Alberto Radicati - Dodici Discorsi

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ALBERTO RADICATI DODICI DISCORSI MORALI, STORICI E POLITICI A CURA DI TOMASO CAVALLO

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ALBERTO RADICATI

DODICI DISCORSI

MORALI, STORICI E POLITICI

A CURA DI

TOMASO CAVALLO

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INTRODUZIONE

Nel ricordo di Nicola Badaloni

Ammetto che l’ordinamento della chiesa romana, da voi tanto lodato, è politico e lucroso per i più; e non crederei che ve ne sia uno più adatto a ingannare il popolo e a domare l’animo della gente, se non esistesse anche la chiesa maomettana, che lo supera di molto.

B. Spinoza, Lettera al nobilissimo giovane A. Burgh

La testa di cui parlo non è quella di Medusa, ma la testa clericale, ben più tremenda dell’altra. Perché i mali che gli uomini hanno sofferto da Medusa erano puramente immaginari, mentre quelli che hanno patito, e ancora patiscono dai preti, non sono che troppo reali.

A. Radicati, Decimo Discorso 1. Il lavoro che qui presento, la traduzione italiana dei Dodici Discorsi Morali,

Storici e Politici di Alberto Radicati di Passerano, è nato da una constatazione irritante almeno ai miei occhi, affetti – non lo ignoro – da ipermetropia congenita. Il più nobile manifesto anticlericale del primo Settecento italiano, a oltre duecento-settant’anni dalla pubblicazione delle sue versioni inglesi e francese, non ha conosciuto nel nostro paese diffusione alcuna, se non clandestina. Mentre, fin dal 1804, in Italia hanno trovato un traduttore e un editore le Lettere pastorali circa la insufficienza della ragione e la necessità di una rivelazione dello zelante e dotto vescovo anglicano Edmund Gibson, che le malelingue ai suoi giorni dicevano «altezzoso, avaro e vendicativo come il grande Inquisitore di Goa»1 e che comunque, anche a non dar retta a tali voci poco obiettive, sappiamo essere stato avversario accanito dei deisti e attivissimo nel mobilitarsi per far rinchiudere in carcere a Londra il conte di Passerano.

1 Sono questi i termini con cui lo caratterizza Radicati, non senza comprensibile

risentimento, nell’ultimo capitolo della sua Histoire abregée de la profession sacerdotale, ancienne et moderne. L'esistenza dell'edizione veneziana del 1804 delle Lettere del Gibson è segnalata da F. VENTURI nell’introduzione (inedita e di prossima pubblicazione a cura di S. Berti) a una progettata edizione degli Opuscoli curiosi di A. Radicati da lui predisposta, con la collaborazione della moglie Gigliola Spinelli, negli anni immediatamente successivi all’impegno nelle file della Resistenza. Debbo alla squisita generosità di Antonello Venturi e di Silvia Berti la possibilità di aver potuto consultare il prezioso dattiloscritto venturiano.

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Con i tempi correnti e trascorsi in un paese come il nostro, in cui «laici» e «cattolici» continuano a gareggiare nel tenersi ben stretto il Concordato, nessuna meraviglia, ovviamente. Immaginare una qualche seria diffusione dell’opera radicatiana equivarrebbe a pretendere che, tra i temi escogitati per la maturità dai pedagoghi ministeriali, fosse mai comparsa la richiesta di un commento alla appassionata invettiva del Petrarca contro la Santa Romana Chiesa dei suoi giorni, «fontana di dolore, albergo d’ira,/scola d’errori e templo d’eresia», oppure che fosse proposta ai maturandi un’analisi della ruvida, ma veridica testimonianza guicciardiniana a proposito della metamorfosi conosciuta dal papato in età rinascimentale.2

Come che sia, nonostante la nostra lontananza storica dall’alba dell’illumi-nismo in cui furono scritti, i Discorsi radicatiani – anche e soprattutto nell’epoca dei fondamentalismi religiosi riemergenti – restano un’opera che conserva la bruciante attualità di quel grande moto del pensiero europeo, soprattutto là dove, prima di Kant e della sua Religione nei limiti della sola ragione, denunciano l’opera profondamente corruttrice della fides mercenaria tipicamente nostrana, consistente nel permettere «di conciliare, per mezzo di numerosi riti superstiziosi, una vita malvagia con la speranza della salvezza eterna»,3 ovvero la pratica onnipervasiva del più inveterato familismo, nepotismo e clientelismo amorale, per non dire della simultanea onorata appartenenza a mafie del più svariato genere e a confraternite devozionali incaricate della processione rionale della Santa Rosalia del luogo.

Ai venticinque lettori che, se vorranno, d’ora in poi potranno più agevolmente accostarsi ai Discorsi radicatiani, mi limito qui a fornire qualche informazione essenziale per inquadrare l’opera e il suo autore. So benissimo quanto appros-simative e frettolose siano queste mie pagine che, di un’opera stratificata, finiscono con l’evidenziare solo alcuni elementi di fondo, lasciando inindagati molti dei problemi presentati da un testo esuberante come i Discorsi concepiti negli anni della prima maturità dal conte piemontese per il suo sovrano. Ma da quando mi sono accinto a questo lavoro, l’essenziale per me era realizzarne traduzione ed edizione affinchè, dopo il lungo esilio a cui sono stati condannati, i Discorsi morali, storici e politici entrassero a figurare, come meritano, tra i classici

2 F. PETRARCA, Rime e Trionfi a cura di F. Neri, Torino, Utet, 1960, p. 234; F.

GUICCIARDINI, Storia d’Italia, a cura di C. Panigada, Bari, Laterza, 1967, l. IV, c. 12: «Con questi fondamenti e con questi mezzi esaltati alla potenza terrena, deposta a poco a poco la memoria della salute delle anime e de’ precetti divini, e voltati tutti i pensieri loro alla grandezza mondana, né usando l’autorità spirituale se non per istrumento e ministerio della temporale, cominciorono a parere più tosto principi secolari che pontefici. Cominciorono a essere le cure e i negozi loro non più la santità della vita, non più l’augumento della religione, non più il zelo e la carità verso il prossimo, ma eserciti, ma guerre contro a’ cristiani, trattando co’ pensieri e con le mani sanguinose i sacrifici, ma accumulazione di tesoro, nuove leggi nuove arti nuove insidie per raccorre da ogni parte danari; usare a questo fine senza rispetto l’arme spirituali, vendere a questo fine senza vergogna le cose sacre e le profane».

3 Cfr. in Appendice, infra, p. 257.

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dell’anticlericalismo italiano che non sempre è stato solo comodo becerume podrecchiano, annoverando tra i suoi autori non solo Dante, Petrarca, Boccaccio, Marsilio da Padova, Machiavelli, Guicciardini, Bruno, Sarpi, Giannone, Pilati, Leopardi ma anche più recenti nobili spiriti come Piero Martinetti, Gaetano Salvemini, Luigi Russo, Ernesto Rossi, Sebastiano Timpanaro.

Chi si accinge a leggere i Discorsi radicatiani credo faccia bene a tenere da subito presente che solo un intrico di vicende storiche e biografiche del tutto particolari ha fatto sì che il rampollo di una delle più antiche e solide famiglie di feudatari piemontesi – insediatisi tra undicesimo e tredicesimo secolo nella zona collinare tra Chieri e Asti e tra gli ultimi, nel Cinquecento, a sottomettersi ai duchi di Savoia – diventasse un autore di pamphlet e cercasse di affermarsi sull’affollato mercato librario della Londra primo-settecentesca. Non si possono avere dubbi circa il carattere di personale sconfitta rappresentato da simile carriera di «faiseur de libele»4, né circa la natura di messaggio chiuso in una bottiglia costituito dall’opera consegnata alle stampe dal conte piemontese. Del resto la stessa capitale inglese che proprio in quegli anni, fino al 1728, aveva accolto generosamente Voltaire e la sua Henriade, per Radicati in definitiva non si rivelò molto più ospitale delle terre sabaude, nonostante il sincero apprezzamento del conte circa le libertà ivi godute, in primis quella di coscienza. A testimoniarlo è la lettera che, al settimo anno del suo esilio, il Passerano indirizzò al Duca di Newcastle, all’indomani della amara, se pur breve esperienza del carcere londinese. Si tratta di un documento prezioso, scovato dall’acribia archivistica di Franco Venturi, che merita citare per intero.

«Signor mio, Sono un uomo le cui sfortune sono sufficientemente note al mondo inglese. Ma pochi soltanto sanno le vere cause di esse. Alcuni male informati, o che nutrono malanimo contro di me, hanno sostenuto che sono stato obbligato a fuggire il mio paese per la malvagità dei miei scritti, ciò che è assolutamente falso. La verità è che sono fuggito unicamente per schivare la rabbia e la furia del clero papale, per avere favorito con troppo zelo e buona volontà la propagazione degli interessi protestanti in Piemonte, come alcune mie opere (che io scrissi per servire e ubbidire al re Vittorio e che saranno presto pubblicate in inglese) possono ben testimoniare. Se io non fossi stato, Signor mio, tanto sfortunato da incontrare un’accoglienza così fredda qui in Inghilterra dal giorno in cui mi ci sono rifugiato, or sono sette anni, io non avrei mai messo in pubblico la mia Dissertazione filosofica sulla morte, né avrei dato nelle mani di alcuno perché traducesse e pubblicasse in inglese il mio testo originale italiano. Ma due ragioni, Signor mio, e forti ragioni, mi hanno costretto a farlo. In primo luogo la semplice miseria mi ha obbligato a vendere il manoscritto italiano per

4 L’espressione ricorre, con la grafia riportata, in un dispaccio del 22 maggio 1732

dell’ambasciatore sabaudo a Londra, Giuseppe Ossorio, indirizzato al ministro Ormea, all’indomani della pubblicazione della Storia dell’Abdicazione di Re Vittorio. Cfr. A. ALBERTI, Alberto Radicati di Passerano. Contributi al pensiero politico e alla storia del diritto ecclesiastico in Piemonte agli inizi del secolo XVIII, Torino, Giappichelli, 1931, p.147.

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evitare di morir di fame. In secondo luogo, poiché il soggetto del mio pamphlet è di grande importanza per tutta l’umanità, io volevo davvero pubblicare le mie opinioni in questo paese (dove la gente, che gode la libertà di esaminare tutte le materie di fede, è più colta che non in quelle terre dove gli uomini sono ingiustamente privati di questo diritto) onde io potessi sapere dalle obiezioni o approvazioni delle persone di cultura e di buona fede se le mie nozioni sono giuste o sbagliate, buone o cattive, e perciò o persistere in questi miei sentimenti o conseguentemente abbandonarli, cosa che io sarò sempre disposto a fare qualora fossi convinto da solide ragioni d’esser nel torto, non avendo altro scopo nelle mie ricerche filosofiche se non la verità e il bene dell’umanità. Ma io umilmente confido che la Vostra Grazia avrà la bontà di considerare che il metodo di convertire gli eretici con la violenza e non col ragionamento, come è detestabile pratica dell’inquisizione, non è un vero metodo cristiano, né adatto a convincere alcuno dei propri errori. Sono con grande rispetto, mio Signore, il più ubbidiente ed umile servo di Vostra Grazia ALBERT DE PASSERAN». 5 Non meno amara, come documenta la lettera del conte di Canale al marchese

d’Ormea dall’Aja del 21 aprile 1735,6 fu anche l’ultima tappa del suo esilio in Olanda che vide, anzi, l’ulteriore aggravarsi di miseria, solitudine, malattia, insieme alla tensione e allo sforzo estremi per salvare le verità acquisite pubblicando, questa volta in francese, un’ampia raccolta dei suoi scritti. Informando la corte dell’avvenuto decesso di Radicati, il conte della Chavanne non mancherà di precisare che egli era ridotto a una miseria tale «qu’il n’a pas laissé de quoi se faire enterrer».7

Nonostante l’oblio che – prima della fondamentale monografia venturiana del 1954 – ne ha circondato a lungo l’opera, nella sua breve e irrequieta esistenza Alberto Radicati non era passato inosservato, né i suoi scritti erano rimasti senza eco. Costretto ventottenne all’esilio e di lì in avanti a una vita di espedienti, fino alla morte avvenuta all’Aja il 24 ottobre 1737 tra le braccia soffocanti di pastori ugonotti intenti a salvargli l’anima in articulo mortis,8 gli scritti che – non senza difficoltà, ma con il probabile appoggio di ambienti massonici inglesi – era riuscito a pubblicare nel giro di poco più d’un quinquennio gli avevano assicurato una discreta fama internazionale.

Cattiva fama, si dirà. Il che, almeno per determinati ambienti, corrisponde sicuramente al vero. Perché se George Berkeley, leggendo acutamente nelle pagine

5 Lettera in lingua inglese a Thomas Pelhas-Holles, Duca di Newcastle, conservata a

Londra, Record Office, S. P. 36/28, f. 112, tradotta e pubblicata da F. VENTURI nella sua indispensabile monografia, Saggi sull’Europa illuminista I: Alberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954, pp. 161 (meritamente riedita da S. Berti, Alberto Radicati di Passerano, Torino, Utet 2005).

6 Cfr. ALBERTI, op. cit., p. 153. 7 Cfr. ALBERTI, op. cit., p. 154. 8 Si veda al riguardo F. VENTURI, «La conversione e la morte del Conte Radicati», in:

Rivista Storica Italiana, LXXV, (1963), pp. 365-73.

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della sua Philosophical Dissertation upon Death lo sbocco estremo del libero pensiero – l’aperta proclamazione della libertà individuale anche nei confronti della propria morte – aveva relegato il Passerano tra i minute philosophers che il vescovo di Cloyne aveva avuto l’intenzione di sbaragliare nell’Alcifrone;9 se nelle sue irriverenti ma fortunate Lettres cabalistiques il marchese d’Argens lo aveva spedito senza tanti complimenti all’inferno tra i mauvaises auteurs a duellare verbalmente con il gesuita La Hode, neutralizzando in anticipo il tentativo dei pastori olandesi di sfruttare la sua conversione in extremis;10 se lo storico delle istituzioni ecclesiastiche Johann Lorenz Mosheim lo aveva liquidato come «uno dei più audaci e, insieme, più inabili detrattori della religione mai apparsi», un altro tedesco della levatura di Johann Georg Hamann ne aveva pur tradotto per intero in gioventù La religion muhamédane e, nel 1768, era stato Voltaire in persona a ricordarsi con simpatia del conte piemontese, da lui forse incontrato per le vie di Londra ai tempi del suo esilio, allorché ne assunse il nome quale pseudonimo per la prima versione dell’Epitre aux Romains in cui incitava il popolo di Roma e del disastrato stato pontificio a scuotersi di dosso il giogo della «tirannide» papale. Del resto anche in Italia, manoscritta e sconosciuta fino al 1984, proprio dei Discorsi e de Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo – dalla loro edizione olandese – benché inedita, è comunque attestata una versione integrale, redatta in una grafia minuta ed accurata che Luigi Firpo datava al tardo Settecento o ai primissimi anni dell’Ottocento.11 E nelle perquisizioni effettuate a Gioia del Colle nel gennaio 1794 in casa di Emanuele De Deo, la polizia borbonica scovò una copia del Recueil de pièces curieuses sur les matières les plus interessantes pubblicato a Rotterdam nel 1736. Nella famiglia del primo martire giacobino, torturato e impiccato a ventidue anni, l’opera del conte di Passerano aveva dunque latomicamente il suo posto.12

9 G. BERKELEY, The Theory of Vision or Visual Language shewing the immediate Pre-

sence and Providence of a Deity. Vindicated and Explained by the Author of Alciphron, or, The Minute Philosopher, London, J. Tonson, p. 38, § 5: «But if any well-meaning persons, deluded by artful writers in the Minute Philosophy, or wanting the opportunity of any unreserved conversation with some ingenious men of that sect, should think that Lysicles hath overshot the mark, and misrepresented their principles; to be satisfied of the contrary, they need only cast an eye on the Philosophical Dissertation upon Death, lately published by a minute philosopher».

10 J. B. DE BOYER, Marquis d’ARGENS, Lettres cabalistiques, ou Correspondance philoso-phique, historique et critique, entre deux Cabalistes, divers Esprits elémentaires, & le Seigneur Astaroth, La Haye, P. Paupie, 1766, pp. 37-49; cfr. S. BERTI, «Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti», in: Rivista Storica Italiana, XCVI, II, 1984, pp. 510-522.

11 L. FIRPO, «Una traduzione italiana inedita del Recueil di Alberto Radicati di Passe-rano», in «Rivista Storica Italiana», XCVI (1984), pp. 585-590. Di questo manoscritto, custodito tra i «Rari» della Biblioteca della Fondazione Einaudi di Torino (Rari, 16, 2, 9), è annunciata una prossima pubblicazione a cura di D. Canestri.

12 F. VENTURI, «Nota Introduttiva» ad Alberto Radicati in: Politici ed Econonisti del Primo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti, Tomo V, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, p. 28.

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Chi di Radicati, alla Biblioteca Nazionale di Torino, compulsa il Recueil, su un foglietto manoscritto accluso alla copia ivi conservata, insieme a inedite e forse non inattendibili informazioni, può leggere un giudizio ortodossamente liquidatorio dei suoi scritti. Questa pagina trasmette efficacemente l’atmosfera di diffidenza che circondò l’«insolente» e «stravagante» conte anticlericale nel mondo subalpino e può spiegare, almeno in parte, la vera e propria rimozione in cui la sua opera incappò, si può dire da subito, in Piemonte e in tutta la Penisola.

«L’Auteur de ce recueil – scriveva l’anonimo – après sa disgrace s’etant retiré en angleterre, et n’ayant plus de moyen pour y subsister, s’etoit adressé au chevalier Ossorio l’assurant quil se repentoit de sa faute et que si le Roi vouloit bien lui permettre de retourner dans sa patrie S. M. auroit occasion d’etre satisfaite de sa conduite et de ses actions. Le Chevalier Ossorio en fit rapport à la Cour qui envoya une lettre de change à Mr. Radicati pour retourner dans le Piemont, mais étant arrivé a Bruxelles il changea de nom et fit mettre dans la gazette que le Comte de Passeran etoit mort en s’en allant à Turin. On aprit quelque tems après quil étoit en hollande, et il osa se presenter au Comte de Canal alors Ministre du Roi a la Haye, le prians de vouloir bien implorer son pardon resolu, disoitil, de mener d’or en avant une vie reglée et telle dont le Roi seroit content. Le Comte de Canal en écrivit a S. M. qui encore une seconde fois envoya de l’argent à condition que des quil seroit en Piemont il se rendroit lui méme dans un chateau pour y demeurer deux ans jouissant d’ailleurs de toute sa liberté possible. Cette peine etant due au public qui etoit informé de la maniere dont Mr Radicati avoit osé attaquer la religion, mais il ne voulut point accepter cet offre, et il mourut de misere en Hollande apres avoir fait imprimer cet ouvrage clandestinement, ce qui engagea le magistrat surintendent de police à le faire brùler par les mains de Bourreau».13 2. Nel contrasto, non privo di momenti di notevole asprezza, che da più lustri

vedeva contrapposti il suo sovrano e la curia romana, il giovane conte Alberto Radicati non aveva avuto esitazioni a scegliere la parte con cui schierarsi. Sapeva, dunque, benissimo dove stessero i suoi nemici. Anche perché, credendosi al riparo della protezione regale,14 fin dai primi anni venti, dall’epoca del suo ritorno da un

13 Foglietto ms. anonimo, vergato su fronte e retro, accluso alla copia del Recueil

custodita dalla Biblioteca Nazionale di Torino (Collocazione: DVI 81 Nodo di Savoia retro). I contatti epistolari con l’Ossorio da parte di Radicati sono noti e documentati; più interessante, ma difficile da controllare, il fatto che l’altrettanto documentato cambio di nome sarebbe avvenuto a Bruxelles, lungo il cammino che avrebbe dovuto apparentemente ricondurre Radicati in Piemonte, al pari del finto annuncio della sua morte fatto pubblicare sulla stampa.

14 Successivamente Radicati ripenserà a quei giorni come al periodo in cui «i piemontesi godevano di una dolce tranquillità e di una libertà quasi altrettanto grande di quella che vediamo tra i sudditi felici della Gran Bretagna: gli ecclesiastici schierati con la corte romana erano infatti o senza potere, o senza credito; e quelli che favorivano il nostro

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prolungato soggiorno in Francia probabilmente decisivo per la sua maturazione intellettuale,15 aveva dichiarato loro una guerra senza quartiere; e a corte e in società non aveva certo nascosto le sue opinioni decisamente oltranziste in merito all’abolizione di immunità e privilegi goduti da vescovi, abati, preti, frati, monache e dalle varie confraternite – le Compagnie del Rosario, del Monte Carmelo, della cintola d’Agostino, della corda di san Francesco… che Radicati rievoca nel suo VIII Discorso – ben impiantate nel Piemonte primo-settecentesco. La sua era una posizione di rottura anche nei confronti degli atteggiamenti tradizionali del suo casato che, nella resistenza contro la politica giurisdizionale del re Vittorio Amedeo II, disponeva di un rappresentante filocuriale del calibro del vescovo di Casale, Pietro Secondo Radicati, validamente affiancato nell’azione di resistenza al ridimensionamento del potere clericale, tentato dal sovrano sabaudo, da due suoi fratelli e un nipote, tutti ecclesiastici.16

Nella sua irruenza, sicuramente non priva di estremismi verbali, in più di un’oc-

casione il giovane Passerano era giunto a sfidare apertamente l’intervento dell’In-quisizione che lo aveva comunque adocchiato e, senza la protezione regale, non

partito erano uomini buoni e ragionevoli che odiavano mortalmente la Gerarchia Ecclesiastica, non attendendosi né vescovati, né lauti benefici. Queste persone oneste, sempre e ovunque, predicavano l’interesse del nostro grazioso Sovrano e tutti, in generale, avevano il permesso di impiegare i loro talenti nella difesa di una causa tanto buona». Cfr. infra, p. 66.

