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Affreschi BUFFI ED irriverenti . appartamento del capo della zecca del ducato di Milano Bernardo Scaccabarozzi . Facciata della zecca , e’ leggibile la scritta : Gian Galeazzo Maria quinto condottiero di Milano . Domus Ceche

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Facciata della zecca , e’ leggibile la scritta : Gian Galeazzo Maria quinto condottiero di Milano .

Domus Ceche

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Questo scritto e’ dedicato alla Sig.ra Paola Bottini, che ha voluto restaurare la cinquecentesca casa dello zecchiere degli Sforza, donando al luogo ed agli affreschi il loro antico splendore. Si ringraziano i professori Andrea Spiriti e Laura Facchin dell’Universita’ dell’Insubria senza i cui studi il medesimo non sarebbe stato possibile.

Gli affreschi sono una forte testimonianza iconografica della cronaca del tempo , in cui era forte il contrasto fra impero e papato. La forma satirica in cui viene espressa attraverso le Drôlerie e’ rafforzativa delle parole usate ai tempi per condannare i costumi papali .

La parte storica e’ estrapolata da wiki.

Sergio

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Prefazione

Quando fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero,

il 28 giugno 1519, Carlo di Gand, il figlio primogenito

di Filippo il Bello d'Asburgo (morto nel 1506) e di

Giovanna la Pazza, non aveva ancora compiuto

vent'anni. Mai più fino a Napoleone la storia europea

avrebbe visto un potere così esteso in ogni angolo del

continente, da Gibilterra a Lipsia, da Anversa a Tunisi.

Fu il più spettacolare successo della sagace politica

matrimoniale degli Asburgo, poiché una serie di morti

premature e di casi fortuiti lo portò a ereditare i domini

di tutti i suoi quattro nonni: da Massimiliano I le terre

ereditarie di casa d'Austria e la corona imperiale; da

Maria di Borgogna le ricche Fiandre e la Franca

Contea; da Ferdinando il Cattolico l'Aragona e le

corone di Napoli, Sicilia e Sardegna; da Isabella di

Castiglia i regni di una Spagna ormai liberata dai mori

e protesa sugli oceani verso gli sterminati domini

d'oltremare recentemente scoperti. Era una miriade di

regni, principati, ducati, città, feudi sui quali Carlo

esercitava poteri molto diversi, talora quasi nominali,

che trovavano unità solo nella sua persona e che lo costringevano a passare la sua vita in continui

viaggi, per mostrarsi ai suoi sudditi, , accettarne l'obbedienza, chiederne il contributo finanziario.

Questa frammentata disarticolazione costituì una delle più gravi debolezze dell'impero sul quale

non tramontava mai il sole, come si disse, dal quale lo stesso Carlo V avrebbe infine abdicato nella

consapevolezza di non poter reggere la sfida alla sua egemonia europea da parte della poderosa

Francia di Francesco I e di un altro impero in grande espansione, quello ottomano di Solimano il

Magnifico, che dopo aver conquistato l'Ungheria giunse a porre l'assedio a Vienna nel 1529 e per

mare sconfisse ripetutamente la flotta spagnola. Proprio alla vigilia dell'elezione imperiale, infine, la

protesta di Lutero aveva dato vita alla frana del cattolicesimo a nord delle Alpi, della quale i principi

tedeschi approfittavano per emanciparsi dall'autorità imperiale, mentre la stessa fine della

respublica christiana ne delegittimava la sacralità di suprema tutrice della fede e della Chiesa.

Queste tempestose vicende investirono in pieno anche la penisola italiana, la cui debolezza politica

era stata messa in evidenza dalla calata di Carlo VIII nel 1492 per rivendicare la sovranità francese

sul regno di Napoli. Una nuova stagione di «guerre horrende» (così le definì Francesco

Guicciardini) devastò per un quarantennio la penisola, con il loro inseparabile seguito di carestie,

pestilenze, saccheggi, violenze d'ogni genere: il sacco di Roma del 1527, perpetrato dalle truppe

imperiali, ne fu l'episodio più noto. Al centro dello scontro c'era Milano, il bastione dal quale si

controllava la ricca e colta Italia del suo rigoglioso autunno rinascimentale, l'Italia di Machiavelli e

Raffaello, di Bembo e Michelangelo, dove una fitta trama di principati feudali, di signorotti e

tirannelli, di repubbliche cittadine, di piccole corti cercava di navigare tra i perigliosi flutti di quei

decenni, di muoversi tra Francia e Spagna nel solco di antichi lealismi dinastici o alla ricerca di

nuove alleanze per districarsi e sopravvivere tra quegli «atrocissimi accidenti», sono sempre parole

di Guicciardini. E l'Italia fu allora al centro della politica di Carlo V, «il più saggio imperatore e

giusto / che sia stato e sarà mai dopo Augusto», cantava Ludovico Ariosto. A complicare la

situazione c'era poi il millenario insediamento a Roma del papato, coinvolto fino in fondo nelle

convulse vicende politiche della penisola, alla ricerca di un'autonomia e di un predominio che

induceva a usare le grandi risorse della cosiddetta fiscalità spirituale della Chiesa per arruolare

