Alcune Note Di Prassi Esecutiva - Bartolucci

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Alcune note di prassi esecutiva RELAZIONE DEL MAESTRO MONS. DOMENICO BARTOLUCCI ALLA GIORNATA DI STUDI TENUTASI A PALESTRINA IL 20 OTTOBRE 2002 La vera interpretazione di una composizione musicale è certamente quella propria dell’autore che l’ha composta, che poi lui stesso ha reso viva eseguendola, dirigendola, suonandola o cantandola. La cosiddetta partitura altro non è che il susseguirsi di segni e note scritti sul pentagramma a fissare l’idea, il pensiero dell’autore, onde rendere viva e vera, in ritmi e suoni, la composizione. La musica si concepisce nella mente del compositore, ma nasce, vive, si esteriorizza e si fa arte soltanto nell’esecuzione; non certo finché rimane semplicemente scrittura sia nei codici che nelle partiture. L’interpretazione di una musica eseguita nello stesso periodo della sua composizione resta abbastanza facile. Il problema sorge quando un lavoro scritto vari secoli prima, deve essere ripresentato e reso vivo moltissimi anni dopo, in un clima musicale ben diverso da quello iniziale. Via via che gli anni e i secoli passano, passano anche i modi e i gusti: si sviluppa un’altra tecnica compositiva, cambiano i sistemi modali, tonali, ecc., quindi più ci si allontana dall’epoca in cui fu scritto un lavoro musicale, più difficile è la sua ri-interpretazione. All’epoca di Palestrina dominavano le Cappelle musicali e dunque la musica vocale. Più tardi, dominerà la musica strumentale ed emergeranno orchestre, orchestre e cori, solisti, teatro, ecc.: altri stili, altri indirizzi. La musica di chiesa, prima dell’avvento della polifonia, viveva ancora del canto gregoriano. Nel Nord Europa già si stavano facendo i primi tentativi di aggiungere altre voci all’antica melodia, ben spesso a danno dello stesso gregoriano, per cui il Papa, ad Avignone, dovette richiamare i cantori a non tradire e menomare il tradizionale canto. Anche a Roma, finché visse l’antica Schola Cantorum di San Gregorio Magno, si seguitò a vivere di canto gregoriano. (Mons. Igino Anglès era convinto che anche a Roma si praticassero questi tentativi polifonici, ma non so su quali testimonianze o documentazioni si basasse il suo convincimento). Quando il Papa lasciò Avignone e rientrò a Roma portandosi dietro tutta la sua corte, portò anche i suoi cantori e la loro pratica polifonica musicale già ben avviata. Secondo Casimiri, ai nuovi cantori venuti da Avignone si unirono i superstiti della Schola Cantorum che, seppur soppressa, viveva della sua tradizione nei cantori ancora viventi. Sempre Casimiri affermava che proprio per la loro buona esecuzione del canto gregoriano fu necessario riaggregarli, essendo questi assai più esperti dei nuovi. Dunque la Cappella Musicale Pontificia, per quanto riguarda la polifonia, ha avuto la sua culla e la sua origine in Avignone con i cantori che poi il Papa portò con sé a Roma formando così il primo nucleo polifonico della città. Fui molto felice quando, in una delle varie tournées tenutesi in Francia dalla Cappella Sistina, fu programmato un grande concerto proprio nella Cattedrale di Avignone! Confesso che per me e per tutti i cantori fu un momento di vera commozione! Fu poi Sisto IV, coll’ampliamento del “Sacellum Sixtinum” in Vaticano, a dare un regolamento e un ordinamento definitivo alla sua Cappella Musicale e al suo funzionamento liturgico quotidiano, affidando ai cantori Sistini, allora tutti sacerdoti, l’Ufficiatura della Cappella

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Relazione del Maestro Mons. Domenico Bartolucci alla giornata di studi tenutasi a Palestrina il 20 ottobre 2002

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Alcune note di prassi esecutiva

RELAZIONE DEL MAESTRO MONS. DOMENICO BARTOLUCCI

ALLA GIORNATA DI STUDI TENUTASI A PALESTRINA IL 20 OTTOBRE 2002

La vera interpretazione di una composizione musicale è certamente quella propria dell’autore

che l’ha composta, che poi lui stesso ha reso viva eseguendola, dirigendola, suonandola o cantandola. La cosiddetta partitura altro non è che il susseguirsi di segni e note scritti sul pentagramma a fissare l’idea, il pensiero dell’autore, onde rendere viva e vera, in ritmi e suoni, la composizione.