15 Può essere ragionevole congetturare che Radicati sia tornato dal soggiorno francese portando con sé numerosi testi che saranno per lui decisivi come le Lettres Persanes di Montesquieu, il Dictionnaire Historique et Critique di Bayle, il De la Sagesse di Charron, l’Histoire de l’Eglise di Basnage, Des mœurs des chrétiens di Fleury, l’Histoire des Iconoclastes di Maimbourg, i Nouveaux memoires de la Chine di Le Compte, la traduzione francese di H. Scheurléer e J. Rousset (comparsa nel 1714) del Discours sur la liberté de penser, écrit à l’occasion d’une nouvelle secte d’esprits forts, ou de gens qui pensent di Anthony Collins e forse anche una delle edizioni francesi del Trattato teologico-politico che, nella traduzione di Gabriel de Saint-Glen, con il falso luogo di edizione Amsterdam, circolavano fin dal 1678 sotto il titolo La clef du santuaire par un sçavant homme de nôtre siècle o come Traitté des ceremonies superstitieuses de juifs tant anciens que modernes o ancora come Reflexions curieuses d’un esprit desinteressé sur les matieres les plus importantes au salut, tant public que particulier.

16 Cfr. A.S.T., Corte, Materie Ecclesiastiche, cat. X. m. 1 da inv., Memoriali, alleganze ed altre scritture concernenti le contestazioni insorte tra il vescovo di Casale, ed il capitolo di quella cattedrale in dipendenza del rifiuto di esso capitolo di fornire i sacri arredi per una solennità – pel qual rifiuto erasi dal vescovo interdetto il capitolo medesimo. Con ragionamento dell’avvocato patrimoniale Caccia dimostrante l’ingiustizia e violenza di procedimento di detto vescovo, la nullità delle censure da esso fulminate e la sussistenza de’ rimedi economici con cui il senato aveva preso a proteggere il capitolo contro il superiore ecclesiastico, 1712, cit. in: M. T. SILVESTRINI, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato Sabaudo del XVIII secolo, Firenze, Olschki, 1997, p. 201. Sulla opposizione alla politica giurisdizionale di re Vittorio da parte del vescovo Radicati cfr. anche F. VENTURI, Alberto Radicati di Passerano, cit., pp. 17-18.

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avrebbe esitato a procedere nei suoi confronti, considerandolo un «ateo» pericoloso.17 L’approssimarsi del Concordato a cui il re di Sardegna da ultimo andava accedendo, affidandosi alle arti diplomatiche e alle capacità corruttive del marchese Carlo Vincenzo Ferrero d’Ormea, suo plenipotenziario nelle trattative con la curia romana,18 costituì per Radicati il segnale d’allarme che non gli lasciava altra via di scampo, se non una deliberata e pronta fuga verso una più libera capitale.

Per qualche tempo anche nell’esilio londinese Radicati, che era riuscito ad espatriare accompagnato in un primo tempo dalla seconda moglie, dopo aver monetizzato le sue rendite fondiarie (non ignorava che sarebbero state sottoposte a confisca), continuò forse a nutrire l’illusione che il re sabaudo avrebbe, nonostante tutto, anche potuto mutare d’avviso nei suoi rapporti con Roma, capire la sua intatta fedeltà, il suo zelo per la giusta vecchia buona causa, non abbandonandolo per sempre alla tribolata vita dell’esilio. Per questo il suo primo testo a stampa, il Manifesto di Adalberto Radicati conte di Passerano e Cocconato, aveva in realtà un solo destinatario: il re di Sardegna, appunto.19 A cui si trattava di spiegare le ragioni di una fuga che non significava in alcun modo diserzione dal campo di battaglia. Semmai, si trattava di un ripiegamento imposto dalle circostanze e consigliato addirittura dal Divino Maestro che i nemici del Passerano, coloro che di Gesù Cristo si presentavano come gli autentici eredi e seguaci, avevano malamente tradito. Al re sabaudo, infatti, Radicati nel Manifesto esponeva la «serie de’ miei infortuni […] le persecuzioni che ho sofferto in Piemonte, dalle quali sarei senza dubbio stato oppresso se la Bontà Divina non m’avesse fatto sempre sollevare dall’intatta giustizia di Sua Sagra Maestà: e benché io l’abbia in tante occasioni

17 Contro la facile etichettatura di «ateismo», praticata fin dai tempi di Mersenne e

Garasse, si vedano le parole appassionate di Radicati nel finale del I Discorso, infra, pp. 83-84. Nel IV capitolo della sua Histoire abregée de la profession sacerdotale, ancienne et moderne difendendo il distacco critico dei filosofi antichi nei confronti della religione del volgo, Radicati sosteneva che era ingiusto accusarli per questo di ateismo, affermando che «è ben più probabile ch’essi abbiano concepito orrore per queste opinioni così incompatibili con la natura del vero Dio, a causa di un’idea sublime che se n’erano fatta e non per negarne l’esistenza».

18 La ricostruzione più vivace delle trattative per il Concordato resta quella di D. CARUTTI, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Firenze, Le Monnier, 18632ed, pp. 434-475: «…il marchese d’Ormea dovette cercare gli appoggi suoi fuori del consesso porporato e li rinvenne in quei prelati domestici in cui il papa riponea la sua fiducia. Primo fra questi era monsignor Coscia, napoletano, uomo che possedea intera la grazia del papa e che se ne valea per accumular ricchezze e vendere i favori sovrani» (op. cit., p. 440).

19 Per la minuziosa analisi del Manifesto operata nel 1727 su incarico del re dai magistrati subalpini, che vi riscontrarono spunti «calvinisti», cfr. F. VENTURI, «Il ‘Manifesto’ del conte Radicati di Passerano» in: Rassegna Storica del Risorgimento, XLII, IV, 1955, pp. 639-651. La copia del testo conservata all’Archivio di Stato di Torino, Materie criminali, mazzo 28, fasc. 38 è stata pubblicata da F. VENTURI nell’antologia di scritti radicatiani da lui curata in Politici ed economisti del Primo Settecento cit. alle pp. 31-42.

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esperimentata, di modo che averei dovuto sempre in quella confidare, niente di meno ho temuto la perfidia de’ miei nemici, l’aggiustamento con Roma e per conseguenza la tirannica Inquisizione nella sua autorità ristabilita. Queste sono quelle cagioni tanto importanti che mi hanno fatto seguire l’avvertimento di Cristo: cum autem persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam».20 È la prima sua citazione da Matteo: come si vedrà, con il Luca del buon samaritano e del Gesù critico dell’istituto familiare, l’evangelista fondamentale nella ricostruzione della dottrina di Gesù presentata nei Discorsi.

Pur accampando gravi motivi di salute per declinare gli insistiti inviti che lo sollecitavano a un immediato rientro nelle terre sabaude – rassicurazioni verbali di cui l’esperienza gli aveva appreso a diffidare – anche nel nuovo ambiente inglese Radicati aveva tuttavia proseguito con tenacia e impegno il lavoro alla «materia ecclesiastica» iniziato in Piemonte su richiesta esplicita del re Vittorio che, a due riprese, l’aveva fatto convocare a corte.21 Da quegli incontri Radicati era uscito con il cuore gonfio di speranza, convinto di poter contribuire efficacemente a «delivrer ma Patrie du joug cruel des Ecclésiastiques». Tentato il ristabilimento dei contatti con Torino, Radicati a Londra trascorse, a quanto ci dice, sei mesi interi a comple-tare il suo lavoro,22 riversandovi tutto il bagaglio della sua straordinaria curiosità di geniale autodidatta, il frutto delle sue meditazioni dei classici (Livio, Tacito, Cicerone, Seneca, Lucrezio, Plutarco, Luciano), dei testi neotestamentari, delle sue appassionate letture di Machiavelli, Guicciardini, Sarpi, Muratori, degli storici della chiesa, dei Padri e del papato, da Platina a Basnage, a Barbeyrac, per non dire di Charron, Bayle, dei deisti e dei free-thinker inglesi e dei loro progenitori secen-teschi, Hobbes e Spinoza.

Sappiamo che per contorte vie diplomatiche, racchiuso in una cassetta accuratamente sigillata, il manoscritto contenente il frutto del suo lavoro giunse a Torino nell’autunno del 1728, accompagnato da una Lettera a Sua Maestà re Vittorio Amedeo II, inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati che il lettore può leggere tra i testi raccolti in Appendice. Al suo Principe, a colui che aveva infine conquistato ai Savoia l’agognata corona regale e aveva reimmesso lo Stato piemontese nel gioco della grande politica, anche al prezzo di cambiare continuamente alleanze e affrontare ripetuti scontri con la curia romana per affermare i suoi diritti sovrani, Radicati dedicava Dodici discorsi morali, storici e politici in cui aveva compendiato le ragioni non solo storiche e politiche, ma anche morali del suo impegnativo programma di declericalizzazione radicale del regno sabaudo. Se l’ultimo dei Dodici Discorsi presentava un dettagliato elenco di

20 Op. cit., p. 41. 21 Cfr. I motivi dell’Autore per scrivere questi Discorsi, infra p. 65. Sull'arte del re

sabaudo «di tirar lumi per sé e lasciar nelle tenebre i propri consultori», cfr. la Relazione dello Stato di Savoia (1743) di MARCO FOSCARINI, in Politici ed economisti del Primo Settecento cit. p. 234.

22 Cfr. I motivi dell’Autore per scrivere questi Discorsi, infra, p. 70.

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provvedimenti specifici di cui si consigliava al Sovrano l’immediata adozione,23 il loro incipit era costituito da una rilettura dei testi neotestamentari volta a mostrare come anche moralmente, e da un punto di vista tutto interno agli insegnamenti del Nazareno, risultasse non solo legittimo, ma doveroso da parte dello Stato abolire i privilegi di cui il clero si era storicamente impadronito, nel diuturno, sfrontato tradimento dei precetti e degli insegnamenti di Colui che la Chiesa presentava tuttavia come suo divino fondatore.

È conservata anche la risposta che pervenne, tempestiva, da Torino. Era consegnata a un laconico biglietto regale – di fatto il bando perpetuo dalle terre dei Savoia – indirizzato al Marchese Seyssel d’Aix, ambasciatore della corte sabauda a Londra. Sotto la data «20 novembre 1728 dalla Venaria» vi si leggeva:

«Le Comte Maffei nous a fait tenir la Cassette qui vous avoit été remise par le Comte Passeran. Vous dirés à celui cy qu’en y trouvant les papiers qu’elle contenait nous avons desapprouvé au dernier point sa temerité de nous adresser une ouvrage de cette nature, qui le rend indigne de notre protection, et vous lui declarerés que vous avéz ordre ainsi que nous vous le donnons de ne point l’admettre chez vous, ni d’avoir aucun commerce avec Luy».24

L’ambizione radicatiana di poter essere al fianco di un re deciso a imporre alla

curia romana in un primo tempo quanto meno una politica «gallicana» anche sulle sue terre piemontesi, e non solo nel Nizzardo o in Savoia, per poi essere il primo, in Italia, a «scacciare gli abusi che si sono dopo tanti secoli introdotti nella cristiana religione», svaniva di fronte a un monarca ormai stanco di guerre e controversie. Il sovrano che lo dichiarava indegno della sua protezione, era ormai lo stesso che accettava con Roma l’ennesimo compromesso. Né forse il Radicati ignorava che per negoziarlo e condurlo felicemente in porto l’Ormea non solo si era presentato ginocchioni ogni mattina col rosario in mano alla messa pontificia, ma oltre alle tangenti indispensabili per manovrare con efficacia nelle trattative con il cardinal Coscia, aveva sollecitato al monarca anche l’invio al papa di qualche preziosa reliquia, possibilmente custodita in un non meno prezioso reliquiario.

Per Radicati, in ogni caso, la risposta giunta dalla Venaria Reale significava la fine del sogno di contribuire, a fianco del monarca, a una riforma morale e

23 Cfr. XII Discorso, infra, pp. 213-221. In sostanza Radicati voleva che fosse il Principe

a disporre di vescovati, parrocchie ed abbazie; il numero dei monaci e dei preti, fissato pregiudizialmente, doveva essere gradualmente ridotto; i beni ecclesiastici dovevano diventare proprietà dello Stato che li avrebbe assegnati ai nobili e ai comuni, abolendo l’esenzione dalle imposte; ai preti doveva essere tolto ogni potere e non si doveva concedere loro di celebrare messe a pagamento, sotto pena di condanna per simonia. Ai Gesuiti si proibirà di tenere scuole, l’Inquisizione sarà abolita, con le confraternite e il maggior numero delle feste religiose. Il principe si servirà della confessione come di una specie di istituto di propaganda tra i sudditi e sarà il Principe, a cui toccherà il primario compito di istituire scuole decorosie, a prendersi cura dei poveri a spese dello Stato con i beni tolti alla Chiesa.

24 Cfr. A. ALBERTI, op. cit., p. 145.

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intellettuale dispoticamente promossa e imposta dall’alto. Il giovane conte che, senza alcuno scrupolo liberale, aveva progettato la sua opera tutta in funzione dell’azione di un monarca assoluto di cui ben conosceva i tratti machiavellici, gli spunti autoritari e dispotici, ma che si era illuso fossero indirizzabili primariamente nella lotta contro i privilegi e gli abusi clericali,25 ai suoi Discorsi doveva ora trovare uno sbocco diverso perché i suoi pensieri non fossero stati meditati invano. Tutte le sue cure d’ora in avanti saranno volte a rendere di pubblico dominio uno scritto respinto con sdegno al mittente da colui che era stato pensato come il suo vero e unico destinatario. Infatti se nelle arretrate terre sabaude di opinione pubblica non c’era traccia se non marginale, l’Inghilterra di Re Giorgio e di Walpole con i suoi editori, i suoi pamphlet e i suoi giornali andava rivelando al Passerano di possederne una vivace e ogni giorno più rumorosa e, sia pur con alti e bassi, a suo modo influente.

L’idea di rivolgersi a questo nuovo destinatario gli era del resto già balenata alla

mente durante le snervanti trattative condotte per far pervenire a Torino il manoscritto dei Discorsi senza essere costretto a portarlo di persona, con il rischio di finire, se non tra le mani dell’Inquisizione, in una di quelle oubliette presenti nelle carceri di Ceva e Miolans della cui esistenza – addentro com’era agli arcana imperii – doveva essere informato.26 Era una risoluzione che aveva brandito come una minaccia nella lettera indirizzata al Marchese d’Aix il 24 luglio 1728 dal suo domicilio londinese di St. Martin Count:

«Excellence – si leggeva nella lettera citata – J’aurois deja eu l’honneur d’aller asséurer de mes respects vôtre Excellence, si je n’avois été toujours fort indisposé, pour la prier en même tems de me dire si elle n’auroit point receu de reponse de la part du Roi, au sujet de la cassette que se doit lui envoyer, et si V. E. croit qu’elle ne poura pas parvenir entre les mains du Roi, sans que je la lui porte moi-même; car en

25 Radicati condivide con Giannone, il marchese Gorini, il conte Gorani – autore tra

l’altro di un testo significativamente intitolato Del vero dispotismo, Londra [i. e. Milano] 1770, questa fiducia nel potere determinante di un capo fatto arbitro supremo nelle svolte determinanti. Pur facendo proclamare al suo Gesù legislatore la perfetta democrazia più egualitaria e criticando, per bocca di Algernon Sidney, la monarchia, ancora dall’Olanda continuerà a dedicare i suoi Discorsi, sia pure senza previa autorizzazione, alla testa coronata di Carlo di Borbone.

26 «Il y a dans les Châteaux de Miolans en Savoie et de Ceva en Piémont des endroits nommés oubliettes ou chambres secrettes, où les gent sont mis à mort par l’ouverture subite d’un plancher sous ceux qui les précipitent dans une espece de puits où il y a des engins tranchans qui les dechirent en pieces, on fait géneralement des executions de cette nature dans les Païs arbitraires sur les personnes que l’on ne veut pas admettre à leur faire leur procès» in: ANECDOTES de l’ABDICATION du Roy de Sardaigne Victor Amedée II, ou l’on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce Prince à resigner la Couronne en faveur de son Fils Charles-Emmanuël à present Roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons & les intrigues secretes qui l’ont porté à entreprendre son rétablissement. Par le Marquis de F***** Piémontois, à present a la Cour de Pologne, en forme de Lettre écrite au Comte de C*****, à Londres, MDCCXXXIII, p. 50, nota a.

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ce cas je lui déclare que je ne crois pas d’être jamais en état de le faire; Parceque si mon indisposition augmente, comme il y a toute apparence, je serai bien-tot à la fin de tous mes malheurs, et j’aurai la satisfaction de quitter une vie qui m’est à charge, dans un pais de liberté hors de la puissance de mes ennemis; mais ce n’est pas le tout que de mourir; mais c’est, que si je ne puis pas faire tenir au Roi la cassette en question, je veux avoir la consolation d’en faire imprimer le contenu, afin que tout le monde apprenne, ce que je n’avois envie d’apprendre qu’à mon Prince, si l’on m’en avoit donné les moyens. Je fais sçavoir a V. E. mes derniers sentiments afin qu’on ne me reproche pas dans la suite d’avoir fait une chose qui deplait au Roi; car mon intention n’étoit pas de la faire, si l’on ne m’y avoit obligé; en tous cas le Roy ne s’en prendra pas à un mot, mais il pourroit bien s’en prendre à ceux qui m’avroient empeché de faire mon devoir. Je prie V. E. de me pardonner la liberté que je me prens, et de me croire avec respect, De Vôtre Excellence ecc.».

27

La risposta giunta dalla Venaria reale esigeva ora che la minaccia ventilata si

traducesse in atto. 3. Nonostante le accurate ricerche di Venturi, Berti, Tortarolo molto, certamente la

più parte, ci sfugge della vita in esilio di Radicati a Londra e poi in Olanda. Sappiamo che da Torino, per lo meno in alcuni momenti, lo si fece discretamente sorvegliare, se all’indomani della pubblicazione della sua cronaca della Abdicazione di Re Vittorio, l’ambasciatore Ossorio poteva riferire all’Ormea che il Passerano in un caffé londinese aveva avuto la sfrontatezza di lasciarsi sfuggire che se Carlo Emanuele III, il nuovo Re, non lo avesse trattato meglio di suo padre, «il ne l’epargnera pas non plus», non avrebbe risparmiato neppure lui.28

Dal nome del traduttore inglese della sua Dissertazione filosofica sulla morte, il poligrafo Joseph Morgan, possiamo congetturare che il conte fosse entrato relativamente presto in contatto con ambienti massonici e deisti e che massoni fossero quei «compagnons» di cui parla un’altra lettera dell’Ossorio che sarà citata in nota per esteso più avanti. Sappiamo infatti che, tornato in Inghilterra dall’Algeria e dalla Tunisia dove aveva trascorso più di tre lustri, Joseph Morgan faceva capo alla loggia presieduta da Carlo, secondo Duca di Richmond e Lennox, la «worthy Fraternity» ch’egli celebra nella dedica del suo Phoenix Britannicus stampato a Londra nel 1731.29 Ed è facile constatare che gli editori Mears e

27 Cfr. ALBERTI, op. cit., pp. 140-41. 28 Cfr. ALBERTI, op. cit., p. 148. 29 Si può congetturare che il massone Joseph Morgan, possa essere il traduttore, non solo

della Philosophical Dissertation upon Death, ma anche dei Discorsi. In tal caso sarebbe lui ad avere avuto la confidenza di cui si parla nella nota al testo della versione inglese de I motivi dell’Autore per scrivere questi Discorsi, cfr. infra, p. 65, n. 120. Sulla sua attività di poligrafo cfr. F. VENTURI, op. cit. p. 209, n.1. Sui suoi interessi per il mondo musulmano cfr. A. THOMSON, «Joseph Morgan et l’Islam» in Dix-hiutieme siècle, n. 27, 1995, 349-363.