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eserciti e liberare l'Italia dai barbari, come soleva dire Giulio II, o per tutelare il proprio potere

secolare, come accadde ai papi medicei Leone X e Clemente VII, che solo grazie alla tiara

riuscirono a controllare Firenze, o ancora per costruire qualche staterello destinato a perpetuare il

potere della famiglia, come non riuscì a fare Alessandro VI Borgia, mentre ci riuscì Paolo III

Farnese, utilizzando feudi della Chiesa per creare il ducato di Parma e Piacenza e insignirne suo

figlio Pier Luigi, un brutale soldataccio. «Il buon vecchiarello si sguazza il mondo felicissimo»,

commentò furioso il cardinale Ercole Gonzaga, cui parve «una strana cosa il veder fare un duca di

due simili città in una notte, come nasce un fungo». A ciò si aggiunga infine che l'esigenza di

convocare un concilio ecumenico per definire l'ortodossia cattolica e varare la riforma della Chiesa

contrapponeva papato e impero, proteso l'uno a condannare le eresie protestanti, e l'altro invece a

cercare una possibile mediazione con i luterani, sperando che un incisivo rinnovamento

dell'istituzione ecclesiastica ne avrebbe frenato i successi in terra tedesca. Il concilio si riunì

finalmente a Trento alla fine del 1545, e lo scontro esplose nel '47 quando, dopo aver incassato

l'approvazione di alcuni importanti decreti teologici, con il pretesto di un'epidemia Paolo III lo

trasferì a Bologna, in terra della Chiesa, con furibonda collera dell'imperatore, che non tardò a

vendicarsi facendo assassinare Pier Luigi Farnese. «Io so la via di Roma – tuonava Carlo V –

guardisi papa Paulo di non far ch'io vada a trovarlo!». Ed è appunto negli anni cruciali del

pontificato di Paolo III (1534-1549) che si immerge il denso e affascinante studio di Elena Bonora

che, sulla base di una ricchissima documentazione d'archivio, ricostruisce la fitta trama del partito

filoimperiale in Italia, tra principi e feudatari, cardinali e ambasciatori, spie e agenti d'ogni tipo,

ricostruendone attraverso straordinarie corrispondenze private le istanze, i progetti, le speranze, le

delusioni. Ne emerge tutta un'Italia fieramente antipapale e antifarnesiana, desiderosa di farla

pagare cara a quel pontefice che aveva «oltraggiato tutti i principi d'Italia», di ficcare «un stecco

perpetuo nelli occhi di Sua Santità», di togliersi «questo sterco dai piedi», di «empoderarse de

Roma», anche in vista di una riforma della Chiesa tale da assumere in alcuni casi connotati

eterodossi, nella convinzione che spettasse a Carlo V e non a Paolo III il compito di «aconchiar el

mundo i reformar la Iglesia». A popolare la scena sono personaggi spesso di alto rango e vivida

personalità, come il cinico cardinal di Ravenna Benedetto Accolti, a dire il vero poco disposto a

credere nella fede cristiana, l'ambasciatore spagnolo don Diego Hurtado de Mendoza, la cui vastità

di esperienze politiche e il cui acuminato giudizio si nutrivano di straordinaria cultura e spirito di

libertà, don Ferrante Gonzaga, plenipotenziario di Carlo in Italia, e suo fratello Ercole, cardinal di

Mantova, principe della Chiesa e di fatto principe dello Stato gonzaghesco, l'abilissimo duca di

Firenze Cosimo de' Medici, il potente e imprudente Ascanio Colonna. E con essi si intrecciano le

passioni e la smagata lucidità politica di una generazione che, se riusciva a sopravvivere in quei

terribili frangenti, lo doveva solo alla propria capacità di capire uomini e cose, di cogliere il senso

degli eventi, di prevedere il futuro.

Di grande interesse, nella forma e nella sostanza, è il linguaggio affidato ai fitti scambi epistolari

imposti dalla lentezza delle comunicazioni, dal bisogno di ricevere e trasmettere informazioni, di far

conoscere le proprie opinioni sugli eventi e di sentire quelle degli altri. Un linguaggio talora ironico,

ma più spesso carico di indignazione e talora rabbioso, che il timore delle spie rende talora criptico,

cifrato («il nostro gramuffo», lo definiva il cardinal Gonzaga), basato su parole in codice e

pseudonimi nella cui labirintica trama l'autrice guida il lettore. Per esempio, Carlo V è Sansone,

Paolo III Cerbero, Cacco o Polifemo, l'alleanza antifarnesiana l'imperio anticacchico, i cardinali

sono i ciclopi mentre Roma è il ciclopico antro o la spelonca (o meglio la speloncaccia di Cacco) e

andare a Roma è speloncare, cosa che i cardinali antifarnesiani devono guardarsi bene dal fare (mai,

mai, mai, mai, dico mai speloncar mentre che vi è l'Orco!). E poi gli aspri libelli polemici contro

papa Farnese, «razza sgualdrina», «ingiustissimo et iniquissimo patre et indebitamente detto pastore

universale», «questo Antichristo, questo mostro horrendo», «pontefice malvagio et ignorante»,

«inimicissimo di Dio». La durezza dello scontro e i sentimenti di rabbia e di indignazione che si

manifestano in questi scritti risaltano con crudezza dalle parole con cui nel 1544 il cardinal

Gonzaga si rallegrava di poter dire che il papa «non solo sia fritto, ma mangiato et caccato senza

reverenza et ridotto già in polvere». Nelle illusorie speranze e negli inestinguibili odi che vi