La musica si concepisce nella mente del compositore, ma nasce, vive, si esteriorizza e si fa arte soltanto nell’esecuzione; non certo finché rimane semplicemente scrittura sia nei codici che nelle partiture. L’interpretazione di una musica eseguita nello stesso periodo della sua composizione resta abbastanza facile. Il problema sorge quando un lavoro scritto vari secoli prima, deve essere ripresentato e reso vivo moltissimi anni dopo, in un clima musicale ben diverso da quello iniziale. Via via che gli anni e i secoli passano, passano anche i modi e i gusti: si sviluppa un’altra tecnica compositiva, cambiano i sistemi modali, tonali, ecc., quindi più ci si allontana dall’epoca in cui fu scritto un lavoro musicale, più difficile è la sua ri-interpretazione.

All’epoca di Palestrina dominavano le Cappelle musicali e dunque la musica vocale. Più tardi, dominerà la musica strumentale ed emergeranno orchestre, orchestre e cori, solisti, teatro, ecc.: altri stili, altri indirizzi.

La musica di chiesa, prima dell’avvento della polifonia, viveva ancora del canto gregoriano. Nel Nord Europa già si stavano facendo i primi tentativi di aggiungere altre voci all’antica melodia, ben spesso a danno dello stesso gregoriano, per cui il Papa, ad Avignone, dovette richiamare i cantori a non tradire e menomare il tradizionale canto. Anche a Roma, finché visse l’antica Schola Cantorum di San Gregorio Magno, si seguitò a vivere di canto gregoriano. (Mons. Igino Anglès era convinto che anche a Roma si praticassero questi tentativi polifonici, ma non so su quali testimonianze o documentazioni si basasse il suo convincimento). Quando il Papa lasciò Avignone e rientrò a Roma portandosi dietro tutta la sua corte, portò anche i suoi cantori e la loro pratica polifonica musicale già ben avviata.

Secondo Casimiri, ai nuovi cantori venuti da Avignone si unirono i superstiti della Schola Cantorum che, seppur soppressa, viveva della sua tradizione nei cantori ancora viventi. Sempre Casimiri affermava che proprio per la loro buona esecuzione del canto gregoriano fu necessario riaggregarli, essendo questi assai più esperti dei nuovi. Dunque la Cappella Musicale Pontificia, per quanto riguarda la polifonia, ha avuto la sua culla e la sua origine in Avignone con i cantori che poi il Papa portò con sé a Roma formando così il primo nucleo polifonico della città.

Fui molto felice quando, in una delle varie tournées tenutesi in Francia dalla Cappella Sistina, fu programmato un grande concerto proprio nella Cattedrale di Avignone! Confesso che per me e per tutti i cantori fu un momento di vera commozione!

Fu poi Sisto IV, coll’ampliamento del “Sacellum Sixtinum” in Vaticano, a dare un regolamento e un ordinamento definitivo alla sua Cappella Musicale e al suo funzionamento liturgico quotidiano, affidando ai cantori Sistini, allora tutti sacerdoti, l’Ufficiatura della Cappella

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quasi fossero un capitolo canonicale. Base del repertorio Sistino rimase ancora il canto gregoriano. Nelle altre cappelle musicali romane ad esso presto si aggiungerà la prassi polifonica.

Veniamo a Palestrina. Siamo già vicini al periodo d’oro della Scuola Romana. Tutti sanno che da ragazzo fu ammesso come putto-cantore nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Debbo però notare che i putti-cantori erano quattro di numero! dico quattro! Sottolineo questo dato del quale riparleremo. Del resto in San Pietro, quando Palestrina divenne Maestro di Cappella, pur avendone un maggior numero, erano appena dieci.

