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Gabriele D’Annunzio 1. La pioggia nel pineto 2. Le stirpi canore 3. Meriggio 4. L’onda 5. Stabat nuda Aestas 6. Versilia 7. Madrigali dell’estate 8. Pastori 9. Notizie sull’autore Alcyone 1903 La raccolta poetica Alcyone si presenta come un viaggio lungo la costa tirrenica toscana, compiuto dalla fine di giugno a settembre. Protagonisti sono il poeta, che disegna se stesso come un uomo superiore, in rapporto arcano e quasi divino con la natura primordiale; il paesaggio mediterraneo fuori dal tempo, purificato da ogni traccia di modernità; alcune figure femminili simili a creature della mitologia antica, che emanano dalla natura stessa dei luoghi; l’estate, stagione della forza dispiegata della natura, stagione che invita allo sbrigliamento dei sensi e alla piena fusione dell’io con il cosmo. Nello stesso tempo, però, come è tipico della poetica decadente, Alcyone dipana il suo racconto lungo una curva che compie una parabola: l’esperienza straordinaria, inattingibile dall’uomo comune, si esalta in un crescendo di eccitazione che raggiunge l’ acme nel pieno dell’estate, per declinare poi insieme alla stagione verso la meditativa malinconia dell’autunno. La pioggia nel pineto Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti,

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Gabriele D’Annunzio

1. La pioggia nel pineto2. Le stirpi canore3. Meriggio4. L’onda5. Stabat nuda Aestas6. Versilia7. Madrigali dell’estate8. Pastori9. Notizie sull’autore

Alcyone

1903

La raccolta poetica Alcyone si presenta come un viaggio lungo la costa tirrenica toscana, compiuto dalla fine di giugno a settembre. Protagonisti sono il poeta, che disegna se stesso come un uomo superiore, in rapporto arcano e quasi divino con la natura primordiale; il paesaggio mediterraneo fuori dal tempo, purificato da ogni traccia di modernità; alcune figure femminili simili a creature della mitologia antica, che emanano dalla natura stessa dei luoghi; l’estate, stagione della forza dispiegata della natura, stagione che invita allo sbrigliamento dei sensi e alla piena fusione dell’io con il cosmo.

Nello stesso tempo, però, come è tipico della poetica decadente, Alcyone dipana il suo racconto lungo una curva che compie una parabola: l’esperienza straordinaria, inattingibile dall’uomo comune, si esalta in un crescendo di eccitazione che raggiunge l’ acme nel pieno dell’estate, per declinare poi insieme alla stagione verso la meditativa malinconia dell’autunno.

La pioggia nel pineto

Taci. Su le sogliedel bosco non odoparole che diciumane; ma odoparole più nuoveche parlano gocciole e foglielontane.Ascolta. Piovedalle nuvole sparse.Piove su le tamericisalmastre ed arse,piove su i piniscagliosi ed irti,piove su i mirtidivini,su le ginestre fulgentidi fiori accolti,su i ginepri foltidi coccole aulenti,piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre mani

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ignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l'anima schiudenovella,su la favola bellache ierit'illuse, che oggi m'illude,o Ermione.

Odi? La pioggia cadesu la solitariaverduracon un crepitío che durae varia nell'ariasecondo le frondepiù rade, men rade.Ascolta. Rispondeal pianto il cantodelle cicaleche il pianto australenon impaura,né il ciel cinerino.E il pinoha un suono, e il mirtoaltro suono, e il gineproaltro ancóra, stromentidiversisotto innumerevoli dita.E immersinoi siam nello spirtosilvestre,d'arborea vita viventi;e il tuo volto ebroè molle di pioggiacome una foglia,e le tue chiomeauliscono comele chiare ginestre,o creatura terrestreche hai nomeErmione.