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traspaiono, essi consentono di capire in presa diretta l'incalzare di uno scontro politico denso di

valenze religiose e di passioni ideali. Uno scontro destinato a esaurirsi dopo il conclave del 1549-

50, con il fallimento delle candidature imperiali alla tiara a causa delle divisioni interne del partito

filosburgico e con il rapido delinearsi negli anni seguenti del primo tracollo finanziario della corona

spagnola, che avrebbe indotto Carlo V a rinunciare a una politica duramente antipapale, a dividere i

suoi domini, a inserire l'Italia tutta nell'orbita spagnola e infine ad abdicare. È anche negli esiti di

queste vicende che affondano le radici del lungo predominio cattolico e papale nella penisola

italiana, dove l'imperatore a lungo invocato e atteso, come ai tempi di Dante Alighieri, alla fin fine

non sarebbe mai arrivato.

Articolo dal Sole 24 ore Massimo Firpo Cronologia articolo 30 dicembre 2014 .

Gli affreschi della casa dello zecchiere a Milano nel 1530

Negli anni 20 del XVI secolo l'antica Medhelan celtica e' un grande centro commerciale fra i paesi del nord ( Grigioni, Fiandre, paesi fiamminghi) ed il sud Europa. I suoi fiorenti commerci sotto il governo del Duca Francesco II le consentono di avere una zecca e di poter battere moneta . La situazione politica territoriale in quegli anni e' molto confusa . Le tensioni tra Francia e l'imperatore del Sacro Romano Impero sono molto forti e le guerre purtroppo molto frequenti . Fra i due grandi contendenti c’e’ l'Italia, terra di conquista, divisa fra il Ducato di Milano, la

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Repubblica di Venezia , la Signoria a Firenze , lo Stato Pontificio ed il regno di Aragona, come vediamo nella cartina :

Sono gli ultimi anni per il Ducato di Milano, presto sara' preda delle mire espansionistiche delle monarchie francese prima e degli Asburgo – Lorena poi .

Nel corso della signoria di Ludovico il Moro, nel 1499 Milano diventa la prima delle signorie italiane a cadere sotto gli attacchi delle monarchie nazionali. Nel 1499 discende in Italia un esercito di Luigi XII di Francia comandato dall'esule Gian Giacomo Trivulzio e nel 1500 il Moro viene definitivamente sconfitto. L'ex sovrano sforzesco cercò inutilmente di contrastare le truppe transalpine, chiedendo anche aiuto all'Imperatore, ma riuscì soltanto a riprendere per breve tempo la capitale e poche altre terre. Sconfitto e fatto prigioniero a Novara nel 1500, fu deportato in Francia, nel Castello di Loches, ove morì il 27 maggio 1508.

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Luigi XII rimase Duca di Milano fino al 1512, quando l'esercito svizzero, che faceva parte della Lega Santa, scacciò quello francese dalla Lombardia e pose sul trono milanese Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Fra il 1512 ed il 1515 i Cantoni svizzeri controllarono de facto il Ducato.

La Lega Santa fu un'alleanza creata contro la Francia e stipulata il 20 gennaio 1511 tra papa il Giulio II, la Repubblica di Venezia, l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo, Enrico VIII d'Inghilterra, Ferdinando II d'Aragona e i cantoni Svizzeri. Nel 1515 dopo la sconfitta dei lanzichenecchi nella Battaglia di Marignano , nei pressi dell’odierna Melegnano, Massimiliano decise di pervenire ad un accordo con i nemici, cedendo i propri diritti su Milano al re francese Francesco I in cambio di 30.000 ducati La sconfitta di Marignano segna anche la fine dell'espansione elvetica. Gli svizzeri riuscirono però a conservare i territori lungo la strada che dal Passo del San Gottardo conduce alle porte di Como, e che

attualmente costituiscono il Canton Ticino.

Negli anni successivi si sviluppa la lotta per il predominio su Milano tra la Francia da un lato e gli Asburgo d'Austria e Spagna dall'altro, imperatori del Sacro Romano Impero .

Francesco I di Valois governò il Ducato fino al 1521, quando l’antifrancese Lega Santa il cui maggiore esponente era Carlo V, re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero, innalzò al trono del Ducato il giovane fratello di Massimiliano, Francesco II Sforza .

Il 24 febbraio 1525 le truppe imperiali sconfissero definitivamente quelle francesi a Pavia, catturando lo stesso Francesco I e deportandolo a Madrid. Francesco venne umiliato, dovette perdonare Carlo di Borbone e reinsediarlo nelle sue terre, fu costretto a lasciare in ostaggio i suoi due figli e fu invitato a sposare la sorella di Carlo V, Eleonora. Nel 1526 fu costretto ad accettare la pace di Madrid, secondo la quale doveva rinunciare a Milano, a Napoli e alla Borgogna; dopo aver firmato la pace, il 18 marzo, Francesco I fu rilasciato. Dopo essere tornato in Francia, lamentando di essere stato costretto con la violenza ad accettare i patti, si rifiutò di ratificare il trattato di Madrid, anzi il 22 maggio 1526 a Cognac sur la Charente, stipulò con Clemente VII, Firenze, Venezia e Francesco Maria Sforza, una lega per scacciare gli imperiali dall’Italia.