Non c’erano allora i Conservatori o Licei Musicali; Palestrina si formò musicalmente e tecnicamente in Cantoria: cantando, ascoltando e praticando il contrappunto che il Maestro di Cappella era obbligato ad insegnare, insieme alla grammatica, ai quattro giovani cantori.

Non c’era ancora lo studio dell’Armonia, che verrà molto più tardi, ma solo del Contrappunto per imparare a far camminare due o più linee melodiche in buon accordo, in perfetto equilibrio e senso armonico. Il ragazzo doveva abituarsi a scrivere le parti in pluralità di canto, ma in unità di risultato armonico. Da qui nasce il senso della polifonia. Il ragazzo cantava in Cantoria e imparava, abituandosi alle molteplicità di voci indipendenti, da farne un tutt’uno armonico.

Di qui nasce il bel cantare che esprime il concetto, il senso delle parole diventate canto nella libertà di ogni singola parte, in accordo, talvolta in contrasto, ma sempre come espressione del testo ormai diventato musica!

Zarlino parla del cantore come un “oratore”. È istruttivo quello che dice: “Si come all’oratore è concesso, secondo le materie che tratta, talora non di parlare, ma con alta voce et horribile, gridare, così non è disconvenevole al Musico d’usar simili azioni nell’acuto e nel grave, ora con alta voce ora con bassa. Però vero è altra cosa è cantare, altra cosa è orare o ringare …”.

Di qui nasce l’interpretazione della polifonia Palestriniana. Palestrina è un capo-scuola nella Storia della Musica. Io l’ho sempre definito il primo patriarca: il secondo sarà più tardi Bach.

Perché è tanto grande? Perché fu lui che portò a perfezione l’univocità tra testo e musica. Non testo con musica, né musica con testo. Per i fiamminghi la bellezza stava nella complessità della composizione: più grandi e difficili erano gli artifizi, i canoni ecc., più si diceva bella la composizione. Fa eccezione Josquin che già cerca di liberarsi da questa schiavitù e fa cantare il cantore, piuttosto che imbrigliarlo in canoni, artifizi ecc. Nonostante ciò, nella famosa e bellissima “Ave Maria” non rifugge, anzi rimane fedele alla tradizione fiamminga, ma il suo cantare è angelico.

Palestrina, formatosi fin da ragazzo ad ascoltare e cantare il gregoriano nella sua Cattedrale e seguitando poi in Santa Maria Maggiore, e arricchitosi anche del linguaggio polifonico, ormai diffuso, intuì e scoprì perfettamente che cosa voleva dire far musica. Non sono i grovigli contrappuntistici o i canoni a far bella la musica, che deve muovere gli animi alla gioia, alla contemplazione, alla tristezza, alla preghiera, ma lo è unicamente il vero e semplice canto, anche se polifonico, che nasce dalla commozione, tutta interiore, del compositore e che l’esecutore deve saper riversare efficacemente sull’ascoltatore. Nessun altro autore ha saputo creare un tutt’uno, testo e musica, come ha fatto Palestrina, neppure il grande Bach! Perché Palestrina, pur grande polifonista, è un grandissimo creatore di canti espressivi che si muovono con estrema facilità e disinvoltura nella trama contrappuntistica della quale egli è pure grande Maestro. Il bel cantare, il bel canto, inizia con Palestrina come dicevano i Maestri antichi di canto. Mi diceva Casimiri, che alla Sala Borromini di Roma (penso negl’anni ’30), fu tenuto un concerto Palestriniano da un solo cantore il quale, accompagnandosi col liuto, eseguì un bel numero di mottetti del Cantico dei Cantici. Ci si accorse che Palestrina sa fare pura melodia, puro canto anche quando fa polifonia.

È stato detto che Palestrina ammazzò il contrappunto. In certo senso è vero. Il contrappunto è una tecnica per condurre le parti, specialmente nelle code dei temi, che si riducono a fioriture e che bene spesso anche in grandi compositori restano formule un po’ accademiche e scolastiche per riempire i vuoti. In Palestrina non è così. Egli canta non soltanto nel primo, secondo o terzo inciso melodico del mottetto o altra forma musicale, ma anche nel fiorito che non diventa mai riempitivo.

