Alessandro D. Conti Stefano Velotti GLI STRUMENTI DEL PENSIERO

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STORIA DELLA FILOSOFIA ED ESERCIZIO DEL PENSIERO Dialoghiamo in aula Educazione alla Cittadinanza Tema interdisciplinare: letterature e filosofia Sviluppare le competenze Filosofie per il XXI secolo EDITORI LATERZA 3 Alessandro D. Conti Stefano Velotti GLI STRUMENTI DEL PENSIERO La filosofia dai presocratici alle nuove scienze del linguaggio PER IL LICEO LINGUISTICO B

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Page 1: Alessandro D. Conti Stefano Velotti GLI STRUMENTI DEL PENSIERO

STORIA DELLA FILOSOFIA ED ESERCIZIO DEL PENSIERO

Dialoghiamo in aula

Educazione alla Cittadinanza

Tema interdisciplinare: letterature e filosofia

Sviluppare le competenze

Filosofie per il XXI secolo

EDITORI LATERZA

3Alessandro D. Conti Stefano Velotti

GLI STRUMENTI DEL PENSIEROLa filosofia dai presocratici alle nuove scienze del linguaggio

PER IL LICEO LINGUISTICO

B

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Page 2: Alessandro D. Conti Stefano Velotti GLI STRUMENTI DEL PENSIERO

INDICE DEL VOLUME

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Prima edizione 2019

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Questo manuale è il risultato del lavoro comune dei due Autori. Al di là della responsabilità condivisa, il primo volume è di Alessandro D. Conti, il secondo volume e la cura del terzo sono di Stefano Velotti.

Hanno contribuito al volume: Giulio Azzolini (capp. 4, 23-24, 26, 35.1-2); Ludovico Battista (risorse online); Claudia Bianchi (cap. 34); Lauro Colasanti (capp. 28, 30, 32); Lucio Cortella (capp. 1-3, 8-13, 18-22, 25, 27, 29); Mauro Dorato (cap. 31); Martino Feyles (cap. 33); Gaetano Lettieri (risorse online); Massimo Marraffa (capp. 14-15; risorse online); Eleonora Piromalli (capp. 35.3-5, 37-38); Simone Pollo (capp. 5-7, 36; risorse online); Gino Roncaglia (cap. 39).

Ha collaborato a Filosofia Oltre: Martino Feyles (Letterature e filosofia).

Apparati didattici: Maria Teresa Tosetto.

Copertina e progetto grafico a cura di Silvia Placidi/Grafica Punto Print srl.

Finito di stampare nel marzo 2019 da Petruzzi - Città di Castello (PG) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa

ISBN 978-88-421-1608-0

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

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La centralità del linguaggio

L’antisoggettivismo che caratterizza buona parte del pensiero contempora-neo trova nell’opera di Wittgenstein uno dei suoi luoghi d’elezione. Nono-stante l’interna articolazione che caratterizza lo sviluppo del suo pensiero – tanto da indurre molti interpreti a parlare di “due” Wittgenstein, un primo che ruota attorno alle tesi del Tractatus e un secondo che culmina con le Ricerche filosofiche – l’elemento fondamentale che attraversa la sua opera è la presa di distanza da qualsiasi tipo di “mentalismo” e la sostituzione della centralità del soggetto con la centralità del linguaggio.

Nel Tractatus sparisce ogni funzione specifica del soggetto che non possa essere sostituita dal linguaggio, cioè dalle proposizioni. Il carattere fonda-mentale del pensiero è infatti quelli di raffigurare il mondo, di farsi un’im-magine dei fatti che costituiscono il mondo. Ebbene, questa capacità raffi-gurativa è la specificità del linguaggio. Non c’è nulla che il pensiero possa aggiungervi. Avendo perduto ogni capacità di “costituire” kantianamente

Il soggetto messo ai margini a favore

del linguaggio

Raffigurare gli oggetti

DISCUTIAMO INSIEME Fino a che punto il giudizio altrui può essere garanzia di un uso corretto delle

regole linguistiche?

CONCETTI CHIAVEOggetti, stati di cose, fatti, Soggetto,

Solipsismo, Proposizione, Senso proposizionale, Forma logica, Significato

(di una parola), Gioco linguistico, Forma di vita, Grammatica, Regola,

Concordanza della forma di vita

Antologia di testiT81 Il problema del soggetto; T82 Il linguaggio “primitivo”

EXTRA ONLINE T83 La critica del linguaggio privato

CLASSE CAPOVOLTA

C29Ludwig Wittgenstein

1

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola «significato» si

può definire così: “Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”.

Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosoficheLudwig Wittgenstein, 1930

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667C29 Ludwig Wittgenstein

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola «significato» si

può definire così: “Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”.

Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche

gli oggetti ed essendo solo uno “specchio” dei fatti, il pensiero si identifica con le proposizioni. Ma non possiamo neppure parlare di un mondo “al di là” di esse: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo». Soggetto e mondo trovano la loro piena manifestazione nel linguaggio.

Il “secondo Wittgenstein” non mette in discussione quella centralità. La allarga. Nel Tractatus c’è posto per un solo tipo di linguaggio, quello delle proposizioni raffigurative. Ma il nostro linguaggio è molto più di uno spec-chio dei fatti. Noi conosciamo innumerevoli “usi” delle parole. Possiamo dare ordini, esprimere desideri, cantare, recitare, far congetture, ringraziare, pregare. Ognuno di questi usi segue le sue regole ed è legato a pratiche. Wittgenstein le chiama «giochi linguistici», perché – come nei giochi – in esse è centrale l’uso delle regole. Insomma i linguaggi sono molteplici. E allora il significato delle parole all’interno di quei giochi non può più risie-dere nel loro riferimento ai fatti, ma emerge proprio dall’uso, dal modo in cui quelle parole si sono sedimentate all’interno delle nostre pratiche. Le Ricerche filosofiche confermano perciò la centralità del linguaggio. Esso mantiene un primato sia nei confronti degli oggetti del mondo sia nei con-fronti dei concetti mentali. È il nostro uso delle parole a darci il significato delle cose. Così come comprendere un concetto non è averne un’immagine mentale ma usarlo all’interno di un linguaggio.

Dal linguaggio raffigurativo

ai giochi linguistici

2 La vita e le opere di Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 da una ricca famiglia di origi-ni ebraiche. Il padre era un grande industriale dell’acciaio ma anche un me-cenate delle arti. L’ambiente familiare è dunque ricco di stimoli culturali e artistici, ma il giovane Ludwig è più attratto dalla scienza e dal mondo della tecnica. Spinto da questi interessi, nel 1906 si iscrive al Politecnico di Berli-no e poi va a Manchester per studiare Ingegneria meccanica. Ma viene pre-sto attirato dallo studio della Matematica e dei suoi fondamenti. Per questo nel 1911 si trasferisce a Cambridge per seguire le lezioni di Bertrand Russell.

In quegli anni scrive le Note sulla logica che discute con Russell. Allo scop-pio della prima guerra mondiale si arruola volontario nell’esercito austria-co, con l’idea di compiere un’esperienza radicale ed estrema e, in effetti, ri-mane profondamente colpito dagli orrori di quella guerra. Nel 1918 cade prigioniero degli italiani e viene internato per nove mesi in un campo di prigionia a Cassino. Sono mesi fondamentali perché durante la prigionia completa il Tractatus logico-philosophicus, l’unica sua opera pubblicata in

L’infanzia e gli studi

La prima guerra mondiale

e la scrittura del Tractatus

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vita. Infatti, anche su sollecitazione di Russell (a cui egli aveva fatto perveni-re il manoscritto), l’opera viene pubblicata in tedesco nel 1921, e poi nel 1922 con la traduzione inglese a fronte. Soprattutto questa seconda edizione, grazie anche all’introduzione scritta da Russell, gli crea una certa notorietà.

Ritenendo di aver risolto “nell’essenziale” i problemi filosofici fondamen-tali, ma essendosi anche convinto che, nonostante la povertà della soluzio-ne, più di tanto non si sarebbero potuti risolvere, abbandona la filosofia, prende il diploma di maestro e, dal 1920 al 1926, fa il maestro elementare in un villaggio della Stiria, nel sud-est dell’Austria. L’ostilità delle famiglie per i suoi metodi rigorosi lo inducono a dare le dimissioni e a ritirarsi in un convento dove svolge la mansione di giardiniere.

Nel 1927 entra in contatto con il “Circolo di Vienna” di Moritz Schlick, che già dal 1922 leggeva e commentava il Tractatus. Le discussioni sulla sua ope-ra tornano così a risvegliargli l’interesse per la filosofia. Decide perciò, nel 1929, di far ritorno a Cambridge dove ottiene il dottorato in Filosofia. Ma, intanto, l’insoddisfazione che è andato maturando per alcune tesi del Tracta-tus, lo spinge a cambiare la concezione del linguaggio e del significato esposta in quell’opera. Negli appunti manoscritti in quegli anni (poi pubblicati con i titoli di Osservazioni filosofiche, Grammatica filosofica, Libro Blu e Libro Marrone) la revisione del Tractatus diventa evidente non solo nella visione filosofica ma anche nello stile espositivo che ora si fa più problematico e me-no asseverativo. Dal 1930 al 1947, tra varie interruzioni, insegna Filosofia al Trinity College. Continua tuttavia a provare estraneità nei confronti dell’am-biente accademico inglese, nonostante Cambridge rimanga il luogo attorno a cui ruoterà la sua esistenza. Nel 1936 inizia la stesura delle Ricerche filosofi-che (Philosophische Untersuchungen), il risultato più maturo di questa nuova fase, che egli porta a conclusione per quanto riguarda la sola prima parte nel 1945. Nel 1939 succede a George Moore sulla cattedra di Filosofia al Trinity.

