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Italia L’altro Nord-Est La città scomparsa Costa D’Avorio I dimenticati Colombia Resistenza di pace Balcani Il peso del tempo Malta La trappola Migranti Respinti verso la tortura poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano Afghanistan, voci sotto le bombe mensile - anno 4 numero 4 - aprile 2010 3 euro poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano Inserto speciale: Intervista a Marwan Barghouti

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Italia L’altro Nord-EstLa città scomparsa

Costa D’Avorio I dimenticati Colombia Resistenza di paceBalcani Il peso del tempoMalta La trappolaMigranti Respinti verso la tortura

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Afghanistan, voci sotto le bombe

mensile - anno 4 numero 4 - aprile 2010 3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Inserto speciale: Intervista a Marwan Barghouti

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EMERGENCYwww . e m e r g e n c y . i t

Con il 5xmille puoi trasformare la tua dichiarazione dei redditi in una vera e propria “dichiarazione di pace”.

Devolvendo il 5xmille a favore di Emergency puoi sostenere i nostri ospedali, i medici e gli infermieri che da 16 anni offrono cure alle vittime delle mine antiuomo, della

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Con il tuo contributo, senza costi per te, parteciperai alla costruzione di un progetto di Pace reale.

EMERGENCY ringrazia l’editore per lo spazio concesso gratuitamente - Illustrazione di Guido Pigni

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La guerra è qualcosa di assurdo e inutile, che nulla può giustificare.

Louis de Cazenave, veterano francese della Prima guerra mondiale

aprile 2010mensile - anno 4, numero 4

Costa d’Avorio a pagina 14

Migranti a pagina 28Malta a pagina 22

Somalia a pagina 24

Afghanistan a pagina 4

Colombia a pagina 16

È un reportage importante, quello che pubblichiamo dall’Afghanistan. Perché nessunaltro giornale in Italia, e probabilmente quasi nessun altro nel mondo, è andato a vede-

re cosa sta succedendo nell’Helmand, quella provincia del sud dell’Afghanistan dove i tale-bani sono di casa e dove il fuoco della guerra occidentale si è concentrato negli ultimimesi.E’ una faccenda che non ci riguarda, essendo quell’operazione militare gestita dagliangloamericani? No, ci riguarda eccome. Perché il nostro ministro della Difesa ha candi-damente ammesso che gli italiani ne fanno parte, seppur solo nella filiera di comando e daKabul. E poi perché, sempre per bocca del nostro ministro della Difesa, abbiamo saputo invia ufficiale che questa missione non fa parte di Enduring freedom, ma di Isaf. Di quellamissione cioé cui gli italiani contribuiscono con circa quattromila militari (tutte truppescelte da combattimento, mica ingegneri) e con la cifra di cinquanta milioni di euro almese. Anzi cinquantuno.Cinquantuno milioni di euro al mese. Posto che - come dice il reduce della grande guerra -la guerra è sempre inutile assurda e ingiustificabile, crediamo che anche chi ancora haqualche dubbio sulla utilità di quel barbaro strumento si possa indignare di fronte allamostruosità di una cifra spesa per la guerra (una guerra peraltro a noi del tutto inutile) inun periodo in cui troppe famiglie non arrivano a fine mese. In un periodo in cui a scuolachiedono ai genitori di fornire i loro figli di carta igienica perché lo Stato non può più per-mettersela.La guerra, questa guerra, è stata votata da tutto il Parlamento. Poi qualcuno dice che le elezioni sono andate male per colpa di Beppe Grillo.

