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1 GRUPPO ARCHEOLOGICO ALBINETANO “PAOLO MAGNANIVia Chierici, 2 - 42020 Borzano di Albinea – Reggio Emilia C.F.: 91093260353 CONVERSAZIONI DI PREISTORIA Alberto Catalano Contributi delle Scienze Geologiche alla Archeologia Preistorica: alcuni esempi significativi [Primavera 2017]

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GRUPPO ARCHEOLOGICO ALBINETANO

“PAOLO MAGNANI”

Via Chierici, 2 - 42020 Borzano di Albinea –

Reggio Emilia

C.F.: 91093260353

CONVERSAZIONI

DI PREISTORIA

Alberto Catalano

Contributi delle Scienze Geologiche alla Archeologia

Preistorica:

alcuni esempi significativi

[Primavera 2017]

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CONVERSAZIONI DI PREISTORIA

Alberto Catalano

Contributi delle Scienze Geologiche alla

Archeologia Preistorica:

alcuni esempi significativi [Primavera 2017]

L’Archeologia Preistorica rappresenta un modo di leggere, nel mondo

che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, le tracce che i nostri più lontani

progenitori vi hanno lasciato (assieme a tutti gli altri viventi); purtroppo,

solo in minima parte tali tracce si conservano invariate e risultano tuttora

reperibili nel suolo; tuttavia, anche in questa fortunata eventualità, molto

spesso sfuggono alle nostre indagini, qualora non siano ricercate con

pazienza e sistematicità nel terreno che le contiene; dunque, a mio

parere, i primi “veri” Archeologi della Preistoria sono stati i cultori

delle Scienze della Terra, i Geologi, i quali – anche dopo l’affermazione

della Archeologia e della Paleo-Antropologia come discipline autonome –

hanno mantenuto tutta la propria importanza, così da rappresentare oggi

indispensabili collaboratori di qualunque seria ricerca archeologica, nel

ruolo specialistico di stratigrafi, sedimentologi, petrografi, vulcanologi,

paleontologi, etc..

In questa nota, pertanto, mi propongo di evidenziare come il

contributo offerto dalle Scienze della Terra possa risultare

significativo non solo nella pratica archeologica sul campo, ma non

raramente anche nella interpretazione dei reperti. Per ovvie ragioni di

tempo, presenterò solo alcuni esempi della collaborazione operativa

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4 tra Geologi ed Archeologi, scegliendo quelli che mi sembrano più

rappresentativi. Focalizzerò l’attenzione dapprima sulla possibilità di una

antichissima, seppur breve, navigazione nel Mare Tirreno da parte dei

Neanderthaliani, quindi sul probabile concorso di un evento vulcanico alla

loro estinzione; poi mi soffermerò su una sofisticata tecnologia

trasformativa mineralogica dei nostri antenati (Homo sapiens sapiens) nel

Periodo Paleolitico Medio Africano, e infine mostrerò come una

misteriosa raffigurazione parietale nella famosa Grotta di Chauvet-Pont

d’Arc è stata ultimamente interpretata da un noto Geologo francese.

1° ESEMPIO: i Neanderthaliani sono stati i primi navigatori del Mare

Tirreno?

Questo seducente interrogativo, sebbene condizionato da molteplici

“Solo se il dato sarà confermato…”, mi è parso tuttavia meritorio di un

breve excursus, perché mi consente di cominciare ad illustrare come la

Geologia possa talora offrire all’Archeologia affidabili spiegazioni e/o

interpretazioni.

L’Isola di Lipari, la maggiore dell’Arcipelago Eoliano, secondo

l’Archeologia consolidata, sarebbe stata colonizzata, circa 10.000 anni fa,

da Popolazioni Neolitiche attratte dall’abbondante presenza di ossidiana,

un nero vetro vulcanico usato per la produzione di sofisticati strumenti,

come punte e lame molto taglienti.

Nel 2014, in un Convegno di Preistoria tenutosi in Brasile, è stato

segnalato il ritrovamento di oltre una cinquantina di utensili litici a

Lipari/Canneto, attribuiti alla Cultura Mousteriana, propria dell’Uomo di

Neanderthal, pertanto pre-neolitici. Se l’assegnazione di questi reperti

al lavoro di artigiani neanderthaliani fosse comprovata, l’importanza

archeologica del ritrovamento sarebbe cruciale, perché si dovrebbe

retrodatare l’arrivo dell’uomo nelle Eolie e, soprattutto, prendere in

considerazione un anticipato inizio della navigazione nel Mare Tirreno,

rispetto a quanto finora creduto.