Le esperienze da maestro

e da giardiniere

Un nuovo inizio della vita

e del pensiero a Cambridge

Wittgenstein con i suoi studenti a Otterthal (Austria), 1925

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669C29 Ludwig Wittgenstein

Nel 1947 lascia l’insegnamento e si trasferisce in Irlanda, dove vive isolato sul-la costa, ma poi, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, prende casa a Dublino, dove si dedica a quella che sarà la “seconda parte” delle Ricerche filo-sofiche. Fa un viaggio negli Stati Uniti ospite del suo allievo Norman Malcolm, allora docente alla Cornell University. Ma poi torna in Inghilterra per non dover morire fuori dall’Europa. Malato di cancro, si spegne a Cambridge nel 1951. Lascia una grande quantità di pagine e appunti, fra cui il manoscritto (mai del tutto completato) delle Ricerche filosofiche, che saranno pubblicate dai suoi al-lievi nel 1953. Negli anni successivi appariranno molti altri dei suoi scritti ine-diti, fra i quali le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1956), Della certezza (1969), le Osservazioni sulla filosofia della psicologia (1980).

IL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS

Gli ultimi anni

3 Il mondo come totalità di fatti

La prima proposizione del Tractatus recita: «Il mondo è tutto ciò che acca-de» e questo accadere è costituito da “fatti”. Certo, i fatti sono composti da “oggetti” (l’ontologia tradizionale avrebbe parlato di “enti”), ma la condi-zione affinché un oggetto entri a far parte del mondo è che esso si connetta con altri oggetti, diventi cioè uno “stato di cose” e che questo stato di cose accada. Prima di quell’accadere l’oggetto e gli stessi stati di cose sono solo una “possibilità”, una possibile configurazione. Gli stati di cose posso-

La sostanza del mondo

CONCETTI CHIAVE

p. 683

Il mondo come totalità di fatti nel Tractatus

SINTESI GRAFICA

MONDO = totalità degli stati di cose sussistenti

= totalità dei fatti

non sussistenti (solo possibili)

sussistenti: FATTI (Tatsache)

OGGETTI Gegenstände = Elementi semplici non

ulteriormente scomponibili

STATI DI COSE (Sachverhalte)

nessi o configurazioni di oggetti

si compongono di

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no cioè sussistere o non sussistere. Quando uno stato di cose è sussistente, cioè è accaduto, è diventato un fatto.

Il mondo è quindi essenzialmente un accadere privo di ragioni e privo di lo-gica. Infatti «gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro», ovvero non c’è alcuna catena causale che li leghi tra loro e ne predetermini lo sviluppo. Quell’accadere è puramente casuale, come è del resto esplicito nell’originale tedesco della prima proposizione: «il mondo è tutto ciò che è il caso (der Fall)». Wittgenstein prosegue quella linea di pensiero avviata da Nietzsche, proseguita da Weber e che sarà poi ribadita dalle filosofie dell’esistenza, se-condo la quale il mondo è del tutto privo di senso [ 8, 11, 22]. Non vi è in esso alcun ordine, neppure quello attestato dalle leggi scientifiche, le quali infatti hanno carattere provvisorio e ipotetico: «in nessun modo può concludersi dal sussistere d’una qualsiasi situazione al sussistere d’una situazione affatto di-versa da essa». Se le leggi scientifiche intendono stabilire dei nessi causali fra gli stati di cose, non possono fondare quella loro pretesa sull’accadere fattuale: «Gli eventi del futuro non possiamo arguirli dai presenti. La credenza nel nes-so causale è la superstizione». L’ordine delle leggi scientifiche, come la mec-canica newtoniana, è solo una sistemazione concettuale nei confronti di una realtà fattuale che resta priva di quell’ordine: «Che il sole domani sorgerà è un’ipotesi; e ciò vuol dire: noi non sappiamo se esso sorgerà».

Un accadere puramente casuale

1. Ritrova nel testo, sottolinea e poi riporta sul tuo quaderno le definizioni di: mondo, oggetto, stato di cose, fatto.

2. Quale rapporto lega gli stati di cose fra loro? Come vanno intese le leggi scientifiche?

3. Come viene interpretata da Wittgenstein la credenza nel nesso causale?

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

4 Il soggetto

In questa configurazione del mondo non vi è spazio per la tradizionale concezione filosofica del soggetto, se con soggetto intendiamo un punto di vista sul mondo che non sia riducibile, a sua volta, a un fatto osservabi-le. «Ove nel mondo, vedere un soggetto metafisico?» L’unico modo di in-tendere quell’io metafisico è assumerlo come l’osservazione dei fatti, o – analogamente al pensiero – come «l’immagine logica dei fatti», ovvero ciò che consente ai fatti di essere visibili e raffigurabili. Ma, per definizione, l’osservatore (al pari dell’osservazione) non può essere osservato: «l’oc-chio in realtà non lo vedi», o meglio quello che vedi è uno stato di cose

Il soggetto come campo visivo

CONCETTI CHIAVE

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che chiamiamo occhio ma non possiamo certamente raffigurare il suo vedere, il suo essere un campo visivo. L’occhio raffigura-bile è ridotto ad “oggetto” di os-servazione, non osservato come “soggetto”, non in quanto osser-vante. Quindi quel vecchio sog-getto metafisico (il pensiero) coincide con l’osservabilità. Witt-genstein lo chiama il «campo vi-sivo» e il «limite del mondo», in singolare analogia col modo in cui Husserl in quegli stessi anni andava caratterizzando il suo “Io trascendentale”, coincidente con l’apparire dei fenomeni in quanto tale [ 18].

Alla fine “soggetto” e “oggetto” finiscono per coincidere e quello che ri-mane è solo l’esperienza, ovvero “la totalità dei fatti”. Ma a questo punto diventa impossibile anche parlare di una “mia” esperienza, perché ciò presupporrebbe la possibilità di una distinzione del “mio” punto di vista, del “mio” campo visivo”, dal campo visivo stesso. A maggior ragione non si potrà parlare di una “esperienza altrui” (come invece in quegli stessi anni tentava di fare la tradizione fenomenologico-ermeneutica): essa rein-trodurrebbe addirittura una “pluralità” di soggetti metafisici, nessuno dei quali sarebbe né osservabile né raffigurabile. La tesi di fondo del Tractatus è dunque rigorosamente una tesi solipsistica: non si può parlare dell’e-sperienza di un altro ma solo della propria. Ma qui il solipsismo si fa an-cora più radicale, in quanto non si può parlare neppure della “mia” espe-rienza: «Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso». Il soggetto si è dissolto nella realtà rappre-sentata. L’umano, il suo corpo, il suo operare, la stessa anima (ridotta ad oggetto dalla psicologia) sono solo dei fatti, particolari configurazioni in-terne a un’esperienza de-soggettivizzata. In linea di principio dunque il “soggetto” potrebbe sì essere osservato, ma solo se venisse ridotto a fatto, a una particolare configurazione della “mia” esperienza, se cioè perdesse tutte le caratteristiche che ne fanno un soggetto.

T81

Il problema del soggetto

Solipsismo e realismo puro

CONCETTI CHIAVE

p. 683

René Magritte, Il falso specchio, 1935[Collezione privata; © René Magritte, by SIAE 2019]

1. Come va inteso il soggetto secondo Wittgenstein?

2. Spiega in che cosa consiste la tesi solipsistica del Tractatus, e perché

essa viene a coincidere col realismo puro.

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

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Le proposizioni

C’è tuttavia una particolare classe di fatti capace di raffigurarne altri. Noi incontriamo costantemente immagini, cioè riproduzioni spaziali, cromati-che, sonore di altri fatti. Fra di esse vi sono alcune che hanno il carattere dell’immagine “logica”, cioè lo stesso carattere del pensiero. Quando quell’immagine logica dei fatti diventa “sensibile”, cioè si presenta osserva-bile al pari degli altri fatti, ci troviamo di fronte a un’immagine linguistica, la proposizione (Satz), nella quale il pensiero prende la forma di un insie-me di segni. Essa è infatti composta da “segni” (le lettere e le parole), cioè da “fatti”, che però sono anche “simboli”, cioè rinviano a – o rappresentano – altri fatti. A differenza del soggetto metafisico, le proposizioni non sono il “limite” del mondo perché sono pur sempre un accadimento interno al mondo stesso. Tuttavia, pur essendo un fatto osservabile (noi vediamo in continuazione parole scritte, udiamo parole pronunciate, cantate o recita-te), hanno la particolarità di raffigurare altri fatti.