L’editorialedi Maso Notarianni

Dove finiscono i nostri soldiCaporedattoreAngelo Miotto

Hanno collaborato per i testiClaudio AgostoniMarco BenedetelliFrancesca BorriBlue & JoyGabriele Del GrandeSilvia Del PozzoArturo Di CorintoNicola FalcinellaAlessandro IngariaLicia LanzaPaolo LezzieroSergio LottiGilberto MastromatteoElisa Pozza Tasca

Hanno collaborato per le fotoUgo BorgaGerald BruneauSimone BrunoAntonio CisariRiccardo FranconeGilberto MastromatteoMattia Velati

Edito daDieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 MilanoReg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina:Afghanistan 2010. Foto di MattiaVelati per PeaceReporter

Servizio abbonamenti e arretratiPicomax S.r.l. Via Borghetto 1 - 20122 Milano. Tel 0277428040 - fax 0276340836Informativa abbonamenti:Ai sensi dell’Art. 13 del D. Lgs. 196/03 informiamo che i dati forniti saranno trattati da Picomax Srl in qua-lità di responsabile del trattamento, nonché da Dieci dicembre soc. coop. a r. l. titolare del trattamento, perle seguenti fiinalità: invio abbonamento della rivista PeaceReporter e invio di materiale promozionale ine-rente i prodotti di Dieci dicembre soc. coop. a r. l.Gli abbonati hanno diritto di esercitare i diritti di cui all’Art. 7 del D. Lgs. 196/03 inviando una email a [email protected]

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DirettoreMaso Notarianni

RedattoriChristian EliaLuca GalassiAlessandro GrandiBenedetta GuerrieroEnrico PiovesanaNicola SessaStella Spinelli

Progetto graficoGuido ScarabottoloOliviero Fiori

Segreteria di redazioneSilvina Grippaldi

AmministrazioneAnnalisa Braga

Redazione e amministrazioneVia Bagutta 1220121 MilanoTel: (+39) 02 801534Fax: (+39) 02 [email protected]

Stampa GraphicscalveLoc. Ponte Formello - 24020Vilminore di Scalve (Bg)Finito di stampare 5 aprile 2010

PubblicitàVia Bagutta 1220121 MilanoTel: (+39) 02 801534Fax: (+39) 02 [email protected]

Italia a pagina 10 e 26

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Li seguono gli occhi attenti di alcuni pazienti dell’ospedale di Emergency,usciti in giardino con le stampelle, in carrozzina o direttamente sui loroletti, per prendere un po’ di aria e di sole. E per raccogliere qualche

fiore, che poi tengono in mano annusandolo di tanto in tanto o che si infilanotra le bende delle ferite. Gli afgani amano i fiori. La sensibilità e la dolcezzadi questi barbuti contadini pashtun, giovani e vecchi, mette in crisi tutti inostri preconcetti su questo popolo.Ogni tanto, dalla direzione di Marjah, al di là del muro di cinta del giardino edel fiume Helmand che scorre dietro di esso, giunge l’eco di un boato, comeil tuono di un temporale lontano, ma più forte, più cupo e più breve. Tra ipazienti, ogni volta, inizia il dibattito: chi dice che sono bombe sganciate daijet. Chi, invece, che sono razzi sparati dagli elicotteri. E chi, infine, è convintoche si tratti semplicemente di mine fatte brillare dai Marines.Attorno a Marjah si combatte ancora, ma ufficialmente l’operazioneMoshtarak, la più grande offensiva militare condotta dalla Nato inAfghanistan dall’inizio della guerra nel 2001, è conclusa: la roccaforte tale-bana di Marjah è stata riconquistata dai Marines e dalle truppe afgane dopodue settimane di combattimenti. La bandiera nero-rosso-verde è tornata asventolare su questo distretto rurale, vissuto per oltre due anni all’ombradel vessillo bianco dei talebani. Un successo, secondo i comandi alleati, che verrà presto replicato sugli altrifronti, a partire da quello di Kandahar. La battaglia di Marjah come primopasso, preludio di una strategia più generale della Coalizione, decisa ariprendere il controllo dell’intero sud dell’Afghanistan nei prossimi mesi.Mesi decisivi che, come ha dichiarato il segretario di Stato Usa, saranno i piùduri per le forze occidentali dall’inizio di questa guerra. Ma lo saranno soprattutto per la popolazione civile afgana, a giudicare dalletestimonianze che PeaceReporter ha raccolto dalla gente di Marjah, ricove-rata o in visita al vicino ospedale di Emergency di Lashkargah. Voci che rac-contano l’altra faccia di questa guerra, quella che non viene mai raccontata:la paura e la sofferenza, la distruzione e la morte che noi, i kharijàn, gli stra-nieri, portiamo con le nostre bombe e i nostri missili a questa gente. Genteche non si sente ‘liberata’ ma aggredita, che preferisce il rassicurante efamiliare ordine sociale che i talebani sanno garantire nei territori da essicontrollati, che ha il terrore dell’anarchia e dei soprusi dei poliziotti afganiche rubano, taglieggiano e rapiscono, che nemmeno parlano la loro lingua eche per questa gente rappresentano l’unica manifestazione del lontanogoverno di Kabul.Sad Maluk, 60 anni, turbante bianco, barba grigia e occhi celesti, è appenaarrivato da Marjah per far visita al nipote, ricoverato con una brutta ferita dapallottola. Siede con familiari e amici su una panchina sotto il porticato d’in-gresso dell’ospedale.

