Veni et vide, Philippum secutus est. Immo vero mirae illius suavitatis admodum respersione delectatus, haustuque boni odoris factus saporis avi-clior, odore ipso duce, ad fructum usque sine mora pervenire curavit, cupiens plenius experiri quod tenuiter praesenserat, praesensque degustare quod odoraverat absens. Videamus et de olfactu Isaac, ne forte aliquid, quod pertineat ad haec ipsa quae in manibus sunt, portenderit. Loquitur de ilio Scriptura sic: Statimque ut sensit vestimento-rum eius fragrantiam - haud dubium quin Iacob -: Ecce, inquit, odor filii mei sicut odor agri pleni, cui benedixit Dominus. Vestimenti fragrantiam sensit, sed vestiti praesentiam non agnovit, soloque vestis, tamquam floris odore, forinsecus ddectatus, quasi fructus interioris dulcedinem non gustavit, dum et decti fìlii simul et sacramenti fraudatus cog-nitione remansit. Quo spectat hoc? Vestimentum profecto spiritus, littera est et caro Verbi. Sed ne nunc quidem Iudaeus in carne Verbum, in homine scit deitatem, nec sub tegmine litterae sensum pervidet spiritualem, farisque palpans hoecli pellem, quae simil-itudinem maioris, hoc est primi et antiqui peccatoris, expresserat, ad nudam non perven-it veritatem. Non sane in carne peccati, sed in similitudine carnis peccati, qui peccatum non facere, sed tollere veniebat, apparuit, ea scilicet de causa, quam ipse non tacuit, ut qui non vident videant, et qui vident caeci fiant. Hac ergo similitudine deceptus Prophe-ta, caecus hodieque, quem nescit benedicit, dum quem lectitat in libris, ignorat et in mi-raculis, et quem propriis attrectat manibus, ligando, flagellando, colaphizando, minime tamen vd resurgentem intelligit. Si enim cognovissent, numquam Dominum Gloriae crucifixissent. Percurramus succincto sermone et cetera loca sancta, et si non omnia, sal-tem aliqua, quoniam quae digne admirari per singula non sufficimus, libet vel insignio-ra, et ipsa breviter recordari. VIII. DE MONTE OLIVETI ET VALLE IOSAPHAT 14. Ascenditur in montem Oliveti, descenditur in vallem Iosaphat, ut sic divitias divinae misericordiae cogites, quatenus horrorem iudicii nequaquam dissimules, quia etsi in multis miserationibus suis multus est ad ignoscendum, iudicia tamen eius nihilominus abyssus multa, quibus agnoscitur valde omnino terribilis super :filios hominum. David denique qui montem Oliveti demonstrat, dicens: Homines et iumenta salvabis, Domine, quemadmodum multiplicasti misericordiam tuam, Deus, etiam iudicii vallem in eodem Psalmo commemorat: Non veniat, inquiens, mihi pes superbiae, et manus peccatoris non moveat me, cuius et praecipitium se omnino perhorrescere fatetur, cum in allo Psalmo ita loquitur, orans: Confige timore tuo carnes meas: a iudiciis enim tuis timui. Superbus in hanc vallem corruit, et conquassatur; humilis descendit, et minime periclita-tur. Superbus excusat peccatum suum, humilis accusat, sdens quia Deus non iudicat bis in idipsum, et quod si nosmetlpsos iudicaverimus, non utique iudicabimur. 15. Porro superbus non attendens quam horrendum sit incidere in manus Dei viventis, facile prorumpit in verba malitiae ad excusandas excusationes in peccatis. Magna revera malitia, tui te non misereri, et solum post peccatum remedium confessionis a te ipso re-pellere, ignemque in sinu tuo involvere potius quam excutere, nec praebere aurem con-

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silio Sapientis qui ait: Miserere animae tuae placens Deo. Proinde qui sibi nequam, cui bonus? Nunc iudicium est mundi, nunc princeps huius mundi eicietur foras, hoc est de corde tuo, si te tamen ipse humiliando diiudicas. Erit iudicium caeli, quando ipsum vo-cabitur caelum desursum et terra discernere populum suum, in quo sane timendum, ne proiciaris tu cum ipso et angelis eius, si tamen inventus fueris iniudicatus. Alioquin spi-ritualis homo, qui omnia diiudicat, ipse a nemine iudicabitur. Propter hoc ergo iudicium incipit a domo Dei, ut suos, quos novit iudex, cum venerit, inveniat iudicatos, et iam de illis nil haheat tunc iudicare, quando videlicet iudicandi sunt hi qui in labore hominum non sunt, et cum hominibus non flagellantur. 16. Quam laeto sinu Iordanis suscipit christianos, qui se Christi gloriatur consecratum baptismate! Mentitus est plane Syrus ille leprosus, qui nescio quas Damasci aquas aquis praetulit Israelis, cum Iordanis nostri devotus Deo famulatus toties probatus exstiterit, sive quando Eliae, sive quando Elisaeo, sive etiam, ut antiquius aliquid recolam, quando Iosue et omni populo simul impetum mirabiliter inhibens, siccum in se transitum prae-buit. Denique quid in fluminibus isto eminentius, quod ipsa sibi Trinitas sui quadam evidenti praesentia dedicavit? Pater auditus, visus Spiritus Sanctus, Filius est et baptiza-tus. Merito proinde ipsam eius virtutem, quam Naaman ille consulente Propheta sensit in corpore, iubente Christo universus quoque fìdelis populus in anima experitur. X. DE LOCO CALVARIAE 17. Exitur etiam in Calvariae locum, ubi verus Elisaeus ab insensatis pueris irrisus, ri-sum suis insinuavit aeternum, de quibus ait: Ecce ego et pueri mei, quos mihi dedit De-us. Boni pueri, quos per contrarium illorum malignantium ad lauclem excitat Psalmista, dicens: Laudate, pueri, Dominum, laudate nomen Domint, quatenus in ore sanctorum infantium et lactentium perficeretur laus, quae ex ore defecerat invidorum, eorum utique, de quibus queritur ita: Filios enutrivi et exaltavi; ipsi autem spreverunt me. As-cendit itaque crucem calvus noster, munda pro mundo expositus et, revelata facie ac discooperta fronte, purgationem peccatorum faciens, probrosae et austerae mortistam non erubuit ignominiam quam nec poenam exhorruit, ut nos opprobrio sempiterno eriperet, restitueret gloriae. Nec mirum: quid enim erubesceret, qui ita lavit nos a pecca-tis, non quidem ut aqua diluens et retinens sordes, sed veluti solis radius desiccans et retinens puritatem? Est quippe Dei sapientia ubique attingens propter munditiam suam. XI. DE SEPULCRO 18. Inter sancta ac desiderabilia loca sepulcrum tenet quodammodo principatum, et de-votionis plus nescio quid sentitur, uhi mortuus requievit, quam uhi vivens conversatus est, atque amplius movet ad pietatem mortis quam vitae recordatio. Puto quod illa aus-terior, haec dulcior videatur; magisque infumitati hlandiatur humanae quies dormitionis quam labor conversationis, mortis securitas quam vitae rectitudo. Vita Christi vivendi mihi regula exstitlt, mors a morte redemptio. Illa vitam instruxit, mortem ista destruxit. Vita quidem laboriosa, sed mors pretiosa; utraque vero admodum necessaria. Quid enim Christi prodesse poterat, sive mors nequiter viventi, sive vita damnabiliter morienti? Numquid denique aut mors Christi etiam nunc male usque ad mortem viventes a morte aeterna liberat, aut mortuos ante Christum sanctos Patres vitae sanctitas liberavit, sicut scriptum est: Quis est homo qui vivet et non videbit mortem, eruet animam suam de ma-nu inferi? Nunc ergo quia utrumque nobis pariter necessarium erat, et pie vivere, et se-cure mori, et vivendo vivere docuit, et mortem moriendo securam reddidit, quoniam

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quidem resurrecturus occuhuit, et spero fecit morientibus resurgendi. Sed addidit et ter-tium beneficium, cum etiam peccata donavit, sine quo utique cetera non valebant. Quid enim - quantum quidem ad veram summamque beatitudinem spectat - quantalibet vitae rectitudo seu longitudo prodesse poterat illi, qui vel solo originali peccato teneretur ad-strictus? Peccatum quippe praecessit, ut sequeretur mors, quod sane si cavisset homo, mortem non gustasset in aetemum. 19. Peccando itaque vitam amisit et mortem invenit, quoniam quidem et Deus ita prae-dixerat, et iustum profecto erat, ut si peccaret homo, moreretur. Quid namque iustius po-terat quam recipere tallonem? Vita siquidem Deus animae est, ipsa corporis. Peccando volontarie, volens perdidit vivere; nolens perdat et vivificare. Sponte repullt vitam cum vivere noluit; non valeat eam dare cui vel quatenus voluerit. Noluit regi a Deo; non queat regere corpus. Si non paret superiori, inferiori cur imperet? Invenit Conditor suam sibi rebellem creaturam; inveniat anima suam sibi rebellem pedissequam. Transgressor inventus est homo divinae legis; inveniat et ipse aliam legem in membris suis, repu-gnantem legi mentis suae, et captivantem se in legem peccati. Porro peccatum, ut scrip-tum est, separat inter nos et Deum; separat proinde etiam mors inter corpus nostrum et nos. Non potuit dividi a Deo anima nisi peccando, nec corpus ab ipsa nisi moriendo. Quid itaque austerius pertulit in ultione; id solum passa a subdito, quod praesumpserat in auctorem? Nihil profecto congruentius, quam ut mors operata sit mortem, spiritualis corporalem, culpabilis poenalem, voluntaria necessariam. 20. Cum ergo hac gemina morte secundum utramque naturam homo damnatus fuisset, altera quidem spirituali et voluntaria, altera corporali et necessaria, utrique Deus homo una sua corporali ac voluntaria benigne et potenter occurrit, illaque una sua nostram utramque damnavit. Merito quidem: nam ex duabus mortibus nostris, cum altera nobis in culpae meritum, altera in poenae debitum reputaretur, suscipiens poenam et nesdens culpam, duro sponte et tantum in corpore moritur, et vitam nobis et iustitiam promere-tur. Alioquin si corporaliter non pateretur, debitum non solvisset; si non voluntarie mo-reretur, meritum mors illa non habuisset. Nunc autem si, ut dictum est, mortis meritum est peccatum et peccati debitum mors, Christo remittente peccatum et moriente pro pec-catoribus, profecto iam nullum est meritum, et solutum est debitum. 21. Ceterum unde sdmus, quod Christus possit peccata dimittere? Hinc procul dubio, quia Deus est, et quidquid vult potest. Unde autem et quod Deus sit? Miracula probant: facit quippe opera, quae nemo alius facere possit, ut taceam oracula Prophetarum, nec non et patemae vocis testimonium elapsae caelitus ad ipsum a magnifica gloria. Quod si Deus pro nobis, quis contra nos? Deus qui iustificat, quis est condemnet? Si ipse est et non alius, cui quotidie confitemur dicentes: Tibi soli peccavi, quis melius, immo quis alius remittere potest quod in eum peccatum est? Aut quomodo ipse non potest, qui om-nia potesti Denique ego, quod in me delinquitur, valeo, si volo, donare, et Deus non queat in se commissa remittere? Si ergo peccata remittere et possit omnipotens, et solus possit, cui soli peccatur, heatus profecto, cui non imputabit ipse peccatum. Itaque co-gnovimus quod peccata Christus divinitatis suae potentia valuit relaxare. 22. Porro iam de voluntate quis dubitet? Qui enim nostram et induit carnem, et subiit mortem, putas suam nobis negabit iustitiam? Voluntarie incarnatus, voluntarie passus, voluntarie crucifixus, solam a nobis retinebit iustitiam? Quod ergo ex deitate constat il-