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Wilford, che pubblicavano lavori di Morgan e dei deisti inglesi, sono stati anche gli editori di Radicati. Pur se eventualmente aiutato e consigliato, l’impresa di riuscire a stampare integralmente il manoscritto dei Discorsi non fu comunque impresa agevole. Trascorse infatti oltre un lustro fra la risoluzione di dare alle stampe l’opera sdegnosamente respinta dalla corte sabauda e la data effettiva della sua pubblicazione integrale. Essendo risultato finora malauguratamente introvabile negli archivi torinesi il manoscritto inviato a Re Vittorio Amedeo II, è impossibile ricostruire le modifiche eventualmente apportate in seguito, nella fase della sua preparazione per la stampa, anche se una possibile spia del lavoro di revisione sicuramente effettuato ci è fornita dalle varianti tra edizioni inglesi ed edizione «francese», dedicata ancora una volta come il manoscritto originario a una testa coronata. Il carattere più moderato dell’edizione «francese», che non contiene i clamorosi prestiti da Spinoza (Discorso X) e da Charron (Discorso XI) e utilizza costantemente superstition, là, dove le edizioni inglesi parlano disinvoltamente di «religion», parrebbe indicare una sua maggior aderenza al manoscritto originario. Se ho visto bene, Radicati continua in ogni caso a ritoccare il suo lavoro ancora dopo la pubblicazione del I Discorso e dell’indice dell’opera in Christianity set in a true light: per lo meno il suo elogio – ricavato da Voltaire – di Pietro il Grande nell’XI Discorso deve infatti necessariamente essere posteriore alla data della pubblicazione della prima edizione della Histoire de Charles XII, roi de Suede, apparsa in due tomi con l’indicazione «Basle» (Basilea), per i tipi dell’editore Christophe Revis nel 1731.

Forse già provato dai primi attacchi di quella tisi che ne minerà il fisico e lo

condurrà a morte prematura, Radicati era impaziente di vedere stampati i suoi

Tra i suoi lavori vanno citati almeno Mahometism fully explained, 2 voll. (Londra, Mears, 1723-1725; notando che Mears sarà nel 1732 l’editore della radicatiana Philosophical Dissertation upon Death); A complete history of Algiers to which is prefixed a general history of Barbary, Londra, Bettenham, 1731; Phoenix Britannicus: Being a Miscellaneous Collection of Scarce and Curious Tracts, Londra 1732 edito da T. Edlin e J. Wilford (quest’ultimo editore dei Discorsi radicatiani del 1737). Sempre nel 1732 da Mears A compleat history of the present seat of war in Africa between the spaniards and algerines. Si tenga presente ancora che l’editore Mears aveva dal 1724 in catalogo e in vendita al prezzo di 6 scellini The Theological and Philological Works of the late John Toland, being a System of Jewish, Gentile, and Mahometan Christianity. viz. 1. The true History of the antient Gospel of Barnabas, to whom is attributed the modern Gospel of the Mahometans; which last is now made known among Christians; 2. The Original Plan of Christianity, explain’d in a History of the Nazarenes; with a full Refutations of the Cavils of Dr.Maugey on the subject. 3. A Summary of the antient Irish Christianity, and the Reality of the Keldees (an Order of Lay-Religion); 4. The Pillar of Cload and Fire… proved not to be a Miracle; 5. The history of Hypatia, a most Beautiful Virtuous and Learned Lady, who was torn to Pieces by the Clergy of Alexandria to gratify the Pride, Emulation and Cruelty of their Archibishop (undeservedly stiled) St. Cyril; 6. An Essay upon the Philosophy of the Antients: with a collection of Problems, Historical, Political and Theological concerning the Jewish Nation and Religion.

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Discorsi che ora intendeva dedicare to all Lovers of Truth and Liberty, e non più solo a un monarca visibilmente indisponibile a prendere in qualche modo in considerazione l’audace riforma prospettatagli. È dunque un Radicati disilluso, sconfitto, ma assolutamente non piegato e remissivo il Radicati che esordisce sul mercato librario londinese, facendo stampare dall’editore John Peele, editore anche dei deisti John Trenchard e Thomas Gordon,30 un piccolo opuscolo che conteneva, insieme con l’indice generale – quasi una sorta d’assaggio – solo il primo dei Discorsi, «Of the Precepts, and Manners of Jesus Christ».

Nel più che probabile tentativo di sfruttare lo scalpore destato dalla recentissima pubblicazione di Christianity as old as the world, or the Gospel, A Republication of the Religion of Nature, la «bibbia» del deismo inglese, Radicati finì con l’intitolare molto tindalianamente il suo opuscolo Christianity set in a true light in XII Discourses Political and Historical. Il carattere perfettamente tindaliano del titolo non risultava solo dal calco dell’incipit Christianity, ma anche dalla ripresa della stessa locuzione Set in a true light, anch’essa presente in un precedente scritto tindaliano, il pamphlet, pubblicato dall’editore J. Roberts a Londra nel 1717, The Defection consider’d, and the designs of those, who divided the friends of the Government, set in a true light. Del resto nel catalogo dei titoli «deisti» il lettore inglese non poteva aver dimenticato troppo facilmente la Christianity not misterious stampata da Toland nel 1706.

Trovato un traduttore, Radicati che poneva ad exergo del suo Primo Discorso i versetti di Matteo (VII, 15-16) – «Beware of false prophets, which come to you in sheeps cloathing, but inwardly they are ravening wolves. Ye shall know them by their fruits» – si presentava dunque all’opinione pubblica inglese nelle vesti deiste di un «filosofo pagano convertito di recente», provando ad accattivarsi, sulle orme dello Swift di A Tale of Tube, la benevolenza del pubblico dei lettori anglosassoni con l’ironico-grottesco racconto autobiografico inserito nel Preliminary Discourse che finiva per costituire la sostanza dell’opuscolo. Come gli accadrà più volte nella sua carriera letteraria, prima di trovarsi costretto, nel suo racconto ad aderire al «paganesimo moderno», alla religione cattolica professata in «Ausonia», Radicati indossa panni musulmani, quasi a riprendere la saggezza di Montaigne che sapeva di essere cristiano perché perigordino: per la circostanza storicamente e culturalmente inevitabile per cui ognuno nasce della religione del suo paese o del suo clan e l’importante è uscire di tutela e giungere ad orientarsi autonomamente nel pensiero e nella vita.31

30 Radicati ne l’Historie abregée cit. parla di Gordon quale autore dell’Independent

Whig, un foglio volante che usciva settimanalmente come lo Spectator o il Craftsman e che avrebbe guidato «l’assalto alle difese della religione», ricordando a fronte del pericolo che si correva scrivendo contro la religione ai giorni di Serveto, Vanini, Hobbes e Spinoza, la fortunata eredità di 12.000 sterline lasciata a Gordon, finanziariamente in brutte acque, da parte di un anonimo ammiratore dei suoi scritti.

31 Radicati nei Discorsi cita esattamente questo Montaigne, anche se indirettamente, attraverso il De la Sagesse di Charron. Cfr. Discorso XI, infra, p. 203.

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Raccontata l’avventurosa cattura subita in mare durante il pellegrinaggio alla Mecca in compagnia del vecchio padre, narrato l’approdo a «Taurasia» dove, nonostante la tenera età, non gli viene lasciata altra via di scampo se non l’immediata conversione alla «moderna religione dei cannibali», al cattolicesimo che, con il concilio di Trento, aveva fatto della transustanziazione, della presenza reale e delle processioni del Corpus Domini lo shibboleth degli autentici seguaci di Cristo, Radicati ci presenta le tappe della sua liberazione dal conformismo acritico a cui dervisci, hodgia, kadilesker, santoni bianchi e neri, sotto la guida del Muftì regnante, erano interessati a vincolarlo.

Non insisto oltre su questa curiosa pièce autobiografica virulentemente anticat-tolica che il lettore può leggere in Appendice a questa edizione dei Discorsi. Mi limito a segnalarne gli accenni anabattisti e antitrinitari che compaiono là dove il narratore evoca l’«occulta qualità dell’acqua» versatagli sul capo a renderlo un pagano moderno, «ancor prima che io avessi la sia pur minima conoscenza dei princìpi della religione pagana». Gli strali più acuminati sono riservati comunque al Gran Muftì-Vice-Dio, lasciato in terra dal Secondo Essere della divina trinità pagana, «con un potere illimitato di fare e disfare quanto riteneva opportuno» e al rigoroso divieto d’esame delle sacre scritture che la gerarchia clericale post-tridentina imponeva ai laici condannando al rogo le traduzioni in volgare della Bibbia: «I pagani non debbono consultare il loro Corano, perché essendo pieno di passi oscuri, dubbi e assolutamente incomprensibili, essi avrebbero potuto facilmente confondersi e perdersi in ricerche infruttuose; essi debbono piuttosto attenersi alle sacre decisioni del Vice-Dio o Muftì regnante che è familiare non solo con la volontà dei semidèi e degli idoli, ma anche con la volontà del grande Dio, ovvero dei tre esseri divini, e che non potrebbe errare, anche se lo volesse, essendo infallibile».32

Proprio la lettura diretta dei Vangeli, predicata dai protestanti, e prima di loro da Erasmo, a cui il narratore perviene dopo la scoperta dell’impostura connessa al presunto carattere miracoloso di un’immagine della Vergine che i «santoni bianchi» speravano di rendere altrettanto fruttuosa quanto l’immagine della Diva Consolatrix grande protettrice di Taurasia, gli rivela con chiarezza che

«la religione pagana che io avevo professato non era la stessa che il secondo Essere Dio-uomo aveva dato agli uomini, e che i preti avevano adulterata e stravolta per forgiarne una nuova che non si opponesse (come faceva quella di Cristo) alla loro avarizia, ambizione e vendetta, caratteristiche inseparabili da quasi tutti i preti del mondo. In una parola, capii che gli hodgia proibivano la lettura dei libri sacri per timore che la loro frode venisse scoperta, seguendo in questo l’esempio del nostro falso profeta il quale, affinché i suoi seguaci non potessero scoprire le sue imposture, proibì furbescamente che si applicassero alle scienze, ben conoscendo

32 Cfr. Discorso preliminare in cui l’Autore fornisce i motivi della sua recente

conversione, infra, p. 237. Per la posizione della Chiesa cattolica nei confronti delle traduzioni delle Scritture, cfr. G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, Il Mulino, 1997. Si veda inoltre S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

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che l’ignoranza è la madre della superstizione».33

Narrando il cammino che segna la sua fuoriuscita dalla minorità e l’acquisizione di un uso critico e autonomo della ragione, Radicati ci dice di aver accolto con favore l’istanza protestante del libero esame, al pari della tematica antigerarchica del sacerdozio universale. Ma, come deplora le divisioni settarie dei «purificati» (i protestanti),34 che hanno favorito la sopravvivenza del gran Muftì di Mavortia (il pontefice di Roma), così non condivide la bibliolatria riformata, dove un libro morto rischia di coprire il libro vivente della natura. Egli ha cura, infatti, di distinguere nettamente tra i passi biblici che più affidabilmente ci trasmettono l’insegnamento del Nazareno e una degna concezione della divinità, dai luoghi biblici, sia vetero-, sia neo-testamentari che fanno troppo umanamente di Dio un tiranno spietato, ignorante e crudele inconfondibilmente simile ai suoi creatori umani. In terra inglese tra le comunità dei «purificati» evidentemente Radicati non può che elogiare gli anglicani, che pur conservando vescovi e clero, si sono sbarazzati del Gran Muftì e operano sottoposti al controllo del sovrano civile. Anche su suolo inglese Radicati non esita comunque a rivendicare per sé e per tutti «la libertà di giudicare da sé», un diritto di cui nessuno può legittimamente essere privato, non esistendo uomini dotati di un’assoluta infallibilità. «Dal momento che nessun uomo è infallibile, a ognuno va lasciato il suo diritto naturale ad esaminare liberamente tutte le materie di fede. Perché se le sacre scritture sono i testimoni che si producono nelle dispute religiose, il giudice è la ragione».35

Facendo uso della propria ragione, dell’esperienza e della cultura accumulata,

Radicati è convinto di avere trovato verità importanti per la sua e l’altrui felicità. Per questo vuole renderle accessibili al dibattito della pubblica opinione. Ai mullah, cadì e hodgia protestanti non chiede di risparmiargli eventuali critiche. Non ignora le tempeste che può sollevare la sua critica dell’istituto familiare, il comunismo dei beni e l’egualitarismo della «perfetta democrazia» predicato dal Gesù Cristo restauratore della religione naturale ch’egli presenta sia nei Discorsi,

33 Cfr. infra, pp. 249. 34 Nella versione inglese del IV Discorso Radicati identifica la ragione delle divisioni

settarie tra i cristiani nella «teologia» che aveva diviso già gli apostoli (per es. sul rapporto fede/opere) e scrive: «Ora è innegabile che gli apostoli edificando la religione su fondamen-ti vari e diversi hanno causato l’emergere di un numero infinito di contrasti e scismi all’in-terno della repubblica cristiana, da cui essa è stata e sicuramente sarà sempre sconvolta se non accantona le speculazioni misteriose o incomprensibili della teologia e non si attiene pienamente a quelle santissime e semplicissime regole che Cristo ci ha insegnato e che sono molto facili da osservarsi, essendo le stesse di quelle della natura, come egli stesso ci ha detto, affermando: “Venite a me, voi tutti che siete travagliati, ed aggravati ed io vi alleg-gerirò”, “togliete sopra voi il mio giogo, ed imparate da me ch’io son mansueto, ed humil di cuore, e voi troverete riposo all’anime vostre. Percioche il mio giogo è dolce, e ‘l mio carico è leggiere” e non gravoso e insopportabile come quello degli uomini crudeli e ambi-ziosi». Cfr. infra, p. 116.

35 Ivi, p. 250.

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sia nel successivo Parallelo tra Nazareno e Licurgo. Non rivendica per sé un’infal-libilità che non concede agli altri, ma chiede che le eventuali critiche e correzioni siano avanzate senza acredine e cattiveria. Cristianamente, «con carità, mitezza ed equità come in simili occasioni il nostro santissimo legislatore ci ha comandato di fare (Mt. 18, 21 e ss.): perché nulla è più vile, indegno e scandaloso, più contrario agli autentici principi della vera religione purificata del disprezzo, della calunnia, degli appellativi odiosi e della persecuzione di coloro che lavorano giorno e notte per scoprire la verità, seppellita nel nero abisso degli errori e delle superstizioni».36

4. Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Christianity set in a

true light, sempre pensando a come pubblicare nella loro integralità i Discorsi, Radicati non lascia inattiva la sua penna da cui spera, anzi, di ricavare qualche risorsa economica. Nel corso del 1732 pubblica il testo suo che avrà in tutta Europa la diffusione più ampia e il maggior numero di edizioni e, in ambito piemontese, anche una parallela circolazione manoscritta: la cronaca dei retroscena connessi alla recente abdicazione di Vittorio Amedeo II e al successivo infelice tentativo di risalire sul trono, un opuscolo non privo fin dall’incipit di spunti autobiografici che ci rivela come, anche dall’esilio, il suo occhio continuasse ad essere puntato sul Piemonte e come anche da Londra riuscisse comunque a intrattenere contatti con ambienti in grado di fornirgli notizie riservate. Sempre nello stesso anno dà alle stampe il suo testo più radicale e controverso, A philosophical dissertation upon death. Composed for the consolation of the unhappy. By a friend to truth: un elogio della vita e della natura benefica e provvidente che è al contempo un’impegnativa apologia del suicidio e dell’eutanasia sulla scorta di spunti rintracciati nelle Lettres Persanes di Montesquieu e nei Gulliver’s Travels di Swift e, infine, un Parallelo tra Maometto e Mosè,37 sostanzialmente più favorevole al primo che al secondo, pur rientrando entrambi, ad avviso di Radicati, nella categoria libertina degli «impostori» che della religione si sono avvalsi come instrumentum regni.

Al di là della polemica tardo-libertina sul motivo dell’impostura religiosa, l’ele-mento centrale dello scritto, che si presenta come una lettera di un musulmano a un rabbino ebreo, è ancora una volta la ferma rivendicazione del diritto a esaminare le credenze religiose alla luce della ragione, la libertà di coscienza e di pensiero. Lo scandalo destato da queste pubblicazioni, in particolare dalla Dissertazione, che provoca l’insistito intervento del vescovo Gibson presso le autorità giudiziarie inglesi, lo porta sia pure temporaneamente in carcere, da cui lo libera comunque il pagamemento di una forte somma a titolo di cauzione: con ogni probabilità il colpo definitivo assestato allo stato già precario delle sue finanze. Commentando l’acca-duto in una missiva al Marchese d’Ormea, eminenza grigia anche del nuovo re

36 Ivi, p. 251. 37 Per un’edizione recente italiana del Parallelo citato, cfr. A. RADICATI, Vite parallele,

Sestri Levante, Gammarò, 2006 (prima ristampa settembre 2007), pp. 1-27.

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sabaudo, l’ambasciatore Ossorio poteva permettersi a sua volta di ironizzare sul fatto che il Conte di Passerano, salvatosi dall’Inquisizione piemontese, aveva avuto l’abilità di far nascere «une Inquisition exprès pour lui en Angleterre».38

L’esperienza dell’«Inquisizione» anglicana, non facilitò il successo della sotto-scrizione, lanciata il 4 novembre del 1732 dalle pagine del settimanale londinese Craftsman, allo scopo di raccogliere le ghinee destinate a pubblicare i Discorsi «in un volume in 4°, su carta reale e in bel carattere». Già di per sé l’idea della sottoscrizione era manifestamente un segno della penosa situazione economica e sociale dell’esule. A ricorrervi a quel tempo erano solo gli scrittori personalmente privi di risorse e della protezione di qualche mecenate, di norma celebrato nella Dedica. La Bibliothèque raisonnée des ouvrages de savans de l’Europe che, con ogni probabilità per la penna del biografo di Bayle, Pierre Desmaizeux, aveva rilanciato la sottoscrizione nel suo primo numero del 1733 in coda a un’ampia e obiettiva recensione della Dissertazione filosofica,39 nell’annunciare il fallimento del progetto, in un successivo fascicolo dell’anno seguente, poteva comunque segnalare con tempestività l’avvenuta pubblicazione dei Discorsi, anche se in una più modesta edizione in 8°, in vendita al prezzo di tre scellini e sei soldi.

La prima edizione completa dei Discorsi era infatti finalmente uscita a Londra

per i tipi dell’editore John Martin nel febbraio del 1734. Dedicata to all Lovers of Truth and Liberty e intitolata Twelve Discourses concerning Religion and Govern-ment non recava il nome dell’autore, ma soltanto le iniziali «A. C.-s». Come nel caso del titolo tindaliano di Christianity set in a true light, la sigla citata poteva essere forse un espediente editoriale per suggerire al pubblico inglese che l’opera in vendita presso i librai di Londra e Westminster fosse uno scritto postumo del

38 23 Cfr. ALBERTI, op. cit., p. 151. Il testo della lettera nella sua interezza suona: «Le

Conte de Passeran qui s’est sauvé de Piemont pour se dérober aux poursuites de l’Inquisition a été assez habile pour faire naitre une Inquisition exprès pour lui en Angleterre. Il a composé et publié une brochure dans la quelle ayant ramassé et pillé ce que des malheureux Auteurs ont pretendu enseigner devant lui il y repete d’une maniere si grossiere et si infame que les hommes ne sont que de machines, qu’il n’y a point une vie eternelle, qu’il n’y a dans le monde rien d’honnete rien de malheureux, rien de juste ni d’injuste, que ce n’est que l’education qui nous donne des pretentions et des prejugez sur le bien et le mal moral, et qu’enfin non seulement il est permis de se tuer quand on est las de vivre ou qu’il nous arrive des adversités mais que l’on doit même en ces cas là se donner la mort pour agir en gens sensées et raisonnables, que le Juges civiles et Ecclesiastiques indignez de voir precher si grossierement des maximes qui non seulement sont contre la Religion et le Gouvernement Civil, mais aussi contre toutes les regles de la societé humaine ont jugé à propos de le faire arretér ensemble avec un de ses compagnons qui l’a aidé a mettre cette piece en bon Anglais, et veulent le faire juger à la rigueur des loix; ce qui a porté plusieurs Gazettiers ici d’imprimer sur son compte dans leurs papiers que voilà une belle occasion au Conte Passeran de confirmer la doctrine par la pratique, et que s’il ne le fait point, le monde le regardera comme un fripon et un imposteur».

39 Se ne può leggere la traduzione italiana che ne ho dato in Appendice a A. RADICATI, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, 2003, pp. 195-98.

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famoso freethinker Anthony Collins, deceduto pochi anni prima, nel 1729. È una congettura già avanzata nel Settecento da una rivista tedesca, e poi dallo

studioso del deismo Leslie Stephen, non sfuggita alle instancabili ricerche di Franco Venturi, che pure la riteneva giustamente poco plausibile, non avendo in vita il Collins pubblicato nulla sotto il suo vero nome.40

Tuttavia, sempre nel 1734, pochi mesi dopo, con una diversa copertina ma con gli stessi fogli di stampa, i Discourses, di cui si precisava ora essere stati scritti by Royal Command, ricomparivano nelle librerie londinesi in una seconda edizione «printed for the author» recando stavolta ben in vista il nome «Albert Count de Passeran». È possibile, comunque, che già a questa data Radicati avesse lasciato la capitale inglese per spostare il suo domicilio in Olanda.