Ascolta, ascolta. L'accordodelle aeree cicalea poco a pocopiù sordosi fa sotto il piantoche cresce;ma un canto vi si mescepiù rocoche di laggiù sale,dall'umida ombra remota.Più sordo e più fiocos'allenta, si spegne.Sola una nota

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ancor trema, si spegne,risorge, trema, si spegne.Non s'ode voce del mare.Or s'ode su tutta la frondacrosciarel'argentea pioggiache monda,il croscio che variasecondo la frondapiù folta, men folta.Ascolta.La figlia dell'ariaè muta; ma la figliadel limo lontana,la rana,canta nell'ombra più fonda,chi sa dove, chi sa dove!E piove su le tue ciglia,Ermione.

Piove su le tue ciglia neresicché par tu piangama di piacere; non biancama quasi fatta virente,par da scorza tu esca.E tutta la vita è in noi frescaaulente,il cuor nel petto è come pescaintatta,tra le pàlpebre gli occhison come polle tra l'erbe,i denti negli alvèolison come mandorle acerbe.E andiam di fratta in fratta,or congiunti or disciolti(e il verde vigor rudeci allaccia i mallèolic'intrica i ginocchi)chi sa dove, chi sa dove!E piove su i nostri vóltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l'anima schiudenovella,su la favola bellache ierim'illuse, che oggi t'illude,o Ermione.

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Le stirpi canore

I miei carmi son prole delle foreste, altri dell'onde, altri delle arene, altri del Sole, altri del vento Argeste.1 Le mie parole sono profonde come le radici terrene,altre serene come i firmamenti , fervide come le vene degli adolescenti, ispide come i dumi,2 confuse come i fumi confusi, nette come i cristalli del monte, tremule come le fronde del pioppo, tumide3 come le narici dei cavallia galoppo, labili come i profumi diffusi, vergini come i calici appena schiusi,notturne come le rugiade dei cieli,funebri come gli asfodeli dell'Ade,pieghevoli come i salici dello stagno, tenui come i teli che fra due steli tesse il ragno.

1 Argeste: vento impetuoso di ponente, apportatore del bel tempo.2 dumi: pruni.3 tumide: gonfie.

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Meriggio

A mezzo il giornosul Mare etruscopallido verdicante1

come il dissepoltobronzo dagli ipogei2, gravala bonaccia. Non bavadi vento intornoalita. Non trema cannasu la solitariaspiaggia aspra di rusco3,di ginepri arsi. Non suonavoce, se ascolto.Riga di vele in panna4

verso Livornobiancica5. Pel chiarosilenzio il Capo Corvol'isola del Faroscorgo; e più lontane,forme d'aria nell'aria,l'isole del tuo sdegno,o padre Dante,la Capraia e la Gorgona6.Marmorea coronadi minaccevoli punte,le grandi Alpi Apuaneregnano il regno amaro,dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salsostagno. Del marin colore,per mezzo alle capanne,per entro alle retiche pendono dalla crocedegli staggi7, si tace.Come il bronzo sepolcralepallida verdica in pacequella che sorridea8.Quasi letèa9,obliviosa, eguale,segno non mostradi corrente, non rugad'aura.La fugadelle due rivesi chiude come in un cerchiodi canne, che circonscrivel'oblío silente; e le canne

1 Di colore tendente al verde, vedognolo.2 Tombe costruite come camere, scavate nel sottosuolo. 3 Cespuglio spinoso, pungitopo.4 in panna: ferme.5 Biancheggia.6 Alla fine del tragico racconto della morte del conte Ugolino e dei suoi figli, Dante lancia una tremenda invettiva contro la crudeltà dei pisani e invoca le isole Capraia e Gorgona perché si movano dalla loro sede e facciano una barriera alla foce dell’Arno e sommergano così l’intera città di Pisa (Inf. XXXIII,79-90) 7 Pertiche a cui i pescatori appendono le reti ad asciugare.8 La foce, che prima mormorava mossa dal vento (sorridea), ora sta immobile (in pace) nel suo verde pallido di acqua stagnante.9 Come il Lete, il fiume mitologico dell’aldilà che cancella i ricordi terreni

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non han susurri. Più foschii boschi di San Rossorefan di sé cupa chiostra;ma i più lontani,verso il Gombo, verso il Serchio,son quasi azzurri.Dormono i Monti Pisanicoperti da inerticumuli di vapore.

