Ágnes heller la bellezza della persona buona anteprima

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Ágnes Heller LA BELLEZZA DELLA PERSONA BUONA A cura di Brenda Biagiotti DIABASIS la ginestra

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Ágnes HellerLA BELLEZZA DELLA PERSONA BUONAA cura di Brenda Biagiotti

D I A B A S I S l a g i n e s t r a

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LaGinestra

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Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa

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Il volume è stato pubblicato con il contributodella Fondazione Cariparma

Si ringraziano

Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma

per la gentile collaborazione

In copertinaGinestre di Carlo Mattioli

A Theory of Needs Revisited; Self-Representation and the Representation of the Other;

Ethics of Personality, the Other and the Question of Responsibility; The Beauty of Morality

Traduzioni di Brenda Biagiotti, Debora Spini, Andrea Vestrucci

ISBN 978-88-8103-601-1

© 2009 Edizioni Diabasisprima ristampa 2014

Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italiatelefono 0039.0521.207547 - e-mail: [email protected]

www.diabasis.it

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Ágnes Heller

LA BELLEZZADELLA PERSONA BUONA

A cura di Brenda Biagiotti

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Oltre l’individualismo: alterità e responsabilità in Ágnes Heller,Brenda Biagiotti

Una teoria dei bisogni riesaminata

Rappresentazione di sé e rappresentazione dell’altro

L’etica della personalità, l’altro e la questionedella responsabilità

La bellezza della moralità

Questa raccolta

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Ágnes Heller

La bellezza della persona buona

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1. Il pensiero di Ágnes Heller pare essere attualmente ogget-to, non solo in Italia, di un rinnovato interesse. Tale considera-zione non intende in alcun modo dimenticare, o anche solo ren-dere marginale, l’influenza esercitata dalle riflessioni sul tema deibisogni o sulla rivoluzione della vita quotidiana nel dibattito sulmarxismo quanto piuttosto soffermarsi sulla fase più recente delsuo pensiero. Dopo il distacco dalla tradizione marxiana matu-rato intorno alla metà degli anni Ottanta infatti, l’indagine filo-sofica di Heller risulta caratterizzata dallo sforzo di pervenire aduna significativa riformulazione di concetti e categorie che, ri-spetto ad un contesto storico, politico e culturale attraversato daprofonde trasformazioni, apparivano ormai svuotati di ogni po-tenzialità cognitiva ed interpretativa. Con il mutare dell’orizzonteteorico di fondo, cambiano così anche gli interrogativi cui l’al-lieva di Lukács cerca di offrire risposte, gli interessi che orienta-no ed indirizzano la ricerca e gli ambiti di indagine che si di -schiudono. Si delinea in tal modo, di fronte al lettore che inten-da gettare uno sguardo retrospettivo alla riflessione di Heller,una cesura all’apparenza abbastanza netta fra le opere degli an-ni Settanta – in cui l’influenza del marxismo, nonostante lo sfor-zo di operarne un radicale ripensamento, è certamente più evi-dente – e le riflessioni successive a partire dalle quali la stessa au-trice guarda al passato come ad un stagione ormai superata.

Il percorso che si intende suggerire in questa raccolta attra-verso i quattro saggi presentati in traduzione italiana è piena-mente consapevole di tale itinerario e ne offre testimonianza as-

Oltre l’individualismo:alterità e responsabilità in Ágnes Heller

Brenda Biagiotti

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sumendo come punto di partenza proprio il ripensamento del-la tematica dei bisogni resosi necessario dopo il definitivo con-gedo dal marxismo e dalla filosofia della storia che lo sottende;allo stesso tempo però risulta persuaso del fatto che, al di là deisensibili mutamenti intervenuti nelle premesse teoriche, sia pos-sibile individuare la persistenza di alcuni nuclei tematici origina-ri. È chiaro che, se tale ipotesi interpretativa risultasse accettabi-le, si tratterebbe di problematizzare quel paradigma interpreta-tivo volto ad individuare nell’abbandono della ‘grande narrazio-ne’ operato da Heller una frattura così radicale da consentire dipresentarne il pensiero quasi in termini dicotomici.

È comunque a partire da tale presupposto – e nella convin-zione che, sotto il profilo filosofico-politico, la riflessione helle-riana trovi la sua più originale e compiuta formulazione nella teo-ria dei bisogni – che si è scelto di porre in apertura di questa rac-colta il saggio Una teoria dei bisogni riesaminata. La filosofa di Bu-dapest ne offre un inserimento all’interno del proprio articolatoitinerario intellettuale presentando il testo come un tentativo diripensare la teoria dei bisogni, dopo venti anni dalla pubblica-zione dell’opera in cui originariamente apparve1, nei suoi aspet-ti problematici o non più attuali ma ribadendone, allo stesso tem-po, la sostanziale validità di fondo. Come si cercherà di mostra-re, a partire da questo contributo si è individuato un percorsounitario nella direzione di una progressiva ‘apertura all’alterità’che, sfiorando differenti ambiti tematici, ripercorre la riflessionehelleriana e individua nella presenza dell’altro e nel rapporto con

l’altro un momento cruciale.

2. L’interesse per il tema dei bisogni matura all’interno della‘Scuola di Budapest’ e cioè in un contesto in cui la rilettura diMarx risultava finalizzata ad offrire adeguati strumenti per unacritica al cosiddetto ‘socialismo reale’ condotta dalla prospettivadi un «nuovo radicalismo di sinistra». In questa direzione – nel-

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l’esigenza di distinguere fra idea e realtà del socialismo a fonda-mento dell’analisi condotta con Ferenc Fehér e György Márkusdelle società est-europee definite sistemi di «dittatura sui biso-gni»2 – Heller perveniva ad un rigetto di tutte quelle visioni che,poggiando sull’idea di uno sviluppo storico deterministicamen-te orientato, potevano essere, a vario titolo, ricondotte alla filo-sofia della storia. Tale critica finiva però per investire e travolge-re il marxismo stesso ritenuto dalla filosofa ungherese incapacedi liberarsi in via definitiva da quei residui di filosofia della storiadi derivazione hegeliana costitutivamente in tensione con l’au-tonomia e la libertà incarnata dai bisogni umani.

Negli anni Settanta, interrogandosi in merito alla possibilitàdi interpretare il marxismo quale dottrina secolarizzata della sal-vezza3 e di rinvenire al suo interno un’idea di redenzione totaledell’umanità, la filosofa ungherese affermava che, se «intendia-mo redenzione e salvezza in senso tradizionale», nei termini di«perfezione, compiutezza, non-contraddittorietà», e ipotizzia-mo un approdo ultimo della storia, la risposta non può che es-sere negativa. Distinguendo fra fine della storia – nel duplice si-gnificato di finalità interna al processo storico e di possibilità dipervenire ad un esito conclusivo – e «possibilità oggettive» – cheimplicano l’intervento della prassi umana – la filosofa unghere-se cercava di sottrarre il pensiero di Marx a tale accusa4. «La sto-ria non tende ad un fine. Ma gli uomini possono porsi il fine –non appena si siano create le possibilità oggettive – di realizzarela società disalienata»5; «la filosofia radicale non crede nella re-denzione» ma rinvia esclusivamente «alla libera azione umana»6.

È interessante notare come, in realtà, il tentativo di tornare aMarx liberandone il pensiero da ogni residuo di filosofia della sto-ria – obiettivo e scopo ultimo della riflessione sui bisogni – si ri-velerà fortemente problematico a causa della intrinseca difficoltàdella nozione di «bisogno radicale» a svincolarsi completamenteda tale orizzonte concettuale7. Un’attenta riflessione dovrebbe far

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emergere gli ostacoli che la teoria incontra, nella sua originariaformulazione, nel perseguire i suoi intenti ma, al tempo stesso, ilfatto che il distacco dal marxismo non indurrà comunque Hellerad abbandonare quelle aspirazioni ‘puramente umane’ che, a suoavviso, sono rinvenibili all’interno del pensiero di Marx. È plau-sibile ritenere che sia proprio nella consapevolezza della possibi-lità di una distorsione volta a considerare del tutto inattuali quel-le riflessioni che la filosofa di Budapest abbia avvertito l’esigenzadi ritornare, dopo un lungo intervallo di tempo, sul tema dei bi-sogni, ridiscutendo la teoria nel suo impianto generale.