“Non so chi gli ha sparato, ma poco importa. Questa nuova offensiva ha cau-sato tante vittime innocenti, troppe. Dicono che hanno ucciso per errore solopochi civili, ma la verità è che hanno ucciso pochi talebani. Io vivo vicino albazar di Marjah, e vi posso assicurare che nei primi giorni le bombe sgan-ciate dagli aerei e i missili lanciati dagli elicotteri hanno distrutto molte abi-tazioni. Da sotto le macerie abbiamo tirato fuori finora circa duecento cada-veri di civili, ma ci sono ancora un centinaio di dispersi sepolti sotto i restidelle case colpite. Ieri ne abbiamo trovati altri cinque. Queste cose non ledice nessuno, ma vi giuro che è così perché l’ho visto con i miei occhi. Loabbiamo visto tutti”. Gli uomini intorno a lui scuotono silenziosamente il turbante in segno diassenso.

“AMarjah non si spara più ma questo non significa che i talebani sene siano andati o siano stati sconfitti: hanno solo smesso dicombattere, per ora. I talebani sono ancora a Marjah perché i

talebani sono anche gente del posto. Non sono forestieri venuti da fuoricome si vuol far credere: ci sono anche tanti di noi che stanno con i talebani.E sapete perché? Perché in questi ultimi anni con loro non abbiamo maiavuto problemi: finché a Marjah comandavano loro, tutto andava bene, tuttoera tranquillo. Non vogliamo altro, non vogliamo intrusioni da parte deglistranieri o del governo. Vogliamo solo essere lasciati in pace, così comesiamo”.Mormorii di consenso percorrono il pubblico di curiosi che si è formato attor-no a noi. Uno di loro, un giovane di Marjah di nome Zia Ulaq, viso spigoloso eturbante nero, interviene per spiegare le parole del baba, come vengonochiamati gli anziani in segno di affettuoso rispetto.“Ora a Marjah è tornata a comandare la polizia afgana, come prima che arri-vassero i talebani. Noi, più che degli americani, abbiamo paura dei poliziottiafgani, di questi criminali che girano con i fuoristrada verdi e si comportanoda padroni: rubano le nostre cose, ci estorcono denaro e chi si ribella vienearrestato e denunciato come talebano. E fanno anche di peggio, come rapirei nostri bambini per poi abusare di loro. Da quando, oltre due anni fa, Marjahè passata sotto il controllo dei talebani – racconta Zia Ulaq – tutto questonon succedeva più. I talebani ci rispettavano e rispettavano le nostre pro-prietà e le nostre usanze. Garantivano la sicurezza, amministravano la giusti-zia con i giudici delle corti islamiche e facevano rispettare le nostre leggi isla-miche. Noi stavamo bene perché ci sentivamo sicuri: non subivamo più i furtie gli abusi di quei banditi in divisa. Se i nuovi governanti di Marjah faranno

Il reportage Afghanistan

Voci sotto le bombeDi Enrico Piovesana

A Lashkargah, capoluogo della provincia afgana meridionale di Helmand, il silenzio non esiste più. Il cielo risuona senzasosta del rombo dei cacciabombardieri e degli elicotteri da guerra che volano bassi, avanti e indietro, in continuazione.

Una bambina ricoverata nell’ospedale di Emergency a Lashkargah.