Bonaccia, calura,per ovunque silenzio.L'Estate si maturasul mio capo come un pomoche promesso mi sia,che cogliere io debbacon la mia mano,che suggere io debbacon le mie labbra solo.Perduta è ogni tracciadell'uomo. Voce non suona,se ascolto. Ogni duoloumano m'abbandona.Non ho più nome.E sento che il mio vóltos'indora dell'oromeridiano,e che la mia biondabarba rilucecome la paglia marina;sento che il lido rigatocon sì delicatolavoro dell'ondae dal vento è comeil mio palato, è comeil cavo della mia manoove il tatto s'affina.

E la mia forza supinasi stampa nell'arena,diffondesi nel mare;e il fiume è la mia vena,il monte è la mia fronte,la selva è la mia pube,la nube è il mio sudore.E io sono nel fioredella stiancia, nella scagliadella pina, nella baccadel ginepro: io son nel fuco,nella paglia marina,in ogni cosa esigua,in ogni cosa immane,nella sabbia contigua,nelle vette lontane.Ardo, riluco.E non ho più nome.E l'alpi e l'isole e i golfi

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e i capi e i fari e i boschie le foci ch'io nomainon han più l'usato nomeche suona in labbra umane.Non ho più nome né sortetra gli uomini; ma il mio nomeè Meriggio. In tutto io vivotacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

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L’onda

Nella cala tranquilla scintilla, intesto di scaglia come l'antica lorica1 del catafratto2, il Mare. Sembra trascolorare. S'argenta? s'oscura? A un tratto come colpo dismaglia l'arme, la forza del vento l'intacca. Non dura.Nasce l'onda fiacca, sùbito s'ammorza. Il vento rinforza. Altra onda nasce si perde, come agnello che pasce pel verde:un fiocco di spuma che balza! Ma il vento riviene, rincalza, ridonda. Altra onda s'alza, nel suo nascimento più lene3 che ventre virginale! Palpita, salesi gonfia, s'incurva, s'alluma4, procede.Il dorso ampio splende come cristallo; la cima leggiera s'arruffacome criniera nivea di cavallo. Il vento la scavezza.L'onda si spezza, precipita nel cavo del solco sonora; spumeggia, biancheggia, s'infiora, odora,travolge la cuora,trae l'alga e l'ulva5; s'allunga, rotola, galoppa; intoppain altra cui 'l vento

1 Corazza costituita di lamine metalliche sovrapposte.2 Guerriero coperto dall’armatura.3 Lieve, morbida.4 Si illumina, brilla al sole.5 cuora... ulva: vegetazione marina galleggiante.

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diè tempra diversa; l'avversa,l'assalta, la sormonta, vi si mesce, s'accresce. Di spruzzi, di sprazzi, di fiocchi, d'iridiferve nella risacca;par che di crisopazzi scintilli e di berilli1

viridi a sacca,O sua favella! Sciacqua, sciaborda, scroscia, schiocca, schiantaromba, ride, canta, accorda, discorda, tutte accoglie e fonde le dissonanze acute nelle sue volute profonde;libera e bella, numerosa e folle, possente e molle, creatura viva che gode del suo mistero fugace. E per la riva l'ode la sua sorella scalza dal passo leggeroe dalle gambe lisce, Aretusa2 rapace che rapisce le frutta ond'ha colmo suo grembo. Sùbito le balza il cor, le raggia il viso d'oro.Lascia ella il lembo,s'inclina al richiamo canoro; e la selvaggia rapina,l'acerbo suo tesoro oblia nella melode. E anch'ella si gode come l'onda, l'asciutta fura, quasi che tutta la freschezza marina a nembo entro le giunga!

Musa, cantai la lode della mia Strofe Lunga.