Una lettera al nuovo re di Sardegna, Carlo Emanuele III, datata Londra 15 maggio 1733, nell’annunciare l’imminente pubblicazione dell’opera inviata a suo tempo al re Vittorio, aveva supplicato umilmente Sua Maestà «di farmi sapere se mi vuole concedere di pubblicarla e di dedicargliela, dopo però che l’averò, a piacere di Vostra Maestà, corretta ed alterata»,41 in un estremo tentativo di riannodare i rapporti con la corte sabauda, dove forse, nonostante l’indignazione del cavalier Ossorio, non mancava chi aveva visto con favore la Storia dell’Abdicazione di Re Vittorio che al pubblico europeo aveva presentato la figura del nuovo sovrano in termini decisamente positivi, giustificando pienamente il suo comportamento nella vicenda della drammatica incarcerazione del padre nel castello di Rivoli e poi di Moncalieri. Da Torino ci si limitò a respingere la lettera al mittente.

Sarà un’altra testa coronata, Carlo di Borbone, re delle Due Sicilie, il dedica-

tario della versione francese dei Discorsi che Radicati pubblicherà nell’ultima tappa del suo esilio in Olanda nel 1736. Questa dedica comparirà anche nella terza edizione inglese dell’opera, l’edizione Wilford del 1737, che ho utilizzato quale testo base per questa mia versione, tenendo al contempo presente l’edizione pubbli-cata nel Recueil dell’anno precedente. Il lettore può leggervi l’ultimo appello di Radicati a un Principe affinché liberi l’Italia da quell’ostacolo frapposto sulla via della sua unità costituito, come aveva ben visto lo sguardo mariuolo ma acuto del Segretario Fiorentino, dalla presenza sul suolo della Penisola di quel «Patrimonio di Pietro» – lo Stato Pontificio, nel primo Settecento tra l’altro pessimamente

40 «Le lettere A. C. s, usate nel titolo per indicare l’autore, possono significare o Albert

Cocconas o Albert Comte de Cocconas; sembrano però essere state scelte deliberatamente per far supporre a quegli inglesi che guardassero lo scritto ch’esso proveniva da Ant. Collins ed era un’opera postuma del medesimo». Nachrichten von einer hallischen Bibliothek, Halle, Zwölftes Stück, dicembre 1748, pp. 543, cit. in: F. VENTURI, Saggi sull’Europa illuminista, cit., p. 221.

41 Cfr. Lettera a Carlo Emanuele III, in Appendice, infra, pp. 254.

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governato e ancora nel 1735 visitato dalla carestia – che già Erasmo a suo tempo aveva ricordato «Pietro in persona si era vantato di non possedere».42

L’edizione Wilford che reca il titolo di Twelve Discourses Moral, Historical and Political. By Albert count de Passeran. To which are prefixed the Author’s motives for writing these discourses; for which his Estate and whole Substance were confiscat’d and himself condemn’d to be burn’d alive, benché si dicesse «faithfully English’d from the French, just Printed at Rotterdam», pur presentando come sua peculiarità un prezioso «Indice delle materie», per paginazione, capilettera e caratteri di stampa era ancora una volta la ripresentazione dei fogli delle prime due edizioni già stampate nel 1734, evidentemente rimaste invendute in qualche magazzino londinese. Anch’essa, come le precedenti edizioni inglesi, recava di fronte al titolo una vignetta certamente cara al Passerano che la vorrà riprodotta ancora nel Sermon preché dans la grande assemblée des quakers de Londres che pubblicava in versione francese, con poche varianti, il III Discorso delle edizioni inglesi, ovvero il Discorso in cui le due versioni dell’opera si discostavano maggiormente tra loro. La vignetta raffigura una nuda Veritas in atto di porgere la mano alla Giustizia, sfuggendo all’abbraccio di un satiro alato. Un Simulachrum Antichristi, la statua d’un vescovo mitrato, vacilla e sta ormai per cadere, serrando nella destra un’ascia e una lunga catena, nella sinistra un libro su cui sta scritto: Modus propagandi Fidem. Non proprio tramite libertà di coscienza e autonoma adesione individuale. Sullo sfondo stanno fuggendo Superstitio e, ben provvista di attributi asinini, Ignorantia. Quest’ultima con la mano sinistra ancora brandisce due libri di cui si distinguono i titoli: Talmud e Koran. In alto, con le sue braccia aperte, un putto sorregge il cartiglio con l’inscrizione: Vexat dum fulget. Lo splendore della verità, come traduce perfettamente Franco Venturi, è indisgiungibile dal suo scuotere le coscienze e cacciarne i demoni e i pregiudizi che le opprimono.43

5. Nell’accenno fatto finora alle fonti essenziali utilizzate dal Passerano nella

stesura dei Discorsi, nonostante l’elenco indicato non fosse breve, come non ho parlato delle sue svariate letture riguardanti il mondo islamico (che più che per i Discorsi hanno rilevanza per il travestimento musulmano del Discorso preliminare che apriva Christianity set in a true light e che, successivamente, verranno più largamente mobilitate da Radicati nell’opuscolo in cui istituisce un parallelo tra gli

42 ERASMO DA ROTTERDAM, Sileni Alcibiadis, in Adagia, Sei saggi politici in forma di

proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi, 1980, p. 104. La stessa ironia nel VII Discorso, dove si dice che i successori ed eredi universali di Pietro «non si affannano ad imitarlo» (infra, pp. 147)» e specificamente sul «patrimonio di Pietro» cfr. Discorso VI, infra, p. 131. Per la ripresa della denuncia machiavelliana cfr. la Dedica a Carlo di Borbone (infra, p. 63)

43 F. VENTURI, A. Radicati di Passerano, op. cit., p. 167.

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«impostori» Mosè e Maometto), non ho menzionato un ambito letterario partico-larmente vivace nella prima modernità europea verso cui Radicati, al pari di non pochi suoi contemporanei, si sentì indubbiamente attratto: la letteratura di viaggio. Dalle descrizioni di razze, usi e costumi lette in autori come Aubry de La Mottraye (Voyages), William Dampier (Voyages and Descriptions), Thomas Herbert (Tra-vels into Persia and the East-India), Louis Le Compte (Nouveaux memoires de la Chine), César de Rochefort (Histoire naturelle et morale des îles Antilles de l’Ame-rique), George Shelvocke (A Voyage Round the World By Way of The Great South Sea, performed in the years 1719-1722), Jean de Thévenot (Voyage Du Levant), Guy Tachard (Voyage de Siam), Nicolas Trigault (Histoire de l’expedition chres-tienne au royaume de la Chine), Domingo Fernandez (An Account of the Empire of China), Simon de La Loubère (Description du royaume de Siam), François Solier (Histoire Ecclesiastique des Isles & Royaumes de Japon) per limitarci alle principali letture documentate da citazioni esplicite, il Passerano trasse non solo l’acquisizione dell’esistenza di una formidabile pluralità delle culture umane e del relativismo dei valori storico-culturali che le informano, ma anche e soprattutto l’idea dell’effettiva praticabilità di forme di vita conformi a natura, inserendosi così decisamente in quel filone di autori europei che, da Montaigne a Rousseau, al Diderot del Supplément au voyage de Bougainville e, se si vuole, fino al Lévi-Strauss di Tristi tropici, coltiverà con passione il mito anti-agostiniano del «buon selvaggio» e del «ritorno alla natura»,44 nella ferma convinzione che fossero esistiti e ancora esistessero popolazioni «pre- o extra-adamitiche», non corrotte dai vizi tipici delle civiltà politico-statuali.

L’insolenza di qualificare come «moderni cannibali» i cattolici, per via dei dogmi che il concilio tridentino aveva ribadito su transustanziazione e presenza reale (accusa del resto diffusa all’epoca in molti ambienti protestanti già dai primordi della Riforma – per tutti basti qui fare i nomi di Agrippa d’Aubigné e di Jean de Léry45 –) in Radicati procedeva infatti di pari passo con una esaltazione à la Montaigne dei cannibali selvaggi.

«Essi sono selvaggi – aveva scritto l’amico di La Boétie nel celebre capitolo XXXI del primo libro degli Essais – allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare piuttosto selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardito in questi, soltanto per adattarle al nostro gusto corrotto. […] Quei popoli, dunque, mi

44 Un chiaro anticipo di questa tendenza è rintracciabile sorprendentemente nella critica

della civiltà sviluppata dal vescovo di Alba, GEROLAMO VIDA (1485-1566) nella prima parte dei suoi Dialogi de reipublicae dignitate in cui, come notava il FERRARI nel suo Gli scrittori politici italiani, Milano, Monanni, 1929, p. 212 «un latino degno di Cicerone parlava il linguaggio di Gian Giacomo Rousseau».

45 Su d’Aubigné cfr. F. LESTRINGANT, Une sainte horreur ou le Voyage en Eucharistie, Paris, Puf, 1996; per Jean de Léry, cfr. ST. GREENBLATT, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 31.

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sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre. […] Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani. È un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici, nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri, nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo, nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che ha immaginato».46

È su questo sfondo in cui il cattolicesimo romano è giudicato non solo a partire

dalle sue pretese di dominio totalitario e, tramite l’Inquisizione,47 poliziesco sulla realtà italiana, ma anche a partire dal resoconto lascasiano dell’esportazione del cristianesimo via sterminio, operata dagli Spagnoli nel Nuovo Mondo,48 che Radicati muove per presentare il fondatore della religione cristiana sotto una luce certo lontanissima da ogni cristologia ortodossamente trinitaria, ma assolutamente aggiornata e originale, se si tengono presenti le posizioni dei deisti inglesi primo-settecenteschi: Toland, Collins, Woolston, Tindal. Un Gesù non escatologico-apocalittico come il Gesù del vangelo di Marco e delle lettere paoline, ma un Gesù sommo legislatore che si potrebbe forse origenianamente definire apocatastatico, rivoluzionario nel senso etimologico del termine, in quanto tutto il fine della sua legislazione è orientato alla restitutio in integrum della vita degli uomini che ridischiuda loro la via dell’autogoverno popolare, della «perfetta democrazia».

6.

46 M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini, Milano, Mondadori, 1900, vol. 1, p.

272 e seg. 47 L'istituzione il 21 luglio 1542 della Congregatio Sanctae Inquisitionis haereticae

pravitatis può considerarsi – come ha giustamente indicato I. MEREU, Storia dell'intolleranza in Europa, Milano, Bompiani, 1990, p. 61 – la nascita della «prima polizia mondiale, addetta al controllo dell'ortodossia e alla ricerca del 'diverso' esercitata da un personale specializzato e scelto che dipende e ubbidisce solo agli ordini di Roma». Si veda anche A. PROSPERI, Tribunali della coscienza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 35-211.

48 Cfr. BARTOLOMÉ DE LAS CASAS (1474-1566), Brevísima relación de la destrucción de las Indias, Sevilla 1552. Per un’edizione italiana recente cfr. ID. Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Milano, Mondadori 1997.

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Interessato prioritariamente a evidenziare la morale predicata da Gesù e dai suoi

apostoli, per trarne conseguenze sul piano dei provvedimenti che il sovrano civile che si vuole cristiano deve adottare per revocare i preti alla missione loro affidata da Cristo, Radicati ovviamente non affronta il problema della genesi storica dei Vangeli, delle differenze tra gli evangelisti, dell’autenticità o meno di tutte le quattordici epistole paoline e tutta la complessa questione della filologia vetero e neo-testamentaria di cui oggi il pontefice-teologo Joseph Ratzinger parrebbe auspicare la messa in disparte, se non proprio all’Indice.49 Radicati se si limita ad accogliere il Nuovo Testamento così come gli era trasmesso dal testo della Vulgata, non soggiace supinamente come i più, non solo ai suoi giorni, all’impressione di fondamentale unitarietà suggerita dalla canonizzazione dei diversi testi in un solo libro. Se ancora oggi per la maggioranza dei suoi – in Italia notoriamente pochi – lettori, la Bibbia è quel variopinto tessuto di voci evidentemente diverse, talora distanti le une dalle altre secoli come succede ai primi capitoli del Genesi o ad alcune lettere paoline,50 ma che cionondimeno le chiese cristiane si ostinano a presentare, oggi più di ieri sapendo di mentire, come se in essi parlasse una sola unica voce, continuando a proclamare la Bibbia canonica come direttamente ispirata da Dio, anche là dove più clamorose sono le interpolazioni, come nel caso del famoso comma giovanneo già espunto a suo tempo da Erasmo51 e anche per i passi vetero-testamentari, non a caso ripetutamente mobilitati nel corso della storia per legittimare persecuzioni, crociate

49 Sulla diffidenza nei confronti della biblistica moderna da parte del recente Gesù di J.

RATZINGER, si vedano i contributi di D. Garrone, R. Calimani, F. Barbero: «L’imbarazzante mediocrità del ‘Gesù’ di Ratzinger», in Micromega 4, 2007, pp. 211-234.

50 Cfr per un primo orientamento. G. VON RAD, Genesi, Brescia, Morcelliana, 1969-72; U. CASSUTO, A Commentary in the Book of Genesis, Jerusalem, Magnes Press, 1992; J. A. SOGGIN, Genesi 1-11, Torino, Marietti, 1991. Quanto al corpus delle 14 lettere paoline i biblisti oggi in maggioranza ne ritengono effettivamente scritte da Paolo sola la metà: e precisamente: la prima ai Tessalonicesi; le lettere ai Galati, ai Romani, le due ai Corinzi, le lettere ai Filippesi e a Filemone. Sarebbero invece prodotte da una scuola di orientamento paolino le lettere agli Efesini, ai Colossesi, e la seconda ai Tessalonicesi, mentre le due lettere a Timoteo e a Tito, spesso definite ‘pastorali’, sarebbero decisamente opere tarde, degli inizi del II secolo, che si rifanno alla tradizione di Paolo, modificandola in base a concezioni e situazioni istituzionali assai diverse da quelle paoline.

51 Sull’espunzione del comma giovanneo nell’edizione del Nuovo Testamento erasmiano e sulla violenta reazione di Zuñiga e del mondo spagnolo contro Erasmo, cfr. R. BAINTON, Michel Servet, Hérétique et Martyr (1553-1953), Genève, Droz, 1953, p. 11. Il testo autentico della I epistola di Giovanni (5: 8) recitava: «Poiché vi sono tre che rendono testimonianza, lo spirito, l’acqua e il sangue e i tre sono d’accordo» mentre il passo apocrifo continuava: «E tre sono in cielo che rendono testimonianza, il Padre, il Verbo e lo Spirito santo e i tre sono uno». Erasmo non aveva trovato in nessun codice greco questa appendice, ignota anche ai primi padri della chiesa, che se l’avessero conosciuta, l’avrebbero certo impiegata come argomento definitivo contro gli ariani.

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e guerre sante cristiane, 52 dove più orrende sono le concezioni etiche offerte dell’idea di Dio, Radicati con grande acume è invece attentissimo alle divisioni «teologiche» che riscontra già presenti tra gli apostoli, tra Paolo e Giacomo in particolare.

Ad esaminare il fitto e assolutamente non banale mosaico di citazioni con cui il conte piemontese ricostruisce la dottrina di Cristo, proprio la loro scelta, al pari delle non meno significative omissioni, rivela un tentativo di sceverazione delle fonti, non supportato ovviamente da alcuna critica storico-filologica, a quell’epoca ancora ampiamente di là da venire, ma condotto socinianamente e deisticamente su sole basi razionalistiche, con conseguente esclusione programmatica di ogni miracolo e ogni intervento sovrannaturale. Muovendo anche solo dal dato più estrinseco, il numero delle citazioni, è possible rilevare come, insieme con Luca, l’evangelista Matteo (e i discorsi da lui riportati, su tutti il Discorso della Montagna), risulti essere il testimone per Radicati più rilevante. Si tratta di un dato significativo che può spiegare come Radicati trascuri disinvoltamente gli aspetti escatologico-apocalittici così palesi nella predicazione del Gesù di Marco e già, un ventennio prima, nella valorizzazione della resurrezione dei morti da parte di Paolo. La comunità giudaico-cristiana di cui il vangelo di Matteo è espressione, chiaramente non pareva più intenzionata ad affidarsi alle grandiose speranze e paure apocalittiche delineate dal Vangelo di Marco. Il Vangelo di Matteo mostra, infatti, che almeno per alcuni dei suoi seguaci le dottrine di Gesù costituivano la forza d’attrazione principale della sua eredità e rappresentavano una ragione sufficiente per restare fedeli ai suoi insegnamenti. Diversamente che nella presentazione di Marco, Gesù non fa la sua prima impressione sulle folle con esorcismi, ma con un discorso programmatico e per Matteo il Discorso della Montagna è la quintessenza di ciò che i suoi lettori debbono comprendere come dottrina gesuana.

Oltre a Matteo, Radicati cita ampiamente anche colui che, sulla scorta di Well-

hausen, non solo Nietzsche presenterà come il vero fondatore del cristianesimo affermatosi in occidente, l’«apostolo più ingegnoso dei Nazareni»,53 Paolo di Tarso. Anche in questo caso la lettura radicatiana è fortemente selettiva e, nel caso dell’immagine del vasaio e della creta, decisamente critica. Radicati giunge a distinguere un Paolo predicatore della carità, ortodosso seguace della dottrina morale di Gesù, e un Paolo «grande teologo» che «si è spesso smarrito in speculazioni teologiche e, di conseguenza, ha deviato dalla semplicità del Vangelo».54 E affrontando le divergenze degli apostoli circa i princìpi fondamentali della religione cristiana non esita a contrapporre alle «vane dispute» di Paolo la dottrina «molto giusta e più ortodossa» di Giacomo che aveva affermato che «le

52 Cfr. J. LECLER, Histoire de la Tolérance au siècle de la Réforme, Aubier, Edition

Montaigne, 1954, t. 1, pp. 42-46. 53 Cfr. infra, p. 102, n. 262. 54 Cfr. II Discorso, infra, p. 87.

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buone opere ci salvano indipendentemente dalla fede».55 Non a caso tra le molte citazioni, tutte fortemente incentrate su precetti morali, non compare alcun richiamo alla Prima Lettera ai Tessalonicesi, dove più manifestamente appare che, come il Gesù del Vangelo di Marco, anche Paolo credeva vicinissima la fine del mondo.56

Dal momento della sua conversione, infatti, il discepolo del fariseo Gamaliele visse animato dalla convinzione più fervida che la seconda, definitiva, venuta di Gesù si sarebbe verificata nel corso stesso della sua esistenza. L’apologetica tradizionale afferma che l’apostolo, quasi inaugurasse il genere delle Retracta-tiones in cui sarà maestro il vescovo Agostino, si sarebbe corretto nella II Lettera ai Tessalonicesi e che già la Lettera ai Romani non recherebbe più traccia di aspettativa escatologica. Ma, al di là dei dubbi circa l’autenticità della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, più persuasivamente si è sostenuto che l’attesa escatologica permane intatta anche nella lettera ai Romani, di qualche anno posteriore alle epistole indirizzate ai Tessalonicesi. In essa si può ancora leggere infatti «[…] è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm. 13, 11-12). 57

Le due ragioni essenziali per le quali Paolo era convinto che il vecchio eone avesse le ore contate, come evidenzia l’argomentato recente contributo di Mauro Pesce, possedevano la caratteristica di rafforzarsi a vicenda. La prima risiedeva nella convinzione che Gesù, la «primizia» che aveva inaugurato il ciclo della resurrezione, in vita avesse predicato l’avvento imminente della fine. Paolo, che non aveva conosciuto Gesù di persona, poteva averlo appreso dai suoi discepoli. Il secondo motivo è che, in quanto discepolo di Gamaliele e fariseo, Paolo, a differenza dei sadducei,58 credeva fermamente nella resurrezione dei corpi. Paolo aveva interpretato infatti la visione accecante, che lungo la via che lo portava a Damasco l’aveva sbalzato da cavallo, come un’apparizione del corpo risorto di Gesù. Del resto, l’unico modo che gli restasse per incontrarlo e sentirne la chiamata. A meno che non si pensi a un secondo incontro, avvenuto durante l’estasi che lo rapisce in cielo, su cui Radicati, sulle orme di Charles Blount, non mancava di esercitare la sua ironia razionalistica.59

55 Cfr. IV Discorso, infra, pp. 115. 56 I Tess. 4, 14-17. 57 M. PESCE, «Paolo e la Politica. Tra realtà storica e reinterpretazioni ecclesiologiche»,

in AA. VV. Obbedienza. Legge di Dio e legge dell’uomo nelle culture religiose, a cura di M. Borsari, Modena, Fondazione Collegio S. Carlo, 2006, pp. 73-107.