3. Tale riformulazione ha luogo a partire da quel mutato sfon-do teorico costituito dalla fine del progetto della ‘grande narra-zione’: questo costituisce, come già accennato, il presuppostoche sottende il saggio Una teoria dei bisogni riesaminata ma risultacruciale anche per la comprensione degli altri testi consentendodi tracciare la linea di demarcazione tra modernità e postmoder-nità. Occorre precisare che per la filosofa ungherese il postmo-derno non deve essere interpretato come un «periodo storico» o«una tendenza culturale o politica dalle caratteristiche ben defi-nite»; la postmodernità infatti non costituisce un periodo che se-gue la fine della modernità, quanto piuttosto uno «spazio-tem-po» interno alla modernità stessa che ad essa si rivolge. Non «unanuova era» quindi, quanto piuttosto un «parassita della moder-nità» che si nutre dei suoi dilemmi. La postmodernità è ciò chesorge dal tramonto delle ‘grandi narrazioni’, cioè dalla crisi diconcezioni basate su una visione della storia intesa quale svolgi-mento unitario tendente verso un fine e caratterizzate dalla vo-lontà di «portare il paradiso in terra» offrendo «promesse libera-torie», promesse di un «lieto fine». La condizione postmodernaassume tale sfondo come un orizzonte oramai superato poichénessuna versione di quella che Heller definisce «politica reden-trice», che «attribuisce ad un unico atto finale la capacità di farsi

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portatore della liberazione definitiva tanto della società, quantodi ognuno dei suoi membri», può continuare a sussistere8. In que-sto mutato contesto teorico il concetto di ‘bisogno’ continua asvolgere un ruolo di primo piano poiché, assumendolo qualepunto prospettico, diviene possibile delineare uno dei tratti qua-lificanti della società moderna: l’‘insoddisfazione’. Sostenere chela «società insoddisfatta» è un carattere «della modernità in Oc-cidente» non costituisce «un’espressione essenzialista» ma unaconsiderazione ricavabile dalla prospettiva della «creazione, per-cezione, distribuzione e soddisfazione» dei bisogni umani. La co-stante crescita del sentimento di insoddisfazione è indipendentedalle effettive capacità di soddisfare determinati bisogni: se para-gonata ad altre formazioni sociali antecedenti infatti, la societàmoderna mostra la possibilità di soddisfare bisogni che in pas-sato «erano rimasti insoddisfatti». Il fatto che questo non deter-mini né un’attenuazione né una riduzione «dell’insoddisfazionegenerale» è spiegabile allora con riferimento alla «crescita co-stante delle aspettative» che rende lo scarto fra aspettative sog-gettive e concrete possibilità di soddisfacimento dei bisogni ad-dirittura più ampio rispetto al passato. Se si accetta l’idea per laquale «la crescita delle aspettative» è in grado di incidere sia sulla«qualità» che sulla «quantità dei bisogni», si potrebbe interpreta-re l’insoddisfazione della società moderna come un effetto deri-vante dall’espansione di bisogni indotti, manipolati, non reali oirrazionali sollevando la complessa questione della possibilità omeno di discriminare all’interno dei bisogni umani. La tematicacruciale che qui si apre è affrontata da Heller assumendo comepresupposto della propria teoria l’idea secondo cui «dobbiamoabbandonare la divisione tra ‘veri’ e ‘falsi’ bisogni, equivalente aquella tra bisogni ‘reali’ e ‘non reali’ (immaginari)» e «considera-re reali tutti i bisogni che sono sentiti tali dagli uomini, quelli dicui sono coscienti, che vengono formulati da loro, che essi desi-derano soddisfare»9. Diversamente non ci si troverebbe soltanto

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di fronte al problema teorico di individuare i criteri attraverso iquali operarne una valutazione ma al rischio di approdare alla lo-gica propria di ogni «dittatura sui bisogni», riconducibile all’ideache gli individui non siano pienamente consapevoli dei propribisogni o, almeno, dei loro ‘veri’ bisogni e che il compito di faremergere tale consapevolezza spetti ad altri.

Al fine di evitare tale esito, Ágnes Heller giunge a formulare ilprincipio del necessario riconoscimento di tutti i bisogni umani,fatta eccezione per quell’unica condizione limitativa definita cri-terio kantiano di distinzione fra i bisogni; si tratta del principioper il quale si devono riconoscere tutti i bisogni umani ad ecce-zione di quelli che prevedono un uso strumentale degli altri uo-mini che, pur costituendosi come reali – il soggetto li avverte co-me tali – non possono essere accolti perché, se soddisfatti, im-plicherebbero l’impossibilità degli altri di soddisfare i propri bi-sogni. Se quindi l’affermazione del carattere storico e sociale deibisogni umani, la distinzione fra bisogni quantitativi e qualitati-vi, la rivendicazione della liceità di tutti i bisogni ad eccezione diquelli che insidiano quel bisogno fondamentale degli uominimoderni che è l’autonomia personale, la critica alla pretesa di di-stinguere fra bisogni legittimi e illegittimi continuano a conser-vare la loro piena validità, il concetto di bisogno radicale richie-de, al contrario, un profondo ripensamento.

Per definizione, i bisogni radicali si configurano come quei bi-sogni che non possono essere soddisfatti in condizioni che ri-sultano contrassegnate dall’esistenza di rapporti di subordina-zione e di dominio e che, per questo, pur sorgendo al loro inter-no, si costituiscono quali spinte in direzione di un loro trascen-dimento. Se infatti essere ‘radicali’ significa – come già per Marx– cogliere le cose alla radice e la radice dell’uomo è l’uomo stes-so, sarà radicale quella teoria che aspira al superamento di talirapporti così come i bisogni che sono portatori di tale istanza10.Inoltre, dato che fin dalla loro origine sono collocati – per così

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dire – fra due piani rappresentati, da un lato, dalle condizioni chene determinano la nascita e, dall’altro, da quelle verso le qualiaspirano per poter essere soddisfatti, si configurano anche co-me bisogni qualitativi rispetto ai quali una riduzione in terminiquantitativi è del tutto impossibile. La centralità di tale nozionee del suo ruolo, all’interno della teoria helleriana ma in partico-lare ai fini della «rivoluzione della vita quotidiana», risulta piut-tosto evidente. Allo stesso modo però occorre notare come, seb-bene non si tratti di una categoria che Heller intende abbando-nare, il ruolo ad essa assegnato dopo «l’abbandono della grandenarrazione» non può che risultare profondamente ridimensio-nato. In questo contesto, appare, a mio avviso, estremamente si-gnificativo che la filosofa ungherese trovi opportuno ribadire, altermine del saggio che apre la raccolta, come sia proprio il lorooriginario «inserimento [...] all’interno del progetto di una gran-de narrazione» ad aver richiesto un sostanziale riesame della teo-ria dei bisogni nel suo impianto complessivo.

Quanto appena richiamato infatti mi pare finisca per renderediscutibile la stessa interpretazione che la filosofa di Budapest for-nisce del proprio itinerario intellettuale. Nonostante la teoria deibisogni venisse presentata nei termini di un tentativo di tornare aMarx in una dimensione scevra da ogni determinismo, il legamecertamente problematico che ancora intercorreva fra il concettodi bisogno radicale e il progetto della ‘grande narrazione’ appareforse più stretto di quanto la stessa autrice non ritenesse. Se il de-finitivo distacco dalla tradizione marxiana compiuto nella fase piùrecente del suo pensiero viene maturando in considerazione del-l’idea che il marxismo sia ancora inscritto all’interno del progettodella ‘grande narrazione’ e se, in seguito a tale mutamento di pro-spettiva, si rende urgente un ripensamento del tema dei bisogniradicali, si potrebbe ritenere – e forse non in maniera del tutto im-propria – che quel concetto fosse ancora imbrigliato, in qualchemisura, nelle maglie della filosofia della storia nonostante gli sfor-

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zi profusi dell’autrice nel tentativo di recidere ogni legame. Di-versamente, sarebbe difficoltoso rendere ragione del perché, fer-ma restando la validità e l’attualità di fondo della teoria, sia proprioquesto l’aspetto a necessitare di una sostanziale revisione.