1 crisopazzi... berilli: minerali preziosi. I berilli verdi (viridi) sono gli smeraldi.2 Nella mitologia, Aretusa era una ninfa trasformata in fonte; per questo è detta sorella dell’onda. Qui è raffigurata come una ladra (fura) di frutta, che s’incanta ad ascoltare la melodia dell’onda.

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Stabat nuda Aestas

Primamente intravidi il suo piè strettoscorrere su per gli aghi arsi dei piniove estuava1 l'aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa.2

Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosala résina gemette giù pe' fusti.Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorsi l'ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell'argento pallàdio3 trasvolare senza suono. Più lungi, nella stoppia, l'allodola balzò dal solco raso,la chiamò, la chiamò per nome in cielo.Allora anch'io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse. Come in bronzea mèsse nel falasco4 entrò, che richiudeasi strepitoso.Più lungi, verso il lido, tra la paglia marina il piede le si torse in fallo.Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. Il ponente schiumò ne' suoi capegli. Immensa apparve, immensa nudità.

1 estuava: ribolliva (latinismo).2 quasi… effusa: simile a una bianca fiamma che si riversasse tutt’intorno.3 nell’argento palladio: tra le fronte argentate degli ulivi, sacri a Pallade.4 falasco: erba palustre, dalle lunghe foglie.

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Versilia

Non temere, o uomo dagli occhi glauchi!1 Erompo dalla corteccia fragile io ninfa boschereccia Versilia, perché tu mi tocchi.

Tu mondi la persica2 dolce e della sua polpa ti godi. Passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce.

Mi giunse alle nari; e la mia lingua come tenera foglia, bagnata di sùbita voglia,contra i denti forti languìa.3

Sapevi tu tanto sagacinari, o uomo, in legno sì grezzo? Inconsapevole eri, e del rezzo4 gioivi e de' frutti spiccaci5

e dell'ombre cui6 fànnoti gli aghi del pino, seguendo il piacere de' vènti, su gli occhi leggiere come ombre di voli su laghi.

Io ti spiava dal mio fusto scaglioso; ma tu non sentivi, o uomo, battere i miei vivicigli presso il tuo collo adusto.7

Talora la scaglia del pino è come una pàlpebra rude che subitamente si schiude nell'ombra, a uno sguardo divino.

Io sono divina; e tu forse mi piaci. Non piacquemi l'irto Satiro sul letto di mirto e il panisco8 in van mi rincorse.

Ma tu forse mi piaci. Aulisce9 d'acqua marina la tua pelle che il Sol feceti fosca.10 Snelle hai gambe come bronzo lisce.

Offrimi il canestro di giunco

1 glauchi: celesti.2 mondi la persica: sbucci la pesca.3 languìa: languiva, si struggeva di desiderio.4 rezzo: ombra.5 frutti spiccaci: le pesche ben mature, la cui polpa si stacca facilmente dal nocciolo.6 cui: che.7 adusto: bruciato, abbronzato dal sole.8 Panisco: piccolo figlio di Pan, divinità agreste.9 Aulisce: odora.10 feceti fosca: ti fece scura.

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ricolmo dì persiche bionde! Poiché non mi giovano monde, riponi il tuo coltello adunco.

Io so come si morda il pomo senza perdere stilla di suco. Poi co' miei labbri umidi induco il miele nel cuore dell'uomo.

Riponi il ferro acre che attosca ogni sapore. Tu non pregi i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi,i peri, i fichi in terra tosca

son di dolcezza carchi, e i meli, gli albricocchi, i nespoli ancòra!E tu li spogli in su l’auroravelati dei notturni geli.

Da tempo in cuor mio non è gaudiodi tal copia. Ahimè, sono scarsii doni.1 E tu vedi curvarsi i rami del susino claudio!2

Ma io non ho se non la tetra pigna dal suggellato seme. E a romper la scaglia che il preme non giovami pur una pietra.