Le proposizioni hanno dunque una peculiare duplice natura: sono immagi-ni logiche (cioè “mostrano”, fanno apparire, altri fatti), e al tempo stesso, grazie ai segni, sono espressione sensibile di quella raffigurazione logica, cioè sono un fatto come tanti altri. In questo secondo aspetto, la proposizio-ne può essere “osservata”, descritta, ma lo può essere a una sola condizione: che di essa venga considerata solo la sua dimensione fattuale, perdendo così il suo carattere raffigurativo-simbolico.

Un’immagine logica che

è anche immagine linguistica

CONCETTI CHIAVE

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Duplice natura delle proposizioni

5

La concezione del linguaggio nel Tractatus

SINTESI GRAFICA

PROPOSIZIONE (Satz) = raffigurazione della realtà

hanno in comune la

FORMA LOGICA = condizione di rappresentabilità del mondo

Stato di cose

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Tesi centrale del Tractatus, è che quel lato simbolico-raffigurativo, quel rin-viare o rappresentare altri fatti, non possa essere a sua volta né osservato, né raffigurato, né diventare oggetto di un’altra proposizione: «La sua propria for-ma di raffigurazione, tuttavia l’immagine non può raffigurarla; essa la esibi-sce». Quello che una proposizione può fare è “mostrare” la propria capacità simbolica ma questo “mostrarsi” non può essere detto, rimane inesprimibile.

Si conferma qui la concezione del linguaggio che caratterizza il Tractatus: esso ha carattere “oggettivante”, vale a dire che ciò che da esso viene raffigu-rato diventa necessariamente un fatto. Ne consegue che il “raffigurare”, in quanto inobiettivabile e non raffigurabile, sfugge necessariamente alle capa-cità del linguaggio. Quel rapporto tra linguaggio e fatti rimane dunque ine-

Inesprimibilità della capacità

simbolica

Carattere oggettivante

del linguaggio

CONtESTI

Uno dei momenti cruciali del-la storia dell’arte del secondo

Novecento è costituito dall’Arte Concettuale o Conceptual Art, nata intorno alla metà degli anni Sessan-ta, contemporaneamente in Ame-rica e in Europa. In questa corren-te confluiscono o prendono avvio tendenze e movimenti diversi il cui comune denominatore è la priorità assegnata al momento dell’ideazio-ne dell’opera d’arte su quello della sua realizzazione: l’Arte Concettuale si configura come una ricerca intel-lettuale e speculativa, il cui obietti-vo non è quello di «realizzare una forma», quanto piuttosto quello di mettere in evidenza un’idea o un progetto.

Un documento ormai storico dell’Arte Concettuale è One and Three Chairs (Una e tre sedie) rea-lizzata da Joseph Kosuth (nato nel 1945), uno dei più significativi pro-tagonisti della corrente. Rifletten-do sugli studi di alcuni fra i grandi filosofi del primo Novecento, fra i quali Wittgenstein e Freud, Kosuth affronta il tema della possibilità, o impossibilità, che il linguaggio, che sia quello artistico o quello formale,

aderisca perfettamente alla realtà. L’opera-installazione presenta una normale sedia di legno pieghevole addossata a una parete sulla quale sono appese una foto a grandez-za naturale della medesima sedia e una riproduzione, stavolta in-grandita, della definizione di chair, cioè ‘sedia’, tratta da un vocabola-rio inglese. Quindi Kosuth accosta l’oggetto fisico (la sedia) alla sua rappresentazione iconica (la foto-grafia) e alla sua rappresentazione logica (la parola) al fine di eviden-

ziare le relazioni che intercorrono fra le cose, le loro immagini e le parole che le definiscono.

L’operazione non ha eviden-temente uno scopo estetico, ma vuole far riflettere lo spettatore sulle dinamiche che, partendo dalla connessione tra fonti diver-se, portano alla formazione di un concetto, di un pensiero, e sulla distanza che separa un oggetto reale da una sua riproduzione, per quanto fedelissima, e dalla sua definizione verbale.

CtKosuth

Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965[The Museum of Modern Art, New York; © Joseph Kosuth, by SIAE 2019]

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sprimibile. Se paradossalmente volessimo raffigurare quel rapporto, alla fine noi potremmo solo descrivere una relazione tra due fatti (la proposizione ed il fatto che essa rappresenta), ma l’illustrazione di quella relazione non riu-scirebbe a illustrare la capacità “simbolica” della proposizione (per mostrare la relazione simbolica bisognerebbe oggettivarla, cioè ridurla a fatto, ma in tal modo avremmo perso la relazione simbolica, che non è un fatto).

1. Sottolinea la definizione di “proposizione”.2. Quale duplice natura hanno le proposizioni?

3. Secondo il Tractatus, il lato simbolico-raffigurativo delle proposizioni è...

4. Sottolinea nel testo che cosa significa che il linguaggio ha carattere oggettivante.

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

6 La forma logica

Il lato non rappresentabile del linguaggio, che ne costituisce la specificità, è chiamato da Wittgenstein «la forma logica». Le proposizioni possono essere immagine del mondo perché sono dotate di forma logica. E ugualmente que-sta forma logica sarà anche una proprietà dei fatti. Linguaggio e realtà hanno in comune la forma logica. Questa “comunanza” è la vera condizione della rappresentabilità del mondo. Ma è altrettanto ovvio che questa forma logica non sia né rappresentabile né esprimibile. Essa viene solo “esibita” dalla proposizione ma non può essere raffigurata. Fa parte di tutto ciò di cui (se-condo la celebre ultima proposizione del Tractatus) «si deve tacere».

Wittgenstein definisce l’intera sfera di ciò che non può essere raffigurato «il mistico». Esso coincide con l’ineffabile, ovvero ciò di cui non si può parla-re. Del mistico fanno parte gli enigmi dell’esistenza, le questioni teologiche, i problemi etici. Infatti «non vi possono essere proposizioni dell’etica», per-ché una proposizione è sensata solo quando può raffigurare un fatto (e i problemi etici, al pari di quelli religiosi non sono certo dei fatti osservabili e raffigurabili). «Vi è davvero dell’ineffabile: esso mostra sé, è il Mistico». Ma di esso è parte essenziale proprio la relazione fra le proposizioni e il mondo.

«Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stes-si con la proposizione fuori della logica, vale a dire, fuori del mondo», ma fuori dalla logica non c’è più la capacità di rappresentare, raffigurare, dire. Noi, invece, stiamo “dentro” il mondo e dentro la sua forma logica. Anzi, per noi, c’è un mondo, solo in quanto c’è la forma logica, ovvero la condi-

Il non-rappresentabile

del linguaggio

«Il mistico»

CONCETTI CHIAVE

p. 683

Carattere trascendentale

della forma logica CONCETTI CHIAVE

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zione di rappresentabilità. Essa perciò mostra al tempo stesso la sua condi-zione di inaggirabilità e intrascendibilità: «La logica è trascendentale».

Sbaglieremmo tuttavia se intendessimo quel carattere trascendentale alla stregua di Kant o di Husserl, cioè come dotato di una capacità “costitutiva”. La logica in Wittgenstein non è kantianamente sintetica, cioè non organizza a priori le nostre conoscenze, né unifica il molteplice. Essa è solo “analitica”, cioè formale e tautologica: «Le proposizioni della Logica sono tautologie», cioè non aggiungono nulla al contenuto delle proposizioni raffigurative. Es-se si limitano a ribadire, a ripetere quel contenuto. «Le proposizioni della logica descrivono l’armatura del mondo, o, piuttosto, la rappresentano.» Es-se «trattano di nulla». La logica si limita a rendere visibile il mondo. Essa non lo costruisce, non lo cambia, non gli conferisce alcun ordine. Ne è solo lo specchio. E se il mondo è solo «il caso» (der Fall), il linguaggio non potrà certo conferirgli quel senso di cui quell’accadere casuale è del tutto privo.

Peculiarità del trascendentale

wittgensteiniano

1. In che cosa consiste la forma logica del linguaggio?2. Sottolinea nel testo le espressioni che spiegano che cos’è il “mistico”

per Wittgenstein.3. Spiega in che cosa consiste il carattere trascendentale della forma logica.

4. Spiega perché la logica per Wittgenstein è solo “analitica”.

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

LE RICERCHE FILOSOFICHE

Una nuova teoria del significato

Scritte lungo un arco di tempo più che decennale, le Ricerche filosofiche rappresentano il punto di arrivo di una profonda revisione delle tesi fonda-mentali del Tractatus. Rimaste ancora incompiute, soprattutto nella secon-da parte, alla morte di Wittgenstein nel 1951, vengono pubblicate postume dai suoi allievi G.E.M. Anscombe e R. Rhees nel 1953. La presa di distanza dalla concezione del linguaggio illustrata nel Tractatus riguarda soprattutto l’estensione della nozione di linguaggio, che nell’opera del 1921 era ristret-ta a quello solipsistico-raffigurativo, mentre qui di esso emergono soprattut-to gli aspetti pratici e intersoggettivi. Se in precedenza era la logica (e in particolare la forma logica) a svolgere un ruolo centrale, ora sono le prati-che, le regole e i loro usi ad essere la condizione di funzionamento del lin-guaggio.