Poiché l’arrivo di un gruppo umano in un’isola è possibile soltanto per via

marittima, appare logico domandarsi come ciò sarebbe potuto avvenire a

quel tempo, almeno 40.000 anni fa. La risposta viene dalla Geologia, che

ha provato come, nel Paleolitico Medio, in seguito alla Glaciazione di

Würm, il livello marino si fosse abbassato sotto l’attuale di parecchie

decine di metri (non solo nel bacino mediterraneo; anche parte di quello

che oggi è il Mare del Nord era, allora, un territorio emerso, a tipo di

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5 tundra, abitato da animali preistorici e dai loro cacciatori; da più di un

secolo, le reti a strascico dei pescatori vi raccolgono zanne ed ossami di

mammuth, resti umani, manufatti preistorici, etc.). Di conseguenza,

l’estensione della terra ferma era più ampia di oggi, cosicché il braccio di

mare tra Sicilia e Lipari risultava ben più stretto rispetto all’attuale, mentre

l’arcipelago non solo era ben visibile dalla costa siciliana, ma poteva

essere raggiunto con una breve traversata.

Mi piace, pertanto, immaginare che un gruppuscolo di Neanderthaliani

abbia deciso di navigare fino a Lipari, sebbene di ciò manchi qualsiasi

prova, tanto più che è tuttora discussa la presenza di gruppi umani in

Sicilia prima del Periodo Paleolitico Superiore. I Paleo-Antropologi

ipotizzano che semplici zattere, costituite da tronchi di albero o fusti di

canne legati insieme, siano state i natanti più antichi e più diffusi nella

Preistoria; autorevoli studiosi sostengono che imbarcazioni di questo tipo

sarebbero state impiegate, circa 800.000 anni fa, da Homo erectus per

colonizzare le Isole Indonesiane: Lombok, Flores, Timor, etc..

Da sinistra a

destra:

-Homo erectus

-Homo

heidelbergensis

-Homo sapiens

sapiens

Un Archeologo Austro-Australiano, Robert G. Bednarik (autore di molti

studi sull’arte rupestre degli Aborigeni dell’Oceania) ha promosso un

importantissimo “Progetto di Archeologia Sperimentale”, consistente nella

replicazione della navigazione preistorica tra le Isole Indonesiane,

utilizzando natanti costituiti da fasci di canne di bambù recise con

strumenti di pietra scheggiata di quel tempo e legate con funicelle

vegetali; la sperimentazione ha concretamente dimostrato la possibilità

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6 che le Isole Indonesiane siano state colonizzate nel Paleolitico Inferiore

da Homo erectus con questo tipo di imbarcazioni. Nel 2010, una

complessa ricerca interdisciplinare aveva già proposto che Creta, un’altra

isola mediterranea,circa 130.000 anni fa, fosse stata abitata da Homo

heidelbergensis, arrivatovi pure per via marittima, verisimilmente con

natanti del tutto simili a quelli paleo-indonesiani.

Mi pare allora plausibile supporre che anche i Neanderthaliani “siciliani” –

ammesso e non concesso che i reperti di Lipari/Canneto siano autentici –

possano avere usato zattere di tronchi legati insieme per raggiungere

l’isola.

2° ESEMPIO: un importante fattore geologico nel processo di

estinzione rapida dei Neanderthaliani.

L’estinzione della specie Homo sapiens neanderthalensis in Europa –

secondo le ricerche più recenti – sarebbe avvenuta tra 41.000 e 39.000

anni fa, arco temporale così breve da risultare di difficile spiegazione;

alcuni clan, tuttavia, sarebbero sopravvissuti ancora nella Penisola

Iberica, ritirandosi sempre più a sud, fino ad estinguersi, forse 28.000

anni fa, a Gibilterra.

Oggi, si attribuisce la scomparsa dei Neanderthaliani ad un concorso di

almeno tre cause presentatesi in sequenza, al riconoscimento delle

quali ha dato un contributo cruciale la scoperta dei complessi

fenomeni geo-climatici avvenuti in quell’epoca; ovviamente, trascuro

tutte le ipotesi indimostrabili, quali una malattia contagiosa trasmessa

dagli invasori o una presunta superiorità venatoria conferita agli uomini

moderni dall’addomesticamento del cane.