O uomo occhicèrulo, m'odi! Lascia che alfine io mi satolli di queste tue persiche molli che hai nel cesto intesto di biodi.3

Ti priego! La pigna malvagia mi vale sol per iscagliarla contro la ghiandaia che ciarla rauca. Non s'inghiotte la ragia.4

Ma se la mastichi negli ozii,quantunque ha sapore amarogno, allor che il tuo cuore nel sogno si bea lungi ai vili negozii,5

certo ti piace, o uomo; ed io te ne darò della più ricca. Tu la persica che si spicca, e ne cola il suco giulìo,6

dammi, ch'io mi muoio di voglia e da tempo non ebbi a provarne. Non temere! Io sono di carne,

1 Alla ninfa del pino la sua pianta offre scarsi frutti in dono.2 susino claudio: varietà pregiata di susino.3 intesto di biodi: intrecciato di giunchi.4 ragia: resina.5 si bea…negozii: è felice lontano dalle fastidiose occupazioni quotidiane.6 giulìo: giulivo, che dà gioia al palato.

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se ben fresca come una foglia.

Toccami. Non vello, non ugne ricurve han le tue mani come quelle ch'io so. Guarda: ho le chiome violette come le prugne.

Guarda: ho i denti eguali, più bianchi che appena sbucciati pinocchi.1 Non temere, o uomo dagli occhi glauchi! Rido se tu m'abbranchi."

Abbrancami come il bicorne villoso. La frasca ci copra,i mirti sien letto, di sopra ci pendano l'albe viorne.2

Ma come, Occhiazzurro, sei cauto! Forse amico sei di Diana?3 Ora4 scende da Pietrapana5 il lesto Settembre co'l flauto,

se cruenta nel corniolo rosseggi la cornia afra e lazza.6

Odo tra il gridio della gazza il richiamo del cavriuolo.

Sei tu cacciatore? Sei destroad arco, esperto a cerbottana? Ora scende da Pietrapana Settembre. Tu dammi il canestro.

Eh, veduto n'ho del pél baio7

verso il Serchio correre il bosco! Tu dammi il canestro. Conosco la pesta se ben non abbaio.

Accomanda il nervo alla cocca.8

Ne avrai della preda, s'io t'amo! Imito qualunque richiamo con un filo d'erba alla bocca.'

1 pinocchi: pinoli.2 albe viorne: bianche vitalbe, piante rampicanti.3 Diana è la dea casta del pantheon greco4 E’ la fine di agosto e Settembre, raffigurato come un suonatore di flauto, si avvicina.5 Pietrapana: il monte Pania, nelle Alpi Apuane.6 Il rosseggiare della bacca aspra e allappante del corniolo significa che settembre è arrivato.7 «Ho visto molta selvaggina dal pelo fulvo, come caprioli e cervi», dice la ninfa, sperando di ottenere le pesche in cambio dell’informazione di caccia.8 Accomoda…cocca: adatta la corda dell’arco, fatta col nervo di animale, alla cocca della freccia; preparati a scoccare la freccia.

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Madrigali dell’estate

I. Implorazione

Estate, Estate mia, non declinare!Fa che prima nel petto il cor mi scoppicome pomo granato1 a troppo ardore.

Estate, Estate, indugia a maturarei grappoli dei tralci su per gli oppi2.Fa che il colchico dia più tardo il fiore

Forte comprimi sul tuo sen rubesto3

il fin4 Settembre, che non sia sì lesto.

Sòffoca, Estate, fra le tue mammelleil fabro di canestre e di tinelle5.

II. La sabbia del tempo

Come scorrea la calda sabbia lieveper entro il cavo della mano in ozioil cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assaleper l'appressar dell'umido equinozioche offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la manoera, clessidra il cor mio palpitante,l'ombra crescente di ogni stelo vanoquasi ombra d'ago in tacito quadrante.

III. L’orma

Sol calando, lungh'essa la marinagiunsi alla pigra foce del Motronee mi scalzai per trapassare a guado.