Afghanistan 2010. Mattia Velati per PeaceReporter

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altrettanto, se rispetteranno la nostra gente e la nostra religione lasciandocivivere e lavorare in pace, a noi andrà benissimo. Ma ora che sono tornati gliuomini sui fuoristrada verdi, abbiamo paura”.Abdul Wali ha solo trentacinque anni, ma è già vedovo da tre anni e padre diquattro figli. Fino a pochi giorni fa, prima dell’operazione Moshtarak, neaveva sei. Due di loro, Sadiq e Asrat, di otto e nove anni, sono morti, dilania-ti da un razzo americano caduto per errore nel cortile della loro casa, aMarjah.Gli occhi di Abdul sono quelli di un padre disperato. Siede tra i letti su cuigiacciono, mutilati e feriti, altri due suoi bambini, Najib e Naqib, di cinque esette anni, sopravvissuti per miracolo all’esplosione. Lui li copre di baci ecarezze. Le infermiere fanno altrettanto. Ma questo non serve a far tornareil sorriso sui loro piccoli visi feriti, né a far passare gli incubi che li fannopiangere di notte. “Quando sono scoppiati i combattimenti, con le pallottole che colpivano imuri di casa e i bambini che piangevano per i rumori che sentivano, ho deci-so di portare via da Marjah i miei sei figli”, racconta Abdul, spiegando diavere anche una bambina di sei anni e un bambino di undici, che per fortunasono ancora vivi e incolumi.“Dopo alcuni giorni, quando ci hanno detto che la situazione in città era dinuovo tranquilla, siamo tornati. In effetti era tutto calmo, o almeno cosìsembrava. Un paio di giorni dopo, i miei figli erano in cortile a giocare quan-do c’è stata l’esplosione”.Abdul chiude gli occhi e si interrompe, come se non ce la facesse a raccon-tare quello che ha visto e vissuto dopo quel momento. Poi guarda i suoi bam-bini e riprende a parlare. “Sono arrivati dei soldati americani. Hanno raccol-to i frammenti del razzo, ammettendo che era roba loro. Hanno scattatodelle foto ai miei due bambini morti, Sadiq e Asrat e poi hanno portato viaNajibullah e Naqibullah, caricandoli su un elicottero. Mi hanno detto che liportavano all’ospedale militare di Camp Bastion. Non hanno aggiunto altro”.

Chiediamo ad Abdul se nei giorni successivi i militari Usa non siano tor-nati, magari per offrirgli un risarcimento come di solito avviene inquesti casi.

“Sì, i soldati americani si sono ripresentati due giorni fa, dicendo che l’inci-dente è stato causato da un razzo americano inesploso che i miei figli ave-vano raccolto per giocarci, e che poi sarebbe scoppiato. Io non lo so, non hovisto come sono andate le cose: mio figlio maggiore mi ha detto che loro nonavevano raccolto alcun razzo. Io so solo che i miei figli sono morti per colpadegli americani”.Abdul non aggiunge altro e torna ad accarezzare i suoi bambini.Baram Gul è un ragazzone di ventisei anni, con gli occhi buoni e tristi, il ven-tre fasciato. E’ arrivato qui pochi giorni fa in fin di vita, con quattro pallotto-le in corpo. “Quando sono iniziati i combattimenti, i talebani ci hanno consigliato di pren-dere le nostre cose e andarcene via. Dopo tre giorni la situazione era torna-ta abbastanza calma e io ho preso il mio motorino e sono tornato a casa.Non sapevo che gli americani l’avevano trasformata in una loro postazione.L’ho capito solo quando, senza nessun preavviso, un soldato sul tetto mi hasparato, una, due, tre, quattro volte. Sono caduto a terra ferito. Ho alzato lamano per chiedere aiuto, ma i soldati non si sono mossi. Allora mi sono tra-scinato fino alla casa più vicina, dove sono stato soccorso da mio zio. Perchétutto questo? Per due anni abbiamo vissuto una vita normale, tranquilla esicura per noi, per i nostri figli e le nostre proprietà. Noi non chiediamoaltro!”.Abdul Wafa, trentacinque anni, barba lunga e capelli rasati (come tanti daqueste parti) è arrivato qui all’ospedale di Emergency con un razzo di unmetro, inesploso, conficcato nella schiena. Gli infermieri non si capacitavanodi come potesse essere ancora vivo. Per rimuovere l’ordigno sono dovutiintervenire gli artificieri. Debole, ma cosciente, si sforza di raccontare. “Lavoravo nel campo quando sono scoppiati i combattimenti. Gli elicotterihanno iniziato a sparare missili e i talebani a sparare razzi. Ho iniziato a cor-rere verso casa, ma un proiettile di Rpg mi ha colpito alla schiena. Questaoperazione militare, come le altre che l’hanno preceduta, ha ucciso e feritotante persone innocenti, ha danneggiato e distrutto le nostre case. Perché