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Conoscete il procedere del mottetto classico: una “breve”, una “semibreve”, quattro “minime” e poi il fiorito. Ebbene anche quest’ultimo è puro canto, niente formule, niente scolasticismi ... quindi non più sapiente contrappunto, né disegno magistrale per concludere un intervento: anche il fiorito deve esprimere un sentimento.

Veniamo al pratico. In Sistina i cantori non sono mai stati più di 33, compresi i giubilati, ossia coloro che avevano prestato servizio per 25 anni e che, liberi da obbligo, potevano partecipare a loro piacimento alle esecuzioni. Vedete che il numero non è grande quando si pensa che spesso si doveva cantare a doppio coro, ossia a otto voci. Non c’erano ragazzi perché il cantore era un ufficio liturgico: per i cantori era come un ufficio canonicale. In San Pietro, nella Cappella Giulia, c’erano i ragazzi in numero di dieci, mentre in Sistina si usavano i falsettisti (i castrati vennero assai dopo e questa triste storia propria non soltanto delle Cappelle ma anche dei teatri e dei concerti, si estinse ai primi del ’900). I cantori non avevano singolarmente le parti musicali, ma tutti dovevano leggere dal grande librone aperto sul leggio sistemato sulla balaustra della cantoria. Il Maestro era responsabile dell’esecuzione, ma non dirigeva come si fa oggi. I cantori cantavano senza direttore. Il tono stesso non lo dava il Maestro ma il Decano di chiave intonando con i suoi colleghi l’inizio del Mottetto. Se entrava tutto il coro era il Decano dei Bassi a dare la nota fondamentale.

Nel librone aperto non c’erano le stanghette di battuta. La linea melodica seguitava fino alle pause senza altro segno. Bene spesso, specialmente nel Kyrie, il testo era scritto solo all’inizio ed era il cantore che doveva metterlo sotto le note. Così era per la semitonia ossia diesis e bemolle: il compositore metteva solo quelli che il cantore non poteva indovinare.

Non c’erano indicazioni di tempo, né segni espressivi. Il metronomo della polifonia era il “tactus”. Dice il Vicentino che il tactus è il battito del polso umano, ma ci aggiunge “ben sano”. Questo non vuol dire che debba essere sempre uguale e non sopporti accelerazioni o allargamenti quando il testo e la musica lo richiedesse.

Non ci sono Allegro, Presto, Adagio ecc., ma solo il “tactus”, adattato all’andamento richiesto dalla composizione. Nella notazione antica la figura “brevis” aveva due tactus, naturalmente in notazione dimezzata come si usa oggi è la semibreve che vale due tactus.

Dunque non movimenti troppo veloci o troppo lenti come spesso sentiamo in certe esecuzioni polifoniche! Non ricerche di effetti, di pianissimi e fortissimi, di lunghe pause … I teorici parlano di “effetti” ma più spesso di “affetti”, il che è ben diverso.

Se non c’era il direttore, era dunque tutto il complesso l’interprete della musica. C’era un’intesa, una reciprocità di intenzioni che veniva a formarsi e sarà questa la tradizione Sistina della polifonia.

Non posso qui entrare in dettagli, ma era la pratica quotidiana a formare un comune sentire e un comune procedere nell’esecuzione. C’è un regolamento, oltre quello dell’Adami da tutti conosciuto, che nelle festività dell’Anno elenca certi mottetti o Messe da doversi cantare, oltre gli altri via via scelti dal Maestro “pro tempore”. Cosicché ogni anno alcuni di essi erano ripetuti per tradizione: la Messa di Papa Marcello era obbligatoria per l’incoronazione del Papa e per il suo anniversario; lo Stabat Mater a 8 voci per la Domenica delle Palme; il bellissimo mottetto Surge Illuminare Jerusalem per l’Epifania, il celebre Popule Meus per il Venerdi Santo e tanti altri mottetti che da quando furono composti sono stati ripetuti annualmente in Sistina. L’uditorio era sempre lo stesso e il coro non poteva davvero cambiare interpretazione senza sentire le critiche e le proteste dei Cardinali e dello stesso Papa.