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lum potuisse, ex humanitate innotuit et voluisse. Sed unde rursum confìdimus quod et mortem abstulit? Hinc plane quod eam ipse, qui non meruit, pertulit. Qua enim ratiooe iterum exigeretur a nobis quocl pro nobis ille iam solvit? Qui peccati meritum tulit, suam nobis donando iustitiam, ipse mortis debitum solvit et reddidit vitam. Sic namque mortua morte revertitur vita, quemadmodum ablato peccato redit iustitia. Porro mors in Christi morte fugatur et Christi nobis iustitia imputatur. Verum quomodo mori potuit qui Deus erat? Quoniam nimirum et homo erat. Sed quo pacto mors hominis illius pro altero valuit? Quia et iustus erat. Profecto namque curo homo esset, potuit mori; cum iustus, debuit non gratis. Non quidem peccator mortis sufficit solvere dehitum pro altero peccatore, cum quisque moriatur pro se. Qui autem mori pro se non habet, numquid pro allo frustra debet? Quanto sane indignius moritur qui mortem non meruit, tanto is iu-stius, pro quo mocitur, vivit. 23. «Sed quae», inquis, «iustitia est, ut innocens pro impio moriatur?». Non est iustitia, sed misericordia. Si iustitia esset, iam non gratis, sed ex debito moreretur. Si ex debito, ipse quidem moreretur, sed is pro quo moreretur non viveret. At vero si iustitia non est, non tamen contra iustitiam est; alioquin et iustus et misericors simul esse non posset. «Sed etsi iustus non iniuste pro peccatore satisfacere valeat, quo tamen pacto etiam unus pro pluribus? Etenim satis esse videretur ad iustitiam, si unus uni moriens vitam resti-tuat». Huic iam respondeat Apostolus: Sicut enim, inquit, per unius delictum, in omnes homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam, in omnes homines in iustifica-tionem vitae Sicut enim per inoboedientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi, ita et per unius hominis oboedientiam iusti constituentur multi. Sed forte unus pluribus iustitiam quidem restituere potuit, vitam non potuit? Per unum, ait, hominem mors, et per unum hominem vita. Sicut enim in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur. Quid enim? Unus peccavit, et omnes tenentur rei, et unius inno-centia soli reputabitur innocenti? Unius peccatum omnibus operatum est mortem, et unius iustitia uni vitam restituet? Itane Dei iustitia magis ad condemnandum quam ad restaurandum valuit? Aut plus potuit Adam in malo quam in bono Christus? Adae pec-catum imputabitur mihi, et Christi iustitia non pertinebit ad me? Illius me inoboedientia perdidit, et huius oboedientia non proderit mihi? 24. «Sed Adae», inquis, «delictum merito omnes contrahimus, in quo quippe omnes peccavimus, quoniam cum peccavit, in ipso eramus, et ex eius carne per carnis concupi-scentiam geniti sumus». Atqui ex Deo multo germanius secundum spiritum nascimur, quam secundum carnem ex Adam, secundum quem etiam spiritum longe ante fuimus in Christo quam secundum carnem in Adam, si tamen et nos inter illos numerari confidi-mus, de quibus Apostolus: Qui elegit nos, inquit, in ipso - haud dubium quin Pater in Fi-lio - ante mundi constitutionem. Quod autem etiam ex Deo nati sunt, testatur evangelista loannes, uhi ait: Qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt; item ipse in epistola: Omnis qui natus est ex Deo, non peccat, quia generatio caelestis conservat eum. «At carnis traducem», ais, «carnalis testatur concupiscentia, et peccatum, quod in carne sentimus, manifeste probat quod secundum carnem de carne peccatoris descendimus». Sed enim nihilominus spiritualis illa genera-tio, non quidem in carne, sed in corde sentitur, ab his dumtaxat qui cum Paulo dicere possunt: Nos autem sensum Christi habemus, in quo et eatenus profedsse se sentiunt, ut et ipsi cum omni :fiducia dicant: Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei, et illud: Nos autem non spiritum huius mundi accepimus, sed Spi-

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ritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. Per Spiritum ergo qui ex Deo est, caritas diffusa est in cordibus nostris, sicut et per carnem, quae est ex Adam, manet concupiscentia nostris insita membris. Et quomodo ista quae a progenitore corpo-rum descendit, numquam in hac vita mortali a carne recedit, sic illa procedens ex Patre spirituum, ab intentione filiorum, dumtaxat perfectorum, numquam excidit. 25. Si ergo ex Deo nati et in Christo electi sumus, quaenam iustitiaest, ut plus noceat humana atque terrena quam valeat divina caelestisque generatio, Dei electionem vincat carnalis successio, et aeterno eius proposito carnis praescribat temporaliter traducta concupiscentia? Quinimmo, si per unum hominem mors, cur non multo magis per unum, et illum hominem, vita? Et si omnes in Adam morimur, cur non longe potentius in Christo omnes vivifìcabimur? Denique non sicut delictum, ita et donum: nam iudi-ciuim ex uno in condemnationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem. Christus igitur et peccata remittere potuit, cum Deus sit, et mori, cum sit homo, et mor-tis moriendo solvere debitum, quia iustus, et omnibus unus ad iustltiam vitamque suffi-cere, quandoquidem et peccatum, et mors ex uno in omnes processerit. 26. Sed hoc quoque necessarie omnino provisum est, quod dilata morte homo inter homines dignatus est aliquarndiu conversari, quatenus crebris et veris locutionibus ad invisibilla excitaret, miris operibus adstrueret fidem, rectis mores instrueret. Itaque in oculis hominum Deus homo sobrie, et iuste, et pie conversatus, vera locutus, mira oper-atus, indigna passus, in quo iam nobis defuit ad salutem? Accedat et gratia remissionis peccatorum, hoc est ut gratis peccata dimittat, et opus profecto nostrae salutis consum-matum est. Non autem metuendum, quod donandis peccatis aut potestas Deo, aut volun-tas passo, et tanta passo pro peccatoribus desit, si tamen solliciti inveniamur digne, ut oportet, et imitati exempla, et venerati miracula, doctrinae quoque non exsistamus in-creduli, et passionibus non ingrati. 27. Itaque totum nobis de Christo valuit, totum salutiferum totumque necessarium fuit, nec minus profuit infirmitas quam et maiestas, quia, etsi ex deitatis potentia peccati iu-gum iubendo submovit, ex carnis tamen infirmitate mortis iura moriendo concussit. Un-de pulchre ait Apostolus: Quod infirmum est Dei, fortius est hominibus. Sed et illa eius stultitia, per quam ei placuit salvum facere mundum, ut mundi confutaret sapientiam, confunderet sapientes, quod videlicet, cum in forma Dei esset, Deo aequalis semetipsum exinanivit formam servi accipiens, quod, dives cum esset, propter nos egenus factus est, de magno parvus, de celso humilis, infirmus de potente, quod esuriit, quod sitiit, quod fatigatus est in itinere, et cetera quae passus est voluntate, non necessitate, haec ergo ipsius quaedam stultitia, nonne fuit nobis via prudentiae, iustitiae forma, sanctitatis ex-emplum? Ob hoc item Apostolus: Quod stultum est, inquit, Dei, sapientius est homini-bus. Mors igitur a morte, vita ab errore, a peccato gratia liberavit. Et quidem mors per iustitiam suam peregit victoriam, quia iustus, exsolvendo quae non rapuit, iure omnino, quod amiserat, recepit. Vita vero, quod ad se pertinuit, per sapientiam adimplevit, quae nobis vitae et disciplinae documentum ac speculum exstitit. Porro gratia ex illa, ut dic-tum est, potestate peccata remisit, qua omnia, quaecumque voluit, fecit. Mors itaque Christi, mors est meae mortis, quia ille mortuus est, ut ego viverem. Quo pacto enim iam non vivat, pro quo moritur Vita? Aut quis iam in via morum seu rerum notitia errare timebit, duce Sapientia? Aut unde iam reus tenebitur, quem absolvit Iustitia? Vitam qui-dem se ipse perhibet in Evangelio: Ego sum, inquiens, vita. Porro duo sequentia testatur

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Apostolus, dicens: Qui factus est nobis iustitia et sapientia a Deo Patre. 28. Si ergo lex spiritus vitae in Christo Iesu liberavit nos a lege peccati et mortis, ut quid adhuc morimur, et non statim immortalitate vestimur? Sane ut Dei veritas implea-tur. Quia enim misericordiam et veritatem diligit Deus, necesse est mori quidem homi-nem, quippe quod praedixerat Deus, sed a morte tamen resurgere, ne obliviscatur mise-reri Deus. Ita ergo mors, etsi non perpetuo dominatur, manet tamen propter veritatem Dei vel ad tempus in nobis, quemadmodum peccatum, etsi iam non regnat in nostro mortali corpore, non tamen deest penitus nobis. Proinde Paulus ex parte quidem libera-tum se a lege peccati et mortis gloriatur, sed rursum se utraque nihilominus lege aliqua ex parte gravari conqueritur, sive cum adversus peccatum miserabiliter clamat: Invenio aliam legem in membris meis, et cetera, sive cum ingemiscit gravatus, haud dubium quin lege mortis, redemptionem xspectans corporis sui. 29. Sive itaque haec, sive alla quaecumque in hunc modum, prout in talibus in suo qui-sque sensu abundat, ex occasione sepulcri christianis sensibus suggerantur, puto quod non mediocris dulcedo devotionis infunditur quominus intuenti, nec parum profìcitur cernendo, etiam corporalibus oculis, corporalem locum dominicae quietis. Etsi quippe iam vacuum sacris membris, plenum tamen nostris et iucundis admodum sacramentis. Nostris, inquam, nostris, si tamen tam ardenter amplectimur quam indubitanter tenemus quod Apostolus ait: Consepulti enim sumus per baptismum in mortem, ut quomodo sur-rexit Christus a mortuis per gloriam Patris, ita et nos in novitate vitae ambulemus. Si enim complantati facti sumus similitudini mortis eius, simul et resurrectionis. Quam duke est peregrinis, post multam longi itineris fatigationem, post plurima terrae marisque pericula, ibi tandem quiescere, uhi et agnoscunt suum Dominum quievisse! Puto iam prae gaudio non sentiunt viae laborem nec gravamen reputant io expensarurn, sed tamquam laboris praemium cursusve bravium assecuti, iuxta Scripturae sententiam, gaudent vehementer cum invenerint sepulcrum. Nec casu vel subito, aut veluti lubrica popularis favoris opinione, id tam celebre nomen sepulcrum nactum esse putetur, cum hoc ipsum tantis retro temporibus Isaias tam aperte praedixerit: Erit, inquit, in die illa radix Iesse, qui stat in signum populorum; ipsum gentes deprecabuntur, et erit sepul-crum eius gloriosum. Revera ergo impletum cernimus quod legimus prophetatum, no vum quidem intuenti, sed legenti antiquum, ut sic adsit de novitate iucunditas, ut de ve-tustate non desit auctoritas. Et de sepulcro ista sufficiant. XII. DE BETHPHAGE 30. Quid de Bethphage dicam, viculo sacerdotum, quem pene praeterieram, uhi et con-fessionis sacramentum, et sacerdotalis ministeril mysterium continetur? Bethphage quippe domus buccae interpretatur. Scriptum est autem: Prope est verbum in ore tuo et in corde tuo. Non in altero tantum, sed simul in utroque verbum habere memineris. Et quidern verbum in corde peccatoris operatur salutiferam contritionem, verbum vero in ore noxiam tollit confusionem, ne impediat necessariam confessionem. Ait enim Scrip-tura: Est pudor adducens peccatum, et est purdor adducens gloriam. Bonus pudor, quo peccasse aut certe peccare confunderis, et omnis licet humanus arbiter forte absit, divi-num tamen quam humanum tanto verecundius revereris aspectum, quanto et verius De-um quam hominem cogitas puriorem, tantoque eum gravius offendi a peccante, quanto constat longius ab ilio esse omne peccatum. Huiuscemodi procul dubio pudor fugat op-probrium, parat gloriam, dum aut peccatum omnino non admittit, aut certe admissum et