58 Ne l’Histoire abregée cit., cap. VI, Radicati paragona i farisei ai «vecchi puritani» e li qualifica come bigotti, mentre compara i sadducei ai «deisti o, se volete, agli spiriti-forti», benchè si avvicinassero agli episcopaliani riguardo alle cerimonie della loro chiesa.

59 Cfr. III Discorso, infra p. 100, n. 253. Per l’analogo dubbio fondato sulle acquisizioni dell’astronomia circa l’estasi paolina suggerito da CHARLES BLOUNT cfr. la sua Religio laici, Written in a letter to John Dryden Esq. London 1683, p. 45. In La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan, par Ali-Ebn-Omar, Moslem, epitre a

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Ad ogni modo, l’incontro con il Signore risorto aveva convinto Paolo che il momento della resurrezione dei corpi era iniziato e un simile evento, nella dottrina farisaica, era pensato appunto come la manifestazione tangibile della fine di questo mondo. La resurrezione di Gesù costituiva dunque per Paolo la prova che la fine di questo mondo era ormai in atto e che l’avvento della nuova realtà futura era imminente. A costituire per Paolo la prova decisiva non erano tanto le parole di Gesù sulla prossimità del regno, quanto il fatto della sua resurrezione da morte di cui poteva dirsi testimone privilegiato. Questo vissuto paolino, se illuminava e confermava l’annuncio di Gesù, induceva tuttavia l’apostolo a interpretarlo con un deciso spostamento d’accento: al posto del regno di Dio annunciato da Gesù, in Paolo a divenire fondamentale era la resurrezione. Radicati trascurando deliberatamente la Prima Lettera ai Tessalonicesi, dal corpus paolino espunge anche i motivi escatologici che oggi, avvalendoci dei risultati della LebenJesusFoschung otto-novecentesca, sappiamo essere stati così rilevanti per alcune tra le prime comunità cristiane.60 Di esse Radicati, basandosi sulla testimonianza degli Atti degli Apostoli, quasi si identificasse con gli abitanti dell’Utopia di Tommaso Moro, ammira soprattutto il comunismo dei beni, la carità e l’amore vicendevole con cui si racconta abbiano saputo vivere.61

Della tematica escatologica presente in Gesù e in Paolo, Radicati si sbararazza sbrigativamente attribuendola alla «falsa opinione circa l’imminenza della fine del mondo» nutrita dai primi cristiani.62 Se non annuncia come prossimo il dramma cosmico-escatologico della fine del mondo, il Gesù di Radicati si presenta nondi-meno vigorosamente animato da una chiara volontà apocatastatica quanto meno sul terreno politico-sociale. La sua legislazione, infatti, ha come obiettivo essenziale la restitutio in integrum di quella parte dell’umanità corrottasi e decaduta, e purtroppo diffusa sulla maggior parte delle terre abitate. L’intento delle leggi di Cristo per Radicati è, infatti, la riconduzione dell’umanità «in quello stato di innocenza, in cui

Cinkniu, bramin de Visapour, Traduit de l'arabe, A Londres (ma Rotterdam), au depens de la Compagnie, 1737, il rapimento estatico di Paolo è presentato da Radicati come modello del prodigioso viaggio di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme, a Gerusalemme, «dov’era asceso al Cielo, vedendovi Dio in tutta la sua gloria. Questo viaggio che il profeta fece in una sola notte, è certamente il più notevole e il più bello che mai sia stato fatto: a quanto pare il nostro apostolo lo intraprese per seguire l’esempio di quel buon apostolo suo predecessore, che fu rapito e di colpo trasportato in un paese sconosciuto dove vide e sentì cose inesprimibili». Cfr. A.RADICATI, Vite parallele, op. cit., p.75.

60 Cfr. per un primo orientamento cfr. A. SCHWEITZER, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia, Morcelliana, 1986 (1ed 1913, Tübingen, Mohr) e i tre volumi di J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Brescia, Queriniana, 2001-2003.

61 T. MORO, Utopia, Bari-Roma, Laterza, 1982, p. 116: «Ma quando appresero da noi il nome di Cristo, la sua dottrina […] non si può dire con quanta affezione anch'essi vi aderirono, sia che a ciò li ispirasse più intimamente Dio, sia che paresse il Cristianesimo molto vicino alle dottrine prevalenti presso di loro; per quanto io direi che a ciò fu di non lieve spinta l'aver appreso che Cristo approvò la vita in comune dei suoi e che questa ancor si pratica presso associazioni schiettissime di cristiani». Cfr. II Discorso, p. 88.

62 Cfr. IV Discorso, infra, p. 113.

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si trovava Adamo prima d’aver peccato» e in cui ancora si trovano i «selvaggi» «che vivono senza ambizione e hanno tutto in comune tra loro», come Radicati desumeva dalla Description of the southermost part of California, and its Inhabitants del capitano Shelvocke e dalla descrizione degli abitanti delle Isole Canarie data da Thomas Herbert nel primo libro dei suoi Travels into Persia and the East-Indies.63 La buona novella di Gesù anche per il Passerano, come per Tillotson e come per Tindal, consisteva infatti essenzialmente nella «ripubblicazione della legge di natura» e la religione insegnata da Cristo non era che la riproposizione dell’unica immutabile ed eterna religione naturale: purtroppo, come dimostrava il banco da macello della storia dell’umanità civile, quasi sempre e ovunque sommersa dalla superstizione, inseparabile compagna di tirannidi e sopraffazioni omicide. Se la storia, e in particolare quella del perverso intreccio della Chiesa con i sovrani cristianissimi e cattolicissimi a partire da Costantino, era lì a dimostrare che i cristiani non avevano saputo mantenersi a lungo nella felice condizione «repubblicana» e «democratica» a cui Cristo li aveva condotti; e se tra cristiani antichi e cristiani moderni il rapporto era un rapporto di antitesi, per cui i cristiani moderni per la loro avarizia e ambizione si rivelavano agli occhi del Passerano più come seguaci di Giuda che di Gesù, la colpa non era in alcun modo ascrivibile alle leggi di Cristo «ma all’ambizione e alla malizia di coloro che non vollero più osservarle, i quali dando una falsa interpretazione alle sue parole e alle sue intenzioni se ne servirono come di un mezzo per far tornare in schiavitù i cristiani semplici e ignoranti».64

7. Anche per una concezione così radicalmente e razionalisticamente antistorica

come quella sviluppata dal deismo inglese primo-settecentesco65 era impossibile negare l’esistenza del nascere, sorgere e svilupparsi di una religione come il cristianesimo che, pur scalzato e insidiato dall’islamismo in vaste plaghe un tempo cristianizzate, aveva comunque proseguito la sua affermazione nel Nuovo Mondo,66 foss’anche con metodi tutt’altro che evangelici. E in Europa il cristianesimo, sia pure ormai diviso confessionalmente, non si lasciava facilmente

63 Cfr. II Discorso, infra, p. 103. 64 Cfr. X Discorso, infra, p. 189. 65 Significativa per l’antistoricismo tindaliano l’affermazione che apre la Prefazione a

Christianity as old as the world: or the Gospel, a Republication of the Religion of Nature, London, 1730. L’autore, vi si dice, «bilds nothing on a Thing so uncertain as Tradition, which differs in most Countries; and of which, in all Countries, the Bulk of Mankind are incapable of judging; but thinks he has laid down such plain and evident Rules, as may enable Men of the meanest Capacity, to distinguish between Religion, and Superstition», op. cit., p. III.

66 Per un primo orientamento cfr. A. PROSPERI, «L’Europa cristiana e il mondo. Alle origini dell’idea di missione» in: America e Apocalisse e altri saggi, Pisa, Istituto editoriali e poligrafici internazionali, 1999, pp. 89-112.

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liquidare alla stessa stregua delle altre «rivelazioni», sistematicamente screditate dai teologi cristiani fin dai tempi della Patristica come opera demonica o come imposture politiche di troni e altari coalizzati nella legittimazione dell’ingiusto potere di cui erano detentori.

Il confronto tra la «religione naturale» postulata dai deisti e il cristianesimo diventava dunque ineludibile. Per la soluzione del problema si misero a frutto anche le controversie teologiche del passato, trasponendo la vecchia discussione del rapporto tra legge mosaica e messaggio di Cristo – al cuore delle epistole paoline e poi dell’eresia del suo grande «discepolo» Marcione,67– sul piano del rapporto tra religione naturale e messaggio cristiano che in questo caso venivano a sovrapporsi e, sostanzialmente, a coincidere. In uno dei suoi sermoni, il rappresentante più illustre dei «teologi di Cambridge», l’arcivescovo di Canterbury John Tillotson (1630-1694) aveva già formulato la risposta che si imporrà largamente negli ambienti deisti. Il vangelo, aveva affermato Tillotson, era «la ripubblicazione della legge di natura ed era perciò altrettanto vecchio quanto la stessa creazione».

Nel ribadire con forza l’unicità e la sostanziale immutabilità della religione naturale, il vecchio Matthew Tindal non faceva che seguire fino in fondo questa concezione che, nel vescovo anglicano, era il frutto di un sincretismo religioso copiosamente alimentato da fonti neoplatoniche mediate da Ficino e dalla filosofia rinascimentale italiana. L’assunto fondamentale da cui muoveva l’opera tindaliana che conclude la sua carriera di scrittore, Christianity as old as the world: Or the Gospel, A Republication of the Religion of Nature, certo «il punto culminante dell’intera controversia deistica»,68 era di natura esclusivamente speculativo-razionale e consisteva nel chiedersi: come è possibile che una religione assolutamente perfetta ammetta alterazioni e sia capace di addizioni e diminuzioni e non sia piuttosto immutabile come il suo stesso Autore? Come era possibile che qualcosa di compiuto avesse ancora bisogno di compimento? La legge di natura era eterna e immutabile. Il messaggio di Cristo, di conseguenza, non poteva che essere una sua ripetizione, una sua «ripubblicazione».

Ma quale necessità c’era necessità di ridire cose già dette? Nella sua volontà di non ammettere scappatoie a questa affermazione, proprio il radicalismo tindaliano

67 Su Marcione, il vero fondatore con le sue Antitesi della contrapposizione fra Antico e

Nuovo Testamento, vedi A. HARNACK, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott; eine Monographie zur Geschiche der Grundlegung der katholischen Kirche, Leipzig, Hinrichs, 1921. Cfr. anche E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 226-232.

68 L. STEPHEN, History of English Thought in the Eighteenth Centtury. (18761ed) Londra, Harbinger, 1962, vol. 1, p. 113. Sempre utile per la storia del deismo inglese, G. V. LECHLER, Geschichte des englischen Deismus, Tübingen, 1841, rist. anast. Hildesheim, Olms, 1965, con prefazione e bibliografia a cura di G. Gawlick. Lo zelo del vescovo Gibson, «who acted on the principle that prevention was better than cure», a quanto afferma L. Stephen, (op. cit. vol. I, p. 115) si sarebbe manifestato anche nella distruzione del secondo volume tindaliano di Christianity as old as the world. che di conseguenza non ha mai visto la luce.

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non faceva che riproporre il problema con forza anche maggiore. Non a caso dalla polemica contro Tindal e il deismo in generale emerse quel filone di pensiero teologico inglese che, per salvaguardare l’ortodossia, finì con l’ammettere la necessità di concepire il cristianesimo storicamente, inaugurando la strada che Lessing, in cui la distinzione tra religione di Gesù e cristianesimo diventa chiarissima, avrebbe ripercorsa nei suoi aforismi dedicati alla progressiva educazione religiosa dell’umanità.69 Per tentare di risolvere il problema esisteva comunque un’altra strada, parallela a quella di questi «teologi del progresso» studiati da Ronald Salmon Crane,70 ma che conduceva verso esiti diversi, non più sul terreno della comprensione dell’evoluzione religiosa e umana, ma su quello della trasformazione della società e della convivenza interumana. Era il cammino in cui proprio Tillotson aveva percorso i primi passi e consisteva nell’ammettere la necessità di una «ripubblicazione» della religione naturale quando i vizi e la corruzione fossero giunti a tal punto da oscurare la purezza primitiva della religio aeterna. Se si vuole, qualcosa di analogo sul piano morale all’intervento provvidenziale che Newton postulava, contro Cartesio, come necessario di tanto in tanto sul terreno fisico-cosmico. La caduta degli uomini nell’ignoranza e nella superstizione giustificavano la necessità di un loro richiamo alle origini. «Ripubblicare» prendeva il senso pieno di «rimettere in vigore» una legge trasgredita.

In cosa consisteva, tuttavia, questa religione naturale che Cristo avrebbe reintrodotto tra gli uomini? Finché alla legge naturale si conferiva un significato preminentemente morale o religioso, il ritorno ad essa aveva anch’esso lo stesso significato; finiva per essere un rinnovato invito alla metanoia, alla conversione interiore che poteva lasciare sostanzialmente intatto l’ordinamento della società.71 La legge di natura nei deisti assunse però sempre più nettamente un significato «secolare», utilitaristico: il suo scopo venne visto non più nella salvezza dell’anima, ma nella felicità possibile in questa breve vita terrena. Disegno e fine ultimo di ogni rivelazione «così tradizionale come originale» diventava già per Tindal «l’umana felicità».72 Tenendo fermo all’inseparabilità di duty and happiness, Tindal limitava la portata degli spunti utilitaristici, politici e sociali, comunque non assenti neppure nella sua opera. Altri, sotto l’influsso di Shaftesbury, intesero dare all’idea di legge di natura un significato sempre più pratico. Secondo Thomas Morgan, altro significativo deista primo-settecentesco, il

69 G. E. LESSING, La religione di Cristo in La religione dell’umanità, a cura di N. Merker,

Roma-Bari, 1991, pp. 91-92. In merito si veda F. OVERBECK, Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, a cura di A. Pellegrino, Pisa, Ets, 2000, p. 65.

70 R. S. CRANE, «Anglican Apologetics and the idea of progress», in: Modern Philology, 31, (1933-34), pp. 275 e ss.

71 Sul tema resta fondamentale A. D. NOCK, La conversione: società e religione nel mondo antico, Bari, Laterza, 1974.

72 M. TINDAL, Christianity as old as the world, op. cit., si vedano in particolare le pp. 104-114, del cap. IX intitolato Human Happiness being the ultimate Design of all Traditional, as well as Original Revelation, they must both prescribe the same Means; since those Means, which at one Time, promote human Happiness, equally promote it at all Times.

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metro con cui occorreva giudicare le religioni non poteva essere fornito che dal «bene pubblico» e dalla «felicità sociale» ch’esse arrecavano.

8. In questo contesto, come ha evidenziato Franco Venturi, Radicati fu colui che

dalle diverse posizioni presenti nel dibattito interno al deismo inglese – la vera scuola di Voltaire – trasse le conseguenze estreme, sostenendo che Cristo era venuto per ricondurre gli uomini a uno stato di natura non solo spirituale, ma reale, a ritrasporli cioè nella situazione anteriore al peccato originale. La ripubblicazione della legge eterna della natura equivaleva pertanto alla cancellazione della colpa e al ritorno all’innocenza; significava la cancellazione della punizione del lavoro e di tutte le gerarchie e le imposizioni – la «maledizione delle Leggi di Mosè» – che erano state conseguenza della trasgressione di Adamo, ora cancellata da Cristo.73

«Se Adamo non avesse peccato – leggiamo nel III Discorso – né lui né i suoi discendenti sarebbero stati obbligati a lavorare per vivere; Gesù avendo restaurato gli uomini nello stato di grazia, li ha dunque liberati dalla punizione del lavoro, come ha espressamente dichiarato ai suoi discepoli, dicendo: “Non siate con ansietà solleciti per la vita vostra, che mangerete, o che berrete; riguardate gli uccelli del cielo: come non seminano e non mietono, e non accolgono in granai; e pure il Padre vostro celeste gli nudrisce; non siete voi da molto più di loro?”». Radicati interpreta l’ammonimento di Cristo «cercate imprima il regno di Dio, e la sua giustizia; e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte» come l’espresso richiamo ad «entrare nello stato di natura, in cui regna la giustizia, e nessuno gode del superfluo, ma solo di ciò che è necessario per preservare la vita».74

Pur condividendo pienamente la posizione hobbesiana circa l’assoluta subordinazione del potere spirituale del clero al potere del sovrano temporale, Radicati non manca di polemizzare aspramente con la concezione hobbesiana dello stato di natura quale stato generalizzato di insicurezza e di guerra incessante tra gli uomini. La vivida descrizione hobbesiana dell’insicurezza che caratterizzerebbe le società senza stato, per Radicati è in realtà la raffigurazione di

«una moltitudine già corrotta dalla nozione del meum e tuum e, di conseguenza, dal lusso e dall’ambizione, anziché una moltitudine semplice e tranquilla, che segue le savie leggi della natura. Perché dove non c’è ineguaglianza, non c’è invidia, né ambizione; e dove non c’è ambizione, non ci sono contrasti, cosicché la quiete di tali uomini non può mai essere turbata, a meno che essi manchino del necessario, il che potrebbe accadere se fossero confinati in un piccolo angolo del globo, a causa di una

73 Sul rovesciamento che la legge di Gesù costituisce rispetto alle leggi mosaiche e sulla

necessità politica che Gesù volendo «riformare uno stato anticato» dovendo machiavelli-camente «ritenere almeno l’ombra de’ modi antichi» parlasse di compimento e non di abolizione della Torah cfr. la n. 271 al III Discorso infra, p. 105. Per l’espressione «male-dizione delle leggi di Mosè» cfr. ivi, p. 102 e p. 106, n.277.

74 Cfr. III Discorso, infra, p. 98.

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sterilità della terra, o per un calore, o un freddo eccessivi, o per un’inondazione, o per consimili accidenti. […] Ma se con il termine moltitudine intendiamo una intera specie, ovvero tutta la razza umana, che ha in sorte tutta la terra, avendo ogni uomo il diritto di percorrerla tutta quanta alla ricerca del necessario, come è permesso a tutti gli altri animali, ciascuno secondo la sua specie, noi troveremo che l’unica causa in grado di creare discordie tra loro non sussisterebbe più. Perché, in forza delle sue leggi eterne e immutabili, la Natura ha provveduto così bene contro tali evenienze che non accade mai una carestia generale. Quando la terra un anno è sterile in un luogo, è feconda in un altro e così, ciò che in un posto manca, lo si trova abbondantemente in un altro e il superfluo di cui godono coloro che vivono in una terra feconda è più che sufficiente a fornire del necessario coloro la cui terra è divenuta sterile, o soffrono di una calamità del tipo di quelle menzionate, essendo impossibile che tali accidenti siano universali».75

Si tratta di una pagina fondamentale nell’equilibrio dell’opera: se merita

segnalare come in essa Radicati dimostri la sua lontananza da ogni bibliolatria protestante, in quanto, sia pure en passant contesta la veridicità del famoso racconto del diluvio, di cui nega la possibilità della sua caratteristica essenziale, l’universalità, anche più significativo è vedere come si articola la sua denuncia della concezione che diverrà tipica dell’economia politica che presuppone, come un assioma perfettamente evidente, la scarsità delle risorse naturali rispetto alla somma dei bisogni degli uomini e mentre teorizza la «libera» circolazione delle merci, ne eccettua e regolamenta nel modo più spietato quella particolare merce costituita dalla forza-lavoro umana. Per Radicati l’assioma della scarsità delle risorse è una vera e propria bestemmia, un principio brandito dai briganti «che si sono impadroniti delle cose necessarie agli altri». Non soltanto chi afferma che «la terra non produce a sufficienza per tutti gli uomini» è smentito dall’esperienza che attesta non essersi mai data una carestia da qualche parte, senza che si sapesse al contempo che c’era abbondanza altrove. Di più. Una simile asserzione dogmatica, contraddetta dalla esperienza, è ai suoi occhi frutto di malvagità ed empietà, ispirata dall’avidità di chi detiene la ricchezza e che, elaborando pro domo sua una teodicea della fortuna, è riuscito a imporre socialmente una concezione della divinità che «rovescia la Provvidenza, e l’infinita bontà di Dio, supponendo che egli abbia creato i viventi solo per renderli miserabili».