Una più ampia nozione

di linguaggio

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Il primo risultato di questo ripensamento investe la teoria del significato esposta nel Tractatus. In quell’opera il senso aveva a che fare con la sussisten-za di determinati stati di cose esterni al linguaggio: anche se non realmente esistenti, quegli stati di fatto dovevano almeno essere possibili per conferire un senso alle proposizioni. Una proposizione che esprimesse stati di cose impossibili o assurdi diventava perciò priva di senso. In altri termini, il senso del linguaggio era collocato al di fuori di esso, negli stati di cose [ 29.5].

Nelle Ricerche filosofiche quel senso è invece rinvenuto all’interno del lin-guaggio, cioè emerge dal sistema di regole che lo caratterizzano e lo rendo-no coerente. Queste regole sovraintendono all’uso che noi facciamo delle nostre parole ed espressioni. È la congruenza con quest’uso a determinare il loro senso e, quindi, anche la loro comprensibilità. Per spiegare queste re-gole e questi usi, Wittgenstein, nel primo paragrafo dell’opera, fa un celebre esempio: qualcuno viene mandato a fare la spesa con un biglietto, da conse-gnare al fruttivendolo, in cui c’è scritto «cinque mele rosse». Secondo la teoria del significato esposta nel Tractatus, il fruttivendolo comprende quel biglietto perché “riferisce” la parola “mele” a un tipo di frutta, il “rosso” a un tipo di colore e il “cinque” a un certo numero. Egli infatti cerca la parola “mele” fra le cassette della frutta, la parola “rosso” in un campionario di colori e poi conta fino a cinque per comprendere il tipo di numero. Ma – si chiede Wittgenstein – come fa a sapere che la parola mele si trova nei cas-setti della frutta, invece che cercarla fra i campionari di colore, e perché per capire la parola “mele” non si mette a contare la sequenza dei numeri car-dinali fino ad arrivare al supposto numero “mele”? La risposta è evidente: perché quel fruttivendolo conosce l’uso della parola mele, e lo conosce ben prima di trovare un “riferimento” nel mondo degli oggetti; secondo la nuo-va teoria del significato che emerge nelle Ricerche filosofiche quindi «il si-gnificato di una parola è il suo uso nel linguaggio».

L’uso è per Wittgenstein il posto che la parola occupa in un linguaggio e quell’uso precede ogni possibile riferimento, o meglio è condizione del rife-rimento esterno. Ora quell’uso presuppone un sistema di regole. Quando noi parliamo seguiamo un sistema di regole, tale per cui usiamo la parola “mele” in riferimento alla frutta, oppure al cibo in generale, o addirittura in riferimento al peccato originale, ma non alle espressioni algebriche o ai rapporti fra le note musicali.

Un nuovo itinerario di pensiero

T82

Il linguaggio “primitivo”

Il senso all’interno del linguaggio

CONCETTI CHIAVE

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L’uso delle parole

1. In che cosa consiste il significato di una proposizione secondo il Tractatus?

2. Dove va rinvenuto invece il senso di una proposizione secondo le Ricerche filosofiche?

3. Sottolinea nel testo le espressioni che chiariscono il ruolo dell’uso delle parole nelle Ricerche.

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

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8 Le regole

Un linguaggio ha a che fare più con le sue regole d’uso interne che non con i suoi riferimenti esterni. Per questo Wittgenstein impiega la parola “gioco linguistico”, al fine di indicare la caratterizzazione principale dei nostri linguaggi. «Qui la parola “giuoco linguistico” è destinata a mettere in evi-denza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita (Lebensform)». Svolgere un’attività, esercitare una pratica – e quindi anche utilizzare un linguaggio – è possibile solo se noi ne padro-neggiamo le regole, al pari di quello che avviene quando prendiamo parte a un gioco.

Non esiste dunque un unico linguaggio. Come ci sono molteplici giochi lin-guistici, così ci sono molteplici linguaggi. E ciò è alla base della tesi wittgen-steiniana secondo cui non è possibile determinare l’essenza del linguaggio, vale a dire la sua forma generale: «Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparen-tati l’uno con l’altro in molti modi differenti». Lungi dal teo-rizzare un concetto universale di linguaggio, si tratta piuttosto di indicare la rete di intrecci, o meglio di “parentele”, di “so-miglianze di famiglia”. E alla base di questa rete di intrecci e di incroci c’è la pluralità delle forme di vita. Un linguaggio, per Wittgenstein, non è prima-riamente un sistema di simboli ma una molteplicità di prati-che, usi, costumi, tradizioni, contesti. Infatti, come abbiamo visto, è proprio la natura pratica

Il linguaggio come gioco linguistico

CONCETTI CHIAVE

p. 684

CONCETTI CHIAVE

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La pluralità dei linguaggi e

delle forme di vita

Moriz Jung, Café Viennese: i giocatori di scacchi, 1911[Metropolitan Museum of Art, New York]Nell’opera Ricerche filosofiche, pubblicata postuma nel 1953, Wittgenstein focalizza l’attenzione sull’ambito delle esperienze della vita sociale e attribuisce alla nozione di “gioco” un carattere fondamentale: in essa il filosofo include tutto ciò che può essere definito linguistico.

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a dare senso agli enunciati. Parlare è esercitare una pratica e seguirne, più o meno consapevolmente, le regole.

È come se ogni parola fosse accompagnata da un “sistema di istruzioni” che ci suggerisse come usarla. Wittgenstein lo chiama la grammatica del lin-guaggio, indicando così non la coniugazione dei verbi e la concordanza degli aggettivi coi sostantivi, ma l’insieme di regole che determinano il po-sto che ogni parola ha nel nostro linguaggio. Noi sappiamo quando usare la parola “mele” perché ne conosciamo il posto ed è proprio questa conoscen-za del posto ad impedirci di usarla “fuori luogo”.

Per poter parlare e comprendere un linguaggio è dunque necessario conoscer-ne il sistema di regole. Tuttavia quella conoscenza non viene acquisita trami-te un insegnamento teorico (come, ad esempio, succede con la matematica) ma grazie a un’attività pratica, cioè imparando a usare quelle parole. A tal fine più che una lezione è necessario qualcosa come un “addestramento” o un “allenamento”, serve cioè esser “dentro” il contesto in cui quelle regole vengono costantemente usate.

La nostra stessa capacità di pensare viene acquisita entrando in quella grammatica linguistica. Pensare non è infatti “rappresentare” oggetti, ripro-durli o raffigurarli. Gli stessi concetti non sono “immagini mentali” delle cose. Noi comprendiamo un concetto o una sequenza di pensieri non già perché li riferiamo ai fatti esterni ma perché abbiamo imparato a usarli, cioè ne abbiamo conosciuto la “grammatica”. Comprendiamo un numero non perché ne conosciamo la teoria o il riferimento ma, semplicemente, perché sappiamo contare, fare addizioni, moltiplicare e dividere.

Ma che cosa comporta il legame fra linguaggio e regole, fra linguaggio e pratica, fra queste pratiche e l’addestramento? Le Ricerche filosofiche con-centrano in pochi essenziali paragrafi il pensiero di Wittgenstein su questa decisiva questione.

Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. – Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano essere state fatte una sola volta. – Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni). (Ricerche filosofi-che, § 199)

La nozione di regola ha a che fare con un comportamento “regolare” e ripe-tuto. Se un comportamento o una pratica non vengono ripetuti non ha senso parlare di regola. Per questo «non è possibile che un solo uomo abbia segui-

La grammatica del linguaggio

CONCETTI CHIAVE

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Apprendere praticamente

un sistema di regole

L’uso dei concetti e delle immagini

mentali

Linguaggio e regole

Ripetitività e consolidamento

delle regole

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to una regola una sola volta». Si badi: Wittgenstein non sta escludendo che qualcuno abbia applicato una regola una sola volta nella vita, abbia parteci-pato a un gioco una sola volta, abbia dato (o eseguito) un certo ordine una sola volta in vita. Quello che viene escluso è che tale regola sia stata seguita una sola volta in assoluto (ad esempio, certamente io posso aver giocato a poker, seguendone le regole, una sola volta nella vita, ma quelle sono “rego-le” perché sono state seguite da “altri” molte “altre volte”). E infatti Witt-genstein aggiunge: «seguire una regola, fare una comunicazione etc. sono abitudini», cioè sono comportamenti standard e uniformi. Una regola è tale solo se è consolidata, usata, praticata più volte.

1. In che senso Wittgenstein caratterizza il linguaggio come “gioco linguistico”?2. Perché non esiste un unico

linguaggio, ma una pluralità di linguaggi?3. Che cos’è la “grammatica del linguaggio”?

4. Come si impara a parlare e a comprendere un linguaggio?5. Che cos’è una regola, e che cosa significa seguire una regola?