Ma, si dice, poi vennero gli anni del teatro e della musica teatrale … Si è vero, ma la Sistina seguitò sempre a cantare senz’organo, polifonicamente, e spesso, come s’è detto, gli stessi pezzi, tramandandone l’interpretazione ai futuri cantori. Di fatto la Sistina era accusata di tradizionalismo e di chiusura ai nuovi stili. Chi non conosce i contrasti tra la Sistina e la “Congregazione dei Musici” (Congregazione che poi diventò l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia)? Nella “Congregazione” imperava ormai un nuovo stile vocale e strumentale. In Sistina invece rimaneva la pura vocalità espressa nel gregoriano e nella polifonia.

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Fu nel ’700 che il Papa volle il Maestro Direttore Perpetuo, ossia a vita, proprio per garantire maggiormente la tradizionale interpretazione Sistina, quando i cantori, pur bravissimi nella loro arte canora, non erano più i grandi Maestri del ’500 e del ’600, quasi tutti anche compositori.

Si parla di decadimento nell’800. Ci fu nell’800 un grande Maestro: Baini. Bellissima voce di Basso è stato uno dei più profondi studiosi di Palestrina. Basterebbero i due grandi volumi su Palestrina e la sua opera per rendersi conto del valore di questo Maestro, preoccupato in modo tutto particolare del mantenimento della tradizione Sistina. Tutti conosciamo gli scritti di grandi personalità e musicisti venuti a Roma i quali hanno testimoniato delle esecuzioni Sistine.

Lo stesso Mendelssohn, che oltre agli elogi denunzia anche certi difetti di esecuzione ... (portamenti, gruppetti, abbellimenti ecc.), dinanzi all’esecuzione degli Improperi e del Miserere dell’Allegri rimane stupefatto e dice: “Meglio non si potevano interpretare”.

Proseguendo, dopo Baini venne Mustafà che si trovò nominato Direttore Perpetuo proprio quando Roma passava dal governo del Papa a quello del Re d’Italia. Il Papa si ritirò in Vaticano come in esilio e cessarono le funzioni ordinarie quotidiane di Cappella: le uniche mantenute furono quelle dette straordinarie. La Cappella Musicale si trovò così a non aver più quel ruolo e quella vitalità che aveva nel passato. Cominciò un periodo di attesa e di decadenza anche perché i servizi, e conseguentemente le prove, non erano più regolari: i cantori che andavano via via giubilandosi, non venivano più nominati. Mustafà presentò al Papa vari “memorandum” per le difficoltà del momento ma senza esito. Diede più volte le dimissioni, ma esse non furono mai accettate. Tutti sanno che egli fu valente direttore anche di grandi ed eccezionali esecuzioni, fuori della Sistina; presentò infatti gli oratori di Haendel ed opere di Spontini per la prima volta a Roma. Preoccupato di mantenere la tradizione della Cappella, volle fissare su carta i vari melismi, appoggiature, cromatismi ecc. che già Mendelssohn aveva deprecato al tempo di Baini. Sperando che il giovane Maestro Perosi, che andava mietendo allori in tutta l’Italia, potesse ridar vigore e vita all’Istituzione, Mustafà chiese a Papa Leone XIII di nominarlo direttore della stessa, augurandosi che standogli vicino imparasse e facesse sue le tradizioni Sistine. Certo debbo qui osservare che quei portamenti e quei gruppetti facevano parte dell’autentica tradizione, ma erano i residui delle “gorghe” e delle appoggiature che, fatte da esperti cantori (solisti), davano varietà e vivacità alla composizione; erano armonizzazioni di falsi bordoni per versetti di salmi o di graduali che si cantavano a memoria. Esse però, una volta scritte sul pentagramma, diventavano formule macchinose e non più originali diminuzioni. Si sa che subito nacque tra Mustafà e Perosi una insolubile divergenza di vedute; per cui Mustafà diede le sue definitive dimissioni che furono accettate dal Papa e così Perosi rimase unico Direttore Perpetuo. Perosi, è risaputo, geniale compositore di Messe, Oratori, Salmi ecc. non era affatto un esperto polifonista, né era portato al genere Palestriniano. Mi raccontava il decano della Cappella, Prof. Gentili (morto alla fine degli anni ’50 a più di novant’anni), che quando Mustafà invitò Perosi a dirigere la Messa di Papa Marcello dovette farlo cessare perché i tempi e l’andamento, non rispondevano affatto alla tradizione Sistina ed i cantori erano tutti inquieti e disorientati! Ad ogni modo, rimasto solo Direttore con pieni ed assoluti poteri, cercò di riorganizzare il complesso. Creò una scuola per ragazzi cantori, ottenne dal Papa un Motu Proprio, oltre quello famoso sulla Musica Sacra, unicamente per la riorganizzazione della Sistina. Motu Proprio che fissò il ruolo dei cantori e le esecuzioni della Cappella per tutte le feste dell’Anno. Era un documento esemplare e fondamentale. Si sa che Papa Sarto, San Pio X, era affezionato a Perosi: a Venezia lo teneva suo ospite in casa insieme alle sorelle e perciò si può tranquillamente dire che il Maestro aveva l’appoggio pieno del Santo Padre. Non si è mai capito come quel Motu Proprio non sia mai stato messo in opera. Probabilmente Perosi dopo il primo entusiasmo, si preoccupò delle esecuzioni dei suoi Oratori e la Cappella rimase in balia di se stessa. Poi purtroppo venne la sua malattia mentale che lo allontanava più che mai dalla Sistina. Per un lungo periodo andò ad abitare a Firenze!