Nonostante l’assai poco convincente tentativo verbale di salvare l’Apostolo

Paolo dagli strali della sua critica, per concentrarli sui «nostri teologi che pretendono che Dio possa fare quel che vuole delle sue creature, abusando del passo in cui egli compara Dio a un vasaio e l’umanità ai suoi vasi», l’obiettivo polemico di Radicati è indubbiamente la concezione della divinità paolino-agostiniana che, inventando la concezione del peccato originale e insistendo sulla imperscrutabilità della libera volontà divina, mantiene anche nella concezione cristiana di Dio alcuni dei tratti più sconcertanti – e davvero umani troppo umani –

75 Cfr. III Discorso, infra, p. 99.

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dello Jahvè biblico che tanto affascinano un cultore di Shakespeare (e di Re Lear) come lo gnostico dei giorni nostri Harold Bloom.76

Il Dio di Radicati che spinozianamente si esprime nell’endiadi Deus sive Natura77 non ha nulla a che vedere con la divinità che si compiacque dell’arrossarsi delle acque del torrente Chison, per il sangue versato dai quattrocento sacerdoti di Baal scannati dal suo profeta Elia. In questa sua ripulsa dei tratti sanguinari e crudeli del Dio degli eserciti e degli sterminii che mantiene uno spazio tutt’altro che irrilevante nella Bibbia canonicamente proclamata «parola di Dio» e dettata da uno Spirito Santo sulla cui conoscenza del greco già Erasmo trovava da ridire, Radicati sa di avere Gesù dalla sua parte e, a due riprese, richiama significativamente il brano evangelico dell’aspro rimprovero impartito da Gesù ai discepoli che, in Samaria, avrebbero voluto veder rinnovate le gesta dell’arcaico profeta scannatore.78

Radicati s’avvale dell’eredità di Montaigne in Charron per opporsi con forza a

ogni concezione sacrificale della vita diffusa dalle religioni più varie, respingendo come assolutamente intollerabile una concezione della divinità come di un essere che si compiaccia

«del tormento e della distruzione delle sue creature, opinione che è il fondamento dei sacrifici che erano generali in tutto il mondo prima della nascita della cristianità,

76 H. BLOOM, Gesù e Yahvè. La frattura originaria fra Ebraismo e Cristianesimo, Milano,

BUR 2007. 77 A testimoniarlo, al di là degli ampi brani del Trattato Teologico Politico tacitamente

incorporati nella versione inglese del suo Decimo Discorso, è soprattutto la tacita sostituzione di natura in luogo di Dio, in una serie di citazioni evangeliche. Nel V capitolo dell’Histoire abregée de la profession sacerdotal Radicati cita con favore da padre Trigault la definizione di Dio dei seguaci di Confucio. «Essi dicono che l’Essere degli esseri è invisibile e incomprensibile, senza figura o forma esteriore, poiché esso è infinito e senza limiti. Nessuno l’ha mai veduto; non è affatto compreso nel tempo; la sua essenza riempie il tutto e tutte le cose emanano da lui. Tutta la potenza, saggezza scienza e verità sono lui. Egli è infinitamente buono e giusto. E’ lui che tutto conserva e tutto dirige». Sullo «spinozismo» cinese e sugli spinozismi presenti nella storia del pensiero a partire da Stratone di Lampsaco, Radicati era ben informato dal Dictionnaire Historique et Critique di uno degli autori a lui più familiari, PIERRE BAYLE. Per un primo orientamento sull’argomento cfr. R. ÉTIEMBLE, L’Orient philosophique au XVIIIe siècle, Paris, s. d. [ma 1956-57], ID., L’Europe chinoise, Paris, Gallimard, 1988-89 e il recente R. MINUTI, Orientalismo e idee di tolleranza nella cultura francese del primo ‘700, Firenze, Olschki, 2006.

78 «Cristo perdonò ai Samaritani le offese che gli fecero rifiutandogli l’ingresso nel loro paese e biasimò severamente Giacomo e Giovanni perché davano accesso a quello spirito di vendetta predominante in quasi tutti i preti. “Signore – essi dissero – vuoi che diciamo che scenda fuoco dal cielo, e gli consumi?” Al che Cristo rispose loro: “Voi non sapete di quale spirito voi siete (perché essi parlavano come uomini resi folli dalla rabbia). Io non sono venuto per perdere le anime degli huomini, anzi per salvarle”». Cfr. infra, I Discorso, p. 83.

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e non si esercitavano solo sugli animali innocenti, che erano massacrati con effusione del loro sangue, per un prezioso omaggio alla divinità ma (strana ebbrezza dell’umanità!) anche sui bambini piccoli, innocenti e sugli uomini adulti, sia criminali, sia gente dabbene; un costume praticato molto religiosamente da tutte le nazioni Che depravazione del buon senso […] pensare di adulare la divinità con l’inumanità, ripagare la bontà divina con la nostra afflizione, e soddisfare la sua giustizia con delle crudeltà. Che stupidità pensare, come fanno i cinesi, che il loro dio Fohe sia morto di una morte crudele e infame per salvare l’umanità. Che delirio immaginare che noi possiamo prevalere sulla collera divina e pacificarla sacrificandogli il suo figlio beneamato un milione di volte al giorno! O giustizia assetata di sangue umano! Oh sangue innocente versato invano in mezzo a così numerose pene e tormenti! da dove può nascere un’opinione e una credenza così strana come quella che Dio si compiaccia del tormento e della distruzione delle sue opere e della natura umana? in base a queste nozioni, di che natura deve essere Dio? 79 Come il Dio dei deisti ma anche di Gesù, il suo Dio, unico e non trinitario,

benchè onnipotente non può compiere atti o produrre cose che ripugnano ai suoi attributi e che sono in se stesse contraddittorie e incompatibili. Se non può far sì «che il vino sia sangue o una briciola di pane sia un uomo, che una grande palla di cento libbre sia divisa in tre palle di cui ciascuna abbia la stessa dimensione e lo stesso peso di quella grande e che queste tre, insieme, non pesino poi se non cento libbre e non siano che una palla sola», al di là dell’antitrinitarismo e dell’antitran-sustanzialismo della sua polemica, a importargli davvero è una concezione in cui Dio non possa fare «nulla di contrario alla sua infinita bontà e giustizia, come affermano i nostri teologi per via del senso errato che attribuiscono alle parole di Paolo, con cui essi profanano la maestà divina e ne annientano la divinità, distruggendo i suoi attributi e le sue perfezioni».80

È possibile che, anche per questo suo motivo, la riflessione radicatiana si sia accesa a contatto con lo straordinario testo inaugurale del grande illuminismo continentale, le Lettere persiane di Montesquieu, opera che Radicati fu forse il primo degli italiani a leggere e a meditare traendone spunti decisivi anche per la sua Dissertazione filosofica sulla morte.81 Sicuramente contro gli abusi palesi della dottrina dell’imperscrutabilità delle decisioni divine e del presunto abisso tra la giustizia di Dio e l’ideale di giustizia che anima gli uomini, dovette colpirlo profondamente la pagina dell’ottrantreesima lettera in cui si afferma:

79 Cfr. Discorso XI, infra, p. 204. 80 Cfr. infra, p. 101. 81 Spunti segnalati da E. TORTAROLO nel saggio «Radicati di Passerano nel Settecento

Tedesco», in: Rivista Storica Italiana, XCVI, II, 1984, p. 523. Per un inquadramento della Dissertazione mi permetto di rinviare alla mia Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, op. cit., pp. 9-63. Per una lettura magistrale delle Lettres persanes cfr. J. STAROBINSKI, Montesquieu, Torino, Einaudi, 2002. Nel IV Discorso Radicati cita esplicitamente Montesquieu «l’abile uomo che ha posto in bocca a un maomettano che la santa religione si difende con la sua stessa verità e non ha bisogno di […] mezzi violenti per mantenersi». Cfr. infra, p. 118, n. 318.

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«Se vi è un Dio, mio caro Rhédi, bisogna necessariamente che sia giusto; perché, se non lo fosse, sarebbe il più malvagio e il più imperfetto degli esseri. La giustizia è un rapporto di convenienza che si trova realmente tra due cose. Questo rapporto è sempre il medesimo, quale sia l’essere che lo considera, sia Dio, sia un angelo oppure un uomo. Gli uomini possono commettere ingiustizie, perché hanno interesse a farlo e perché preferiscono la propria all’altrui soddisfazione. […] Ma non è possibile che Dio faccia mai qualcosa di ingiusto, non appena si suppone ch’egli veda la giustizia, occorre necessariamente ch’egli la segua, poiché, non avendo bisogno di nulla e bastando a sé stesso, sarebbe il più malvagio degli esseri, perché sarebbe ingiusto senza interesse».82

Essenziale in Radicati che, nonostante schermaglie prudenziali, rifiuta nella sostanza l’interpretazione paolino-agostiniana della caduta di Eva e Adamo83 in termini di peccato originale trasmesso a tutta l’umana progenie, non è la croce di Cristo (per quanto sublime possa essere l’esempio così fornito di estrema non resistenza al male, il cui fascino sappiamo attrasse ancora le menti e i cuori di Dostojesvkj e Nietzsche) ma la sua legislazione, quella che ho chiamato la sua volontà apocatastatica, ma che senza scomodare Origene, in ogni caso per Radicati è l’istituzione della democrazia perfetta perché assolutamente egualitaria.

«Essendo impossibile per Cristo con la sua morte rimettere una seconda volta gli uomini nello stato di natura, considerando da quanto tempo ormai essi si erano abituati a peccare, il che aveva corrotto a tal punto le loro menti che non avevano neppure l’idea di uno stato d’innocenza, avendo pietà della loro ignoranza, e decidendosi a riformarli attraverso le sue leggi, Gesù Cristo insegnò loro nuovamente le leggi di natura, cosicché conoscendone la bellezza e l’eccellenza, potessero di conseguenza sentire la necessità di osservarle, onde porre fine alla loro miseria. Questa era l’intenzione di Cristo nello stabilire le sue leggi. Compariamole ora con quelle di natura e, dalla loro somiglianza, troveremo che sono le stesse». Il regno dei cieli, il regno di Dio annunciato da Gesù, per Radicati non è un

paradiso ultraterreno, bensì «lo stato di innocenza in cui si trovava Adamo prima della sua trasgressione, quando ubbidiva alle sole leggi di natura», lo stato di innocenza e semplicità in cui hanno vissuto e vivono ancora, secondo Radicati, i buoni selvaggi, purtroppo sempre più turbati e corrotti dall’esportazione di un cristianesimo imperialista – nelle sue versioni iberico-cattoliche e anglo-olandesi

82 MONTESQUIEU, Lettres Persanes, in: Œuvres complètes, a cura di R. Caillois, Paris,

Gallimard, 1949, p. 256. Si ricordi inoltre sul tema l’affermazione di Grozio: «Est autem jus naturale adeo immutabile, ut ne quidem a Deo mutari potest», H. GROTIUS, De Jure Belli ac Pacis, l. I. c. 1, § 10, 1, 5.

83 Sulla presenza dei «progenitori» biblici nella cultura occidentale cfr. ora K. FLASCH, Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito, Bologna, Il Mulino, 2007.

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calviniste – che è il tradimento completo della dottrina di Gesù.84 «Non dobbiamo formarci – egli scrive – fantasie ridicole del regno dei cieli, come i fanatici che si riempiono il capo di immaginazioni vane e inintelligibili, capaci di sconvolgere i cervelli degli uomini, senza esser loro d’alcun aiuto, come Cristo ci ha chiaramente spiegato, quando ci dice che il regno di Dio non è un regno che dobbiamo aspettare e che possiamo riconoscere e distinguere per la sua novità, visto che è sempre in mezzo a noi quando obbediamo alle leggi divine; e Cristo disse ai farisei che tale regno era in mezzo a loro, perché insegnava loro le leggi di natura, che sono quelle di Dio: cosicché i farisei avrebbero potuto entrare immediatamente nel regno dei cieli, abbracciando la dottrina di Cristo». Condizionalmente, al pari del perdono di Dio insegnato dal Padre nostro, come

il Passerano sottolinea con forza,85 il regno di Dio è sempre possibile ed è presente là, dove comunità umane sappiano ritrovare l’innocenza della natura umana, vivendo in accordo con i princìpi ispiratori del Discorso della Montagna che Radicati compendia nei quattro principi fondamentali della dottrina di Cristo: povertà, umiltà, perdono e carità, che assimila alle «quattro pietre angolari» destinate «a rendere perfetto l’edificio cristiano, che diventa però subito imperfetto e deforme, se una di esse viene a mancare».86

9. Se neppure la sua interpretazione sfugge del tutto all’idealizzazione del

cristianesimo delle origini, presente da sempre in tutti i tentativi di riforma della chiesa e propria a tutti i «ritorni ai princìpi», di cui Machiavelli constatava la costante necessità per ogni genere di istituzioni, Radicati è sicuramente uno dei pochi ai suoi tempi a identificare già nella chiesa apostolica – e addirittura già prima, ancora vivente Gesù, negli apostoli animati da uno spirito di vendetta che Cristo è costretto a redarguire – il germe del tradimento del messaggio di Gesù, costituito dal progressivo imporsi del potere clericale con i suoi ruoli, le sue gerarchie, i suoi privilegi anche all’interno di una comunità, la «repubblica cristiana», il cui fondatore, animato dal desiderio di liberare la sua patria dal giogo clericale e dalla volontà di istituire la «democrazia perfetta», egualitaria e comunistica, proprio dal combinato disposto di potere sacerdotale e autorità politica imperiale era stato messo brutalmente a morte.

«Se esaminiamo attentamente la religione cristiana, vedremo che essa comincia a

84 «Molte altre nazioni sia in Africa, sia in America possono servire come prove di quanto

sostengo, essendo state felici sino a quando seguirono le leggi di natura; e la loro felicità forse sarebbe durata sino ad oggi, se i cristiani non fossero andati a turbare la loro quiete per soddisfare la loro insaziabile avarizia e ambizione». Cfr. III Discorso, infra, p. 103.

85 Cfr. I Discorso, infra, p. 97. 86 Ivi, p. 79.

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decadere fin dalla stessa età apostolica, ma poiché l’alterazione patita a quel tempo era insensibile, credo che pochissimi l’abbiano notata. Tuttavia, fu davvero quella minuscola scintilla ad avere causato successivamente quel grande incendio nella repubblica cristiana che infine l’ha consumata e annientata».87 Nonostante le buone intenzioni degli apostoli, Radicati scorge nell’istituzione di

ruoli gerarchici non sottoposti al meccanismo della temporaneità e dell’avvicen-damento a rotazione, insieme all’erezione dei templi, l’origine di tutte le calamità di cui ha sofferto la religione cristiana: «perché la grande devozione dei fedeli arricchì i templi e rese ambiziosi i vescovi che ne avevano la cura». Una volta seminato, il germe dell’ineguaglianza fruttificando ha recato in breve tempo con sé lo stravolgimento della democrazia piena e perfetta che Cristo aveva proposto agli uomini delle società corrotte del suo tempo e che i suoi discepoli avevano cercato inizialmente di attuare. E così che dall’aristocrazia episcopale si passerà alla tiran-nide dei patriarchi, per arrivare al «totato» del pontefice romano, la cui denuncia Radicati ben conosceva dalle pagine di Sarpi. Radicati è, in ogni caso, esplicito nell’affermare che Cristo non è venuto per i selvaggi che, a suo avviso, hanno conservato e conservano salute e innocenza originarie: è venuto per i malati, non per i sani. Pur sostituendo con Montaigne ai filosofi i selvaggi, Radicati pare qui fare propria la tradizione filosofica dell’Averroè latino, di Pomponazzi e poi di Spinoza che forniva una valutazione medicinale della lex religiosa, surrogato fantastico della legge razionale da cui si fa guidare il saggio e per Radicati surrogato della legge di natura che guida i selvaggi. Quasi avesse potuto leggerne frammenti pubblicati solo nel Novecento, egli è qui vicinissimo al suo amato Paolo Sarpi che aveva scritto: «La vera filosofia non è medicina, ma cibo dell’anima; e medicina è la religione» avendo chiarito che «Non è migliore il corpo, che sano conservasi colle medicine, ma quello che di loro bisogno non ha».88

La ripubblicazione delle leggi di natura effettuata da Gesù, che vale per la parte

d’umanità corrotta in cui prevale l’ineguaglianza tra gli uomini, la superbia, l’avarizia, l’ambizione, il familismo, il nepotismo e il clientelismo amorali acquisisce così con Radicati il suo senso estremo: non si tratta più di leggi che si limitano a regolare la coscienza, ma di leggi positive, chiamate a riformare l’intera società umana. Sottolineando il carattere positivo delle leggi di Cristo, Radicati finisce con il distaccarsi nettamente dai deisti inglesi impegnati nella polemica

87 Cfr. IV Discorso, infra, p. 111. Nel cap. VII de l’Histoire abregée cit. Radicati nell’in-

dicare come «la prima cosa che si può rimproverare al papato… il fatto che i suoi membri hanno sempre aspirato a una autorità e grandezza assolutamente contrarie allo spirito del vangelo», aggiunge «perché Gesù Cristo nella sua dottrina non inveisce contro nessun vizio tanto quanto il lusso e l’orgoglio, vedendoli infatti germinare nel cuore dei suoi discepoli».

88 P. SARPI, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Napoli, Ricciardi, 1969, p. 65. Cfr. V. FRAJESE, Sarpi scettico, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 121-122. Per la rilevanza anche quantitativa della presenza di Sarpi nei Discorsi è sufficiente uno sguardo all’indice dei nomi a cui rimando.

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contro ogni idea di costituzione divina della Chiesa e contro ogni teoria secondo la quale Cristo avrebbe prescritto nel Vangelo una particolare struttura della comunità dei fedeli. Il «diritto divino» della Chiesa era una teoria riservata ai tradizionalisti. Troppi ancora nel Seicento erano stati i tentativi per ricavare dalle Sacre Scritture la legittimazione di determinate forme ecclesiastiche perché i difensori della tolleranza, dell’autorità statale e della religione naturale accettassero di collocarsi su quel terreno. Lo stesso Tindal che aveva esordito nel 1706 con un voluminoso pamphlet, di oltre 400 pagine, dal titolo particolarmente eloquente: The Rights of the Christian Church asserted, against the Romish and all other Priests who claim an independent power on it, per spiegare la sua concezione della chiesa vi aveva sviluppato lo stesso ragionamento per aeternitatem con cui avrebbe poi difeso il suo deismo in Christianity as old as the world: se Cristo avesse stabilito una qualsiasi forma di governo ecclesiastico, essa sarebbe stata fin dal suo inizio perfetta e completa. Il radicale antistoricismo tindaliano lo induceva a considerare come puramente umane le vicende della chiesa: in lui la svalutazione di ogni legge positiva riguardante la Chiesa precedeva e accompagnava la svalutazione di ogni religione positiva.

10. Venturi, nell’inedita introduzione agli Opuscoli curiosi di cui si è detto, si

chiedeva come Radicati avesse potuto arrivare a una posizione che, pur inserendosi nella problematica del deismo, finiva per essere in netta contrapposizione con il suo spirito informatore. Per rispondere a questa domanda era decisivo ai suoi occhi precisare quale fosse il reale pensiero radicatiano sulla figura del Cristo. È effettivamente la domanda ineludibile. Fino a che punto permaneva qualche cosa di religioso nella concezione radicatiana della cancellazione della colpa in questa salvazione anzitutto sociale e politica e non più soltanto spirituale? O Cristo per Radicati non era che un uomo a cui egli attribuiva le sue idee sull’eguaglianza e la comunità dei beni e, in generale, su una società liberata dall’oppressione, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia?

La risposta di Venturi nel suo meditato equilibrio è sicuramente inoppugnabile.

Per l’infaticabile maestro degli studi sull’illuminismo europeo e italiano nell’opera di Radicati esistevano fondati motivi perché si prendesse sul serio l’aggettivo «cristiano» nella definizione – freethinker cristiano – che il conte piemontese aveva offerto di sé sul frontespizio della sua Histoire abregée de la profession sacer-dotale. Lo attesta in effetti la sua conoscenza dei vangeli, la circostanza che quando volle esprimere le idee che lo guidavano nelle sue contese giurisidizionalistiche Radicati non potè trovare formula più adatta di quella di «far vivere i preti secondo la morale del Vangelo», come tornò a parlare esplicitamente della «morale e dei precetti di Cristo» nella sua Lettera a Vittorio Amedeo II. Documento decisivo in proposito è poi il Parallelo tra Nazareno e Licurgo in cui identico gli pare il messaggio sociale e politico dei due grandi fondatori di «repubbliche», come egli stesso li chiama, sentendo questa identità di fondo come una conferma della sua interpretazione della legge di natura. «Anche se non fosse il figlio di Dio, com’egli

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è, dovrebbe tuttavia essere infinitamente venerato da tutti i mortali, essendo stato il più santo, il più giusto e il più savio dei legislatori». Le sue leggi sono certo quelle della natura, che vivono anche nell’opera di Licurgo, eppure per Radicati c’è in Gesù un elemento che nel re spartano è assente: «Il disegno del Nazareno fu infinitamente più ardito, più difficile e più lodevole di quello di Licurgo, perché il primo ebbe in vista il bene di tutto il genere umano, il secondo soltanto quello dei lacedemoni».89

Ancor più esplicito il carattere religioso del Cristo di Radicati nel suo Sermone, posto in bocca a un quacchero discusso come Elwall:90 «Gesù, dice, morendo non ebbe altra intenzione se non quella di rimettere gli uomini in quello stesso stato di innocenza in cui Adamo era prima del suo peccato, e con le sue leggi di mantenerli in questa libertà che procurò loro con la sua morte».

A Venturi pareva difficile negare che in tutte queste affermazioni stesse un elemento di fede religiosa, difficilmente risolvibile in formule teologiche, ma che certo dava alla sua concezione della «ripubblicazione» un accento che non era in altri.