Nella formulazione originaria i bisogni radicali costituivanoun’istanza di superamento della società capitalistica; ad essi eraassegnato il ruolo di operare la ‘negazione della negazione’, ov-vero il trascendimento di una società, quella capitalistico-bor-ghese, ritenuta espressione della ‘negazione’ di tutto ciò che ap-pare ‘propriamente umano’, da perseguire attraverso una marca-ta accentuazione del momento soggettivo sulle determinazionioggettive dello sviluppo storico. I numerosi luoghi in cui l’autri-ce tradiva una sostanziale ‘fiducia’ nelle possibilità di una effetti-va ‘irruzione’ all’interno dello sviluppo storico dei bisogni radicaliperò finivano per far assumere a tale nozione una configurazio-ne estremamente problematica11. Se il comunismo non si profilacome «il fine della storia umana», ma come una «possibilità oggetti-

va apertasi per l’umanità in una fase determinata dello sviluppo»;se il raggiungimento di tale ‘possibilità oggettiva’ riposa integral-mente sulle forze umane poiché «dipende solo dall’azione del-l’uomo, dalla prassi umana, che questa possibilità si attui (e il mo-do stesso della sua attuazione)», non vi può essere alcuna assicu-razione circa l’effettiva insorgenza dei bisogni radicali.

È stato rilevato che la maggiore consapevolezza critica delpensiero helleriano sarebbe rinvenibile nella constatazione del-la presenza in Marx di un’oscillazione fra l’idea che la trasfor-mazione delle condizioni concrete sia una sorta di legge naturale e

necessaria alla quale è possibile pervenire attraverso un’analisi cri-tica della struttura economico-produttiva e la concezione per laquale la reale possibilità del cambiamento delle condizioni ma-teriali storicamente determinate possa essere rimessa soltantoad una opposizione soggettiva e individuale incarnata propriodai bisogni radicali12. Posta questa distinzione, sarebbe proprio

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quest’ultima categoria a consentire quell’abbandono di ogni ideadi legge immanente allo sviluppo storico che si configura qualefinalità precipua dell’interpretazione di Marx che Heller inten-de operare.

In relazione a questo aspetto però, si profila, a mio avviso, unadifficoltà che risulta strettamente connessa alle modalità attra-verso le quali i bisogni radicali dovrebbero apparire sulla scena del-la storia. L’aspetto problematico non riguarda ovviamente lapossibilità di individuare un’alternativa ad un determinismo eco-nomico-materiale, quanto piuttosto la reale cesura che la cate-goria dei bisogni radicali riesce ad operare rispetto al rischio discivolare verso la reintroduzione di un qualche concetto di ne-cessità immanente: in alcuni passaggi in cui la filosofa unghere-se si trova a dover chiarire in che modo tali bisogni possano sor-gere negli individui in un dato momento dello sviluppo storicoinfatti, ella sembra esprimere quasi una fiducia acritica nel loroapparire13. Naturalmente, la necessità della loro insorgenza, di -sancorata da un orizzonte in cui la società futura si configuraquale esito ultimo di un processo storico le cui leggi sono indi-viduate nello sviluppo delle condizioni materiali, non risulta ade-guatamente fondabile.

La riformulazione della categoria dei bisogni radicali che sirende a questo punto necessaria implica, come emerge dal primosaggio, che non sia più attribuibile ad essi il compito di determi-nare un radicale sovvertimento delle condizioni di vita presentidato che questo equivarrebbe ad affermare una logica inscrivibi-le ancora all’interno del progetto della ‘grande narrazione’. Libe-rati dal ruolo di soggetto storico del cambiamento in precedenzaloro assegnato, i bisogni radicali finiscono per assumere esclusi-vamente la connotazione di bisogni qualitativi, espressioni del-l’unicità, della differenza, della specificità dei singoli individui; inaltre parole, della ricchezza dei bisogni umani. Sotto questo pro-filo possono anche costituirsi quale invito ad operare una sorta

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di auto-riflessione critica circa la visione del progresso elaboratadall’Occidente recuperando un’idea del limite che si opponga aquella di uno sviluppo infinito meramente quantitativo; ciò in fa-vore di una ri-traduzione della quantità «nei molti linguaggi delladifferenza qualitativa», con la piena consapevolezza che tale tra-duzione può essere operata solo dai singoli individui, pena il ri-schio di scivolare nuovamente nella «dittatura sui bisogni».

4. Muovendo dalle premesse che si è cercato in sintesi di deli-neare, il secondo saggio, Rappresentazione di sé e rappresentazione del-

l’altro, costituisce un ampliamento di orizzonte in relazione al te-ma del rapporto con l’alterità, fin qui mediato dal bisogno intesoquale luogo del dispiegarsi dell’individualità nella sua costitutivaed inesauribile ricchezza. Come si evince chiaramente fin dal ti-tolo del contributo, l’interrogativo di fondo riguarda la possibili-tà di una rappresentazione dell’altro, non soltanto in ambito po-litico, ma anche, ad esempio, artistico e letterario, che possa sot-trarsi al rischio di scivolare in una qualche forma di distorsione. Inaltri termini, si tratta di riflettere criticamente sulla possibilità chela rappresentazione di un soggetto, individuale o collettivo, effet-tuata da un soggetto terzo rispetto ad esso costituisca, per suastessa natura, «una falsificazione dell’immagine, delle opinioni,delle azioni, dei bisogni e dei desideri degli altri»; ancora più radi-calmente, ciò implica affrontare il problema della «stessa possi-bilità di esistenza di una forma autentica di rappresentazione».

Lo sfondo a partire dal quale il saggio trae spunto è costitui-to dalla constatazione delle emergenti richieste di riconosci-mento di identità particolari che, nelle società attuali, vengonoprogressivamente avanzate da parte di gruppi e comunità i qua-li rivendicano per loro stessi determinati bisogni mediante quel-lo che l’autrice considera un processo di auto-attribuzione. Talirichieste di riconoscimento ad opera di soggetti collettivi pon-gono, secondo Heller, nuovi e particolari problemi soprattutto là

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dove approdano all’idea che sia necessario rigettare ogni formadi etero-rappresentazione in quanto distorta e inautentica e che,di conseguenza, soltanto la rappresentazione di sé possa essereritenuta valida. Centrale nel saggio è la presa di distanza da quel-lo che la filosofa ungherese definisce il «fondamentalismo delladifferenza», viziato, sotto questo profilo e specialmente in ordi-ne al rapporto sussistente fra individualità e bisogni, dal tentati-vo di compiere una ‘omogeneizzazione’ di aspirazioni, rivendi-cazioni e bisogni stessi. «L’omogeneizzazione di un gruppo (co-me differenza) è ideologicamente sovraccarica», nota ÁgnesHeller, nella misura in cui la rappresentazione della differenzanon può che essere edificata omogeneizzando le stesse diffe-renze inevitabilmente presenti al suo interno. Gli individui, alcontrario, sono caratterizzati da «identità multiple» rispetto allequali una identità specifica può «costituirsi come prevalente inuna situazione determinata», mentre altre possono costituirsi co-me prevalenti in altre situazioni particolari. Se si assume tale pre-supposto, ne discende che una rappresentazione integrale del-l’individuo è impossibile a meno che non si metta in atto unaomogeneizzazione – ovviamente indifferenziata e ‘indifferen-ziante’ – di tutte le differenze costitutivamente presenti fra indi-vidui facenti parte di uno stesso gruppo. La politica della diffe-renza tende quindi ad ‘assegnare’ «una coscienza di genere o dirazza» a coloro che fanno parte di un gruppo particolare attri-buendo loro un’‘identità’ che, in base a quanto appena accenna-to, non può che risultare il prodotto di una omogeneizzazione14

di per sé incompatibile con quell’ineliminabile e costitutiva plu-ralità, molteplicità, individualità di bisogni umani fra loro diffe-renziati. Se la richiesta di rappresentare se stessi può costituirsi,nel caso di minoranze discriminate, «anche come una rivendica-zione finalizzata alla preservazione dell’identità» e, di conse-guenza, come una auspicabile integrazione del sistema generaledella rappresentazione, essa deve comunque restare «un ele-

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mento aggiuntivo» che «può contribuire [...] ad arricchire la vitapolitica» ma senza pretendere di assurgere a forma più correttadella rappresentazione stessa.