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Mons. Carlo Respighi, Prefetto delle Cerimonie Pontificie, mi raccontò che sul tavolo di Papa Benedetto XV c’era pronta per la firma la nomina del Maestro Casimiri a Maestro della Cappella Sistina. Ma il Papa, nel timore di qualche atto sconsiderato della famiglia Perosi, non poté o non volle firmarla. Per l’Anno Santo 1933 Papa Pio XI, su invito di Mons. Anichini, Prefetto di Cappella, che nel frattempo era riuscito a ravvicinare Perosi alla Sistina, volle darle un nuovo impulso: furono nominati i cantori mancanti e si riprese con Perosi stesso una certa vitalità esecutiva.

Dopo la morte del Vice Maestro Mons. Rella, Papa Pacelli mandò a casa Perosi Mons. Barbetta, un alto ufficiale della Segreteria di Stato per chiedere al Maestro stesso di indicare il suo Vice. E proprio Perosi tra tutti i possibili assistenti scelse me, credo unicamente perché già Maestro di Cappella in Santa Maria Maggiore e perché sacerdote.

Qui comincia la mia storia in Cappella Sistina. Nominato Vice Maestro, stetti vicino a Perosi per 5 anni durante i quali però non potevo far niente, non avendo nessuna autorità.

Alla morte dell’illustre e venerato Maestro, il Papa dopo poche settimane mi nominò Maestro Direttore Perpetuo come i miei predecessori. Incominciò il mio lavoro.

Fu Papa Giovanni XXIII a voler ridar vita alla Cappella Musicale. Così si poterono nominare i Cantori, ormai ridotti a pochi, e riformare la Scuola dei Ragazzi come semiconvitto e Scuola Media Riconosciuta dallo Stato Italiano.

Si ebbe finalmente una Sede dove poter svolgere tutta l’attività che richiede un complesso musicale dell’importanza della Cappella Sistina per le aule scolastiche, la mensa dei ragazzi, l’archivio, la sala per le prove, ecc.

E la Cappella cominciò a funzionare… Allora, mi direste, la Sistina di oggi non è più quella di ieri! No, vi rispondo, è quella dei secoli passati perché se anche in quegli anni la direzione non

era la più appropriata (Perosi dirigeva Palestrina come avrebbe potuto dirigere, chi so io? …, Mendelssohn e come dirigeva le sue musiche) c’erano per fortuna qui a Roma (anche se anziani) cantori che avevano imparato dai loro vecchi predecessori l’arte del cantare Palestriniano. Questi maestri hanno salvato la tradizione romana. Io venni a Roma nel 1942. Subito mi interessai alla vita musicale sacra della città. Rimasi sorpreso e ammirato da come si cantava in Sistina nonostante la direzione anonima. Ricordo che ne scrissi subito al mio Maestro Francesco Bagnoli: “Caro Maestro, qui a Roma si canta (specialmente in Sistina) ben altrimenti da come si canta a Firenze. Qui non si perde nei piani e pianissimi, forti e fortissimi, nei crescendo e nei diminuendo, qui si canta e basta. E nel cantar bene escono tutte le sfumature possibili senza sforzo né affettazioni …”.