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paenitendo punit, et confitendo expellit, si tamen gloria etiam nostra haec est, testimo-nium conscientiae nostrae. Quod si quispiam confiteri confunditur id quoque, unde compungitur, talis pudor peccatum adducit, et gloriam de conscientia perdit, quando malum quod ex profondo cordis compunctio conatur expellere, pudor ineptus, obstruso labiorum ostio, non permittit exire, cum eum exemplo David dicere potius oporteret: Et labia mea non prohibebo: Domine, tu scisti. Qui et seipsum redarguens, puto super huiusmodi stulto et irrationabili pudore: Quoniam tacui, inquit, inveteraverunt ossa mea. Unde et optat ostium poni circumstantiae labiis suis, ut oris ianurun et aperire con-fessioni, et defensioni claudere norit. Denique et aperte hoc ipsum orans petit a Domino, sciens nimirum quia Confessio et magnificentia opus eius. Et quod videlicet nostram malitiam, et quod aeque divinae bonitatis et virtutis magnificentiam minime tacemus, magnum quidem geminae confessionis bonum, sed Dei est donum. Ait itaque: Non de-clines cor meum in verba malitiae, ad excusandas excusationes in peccatis. Quamobrem ministros verbi sacerdotes caute necesse est ad utrumque vigilare sollicitos, quo videli-cet delinquentium cordibus tanto moderamine verbum timoris et contritionis infligant, quatenus eos nequaquam a verbo confessionis exterreant, sic corda aperiant, ut ora non obstruant, sed nec absolvant etiam compunctum, nisi viderint et confessum, quoniam quidem corde creditur ad iustitiam, ore autem confessio fit ad salutem. Alioquin a mor-tuo, tamquam qui non est, perit confessio. Quisquis igitur verbum in ore habet et in cor-de non habet, aut dolosus est, aut vanus; quisquis vero in corde et non in ore, aut super-bus est, aut timidus. XIII. DE BETHANIA 31. Sane non omnino, etsi multum festinem, debeo transire silenter domum oboedien-tiae, Bethaniam videlicet, castellum Mariae et Marthae, in quo et Lazarus est resusdta-tus, uhi nimirum et utriusque vitae figura, et Dei erga peccatores mira clementia, necnon et virtus oboedientiae una cum fructibus paenitentiae commendatur. Hoc ergo in loco breviter intimatum sufficiat, quod nec studium bonae actionis, nec otium sanctae con-templationis, nec lacrima paenitentis extra Bethaniam accepta esse poterunt illi, qui tanti habuit oboedientiam, ut vitam quam ipsam perdere maluerit., factus ohoediens Patri usque ad mortem. Hae sunt illae profecto divitiae, quas sermo propheticus ex verbo Domini pollicetur: Consolabitur, inquiens, Dominus Sion, consolabitur omnes ruinas eius, et ponet deser-tum eius quasi delicias, et solitudinem eius quasi hortum Domini; gaudium et letitia in-venietur in ea, gratiarum actio et vox. Hae igitur orbis deliciae, hic thesaurus caelestis, haec fidelium hereditas populorum, vestrae sunt, carissimi, eredita fidei, vestrae pruden-tiae et fortitudini commendata. Tunc autem caeleste depositum secure et fideliter custo-dire sufficitis, si nequaquam de ipsa vestra vel prudentia, vel fortitudine, sed de Dei tan-tum adiutorio ubique praesumitis, scientes quia non in fortitudine sua roborabitur vir, et ideo dicentes cum Propheta: Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et libera-tor meus, et illud: Fortitudinem meam ad te custodiam, quia Deus susceptor meus; Deus meus, misericordia eius praeveniet me, et item: Non nobis, Domine, non nobis, sed no-mini tuo da gloriam, ut in omnibus sit ipse benedictus, qui docet manus vestras ad proe-lium et digitos vestros ad bellum.

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EPISTOLA CCCLIX CLARAVALLENSIUM AD CALLIXTUM PAPAM

Abbatem Morimundi Ierosolymam peregrinaturum cupiunt retineri. Summo Pontifici Callixto, pusillus grex de Claravalle: devotissimam dehitae suhiectio-nis ohoedientiam et, si quid potest, peccatorum oratio. Quoniam illius vos gerere vicem gratulamur, qui suam dicehat instantiam quotidianam sollicitudinem omnium ecclesiarum, apud aures pietatis vestrae, licet maiorihus occupa-tas negotiis, repulsam tamen non metuit nostra pusillitas, uhi magna compellit necessi-tas. Neque enim pro minimo audire potestis, de quibus auditurus estis: Quod uni ex mi-nimis meis fecistis, mihi fecistis. Causa autem haec non nostra tantum, sed totius Ordinis nostri, ob quam etiam ipse filius vester, noster omnium videlicet Pater, si, cum hae datae sunt, domi fuisset, - forte enim contingerat eum tunc abesse et huius rei adhuc ignarum esse -, aut vestrae per seipsum maiestatis praesentiam adisset, aut certe ex suo nomine scriptam hanc miserabilem lacrimabilemque delegisset querimoniam. Sed ne diu sollici-tae caritatis vestrae viscera suspendamus, unus ex fratrihus nostris ahbatibus, qui dice-hatur de Morimundo, ipsum cui praeerat inconsulte satis deserens monasterium, spiritu levitatis impulsus statuit petere Ierosolymam, prius quidem, ut aiunt, circumspectionis vestrae prudentiam tentaturus, si quo modo a vohis suo possit errori extorquere licen-tiam. Qua in re si quem ei, quod ahsit, assensum praebueritis, ipse perpendite quantae possit nostro Ordini esse destructionis occasio, curo, exemplo huius, quicumque ahhas pastorali se sentiet sarcina gravatum, mox illam ahiciat, utpote quam se licite posse abi-cere arhitretur, praesertim apud nos, uhi nec grandis honor, et grave videtur onus. Dein-de ad maiorem domus sibi commissae desolationem, meliores quosque ac perfectiores, qui sub ipso degehant, suae socios vagationis assumpsit, inter quos etiam nobilem illum puerum, quem et ante de Colonia, - quod nec vos latuisse credimus -, non sine scandalo tulerat, ad maius scandalum nunc abducere secum praesumit. Quod si, ut nobis relatum est, dicit se in illa terra nostri Ordinis velie seminare observantias, et ideo fratrum secum ducere multitudinem, quis non videat, plus illic milites pugnantes quam monachos can-tantes vel plorantes necessarios esse? Sed et nostra religio plurimum ex hoc capiet de-trimentum, cum facile sit cuique vagari gestienti, ilio, tamquam absque ullo discrimine, praesumere peregrinari, ubi scilicet idem, quod professus est, inventurus est propositum observari. Iam vero quid super hoc vobis placeat quidve vestram decernere deceat auc-toritatem non est nostrae praesumptionis iudicare, sed vestrae discretionis examinare.

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EPISTOLA XXXI AD HUGONEM COMITEM CAMPANIAE, MILITEM TEMPLI FACTUM

Hugoni gratulatur ob susceptam mifitiam sacram et beneficiorum memoriam promittit. Si causa Dei factus es ex comite miles et pauper ex divite, in hoc profecto tibi, ut iustum est, gratulamur, et in te Deum glorifìcamus, scientes quia haec est mutatio dexterae Ex-celsi. Ceterum, quod tua iucunda praesentia nobis ita nescio quo Dei est subtracta iudi-cio, ut ne interdum quidem videre te valeamus, sine quo numquam, si fieri posset, esse vellemus, hoc aequanimiter, fateor, non portamus. Quid enim? Possumusne oblivisci an-tiqui amoris, et beneficiorum quae domui nostrae tam largiter contulisti? Utinam ipse, pro cuius amore fecisti, in aeternum non obliviscatur Deus! Nam nos, quantum in nobis est, minime prorsus ingrati, memoriam abundantiae suavitatis tuae mente retinemus et, si liceret, opere monstraremus. O quam libenti animo et corpori tuo pariter et animae providissemus, si datum fuisset, ut simul fuissemus! Quod quia non est, restat ut quem praesentem habere non possumus, pro absente semper oremus.

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EPISTOLA CLXXV AD PATRIARCHAM IEROSOLYMORUM

Praeventus eitts litteris familìariter respondet, et Milites Templi commendat. Patriarchalibus scriptis saepius visitatus, ingratus iam videbor si non rescripsero. At si saluto eum qui me salutavit, quid amplius feci? Tu enim me praevenisti in benedictioni-bus dulcedinis; tu ne prior dignatus es tuis transinarinis epistolis visitare; tu mihi primas humilitatis caritatisque praeripuisti partes. Quid condignum iam referam? Nihil mihi denique religuisti quod pari queam rependere vice, qui etiam de thesauro saeculorum mihi impertire curasti, id est de ligno Domini. Quid tamen? Debeone omittere quod pos-sum, quoniam quod debeo minime possum? Affectum saltem voluntatemque aperio, re-scribendo dumtaxat atque resalutando, quod solum interim per tot utique spatia terrae et maris licet. Ostendam autem, si umquam accepero tempus, me nequaquam diligere ver-bo sive lingua, sed opere et veritate. Super Milites Templi ponite quaeso oculos vestros et tantae pietatis viscera tam strenuis Ecclesiae propugnatoribus aperite. Hoc siquidem acceptum erit Deo et gratum hominibus, si fovetis eos, qui suas animas pro fatribus posuerunt. De loco autem ad quem nos invitatis, frater Andreas dicet vobis voluntatem nostram.

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EPISTOLA CCCLV AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Praemonstratenses Ierosolymam peregrinantes commendat. Videtis quantum praesumam de vobis, qui audeo etiam alios commendare. Quamquam Praemonstratenses fratres istos magis fortassis superflue commendarim quam temerarie. Sunt merito ita commendabiles suo, ut non egeant alieno. Invenientur, nisi follor, viri consilii, spiritu ferventes, in tribulatione patientes, potentes in opere et sermone. Indue-runt se armatura Dei et gladio Spiritus, quod est verbum Dei, sese accinxerunt, non ad-versus carnem et sanguine, sed contra spiritualia nequitiae in caelestibus. Suscipite il-los tamquam bellatores pacicificos, mansuetos ad homines, violentos ad daemones. Im-mo Christum in eis suscipite, qui est causa peregrinationis eorum.