5. Gli ultimi due saggi che chiudono la raccolta svolgono ul-teriormente il percorso fin qui delineato e, approdando alla fasepiù recente del pensiero helleriano, introducono alla riflessioneetica dell’autrice. Qui il rapporto con l’alterità viene declinato al-l’insegna della categoria della responsabilità e il terzo contribu-to proposto, L’etica della personalità, l’altro e la questione della respon-

sabilità, si muove palesemente in questa direzione che sarà ripre-sa e sviluppata ulteriormente nell’ultimo saggio. Il presuppostoassunto dalle riflessioni helleriane negli ultimi lavori è rappre-sentato dalla categoria della ‘possibilità’; nella modernità infattil’uomo «non riceve la destinazione, lo scopo della sua vita al mo-mento della nascita» ma elemento essenziale della condizioneumana diviene l’esperienza della contingenza. «La coscienza del-la modernità» – sottolinea Heller nel terzo contributo – è «l’au-tocoscienza della contingenza dell’uomo». Questa «esperienzadella casualità» assume tre diverse forme individuabili nella «con-tingenza cosmica», nella «contingenza sociale» e nella «decom-posizione della tradizione»: mentre la prima fa riferimento allanuova visione del mondo che viene progressivamente ad im-porsi come dominante e che si esprime in un «universo morto,meccanico, indifferente e infinito» che espunge progressiva-mente la presenza di Dio, il secondo aspetto della contingenzaevidenzia che «i moderni sono gettati nella libertà». Esser getta-ti nella libertà significa essere gettati «nel Nulla, nell’intrecciodelle mere possibilità, un intreccio senza telos, senza destinazio-ne, del tutto casuale». È proprio sullo sfondo di un orizzontecontrassegnato dal declino di ogni ordine metafisico e dall’e-mergere della contingenza quale cifra della condizione umanache si delinea la centralità di quella «scelta esistenziale», «per de-

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finizione irreversibile ed irrevocabile», che sola è considerata ingrado di determinare «il telos della vita di una persona» mediantela trasformazione della «propria contingenza in destino»15.

È su questa strada che l’autonomia individuale e la capacità diauto-determinazione incontrano il tema della responsabilità. Laresponsabilità che gli individui moderni possono assumersi è ri-volta in primo luogo nei confronti di se stessi: l’etica della perso-nalità che Heller propone infatti – e di cui si offre un sintetico mapuntuale abbozzo negli ultimi due saggi – muove dalla consape-volezza, oltre che della disgregazione di un orizzonte metafisicoin grado di fondare la scelta morale, della centralità del singoloindividuo «in quanto depositario della moralità». È la «personasingola nella sua ipseità, in quanto tale», che compie la scelta dideterminare il proprio telos e di assumersi la responsabilità di sestessa16. Questo non deve indurre a ritenere che la riflessione diHeller finisca per approdare ad una forma di individualismo chefinisce per ‘ripiegarsi in se stesso’: come si avrà modo di rilevare,l’etica della personalità tratteggiata nelle pagine seguenti trova unmomento essenziale nello spazio dell’apertura all’altro, cercan-do così di sottrarsi al rischio di un formalismo immediatamentee puramente coincidente con la scelta del proprio telos. Si trattaquindi di interrogarsi sulla possibilità di offrire «un contenutomorale, sia pure debole», all’etica della personalità dato il cedi-mento di ogni orizzonte metafisico; come l’autrice cercherà di ar-gomentare, «il fondamento di un’etica della personalità», il con-tenuto debole ma sufficiente, non potrà che risiedere nella sceltadi sé in quanto «persona retta e onesta», cioè in quanto personaper la quale vale la tesi socratica ‘è meglio subire un torto checommetterlo’. Si tratta di una scelta che, evidentemente, supera iconfini dell’individualità per aprirsi all’altro poiché implica un’as-sunzione di responsabilità per gli altri, intesi, nella prospettivahelleriana, nella accezione ristretta di coloro «con i quali siamoveramente uniti da legami di mutualità e reciprocità».

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6. Il nesso teoretico che lega questa parte della riflessione hel-leriana a quella relativa all’estetica morale risulta profondo e strin-gente ed è anche in considerazione di questo aspetto che La bel-

lezza della moralità chiude idealmente l’itinerario teorico qui trac-ciato. Il saggio conclusivo infatti non si configura soltanto comeuna preziosa occasione di riflessione sugli approdi più recenti delpensiero della filosofa ungherese analizzando tematiche fram-mentariamente enunciate in An Ethics of Personality, ma consentedi gettare uno sguardo ad una parte estremamente suggestiva delpensiero di Heller. Muovendo dal recupero della tesi socratica perla quale ‘è meglio subire un torto che commetterlo’, si pervieneinfatti all’affermazione di quel legame fra etica ed estetica che siincarna nella bellezza della persona buona. Nelle lettere sull’este-tica morale17 Heller istituisce questo possibile nesso: sebbene labellezza non appartenga necessariamente alla persona onesta, que-st’ultima può essere una persona bella o in ogni caso può diventarlo.Ciò implica che l’essere retti costituisca il presupposto dell’essereuna persona bella sebbene non si configuri come una condizionedi per sé sufficiente18. La bellezza della moralità, intesa come bel-lezza di una determinata azione, non risiede allora tanto, o soltan-to, nel riconoscimento della bontà di un particolare atto ma, se-condo «un’accezione più ‘estetica’», nel fatto che tale atto «è me-ritevole di lode per la sua bontà e, in più, anche per il modo con ilquale [...] è compiuto». La «relazione contemplativa» che intratte-niamo con il bello inoltre richiede anche «un certo tipo di visibili-tà o di conoscenza, talvolta di udibilità» delle azioni morali: un’a-zione infatti può essere «di suprema bontà» ma se rimane confi-nata nel campo della segretezza, se non può essere ‘contemplata’,non può avere apprezzamento dal punto di vista estetico: la «di-mensione estetica di un’azione» è rinvenibile là dove l’atto «susci-ta nell’osservatore non solo apprezzamento, ma anche piacere»,elemento che consente di valutare colui che lo ha compiuto «nonsolo come persona buona, ma anche come anima bella».

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La bellezza della persona buona delineata in tali passaggi nonsi profila come una riproposizione dell’ideale greco del kalos kai

agathos, per un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo,nota Heller, perché l’ideale antico dell’anima armoniosa erastrettamente correlato a quello di una omogeneità che non puòpiù essere riproposta in un’epoca quale quella moderna con-trassegnata dalla consapevolezza della contingenza. In secondoluogo – e questo mi pare un elemento di estremo interesse per ri-flettere su alcuni elementi portanti dell’estetica morale helleria-na – perché la bellezza cui la filosofa ungherese fa riferimentopresuppone un’armonia differente. L’armonia fra le parti dell’a-nima non viene da lei concepita come la capacità della ragione,ad esempio, di governare le passioni e gli istinti e, subordinan-doli a sé, di convertire il «disordine» in «ordine», quanto piutto-sto come un accordo fra tutte le parti in virtù del quale ciascunacontinua a svolgere il proprio ruolo contribuendo, in tal modo,alla costituzione di tale armonia. «Certi caratteri – rileva peròHeller – possono essere amabili anche se la loro vita emoziona-le non è bilanciata»; in questo caso noi li amiamo per la loro aspi-razione «all’assoluto, all’incondizionato, a qualcosa che è infini-to», li amiamo «perché la loro bontà è sublime».

Oltre che all’armonia, la bellezza della persona buona rinviaalla dimensione dell’alterità: l’apparire estetico della personabuona è infatti caratterizzato dall’apertura, dall’offrire aperta-mente il volto allo sguardo dell’altro. È sotto questo profilo chela riflessione di Ágnes Heller ci consegna, come risulterà attra-verso questo percorso, i tratti di un individualismo non ripiega-to su se stesso ma che si apre alla dimensione dell’altro come aduna sua componente imprescindibile.