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I confederati si obbligavano a mettere insieme 2.500 cavalieri, 3.000 cavalli e 30.000 fanti; Francesco I avrebbe dovuto mandare un esercito in Lombardia e un altro in Spagna, mentre i veneziani e il pontefice avrebbero dovuto assalire il regno di Napoli con una flotta di ventotto navi. Cacciati gli spagnoli, il papa avrebbe dovuto mettere sul trono napoletano un principe italiano, che avrebbe dovuto pagare al re di Francia un canone annuo di 75.000 fiorini. Francesco I non tenne mai fede ai patti e, per tutto il 1526 non partecipò alle operazioni, preferendo trattare con Carlo V il riscatto dei figli.

Il fatto più grave che occorse al papa fu il tradimento del cardinale Pompeo Colonna. Questi, incoraggiato da Carlo V con promesse e ricompense, nella notte tra il 19 ed il 20 settembre 1526, occupò con un esercito di 8000 uomini la porta di San Giovanni in Laterano e Trastevere, spingendosi lungo il Borgo Vecchio fino al Vaticano. Clemente VII si rifugiò a

Castel Sant'Angelo lasciando che il Vaticano venisse saccheggiato dalle truppe del cardinale. Il papa, vedendo che gli alleati non onoravano i patti, concluse una tregua di 8 mesi con l’imperatore, ma Carlo di Asburgo non accettò l'armistizio.

Il 31 marzo l'imperatore passò il Reno nei pressi di Bologna e si diresse verso la Toscana. Le truppe della Lega comandate da Francesco Maria I della Rovere e dal marchese di Saluzzo si accamparono vicino a Firenze per proteggerla dall'esercito invasore, ma questo attraverso il territorio di Arezzo e quindi di Siena si diresse verso Roma. Lungo il tragitto Acquapendente e San Lorenzo alle Grotte furono devastate, Viterbo e Ronciglione furono occupate. Il 5 maggio gli invasori giunsero sotto le mura di Roma, che era difesa da una milizia piuttosto raffazzonata comandata da Renzo da Ceri.

L’assalto alle mura del Borgo iniziò la mattina del 6 maggio 1527 e si concentrò tra il Gianicolo e il Vaticano. Per essere di esempio ai suoi, Carlo di Borbone, fu tra i primi ad attaccare, ma mentre saliva su una scala fu colpito a morte da una palla d'archibugio, che sembra sia stata tirata da Benvenuto Cellini. La sua morte accrebbe l'impeto degli assalitori, che, a prezzo di gravi perdite, riuscirono ad entrare in città.

Durante l'assalto Clemente VII pregava nella sua cappella privata e, quando capì che la città era perduta, si rifugiò a Castel Sant'Angelo insieme ai cardinali e gli altri prelati. Nel frattempo gli invasori trucidavano i soldati pontifici. L’esercito imperiale era composto di circa 40.000 uomini, così suddivisi: 6.000 spagnoli agli ordini di Carlo di Asburgo, a cui si erano aggiunte le fanterie italiane di Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga "Rodomonte"; molti cavalieri si erano posti sotto il comando di Ferrante I Gonzaga e del principe d'Orange Filiberto di Chalons, che era succeduto al Borbone; inoltre si erano accodati anche molti disertori della lega, i soldati licenziati dal papa e numerosi banditi attratti dalla speranza di rapine. A questi si aggiunsero i 14.000 lanzichenecchi comandati da Georg von Frundsberg, mercenari bavaresi, svevi e tirolesi, tutti luterani esasperati dalla fame e dal ritardo nei pagamenti, che consideravano il papa come l'anticristo e Roma come la Babilonia corruttrice, attratti dalla possibilità di arricchirsi saccheggiando la città.

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Furono profanate tutte le chiese, furono rubati i tesori e furono distrutti gli arredi sacri. Le monache furono violentate, così come le donne che venivano strappate dalle loro case. Furono devastati tutti i palazzi dei prelati e dei nobili, ad eccezione di quelli fedeli all'imperatore. La popolazione fu sottoposta ad ogni tipo di violenza e di angheria. Le strade erano disseminate di cadaveri e percorse da bande di soldati ubriachi che si trascinavano dietro donne di ogni condizione, e da saccheggiatori che trasportavano oggetti rapinati.

L’8 maggio il cardinale Pompeo Colonna entrò a Roma seguito da molti contadini dei suoi feudi, che si vendicarono delle angherie subite per ordine del papa saccheggiando tutte le case in cui ancora rimaneva qualcosa da rubare o da distruggere.

Tre giorni dopo il principe d'Orange ordinò che si cessasse il saccheggio; ma i lanzichenecchi non ubbidirono e Roma continuò ad essere violata finché vi rimase qualcosa di cui impossessarsi. Il giorno stesso in cui cedettero le difese di Roma, il capitano pontificio Guido Rangoni, si spinse fino al Ponte Salario con una schiera di cavalli e di archibugieri, ma, vista la situazione, si ritirò ad Otricoli. Francesco Maria della Rovere, che si era riunito alle truppe del marchese di Saluzzo, si accampò a Monterosi in attesa di novità.