Il primo fattore [1] implicato sarebbe stato rappresentato dalla

particolare rigidità del clima europeo, che ha mostrato alcune

improvvise fasi di gelo estremo, tra 50.000 e 40.000 anni fa,

denominate “Eventi di Heinrich”. Gli effetti delle basse temperature sulla

fauna e sulla flora, che hanno compromesso la sopravvivenza dei

Neanderthaliani, sono stati la trasformazione steppica dell’ambiente e la

rarefazione della megafauna pleistocenica erbivora (cervi, cavalli, bovini,

etc.), tipiche prede dei Cacciatori Neanderthaliani, sostituita da

numerose specie di piccoli mammiferi (roditori per lo più), molto mobili e

veloci, che richiedevano ai cacciatori agilità motoria e velocità nella

corsa, quindi una modificazione radicale di tecnica venatoria,

irrealizzabile da parte degli abitudinari Neanderthaliani in così breve

tempo. Possiamo immaginare, pertanto, che la caccia fosse diventata

tanto impegnativa da sfiancare anche i soggetti più robusti e da indurli a

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7 limitare estensione e durata delle battute, mentre gli individui più

gracili/debilitati soccombevano alla penuria alimentare;

conseguentemente, i clan si sono ben presto diradati, mentre il territorio

si è spopolato “a pelle di leopardo”, tanto che il numero dei residenti si

era ormai tanto abbassato da ridurre, contestualmente, la variabilità

genetica nella popolazione e da creare le precondizioni di una prossima

estinzione.

La dotazione genetica di una

popolazione, dopo un collo-di-

bottiglia, si riduce in misura tale da

comprometterne la ri-espansione

numerica

Dunque, il collo-di-bottiglia del popolo neanderthaliano era già in atto,

quando ha ricevuto il colpo di grazia da due inaspettati eventi: l’arrivo

in massa dell’uomo moderno ed una pesante catastrofe geologica.

L’interazione con i nuovi arrivati uomini moderni (secondo fattore

d’estinzione [2]), giunti in Europa poco prima di 40.000 anni fa, è stata

inevitabilmente segnata sia dalla competizione per i territori di caccia, sia

anche dall’incrocio genetico, di cui è prova la presenza di una quota di

DNA neanderthaliano fino al 4% ed oltre nel genoma di tutti noi. I nostri

progenitori, nella conquista territoriale dell’Europa, dapprima hanno

spinto i Neanderthaliani ai margini del mondo abitabile (Scandinavia,

Gran Bretagna, Iberia, etc.), quindi hanno sterminato i pochi clan

resistenti; mentre l’Archeologo Americano C. W. Marean sostiene che gli

invasori abbiano trucidato maschi e bambini e rapito le femmine, la

Paleo-Antropologa italiana A. Ronchitelli, forse più verisimilmente,

ipotizza che – in seguito all’ampio interbreeding – si sia verificato il

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8 riassorbimento della variante neanderthaliana nella specie

principale, sia avvenuta cioè la progressiva sostituzione di Homo

sapiens sapiens a Homo sapiens neanderthalensis, fino a causarne la

scomparsa. L’evento che ha determinato l’estinzione anche degli ultimi

Neanderthaliani (terzo fattore d’estinzione [3]), però, è stato una

supereruzione vulcanica avvenuta nell’Italia Meridionale, che i Geologi

datano a circa 39.000 anni fa, la Eruzione del Supervulcano Flegreo, di

elevata intensità esplosiva e di ampia estensione territoriale.

Le tracce geologiche di quella supereruzione sono rappresentate sia

dalla Ignimbrite Campana, i cui depositi coprono una superficie di oltre

30.000 kilometri quadrati, con uno spessore anche superiore a 60 metri,

sia dalla ricaduta di particelle di cenere vulcanica, trasportate dai venti

dominanti, nell’Europa Orientale, fin’oltre le Montagne del Caucaso e

nelle zone sud-occidentali della Russia. L’eruzione ha proiettato

nell’atmosfera una colonna di materiali ignei alta circa 45.000 metri,

composta da più di 300 kilometri cubici di polveri vulcaniche, associate a

450 milioni di kilogrammi di biossido di zolfo, che si è rapidamente

trasformato, in atmosfera, nel micidiale acido solforico, responsabile di

imponenti effetti devastanti sull’ecosistema. A completamento della

distruzione direttamente prodotta dai materiali ignei, l’offuscamento

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9 atmosferico da parte delle polveri vulcaniche ha ridotto drasticamente

la quota di radiazione solare al suolo e la temperatura dell’aria, così da

innescare un inverno vulcanico che i Geologi calcolano sia durato

qualche anno (forse 3); questo, a sua volta, ha prodotto una carestia

alimentare risultata letale per i Neanderthaliani nella maggior parte

d’Europa; sarebbero stati risparmiati solo gli abitanti della Penisola

Iberica, sopravvissuti ancora qualche migliaio di anni ritirandosi sempre

più a sud, fino a Gibilterra, dove le loro ultime tracce di vita, risalenti forse

a 28.000 anni fa, sono state trovate nella Gorham’s Cave.