dobbiamo subire tutto questo? Che senso ha?”.Abdul è morto pochi giorni dopo, stroncato da una meningite fulminante: lapunta del razzo gli aveva fratturato la colonna vertebrale infettando il midol-lo osseo. I kharijan, gli stranieri, erano venuti a liberarlo dai talebani. Lui,come tanti altri, voleva solo continuare a vivere. In pace. “Agli americani e al governo non interessa niente della nostra gente”, rac-conta Safatullah Zahidi, un giornalista locale. “A loro interessa solo unacosa: mettere le mani sulle piantagioni di papavero da oppio. E quelle diMarjah e del suo distretto, Nadalì, sono le più grandi e produttive di tuttol’Afghanistan. Grazie all’operazione Moshtarak sono tornate sotto controllodel governo e degli americani, giusto in tempo per il raccolto di marzo. E orafaranno lo stesso con le piantagioni della seconda principale zona di produ-zione di oppio, quella di Kandahar”.

Un’interpretazione dei fatti clamorosa, ignorata in Occidente ma larga-mente condivisa in Afghanistan. Anche da personaggi molto noti eautorevoli, come l’ex parlamentare democratica Malalai Joya, cono-

sciuta in tutto il mondo per il coraggio che ha sempre dimostrato nel denun-ciare i crimini e la corruzione dei governanti afgani finanziati e protettidall’Occidente. “Lo scopo di queste operazioni militari condotte dalle truppe straniere –spiega Malalai – non è quello di sconfiggere i talebani, che vengono regolar-mente avvertiti prima in modo da poter fuggire altrove. I talebani e i terrori-sti servono agli americani per mantenere il mio paese nell’insicurezza, cosìda avere un pretesto per rimanere in Afghanistan assicurandosi il controllodi questa regione strategica, vicina all’Iran, alla Cina e ai paesi dell’Asiacentrale ricchi di gas e petrolio, ma anche per continuare a fare affari con losporco business dell’oppio. Oppio che, trasformato in eroina, frutta enormiguadagni sia al governo afgano che alle forze americane, che portano ladroga fuori dall’Afghanistan con i voli militari che decollano dalle basi aereedi Kandahar e di Bagram, e che poi finisce nelle strade dell’Europa e degliStati Uniti. Quest’ultima offensiva in Helmand, che tra l’altro – sottolinea laJoya – ha causato molte più vittime civili di quelle pubblicamente dichiarate,è l’ennesima conferma di ciò: l’obiettivo non era colpire i talebani, chehanno avuto tutto il tempo di scappare, ma semplicemente riprendere il con-trollo della principale zona di produzione di oppio di tutto il paese”. Secondo l’ultimo rapporto del dipartimento antidroga delle Nazioni Unite(Unodc), la provincia di Helmand produce da sola quasi il 60 percento ditutto l’oppio afgano (4mila delle 6.900 tonnellate totali e 70mila ettari dipiantagioni su un totale nazionale di 123mila), e il distretto di Helmand in cuimaggiormente si concentra la produzione è proprio quello di Marjah-Nadalì.Un esponente del governo afgano, che ha chiesto di non rendere pubblico ilsuo nome, ha dichiarato a Irin News, l’agenzia giornalistica dell’Onu, che leautorità hanno informalmente concesso ai contadini del distretto di conti-nuare a produrre oppio: “Il governo non può dirlo pubblicamente perché èun atto illegale, ma ha garantito che nessuna distruzione di piantagioni verràeffettuata a Marjah e Nadalì, almeno per quest’anno”.