Il 6 giugno Clemente VII capitolò, obbligandosi a versare al principe d’Orange 400.000 ducati, di cui 100.000 immediatamente e il resto entro tre mesi; era inoltre pattuita la consegna di Parma, Piacenza e Modena. Clemente VII, per evitare di ottemperare alle condizioni imposte dall'imperatore, abbandonò Roma e, il 16 dicembre 1527, si ritirò ad Orvieto.

Il sacco di Roma del 1527 e’ il tema d’un affresco che si trova nella casa dello zecchiere .

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Nell’affresco vediamo tanti irreverenti gatti che assaltano il carro del pizzicagnolo, rubando di tutto e infilandosi sotto le gonne della matrona .Secondo il prof. Andrea Spiriti e la sua assistente prof. Laura Facchin dell'universita' dell'Insubria , sono una allegoria del sacco di Roma ed il povero pizzicagnolo rappresenta il papa Clemente VII .

Ma perche' i gatti ?

A quei tempi Le Chat , era il soprannome del consigliere dell'imperatore Carlo V , tale Mercurino Arborio di Gattinara . Il marchese Mercurino Arborio di Gattinara (1465-1530), nel 1518 fu chiamato a ricoprire l’incarico di consigliere e Gran Cancelliere di Carlo I Re di Spagna (incoronato in seguito Imperatore del S.R.I. con il nome Carlo V). Operava inseguendo il sogno della Monarchia Universale mediante l’insediamento del Re quale guida politica, spirituale e militare di una Europa unita e pacificata.

Ecco quindi i gatti , cioe' Arborino e le sue truppe attaccare il carro del papa per sottrargli ogni avere. Per ironia della sorte Mercurino verra’ nominato Cardinale da papa Clemente VII (1529) quale riconoscimento per gli importanti servigi resi all’impero. Eccolo nell’affresco con il cappello rosso cardinalizio .

Ma perche' rappresentare il papa come un venditore ambulante ?

Clemente VII era della casata dei Medici quindi non di sangue blu, come gli Asburgo, ed i Medici erano visti all'interno del Sacro Romano Impero come persone di basso livello, di arricchiti, bottegai appunto . Il banco mediceo era nei pressi di via Dante a Milano. Come non ricordare qualche anno prima la “vendita delle indulgenze” e le 95 tesi di Lutero, che oltre allo scisma ebbero come conseguenza il riconoscimento politico- religioso dei luterani da parte degli imperatori del sacro romano impero .

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Osservando l’affresco notiamo da sinistra la citta’ di Roma che viene violentata da gatti a cui si unisci un cane traditore ,col cappello rosso rappresenta il cardinale Pompeo Colonna , che avendo in odio Clemente VII vende i propri servigi all’imperatore , allegoricamente rappresentato dentro la gerla che il cardinale trasporta a spalla .

Non e’ l’unico cane traditore presente

Questo rappresenta Francesco I della Rovere , duca di Urbino e comandante le truppe papali. Anche qui per forti contrasti personali col papa , il Della Rovere non attacco’ mai seriamente le truppe imperiali , permettendo loro il sacco di Roma

Mentre dunque su questo lato dell'affresco si assiste alla pietosa disfatta dei due soli esseri umani presenti nella scena, sulla destra lo spettacolo è offerto da gatti che, carichi del loro bottino, si

dirigono verso il luogo in cui celebreranno la vittoria.

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Nell’allegoria il cinghiale potrebbe essere visto anche come una scrofa. La scrofa semilanuta è un animale mitologico, il simbolo della città di Milano prima dell'età comunale. La leggenda vuole che il fondatore di Milano fu il celta Belloveso, che attraversò le Alpi e il territorio degli Edui per arrivare nella pianura Padana. Belloveso vide nel luogo indicato da una dea in sogno, una scrofa di cinghiale che aveva la particolarità di avere il pelo molto lungo sulla parte anteriore del corpo (scrofa semilanuta). Il capo celtico decise quindi di costruire la sua città in quel luogo e di chiamarla Mediolanum, cioè "semilanuta" .

Il resto dei personaggi presenti sono da ricercare fra i componenti dell’esercito imperiale.

Circa quarantamila uomini contava l'esercito imperiale che faceva irruzione a Roma; il nucleo principale era costituito dai quattordicimila lanzichenecchi del Frundsberg e dai seimila spagnoli del Borbone; a queste truppe, lungo il cammino attraverso la penisola si erano aggiunte le fanterie italiane di Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga, molti cavalieri che si erano messi al comando di Ferdinando Gonzaga e del principe d'Orange Filiberto di Chalons, succeduto nel comando supremo a Carlo di Borbone, numerosi disertori dell'esercito della lega, i soldati licenziati dal Pontefice e non pochi banditi attratti dalla speranza di rapine.

Significativa la scimmietta ed il personaggio vestito in rosso come il papa, che avremo modo di conoscere piu’ avanti analizzando un altro affresco .

Non è certo semplice trovare il significato di queste raffigurazioni ma mi pare che il gusto per il fantastico e lo humor bizzarro che lo stesso pittore ha dimostrato nelle scenette popolate di gatti può facilmente fare interpretare anche queste ultime immagini come un mero divertissement

La stessa fattura dei due affreschi testimonia piu' che scarsa perizia, una esecuzione molto sbrigativa e disinvolta che fa pensare ad un un lavoro affrontato quasi per ischerzo, a una piacevole burla. Le linee sono molto semplici ed essenziali, il colore è steso a pennellate dense e veloci, le lumeggiature – ad esempio quelle per il pelo variegato dei gatti - non sono che spesse pennellate di biacca.