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EPISTOLA CCCLIV AD REGINAM IEROSOLYMORUM MILISENDEM, FILIAM BAIDUINI RE-

GIS ET FULCONIS UXOREM Mortuo Fulcone viro suo, ut se gerere debeat. Illustrissimae Ierosolymorum reginae Milisendi, Bernardus Clararo vallensis abbas: in-venire gratiam apud Dominum. Inter multiplices curas et negotia regalis aulae satis incongruum mihi scribere videtur, si in te tantum gloriam regni tui, potentiam tuam et lineam nobilitatis respexissem. Et haec omnia videntur in oculis hominum, et qui non habent, invident habentibus ea, et beatum dicunt hominem cuius haec sunt. Sed quae est ista beatitudo in possidendis illis, quae omnia tamquam fenum velociter arescunt et quemadmodum olera herbarum cito deci-dunt! Bona sunt haec, sed mobilia, sed mutabilia, sed praeteritura et peritura, quia bona carnis. Porro de carne et bonis eius dictum est: Omnis caro fenum et omnis gloria eius tamquam flos feni. Scribentem ergo ad te non multum ista revereri oportuit, in quibus fallax gratia et vana est pulchritudo. Accipe paucis quae dico; nam etsi multa habeam tibi dicere, verbum tamen faciam abbreviatum propter multas curas tuas et meas. Accipe breve consilium, sed utile, de terra longinqua, de quo tamquam de parvo semine multa seges surgat in posterum; accipe, inquam, consilium de manu amici, non commodum suum quaerentis, sed honorem tuum. Nullus siquidem tibi fìdelior ad consilium esse po-test quam qui non tua, sed qui te diligit. Mortuo rege viro tuo, et parvulo rege adhuc mi-nus idoneo ad portanda negotia regni et ad prosequendum regis officium, oculi omnium in te respiciunt et in te solam universa regni moles inclinata recumbit. Opus est ut manum tuam mittas ad fortia et in muliere exhibeas virum, agens ea quae agenda sunt in spiritu consilii et fortitudinis. Ita prudenter et moderate oportet te cuncta disponere, ut omnes, qui te viderint, ex operibus regem te potius quam reginam existiment, ne forte dicant in gentibus: «Ubi est rex Ierosolymorum?». «Sed non sum», inquies, «ad ista suf-ficiens. Magna enim haec sunt; supra vires meas, et supra scientiam meam. Opera haec opera sunt viri: ego autem mulier sum, corpore debilis, mobilis corde, nec provida con-silio, nec assueta negotiis». Scio, filia, scio, quia magna sunt haec; sed et hoc scio quia, etsi mirabiles elationes maris, mirabilis in altis Dominus. Magna sunt haec, sed magnus Dominus noster et magna virtus eius.

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EPISTOLA CCVI AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Commendat quemdam consanguinemn suum, et paucis monet Reginam ita vivere, ut regnet perpetuo. Audierunt homines, quod locum gratiae habeam apud vos, et multi profecturi Ie-rosolymam petunt se vestrae excellentiae per me commendati. Ex quibus est iste iuvenis consanguineus meus, iuvenis, ut aiunt, strenuus in armis, suavis in moribus. Et gaudeo quod ad tempus elegit militare Deo magis quam sacculo. Itaque facite morem vestrum, et bene sit huic propter me, sicut ceteris omnibus propinquis meis fuit, qui per me vobis innotescere potuerunt. De cetero cavete, ne voluptas carnis et gloria temporalis impe-diant vobis iter regni caelestis. Nam quid prodest paucis diebus regnare super terram, et regno caelorum aetemo privari? Sed confido in Domino quod melius facietis, et si ve-rum est testimonium quod vobis perhibet carissimus avunculus meus Andreas, cui mul-tum credimus, et hic, et in aeternum Deo miserante regnabitis. Peregrinis, egenis et maxime inclusis curam impendite, quia talibus hostiis promeretur Deus. Scribite nobis frequentius, quia et vobis non oberit, et nobis proderit, si esse vestrum et bona studia plenius certiusque noverimus.

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EPISTOLA CCCLXIII AD ARCHIEPISCOPOS ORIENTALIS FRANCIAE ET BAVARIAE

Ad arma contra infideles pro defensione Orientalis Ecclesiae suscipienda hortatur. Praeterea, contra turbulentum quemdam praedicatorem, docet Iudaeos non esse perse-quendos, nedum occidendos. Dominis et patribus carissimis, archiepiscopis, episcopis et universo clero et populo orientalis Franciae et Bavariae, Bernardus, Claravallensis vocatus Abbas: spiritu fortitu-dinis abundare. 1. Sermo mihi ad vos de negotio Christi, in quo est utique salus nostra. Haec dico, ut excuset indignitatem personae loquentis auctoritas Domini, excuset et consideratio pro-priae utilitatis. Modicus quidem sum, sed non modice cupio vos omnes in visceribus Christi Iesu. Ea mihi nunc ratio scribendi ad vos, ea causa, ut universitatem vestram lit-teris audeam convenire. Agerem id libentius viva voce, si, ut voluntas non deest, suppe-teret et facultas. Ecce nunc, tempus acceptabile, ecce nunc dies copiosae salutis. Com-mota est siquidem et contremuit terra, quia coepit Deus caeli perdere terram suam. Suam, inquam, in qua visus est, et annis plus quam triginta homo curo hominibus con-versatus est. Suam utique, quam illustravit miraculis, quam dedicavit sanguine proprio, in qua primi resurrectionis flores apparuerunt. Et nunc, peccatis nostris exigentibus, cru-cis adversarii caput extulerunt sacrilegum, depopulantes in ore gladii terram benedic-tam, terram promissionis. Prope est, si non fuerit qui resistat, ut in ipsam Dei viventis irruant civitatem, ut officinas nostrae redemptionis evertant, ut polluant loca sancta, Agni immaculati purpurata cruore. Ad ipsum, proh dolor, religionis christianae sacra-rium inhiant ore sacrilego, lectumque ipsum invadere et conculcare conantur, in quo propter nos Vita nostra obdormivit in morte. 2. Quid facitis, viri fortes? Quid facitis, servi crucis? Itane dabitis sanctum canibus et margaritas porcis? Quam multi illic peccatores, confitentes peccata sua cum lacrimis, veniam obtinuerunt, postquam patrum gladiis eliminata est spurcitia paganorum! Videt hoc malignus, et invidet; frendet dentibus, et tabescit. Excitat vasa iniquitatis suae, ne ulla quidem tantae pietatis signa aut vestigia relicturus, si quando forte, quod Deus aver-tat, obtinere valuerit. Verum id quidem omnibus deinceps saeculis inconsolabilis dolor, quia irrecuperabile damnum, specialiter autem generationi huic pessimae infinita confu-sio et opprobrium sempiternum. 3. Quid tamen arbitramur, fratres? Numquid abbreviata manus Domini, aut impotens facta est ad salvandum, quod ad tuendam et restituendam sibi hereditatem suam exiguos vermiculos vocat? Numquid non mittere potest angelorum plusquam duodecim legio-nes, aut certe tantum dicere verbo, et liberabitur terra? Omnino subest ei, cum voluerit, posse; sed, dico vobis, tentat vos Dominus Deus vester. Respicit filios hominum, si forte sit qui intelligat, et requirat, et doleat vicem eius. Miseratur enim populum suum Deus, et lapsis graviter providet remedium salutare. 4. Considerate quanto ad salvandos vos artificio utitur, et obstupescite; intuemini pieta-tis abyssum, et confidite, peccatores. Non vult mortem vestram, sed ut convertamini et vivatis, quia sic quaerit occasionem, non adversum vos, sed pro vobis. Quid est enim ni-

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si exquisita prorsus et inventibilis soli Deo salvationis occasio, quod homicidas, rapto-res, adulteros et periuros, ceterisque obligatos criminibus, quasi gentem quae iustitiam fecerit, de servitio suo submonere dignatur Omnipotens? Nolite diffidere, peccatores: benignus est Dominus. Si vellet punire vos, servitium vestrum non modo non expeteret, sed nec susciperet quidem oblatum. Iterum dico; pensate divitias bonitatis, altissimum consilium miserationis attendite. Necessitatem se habere aut facit, aut simulat, ut mili-tantibus sibi stipendia reddat, indulgentiam delictorum et gloriam sempiternam. Beatam ergo dixerim generationem quam apprehendit tam uberis indulgentiae tempus, quam in-venit superstitem annus iste placabilis Domino, et vere iubileus. Diffunditur enim haec benedictio in universum mundum, et ad signum vitae convolant universi. 5. Quia ergo fecunda virorum fortium terra vestra et robusta noscitur iuventute referta, sicut laus est vestra in universo mundo, et virtutis vestrae fama replevit orbem, accingi-mini et vos viriliter et felicia arma corripite christiani nominis zelo. Cesset pristina illa non militia, sed plane malitia, qua soletis invicem sternere, invicem perdere, ut ab invi-cem consumamini. Quae enim miseris tam dira libido? Transverberat quis proximi cor-pus gladio, cuius fortassis et anima perit; sed nec ipse effugit qui gloriatur: et ipsius animam pertransit gladius, ne solum hostem gaudeat cecidisse. Huic sese dare discri-mini insaniae est, non virtutis, nec audaciae, sed amentiae potius ascribendum. Habes nunc, fortis miles, habes, vir bellicose, ubi dimices absque periculo, ubi et vincere glo-ria, et mori lucrum. Si prudens mercator es, si conquisitor huius saeculi, magnas qua-sdam tibi nundinas indico, vide ne te praetereant. Suscipe Crucis signum, et omnium pa-riter, de quibus corde contrito confessionem feceris, indulgentiam obtinebis delictorum. Materia ipsa si emitur, parvi constat; si devote assumitur humero, valet sine dubio re-gnum Dei. Bene ergo fecerunt qui caeleste iam signaculum susceperunt; bene facient et ceteri, nec ad insipientiam sibi, si festinent et ipsi apprehendere quod et eis sit in salu-tem. 6. De cetero, fratres, moneo vos, non autem ego, sed Apostolus Dei mecum, non esse credendum omni spiritui. Audivimus et gaudemus quod in vobis ferveat zelus Dei, sed oportet omnino temperamentum scientiae non deesse. Non sunt persequendi Iudaei, non sunt trucidandi, sed nec effugandi quidem. Interrogate eos qui divinas paginas norunt, quid in Psalmo legerint prophetatum de Iudaeis: Deus, inquit Ecclesia, ostendit mihi su-per inimicos meos ne occidas eos, nequando obliviscantur populi mei. Vivi quidam api-ces nobis sunt, repraesentantes iugiter Dominicam passionem. Propter hoc et in omnes dispersi sunt regiones, ut duro iustas tanti facinoris poenas luunt ubique, testes sint no-strae redemptionis. Unde et addit in eodem Psalmo loquens Ecclesia: Disperge illos in virtute tua, et depone eos, protector meus Domine. Ita factum est: dispersi sunt, depositi sunt; duram sustinent captivitatem sub principibus christianis. Convertentur tamen ad vesperam, et in tempore erit respectus eorum. Denique, curo introierit gentium plenitu-do, tunc omnis Israel salvus erit, ait Apostolus. Interim sane qui moritur, manet in mor-te. 7. Taceo quod sicubi illi desunt, peius iudaizare dolemus christianos feneratores, si ta-men christianos, et non magis baptizatos Iudaeos convenit appellati. Si Iudaei penitus atteruntur, unde iam sperabitur eorum in fine promissa salus, in fine futura conversio? Piane et gentiles, si essent similiter in fine futura subiugati, in eo quidem iudicio essent similiter expectandi quam gladiis appetendi. Nunc autem curo in nos esse coeperint vio-