In alto e in basso: In ospedale

Afghanistan 2010. Mattia Velati per PeaceReporter

8 anni e mezzo la durata della guerra in Afghanistan dall’invasione del 7ottobre 2001

120mila il numero dei soldati della Coalizione schierati nel paese (raggiun-geranno i 150 mila in agosto)

100mila, almeno, i contractors privati del Pentagono operativi inAfghanistan

1.700 i soldati occidentali caduti in Afghanistan fino a oggi

7mila i soldati e i poliziotti afgani morti dal 2001

25mila gli insorti uccisi finora

13mila i civili uccisi dal 2001 (8 mila vittime della Coalizione, 5 mila vittimedegli insorti)

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Udito

Il pianto dei bambini feriti, ricoverati nel ‘D ward’ dell’ospedale di Emergency aLashkargah. Nelle due settimane dell’opera-zione Moshtarak ne sono arrivati a decine, feri-ti da proiettili, schegge di bomba e mine antiuo-mo. Il cinguettio delle rondini, coperto dal rombo deijet e dal rumore degli elicotteri militari che,decollati dalle basi militari di Kandahar, sorvola-no bassi la città sulla rotta per Marjah e Nadalì. I richiami tra i ‘falcon’, codice del personale diEmergency in Afghanistan, nelle comunicazionivia radio all’interno dell’ospedale per avvertiredell’arrivo di nuovi feriti o per chiedere l’inter-vento di un medico in pronto soccorso o in tera-pia intensiva.

Vista

L’immagine incredibile di un uomo appenaarrivato da Marjah, vivo, con un razzoinesploso lungo un metro conficcato nellaschiena. Al suo arrivo in ospedale, gli infermieri

non si capacitavano di come potesse essere anco-ra vivo. Infatti, morirà pochi giorni dopo per unameningite fulminante causata dalla ferita. Una bambina di appena un anno che piangedisperata dopo essersi risvegliata dall’operazio-ne nella quale i medici le hanno aperto il minusco-lo pancino per estrarre la scheggia di una bomba.Era in braccio a uno dei suoi fratelli maggiori chestavano maneggiando un razzo inesploso.

Gusto

La ‘soup’ di ceci in brodo e il riso con carnestufata: piatti fissi serviti alla mensa del persona-le ospedaliero, dove a pranzo si ritrovano medici einfermieri, tecnici e addetti alle pulizie, autisti eguardie.I biscotti e i succhi di frutta dolcissimi, di produ-zione iraniana o pachistana, che i parenti in visitaportano in dono ai loro familiari ricoverati. In par-ticolare ai più piccoli, che li preferiscono di granlunga al quotidiano uovo sodo che gli infermieridanno loro da mangiare come parte essenzialedella loro dieta ricostituente, ma che i bambini,pur di non mangiare, regalano agli altri pazienti.

Olfatto

Il profumo dei fiori bianchi e rosa deglialberi da frutto che costeggiano il vialed’ingresso all’ospedale. La primavera arrivapresto in Helmand: alla fine di febbraio ilgiardino dell’ospedale si riempie di fioricolorati e ronzanti di api.L’odore di detersivo e disinfettante nei repartie nei corridoi dell’ospedale, sempre tirati alucido. La pulizia e l’igiene sono lacaratteristica distintiva delle strutture diEmergency: un altro pianeta rispetto aglisporchi e mefitici ospedali locali.

Tatto

La pelle liscia dei bambini violentata daisegni della guerra: le ustioni, i tagli e le feriteprovocate dalle schegge di bombe, razzi e mine.Il tepore del sole di marzo che riscalda l’aria diLashkargah dopo un breve e mite inverno, e chenel giro di poche settimane lascerà il posto allacanicola afosa tipica delle lunghe estati caldedell’Helmand.

I cinque sensi dell’Afghanistan