Nel volume “Milano Ritrovata “ cosi’ la professoressa Maria Luisa Perer descrive questo affresco

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Tornando alla nostra storia , nel 1528 con Francesco II Sforza duca, a Milano batte ancora un cuore caldo, un cuore generoso, un cuore di fuoco capace di alimentare la fonderia della zecca e battere moneta !

Responsabile capo zecchiere e' in quegli anni Bernardo Scaccabarozzi , capo di una delle piu' potenti famiglie patrizie dell'epoca , padroni di vaste proprieta' terriere in Brianza e nel territorio bergamasco confinante con la Repubblica di Venezia. Il suo appartamento di rappresentanza presso

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la zecca possiamo immaginarlo dalla descrizione della zecca che ne fa lo storico Giorgio Vasari ( 1511-1574) in visita a Milano nel 1566 .

E’ riccamente arredata con grandi affreschi e quadri alle pareti. Se ne contano circa una settantina.

Scrive il Vasari a pg 424 del V volume della sua storia : “ Di mano del medesimo frate ( frate Girolamo, converso di S.Domenico nel convento di San Benedetto a Mantova n.d.r. ) ho veduto nella medesima casa della Zecca di Milano un quadro ritratto da un di Lionardo, nel quale è una femina che ride et un San Giovanni Battista giovinetto, molto bene imitato “.

In altra parte (VI, p. 518) il Vasari cita un Battesimo

di Cristo di Cesare da Sesto nella Zecca di Milano, lo stesso che nomina Lomazzo (1584, p. 165) presso Prospero Visconte (ora è nella collezione Gallarati Scotti a Milano) precisando che al paesaggio e agli animali aveva messo mano il Bernazzano . Cesare da Sesto, anch'egli milanese, e fece, più di quel che s'è detto nella Vita di Dosso, un gran quadro che è nelle case della Zecca di Milano, dentro al quale, che è veramente copioso e bellissimo, Cristo è battezzato da Giovanni. È anco di mano del medesimo nel detto luogo una testa d'una Erodiade con quella di San Giovanni Battista in un bacino, fatte con bellissimo artificio.

Molti altri dipinti ritraggono notti e fuochi all'interno della fucina del dio Vulcano , in omaggio alla fucina della zecca . Vi sono pure opere di Gerolamo Bonsignori .

Vasari dipinse nel cortile della zecca di milano a fresco in una facciata la nativita' di Cristo nostro salvatore

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Di natura piu' classica sono altri affreschi che rappresentano alcuni amorini che svolazzano a gruppi di tre fra decorazioni floreali derivate da bassorilievi e sarcofagi del tempo passato ma molto di moda in quegli anni di inizio 1500 . Modello di riferimento, molto noto a Milano, e' quello degli angeli delle cantorie in Santa Maria di Brera , dipinti da Bernardo Zenale.

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All’attuale ingresso dell’appartamento troviamo alle pareti un altro affresco a sfondo giallo di chiara scuola fiamminga . Si deve ricordare che Milano era nel 1400 un grande centro di cultura fiamminga con Gian Maria Galeazzo Sforza ed inoltre esprimeva una particolare cultura fiorentina irregolare come quella di Piero di Cosimo portatore di una cultura archeologica bizzarra, la stessa cultura che in Lombardia si esprime nell’opera di Tommaso Rodari sulla facciata del duomo di Como . L’affresco si richiama alle droliere con riferimenti scatologici ( vedi appendice). Un’analisi dell’affresco in modo analitico mostra scene di lavoro della vita contadina attraversate da motivi floreali che fungono da trait di union subito contrapposte sull’altra parete ad animali mostruosi .

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Esplorando l’affresco notiamo l’immagine di un carro trionfale, che divide la scena : alla sua sinistra immagini di una vita agreste tranquilla , alla sua destra figure mostruose . E’ il cocchio del dio denaro , probabilmente in omaggio alla zecca , di cui gli uomini sono schiavi e pertanto legati al carro stesso nell’atto addirittura di defecare denaro. Da questa schiavitu’ e cupidigia , “ Qua rr “ dice la scritta , nascono appunto i mali dell’umanita’ rappresentati di seguito.. Immagine irriverente quella del vecchietto con gli occhiali intento a vomitare con al collo il “ Toson

d’oro “ che lo identifica .

Il più famoso gran maestro dell'ordine del “ Toson d’oro “fu Carlo V (1500-1558), imperatore del Sacro Romano Impero, che ne fece membri anche suo figlio Filippo II, l'ammiraglio genovese Andrea Doria, il principe di Bisignano Pietrantonio Sanseverino, il duca di Parma Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III Farnese insignitone a seguito delle sue

imprese militari, ed il granduca di Toscana Cosimo I de' Medici, per i servigi resigli da quest'ultimo.