Da stuol migrante un suono di chiarina6

venía per l'aria, e il mar tenea bordone.Nitrí di fra lo sparto un caval brado.

Ristetti. Strana era nel limo un'orma.Però dall'alpe già scendeva l'ombra.

1 pomo granato: melagrana.2 Oppio è nome regionale dato all’acero campestre, usato anche come sostegno della vite.3 Gagliardo, impetuoso (affine a “robusto”). La parola è dantesca.4 Fine, gentile, elegante. La parola “fin” con questo significato è molto usata nella lirica provenzale e italiana del ‘200.5 Settembre, mese della vendemmia.6 Dallo stormo degli uccelli migratori giunge un suono acuto, come di antica tromba (chiarina).

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IV. All’alba

All'alba ritrovai l'orma sul posto,selvatica qual pesta di cerbiatto;ma v'era il segno delle cinque dita.

Era il pollice alquanto più discostodall'altre dita e il mignolo ritrattocome ugnello1 di gàzzera marina.

La foce ingombra di tritume negroodorava di sale e di ginepro.

Seguitai l'orma esigua, come braccoche tracci e fiuti il baio capriuolo.Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.

Livido si fuggì per folto il biacco2.Si levarono due tre quattro a volomigliarini3 già tinti di gialliccio.

Vidi un che bianco; e un velo era dell'alba.Per guatar l'alba dismarrii la traccia4.

V. A mezzodì

A mezzodì scopersi tra le cannedel Motrone argiglioso l'aspra ninfanericiglia, sorella di Siringa.

L'ebbi su’ miei ginocchi di silvano5;e nella sua saliva amarulentaassaporai l'orígano e la menta.

Per entro al rombo della nostra ardenza6

udimmo crepitar sopra le cannepioggia d'agosto calda come sangue.

Fremere udimmo nelle arsicce cretele mille bocche della nostra sete.

VI. In sul vespero

In sul vespero, scendo alla radura.Prendo col laccio la puledra bradache ancor tra i denti ha schiuma di pastura.

1 Unghia.2 Serpente lungo fino a due metri, solitamente nero e dalla pelle lucente, frequente nella penisola italiana.3 Il migliarino è un uccello della famiglia dei fringuelli che vive tra i canneti degli stagni. In estate il maschio ha la testa e la gola nere, che si schiariscono nella stagione fredda.4 La scena richiama nel lessico quella dantesca dell’apparizione della nave angelica sulla spiaggia del Purgatorio.5 silvano: uomo dei boschi.6 Ardore (amoroso).

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Tanaglio il dorso nudo, alle difese1;e per le ascelle afferro la naiàda2,la sollevo, la pianto sul garrese3.

Schizzan di sotto all'ugne nel galoppogli aghi i rami le pigne le cortecce.Di là dai fossi, ecco il triforme gropposu per le vampe delle fulve secce4!

VII. L’incanto circeo

Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro,bonaccia senza vele e senza nubidolce venata come le tue tempie.

Assai lungi, di là dall'Argentaro,assai lungi le rupi e le paludidi Circe, dell'iddía dalle molt'erbe5.

E c'incantò con una stilla d'erbetutto il Tirreno, come un suo lebete!6

VIII. Il vento scrive

Su la docile sabbia il vento scrivecon le penne dell'ala; e in sua favellaparlano i segni per le bianche rive.

Ma, quando il sol declina, d'ogni notaombra lene si crea, d'ogni ondicella,quasi di ciglia su soave gota.

E par che nell'immenso arido visodella pioggia s'immilli il tuo sorriso.

IX. Le lampade marine

Lucono le meduse come stanchelampade sul cammin della Sirenasparso d'ulve e di pallide radici.