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lenti, oportet viro vi repellere eos, qui non sine causa gladium portant. Est autem chri-stianae pietatis, ut debellare superbos, sic et parcere subiectis, his praesertim quorum est legislatio et promissa, quorum patres, et ex quibus Christus secundum carnem, qui est super omnia Deus benedictus in saecula. Id tamen exigendum ab eis iuxta tenorem apo-stolici mandati: omnes qui crucis signum acceperint, ab omni usurarum exactione libe-ros omnino dimittant. 8. Illud quoque admonitos vos esse necesse est, fratres mei dilectissimi, ut si quis forte amans primatum gerere inter vos, expeditione sua regni voluerit exercitum praevenire, nullatenus audiatur, etiam si a nobis missum se simulet, quod non est verum, aut si ostendat litteras, tamquam a nobis missas quas nolo ut a nobis datas, sed omnino falsas, ne dicam furtivas esse dicatis. Viros bellicosos et gnaros talium duces eligere est, et si-mul proficisci exercitum Domini, ut ubique habeat robur et non possit a quibuslibet vio-lentiam sustinere. Fuit enim in priori expeditione, antequam Ierosolyma caperetur, vir quidam, Petrus nomine, cuius et vos, nisi fallor, saepe mentionem audistis. Is ergo po-pulum qui sibi crederet habens, solus cum suis incedens tantis eos periculis dedit, ut aut nulli, aut paucissimi eorum evaserint, qui non corruerint, aut fame, aut gladio. Propterea omnino timendum, si similiter et vos feceritis, ne contingat et vobis similiter. Quod avertat a vobis Deus, qui est super omnia benedictus in saecula. Amen.

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EPISTOLA CCCLXV AD HENRICUM MOGUNTINUM ARCHIEPISCOPUM, CONTRA FRATREM

RADULFUM, QUI NECI IUDAEORUM CONSENSERAT Radulfum monachum, qui fideLes in Iudaeorum necem armabat, arguit. Venerabili domino et carissimo patri Henrico, Moguntino archiepiscopo, Bernardus, Claraevallis abbas: invenire gratiam apud Deum. 1. Litteras dilectionis vestrae debita veneratione suscepi; sed prae multitudine negotio-rum brevis est responsio. Depositum querelae vestrae apud nos signum est et pignus di-lectionis, et praecipuae humilitatis indicium. Quis enim ego sum, aut quae domus patris mei, ut ad me referatur Archiepiscopi contemptus et metropolitanae sedis iniuria? Non-ne ego sum puer parvulus, ignorans introitum et egressum meum? Verumtamen non ignoro verbum veritatis usquequaque, quod ex ore Altissimi procedit: Necesse est ut ve-niat scandalum; vae autem illi per quem venit! Homo ille, de quo agitur in litteris ve-stris, neque ab homine, neque per hominem, sed neque a Deo missus venit. Quod si se monachum aut eremitam iactat, et ex eo sibi assumit libertatem vel officium praedica-tionis, potest scire, et debet, quod monachus non habet docentis, sed plangentis offi-cium, quippe cui oppidum carcer esse debet et solitudo paradisus. Hic vero, a contrariis, et solitudinem pro carcere, et oppidum habet pro paradiso. O hominem sine pectore! O hominem sine fronte, cuius stultitia elevata est super candelabrum, ut appareat omnibus qui sunt in domo! 2. Tria sane sunt in eo reprehensione dignissima: usurpatio praedicationis, contemptus episcoporum, homicidii approbati libertas. Novum genus potentiae! Numquid tu maior es patre nostro Abraham, qui, eodem prohibente, gladium deposuit, quo iubente levave-rat? Numquid tu maior es Principe apostolorum, qui quaesivit a Domino: Domine, si percutimus in gladio? Sed instructus es omni sapientia Aegyptiorum, id est sapientia huius mundi, quae stultitia est apud Deum. Aliter solvis quaestionem Petri quam ille qui dixit: Mitte gladium in locum suum. Omnis enim qui acceperit gladium, gladio peribit. Nonne copiosius triumphat Ecclesia de Iudaeis per singulos dies vel convincens, vel convertens eos, quam si semel et simul consumeret eos in ore gladii? Numquid incas-sum constituta est illa universalis oratio Ecclesiae, quae offertur pro perfidis Iudaeis a solis ortu usque ad occasum, ut Deus et Dominus auferat velamen de cordibus eorum, ut ad lumen veritatis a suis tenebris eruantur? Nisi enim eos, qui increduli sunt, credituros speraret superfluum videretur et vanum orare pro eis. Sed considerabat oculo pietatis quod Dominus habet respectum gratiae apud eum, qui reddit bona pro malis et dilectio-nem pro odio. Ubi est ergo illud quod dictum est: Videas ne occidas eos? Ubi est: Cum plenitudo gentium intraverit, tunc omnis Israel salvus fiet? Ubi est: Aedificans Ierusa-lem Dominus dispersiones Israelis congregabit? Tune es ille qui mendaces facies prophetas et evacuabis omnes thesauros pietatis et misericordiae Iesu Christi? Tua doc-trina non est tua, sed eius qui misit te patris. Sed credo sufficit tibi, si sis sicut magister tuus. Ille enim erat homicida ab initio; ille mendax, et pater mendacii. O monstruosa scientia! O sapientia infernalis, contraria Prophetis, Apostolis inimica, subversio pietatis et gratiae! O immundissima haeresis! O meretrix sacrilega, quae impraegnata de spiritu falsitatis, concepit dolorem et peperit iniquitatem. Libet, sed non licet ultra progredi. Ad ultimum, ut omnia quae sentio super his breviter comprehendam, homo est magnus in

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oculis suis, plenus spiritu arrogantiae, et sicut verba et opera eius praetendunt, conatur sibi facere nomen iuxta nomen magnorum qui sunt in terris; sed non habet sumptus ad perficiendum. Vale.

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EPISTOLA DXLIV AD OMNES ABBATES CISTERCIENSES

Monet ne quis monachus in Terrae Sanctae expeditionem proficiscatur. Reverendis dominis et dilectis fratribus universis abbatibus, frater Bernardus Claraval-lensis vocatus abbas: gratia Dei abundare. Cum caritatis nostrae ardor debito religionis ad quoslibet fideles extendatur, maius ta-men erga ipsos nostrum est studium quos commune vitae propositum paene fecit unum. Vestris itaque prosperitatibus congaudentes, de adversis non secus ac nostris affligimur. Murmurationes quorumdam fratrum vestrorum contra vos multorum relatu novimus et ipsi ex parte audivimus quod, spreto conversationis sanctissimae proposito, tu multuanti saeculo se infligere contendunt. Quid est aliud quod Abiron et Dathan murmurantes contra Moysen absorpti sunt a terra, nisi mentes talium desideriis terrenorum esse de-fossas? Quid tibi cum multitudine, qui de singularitate censeris? Quid mundi gloriam requiris, qui in domo Dei tui abiectus esse elegisti? Quid ad te regionum circuitus, qui in solitudine vitam ducere professus es? Quid crucem yestibus assuis, qui hanc corde tuo baiulare non cessas, si religionem conservas? Verborum itaque prolixitatem vitantes, non nostra, sed apostolica auctoritate generaliter dicimus: Si quis monachus conver-susve in expeditionem ierit, debitae excommun, icationis sententiae subiacebit. Valete.

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EPISTOLA CDLIX AD G. DE STOPHO

A peregrinatione Henricum quemdam excus, qui religionis habitum induit. Bernardus, Claravallensis vocatus abbas, dilecto in Christo filio G. de Stopho: salutem et orationes. Carissimus filius noster, frater tuus Henricus, ad nos divertit et; consilio nostro, salutaris signi quod acceperat propositum non deposuit, sed longe meliora: uti pauper enim fac-tus pro paupere Christo, in domo pauperum Christi sub religionis habitu disposuit con-versari. Quod tibi nec grave debet videri nec asperum, quia cum Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab eo, et faciem induit euntis Ierusalem, non quae occidit pro-phetas, sed ea cuius participatio in idipsum. Consolare igitur in verbis istis et memento quid inter vos novissime fueritis collocuti. Et sic age cum eo de omnibus, ut a nobis et ab ipso gratiam, et a Deo misericordiam consequaris. Bene vale, semper dilecte.

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offert,

EPISTOLA CDLVIII AD WLADISLAUM DUCEM, MAGNATES ET POPULUM BOHEMIAE

Omnes ad expeditionem Hierosolymitanam invitat idemque negotium episcopo Mora-viensi commendat. Duci Wladislao ceterisque nobilibus et universo populo Bohemiae, Bernardus, Claraval-lensis vocatus abbas: salutem in Christo. 1. Est mihi sermo ad VOS de negotio Christi, in quo est etiam salus vestra. Quod lo-quor, ut indignitatem personae scribentis excuset apud vos auctoritas Domini, excuset consideratio utilitatis vestrae, excuset quae in nobis est intentio caritatis. Modicus enim sum, sed non modice cupio omnes vos in visceribus Iesu Christi. Hic zelus urget ut scri-bam quod libentius viva voce cordibus vestris inscribere laborarem, si, ut voluntas non deest, suppeteret et facultas. Sed spiritus quidem promptus est, caro autem infirma. Ob-temperare non potest corruptibile corpus animae desiderio, nec spiritus velocitatem mo-les terrena valet comitare. Sed quid hinc querimur? Abest a vobis portio nostri, sed quae vilior est. Cor nostrum tamen patet ad vos, o Bohemi, cor nostrum usque ad vos dilata-tum est; etsi corpus onerosum terrarum intercapedo detineat. 2. Audiat ·ergo universitas vestra verbum bonum, audiat verbum salutis, et oblatam in-dulgentiae copiam devotis quibusdam animae brachiis amplectatur. Neque enim simile est tempus istud ceteris, quae hucusque praeteriere temporibus: nova venit e caelo divi-nae miserationis ubertas. Beati quos invenit superstites annus placabilis Domino, cannus remissionis, annus utique iubileus! Dico vobis: non fecit Dominus taliter omni retro ge-nerationi, nec tam copiosum in patres nostros gratiae munus effudit. Videte quo artificio utitur ad salvandum vos; considerate pietatis abyssum et obstupescite, peccatores: ne-cessitatem se habere aut facit, aut simulat, dum vestris cupit necessitatibus subvenire. De caelo venit consilium hoc nec ab homine est, sed a corde pietatis divinae processit. 3. Commota est et contremiuit terra, quia caeli Dominus coepit perde e terram suam, in qua visus est et annis plus quam triginta, homo inter homines conversatus. Suam, quam honoravit nativitate sua, illustravit miraculis, dedica it sanguine, sepultura ditavit. Suam, in qua vox turturis audita est, cum Virginis Filius castitatis studium commendaret. Suam, in qua primi apparuerunt flores resurrectionis. Hanc repromissionis terram coepe-runt occupare maligni, et nisi fuerit, qui resistat, ad ipsum inhiant religionis nostrae sa-crarium, lectumque ipsum maculare conantur, in quo propter nos vita nostra obdormivit in morte, et profanare sancta sanctorum, loca dico Agni immaculati purpurata cruore. 4. Audite a plius aliquid quod movere debeat quodlibet durum pectus hominis christiani. Accusatur proditionis Rex noster: imponitur ei quod non sit Deus, sed falso simulaverit quod non erat. Quis in vobis est fidelis eius, surgat, defendat Dominum suum ab imposi-tae proditionis infamia; securum conflictum ineat, ubi sit et vincere gloria, et mori lu-crum. Quid, moramini, servi crucis? Quid dissimulatis vos, quibus nec robur corporum, nec terrena substantia deest. Suscipite signum crucis, et omnium, de quibus corde con-trito confessionem feceritis, plenam, indulgentiam delictorum hanc vobis summus Pon-tifex offert, vicarius eius cui dictum est: Quodcumque solveris super terra, erit solutum et in caelo. Suscipite munus oblatum, et ad irrecuperabilem indulgentiae facultatem al-