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

Regole e intersoggettività

A questo punto sorge un problema: come distinguere fra un uso corretto e un uso scorretto della regola? Come stabilire se il mio comportamento è rispettoso di essa o ne costituisce, invece, una violazione? Saul Kripke, in un celebre saggio dedicato a questo specifico problema wittgensteiniano, fa l’esempio dell’addizione: come facciamo ad essere certi di seguirne la rego-la? dove si radica la nostra certezza di fare un’addizione e non una sottra-zione? La risposta più semplice sarà: perché l’abbiamo sempre fatto, o me-glio perché stiamo seguendo la regola standard che abbiamo sempre praticato quando ci siamo trovati di fronte a un’addizione. Ma in questo caso il nostro unico giudice è la nostra memoria: ci “ricordiamo” di aver sempre fatto così. Ma – aggiunge Kripke, seguendo il ragionamento implici-to nelle osservazioni wittgensteiniane – la nostra memoria è fallibile e quel ricordo potrebbe ingannarci. Essa dovrà perciò essere sostenuta dalla con-ferma di altri soggetti che conoscano quella regola, avrà bisogno di una sor-ta di conferma comunitaria, che emerga dal contesto di vita in cui noi ci troviamo.

Scrive Wittgenstein: «Credere di seguire la regola non è seguire la regola», ovvero la fiducia accordata alla mia memoria potrebbe essere smentita. Essa potrebbe indurmi a credere di aver seguito una certa regola ma potreb-be sbagliarsi. Pensavo di fare un’addizione e invece sto seguendo la regola

Decidere la correttezza

nell’uso delle regole

DISCUTIAMO INSIEME

Fino a che punto il giudizio altrui può essere garanzia di un uso corrretto delle regole linguistiche?, p. 681

Importanza del giudizio altrui

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della moltiplicazione. Il giudizio altrui è dunque decisivo per poter distin-guere fra “credere di seguire la regola” e “seguire la regola”.

Credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola «privatim»: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola. (Ricerche filosofiche, § 202)

Senza il “controllo” io potrei “credere” di seguire una regola ogni volta che la applico (anche quando non la applico per niente o la sto inconsape-volmente violando). Se così fosse, ogni comportamento sarebbe reso confor-me alla regola. Tutto sarebbe compatibile con tutto e la nozione di regola a questo punto sarebbe priva di senso.

Ciò che vale per le regole in generale vale anche per le regole del linguaggio in particolare. Dato che parlare un linguaggio è seguirne le regole (la “gram-matica”, il “posto” delle parole), non posso parlarlo da solo, perché in quel caso non avrei “alcun criterio di correttezza” e “corretto” apparirebbe “ciò che mi apparirà sempre tale”. La centralità della dimensione contestuale-co-munitaria nell’uso del linguaggio è una chiara conseguenza dello spostamen-to dalla precedente accezione raffigurativa (in cui l’intersoggettività era esclu-sa a favore del solipsismo) a una concezione pratica e abitudinaria di esso. La nozione di regola solleva infatti il problema del suo uso corretto e tale pro-blema può trovare una sua soluzione solo in un contesto comunitario. L’inter-soggettività diventa infatti sia una condizione genetica della pratica linguisti-ca (essa si apprende dagli altri, attraverso conferme e smentite, approvazioni e correzioni), sia una condizione che conferisce validità all’applicazione cor-retta delle regole (“corretto” è ciò che riceve conferma intersoggettiva).

Non si danno regole (e quindi non si dà linguaggio) senza un “accordo”, senza quella che Wittgenstein chiama la «concordanza (Übereinstim-mung) della forma di vita», una sorta di accordo implicito sulle regole delle nostre comunicazioni: «Nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita». Gli esseri umani potranno anche avere contrasti di opinione ma dovranno essere in accordo sulla “forma di vita”, cioè sulle regole che presiedono al loro parlare. Si tratta di un accordo implicito, interno al nostro specifico gioco linguistico e che non vale – ovviamente – per altri giochi e per altre forme di vita. Celebre l’affermazione wittgensteiniana: «Se un leone potesse parla-re noi non potremmo capirlo». Le sue regole non sono le nostre.

T83

La critica del linguaggio privato

Linguaggio e intersoggettività

CONCETTI CHIAVE

p. 684

La concordanza delle forme di vita

CONCETTI CHIAVE

p. 684

1. Come è possibile distinguere fra un uso corretto e un uso scorretto della regola?2. Perché è importante il giudizio altrui?

3. Perché non posso parlare un linguaggio da solo?4. Spiega l’importanza dell’intersoggettività per il linguaggio.

5. Sottolinea nel testo la definizione di “concordanza della forma di vita”.

GUIDA ALLA COMPRENSIONE E ALLO STUDIO

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681C29 Ludwig Wittgenstein

Fino a che punto il giudizio altrui può essere garanzia di un uso corretto delle regole linguistiche?

La tematizzazione dell’intersoggettività da parte di Wittgenstein nelle Ricer-che filosofiche non è particolarmente approfondita. Complice lo stile proble-matico, ricco di esperimenti mentali e di questioni cui lo stesso autore non sembra voler dare una risposta definitiva, il rinvio al “sostegno comunita-rio” della nostra applicazione delle regole rimane ancora carico di domande inevase. Potremmo perciò provare a mettere a fuoco queste domande, cer-cando una possibile risposta. Perché riporre nell’intersoggettività il fonda-mento della correttezza nell’applicazione delle regole? Perché il giudizio altrui dovrebbe essere più valido del giudizio proprio? Perché l’altro dovreb-be essere più competente di me? Non potrebbe sbagliarsi anche lui? Ma allo-ra, in questo caso, non rischiamo di vanificare – ancora una volta – la distin-zione fra “applicare una regola” e “credere di applicare una regola”?

Per dare risposta a queste domande (cui lo stesso Wittgenstein sembra voler sottrarsi) possiamo partire da alcuni punti fermi:

a. le Ricerche logiche non collocano il “punto di vista altrui” in una po-sizione di superiorità “epistemologica” rispetto al “punto di vista proprio”;

b. se vi è una “superiorità” questa va individuata nell’intersoggettività come sfera complessiva (e non nel singolo individuo diverso da me), cioè nella pluralità dei punti di vista che si vengono quotidianamente a confron-tare (e a correggersi reciprocamente) nelle comunicazioni quotidiane;

c. il sostegno al corretto uso della regola non va perciò individuato nel rapporto privato io-tu ma in un rapporto comunitario e sociale;

d. il carattere di “addestramento-allenamento” su cui si fonda la nostra appropriazione delle regole (e del loro corretto uso) svela come il contesto in cui si forma e si sviluppa un linguaggio è un contesto sociale, il cui ca-rattere dinamico è costituito dal fatto che in esso la violazione delle regole viene quotidianamente smentita;

e. in un’intersoggettività funzionante non viene concesso alcun “privi-legio” a specifici punti di vista individuali, dato che ogni partecipante a giochi linguistici può essere sia “giudice” sia “giudicato”;

f. la funzione di questo “controllo sociale” sulla violazione delle regole consiste in un “rapportarsi-confrontarsi reciproco”, le cui caratteristiche dinamiche sono però tali da impedire l’affermarsi di un punto di vista “de-finitivo”.

Discutiamo insieme

Una tematizzazione non approfondita

Punti fermi dell’intersoggettività

wittgensteiniana

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682U9 Logica, linguaggio, ontologia

Con il supporto organizzativo del docente, che svolge il ruolo di moderatore, provate ad impostare una discussione guidata di gruppo attorno alle seguenti questioni relative alla problematica filosofica presentata.

1. Wittgenstein non assegna al “punto di vista altrui” una posizione di superiorità “epistemologica” rispetto al “punto di vista proprio”, ma semmai attribuisce tale posizione all’intersoggettività come sfera complessiva. Come valuti i “punti fermi” dell’intersoggettività wittgensteiniana? Cerca esempi che li illustrino in modo efficace.

Ti sembra che da essi debba scaturire una concezione non statica ma dinamica dei processi linguistici? Prova ad esprimere la tua opinione con argomenti il più possibile chiari e convincenti.

2. L’altra questione riguarda l’assenza di un punto di vista definitivo e la provvisorietà di ogni giudizio di conferma o di smentita: in questo caso, è ancora possibile parlare di regole? O la nozione di regola diventa insignificante? Prendi in esame questa questione, pensa ad esempi concreti di mutamenti nelle regole di un linguaggio e trova argomenti il più possibile chiari e convincenti per sostenere la tua opinione.

3. La terza questione riguarda il modo in cui può avvenire la trasformazione delle regole. Come possiamo immaginare l’evoluzione delle regole di un linguaggio? Compi una ricerca su questo argomento, e rifacendoti ad esempi concreti di mutamenti nelle regole di un linguaggio avanza le tue ipotesi di spiegazione, trovando argomenti il più possibile chiari e convincenti per sostenere la tua opinione.

Organizzazione e fasi di svolgimento dell’attività discussione di gruppo (durata max 1 ora) p. 496

DIALOGHIAMO IN AULA

Sulla base di queste considerazioni possiamo perciò chiederci se un lin-guaggio debba aver regole fisse o se invece queste non debbano essere co-stantemente riviste, in una concezione dinamica dei processi linguistici. In assenza di un punto di vista definitivo e nella provvisorietà di ogni giudizio (di conferma o di smentita) possiamo ancora parlare di regole? O la nozione di regola finisce per indebolirsi a tal punto da diventare insignificante? E poi, come può avvenire la trasformazione delle regole? Come possiamo im-maginare l’evoluzione delle regole di un linguaggio? Per poter cambiare una regola non dobbiamo forse presupporre la validità di quelle regole che ci consentono di cambiarla?