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Note1. Bedeutung und Funktion des Begriffs Bedürfnis im Denken von Karl Marx, 1974,

trad. it. di A Morazzoni, La teoria dei bisogni in Marx, pref. di P. A. Rovatti, Fel-trinelli, Milano 1974 (ed. inglese, The Theory of Needs in Marx, Allison and Busby,London 1976). Per una riflessione critica, dati i limiti di questa introduzione, misi permetta di rinviare a B. Biagiotti, Ágnes Heller. Vita quotidiana, bisogni e demo-

crazia, Milella, Lecce 2006.2. Á. Heller, F. Fehér, G. Márkus, Dictatorship over Needs: an Analysis of Soviet

Societies, Blackwell, Oxford 1983, trad. it. di A. Vigorelli, Analisi socio-politica del-

la realtà est-europea, SugarCo, Milano 1984. 3. Cfr., ad esempio, K. Löwith, Significato e fine della storia, trad. it. di F. Tede-

schi Negri, il Saggiatore, Milano 2004.4. Sulla distinzione helleriana fra «filosofia della storia» e «teoria della storia»,

Á. Heller, A Theory of History, Routledge & Kegan Paul, Boston 1982, trad. it.di V. Franco, Teoria della storia, Editori Riuniti, Roma 1982.

5. A tale proposito cfr. Á. Heller, Toward a Marxist Theory of Value, Car-bondale, Telos Books, University of South Illinois 1972, trad. it. di G. Dozzie E. Fubini, È il marxismo una dottrina secolarizzata della salvezza?, in Id., Per una

teoria marxista del valore, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 213-218.6. Á. Heller, Philosophie des linken Radikalismus, VSA Verlag, Hamburg 1978,

trad. it. di L. Boella, La filosofia radicale, il Saggiatore, Milano 1979, p. 124.7. Sono numerosi i luoghi in cui Heller ha offerto, successivamente, una

valutazione critica dei risultati di quel progetto: fra gli altri, Á. Heller, F. Fe-hér, The Postmodern Political Condition, Polity Press, Oxford 1988, trad. it. di M.Ortelio, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, ma anche Teo-

ria della storia, cit., Ágnes Heller, una vita per l’autonomia e la libertà, intervista a cu-ra di V. Franco, «Iride» n. 16, 1995, pp. 544-602, Á. Heller, Per una teoria mar-

xista del valore, cit. e Id., Morale e rivoluzione, a cura di L. Boella, A. Vigorelli, Sa-velli, Roma 1979.

8. Il definitivo tramonto della «politica redentrice» riguarda sia la versioneche Heller definisce «anarchica» – «secondo la quale è sufficiente abolire lo sta-to perché tutto cambi per il meglio e si instauri una società senza violenza» – siaquella del «marxismo ortodosso» – «secondo la quale l’apparato statale deveessere conquistato e distrutto, la classe lavoratrice deve assumere il potere, ilmercato deve essere abolito, perché solo così potrà nascere una società com-pletamente nuova e fondata sull’uguaglianza». La modernità deve essere para-gonata più che ad «un edificio che, prima di essere ricostruito, deve essere com-pletamente demolito», secondo la logica propria della politica redentrice, aduna nave «sulla quale mentre alcuni si occupano di cambiare gli alberi e le vele,

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Dal mio libro Sociologia della vita quotidiana1, scritto a metàdegli anni Sessanta, fino al più recente, La modernità può so-

pravvivere? 2, ho problematizzato e ridiscusso costantemente iltema dei bisogni. In tutti questi scritti ho preso in esame dif-ferenti aspetti del problema dato che il mio interesse era teo-retico e pratico allo stesso tempo. Le riflessioni riguardanti gliaspetti generali della ‘condizione umana’ mi hanno indotto atematizzare i bisogni in considerazione del fatto che una teo-ria dei bisogni poteva costituirsi anche quale veicolo di criti-ca sociale. La teoria dei bisogni in Marx3 manifesta così questoduplice interesse. Sebbene il libro non contenesse l’elabora-zione compiuta di una mia propria teoria, la lettura di Marxservì da strumento ai fini di una sua elaborazione e chiarifi-cazione. Allo stesso tempo, il testo si proponeva anche comeuna critica politica dell’allora ‘socialismo reale’ condotta dal-la prospettiva di un nuovo radicalismo di sinistra.

A partire da quel momento, la mia teoria ha subito alcunerevisioni, anche se in merito a pochi aspetti, e ciò è dovuto adue differenti ragioni. In primo luogo, come è ovvio, ho do-vuto difenderla da coloro che le hanno rivolto delle critiche,cosa che mi ha offerto l’opportunità di ampliarla e miglio-rarla apportando alcuni cambiamenti. In secondo luogo, lamia personale posizione filosofica ha transitato lentamente,ma in maniera incessante, da una visione iniziale di stampo

Una teoria dei bisogni riesaminata

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marxiano, se pur modificata in maniera sensibile, verso unaprospettiva che potrebbe essere ora definita ‘post-moder-na’. Dato che la teoria dei bisogni non fu mai saldamente le-gata al progetto della ‘grande narrazione’, dopo aver abban-donato la filosofia della storia di tradizione hegelo-marxiana,ho potuto sciogliere tali legami con una certa facilità. L’uni-co aspetto che ha richiesto una sostanziale revisione è statoquello dei bisogni radicali.

Ciò che intendo presentare in questa sede è un compendiodella mia teoria dei bisogni nella sua forma attuale, precisan-do che si tratterà di un resoconto più strutturale che storico.

I

Il bisogno è una categoria sociale. Uomini e donne ‘han-no’ bisogni in quanto ‘animali politici’ (zoon politikon), inquanto esseri o attori socio-politici. Eppure i loro bisognisono sempre individuali. Possiamo venire a conoscenza deibisogni di ciascuno; possiamo conoscere, se vogliamo, di checosa ciascuno ha bisogno. Eppure, per quanto concerne lastruttura concreta e gli oggetti dei bisogni, ogni individuo èdifferente. I bisogni si collocano tra i desideri da un lato e leesigenze (bisogni socio-politici) dall’altro. I desideri sonoesclusivamente personali e particolari e possono anche ri-manere inconsci. Ne deriva che non siamo in grado di sape-re che cosa desiderano gli altri dato che non possiamo esse-re consapevoli con esattezza neppure di ciò che noi stessidesideriamo. A differenza dei bisogni, i desideri non posso-no essere espressi verbalmente in modo integrale e a volteneppure per approssimazione. Se qualcuno mi chiedesse ciòdi cui ho bisogno, potrei esprimerlo; ma se mi si domandas-

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se che cosa desidero, di norma, potrei provare soltanto a de-scriverlo in maniera approssimativa. All’altro estremo dellatriade desideri-bisogni-esigenze si collocano le esigenze; es-se costituiscono delle astrazioni perché quando facciamo ri-ferimento a bisogni socio-politici, o esigenze appunto, stia-mo considerando una ‘media’. In senso stretto, nessuno av-verte delle esigenze nello stesso modo in cui avverte dei de-sideri o dei bisogni; ciò nonostante credo sia ancora legitti-mo parlare delle esigenze delle persone (dei bisogni socio-politici) in termini di bisogni, senza ulteriori specificazioni.Qui infatti il bisogno è inteso come concetto generale. I de-sideri manifestano – direttamente o indirettamente – la no-stra relazione psicologico-emotiva e soggettiva con i biso-gni, mentre le esigenze (i bisogni socio-politici) costituisco-no una categoria o tipologia di bisogni che la società attri-buisce o assegna ai suoi membri (o ad alcuni dei suoi mem-bri) in generale. I bisogni sono interpretati e determinati inentrambi i sensi. Ad esempio, il bisogno di educazione co-stituisce un bisogno socio-politico generale (una ‘esigenza’):si tratta di un’astrazione che comprende al suo interno tuttii tipi possibili di educazione poiché prescinde dai contenutispecifici, da tutto ciò che si può imparare. Se consideriamol’individuo in quanto portatore di bisogni, non potremo maiimbatterci nel ‘bisogno di educazione’, ma sempre in un bi-sogno concreto di studiare qualcosa di specifico o di acqui-sire competenze in una determinata professione. Inoltre, piùdi un desiderio differente può essere in relazione con questibisogni concreti; ad esempio, il desiderio di superare gli esa-mi con successo, o di trovare l’insegnante dei propri sogni, ealtri di cui si può anche non essere consapevoli.