Furono i bravissimi cantori Listini che salvarono la tradizione romana. Questi, abbandonati i portamenti, le incrostazioni del tempo di Mustafà (e questo va anche a merito di Perosi che non le volle più) ci hanno fatto riscoprire la semplice e naturale cantabilità delle cantilene (così si chiamavano) polifoniche. Col bel cantare si scopre la ricchezza delle parti che si intrecciano, si sviluppano, si contrastano, si uniscono e se ne avverte la polifonicità, perché una parte imposta l’esposizione mentre l’altra è arrivata al fiorito; una ribatte la testa del tema, a note lunghe, e l’altra le riprende dopo due o tre tactus, mentre la terza sta alla coda con fioriture.

Questa è l’orditura tipica della polifonia che non si può rendere nella sua perfezione se non facendo cantare, non dico la sezione, ma ogni singolo cantore.

Padre Catena, il Maestro dei Ragazzi, faceva scuola di canto personalmente ad ogni ragazzo cantore in modo che ciascuno fosse impegnato come banditore del testo sacro.

In pochissimo tempo si poté ritornare agli insegnamenti degli antichi teorici, Vicentino e Zarlino, che invitavano il cantore ad esprimere il testo convenientemente e Frescobaldi che rammentava all’organista di imitare i madrigalisti.

Qui c’è un equivoco da chiarire! Cantar bene non vuol dire far teatro, lirica o drammatismo. Il cantare è la base di qualsiasi

musica; non per niente al Gregoriano si antepone il termine “Canto”. Purtroppo oggi anche questo

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non è più autentico da quando si è inventata una ben differente teoria ritmica e estetica che ha falsato il puro e vero gregoriano.

Si vuol fare così anche a Palestrina? Un mottetto Palestriniano ridotto a purissimo, intonatissimo, perfettissimo solfeggio non è

più Palestrina, ma un dotto componimento per esercitare la voce e far bene gli intervalli, i piani e i forti ecc.: non è più arte, ma pura meccanica.

Torno ai putti-cantori: quattro a Santa Maria Maggiore e dieci in San Pietro. La Sistina non ha mai avuto un numero di cantori che superasse i 33 (compresi i giubilati che potevano anche mancare per le esecuzioni). Lo “Stabat Mater”, uno dei capolavori di Palestrina, è a otto voci: quanti cantori c’erano per ogni parte? E le chiese erano grandi, sia Santa Maria Maggiore, sia San Pietro. Che significa ciò? Semplice, che si doveva cantare di voce, sì bene educata, ma sempre di voce. Non c’erano allora microfoni o altoparlanti … Ricordo il concerto che tenni negli anni ’50 a Ratisbona. Si era in ottobre ed alcuni ragazzi dovettero rientrare a Roma per gli esami di riparazione. Gli uomini erano sedici ed i ragazzi da venti che erano, rimasero quindici! Si eseguì la Papa Marcello!

Ricordo che il Maestro Schrems, un grande e autentico Maestro di Cappella, impressionato dal famoso finale del Credo, mi domandò come si potesse avere tanta forza con un numero di ragazzi così limitato. Lui ne aveva quaranta. Io gli dissi che Palestrina a San Pietro ne aveva dieci. Tutto sta che i ragazzi cantino di voce non flautando o falsettando.

E questo è un altro elemento da tener presente nell’interpretazione Palestriniana. Il cantar bene si ottiene mettendo in opera tutte le possibilità dell’apparato vocale (diciamo

così per intenderci) col passaggio senza alcuno sforzo dai vari registri e colla perfetta respirazione. Un’altra asserzione: Palestrina è ancora nell’ambito del sistema modale sebbene al suo

tempo già si stava correndo, anzi precipitando nella tonalità. Se un Maestro non ha nel sangue, non ha assimilato la modalità (e non basta conoscerla

teoricamente: questo è un fatto intellettuale e basta) non si cimenti a dirigere Palestrina: sarebbe lo stesso voglia dirigere Mozart senza sapere cosa sia Re Maggiore o Sol Minore. Palestrina va avanti nel suo protus, deuterus, tritus e tetrardus.