Interrogativi che restano aperti

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CC

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Oggetti, stati di cose, fatti (Tractatus) [ 29.3]Gli oggetti (Gegenstände) sono la “sostanza” del mondo, nel senso che il

mondo è costituito di quegli elementi semplici non ulteriormente scomponibili. Quando questi oggetti si compongono fra di loro, cioè assumono una possibile configurazione diventano stati di cose (Sachverhalte). Lo stato di cose è perciò un “nesso d’oggetti”, in cui questi “ineriscono l’un l’altro come le maglie di una catena”. Questi stati di cose possono sussistere o non sussistere, sono cioè l’insieme delle possibilità dei fatti. Quando uno stato di cose è sussistente, cioè è accaduto, è diventato un fatto (Tatsache). “La totalità degli stati di cose sussistenti” (cioè non meramente possibili ma accaduti) “è il mondo”. In questo senso “il mondo è la totalità dei fatti”.

Soggetto (Tractatus) [ 29.4]Non è una parte del mondo, non sussiste nel mondo, non è visibile come gli altri fatti

del mondo. Esso è infatti il “campo visivo”, il limite entro cui si rendono visibili i fatti del mondo. Come non possiamo vedere l’occhio nella sua attività visiva così non possiamo vedere il soggetto. L’occhio “visto” è infatti solo un fatto del mondo. Ugualmente un soggetto “visto” è ridotto a fatto, vale a dire è corpo, membra, l’anima studiata nelle sue manifestazioni fattuali dalla psicologia. Perciò si può parlare di un soggetto psicologico (e lo si può anche indagare) ma non si può parlare di un soggetto filosofico: «ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico?».

Solipsismo (Tractatus) [ 29.4]È la tesi filosofica secondo cui non si può parlare di un’esperienza “altrui” ma solo

della esperienza “propria”. Ma proprio perché non si può parlare di un’esperienza altrui,

non ha senso neppure parlare di un’esperienza propria, sicché quest’ultima finisce per coincidere con la realtà: «il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro». In altri termini il “mio” mondo è il mondo.

Proposizione (Satz) (Tractatus) [ 29.5]È “l’espressione sensibile” del pensiero, vale a dire è il pensiero che prende la forma

di un insieme di segni. Poiché il pensiero è “l’immagine logica dei fatti”, la proposizione è l’espressione sensibile di quell’immagine logica. In questo senso la proposizione “descrive” uno stato di cose, o meglio può rappresentare il suo sussistere o il suo non sussistere. Il linguaggio è “la totalità delle proposizioni”, cioè è costituito da quelle proposizioni che descrivono “stati di cose”.

Senso proposizionale (Sinn des Satzes) (Tractatus) [ 29.6]Una proposizione ha senso se lo stato

di cose cui essa si riferisce è possibile. Wittgenstein definisce perciò il senso di una proposizione «la sua concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose». Senza un riferimento a uno stato di cose possibile la proposizione non è falsa ma priva di senso. Per questo motivo «il più delle questioni e proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato (unsinnig)». La verità è invece la concordanza con uno stato di cose non meramente possibile ma sussistente.

Forma logica (Tractatus) [ 29.6]È ciò che ogni immagine (quindi anche ogni proposizione) ha in comune con la

realtà. Essa è quindi la condizione della raffigurabilità del mondo. In quanto condizione essa non è a sua volta raffigurabile. Benché la proposizione non possa rappresentare la forma

CONCETTI

CHIAVEALTA LEGGIBILITÀ

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CClogica, essa può tuttavia “mostrarla”. La forma logica viene “esibita” dal fatto stesso che la proposizione descrive uno stato di cose.

Significato (di una parola) (Ricerche filosofiche) [ 29.7]«Il significato di una parola è il suo uso

nel linguaggio», sicché ciò che le parole di un linguaggio designano non sono tanto gli oggetti quanto «il modo del loro uso». Perciò per comprenderne il significato è necessario saperle usare, cioè far parte di quel gioco linguistico e delle regole che lo attraversano.

Gioco linguistico (Ricerche filosofiche) [ 29.8]Esso consiste nell’insieme delle regole e delle pratiche da cui sono costituiti i

vari linguaggi. La pluralità dei linguaggi implica quindi la pluralità e diversità dei vari giochi linguistici. Tra di essi vi sono rapporti di “parentela” o “somiglianze di famiglia”. Alcuni di questi giochi hanno qualcosa in comune, ma con altri non hanno rapporti. Fra di essi vi è dunque una complessa ragnatela di intrecci e incroci. Poiché parlare è fare un’attività, il linguaggio fa parte di una forma di vita.

Forma di vita (Lebensform) (Ricerche filosofiche) [ 29.8]È costituita da un insieme di pratiche,

correlate l’una all’altra, che includono sia il parlare sia le differenti forme dell’agire. Si tratta generalmente di pratiche abitudinarie, cioè di usi e istituzioni.

Grammatica (Ricerche filosofiche) [ 29.8]La grammatica di un linguaggio regola l’uso o gli usi di un certo termine. Essa perciò ne

determina il posto all’interno delle nostre espressioni linguistiche.

Regola (Ricerche filosofiche) [ 29.9]Determina gli usi del linguaggio. Non è oggetto di scelta ma viene seguita

ciecamente da coloro che parlano e comprendono. Essa ha necessariamente una dimensione “regolare”, cioè ripetuta e standard. Se non c’è ripetizione non c’è regola. Oltre a ciò, la regola ha un’altra fondamentale caratteristica: quella di essere “pubblica”. “Non si può seguire una regola privatim”. Senza un controllo pubblico non sapremmo più distinguere fra “seguire una regola” e “credere di seguire una regola”.

Concordanza (Übereinstimmung) della forma di vita (Ricerche filosofiche) [ 29.9]

Per poter parlare e giocare un gioco linguistico è necessario essere preventivamente d’accordo sulle regole che lo costituiscono, cioè sulle pratiche e alla fine sulla forma di vita che condividiamo. Questa concordanza «non è una concordanza delle opinioni». Gli uomini possono continuare ad essere in disaccordo fra di loro, ma condizione di un disaccordo è aver compreso su che cosa non si è d’accordo. E condizione di questa comprensione è la “concordanza della forma di vita”.

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C29 Antologia di testi685

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C29Antologia di testi

Il problema del soggettoL. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, proposizioni 5.6-5.641

5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

5.61 La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti.Non possiamo dunque dire nella logica: Questo e quest’altro v’è nel mondo, quel-lo no.Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mon-do; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato.Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare.

5.62 Questo pensiero dà la chiave per decidere la questione, in che misura il so-lipsismo sia una verità.Ciò che il solipsismo intende è in tutto corretto; solo, non si può dire, ma mostra sé.Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo.

5.621 Il mondo e la vita son tutt’uno.

5.63 Io sono il mio mondo. (Il microcosmo.)

5.631 Il soggetto che pensa, immagina, non v’è.

Il tema del soggetto appa-re fin dalle note preparatorie al Tractatus, conosciute come Quaderni 1914-1916 e scritte durante il servizio militare presso l’esercito austro-ungarico. Questo tema viene poi riproposto in una serie di proposizioni dell’o-pera maggiore (dalla prop. 5.6 alla prop. 5.641), nelle quali sostanzialmente trovano conferma le riflessioni del 1916. Il soggetto della tradizione metafisica, ovve-

ro il punto di vista che rende possibile la nostra cono-scenza del mondo, non può essere una parte di questo stesso mondo. Quello che noi vediamo come uno dei tanti elementi del mondo non è il soggetto ma il corpo, le membra, il rapporto fra queste e la volontà. Si tratta dell’io psicologico, uno dei tanti fatti del mondo. Ma l’io “filosofico”, o meglio ancora “metafisico”, non può mai essere osservato, è fuori dal nostro campo visivo.

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T83 La critica del linguaggio privato

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Se io scrivessi un libro «Il mondo, come io lo trovai», vi si dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra sottostiano alla mia volontà, e quali no, etc., e questo è un metodo d’isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che, in un senso importante, soggetto non v’è: D’esso soltanto, infatti, non si potrebbe parlare in questo libro. –

5.632 Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo.

5.633 Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico?Tu dici che qui è proprio così come con occhio e campo visivo. Ma l’occhio in realtà non lo vedi.E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.

5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori.Tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti.Tutto ciò che possiamo comunque descrivere potrebbe essere altrimenti.Non v’è un ordine a priori delle cose.

5.64 Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso.

5.641 V’è dunque realmente un senso, nel quale in filosofia si può parlare non psicologicamente dell’Io.L’Io entra nella filosofia perciò che «il mondo è il mio mondo».L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale trat-ta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo.