Ho distinto tra tre momenti, o aspetti, dei bisogni, quali i

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bisogni propriamente detti, il rapporto soggettivo/psi co lo -gi co con i bisogni, e la relazione sociale attributiva rispettoad essi. Questa tripartizione assume grande importanza inetà moderna sebbene, se si getta uno sguardo retrospettivoall’epoca premoderna, si avrebbe ragione di ritenere che ta-li aspetti fossero sempre stati distinti, almeno in piccola par-te. Dopo tutto, il patriarca Giacobbe non aveva bisogno sol-tanto di una moglie, egli desiderava Rachele. Di frequente,comunque, la distinzione fra i differenti momenti non veni-va riconosciuta e da tale mancato riconoscimento si sonooriginate molte tensioni.

Ho sostenuto in precedenza che i bisogni socio-politici (leesigenze) sono astrazioni e lo sono in quanto si riferisconoad alcuni tipi o gruppi di bisogni. Si collocano, cioè, bisognianaloghi all’interno di uno stesso gruppo, facendone scatu-rire un’identità a prescindere dalle differenze. Si opera unadistinzione fra un tipo di differenza intesa quale identità e tut-te le altre in quanto non-identità. Questo duplice movimen-to ha luogo ogni volta che i bisogni sono attribuiti o allocati.Tali processi di allocazione o di attribuzione si accompagna-no sempre ad una forma di ri-collocazione, ri-definizione eri-organizzazione delle differenze in identità. Dal punto divista del processo riproduttivo di allocazione dei bisogni, uo-mini e donne non sono considerati quali portatori di bisogniin generale, né di un sistema unico e concreto, ma, in manie-ra intermedia, di determinati generi o gruppi di bisogni. Ilprocesso di allocazione dei bisogni è reso complesso dal fat-to che la società deve provvedere ad attribuire sia le tipolo-gie (specie) di bisogni sia ciò che può soddisfarli. Anche imezzi in grado di soddisfarli sono tipizzati ed astratti e le dueastrazioni sono di norma connesse l’una all’altra.

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Nelle società premoderne le differenti tipologie di biso-gni, i loro oggetti e i mezzi utili per il loro soddisfacimentoerano di regola allocati insieme in un nesso molto stretto. Inobili avevano necessità di un determinato tipo di educa-zione, i borghesi di un altro, le donne (in genere) di un altroancora, i contadini di nessuno – fatta eccezione per le pre-scrizioni religiose. Alla nascita ciascuno riceveva fin dallaculla un insieme di bisogni assegnati dalla società in consi-derazione della posizione occupata al momento della sua ve-nuta al mondo. A differenza delle società premoderne, le so-cietà moderne non assegnano bisogni dalla nascita, poichél’allocazione non viene più effettuata alle classi sociali in ba-se al loro ordine gerarchico tradizionale.

In linea di principio, i bisogni dovrebbero essere distribuitisecondo uno status acquisito. Una società moderna richiedeche uomini e donne debbano nascere nudi non solo fisica-mente ma anche in senso metaforico, dotati di niente altroche di quel bagaglio naturale rappresentato dagli istinti bio-logici; soltanto quelli biologici infatti, e non i bisogni sociali,possono essere considerati puri e semplici istinti. Questovuoto è piuttosto una forma di libertà, la libertà dell’indeter-minatezza; in termini formali, tale libertà si configura qualeassoluta possibilità. Per quanto concerne il contenuto, tale li-bertà è nulla nel senso che alla nascita al neonato non è asse-gnato nessun bisogno e nessun mezzo in grado di soddisfa-re bisogni. Quali bisogni verranno assegnati alla persona,quali mezzi per soddisfarli lui o lei si aspetteranno di deside-rare, dipendono non dal passato tradizionale collettivo, madal futuro personale del neonato. Si presume quindi che cia-scuno avrà la possibilità di scegliere fra posizioni sociali, stilidi vita e, così pure, anche fra differenti complessi di bisogni.

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A prima vista, la differenza non appare decisiva, ma inrealtà lo è. Consentitemi di enumerare almeno alcuni cam-biamenti che scaturiscono da questa nuova forma di alloca-zione dei bisogni.

Finché i bisogni socio-politici rimangono allocati in base aquell’ordine fondamentalmente gerarchico – quale la strati-ficazione della società –, la qualità dei bisogni rimane la baseper la loro allocazione e attribuzione. Ogni gruppo di bisognie di mezzi per soddisfarli, e il loro insieme che è assegnato aimembri di una classe, è qualitativamente differente rispetto aquelli che sono stati distribuiti alle altre classi. Ad esempio, ibisogni di educazione assegnati ai nobili non sono semplice-mente più dispendiosi o più prolungati nel tempo – forse nonlo furono –, ma assolutamente differenti da quelli assegnatiai borghesi. Anche il modo in cui si ritiene che le persone deb-bano vestirsi risulta determinato dal ‘complesso’ di bisogni.Nelle commedie, almeno fino all’età moderna, una nobiledonna che avesse scambiato i suoi vestiti con quelli della pro-pria domestica non avrebbe potuto essere riconosciuta comenobile e viceversa; la nobildonna non indossava soltanto abi-ti più dispendiosi, ma vestiti completamente differenti.

Dal XVIII secolo in avanti, almeno nell’Europa Occiden-tale, l’antica struttura gerarchica di stratificazione sociale fulentamente e rispetto ad allora interamente distrutta. Simul-taneamente emerse una nuova forma di allocazione dei bi-sogni. Nella percezione moderna ciascuno viene al mondolibero ed ugualmente dotato di ragione e coscienza; nullapertanto può legittimare l’allocazione dei bisogni in base al-la posizione sociale occupata al momento della nascita. L’al-locazione sociale dei bisogni deve restare un’astrazione. I bi-sogni inoltre sono assegnati alle persone in base alla loro af-

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filiazione di gruppo, ma tali gruppi sono ora prodotti dalleistituzioni. L’allocazione pertanto segue la gerarchia entrole istituzioni sociali e politiche.

Dato che siamo tutti nati liberi ed ugualmente dotati di ra-gione e poiché non abbiamo avuto in eredità un complesso dibisogni e di mezzi per soddisfarli fin dalla culla, nessuna qua-lità determinata può essere distribuita socialmente. Fin tantoche il fondamento è costituito da una reciprocità asimmetri-ca, la società provvede all’assegnazione di bisogni differentisotto il profilo qualitativo ai gruppi; tuttavia poiché la reci-procità asimmetrica attualmente non costituisce più il puntodi partenza, quanto piuttosto l’esito – ed è questo il significa-to di uguale opportunità –, i rapporti differenziati sotto il pro-filo qualitativo hanno perso ogni legittimazione. L’unica pos-sibilità che resta è quella di assegnare i bisogni in base alla po-sizione che le persone occupano all’interno della gerarchiasociale, ovvero di assegnare le stesse tipologie di bisogni sot-to il profilo qualitativo, ma in quantità completamente diffe-renti. Questo è il motivo per cui Rawls, formulando il suo no-to principio di differenza, dà per scontato che ci sia un solocriterio per determinare quali strati sociali siano i più svan-taggiati, rappresentato dalla quantità di denaro che ricevono.La moderna allocazione dei bisogni è interamente quantitati-va e pertanto può essere completamente monetizzata. Que-sto è il motivo per cui possiamo davvero parlare di ‘standarddi vita’. In età premoderna non vi era alcuna possibilità dimettere a raffronto lo stile di vita di un cittadino libero conquello di un cittadino non libero poiché non esisteva nessuntermine di paragone comune comparabile con lo ‘standarddi vita’. Il metro di raffronto comune – perché quantitativo –è applicabile in una società in cui ogni differenza è diventata

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quantitativa. Il tipo ideale di una moderna società democrati-ca è costituito da una popolazione all’interno della quale esi-stono ricchi e poveri – o, almeno, in cui alcuni hanno mag-giori possibilità economiche di altri – ma in cui non esiste nes-sun’altra caratteristica distintiva fra uomini e donne. Stile divita, preferenze e tutto ciò che è possibile ricomprendere nel-l’espressione ‘sistema di bisogni’ divengono identici – ad ec-cezione dei mezzi per il loro soddisfacimento che possonoessere di maggiore o minore valore monetario.