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ter alterum praevenire festinet. 5. Rogo et consulo, ne propria quisque negotia Christi negotio videat praeferenda, nec propter ea quae temporibus aliis potuerunt vel poterunt exerceri, illud omittat quod re-cuperari ultra non possit. Et ut noveritis quando, qua, quomodo sit eundum, paucis audi-te: in proximo Pascha profecturus est exercitus Domini, et pars non modica per Hunga-riam ire proposuit. Illud quoque statutum est ne quis aut variis aut griseis seu etiam seri-cis utatur vestibus, sed neque in equorum faleris auri vel argenti quippiam apponatur; tantum in scuto et ligno sellarum, quibus utentur, cum ad bella procedent, aurum vel ar-gentum apponi licebit his qui voluerint, ut refulgeat sol in eis et terrore dissipetur gen-tium fortitudo. Copiosius haec et latius prosequi oportuerat, nisi quod habetis apud vos dominum Moraviensem episcopum, virum sanctum, et doctum, quem exoratum volu-mus esse, ut secundum sapientiam, quae data est ei a Domino, diligentius super hoc universitatem vestram studeat exhortari. Exemplar quoque litterarum domini papae mi-simus vobis, cuius admonitionem intentissima debetis aure percipere et eius observare decreta. Valete.

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EPISTOLA CDLVII AD UNIVERSOS FIDELES

De expeditione in Terram Sanctam. Festum SS. Petri et Pauli indicit, quo die apud Magdeburgum sunt conventuri. Dominis et Patribus reverendis archiepiscopis ceterisque episcopis et principibus et uni-versis fìdelibus Dei, Bernardus Claravallensis vocatus abbas: spiritum fortitudinis et sa-lutis. Non dubito quin auditum sit in terra vestra, et celebri sermone vulgatum, quomodo su-scitaverit spiritum regum Deus et principum ad faciendam vindictam in nationibus et exstirpandos de terra christiani nominis inimicos. Magnum bonum, magna divinae mise-rationis ubertas! Verumtamen videt hoc malignus et invidet more suo; frendet dentibus et tabescit; multos amittit ex his quos variis criminibus et sceleribus obligatos tenebat: perditissimi quique convertuntur, declinantes a malo, parati facere bonum. Sed alium damnum veretur longe amplius de conversione gentium, curo audivit plenitudinem eo-rum introituram, et omnem quoque Israel fare salvandum. Hoc, ei nunc tempus immine-re videtur, et tota fraude satagit versuta malitia, quemadmodum obviet tanto bono. Su-scitavit proinde semen nequam, fìlios sceleratos, paganos, quos, ut pace vestra dixerim, nimis diu sustinuit christianorum fortitudo, perniciose insidiantes dissimulans, calcaneo suo nec conterens capita venenata. Sed quia dicit Scriptura: Ante ruinam exaltabitur cor, fiet ergo, Deo volente, ut eorum superbia crtms humilietur, et non propter hoc impedia-tur via Ierosolymitana; quia enim verbum hoc crucis parvitati nostrae Dominus evange-lizandum commisit, consilio domini Regis et episcoporum et principum, qui convene-rant Frankonovort, denuntiamus armari christianorum robur adversus illos, et ad delen-das penitus, aut certe convertendas nationes illas signum salutare suscipere, eamdem eis promittentes indulgentiam peccatorum quam et his qui versus Ierosolymam sunt profec-ti. Et multi quidem signati sunt ipso loco, ceteros autem ad opus simul provoro cavimus, ut qui ex christianis necdum signati sunt ad viam Ierosolymitanam, noverint eamdem sese indulgentiam hac adepturos expeditione, si tamen perstiterint in ea pro consilio epi-scoporum et principum. Illud enim omnimodis interdicimus, ne qua ratione ineant foe-dus cum eis, neque pro pecunia, neque pro tributo, donec, auxiliante Deo, aut ritus ipse, aut natio deleatur. Vobis sane loquimur archiepiscopis et coepiscopis vestris, opponite omnino, ut maximam super his geratis sollicitudinem, et quantumcumque potestis, stu-dium adhibeatis et diligentiam, ut viriliter fiat; et secundum Deum ministri Christi estis, et idcirco fiducialius a vobis exigitur, ut negotio eius, quod ad vos spectat, invigiletis. Nos quoque plurimum id rogamus et obsecramus in Domino. Erit autem huius exerci-tus, et in vestibus, et in armis, et phaleris ceterisque omnibus eadem quae et alterius ex-ercitus observatio, quippe quos eadem retributio munit. Placuit autem omnibus in Frankenevort congregatis quatenus exemplar istarum litterarum ubique portaretur, et episcopi atque presbyteri populo Dei annuntiarent, et eos contra hostes crucis Christi, qui sunt ultra Albi, signo sanctae crucis consignarent et armarent; qui nimirum omnes in festo apostolorum Petri et Pauli apud Magdeburg convenire debent.

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EPISTOLA CCCLXXX AD EUMDEM

De periculoso statu Ecclesiae Orientalis. Amantissimo patri et domino Sugerio, Dei gratia Beati Dionysii abbati, Bernardus, Cla-raevallis vocatus abbas: salutem et orationes quas potest in Domino. Verbum quod attulerunt Magister Templi et frater Ioannes tam laetus accepi quam id quod a Deo crederem processisse. Ipsa enim iam Orientalis Ecclesia tam miserabiliter clamat, ut quisquis non toto compatitur affectu, Ecclesiae fìlius non esse probetur. Ve-rum quam laetus de nuntio, tam tristis de angusto termino, ad quem vestrae dilectioni. occurrere omnino non potui. Siquidem promiseram domino Lingonensi ipsa die occur-rere ad colloquium, quod de magnis et gravibus negotiis fiducia nostri acceperat. Indi-cavi autem ipsis tempus, quando, si placet laetus occurram cum eodem Episcopo, qui multum poterit utilis esse colloquio.

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EPISTOLA CCCLXIV AD PETRUM ABBATEM CLUNIACENSEM

Invitat Petrum ad cunventum Carnotensem, ubi de auxilio Orientali Ecclesiae ferendo consultandum. Amantissimo patri Petro, Dei gratia venerabili Cluniacensi abbati, frater Bernardus de Claravalle: salutem, et quas potest orationes in Domino. 1. Gravem nimis ac miserabilem Orientalis Ecclesiae gemitum ad aures vestras, immo ad ipsa etiam penetralia cordis arbitrar pervenisse. Dignum quippe est ut secundum ma-gnitudinem vestram, magnum exhibeatis eidem vestrae et omnium fìdelium matri com-passionis affectum, praesertim tam vehementer afflictae, tam graviter periclitanti. Di-gnum, inquam, ut tanto amplius comedat vos zelus domus Dei, quanto ampliorem in ea locum, ipso auctore, tenetis. Alioquin si duramus viscera, si obduramus corda, si plagam hanc parvi pendimus nec dolemus super contritione, uhi nostra in Deum caritas, ubi di-lectio proximorum? Immo vero, si non satagimus; quanta possumus sollicitudine, consi-lium aliquod et remedium tantis malis tantisque periculis adhibere, quomodo non ingrati esse convincimur ei qui abscondit nos in die malorum in tabernaculo suo, iustius perin-de et vehementius puniendi, utpote tam divinae gloriae quam fraternae salutis negligen-tes? Haec vobis tam fiducialiter quam familiariter duximus suggerenda, oh gratiarh uti-que qua nostram indignitatem excellentia vestra dignatur. 2. Nam et patres nostri, episcopi Franciae, una cum domino Rege et principibus, tertia dominica post Pascha apud Carnotum venturi sunt, et de verbo hoc tractaturi, ubi utinam mereamur habere praesentiam vestram. Quia enim magnis omnino magnorum virorum consiliis, hoc verbum constat egere, gratum profecto obsequium praestabitis Deo, si ne-gotium eius a vobis non duxeritis alienum, sed caritatis vestrae zelum probaveritis, in opportunitatibus, in tribulatione. Nostis enim, pater amantissime, nostis, quoniam ami-cus in necessitate probatur. Confidimus autem, quod magnum huic verbo proventum praesentia vestra praestabit, turo pro auctoritate sanctae Cluniacensis ecclesiae, cui Deo disponente praeestis, tum maxime pro sapientia et gratia quam vobis ipse donavit, ad utilitatem utique proximorum, et suum ipsius honorem. Qui vobis etiam mmc inspirare dignetur, ut non gravemini venire, et servis suis in nomine eius, et pro zelo ipsius nomi-nis congregandis, vestram admodum desiderabilem conferre praesentiam.