Bonaccia spira su le rive bianche

1 Il protagonista afferra forte il dorso nudo della ninfa nericiglia, già conosciuta nel madrigale precedente, la quale tenta di difendersi (alle difese).2 naiàda: variazione danunziana di “nàiade”, ninfa delle fonti e dei corsi d’acqua.3 Il garrese è la parte più alta della groppa del cavallo.4 secce: terreni coperti di stoppie.5 Circe è la dea nota dall’Odissea come esperta di magie e conoscitrice di erbe capaci di trasformare gli uomini in animali. Il promontorio Circeo, orlato di paludi, è situato a circa 70 chilometri a sud di Roma.6 Il lèbete è un vaso di forma allungata, usato nell’antichità classica per contenere liquidi. Qui, tutto il mar Tirreno è il recipiente che contiene la goccia magica che incanta il poeta e la sua ninfa.

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ove il nascente plenilunio appenasegna l'ombra alle amare tamerici.

Sugger di labbra fievole fa l'acquach'empie l'orma del piè tuo delicata.

X. Nella belletta

Nella belletta i giunchi hanno l'odoredelle persiche mézze1 e delle rosepasse, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiorelutulento2 che il sol d'agosto cuoce,con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m'appresso.Le bolle d'aria salgono in silenzio.

XI. L’uva greca

Or laggiù, nelle vigne dell'Acaia3,l'uva simile ai ricci di Giacinto4

si cuoce; e già comincia a esser vaia5.

Si cuoce al sole, e detta è passolina,anche laggiù su l'istmo, anche a Corinto,e nella bianca di colombe Egina.

In Onchesto6 il mio grappolo era azzurrocome forca di rondine che vola.All'ombra della tomba di Nettunol'assaporai, guardando l'Elicona.

1 Molli, ormai troppo mature.2 Fangoso.3 L’Acaia è la regione di Atene o, più in generale, l’intera Grecia classica. L’ultimo dei Madrigali dell’estate, con il tema dell’uva richiama l’approssimarsi della fine dell’estate e, con il nominare molti luoghi greci, vuole affermare che la vera patria del protagonista è l’Ellade.4 Nella mitologia greca, giovane spartano amato da Apollo, che lo uccise involontariamente con un disco durante una gara. Col suo sangue il dio creò il fiore che porta il nome del giovinetto.5 Scura, tendente al nero. Espressione toscana, usata per il colore di certi frutti, come le prugne o l’uva.6 Corinto, Egina, Onchesto sono città dell’antica Grecia. Corinto è la famosa città portuale che sorge sull’omonimo istmo; Egina è un’isola dell’Egeo; Onchesto è nominata nell’Iliade come città «sacra, recinto nobile di Poseidone» (Il.2,506)

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Settembre

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.Ora in terra d’Abruzzi i miei pastorilascian gli stazzi1 e vanno verso il mare:scendono all’Adriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor d’acqua natìarimanga ne’ cuori esuli a conforto,che lungo illuda2 la lor sete in via.Rinnovato hanno verga d’avellano.3

E vanno pel tratturo4 antico al piano,quasi per un erbal fiume5 silente,su le vestigia degli antichi padri.O voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso6 il litoral camminala greggia. Senza mutamento è l’aria.Il sole imbionda sì la viva lana7

che quasi dalla sabbia non divaria.Isciaquìo,8 calpestio, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

1 Recinti per i greggi, all’aperto, nei pascoli d’alta quota.2 Faccia dimenticare.3 verga d’avellano: bastone di nocciòlo.4 Sentiero di montagna adatto al percorso di un gregge.5 erbal fiume: fiume fatto d’erba.6 lungh’esso: rafforzativo di lungo, con valore di preposizione (voce arcaica).7 viva lana: ovviamente, i dorsi delle pecore.8 Rumore delle onde sulla riva del mare.