I limiti del “mondo”, ovvero tutto ciò che è rappresentabile

e raffigurabile, sono costituiti dalla logica e dal linguag-gio («la logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti»). E tali limiti sono costituiti dall’in-sieme delle possibili configurazioni del mondo, da tutto ciò che è pensabile in relazione ad esso. Al di fuori di tali possibilità non ha alcun senso parlare del mondo («ciò che non possiamo pensare, non possiamo pensare», e parimenti non possiamo dirlo). Wittgenstein chiama questo orizzonte delle possibilità “l’Io”. Esso è l’orizzonte del pensabile, del visibile, del dicibile. Impossibile per-ciò considerarlo una delle cose, enti, fatti che si incontra-no nel mondo. In questo senso esso “non v’è” (es gibt nicht, non si dà, non c’è). Più che un ente esso è il limite della visibilità degli enti («il limite del mondo»). Un fe-nomenologo lo avrebbe chiamato l’apparire degli enti.È per questo che il soggetto non appartiene al mondo: al mondo appartengono i corpi, le membra, persino l’a-

nima (in quanto le sue manifestazioni vengono studiate e analizzate dalla psicologia). Di tutto questo si può cer-tamente parlare, perché i fatti (e tutti questi sono fatti) sono raffigurabili. Ma del soggetto («in un senso impor-tante») non si può certamente parlare: «D’esso soltanto, infatti, non si potrebbe parlare in questo libro». Wittgen-stein radicalizza la nozione moderna di soggettività e ne scioglie lo status ambiguo di essere condizione del mon-do e, al tempo stesso, parte di esso. Se il soggetto è il «campo visivo» non può appartenere ai fatti del mondo. «L’occhio in realtà non lo vedi», perché quello che tu vedi è l’occhio-oggetto non l’occhio-soggetto, non l’occhio in quanto visione delle cose del mondo.Soggetto e oggetto finiscono quindi per coincidere: il solipsismo più radicale (secondo cui il mondo è solo il mio mondo) coincide col «realismo puro». Quel “mio” mondo è l’unico mondo di cui si possa parlare. L’io del solipsismo si è contratto, è scomparso ed è rimasta solo la «totalità dei fatti». Ma una volta scomparso il sogget-

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1. Agostino, Confessioni, I, 8: «Quando [gli adulti] nominavano qualche ogget-to, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo,

e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto e dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emozioni che provia-mo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così, udendo spesso le stesse parole ricorrere, al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero i segni, e, avendo inse-gnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà».In queste parole troviamo, così mi sembra, una determinata immagine della na-tura del linguaggio umano. E, precisamente questa: Le parole del linguaggio de-nominano oggetti – le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. In quest’immagine del linguaggio troviamo le radici dell’idea: Ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l’oggetto per il quale la parola sta.

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to, è scomparso qualsiasi ordine, finalità, organizzazio-ne sensata del mondo. Contingenza radicale: tutto ciò che ora appare potrebbe essere totalmente diverso e diventare totalmente altro, non c’è nulla che lo vincoli

alla configurazione attuale: «non v’è un ordine a priori delle cose». L’unico ordine è quello in cui le cose stan-no attualmente, ma non c’è alcun impedimento alla sua sovversione radicale.

INDIVIDUARE INFORMAZIONI1. Che cosa significa che «la logica riempie il mondo»?2. I limiti del linguaggio significano...3. Il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con...4. Come viene definito l’Io filosofico?

SVILUPPARE INTERPRETAZIONI5. A che cosa vuole alludere Wittgenstein con la metafora dell’occhio e del campo visivo?6. Che cosa significa che «nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori»?

RIFLETTERE SUL SIGNIFICATO DEL TESTO E VALUTARLO7. Secondo Wittgenstein, «Tutto ciò che possiamo comunque descrivere potrebbe essere altrimenti»: come valuti questa visione della contingenza radicale delle cose?8. «L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite — non una parte — del mondo.» Spiega in che modo Wittgenstein affronta il problema dell’Io e valuta la sua soluzione.

LAVORIAMO CON IL TESTO

Il linguaggio “primitivo”L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §§ 1-2, 6

La pagina iniziale delle Ri-cerche filosofiche inizia con una citazione in latino (qui tradotta) delle Confessioni di Agostino. In essa viene esposta una sorta di genesi del linguaggio. Wittgen-stein la chiamerà poco oltre «l’insegnamento ostensi-vo»: pronunciando delle parole e, insieme, indicando le cose si finisce per associare i due elementi, in modo

tale da usare quelle parole ogni volta che ci riferiamo a quelle cose. Sembra una spiegazione molto plausibile, ma Wittgenstein mostra subito che c’è qualcosa che non funziona in quella spiegazione. L’esempio celebre del biglietto «su cui stanno i segni: “cinque mele ros-se”» gli servirà per cominciare a mettere in discussio-ne quella concezione.

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Di una differenza fra tipi di parole Agostino non parla. Chi descrive in questo modo l’apprendimento del linguaggio pensa, così credo, anzitutto a sostantivi come «tavolo», «sedia», «pane» e ai nomi di persona, e solo in un secondo tempo ai nomi di certe attività e proprietà; e pensa ai rimanenti tipi di parole come a qualcosa che si accomoderà.Pensa ora a quest’impiego del linguaggio: Mando uno a far la spesa. Gli do un biglietto su cui stanno i segni: «cinque mele rosse». Quello porta il biglietto al fruttivendolo; questi apre il cassetto su cui c’è il segno «mele»; quindi cerca in una tabella la parola «rosso» e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione dei numeri cardinali – supponiamo che la sappia a memoria – fino alla parola «cinque» e ad ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha il colore del campione. – Così, o pressapoco così, si opera con le parole. – «Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola “rosso”, e che cosa deve fare con la parola “cinque”?» – Bene, suppongo che agisca nel modo che ho descritto. A un certo punto le spiegazioni hanno termine. – Ma che cos’è il significato della parola «cinque»? – Qui non si faceva parola di un tale significato; ma solo del modo in cui si usa la parola «cinque».

2. Quel concetto filosofico di significato è al suo posto in una rappresentazione primitiva del modo e della maniera in cui funziona il linguaggio. Ma si può anche dire che sia la rappresentazione di un linguaggio più primitivo del nostro.Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suo aiutante, B. A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistente delle parole: «mattone», «pilastro», «lastra», «trave». A grida queste parole; – B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. – Consi-dera questo come un linguaggio primitivo completo.[...]6. Potremmo immaginare che il linguaggio esemplificato nel § 2 sia tutto quanto il linguaggio di A e B; anzi, tutto il linguaggio di una tribù. I bambini vengono edu-cati a svolgere queste attività, a usare, nello svolgerle, queste parole, e a reagire in questo modo alle parole altrui.Una parte importante dell’addestramento consisterà in ciò: l’insegnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tempo stesso, una parola; ad esempio pronuncia la parola «lastra», e intanto gli mostra un oggetto di questa forma. (Non chiamerò questo procedimento «spiega-zione» o «definizione ostensiva», perché il bambino non può ancora chiedere il nome degli oggetti. Lo chiamerò «insegnamento ostensivo» delle parole. – Dico che esso costituisce una parte importante dell’addestramento, perché così accade presso gli uomini; non perché non si possa immaginare diversamente.) Si può dire che questo insegnamento ostensivo delle parole stabilisce una connessione asso-ciativa tra la parola e la cosa. Ma che cosa vuol dire? Bene, può voler dire diverse cose; ma prima di tutto si pensa che quando il bambino ode una certa parola gli si presenti alla mente l’immagine di una certa cosa. Ma, posto che ciò accada, – è questo lo scopo della parola? – Sì, può esserlo. – Posso immaginare un siffatto im-

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piego delle parole (successioni di suoni). (Pronunciare una parola è come toccare un tasto sul pianoforte delle rappresentazioni.) Ma nel linguaggio descritto nel § 2 lo scopo delle parole non è quello di suscitare rappresentazioni. (Naturalmente si può anche trovare che ciò è utile al conseguimento dello scopo vero e proprio.)Ma se l’insegnamento ostensivo produce quest’effetto, – devo dire che ha per effet-to la comprensione delle parole? Non comprende il grido «Lastra!» chi, udendolo, agisce in questo modo così e così? – Certo, a ciò ha contribuito l’insegnamento ostensivo; però solo in quanto associato a un determinato tipo di istruzione. Con-nesso con un tipo d’istruzione diverso, lo stesso insegnamento ostensivo di questa parola avrebbe avuto come effetto una comprensione del tutto diversa.