Tale caratteristica della società moderna fu individuataben presto e fu guardata con scarso favore. La tradizione ro-mantica è una sola, ininterrotta linea di accuse rivolte controla completa indifferenza della ‘società borghese’ per le di-stinzioni qualitative. L’egualitarismo, la scomparsa della raf-finatezza e della bellezza, la mercificazione di ogni cosa, in-clusa la cultura, furono denunciate in quanto differenti ma-nifestazioni di tale misconoscimento. In maniera paradig-matica, il potere livellante del mercato fu ritenuto responsa-bile della perdita di differenziazione qualitativa, ma anche lademocrazia – in particolare la ‘democrazia di massa’ – fu an-noverata fra i maggiori colpevoli. Il primo argomento fuproprio di Marx, il secondo di Nietzsche.

Ad esprimere le proprie riserve in merito alla tendenza al-la quantificazione di tutto ciò che in precedenza era diffe-renziato sotto il profilo qualitativo non furono soltanto i ro-mantici; anche i liberali manifestarono profonde inquietudi-ni. Kant fu uno dei primi a chiarire la profonda relazione sus-sistente fra riduzione delle qualità in quantità all’interno delsistema di allocazione dei bisogni da un lato e le forze moti-vazionali degli uomini dall’altro. Sottolineò la riduzione ditutti gli istinti concreti a tre: la brama di possedere, di potere

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e di gloria. È inutile rilevare che gli uomini hanno sempre de-siderato potere, gloria e ricchezze, sebbene non tutte le spe-cie di potere, di fama o di ricchezze siano oggetto di deside-rio. Fin quando i bisogni venivano allocati alle diverse classiin gruppi differenziabili sotto il profilo qualitativo, una per-sona appartenente per nascita ad una determinata classe nonavrebbe desiderato mezzi per il soddisfacimento propri diun gruppo di bisogni assegnati ad un’altra classe. In questomodo, prima dell’avvento della modernità, gli uomini noncontendevano per ‘il possesso’ in generale, ma per il posses-so di certi beni concreti, determinati e specifici (ad esempio,un particolare appezzamento di terra), in preferenza trattidal complesso di bisogni proprio di una considerazione e po-sizione più elevate. Per gli uomini moderni, al contrario, èpredominante l’identità assoluta: A è uguale ad A. Il potere èil potere. Qui tutte le differenze sono annullate nella meraidentità della quantità di beni. Di conseguenza, il solo inter-rogativo che conserva ancora un qualche interesse per colo-ro che agognano il potere è il medesimo che si pongono co-loro che bramano gloria o ricchezza: quanto?

Sebbene il fenomeno della quantificazione dei bisogniemerse già all’alba dell’età moderna, fu necessario parecchiotempo prima di riuscire a cogliere le dense implicazioni diquesta metamorfosi; a questo si aggiunge l’interrogativo cir-ca il livello di autentica comprensione al quale siamo appro-dati, sebbene ne sappiamo molto di più di cento anni fa.

Ascrivere la quantificazione dei bisogni all’interno delprocesso di mercificazione e quest’ultimo, a sua volta, allalogica del mercato è apparsa all’inizio la spiegazione piùplausibile; fin troppo plausibile – si potrebbe dire – dato chescalfiva solo la superficie del problema e per di più in rela-

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zione ad un aspetto non determinante. Da allora, abbiamoappreso dalla spaventosa ed atroce storia delle società di ti-po sovietico che l’abolizione del mercato non inverte la ten-denza alla quantificazione dei bisogni, ma comporta una dra-stica decrescita della quantità dei prodotti commerciabili al-la quale segue quella di tutti gli altri beni. Per questa ragione,nelle società di tipo sovietico l’equilibrio fra le tre specie dibisogni quantificati fu seriamente compromesso. Il bisognodi potere divenne il principale poiché tutti gli altri bisognipotevano essere soddisfatti in misura proporzionale alla po-sizione di potere che si ricopriva all’interno di un universopolitico completamente monolitico. Gli scarsi mezzi per lasoddisfazione dei bisogni che restavano venivano distribui-ti esclusivamente dai detentori del potere centrale, i soli a de-terminare i bisogni delle persone (i gruppi sociali); l’unicocriterio di valutazione per una simile determinazione (quan-titativa) era rappresentato dalla quantità di mezzi per la sod-disfazione dei bisogni che avrebbero allocato tra i differentigruppi. Con Fehér e Márkus ho definito questo sistema diallocazione dei bisogni «dittatura sui bisogni»4. Di certo, ladeterminazione dei bisogni e l’allocazione dei mezzi per illoro soddisfacimento da parte di un’autorità centrale costi-tuisce una dittatura al suo massimo grado; se il bisogno fos-se quello di perpetrare una vita meramente biologica, cioè dipreservare la propria integrità corporea e la mera libertà per-sonale, anche questo sarebbe allocato centralmente dall’au-torità. Eppure, le società sovietiche furono, e rimasero, so-cietà moderne. Insieme alla Germania nazista, costituironoil peggior sviluppo possibile del mondo moderno. Si po-trebbe richiamare alla mente che i bisogni non vennero quiallocati – come in nessun altro luogo nella modernità – in

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base ad una posizione ereditata dalla nascita, ma conside-rando la posizione acquisita da una persona all’interno dellagerarchia sociale – nel caso specifico, all’interno della gerar-chia del partito – o che l’allocazione dei bisogni era control-lata dal partito. Si tratta di un caso paradigmatico in cui laquantificazione dei bisogni è penetrata completamente nel-la sfera biologica e psicologica divenendo onni-inclusiva.

A prescindere dalle esperienze sociali e politiche, si assi-ste ad una crescente consapevolezza del fatto che la tenden-za alla quantificazione non riguarda soltanto le merci o i bi-sogni umani mercificabili. La stessa natura, o piuttosto la no-stra visione della natura, ad esempio, è diventata pressochéinteramente quantificata. Come ha rilevato Hans Jonas inOrganismo e libertà5, prima dell’ascesa della metafisica e dellascienza naturale moderne il nostro mondo era pieno di vita;la morte, o piuttosto la morte del corpo, era una sorta di ec-cezione. Il modello moderno di natura è, al contrario, com-pletamente quantitativo. I moderni matematizzano la natu-ra e, così facendo, trasformano la vita in morte. Lo stessouniverso diviene una sorta di ‘Necropoli’, la città vasta ed in-finita della materia morta.

Il processo di quantificazione del sistema di bisogni ha,d’altra parte, i suoi propri difensori i quali asseriscono che ildenaro, sebbene quantifichi, costituisca anche un potenteequalizzatore. Molti autori si soffermano sull’effetto libera-torio della monetizzazione. Dopo tutto, se i rapporti di tipotradizionale avevano il pregio di una maggiore ricchezza sot-to il profilo qualitativo costituivano pur sempre vincoli diservitù. Di certo, le donne a quel tempo non guadagnavanomeno denaro, sebbene non potessero affatto condurre un’e-sistenza indipendente, a meno che non si voglia ritenere la

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prostituzione una forma di ‘esistenza indipendente’: questaera schiavitù. Il nuovo mondo, al contrario, è un mondo ca-ratterizzato dalla mobilità: è soltanto in condizioni di quan-tificazione che tale mobilità sociale può divenire un feno-meno emblematico ed ininterrotto. Anche se le illimitatepossibilità di singoli uomini e donne sono mere realtà della‘istituzione immaginaria della società’, almeno qui sono benradicate. Il mondo moderno è ancora ricco di possibilità ine-sauribili. Certamente il modello non è stato realizzato, mapuò ancora esserlo; non si dovrebbe desiderare di tornarealle forme antidiluviane di allocazione dei bisogni e dei mez-zi per la loro soddisfazione, quanto piuttosto rendere effi-caci le idee di uguali opportunità e di eque condizioni di par-tenza. Se ciò accadesse, chi si curerebbe più del problemadella quantificazione di bisogni qualitativi?