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Gabriele D'Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera, Brescia 1938) Debuttò giovanissimo con la raccolta di versi Primo vere (1879) cui seguì nel 1882 Canto novo, nel quale è evidente l’imitazione di Carducci, temperata da una già personale vena sensuale e naturalistica. A Roma dove iniziò (ma non concluse) gli studi alla facoltà di lettere. D’Annunzio visse all’insegna della mondanità e dell’estetismo sempre alla ricerca di nuove sensazioni in nome di un compiaciuto erotismo al quale sarebbe rimasto fedele sino al la fine con ossessive varianti. Dal decadentismo europeo assimilava, intanto, ideali di sensibilità e di raffinatezza e il gusto del tecnicismo formale: nacquero così accanto ad alcune raccolte di versi, romanzi come Il piacere (1889), Giovanni Episcopo (1891) e L'innocente (1892). In questi ultimi è avvertibile la lezione di Tolstoj e Dostoevskij, ma ridotta da studio del profondo a languida ostentazione del morboso. Dalla stessa vena decadentistica nacque, in poesia, il Poema paradisiaco (1893), che anticipa in modo notevole, soprattutto dal punto di vista della versificazione, modi che saranno tipici della poesia crepuscolare. Nel periodo immediatamente successivo, D'Annunzio mostrò di voler colmare un vuoto morale, di cui egli stesso avvertiva il rischio, con il mito del «superuomo» desunto da Nietzsche; ma alla «volontà di potenza» teorizzata dal filosofo tedesco, nel quadro di una distruzione della morale comune e di una rifondazione di essa, D’Annunzio sostituì ideali estetizzanti, destinati a comporre l’abbagliante mosaico di una «vita inimitabile». Appartengono a questo periodo i romanzi Il trionfo della morte (1894), Le vergini delle rocce (1895) e Il fuoco (1900) e i drammi La città morta (1899) e La Gioconda (1899) questi ultimi scritti durante la relazione di D’Annunzio con la più grande attrice del tempo, Eleonora Duse.Ritiratosi nella villa La Capponcina, a Settignano, il poeta lasciò sedimentare l’onda contraddittoria delle sue ambizioni e compose alcuni dei suoi capolavori: i primi tre libri (Maia, Elettra e Alcyone) delle Laudi del cielo, della terra e degli eroi, pubblicati nel 1903; le tragedie Francesca da Rimini (1902), La figlia di Jorio (1902), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908), Fedra (1909) e il romanzo Forse che sì, forse che no (1910). I creditori gli sequestrano la villa: D’Annunzio sdegnato, riparò «in volontario esilio», in Francia, dove scrisse, tra l’altro, in un prezioso francese, il dramma Le martyre de Saint Sébastien (1911), musicato da C. Debussy, e il quarto libro delle Laudi, Merope (1912), che raccoglie le Canzoni delle gesta d’oltremare, celebranti la conquista della Libia. Al mito del superuomo tende ora a sostituirsi, o perlomeno ad affiancarsi, il mito della supernazione, chiamata dal destino all'impero: transfert in cui ben si rispecchia una borghesia di recente formazione, ma già bisognosa di evasioni e di alibi.Tornato in Italia allo scoppio della grande guerra, D'Annunzio ebbe un ruolo di non poco conto nella mobilitazione di una parte dell’opinione pubblica a favore dell’intervento. Partecipò, poi, alla guerra con alcune imprese di grande effetto spettacolare, la «beffa di Buccari» (10 febbraio 1918) e il volo su Vienna (9 agosto 1918), con il lancio di volantini tricolori sulla città. Ferito a un occhio scrisse il Notturno un'opera in prosa che caratterizza un momento di ripiegamento su se stesso e contiene alcune delle sue pagine più perfette e vibranti.Dopo la guerra fu l’ideatore e il comandante della marcia da Ronchi a Fiume; occupò questa città dal 1919 al 1921 con un pugno di volontari proclamandovi una sua reggenza. Fu sloggiato dalle truppe italiane. Ritiratosi a Gardone, in una villa da lui chiamata «Vittoriale degli italiani», guardò con favore al fascismo. Morì dopo un lungo periodo di splendido ma in fondo patetico isolamento, continuando a comporre opere per lo più rievocative e autobiografiche (Il venturiero senza ventura, 1924; Il compagno dagli occhi senza cigli, 1928, ecc.).

(dalla Nuova Enciclopedia della Letteratura Garzanti, 1989)