«Effettivamente per Radicati – scriveva nella citata Introduzione agli Opuscoli curiosi - il Cristo venne a compiere un’opera che è insieme liberazione dal peccato e di “riforma” politica. Ed è proprio questa doppia funzione che dà una forma di fede alle sue concezioni quando queste sono attribuite al Cristo. Oltre è difficile andare nell’interpretazione. Elementi di prudenza, di polemica, di allegoria e di mascheratura si alternano nelle sue pagine così rapidamente e spesso confusamente da rendere difficile un’analisi più precisa. Del resto è probabile che Radicati ondeggiasse su questo punto. Quando il marchese d’Argens ci dice che “è noto che in tutte le sue malattie diventava buon cristiano, per ritornare poi, appena ristabilitosi, ai suoi princìpi di prima” possiamo certo scartare questa testimonianza come una delle tante maldicenze e leggende che corsero sul suo conto. Ma ci pare che in essa stia un granello di verità: in realtà Radicati cercò e trovò nei vangeli un appoggio per la sua propria idea. Ma il “cristianesimo” del freethinker Radicati, inteso come liberazione integrale dal peccato e ritorno allo stato d’innocenza non avrebbe la forza di portarlo alle sue conclusioni egualitarie e comunitarie se già in Radicati non fosse stata presente un’idea dello stato di natura che è tutta “libertina” e “quietistica” al contempo. La sua “natura” è al di là del bene e del male, vede morte e vita come due fenomeni altrettanto indifferenti, giustifica il suicidio come l’amore, non ammette rimorsi e ha un solo potente istinto: la ricerca della felicità. Si legga quell’elogio della vita che

89 A. RADICATI, Vite parallele, cit., p. 64. 90 Del singolare quacchero unitario e sabbatariano Eduard Elwall, membro della Mill

Yard Sabbatarian Baptist Church di Londra che nel 1726 aveva pubblicato il breve “tract” Dagon fallen upon his stumps: or the Inventions of men not able to stand before the first commandment of God, Thou shalt have no other Gods but me, la Bibliothèque raisonnée segnalava (nel suo tomo 28, p. 482) la pubblicazione di The supernatural incarnation of Jesus Christ proved to be false, London, 1742, in cui sarebbe stata dimostrata l’assenza di fondamento nei profeti e nell’Antico Testamento del concepimento sovrannaturale di Cristo, incompatibile del resto con il nome di Figlio di Davide, principio piuttosto delle perverse dottrine cattoliche e protestanti.

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egli ha voluto chiamare Dissertazione filosofica sulla morte e si avrà un quadro completo, anche se frammentato in tante rapide affermazioni, della sua visione della natura. Non più le forme della chiesa, non più soltanto le forme sociali escono svalutate da questa visione, ma qualsiasi convenzione, qualsiasi morale. Rappresenta il momento estremo del pensiero di Radicati, la quiete raggiunta in una natura sempre uguale nel ciclo incessante delle sue metamorfosi».91 Non mi pare si possa aggiungere molto a questa mirabile sintesi venturiana.

Semmai come risulta evidente a chi consideri i «plagi» dal Trattato Teologico Politico presenti nella versione inglese del X Discorso, si può precisare che Radicati trasse la sua fiducia nell’infinita produttività del cosmo, posta alla base della sua concezione comunitaria, a partire da una concezione prossima al Deus sive Natura di Spinoza. Com’è noto, lo stesso Spinoza aveva manifestato nel Trattato teologico-politico di avere di Cristo una opinione altissima, considerandolo «non tanto il profeta, quanto la bocca di Dio», proprio per l’universalità dei precetti morali da lui insegnati.92 Per Radicati la natura nella sua perfezione «ha sempre formato tutte le cose necessarie per il sostentamento delle sue creature ed ha sempre dato a ogni individuo piena libertà di usare ogni cosa richiesta e conveniente».Ogni proprietà che limiti le soddisfazioni degli uomini in questa luce finiva pertanto per l’apparirgli come un inganno e una violenza, esattamente come quella dei creatori di religioni, che negano a tutti le leggi di natura, a scopo interessato e politico. Se esiste penuria, come abbiamo visto per Radicati, non è la natura a dover essere incolpata, ma gli ordinamenti umani che fanno dell’amoralismo familiare la cellula basilare della convivenza interumana.

Gesù, per Radicati, attraverso le sue leggi in tutto identiche con le leggi di natura

«ha voluto stabilire tra gli uomini una democrazia perfetta, sapendo che era l’unico modo per farli vivere felici. Per questo introdusse la comunità dei beni tra loro, ne cacciò il lusso e la ricchezza, ordinò che nessun uomo fosse distinto da un altro uomo, perché sapeva che in un governo realmente popolare gli uomini debbono aver tutto in comune ed essere tutti eguali: un padre non deve conoscere il proprio figlio, né il figlio il padre, visto che questa superiorità e conoscenza sarebbero incompatibili con la comunità dei beni e con l’eguaglianza che sono i fondamenti

91 F. VENTURI, Introduzione cit. al progettato libro A. Radicati, Opuscoli curiosi, pp. 29-

30 del dattiloscritto. 92 B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, a cura di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini,

Torino, Einaudi, 1972, p. 111. Al contempo Spinoza rifiutava come inconcepibile sia l’In-carnazione sia la transustanziazione. Su quest’ultimo punto si veda la dura replica al neoconvertito A. Burgh: «Queste assurdità sarebbero ancora tollerabili se voi adoraste il Dio infinito ed eterno e non quello che il Châtillon diede impunemente in pasto ai cavalli nella città che gli Olandesi chiamano Tienen. E voi, poveretto, avete pietà di me? E chiamate una chimera la mia filosofia, che non avete mai conosciuta? O ragazzo sconsigliato, chi vi ha stregato a tal punto da farvi credere di divorare e di contenere nei vostri intestini l’infinito e l’eterno?» (B. SPINOZA, Epistolario, a cura di A. Droetto, Torino, Einaudi 1974, p. 299).

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della repubblica».93

Forse anche sulla base della sua diretta vicenda personale, dall’infelice primo matrimonio alle liti consortili, Radicati non ha dubbi che, al pari di Licurgo, Gesù ha fortemente voluto l’abolizione più completa dell’istituto familiare, vera cellula originaria delle società incardinate sull’ineguaglianza. Perché ai suoi occhi il vero egoismo micidiale non è tanto quello che procede dall’amor sui individuale, quanto quello che scaturisce nel contesto delle competizioni tra le famiglie. Può dispiacere agli odierni celebratori teo-dem e teo-con di family days, invero appropriati nel paese del più inveterato familismo amorale, ma è l’evangelista Luca (14, 26) ad avere attribuito a Gesù il logion «Se alcuno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, ed i figliuoli, ed i fratelli, e le sorelle, anzi anchora la sua propia vita; non può essere mio discepolo». Radicati si limita a citarlo, traendone le conseguenze. E l’interrogativo ch’egli si pone circa la possibilità di seguire il precetto gesuano dell’amore del prossimo là dove la famiglia è il primo – e fondalmentalmente esclusivo – centro di interesse, resta davvero un interrogativo pertinente per chi intenda essere discepolo del Gesù tramandato dai vangeli.

«Come è possibile a un uomo – si chiede Radicati – amare e assistere il suo prossimo, come comanda Cristo, se il suo amore non si estende più lontano dei figli, nipoti e parenti? L’esperienza ce ne mostra l’impossibilità, se consideriamo la scusa corrente che gli uomini accampano. Essi non possono assistere il prossimo, essendo tenuti a provvedere alle loro famiglie, e poiché questa incombenza non ha mai dei limiti precisi, essa è la causa di orribili rapine tra loro, per via del desiderio insaziabile di arricchire le loro famiglie e per i mezzi ingiusti e sempre perniciosi al bene pubblico adottati a soddisfare un tale desiderio. Cosicché si può dire in tutta verità che questa conoscenza [dei figli da parte dei padri e viceversa] e questa proprietà sono le cause che, per prime, hanno reso gli uomini ambiziosi, avari e, di conseguenza, come constatiamo, così inumani verso il loro prossimo. È qui dunque che si può parlare a ragione di Gens contra gentem, o del Bellum omnium in omnes, e non parlando dello stato di natura, come pretendono Hobbes e tutti coloro che, prima di esaminare le cose, non accantonano i loro pregiudizi».94 E già qualche riga prima aveva chiaramente identificato la genesi della «sete per

la ricchezza» non tanto nell’amor sui, quanto nell’amore dei figli e nipoti: «Perché, avendo tutti intenzione di lasciare in buone condizioni i loro figli, si sforzano di accumulare fortune; ma poiché non tutti possono acquistarne in modo eguale, e al contrario vi riesce solo un piccolo numero, e il resto rimane in povertà, questa ineguaglianza spinge i ricchi, che sono sempre ambiziosi, a distinguersi dagli altri e l’ambizione di essere qualcosa più degli altri cresce di pari passo con l’incremento della loro ricchezza, così che, in poco tempo, la democrazia si muta in oligarchia. Perché i poveri, che sono il maggior numero, crescono timorosi ed umili e i ricchi, che sono una minoranza, diventano spavaldi e arroganti, perché con il loro

93 Cfr. III Discorso, infra, p. 98. 94 Cfr. III Discorso, infra, p. 108.

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denaro comprano i voti del popolo e impediscono la libertà delle elezioni. In questo modo essi si procurano i posti di comando e gli onori e, di conseguenza, l’intera autorità della repubblica. Ora, benché in tali condizioni un governo possa continuare a chiamarsi popolare, certamente non lo è più, ma è oligarchico ogniqualvolta l’intero potere è in mano al ristretto numero delle famiglie più potenti, che mantengono tutti gli altri in uno stato di dipendenza».95 Parlando del governo popolare Radicati insiste sul fatto che autentica demo-

crazia può esistere solo là dove, come sapevano Licurgo e Cristo, tutti i beni appartengono alla Repubblica che li dispensa a ciascuno seguendo i suoi bisogni, in modo che nessuno sia ridotto alla mendicità e nessuno goda del superfluo, senza permettere che si introducano nella società le odiose parole meum & tuum. L’affer-mazione radicatiana che ciò deve valere anche per espressioni come «mio padre», «mia madre», «miei figli», «miei fratelli» e «mie sorelle» perché sono incom-patibili con la natura del governo democratico e lo distruggono dal suo comincia-mento è accompagnata in nota da una sapida citazione da un testo miscellaneo di Swift e Pope che per la sua data di pubblicazione, il 1728, ci permette quasi di scorgere per un attimo l’esule intento a rifinire uno dei suoi discorsi più impe-gnativi, il decimo, in cui più trasparente è il suo debito nei confronti di Spinoza, il grande maestro della rivendicazione della libertà del pensiero nei confronti di qualunque teologia fondata su rivelazione, ovvero essenzialmente sul primo genere di conoscenza da lui teorizzato, l’immaginazione, spesso la più distante dall’amor Dei intellectualis.

11. Lettore formidabile, Radicati, che di Swift ha fornito la prima traduzione

francese di A modest proposal for preventing the children of poor people in Ireland from being a burden to their parents or country, and for making them beneficial to the publick (un testo anch’esso «cannibalesco» che ha lacerato per sempre qualunque parvenza di buonismo dalla moderna cristianità incamminatasi lungo la strada dell’economia capitalistica, con la brutalità conosciuta nelle colonie, se del caso ubicate anche solo nella vicina Irlanda), dai non meno sconvolgenti e misantropici Viaggi di Gulliver freschi di stampa ricava una riflessione che da sola basta a farci cogliere la sua incontestabile originalità. A colpirlo in Swift è la critica dell’immortalità, implicita nell’episodio degli Struldbrug,96 dotati (com’è noto), dello spaventoso dono di non morire, senza possedere al contempo il privilegio dell’eterna salute e giovinezza. Per Radicati è lo spunto per una rinnovata esaltazione della bontà e generosità della Natura che accorda ai viventi solo un tempo di vita limitato. Se, spinozianamente, per diritto naturale i viventi possono

95 Ivi, p. 107. 96 Ne consiglio la lettura nella felice traduzione di uno dei suoi odierni ammiratori

italiani, Vincenzo Gueglio: J. SWIFT, I viaggi di Grulliver, Milano, Frassinelli 1999. L’episodio degli Struldbrug si trova a pag. 243-253.

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desiderare qualunque cosa vogliano e fare tutto ciò che è in loro potere per alimentare e soddisfare le proprie inclinazioni, si sbaglierebbe a immaginare che una libertà tanto illimitata possa produrre qualche irreparabile disordine tra i viventi della stessa specie, perché la natura ha provveduto abbondantemente alle loro necessità; e su questa base essi non possono avere nessuna discordia tra loro. Ed è così che i leoni vivono in pace con i leoni, i lupi con i lupi, le aquile con le aquile e così tutti i viventi che si trovano nello stato di natura.

«È inoltre appropriato – ragiona Radicati – che discordia, invidia e un odio implacabile regnino tra una specie e l’altra. In realtà, sarebbe un grave difetto e un’imperfezione della natura se la sua saggezza consistesse nel rendere gli animali felici per sempre. Perché, in tal caso, il piccione avrebbe ragione di lamentarsi con la natura per non averlo dotato di una forza sufficiente a difendersi dall’aquila e, comparandosi al lupo, la lepre potrebbe fare la stessa recriminazione e il lupo, a sua volta, raffrontandosi al leone. Ma le loro rimostranze sarebbero ingiuste. Perché la natura ha accordato agli animali la loro vita solo per un periodo limitato di tempo, il che è un effetto della sua infinita bontà, allo scopo che tutti gli esseri possano succedersi l’un l’altro e godere dei suoi benefici. Il che non potrebbe mai accadere se, una volta vivi, gli animali fossero immortali. Di conseguenza, dal momento che necessariamente debbono morire per far spazio agli altri, poco importa se muoiono in questo o in quel modo. Di più: io dico che il piccione che è preda dell’aquila e il lupo che lo è del leone, sono più felici dell’aquila e del leone che li hanno divorati. Perché la loro morte è improvvisa e le loro sofferenze di breve durata, mentre aquile e leoni, se muoiono di morte naturale, languono e soffrono a lungo prima di morire. Inoltre, il leone e l’aquila possono dolersi dell’ingiustizia della natura che li rende preda di innumerevoli invisibili animaletti che si insinuano nelle loro ossa e per tutto il loro corpo e che nutrendosi della sostanza migliore e più fine del loro sangue e distruggendo tutti i loro spiriti animali, li uccidono senza pietà. Perché tutti quegli animali invisibili che uccidono non solo i leoni, ma anche gli uomini e tutte le bestie che muoiono di morte naturale, si preoccupano altrettanto poco del misfatto che compiono nutrendosi del loro sangue, quanto poco si preoccupano leoni e uomini quando uccidono spietatamente altri animali per nutrirsi, avendo tutti il potere di agire così per un diritto assoluto e naturale».97 Proprio nella credenza nell’immortalità e nella fede ad essa correlata in una

ricompensa o in un castigo eterni Radicati individua le radici profonde che alimentano il fanatismo capace dei crimini più orrendi e, rievocando il regicidio compiuto da Jacques Clement ai danni di Enrico III di Valois, il conte piemontese «ad onore della verità» - la Nuda Veritas il cui fulgore è chiamato a scacciare le tenebre diffuse dalla superstizione, madre sempre pregna di fanatici – apre una digressione in cui ritorna sul motivo della minor pericolosità sociale del deismo o dell’ateismo, con considerazioni chiaramente ispirate dall’amato Pierre Bayle dei Pensieri diversi sulla cometa. Scrive infatti:

«I prìncipi apprendano dunque da questo triste esempio a essere meno severi contro coloro che i preti e gli zeloti chiamano atei o deisti, avendo essi meno da temere da

97 Cfr. Discorso X, infra, p. 184.

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costoro che dai bigotti e dai fanatici. Perché chi non ha né speranze, né timori al di là della tomba si sforza il più possibile di godere la vita e ha molto a cuore di conseguenza la sua reputazione e si guarda dal trasgredire le leggi umane, sapendo che non potrebbe essere felice in questo mondo come si propone, se si rendesse disprezzabile o infame con qualche crimine e soggetto, al contempo, ai terribili castighi inflitti dalle leggi umane contro i malfattori. Ma né l’infamia, né il timore dei castighi e della giustizia di questo mondo potrà distogliere e arrestare la pazzia furiosa di un fanatico, una volta che la sua coscienza si sia messa in pace, soprattutto se immagina di ottenere così una ricompensa infinita, evitando una sventura eterna. Il fanatismo può condurre un uomo a uccidere non solo il suo sovrano, per buono e giusto che sia, ma a massacrare anche il proprio padre, la propria moglie e i propri figli senza la minima ragione, benché li ami tutti teneramente e non abbia mai ricevuto che benefici da parte loro. Perché uccidendoli s’immagina di compiere il proprio dovere e di fare azione gradita a Dio. […] Nelle guerre di religione si sono visti anche troppi di questi esempi snaturati e funesti, ma non se ne vedranno mai di analoghi tra gli atei».98 Alla critica mossa al desiderio insensato dell’immortalità individuale che tutti

da qualche parte nell’inconscio coltiviamo, si accompagna la critica delle conce-zioni antropocentriche che fanno dell’uomo lo scopo della natura, volendo chiudere entrambi gli occhi sul ruolo assolutamente secondario e marginale che la nostra specie occupa effettualmente a livello cosmico. In termini direttamente ricalcati dallo Spinoza del Trattato teologico politico, Radicati sostiene con forza che la natura non è confinata entro i limiti della nostra ragione o dell’istinto degli animali:

«perché il termine natura, di cui gli animali sono solo piccolissimi punti, significa un’infinità di altre cose connesse a un ordine eterno e a quella legge inviolabile che dà essere, vita e movimento a tutte le cose. Cosicché ciò che pare ridicolo, ingiusto o malvagio agli animali e soprattutto all’uomo, appare come tale solo perché non conosciamo le cose se non in parte, e non possiamo avere un’idea esatta dei legami e delle relazioni della natura, non comprendendo l’immensa estensione della sua saggezza e del suo potere. Dal che consegue che ciò che la ragione ci presenta come un male è ben lungi dall’esserlo rispetto all’ordine e alle leggi della natura universale, ma lo è solo rispetto alle nostre proprie leggi». Contro il congenito nostro antropocentrismo Radicati con Fontenelle crede alla

«pluralità dei mondi» e auspica si limiti al nostro pianeta la funesta egemonia della dottrina che fa delle proprie credenze la verità assoluta ed esclusiva, annettendo scampo e salvezza solo a chi fa parte della stessa setta proclamando ognuno il proprio extra ecclesiam nulla salus. Imputando «al grande Atanasio che fu il primo ad avere l’impudenza di insegnarci che nessuno poteva essere salvato, se non fosse cattolico nel modo in cui l’intendeva lui» la genesi storica del pregiudizio che anima l’odio in buona fede di ogni settario per chi non è della sua setta, Radicati aggiunge:

«Ecco una dottrina che ha causato e causerà ancora secondo ogni probabilità un gran numero di disordini nel mondo, vale a dire in questo pianeta, perché bisogna sperare

98 Cfr. Discorso VII, infra, p. 157.

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che gli abitanti di altri pianeti vi vivano pacificamente, dal momento che non avranno tra loro simili tradizioni».99 Nel grande ordine della natura l’enigma più grande siamo noi: la sola specie che

a tale ordine si rivela capace di disubbidire. L’«indice delle materie» dell’edizione Wilford lo registra: «Uomo, la sola specie che non ubbidisce alla Natura, 184-185». Solo per l’uomo la natura ha dovuto fissare ricompense e punizioni

«perché conoscendo che gli uomini hanno diverse cavità nei loro cervelli, riempite di spiriti animali, i quali in gran fermento avrebbero riscaldato la loro immaginazione, al punto da farli cadere in una sorta di pazzia o di delirio, la natura, io dico, per farli ritornare dal loro erramento, ha pensato conveniente punirli severamente ogni qualvolta deviassero dal loro dovere e agissero in base alle false nozioni ispirate loro da quella follia, nozioni che tendono alla distruzione dell’individuo e a rendere infelice la loro specie». Benché gli uomini pretendano di avere una partecipazione più ampia degli altri

animali alla saggezza e alla ragione, le loro azioni dimostrano per Radicati che ne posseggono realmente di meno e non accordando alla natura ciò che essa esige o, forzandola oltre i suoi limiti, essi si rendono colpevoli del vero male morale – non curare la propria autoconservazione e quella della loro specie – da cui risulta il male fisico che finisce col tormentarli tutta la vita. La misantropia di Swift risuona nell’evocazione delle frenesie umane che hanno i nomi antichi e sempre attuali di avarizia e ambizione. Quest’ultima in particolare è la fonte perenne dei più gravi disordini tra gli uomini:

«È infatti accaduto che alcuni, immaginandosi migliori degli altri, hanno cercato di elevarsi al di sopra di essi, appropriandosi di tutto ciò che apparteneva agli altri per diritto naturale, facendo dei loro compagni i loro schiavi, il che, per via delle opposizioni incontrate, ha occasionato tumulti e guerre civili». Da queste condizioni hobbesiane, ma che per Radicati sono palesemente già il

risultato dell’abbandono del felice, selvaggio, stato di natura, sono nate le diverse forme di governo: aristocrazia, monarchia, democrazia, forme di governo certo «medicinali», ma legittime e accettabili se sorrette dal consenso generale del popolo. Illegittimi sono solo i governi tirannici – e tali Radicati considera anche i governi della Chiesa a partire dall’istituzione dei patriarcati che soppiantano il governo aristocratico dei vescovi,100 – i quali, proprio perché non fondati su

99 Cfr. IV Discorso, infra, p. 118. Evidentemente Radicati, oltre a l’Histoire des oracles

che cita nei Discorsi, conosceva di Fontenelle anche i fortunatissimi dialoghi sulla pluralità dei mondi, gli Entretiens sur la pluralité de mondes di cui ad Amsterdam era uscita nel 1719, dall’editore E. Roger, la settima edizione «augmentée de beaucoup».