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EPISTOLA DXXI AD PETRUM ABBATEM CLUNIACENSEM

Eum hortatur ne a conventu absit qui de Terrae Sanctae negotio habebitur. Venerabili domino et amico carissimo Petto, Dei gratia Cluniacensi abbati, frater Ber-nardus, Claraevallis vocatus abbas: salutem et intimam dilectionem. Negotium Domini grande et grave apparuit in universa terra. Grande plane, quia rex caeli perdit terram suam, terram hereditatis suae, terram ubi steterunt pedes. Agitant manus suas inimici eius super montem filiae Sion, collem Ierusalem. Prope est ut aufe-ratur de terra lectulus floridus et decorus, in quo virgineus flos Mariae linteis et aroma-tibus conditus est, ut iam non sit sepulcrum eius gloriosum, sed ignominiosum ad perpe-tuam ignominiam fidei christianae. Minantur contaminare loca, prophetarum oraculis, Salvatoris miraculis insignita, consecrata Christi sanguine et conversatione. Quid erit hoc, nisi tollere fondamenta salutis nostrae, divitias populi christiani? De caelo respicit Dominus ut videat si est intelligens aut requirens eum, si sit qui doleat vicem eius; sed non est qui adiuvet. Intepuerunt corda principum; sine causa gladium portant: pellibus mortuorum animalium reconditus est, rubigini consecratus. Nec exerunt eum, cum Chri-stus patiatur, ubi et altera vice passus est, nisi quod tunc in uno angulo, nunc in toto saeculo molestior ista passio prospectatur. Recurrit et ad vos Filius Dei tamquam ad unum de maximis principibus suis domus suae. Homo enim iste nobilis qui abit in re-gionem longinquam multum vobis tam interioris quam exterioris substantiae suae com-misit, et neces est ut in necessitate sua sentiat auxilium et consilium vestrum. Nostis quod in Carnotensi conventu de negotio Dei aut parum aut nihil factum est. Ibi multum et expetita et expectata est praesentia vestra. Indictus est alius conventus apud regium Compendium idus Iulii, ubi vestram interesse sublimitatem et supplicamus et exigimus. Sic oportet fieri, sic exigit necessitas, et necessitas magna. De cetero Gau-cherium vestrum, nepotem Gaucherii nostri, immo et vestri, vestrae gratiae commenda-mus, iuvenem qui vos multum diligit tamquam alumnus vester. Sit de familiari familia-rior propter nos, ut semper noverit intercessionem nostram sibi aliquid accedisse. Salu-tat vos Nicholaus noster ut vester: vester est enim.

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EPISTOLA CCLVI AD DOMINUM PAPAM EUGENIUM

Excitat Eugenium ad suppetias Orientali Ecclesiae ferendas; nec abiciendum animum ob acceptam cladem in amissione civitatis Edessae. Miratur vero se Carnoti in ducem belli electum. 1. Non est leve verbum quod sonuit: triste satis et grave est. Et cui triste? Immo cui non triste? Soli filii irae iram non sentiunt, nec tristantur tristibus, sed laetantur et exsultant in rebus pessimis. De cetero communis tristitia est, quia communis est causa. Bene feci-stis iustissimum zelum nostrae Gallicanae Ecclesiae collaudando et corroborando aucto-ritate litterarum vestrarum. Non est, dico vobis, in causa tam generali et tam gravi tepide agendum, sed ne timide quidem. Legi apud quemdam sapientem: Non est vir fortis, cui non crescit animus in ipsa rerum difficultate. Ego autem dico fideli homini magis et in-ter flagella fidendum. Intraverunt aquae usque ad animam Christi, tacta est pupilla oculi eius! Exserendus est nunc uterque gladius in passione Domini, Christo denuo patiente, ubi et altera vice passus est. Per quem autem, nisi per vos? Petri uterque est, alter suo nutu, alter sua manu, quoties necesse est, evaginandus. Et quidem de quo minus videba-tur, de ipso ad Petrum dictum est: Converte gladium tuum in vaginam. Ergo suus erat et ille, sed non sua manu utique educendus. 2. Tempus et opus esse existimo ambos educi in defensionem Orientalis Ecdesiae. Cuius locum tenetis, zelum negligere non debetis. Quale est hoc, principatum tenere et mini-sterium declinare? Vox clamantis: Venio Ierosolymam iterum crucifigi. Ad quam vo-cem etsi alii tepidi, alii et surdi sint, successori Petri dissimulare non licet. Loquetur et ipse: Et si omnes scandalizati fuerint, sed non ego. Nec terrebitur damnis prioris exerci-tus, quibus magis risarciendis operam dabit. Numquid ideo non debet facere homo quod debet, quia Deus facit quod vult? Ego vero pro tantis malis, tamquam christianus et fide-lis, meliora sperabo, et omne gaudium aestimabo quod in varias tentationes incidimus. Revera panem doloris comedimus et potati sumus vino compunctionis. Quid diffidis, amice Sponsi, quasi non more suo vinum bonum servaverit usque adhuc benignus et sa-piens sponsus? Quis scit si convertatur et ignoscat Deus, et relinquat post se benedic-tionem? Et certe sic operari, sic iudicare superna divinitas solet: scienti loquor. Quando magna bona mortalibus provenerunt, quae non magna praevenerint mala? Nam, ut cete-ra taceam, nonne illud unicum et singulare beneficium nostrae salutis praecessit mors Salvatoris? 3. Tu ergo, amice Sponsi, amicum te in necessitate probato. Si triplici illo amore, de quo tuus interrogatus est praedecessor, tu quoque toto corde, tota anima, tota virtute Chri-stum diligis, ut oportet, nihil reservabis, nihil dissimulabis in tanto periculo sponsae eius; sed quidquid habes virium, quidquid zeli, quidquid sollicitudinis, quidquid auctori-tatis, quidquid potestatis, impendes. Singulare periculum singularem exigit operam. Fundamentum concutitur, et tamquam imminenti ruinae totis est nisibus occurrendum. Et haec propter vos, fidenter quidem, sed fideliter dicta. 4. De cetero verbum illud quod iam, ni fallar, audistis: quomodo videlicet in Carnotensi conventu, - quonam iudicio satis miror -, me quasi in ducem et principem militiae elegerunt, certum sit vobis nec consilii mei, nec voluntatis meae fuisse vel esse, sed nec

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possibilitatis meae, quantum metior vires meas, pervenire usque illuc. Quis sum ego, ut disponam castrorum acies, ut egrediar ante facies armatorum? Aut quid tam remotum a professione mea, etiam si vires suppeterent, etiam si peritia non deessset? Sed neque hoc meum est vestram docere sapientiam: nostis haec omnia. Tantum obsecro per illam caritatem, qua mihi specialiter debitor estis, ne me humanis voluntatibus exponatis, sed, sicut singulariter vobis incumbit, divinum consilium perquiratis, et operam detis ut, sicut fuerit voluntas in caelo, sic fiat.

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EPISTOLA CCLXXXIX AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Instruit eam quomodo se gerat, ut probae viduae coram Dea, et reginae coram homini-bus partes impleat. Dilectae in Christo filiae Milisendi, reginae Ierosolymorum, Bernardus, Claraevallis vo-catus abbas: misericordiam a Deo salutari suo. 1. Miror quod a multo iam tempore non vidimus litteras tuas, non solitas salutationes habuimus, quasi nos obliti simus antiquae tuae erga nos devotionis, quam in multis pro-bavimus. Audivimus, fateor, nescio quae sinistra, quae, etsi non pro certo credidimus, doluimus tamen sivè veritate, sive mendacio tuam aliquatenus decolorati opinionem. Sane intervenit Andreas carissimus avunculus meus, cui in nullo decredere possumus, scripto suo nobis significans meliora, quod scilicet pacifice et mansuete te habeas, sa-pienter et consilio sapientum te et tua regas, fratres de Templo diligas et familiares ha-beas, periculis imminentibus terrae, secundum sapientiam tibi a Deo datam, salutaribus consiliis et auxiliis provide et sapienter occurras. Talia prorsus, talia decent opera mulie-rem fortem, humilem viduam, sublimem reginam. Neque enim, quia regina es, indi-gnum tibi viduam esse, quod, si voluisses, non esses. Puto quod et gloria tibi est, praecipue inter christianos, non rninus vivere viduam quam reginam. Illud successionis est, hoc virtutis: illud tibi ex genere, istud ex munere Dei; illud feliciter nata es, hoc viri-liter nacta. Duplex honor: alter secundum saeculum, alter secundum Deum, uterque a Deo. Nec parvus tibi videatur honor viduitatis, de quo Apostolus: Honora, inquit, vidu-as, quae vere viduae sunt. 2. Habes certe penes teipsam familiare commonitorium apostolicae iterum salutaris sen-tentiae, qua doceris ab eo providere bona, non tantum coram Deo, sed etiam coram hominibus. Coram Deo, ut vidua; coram hominibus, ut regina. Attende reginam, cuius digna indignave non possunt latere sub modio. Super candelabrum sunt, ut appareant omnibus. Memento viduam, cui iam non est quod velit piacere viro, ut soli possit piace-re Deo. Beata es, si Salvatorem ponas tibi murum ad protectionem conscientiae, et an-temurale ad repulsionem infamiae. Beata, inquam, si veluti desolatam et viduam totam te Deo regendam comtniseris. Alioquin bene non regis, si bene non regeris. Regina Au-stri venit audire sapientiam Salomonis, ut regi disceret, et sic regere sciret. Et ecce plus quam Salomon hic: Iesum loquor et hunc crucifixum. Huic te committe regendam, huic docendam, quomodo regere debeas. Disce, tamquam vidua, quod sit mitis et humilis corde; disce, tamquam regina, quod iudicet in iustitia pauperes et arguat in aequitate pro mansuetis terrae. Ergo cum cogitas dignitatem, attende et viduitatem, quia, ut pure apud te quod sentio proferam, non potes esse regina bona, si bona non fueris vidua. Quaeris unde bona vidua aestimetur? Ex his profecto quae Apostolus dicit: Si filios edu-cavit, si hospitio recepit, si sanctorum pedes lavit, si tribulationem patientibus submini-stravit, si omne opus bonum subsecuta est. Si haec facis, beata es et bene tibi erit. Bene-dicat tibi Dominus ex Sion, eximia in Domino fìlia et omni veneratione digna. Admoni-tio praemissa est; prosecutio iam a vestra dignatione exspectatur. Occasio data est: ex-cusatio iam non admittitur, si non renovata a nostra parte familiaritas, familiaribus deinceps a vobis verbis et litteris frequentetur.