Una prova convincente, non tanto della devastazione determinata

dall’inverno vulcanico, quanto degli effetti prodotti sugli umani, si trova

nella Grotta Mezmaiskaya, affacciata al Mar Nero, nella quale i Geologi

russi hanno trovato uno spesso strato di ceneri flegree: mentre le

tracce dei Neanderthaliani – manufatti, focolari, sepolture, etc. – sono

numerose sotto di esso (prima dell’eruzione), invece i livelli sovrastanti

(dopo l’eruzione) sono del tutto sterili.

Zona euroasiatica di massima ricaduta vulcanica flegrea

3° ESEMPIO – DIA 31: espressioni cognitive simboliche di tipo

moderno mostrate da Homo sapiens sapiens molto prima di quanto

si pensasse.

Da tempo, i Paleo-Antropologi si domandavano dove e come Homo

sapiens sapiens (Hss) fosse riuscito a superare quei Periodi Glaciali,

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10 noti in Europa come Riss e Würm, tanto gelidi ed aridi anche nel

Continente Africano da renderlo quasi inabitabile, senza riuscire a trovare

una risposta convincente; è stato C. W. Marean il quale, all’inizio degli

anni ’90 del secolo scorso, ha ipotizzato che un piccolo gruppo umano

potesse aver trovato rifugio in qualche luogo temperato del Sudafrica;

dopo prolungate ricerche, solo nel 1999, si è imbattuto nel complesso di

grotte sulla Costa del Capo, in località Pinnacle Point (PP), nelle quali

ha scoperto un imponente giacimento archeologico che copre l’intervallo

164.000-35.000 anni fa, comprendente le fasi più rigide di quelle

glaciazioni. Il peculiare interesse scientifico di tali grotte sta nelle

informazioni sul gruppuscolo umano che le abitava, perché da

questo manipolo di uomini moderni tutti noi discendiamo; infatti,

mentre i Neanderthaliani sono autoctoni europei, noi siamo oriundi

africani.

Dopo avere raccolto prove sufficienti a conferma della validità della

propria ipotesi – ovvero che la sussistenza dei nostri antenati in quel sito

fosse stata garantita dai prodotti del mare (molluschi, crostacei ed altri

animali marini) e da arbusti ricchi di nutrienti (geofite) – Marean si è

trovato di fronte ad un altro problema archeologico, brillantemente

risolto da un Geologo del suo team.

La materia prima della maggior parte dei manufatti di PP è costituita da

una roccia localmente denominata silcrete (S), che si forma alla

superficie dei terreni arenacei tropicali (per cementazione dei granuli di

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11 sabbia da parte di silice e biossido di titanio disciolti nelle acque

superficiali). La S ha aspetto molto simile a quello della quarzite e per le

sue proprietà fisiche – durezza elevata e scheggiatura netta – è stata

impiegata solo per realizzare supporti grandi e grossolani, non potendo

essere lavorata nelle forme minute necessarie alla produzione dei micro-

liti, numerosi nel sito, rappresentati principalmente da lamelle a dorso;

queste sono minuscole lame, di lunghezza pari al doppio almeno della

loro larghezza, accuratamente scolpite nel margine spesso, inadatte ad

essere usate manualmente per le loro ridotte dimensioni, ma idonee ad

essere immanicate, per integrare efficaci armi da getto e fabbricare

utensili da cucina ed altri strumenti. Questi piccoli ed eleganti manufatti

apparivano ricavati da un materiale di tessitura ben più fine rispetto a

quella della S, di aspetto insolitamente lucido e di colore rossastro; le

ricerche di questa materia prima, condotte estensivamente nei dintorni

del sito, non hanno dato alcun risultato, cosicché il team ha ipotizzato che

la roccia in oggetto provenisse da una cava non repertata o da un

giacimento subacqueo emerso durante la regressione marina glaciale.

Il problema è stato risolto dalla specifica competenza mineralogica

del Geologo Kyle S. Brown. Quando il team di scavo aveva ormai

rinunciato a cercare la roccia delle lamelle a dorso, Brown ha avuto una

intuizione determinante: avendo visto affiorare, nella Grotta PP5-6, tra le

ceneri di un focolare, un frammento roccioso che mostrava la stessa

facies lucida e rossastra dei micro-liti più sofisticati, ha supposto che gli

antichi artigiani avessero esposto la S al fuoco per renderla più finemente

lavorabile, facendole pure assumere quel bell’aspetto brillante.