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Il linguaggio illustrato da Agostino contiene questa te-

si: «Le parole del linguaggio denominano oggetti – le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni». Si tratta di quella concezione raffigurativa del linguag-gio esposta nel Tractatus: a ogni parola corrisponde un oggetto, a ogni proposizione corrisponde una configu-razione di oggetti, una loro connessione. Wittgenstein lo chiama un «linguaggio primitivo» (e ne dà un altro celebre esempio nella comunicazione fra un muratore e il suo aiutante, nella quale a ogni parola corrisponde un oggetto). Tuttavia successivamente Wittgenstein fa nota-re che quando il muratore pronuncia la parola “lastra” non si limita a indicare al suo aiutante un oggetto ma gli dà anche un’istruzione: egli deve prendere la lastra e porgergliela. Perché all’udire la parola “lastra” l’aiutante gliela porge, invece di distruggerla a martellate? Già qui l’idea che il linguaggio sia solo una descrizione di ogget-ti viene messa in discussione.Ma l’esempio decisivo è quello contenuto nel primo paragrafo. Il fruttivendolo legge i tre segni scritti in un biglietto: “mele”, “rosse”, “cinque”. Secondo la conce-

zione raffigurativa del linguaggio il fruttivendolo cerca fra i cassetti della frutta quello recante la scritta “mele”, fra i campionari di colore la parola “rosso” e, ponen-do che conosca a memoria la successione dei numeri cardinali, conta fino a cinque. Tutto bene fin qui. «Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola “rosso”, e che cosa deve fare con la parola “cinque”?». Egli deve sapere prima che “cinque” è un numero, cioè deve conoscere l’uso della parola cinque, l’uso dei nu-meri, l’uso delle parole indicanti i colori, ecc. Perfino l’insegnamento ostensivo con cui «l’insegnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzio-ne su di essi e pronuncia, al tempo stesso, una parola» presuppone un sapere precedente, un’istruzione pratica precedente: il bambino deve comprendere che l’indica-re con la mano quando si pronuncia una certa parola significa collegare la parola all’oggetto indicato, deve cioè comprendere la pratica dell’ostensione. Decisivo in un linguaggio è perciò quel “sistema di istruzioni” che si apprende vivendo dentro un contesto in cui si pratica quel linguaggio. Non c’è spiegazione, non c’è ostensio-ne, ma “addestramento”.

GUIDA ALLA LETTURA

INDIVIDUARE INFORMAZIONI1. Ritrova e sottolinea nel testo la spiegazione che Wittgenstein dà dell’interpretazione agostiniana del linguaggio.2. Che cosa significa “insegnamento ostensivo” delle parole?

SVILUPPARE INTERPRETAZIONI3. Nel brano è detto che «nel linguaggio descritto nel § 2 lo scopo delle parole non è quello di suscitare

rappresentazioni»: quale scopo hanno allora le parole dell’esempio del § 2?4. Spiega la differenza fra “ostensione” e “addestramento”.

RIFLETTERE SUL SIGNIFICATO DEL TESTO E VALUTARLO5. Spiega sinteticamente con quale intento Wittgenstein fa l’esempio delle «cinque mele rosse».6. Come valuti la spiegazione del nostro modo di apprendere un linguaggio? Ti pare convincente?

LAVORIAMO CON IL TESTO

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256. Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze vissute inte-riori, e che soltanto io sono in grado di comprendere? In che modo

designo le mie sensazioni con parole? – Così. come facciamo abitualmente? – Le parole che esprimono le mie sensazioni sono dunque collegate con le naturali ma-nifestazioni esterne delle mie sensazioni? – In questo caso il mio linguaggio non è ‘privato’. Un altro potrebbe comprenderlo come lo comprendo io. – Ma che dire, se possedessi soltanto la sensazione; e nessuna naturale manifestazione esterna della sensazione? E ora associo semplicemente nomi a sensazioni, e impiego que-sti nomi in una descrizione.

257. «Ma se gli uomini non esternassero i loro dolori (non gemessero, non torces-sero il volto ecc.)? Allora non sarebbe possibile insegnare a un bimbo l’uso delle parole ‘mal di denti’». – Ebbene, supponiamo che il bambino sia un genio e in-venti da sé un nome per questa sensazione! – Ma, naturalmente, con questa parola non riuscirebbe a farsi capire. – Dunque comprende quel nome, ma non è in grado di spiegarne il significato a nessuno? – Ma allora che cosa vuol dire che ‘ha dato un nome al suo dolore’? Come ha fatto a dare un nome al dolore?! E, qualunque cosa abbia fatto, qual era il suo scopo? – Quando si dice «Ha dato un nome a una sensazione», si dimentica che molte cose devono già essere pronte nel linguaggio, perché il puro denominare abbia un senso. E quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore, la grammatica della parola «dolore» è già precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola.

258. Immaginiamo questo caso: mi propongo di tenere un diario in cui registrare il ricorrere di una determinata sensazione. A tal fine associo la sensazione alla lettera «S» e tutti i giorni in cui provo la sensazione scrivo questo segno in un calendario. – Prima di tutto voglio osservare che non è possibile formulare una definizione di un segno siffatto. – Però posso darla a me stesso, come una specie di definizione ostensiva! – Come? Posso indicare la sensazione? – Non nel senso or-dinario. Ma io parlo, o scrivo il segno, e così facendo concentro la mia attenzione sulla sensazione – come se la additassi interiormente. – Ma che scopo ha questa cerimonia? Perché sembra trattarsi solo di una cerimonia! Però una definizione serve a fissare il significato di un segno. Questo avviene, appunto, mediante una

La critica del linguaggio privatoL. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §§ 256-258, Einaudi, Torino 1974

Ludwig Wittgenstein (1889-1951) è uno dei più noti e importanti filosofi del lin-guaggio. In questo brano, tratto dall’opera incompiuta intitolata Ricerche filosofiche, Wittgenstein spiega che se il linguaggio è un sistema di regole, esso implica un uso standard di esse, cioè un impiego regolare, non-ché un attenersi costantemente a quell’uso. Ma quel controllo non può essere eseguito dal singolo sogget-

to. Un linguaggio privato, creato e usato da un unico individuo, mancherebbe di controllo, perché l’unico giudice rimarrebbe quel singolo. In esso coincidereb-bero “giudice” e “giudicato” e la sua convinzione di «seguire le proprie regole» diventerebbe l’unico vero uso corretto di esse. Si dissolverebbe in questo caso ogni distinzione tra «seguire una regola» e «credere di seguire una regola».

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concentrazione dell’attenzione; in questo modo, infatti, m’imprimo nella mente la connessione tra il segno e la sensazione. – Ma «Me la imprimo in mente» può soltanto voler dire: questo procedimento fa sì che in futuro io ricordi correttamen-te questa connessione. Però nel nostro caso non ho alcun criterio di correttezza. Qui si vorrebbe dire: corretto è ciò che mi apparirà sempre tale. E questo vuol dire soltanto che qui non si può parlare di ‘corretto’.

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Un individuo può certamente dare proprie denominazioni

alle sue sensazioni, ma tali denominazioni possono en-trare a far parte di un linguaggio a una condizione: che quelle sensazioni siano state espresse pubblicamente. «In questo caso il mio linguaggio non è ‘privato’. Un al-tro potrebbe comprenderlo come lo comprendo io. – Ma che dire, se possedessi soltanto la sensazione; e nessu-na naturale manifestazione esterna della sensazione?» Wittgenstein fa a questo punto l’ipotesi di un linguag-gio privato, in cui l’individuo associa certi segni o certe parole a sensazioni che conosce solo lui. Ma anche qui, per farsi capire da altri dovrebbe usare espressioni già contenute nel linguaggio pubblico. Se un bambino vuo-le esprimere il suo mal di denti deve usare parole di cui conosce il “posto” e la “grammatica”: «quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore, la grammatica della parola “dolore” è già precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola».L’ultimo esperimento mentale wittgensteiniano per ve-

rificare la possibilità di quel linguaggio privato (fin qui esclusa) è quella, radicale, di un diario privato in cui il singolo riporta un certo segno quando prova una certa sensazione. È un linguaggio che ovviamente comprende solo lui. Il problema che Wittgenstein solleva è in questo caso quello della memoria: io «m’imprimo nella mente la connessione tra il segno e la sensazione». Ma come faccio a essere certo di ricordare correttamente quella connessione? Io sono l’unico giudice. Sono proprio cer-to che adesso sto provando la stessa sensazione prova-ta in precedenza e per la quale sto usando il medesimo segno? Quando potrò dire di aver usato correttamente quella connessione? Essendo l’unico testimone di quella sensazione e l’unico giudice di quella connessione, sarà in generale “corretto” tutto ciò che io riterrò “corretto”. In assenza di un criterio pubblico di correttezza svanisce la stessa nozione di correttezza. Se parlare un linguaggio significa seguire delle regole, un linguaggio radicalmen-te privato, in quanto privo del controllo sulla correttezza delle sue regole, è per definizione impossibile.

GUIDA ALLA LETTURA

INDIVIDUARE INFORMAZIONI1. Che cosa succederebbe se un bambino geniale inventasse da sé un nome per una sua sensazione?2. Quale esperimento mentale viene proposto nel § 258?

SVILUPPARE INTERPRETAZIONI3. Nel testo si dice che «molte cose devono già essere pronte nel linguaggio, perché il puro denominare abbia un senso». Che cosa significa ciò?

4. Perché nel caso dell’esempio del § 258 diventa impossibile parlare di “corretto”?

RIFLETTERE SUL SIGNIFICATO DEL TESTO E VALUTARLO5. In sintesi, come si fa ad esprimere un’esperienza interiore o una sensazione, secondo Wittgenstein?6. Quale criterio di correttezza emerge dalle affermazioni contenute in questo brano?

LAVORIAMO CON IL TESTO