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Papa Paolo III Farnese, al secolo Alessandro ,utilizzo’ feudi della Chiesa per creare il ducato di Parma e Piacenza e insignirne suo figlio Pier Luigi, un brutale soldataccio. «Il buon vecchiarello si sguazza il mondo felicissimo», commentò furioso il cardinale Ercole Gonzaga, cui parve «una strana cosa il veder fare un duca di due simili città in una notte, come nasce un fungo». E di lui aggiunse : « che il papa non solo sia fritto, ma mangiato et caccato senza reverenza et ridotto già in polvere ». Questo e’ il vecchierello Alessandro :

Questo ciclo ha carattere satirico allegorico di una allegria fortemente sarcastica . Il significato e’ la caducita’ delle cose terrene, e’ il caos della realta’ quotidiana e la difficolta’ a gestire secondo parametri normali la complessita’ della situazione politica; l’idea e’ che non valgono piu’ i parametri del passato a cominciare dal Classicismo . Il prof. Andrea Spiriti sottolinea qui con forza che il classicismo e’ un’arma a doppio taglio perche’ l’ottimismo umanistico e’ ormai andato a pallino , 30 anni di guerre in Italia hanno ormai dimostrato come le speranze di una nuova etas siano ormai distrutte. In questa angoscia che l’arte chiama “ manierismo “ c’e’ stato il gusto per una realta’ mostruosa per una realta’ metamorfica per una realta’ colta non nei suoi valori , ma nella sua

dissoluzione. E’ chiaro che l’adozione di alcuni modelli neoclassici come ad esempio i gerani cioe’ quegli elementi floreali che scorrendo nei loro ghirigori costituiscono l’unione di tutto il ciclo ci mostra evidentemente la misura della situazione , come ce la danno i gatti nel primo affresco. Come ce la danno questi straordinari gatti che fanno cose strane : rubano salsicce, strappano vestiti, guardano sotto le gonne della signora in alto a sinistra , che cuociono un cinghiale ,gatti che sono fortemente antropizzati-umanizzati. Vi e’ la una grande tradizione come Esopo , Fedro; c’e’ dietro la diffusione dei modelli, cito a pochi passi, lo splendido ciclo di storie cosi’ dette di Esopo in realta’ sono quelle di Fedro, che si trovano alla rocca di Angera ,ma che provengono da Palazzo Borromeo. C’era la stanza cosi’ detta di Esopo , dove ci sono le rappresentazioni delle fiabe . Esopo quindi e’ in un contesto attorniato qui in zona : palazzo Vaghi , palazzo Borromeo , palazzo della Zecca tutti nel giro di pochi metri . Ebbene queste figure sono sicuramente dello stesso gusto . Il gatto che fa cose strane , il gatto vorremmo dire arlecchino e’ tipico della cultura fiamminga ,in generale della cultura nordica . Ricordiamo qui la doppia valenza della figura del gatto riferito a Mercurino Arborio di Gattinara. Sempre sulla stessa parete lo stemma della famiglie Scaccabarozzi e Gallarati, infatti Bernardo sposo Maddalena Gallarati. In un'altra stanza troviamo affreschi che ancora ricordano un mondo al contrario ,un mondo che si presta al ribaltamento dei valori, si presta alla satira ed alla provocazione. Dominante e' sempre la critica contro il papato ed il vaticano , critica che vuole richiamare ad una maggiore purezza dei

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costumi .

Il papa interessato in questa satira feroce e’ Giulio III .

Gian Maria Ciocchi del Monte fu eletto Papa con il nome di Giulio III il 7 febbraio 1550 e fu incoronato nella basilica patriarcale vaticana il 22 febbraio dal cardinale Innocenzo Cybo, protodiacono di Santa Maria in Domnica.

Numerose furono le voci sfavorevoli all'elezione di Giulio III, perché sospettato di essere omosessuale; in tal senso fu preso di mira da numerose pasquinate. Girolamo Muzio scrive nel 1550 in una lettera a Ferrante Gonzaga:

« Hor di questo nuovo papa universalmente se ne dice molto male; che egli è vitioso, superbo, rotto et di sua testa[1] » ,

dove rotto significherebbe "omosessuale". Quando Giulio III nominò cardinale il diciassettenne Innocenzo Del Monte (1532-1577), la voce che il papa avesse nominato cardinale il suo presunto amante suscitò un certo pettegolezzo tra i cardinali romani e nelle corti europee[2]. Il poeta francese Joachim du Bellay scrisse un componimento sul fatto, che recita:

« Ma vedere uno staffiere, un bambino, una bestia, un furfante, un poltrone diventare cardinale, e per aver saputo accudire bene a una scimmia, un Ganimede avere il rosso [cappello cardinalizio] in testa questi miracoli, Morel, accadono solo a Roma[3] »

Innocenzo del Monte dopo l'ordinazione a cardinale commise un omicidio plurimo. Assassinò due protettori con i quali ebbe un diverbio; era solito frequentare meretrici; venne arrestato perché si trovarono due di esse nella sua carrozza e fu appurato che avevano passato con lui, in casa sua, sia la quaresima che la settimana santa. Circolò anche voce a Roma che ebbe tutti questi privilegi da Papa Giulio III, fino a diventare uno dei cardinali più ricchi di Roma, perché fosse suo amante; così

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testimoniano l'ambasciatore veneto Matteo Dandolo e Onofrio Panvinio[4][5].

Note

1. ^ Lettere di Girolamo Muzio Giustinopolitano conservate nell'archivio governativo di Parma, Deputazione di Storia Patria, Parma 1864, p. 152.