100 Cfr. Discorso V, infra, p. 122. Sempre nello stesso Discorso Radicati mostra l’acqui-sita primazia del patriarca di Roma, e qundi l’affermarsi di un governo monarchico nella Chiesa, come risultato della distruzione dei patriarcati d’Oriente e d’Africa da parte delle conquiste musulmane. Cfr. infra p.129.

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interessi generali, da sempre hanno alimentato il rigoglio mostruoso delle superstizioni, che sfruttando le passioni della paura e della speranza, si rivelano lo strumento più efficace nello spogliare gli individui della loro dignità, abbattendone l’orgoglio naturale che impedirebbe loro di sottomettersi a un loro simile, per renderli «umili, docili e disponibili ad ubbidire, persuadendoli che stanno sottomettendosi e ubbidendo a Dio e non a un uomo».

Se ogni governo formato con il consenso generale del popolo è giusto e

ragionevole e non ha bisogno, per fare osservare le leggi, di servirsi di strumenti diversi da quelli di cui è stato munito dal popolo, la stessa cosa non vale per i governi tirannici, impostisi contro la volontà popolare. Non essendo possibile a un solo uomo o a minoranze ristrette invadere il diritto di tutti gli altri contro il loro volere, i tiranni, insieme con la forza aperta, da sempre hanno fatto ricorso a qualche potente stratagemma per estorcere sottomissione e, generalizzando Ernesto Rossi, si può ben dire che la storia ha dimostrato ad abudantiam come accanto al manganello non sia mai stato difficile trovare la disponibilità dell’aspersorio.101

Primo illuminista della penisola, come ebbe a definirlo Piero Gobetti, Radicati,

erede del libertinismo cinque-seicentesco e della grande tradizione anticlericale italiana, lettore del De tribus impostoribus, non ha dubbi che sia la superstizione lo stratagemma universalmente praticato da chi abusa del suo potere per ridurre in schiavitù una nazione libera. «Dal che possiamo evincere – conclude – che la superstizione non è un espediente necessario per stabilire un governo buono e giusto, vale a dire desiderato dal popolo, ma soltanto per fondare e conservare un governo odiato e detestato da tutti gli uomini. Infatti, poiché il consenso del popolo è l’unica vera e solida base di un governo e non è mai la base della tirannide, essa deve necessariamente conferire grandissima importanza alla religione in quanto è la religione ad imprimere e mantenere nel cuore degli uomini il timore da cui nasce la loro ubbidienza».102

Lo slittamento del suo discorso da «superstizione» a «religione» di cui Radicati

pare non avvedersi, al pari del fatto che l’edizione inglese utilizzi in molti casi apertamente religion dove, con maggior cautela, il testo francese impiega superstition, è la spia di un atteggiamento di fondo che considera essenzialmente con occhio libertino tutte le religioni positive viste quali instrumenta regni. È quello che vale per Fohe, Zertust, Sommonokodom, Brema, Mosè, Numa e Maometto. Nel lungo elenco radicatiano-libertino degli impostori Gesù tuttavia non compare, diversamente da come succedeva nel De tribus impostoribus che pure sappiamo figurare tra i testi «clandestini» di cui il conte era in possesso. Lo stravolgimento della sua ripubblicazione della religione naturale in superstizione per Radicati è stato il tradimento dei precetti di Gesù, non la loro applicazione. Il

101 E. Rossi, Il manganello e l’aspersorio, Roma, Kaos edizioni, 20002ed.. 102 Cfr. Discorso X, infra, p. 187.

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cristianesimo che la cristianità ci ha fatto conoscere non ha davvero molto a che spartire con l’insegnamento di Gesù.

Nel Decimo Discorso Radicati compara il «governo misto», la forma di governo

più durevole, a un corpo a tre teste – il principe, gli aristocratici, gli istituti di rappresentanza democratica – che mantengono il corpo sano e in pace sino a che hanno una sola volontà e un unico potere.

«In un governo misto la prima testa, la più bella, ma non la più potente, è quella del Principe; la seconda è quella della nobiltà e la terza quella del popolo. Ve ne è una quarta che impiega tutti i suoi sforzi per aggiungersi alle altre tre e rendere il corpo mostruoso, guastando la perfezione del triangolo; anzi, essa mostra un desiderio ardente di sormontare le altre e se esse non fanno attenzione, saranno schiacciate sotto il suo peso opprimente come lo furono in passato. Ma c’è da sperare che esse si ricordino delle calamità che quel mostro ha fatto loro patire e che non gli offrano mai la possibilità di risollevarsi. La testa di cui parlo non è quella di Medusa, ma la testa Clericale, ben più tremenda dell’altra. Perché i mali che gli uomini hanno sofferto da Medusa erano puramente immaginari, mentre quelli che hanno patito, e patiscono ancora dai preti, non sono che troppo reali».103 Per Radicati Gesù, sommo legislatore, non ha alcuna corresponsabilità nella

crescita mostruosa della quarta testa, del cui prepotente riaffacciarsi sulla scena la desolante maggioranza di laici e cattolici italiani sembrano devotamente compia-cersi non senza untuosa compunzione. Gesù è morto con in capo, a irriderlo, una corona di spine. Radicati faticava a rivederlo nell’Inquisitore di Torino Giovanni Alberto Alfieri che sappiamo «inchinarsi a V. E. (il marchese Cesare Ardizzone, primo presidente del Senato del Piemonte) et assieme pregarlo delle sue grazie di favorirmi di due soldati di giustizia pratici a dar la tortura»,104 come faticava a riconoscerlo nei vice-dio ai suoi giorni con il triregno in capo. Nonostante la meritata fine dello Stato pontificio e del «totato» che Paolo Sarpi aveva scorto nella Chiesa cattolica uscita dal Concilio tridentino, nel clima di restaurazione inaugurato da papa Giovanni Paolo II e dal suo teologo di fiducia, oggi suo successore, più d’uno, credo condivida la mia difficoltà di intravvedere il Vicario di Gesù in chi sfoggia, compiaciuto della sua citazione postmoderna, il camauro. Ma è possibile che si tratti di gente affetta anch’essa, come me, da accertati disturbi alla vista.

TOMASO CAVALLO Pisa, agosto 2007.

103 Ivi, pp. 189-190. 104 F. Venturi, op. cit. p. 105.

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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA 1698 Martino Ignazio Adalberto Radicati di Passerano e Cocconato nasce a Torino l’11 novem-

bre da Giovanni Francesco e da Maria Maddalena di San Giorgio. 1707 Dalle terre avite è condotto Torino, a corte a servizio del Principe Tommaso. 1715 Non ancora diciassettenne un matrimonio di interessi lo fa sposare con Maria Teodora

Cecilia Provana di Bussolino, anch’essa minore, da cui avrà tre figlie. I rapporti con moglie e suocera divengono presto molto tesi, per via di una donazione carpita al padre di Radicati in favore di sua moglie; le «due inique femmine», moglie e suocera, riescono ad ottenerne arresto e incarcerazione per nove mesi dal 1716 al 1717 nel forte di Ivrea.

1716 2 dicembre: rinvenimento dell’immagine della Vergine, poi esposta nella chiesa di S.

Dalmazzo degli agostiniani (i «santoni neri» del Discorso preliminare). 1717 27 gennaio, durante la prigionia del figlio, muore il padre Giovanni Francesco 83enne,

sepolto nella propria tomba nella Chiesa della Consolata. 1718 Padre ormai di due figlie (Tecla Maria e Barbara Ludovica), il 4 e il 15 aprile contrae un

debito di 6000 lire con Giovanni Gastinelli, predisponendosi ad abbandonare la moglie e a fuggire da Torino. Giunto a Genova, apprende la notizia del cattivo stato di salute della moglie che ha partorito prematuramente una terza figlia (Violante Maria); torna a Torino, dove è accusato di aver avvelenato la moglie. Il medico che ha assistito la moglie lo scagiona pienamente dall’accusa. Si rifugia nella chiesa dei Padri dell’Oratorio. Morte della moglie tra il 13 giugno e il 1 luglio. In tale data ottiene dal Senato una delega per la vendita dei mobili lasciati da suo padre «ad effetto di poter sodisfare li legati, messe e sepultura di essa fu Sign. Contessa Provana». Il Senato nomina un curatore per le figlie.

1719-1721 Viaggio in Francia, passando a Montpellier, sosta in Linguadoca e a Parigi. Sulla via

del ritorno si ferma alla frontiera della Savoia a causa della quarantena stabilita per via della peste che infuria in tutta la Francia meridionale. Il 7 maggio convola a nuove nozze con Angelica Teresa De Manin de la Villardiére, figlia d’un nobile e militare francese. Ritiratosi nelle sue terre di Passerano si schiera dalla parte dei contadini in una disputa che li vede contrapposti ai nobili signori; stabilitosi nel vicino centro di Casalborgone, il suo attivo anticlericalismo gli procura un’accusa presso il Tribunale dell’Inquisizione quale «nemico aperto della Chiesa».

1719 Agosto: morte della figlia Barbara Ludovica. 1721 Morte della figlia Violante Maria. 1724 Papa Benedetto XIII, neoeletto, si mostra disponibile a un componimento delle controversie

con la corte sabauda. A settembre giunge a Torino p. Tommaso da Spoleto latore di proposte di pacificazione.

1725 Nel marzo sono firmate le istruzioni impartite al Marchese d’Ormea per le trattative da

condurre in vista del Concordato. Dal mese di maggio Radicati è a Torino dove risiede all’«oberge di Madama d’Ussò». Nell’ottobre, avendo deciso di abbandonare il Piemonte, raduna la massima quan-tità possibile di danaro liquido. Tra ottobre e gennaio 1726 ottiene prestiti cedendo le sue rendite fondiarie.

1726 Nei primi giorni di febbraio abbandona Casalborgone, accompagnato dalla moglie e da un

servo alla volta di Bordeaux e dell’Inghilterra. Giunto a Londra vi compone e fa stampare un «Manifesto» per spiegare al re i motivi della sua fuga, inviandone sollecitamente a Torino più copie.

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1727 Il 2 gennaio si apre l’istruttoria dell’avvocato fiscale ai danni di Radicati, uscito dagli stati di S. M. «senza permissione»; il 15 gennaio viene deciso l’inventario di tutti i beni; il 22 gennaio il Senato emana una prima sentenza in cui si invita il conte di Passerano a ritornare entro tre mesi; maggio: tra la S. Sede e la corte sabauda si raggiunge un accordo sul Concordato; il 29 luglio un regio biglietto, sottoscritto da Mellarède, condanna Radicati alla pena di 200 scudi d’oro, ma proroga ad un anno i termini del rientro al fine di evitare la confisca dei beni. Il 27 agosto il Senato emette la sentenza corrispondente. Nell’autunno la moglie del Radicati ritorna a Torino, frequentando gli ambienti di corte, in particolare la contessa di S. Sebastiano e riuscendo a farsi attribuire una pensione.

1728 9 maggio Radicati scrive la lettera dedicatoria, che serve di prefazione ai Discorsi, a

Vittorio Amedeo II. 28 giugno la moglie di Radicati ottiene un’ulteriore proroga dei termini per il suo rientro, adducendo la sua infermità quale causa del mancato ritorno. Nel novembre giunge a Torino, portata dal domenicano Francesco Mellier, professore della rinnovata università di Torino, la cassetta che contiene i Discorsi e la lettera dedicatoria. Il 20 novembre Vittorio Amedeo II scrive al suo ambasciatore a Londra di comunicare al Conte di Passerano la sua disapprovazione per la temerarietà dimostrata «di indirizzarci un’opera di questa natura che lo rende indegno della nostra protezione», ingiungendo all’ambasciatore di interrrompere ogni contatto con il Radicati.

1730 3 settembre: abdicazione di Vittorio Amedeo II che ha sposato morganaticamente la contes-

sa di S. Sebastiano e si ritira in Savoia, a Chambéry. Radicati esordisce sul mercato librario londinese pubblicando l’opuscolo Christianity set in a true light in Twelve Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted, J. Peele, at Locke‘s Head, in Pater-noster-Row; and Sold by the Booksellers of London and Westminster, che contiene A preliminary Discourse in which the Author gives a particular Account of his Conversion (pp. i-xxxix); The Contents [Indice generale dei XII Discorsi] (pp. xl-xlii) Discours I. Of the Precepts, and Manners of Jesus Christ (pp. 1-20).

1731 Agosto, improvviso ritorno in Piemonte di Vittorio Amedeo II che intende risalire sul trono.

Il nuovo re, suo figlio Carlo Emanuele, lo fa rinchiudere nel castello di Rivoli e poi di Moncalieri. 1732 Gennaio, Radicati finisce di scrivere l’opuscolo sull’Abdicazione di re Vittorio Amedeo II e

sui suoi drammatici retroscena, il suo scritto editorialmente più fortunato: The History of the Abdication of Victor Amedeus II Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole. Shewing the real Motives, which induc’d that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King. As also how he came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. In a letter from the Marquis of T***** a Piemontois, now at the Court of Poland, to the Count de C******* in London. Lo scritto viene pubblicato sia dall’editore J. Harbert, che dagli editori A. Dodd, E. Nutt & E. Cook. (pp. 47, in 8°) e avrà successive edizioni in francese e in inglese. Pubblicazione della Philosophical Dissertation on Death. Composed for the consolation of the unhappy. By a friend to truth, printed for and sold by W. Mears, pp. 94, in 8°, che suscita grande scandalo e induce il vescovo di Londra Edmund Gibson a chiedere l’incarcerazione di autore, traduttore ed editore. Radicati, imprigionato per breve tempo, esce dal carcere su cauzione. La somma versata dissesta definitivamente le sue già precarie finanze. Pubblicazione di A parallel between Muhamed and Sosem the great deliverer of the Jews, By Zelim Musulman, in a letter to Nathan Rabby, London, s.e., 1732. Il 4 novembre lancia dalle pagine del settimanale Craftsman una pubblica sottoscrizione allo scopo di raccogliere le ghinee destinate alla pubblicazione dei Discorsi «in un volume in 4°, su carta reale e in bel carattere». 27 novembre lettera al duca di Newcastle in cui riafferma i motivi che lo hanno spinto a scrivere la Dissertazione filosofica.

1733 15 maggio, lettera al re Carlo Emanuele per chiedere il permesso di pubblicare e dedicargli i

Discorsi di cui è in vista la stampa. 1734 Pubblica una nuova versione del Preliminary Discourse, con il titolo A Comical and true

Account of the modern Canibal’s religion, By Osmin, True Believer, To which is added a select

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piece, call’d The Story of the Stories, taken from the Canibal’s Chronicle, London, s.e., London 1734; nello spazio di alcuni mesi escono due edizioni dei Discorsi con il titolo: Twelve Discourses concerning Religion and Government, London, printed for J. Martin, and sold at Lycurgus’s Head in Warwick Court, Holborn; e Twelve Discourses concerning Religion and Government. Inscribed to all lovers of Truth and Liberty, by Albert Comt de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition, London, Printed for the author, sold by the booksellers, and at the Pamplet shops in London and Westminster, (pp. 271, in 8°). È di quest’anno anche l’opuscolo anonimo che le biblioteche inglesi di Durhan e Glasgow gli attribuiscono, The Free churchman. N. 1, or Thoughts of a nobleman, on a passage in Bishop Burnet’s History of his own times, importing that a queen wav’d her promise of bishoprick to a divine on an objection, that he lay under an ill fame, or labour’d under an ill character. Apply’d to a pretended like incident at this time, relating to the reverend chaplain of a very eminent noble man, and applicable to all cases of that nature. A new seasonable enquiry. Address’d to the Parliament and clergy: with a letter prefix’d to the B. of L -. To be occasionally continu’d. London, Printed for John Mears, near St. Paul’s; and sold by the booksellers of London and Westiminster, VI, 23, in – 8°. In una data imprecisata, forse già nel 1734, Radicati lascia l’Inghilterra per l’Olanda dove vivrà tra l’Aja e Rotterdam sotto il falso nome di Alberto Barin.

1735 Carestia nello stato pontificio, pessimamente amministrato e gravato di un enorme debito

pubblico. Il 19 gennaio 1735 diventa definitiva la confisca dei beni del Radicati, già sequestrati a partire dal 1728.

1736 pubblica l’importante Recueil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes, A

Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils, che contiene: Dedica a Don Carlos; Factum d’Albert Radicati de Passeran, par lequel on voit les motifs qui l’ont engagé a composer cet ouvrage; Douze Discours moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l’Auteur; Histoire abregée de la profession sacerdotale, ancienne et moderne à la tres illustre et tres celèbre secte des Esprits-Forts par un Free-Thinker Chrêtien; Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre a l’Empereur Trayan Auguste; Recit fidelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, Dans lequel l’auteur declare les motifs qu’il eut de quitter cette abominable Idolatrie, Traduit de l’Arabe a Rome par M. Machiavel imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, MDCCXVIII, con prefazione dell’editore; Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile a la Nation un grand nombre de pauvres Enfans, qui lui sont maintenant fort a charge, Traduit de l’Anglois.

1737 La religion Muhammedane comparée à la paienne de l’Indostan, par Ali-Ebn-Omar,

Moslem, epitre a Cinkniu, bramin de Visapour, Traduit de l’arabe, A Londres (ma più probabilmente Rotterdam), au depens de la Compagnie, 1737.

Viene pubblicato in inglese la traduzione dell’ Histoire abregée con il titolo A succinct History of Priesthood, ancient and modern, London, s.e., 1737.

Esce a Rotterdam con falsa indicazione Londres la rielaborazione del III tra i discorsi dell’edizione inglese «La Religione di Cristo non differisce dalla Religione Naturale» con il titolo Sermon préché dans la grande assemblée des Quakers de Londres, par le fameux frère E. Elwall, dit l’Inspiré, Traduit de l’Anglois, A Londres, au depens de la Compagnie, 1737; suivi de La religion muhammedane, comparée à la payenne de l’Indostan, par Ali-ebn-Omar.

24 ottobre, Alberto Radicati, assistito da pastori ugonotti che lo inducono a ‘convertirsi’, si spegne all’Aja.

5 novembre, il Conte della Chavanne dall’Aja informa la Corte di Torino dell’avvenuto decesso: «le comte Passeran qui s’étoit retiré dans ce pais est mort dans cette ville le mois passé reduit a telle misere qu’il n’a pas laissé de quoy se faire enterrer».

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BIBLIOGRAFIA SECONDARIA

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• T. Cavallo, Introduzione a: A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, 2003, pp. 9-63 (l’edizione comprende il testo francese del manoscritto custodito alla Biblioteca dell’Università di Helsinki, con traduzione italiana e versione inglese in appendice). • G. Mori, Recensione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, in La lettre clandestine, n. 12, 2003, pp. 396-97. • S. Berti, «Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano» in: Rivista Storica Italiana, CXVI, III, 2004, pp. 700. • C. Passetti, Recensione a: Radicati, A. Dissertazione filosofica sulla morte, Ets Pisa 2003, in: Il pensiero politico, Rivista di Storia delle Idee Politiche e Sociali, XXXVIII, n. 1, 2005, pp. 140-142. • A. Granese, «Il riformismo politico-religioso di Pietro Giannone e Alberto Radicati», in: Esperienze letterarie, n. 4, 2003, pp. 3-25. • T. Cavallo, «Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell’opera di Alberto Radicati», introduzione ad: Alberto Radicati, Vite parallele, Sestri Levante, Gammarò 2006 (Ia ristampa sett. 2007), pp. V-XL. L’edizione contiene la traduzione italiana di A parallel between Muhamed and Sosem, the Great Deliverer of the Jews e Nazarenus et Licurgos mis en parallel par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l’Empereur Traian Auguste. • M. Cappitti, «‘Liberarsi dal giogo crudele dei preti’. Le vite parallele di Alberto Radicati», in: http://www.carmillaonline.com/archives/2007/05/002234.html#002234 • S. Busellato, recensione ad A. Radicati, Le vite parallele in: Il Grandevetro, 2007 (in corso di stampa).