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EPISTOLA CCLXXXVIII AD ANDREAM AVUNCULUM SUUM, MILITEM TEMPLI

Infelicem exitum sacrae expeditionis dolet; avunculi adventum optat. 1. Litterae tuae, quas novissime transmisisti, invenerunt me in lectulo decumbentem. Accepi eas obviis manibus; libenter legi, libenter relegi, sed libentius te vidissem. Legi in illis desiderium tuum videndi me, legi et metum tuum pro periculo terrae, quam Do-minus sua praesentia honoravit; periculo civitatis, quam suo sanguine dedicavit. Vae principibus nostris! In terra Domini nihil boni fecerunt: in suis, ad quas velociter redie-runt, incredibilem exercent malitiam, et non compatiuntur super contritione Ioseph. Po-tentes sunt ut faciant mala, bonum autem facere nequeunt. Confidimus autem quia non repellet Dominus plebem suam et hereditatem suam non derelinquet. Porro dextera Domini faciet virtutem et brachium suum auxiliabitur ei, ut cognoscant omnes quia bo-num est sperare in Domino quam sperare in principibus. Bene facis formicae te compa-rans. Quid enim aliud quam formicae quique terrigenae et filii hominum sumus, rebus inutilibus atque inanibus insudantes? Quae autem abundantia homini de universo labo-re, quo laborat ipse sub sole? Ergo ascendamus super solem et conversatio nostra in caelis sit, iam mente praecedentes quo sumus et corpore secuturi. Ibi, mi Andrea, ibi fructus iaboris tui; ibi retributio tua. Sub sole militas, sed sedenti super solem. Rie mili-tantes, inde donativa exspectemus. Merces militiae nostrae non de terra, non de deorsum est; procul et ab ultimis finibus pretium eius. Sub sole penuria est; super solem abun-dantia est. Mensuram bonam, et confertam, et coagitatam, et superfeffluentem dabunt in sinus nostros. 2. Desideras me videre, et de meo, ut scribis, arbitrio desiderii tui pendet effectus. Nam mandatum super hoc meum te indicas exspectare. Et quid dicam tibi? Et cupio ut venias, et timeo ne venias. Ita inter velie et nolle positus, coarctor e doubus; et quid eligam, ignoro. Unum, ne videlicet tuo satisfaciam desiderio, et meo pariter: an credam magis celebri de te opinioni, qua terrae ita pernecessarius praedicaris, ut de tua absentia non mediocris illi desolatio imminere credatur. Itaque quod mandare non audeo, opto tamen ut te videam antequam moriar. Tu melius id videre et cognoscere potes, si quo modo si-ne damno et sine scandalo illius gentis venire possis. Et fieri posset quod adventus tuus omnino non esset inutilis. Forte, favente Deo, non deessent qui te sequerentur reverten-tem ad subveniendum Ecclesiae Dei, quoniam omnibus notus es et dilectus. Potest face-re Deus, ut et tu cum sancta patriarcha Iacob loquaris: In baculo meo transivi Iordanem istum, et ecce cum tribus turmis regredior. Unum dico: si venturus es, ne tardaveris, ne forte venias et non me invenias. Ego enim delibor, nec puto me longum facere super ter-ram. Quis mihi tribuat tua, in voluntate Domini, amabili et dulci praesentia vel paulum refrigerati, priusquam abeam? Reginae scripsi, sicut voluisti, et gaudeo de bono testi-monio quod ei perhibes. Magistrum et fratres vestros omnes de Templo, necnon et eos de Hospitali, per te in Domino salutamus. Inclusos quoque et sanctos omnes, ad quos opportune loqui poteris, per te in Domino salutantes, eorum nos orationibus commen-damus. Esto pro me ad eos. Girardum nostrum, qui in domo nostra aliquando conversa-tus est et nunc, ut audivimus, episcopus factus est, et ipsum affectu magno devotissime salutamus.

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DE CONSIDERATIONE AD EUGENIUM PAPAM

LIBER II APOLOGIA SUPER CONSUMPTIONEM IEROSOLYMITARUM

1. Memor promissi mei, quo ecce iam aliquamdiu teneor apud te, vir optime, Papa Eu-geni, volo ipso absolvere me vel sero. Puderet dilationis, si mihi conscius forem incuriae aut contemptus. Non ita est; sed incidimus, ut ipse nosti, tempus grave, quod et ipsi paene vivendi usui videbatur indicere cessationem, nedum studiis, cum Dominus scili-cet, provocatus peccatis nostris, ante tempus quodammodo visus sit iudicasse orbem ter-rae, in aequitate quidem, sed mi.sericordiae suae oblitus. Non pepercit populo suo, non suo nomini. Nonne dicunt in gentibus: Ubi est Deus eorum? Nec mirum. Ecdesiae filii, et qui christiano censentur nomine, prostrati sunt in deserto, aut interfecti gladio, aut fame consumpti. Effusa est contentio super principes, et Dominus errare fecit eos in in-vio et non in via. Contritio et infelicitas in viis eorum; pavor et maeror, et confusio in penetralibus regum ipsorum. Quam confusi pedes annuntiantium pacem, annuntiantium bona! Diximus: «Pax», et non est pax; promisimus bona, et ecce turhatio, quasi vero temeritate in opere isto aut levitate usi simus. Cucurrimus plane in eo, non quasi in in-certum, sed te iubente, immo per te Deo. Quare ergo ieiunavimus, et non aspexit, humi-liavimus animas nostras, et nescivit? Nam in his omnibus non est aversus furor eius, sed adhuc manus eius extenta. Quam patienter interim adhuc audit voces sacrilegas et Ae-gyptios blasphemantes, quia callide eduxit cos, ut ocdderet in deserto? Et quidem iudica Domini vera, quis nesciat? At iudicium hoc abyssus tanta, ut videar mihi non immerito pronuntiare beatum, qui non fuerit scandalizatus in eo. 2. Et quomodo tamen humana temeritas audet reprehendere quod minime comprehende-re valet? Recordemur supernorum iudiciorum, quae a saeculo sunt, si forte sit consola-tio. Nam quidam ita dixit: Memor fui iudiciorum tuorum a saeculo Domine, et consola-tus sum. Rem dico ignotam nemini, et nunc nemini notam. Nempe sic se habent mor-talium corda: quod scimus cum necesse non est, in necessitate nescimus. Moyses, educturus populum de terra Aegypti, meliorem illls pollicitus est terram. Nam quando ipsum aliter sequeretur populus, solam sapiens terram? 1 Eduxit; eductos tamen in ter-ram, quam promiserat, non introduxit. Nec est quod ducis temeritati imputaci queat tristis et inopinatus eventus. Omnia faciebat Domino imperante, Domino cooperante et opus confirmante, sequentibus signis. «Sed populus ille», inquis, «durae cervicis fuit, semper contentiose agens contra Dominum et Moysen servum eius». Bene: illi increduli et rebelles; hi autem quid? Ipsos interroga. Quid me dicere opus est, quod fatentur ipsi? Dico ego unum: quid poterant proficere, qui semper revertcbantur, cum ambularent? Quando et isti per totam viam non redierunt corde in Aegyptum? Quod si illi ceciderunt et perierunt propter iniquitatem suam, miramur istos eadem facientes, eadem passos? Sed numquid illorum casus adversus promissa Dei? Ergo nec istorum. Neque enim ali-quando promissiones Dei iustitiae Dei praeiudicant. Et audi aliud. 3. Peccavit Beniamin: accinguntur reliquae tribus ad ultionem, nec sine nutu Dei. Deni-que ipse designavit ducem praellaturis. Itaque praeliantur, fred et manu validiori, et cau-sa potiori et, quod his maius est, favore divino. At quam terribilis Dcus in consiliis su-per filios hominum! Terga dedere sceleratis ultores sceleris, et paucioribus plures. Sed recurrunt ad Dominum, et Dominus ad eos: Ascendite, inquit. Ascendunt denuo, denuo-

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que fusi et confusi sunt. Ita Deo primum quidem favente, secundo et iubente, iusti iu-stum certamen ineunt, et succumbunt. Sed quo inferiores certamine, eo fide superiores inventi sunt. Quid putas de me facerent isti, si meo hortatu iterato ascenderent, iterato succumberent? Quando me audirent monentem tertio repetere iter, repetere opus, in quo semel iam et secundo frustrati forent? Et tamen Israelitae, unam et alteram non reputan-tes frustrationem, tertio parent, et superant. Sed dicunt forsitan isti: «Unde scimus quod a Domino sermo egressus sit? Quae signa tu facis, ut credamus tibi?». Non est quod ad ista ipse respondeam: parcendum verecundiae meae. Responde tu pro me et pro te ipso, secundum ea quae audisti et vidisti, aut certe secundum quod tibi inspiraverit Deus. 4. Sed forte miraris me prosequi ista, qui aliud proposueram. Facio non oblitus proposi-ti, sed quod a proposito non iudicem aliena. Nempe de consideratione, ut memini, sermo mihi ad tuam dignationem. Et sane magna ista res, et egens consideratione non minima. Quod si res magnas a magnis considerari oportet, cui aeque ut tibi id studil competit, qui parem super terram non habes? Sed tu, secundum sapientiam et potestatem datam tibi desuper, facies de hoc. Non est meae humilitatis dictare tibi sic vel sic fieri quidquam. Sufficit intimasse oportere aliquid fieri, unde et Ecclesia consoletur, et obstruatur os lo-quentium iniqua. Haec pauca vice apologiae dieta sint, ut ipsa qualiacumque habeat conscientia tua ex me, unde habeat me excusatum et te pariter, etsi non apud eos qui facta ex eventibus aestimant, certe apud teipsum. Perfecta et absoluta cuique excusatio, testimonium conscientiae suae. Mihi pro minimo est ut ab illis iudicer, qui dicunt bo-num malum et malum bonum, ponentes lucem tenebras et tenebras lucem. Et si necesse sit unum fieri e duobus, malo in nos murmur hominum quam in Deum esse. Bonum mi-hi, si dignetur me uti pro clypeo. Libens excipio in me detrahentium linguas maledicas et venenata spicula blasphemorum, ut non ad ipsum perveniant. Non recuso inglorius fieri, ut non irruatur in Dei gloriam. Quis mihi det gloriari in voce illa: Quoniam propter te sustinui opprobrium, operuit confusio faciem meam? Gloria mihi est, consortem fieri Christi, cuius illa vox est: Opprobria exprobrantium tibi ceciderunt super me. Nunc iam recurrat stilus ad suam materiam, et in ea quae proposueramus, suo tramite gradiatur oratio.

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LIBER TERTIUS UT HAERETICOS CORRIGAT, GENTILES CONVERTAT,

AMBITIOSOS REPRIMAT Recordare nunc vocis illius: Sapientibus et insipientibus debitor sum. Et si non indebi-tam tibi ipsam censes, hoc quoque simul memento, debitoris molestum nomen servienti potius quam dominanti congruere. Servus in Evangelio audit: Quantum debes domino meo? Ergo si te agnoscis sapientibus et insipientibus, non dominatorem, sed debitorem, curandum summopere tibi, et tota vigilantia considerandum, quomodo et qui non sa-piunt sapiant, et qui sapiunt non desipiant, et qui desipuere resipiscant. At nullum genus insipientiae infìdelitate, ut sic loquar, insipientius. Ergo et infidelibus debitor es, Iudae-is, Graecis et Gentibus. 3. Interest proinde tua dare operam quam possis, ut increduli convertantur ad fidem, conversi non avertantur, aversi revertantur, porro perversi ordinentur ad rectitudinem, subversi ad veritatem revocentur, subversores invictis rationibus convincantur, ut vel emendentur ipsi, si fieri potest, vel, si non, perdant auctoritatem facultatemque alios subvertendi. Non omnino et ab hoc insipientium genere pessimo tibi dissimulandum. Dico autem haereticos schismaticosque, nam hi sunt subversi et subversores, canes ad scissionem, vulpes ad fraudem. Erunt, inquam, huiusmodi maxime tuo studio aut corri-gendi, ne pereant, aut, ne perimant, coercendi. Esto, de Iudaeis excusat te tempus: ha-bent terminum suum qui praeveniri non poterit. Plenitudinem gentium praeire oportet. Sed de ipsis gentibus quid respondes? Immo quid tua consideratio respondet tibi per-cunctanti sic? Quid visum est patribus ponere metam Evangelio, verbum suspendere fi-dei, donec infidelitas durat? Qua ratione, putamus, substitit velociter currens sermo? Quis primus inhibuit hunc salutarem cursum? Et illis causa forte, quam nescimus, aut necessitas potuit obstitisse. 4. Nobis quae dissimulandi ratio est? Qua fiducia, qua conscientia Christum non vel ofierimus eis qui non habent? An veritatem Dei in iniustitia detinemus? Et quidem quandoque perveniat gentium plenitudo necesse est. Exspectamus ut in eas incidat fides? Cui credere casu contigit? Quomodo credent sine praedicante? Petrus ad Corneli-um, Philippus ad Eunuchum missi sunt et, si exemplum recentius quaerimus, Augusti-nus, a beato Gregorio destinatus, formam fidei tradidit Anglis. Et de his tu ita tecum.

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