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Ripetute prove di termo-trattamento della S immediatamente praticate

hanno confermato in pieno che le splendide lamelle, come pure le più

rare micro-punte foliate, erano ricavate da “silcrete cotta” (a 350°C

per parecchie ore). Questa interpretazione ha lasciato increduli i

colleghi europei, che, da oltre un secolo, attribuiscono l’invenzione del

pre-trattamento termico delle rocce silicee alla Cultura Solutreana del

tardo Paleolitico Superiore Francese. Sono state necessarie numerose

repliche del procedimento sia da parte sia di Brown che di altri autorevoli

petrografi per convincere tutti che il pre-trattamento termico delle rocce

silicee è stato ideato dai nostri antenati sudafricani almeno 70.000 anni

fa, così da rappresentare la più antica tecnologia trasformativa.

4° ESEMPIO – DIA 52: interpretazione di un disegno problematico

nella Grotta di Chauvet-Pont d’Arc.

Come ultimo esempio, vi propongo un geniale studio di Sebastien

Nomade, valente vulcanologo francese, che ha lavorato spesso anche in

Italia.

Certamente, le popolazioni preistoriche appartenenti alla specie Hss non

erano molto impressionate dai fenomeni vulcanici, piuttosto frequenti nel

Continente Africano da cui provenivano, cosicché non può meravigliare

che soltanto un artista neolitico abbia raffigurato una eruzione in un

notissimo “murale” risalente a circa 8.600 anni fa repertato a Catal

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13 Hüyük (Turchia), che rappresenta una sorta di mappa della città sullo

sfondo di un vulcano in eruzione, identificato come Hasan Dagi.

Nel gennaio 2016 – tra le figurazioni parietali problematiche della Grotta

di Chauvet (Vallon-Pont-d’Arc, Francia) – Nomade ha comunicato di

avere riconosciuto immagini semplificate di eruzioni vulcaniche,

perlopiù mascherate da pitture sovrapposte. Di fronte a tratti, che

sembrano “spruzzi, schizzi, getti” o qualche cosa di similare, aveva

pensato che potessero raffigurare eruzioni vulcaniche ed, in particolare,

aveva fissato l’attenzione su un disegno meglio delineato posto

all’imboccatura della Galleria del Megalocero. Per darsi una risposta

scientificamente affidabile, Nomade aveva eseguito una fotografia ad

alta definizione del disegno che lo interessava, quindi l’aveva “ripulita” da

tutto quanto lo ricopriva, rivelando così un’immagine che richiama

abbastanza realisticamente un cratere vulcanico durante una fase

eruttiva. Sulla base di questo risultato, aveva quindi controllato se, nella

zona, effettivamente fossero avvenute eruzioni nell’Epoca Aurignaziana

(Paleolitico Superiore Antico Europeo), alla quale risalgono le pitture

parietali, ed aveva appurato, mediante un sofisticato metodo di analisi

isotopica delle lave, che tra 43.000 e 19.000 anni fa alcuni vulcani vicini

avevano presentato ripetute eruzioni esplosive, certamente ammirate

dagli abitanti della Grotta in piena sicurezza; precisamente, nel Campo

Vulcanico del Bas-Vivarais, distante solo una trentina di kilometri dalla

Grotta, si erano verificate a quell’epoca alcune fasi anomale di tipo

stromboliano [le eruzioni stromboliane sono “eruzioni seriali”, che

consistono nella proiezione all’esterno, ad intervalli regolari di tempo, di

getti di lava, lapilli e bombe vulcaniche].

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14 Credo, pertanto, di potere concludere, che questa curiosa

raffigurazione della Grotta Chauvet – denominata “CAVE OF

FORGOTTEN DREAMS”/”Grotta dei sogni dimenticati”, dopo il

famoso omonimo documentario di Werner Herzog – sia candidata

ad acquisire il primato di più antica rappresentazione di una

eruzione vulcanica, in quanto precede di almeno 10.000 anni quella di

Catal Hüyük ed anche quella più recente (di circa 7.000 anni fa) ed assai

meno nota di Syunik (Armenia).

GRUPPO ARCHEOLOGICO ALBINETANO

“PAOLO MAGNANI”

Via Chierici, 2 - 42020 Borzano di Albinea – Reggio Emilia

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