Vi è un’altra posizione – che ora personalmente condivido– che non è né radicalmente romantica né assimilabile ad unliberalismo che si compiace di sé ma che scorge alcuni pregi inentrambe. La capacità critica del romanticismo e del radicali-smo non viene persa, anche se molte delle considerazioni ro-mantiche e radicali si rivelarono fatali, in parte perché misco-nobbero l’origine della categoria di modernità e, in parte, peraltre ragioni che non possono essere discusse in questa sede.Se si afferma la società moderna non è possibile poi respin-gere ciò che le è essenziale, ma si deve schiettamente ammet-tere la quantificazione dei bisogni al livello dei bisogni socio-politici (delle esigenze). Ed è possibile farlo senza rammarico,il che significa che si deve accettare che, nel caso di un’alloca-zione e di un’attribuzione sociali dei bisogni, quest’ultimi ap-paiano in gruppi quantitativi e possano essere distinti in basealle differenze di grado, ‘più’ o ‘meno’ (più o meno potere,

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più o meno gloria, più o meno denaro). Il mercato si costitui-sce quale istituzione necessaria ai fini di tale distribuzionequantitativa. Qualsiasi sia la forma assunta dall’allocazionedei bisogni in una società moderna, così come le forme di re-distribuzione, non è possibile costituire o attribuire nessungruppo che sia distinto sotto il profilo qualitativo. Le alloca-zioni dei bisogni, ed anche dei mezzi per la loro soddisfazio-ne, devono essere misurate nei termini di ‘standard di vita’.

Fino a quando l’allocazione sociale dei bisogni socio-po-litici (delle esigenze) perdura, c’è maggior merito nell’argo-mento conservatore-liberale; fino ad un certo punto, il pro-cesso di quantificazione e di monetizzazione ci rende real-mente liberi, ma – ed è qui che l’altra posizione introduce ta-lune perplessità – non vi è alcuna correlazione necessaria tral’allocazione dei bisogni socio-politici da un lato e l’attuale si-stema di bisogni di singoli individui, o anche di un gruppo diindividui, dall’altro. Le prime (le esigenze) non determina-no i secondi, anche se i secondi (i sistemi di bisogni indivi-duali) si costituiscono in quelle condizioni che sono state de-terminate dalla presenza significativa delle prime. Le circo-stanze in cui i bisogni vengono allocati quantitativamente(di norma nei termini di ‘quanto costa?’) non stabilisconociò che gli individui (o i gruppi) intendano fare di questa‘quantità’, se, o piuttosto come, la convertiranno di nuovoin qualità. Dopo tutto, i sistemi di bisogni degli individui – alpari di quelli delle singole comunità – non possono esseredescritti per intero in termini quantitativi. Le quantità infat-ti vengono sempre riconvertite in qualità e questo per il sem-plice fatto che nessuno mangia o beve denaro. Il problemanon riguarda tanto il processo di riconversione in sé, quan-to piuttosto la misura del valore del risultato finale distinto

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sotto il profilo qualitativo. Si può prediligere la qualità sem-plicemente per ciò che è, oppure anche per ciò che essa im-plica. Inoltre, ciò che realmente conta non è la riconversio-ne della quantità in termini qualitativi, quanto piuttosto il si-stema di bisogni all’interno del quale tutti i bisogni sono in-seriti. La medesima quantità di mezzi per la soddisfazionedei bisogni può essere allocata ad A e a B; ciò nonostante, Ae B possono condurre un tipo di vita del tutto differente. Laquestione cruciale in tutte le teorie dei bisogni perciò si con-densa attorno al ‘modo’ in cui operare tale distinzione.

Quest’ultima non appare in contrasto con la tendenza del-la modernità; lo è certamente invece l’abolizione del merca-to o il ritorno, piuttosto immaginario, ad una allocazionequalitativa dei bisogni. La nostra distinzione, al contrario, èmoderna. Ho cercato di mettere in evidenza come nell’etàpremoderna i tre aspetti del sistema di bisogni (i bisogni pro-priamente individuali, i desideri e i bisogni socio-politici, oesigenze) fossero differenziati, anche se non propriamentedistinti, e come sia solo nella specificità della modernità chetale distinzione è diventata possibile e praticabile. L’interro-gativo riguarda se la percezione del carattere tripartito dei bi-sogni debba essere considerata un fenomeno provvisorioche ha connotato il passaggio da un’allocazione dei bisognidi tipo qualitativo ad una meramente quantitativa, o se taletripartizione continuerà a sussistere o diventerà ancora piùmarcata. Allo stato attuale non è possibile stabilire quale siail caso. Con tutta probabilità, dipenderà dall’aver o meno ache fare con un fenomeno transitorio e dal dover o menocondividere il profondo pessimismo dei critici della cultura.Il punto di vista che assumo vuole mettere in discussione lapossibilità che la tripartizione possa durare.

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In ciò che segue intendo affrontare il nuovo (moderno)stato dei bisogni su due livelli. Per prima cosa discuterò i pro-blemi intrinseci all’allocazione dei bisogni socio-politici e, insecondo luogo, volgerò l’attenzione alla discussione sulleforme di vita nell’ottica delle possibilità di preservare alcunedelle loro caratteristiche qualitative.

II

Come ho già rilevato, i bisogni socio-politici sono alloca-ti socialmente, così come lo sono i mezzi per il loro soddi-sfacimento. ‘Allocazione sociale’ è un termine ampio; sia gliagenti che le modalità di tale allocazione infatti stanno mu-tando. Il cambiamento principale e repentino dal modo diallocazione premoderno a quello moderno include molte-plici aspetti, il più rilevante dei quali concerne la sua dinami-ca. Definisco ‘dinamica della modernità’ un concetto cheracchiude tutto al suo interno; non c’è da stupirsi allora cheincluda anche tutto ciò che riguarda l’allocazione dei biso-gni e dei mezzi per il loro soddisfacimento. La modernitàprospera nel dinamismo e per questo la negazione costitui-sce un momento indispensabile per la sua preservazione epersistenza. Nelle società premoderne la negazione era di-struttiva e decostruttiva; per questo è stata possibile solo perun breve periodo, nella fase di transizione verso la moder-nità. In Europa, anteriormente al XVII-XVIII secolo, tutti itentativi fallirono. Successivamente alla nascita della mo-dernità europea – evento che innescò un cambiamento ana-logo in tutto il mondo – le dinamiche sociali moderne ven-nero lentamente accettate. Ora è diventato possibile oppor-si a tutte le istituzioni, considerarle erronee e sbagliate. Ed è

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LA GINESTRABiblioteca per un individualismo solidale

Da due secoli, di fronte alla crisi delle rassicuranti comunità natu-rali e all’accelerazione dei processi di individualizzazione, filosofie pensatori sociali si sono posti il compito di costruire teorie nel-le quali la coesione della società non confligge ma va di pari passocon la cura di sé di individui emancipati. La collana La ginestra do-cumenta l’esistenza di questa tradizione di individualismo solida-le attraverso i testi di autori classici e contemporanei.

Titoli pubblicati

Georg SimmelFriedrich Nietzsche filosofo moraleA cura di Ferruccio Andolfi

Ralph Waldo EmersonSocietà e solitudineA cura di Nadia Urbinati

Pierre LerouxIndividualismo e socialismoA cura di Bruno Viard

Zygmunt BaumanIndividualmente insiemeA cura di Carmen Leccardi

Ágnes HellerLa bellezza della persona buonaA cura di Brenda Biagiotti

Harry G. FrankfurtCatturati dall’amoreA cura di Gianfranco Pellegrino

Gustav LandauerLa rivoluzioneA cura di Ferruccio Andolfi

Theodor W. AdornoLa crisi dell’individuoA cura di Italo Testa

Friedrich E.D. SchleiermacherMonologhi. Un dono di capodannoA cura di Ferruccio Andolfi

John DeweyIndividualismo vecchio e nuovoA cura di Maria Rosa Calcaterra

Charles TaylorLa democrazia e i suoi dilemmiA cura di Paolo Costa

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Questo libro

di Ágnes Heller

quinto della collana La Ginestra

nata dall’amicizia e dal lavoro comune

individuale e solidale

tra l’Associazione omonima

e le Edizioni Diabasis

viene pubblicato

alla sua prima ristampa

nel carattere Garamond

a cura di PDE Spa

presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN)

nel marzo dell’anno

duemila

quattordici

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D I A B A S I S l a g i n e s t r a

«È meglio per la filosofia morale

limitarsi a seguire umilmente

il cammino della vita

di alcune persone rette e,

come cronista fedele,

descrivere, interpretare

ciò che fanno.

Le persone buone esistono.

Sono reali. E tutto ciò che è reale

è possibile»

€ 10,00