Per una corretta interpretazione Palestriniana potremmo e anche dovremmo dire tante altre cose: sul trasporto, sulla semitonia, sul modo di battere il tactus ecc., ecc. (cose difficilissime anche per chi abbia dimestichezza!).

Certo è che Roma ha avuto la fortuna di aver mantenuto attraverso tanti secoli un complesso che ha sempre cantato senza strumenti, polifonicamente; che ogni anno ha ripresentato Messe e mottetti riprendendone la prima esecuzione (Missa Papae Marcelli, Improperia, Stabat Mater, Surge Illuminare, ecc.). Può essere che via via si sia attaccata qualche scoria, ma la sostanza non può non essere che quella autentica!

Critiche e lodi furono fatte, nei secoli passati, alle esecuzioni Sistine. Molte critiche derivarono dal fatto che, durante i “servizi” della Settimana Santa, i cantori stessi (che erano, dicevamo, canonici) recitavano i salmi dei Mattutini, detti delle Tenebre: salmi talvolta lunghissimi, nella formula salmodica che si ripeteva tante e tante volte fino a stancare chi non conoscesse l’uso liturgico e i testi via via declamati.

Goethe scrisse: “Domenica nella Sistina: abbiamo udito un mottetto di Palestrina. Martedì: avevamo la fortuna di udire un gran parte della musica della Settimana Santa, eseguita in onore di uno straniero. Là potemmo quindi sostare con tutto il nostro comodo, tanto più che potevamo leggere anche le partiture. È una musica incredibilmente grandiosa e semplice che solo in Roma, ed in queste circostanze si può ammirare …”.

Il 22 marzo dice di aver udito il “Miserere” dell’Allegri e gli “Improperia” di Palestrina, e scrive: “Il momento in cui il coro canta «Popule meus quid feci tibi?» è senza dubbio il più bello e non vi ha l’uguale”.

Mendelssohn è il più critico. Ma diceva il Maestro Casimiri che molte delle sue impressioni derivarono dal non aver dimestichezza con la Liturgia cattolica del Mattutino; con tutti quei salmi

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declamati a piena voce ecc., ecc. Dice: “I salmi sono cantati fortissimo da tutte le voci d’uomo, per due cori, a domanda e risposta …”. Circa gli “Improperia”: “Da una prima audizione mi pare che sia una delle più belle composizioni di Palestrina, e viene cantata con una predilezione speciale: Vi è una meravigliosa delicatezza ed armonia nella condotta del coro; essi sanno mettere in giusta luce e cavare fuori ogni frase senza forzarla, un accordo si fonde dolcemente con l’altro …”.

È severo contro l’uso degli abbellimenti, delle appoggiature, dei cromatismi ecc. Però dice anche: “Il loro modo di cantare e collegare le note una con l’altra è talora molto a suo posto e dà all’insieme un bel suono morbido; e se anche qualche volta ne escono delle stranissime dissonanze non perciò si guasta la musica che essi cantano calcolando l’effetto grandioso che si ottiene”.

Mustafà ebbe la brutta idea di scrivere questi abbellimenti che sarebbero diventati macchinosi e pesanti una volta fissati, mentre potevano essere apprezzabili quando erano semplicemente un legame fatto con sapienza, tecnica e buon gusto per meglio fraseggiare nella polifonia.

Concludiamo con quello che ha scritto Liszt a proposito delle esecuzioni in Cappella Sistina che egli spesso frequentava quando abitava a Roma: “In fatto di musica, a Roma è quella della Cappella Sistina che attrae tutta la mia attenzione … Ogni domenica io ascolto quei canti come si deve dire il proprio breviario …”.

La presente relazione è pubblicata in: I QUADERNI DELLA BIBLIOTECA PIERLUIGI, 7, Protagonisti e capolavori della Scuola Romana, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina 2005.