2. ^ P. Messina, voce: "Del Monte, Innocenzo", Dizionario biografico degli italiani, vol. 38, Istituto dell'Enciclopedia italiana - Treccani, Roma 1990, pp. 138-141

3. ^ Joachim du Bellay, Les regrets [1558], in: Les antiquités de Rome. Les regrets, Garnier-Flammarion, Paris 1971, sonnet 105.

4. ^ Pietro Messina, Dizionario Biografico degli Italiani - Volume XXXVIII (1990), Treccani.

«Volle anche che il fanciullo fosse adottato come figlio da suo fratello Baldovino col nome appunto di Innocenzo Del Monte. [...] Non mancò chi disse, e la voce fu accolta da tutta la città, che il papa aveva voluto creare cardinale il suo amante. [...] Tale sospetto, comunque, non fu sviluppato soltanto nelle pasquinate: l'ambasciatore veneto Matteo Dandolo scriveva infatti che il D. era "un piccolo furfantello" e che il card. Del Monte "se lo prese in camera e nel proprio letto, come se gli fosse stato figliuolo o nipote" (Relazione di Roma, in Relazioni..., a cura di E. Alberi, II, 3, p. 355); Onofrio Panvinio, riferendosi alla vicenda del D., scriveva di Giulio III: "nimie vitae luxuriae et libidinibus intemperanter deditus" e "ad voluptarios tantum secessus ... per totum pontificatum intempestive comessando lasciviendoque ..." (HistoriaBarth. Platinae de vitis Pontificum Romanorum, Coloniae 1562, pp. 331, 333, cit. in Concilium Triden., Diaria, II, p. CXXXIV), e, ancora più esplicitamente, lo definì "puerorum amoribus implicitus" (De Iulii III vita ante pontificatum, cit. ibid. p. 147) [...] Nel gennaio 1568 fu protagonista di uno scandalo a Siena. Aveva rapito due donne di umili condizioni di Rapolano e le aveva tenute vari giorni nella sua casa. Il 30 gennaio Pio V incaricò il gesuita V. Rodriguez di indagare sul fatto, ma Cosimo I intervenne personalmente in difesa del D., che se la cavò con una severa ammonizione e poté rimanere in Toscana. Tornato a Roma verso la fine del 1568, gli fu però proibito di tornare nuovamente a Firenze e gli fu assegnata una stanza in Vaticano con due teatini per la sua istruzione. Nel maggio 1569 il D. andò nuovamente sotto processo: nella sua carrozza erano state scoperte due meretrici e si appurò che esse avevano frequentato la casa dei cardinale per tutta la quaresima e la settimana santa».

5. ^ Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa pagina 80, Editore Newton Compton Editori, 2010.

«E il nepotismo è a oltranza: [...] Fabiano, custode delle scimmie, che Giulio III ha fatto adottare dal fratello Baldovino così da dargli il nome di Innocenzo del Monte, diventa cardinale e segretario di Stato. È uno scandalo; e il collegio cardinalizio disprezza il “cardinal Montino”, come lo definisce in alternativa al soprannome di Scimmia per i suoi giovanili impegni. Costui prosegue la sua vita viziosa anche dopo la morte del papa-papà, trovandosi immischiato in risse con puttane e loro protettori, fino a quando, per l’uccisione di due di questi, finisce in carcere a Castel Sant’Angelo».

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Ritroviamo nel primo affresco l’immagine di una scimmia tenuta per mano da un uomo vestito di rosso e se tanto mi da tanto allora si tratta del cardinal Montino e del papa Giulio III

Il terzo affresco e' ambientato nel nuovo mondo, le Americhe, i soggetti oltre che immancabili negroidi vestiti di sole foglie , sono sempre animali fantastici e mostruosi . Strano trovare questi animali su un affresco , molto piu' facili trovarli all'interno di codici .Strano anche trovarli in un affresco in una data cosi' precoce 1530, rispetto alla scoperta delle Americhe 1492 . Animali fantastici , provenienti da un mondo esotico da un nuovo mondo irreale dai valori capovolti , un po' come accadeva a Milano , vista la situazione politica del tempo .

Questi schemi congiungono una valenza di tipo antipapale ,ed una valenza di tipo esotico , legata appunto alla scoperta del nuovo mondo di cui Carlo V era padrone ed imperatore .

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Decisamente di stile diverso da quello fiammingo. Le figure erano scure, particolarmente ossidate dal tempo, piu’ ossidate del desiderato . Oggi gli affreschi sono stati restaurati ed appaiono nei loro colori originali

Allora e’ chiaro a questo punto il gioco . Il gioco e’ mescolare un tema decorativo e un tema mostruoso, ma mostruoso in modo diverso meno fiammingo rispetto all’ambiente precedente; un tema anticlericale che non e’ generico ma specifico contro Clemente VII ed i suoi successori . Un tema esotico , un tema americano diciamo cosi’. Nel 1529 non c’era ancora stato il concilio di Trento , per cui era possibile essere cristiani essere cattolici in un modo che 30 anni dopo sarebbe stato impossibile. Cioe’ negli anni 20 tutta quella vasta tipologia che noi chiamiamo evangelismo , cioe’ quegli atteggiamenti di un cristianesimo visto soprattutto nella sua dimensione di spiritualita’ individuale, quel fastidio tendenziale verso la liturgia pomposa con le ostentazioni , quel fondamentale rifiuto negli aspetti piu’ duri della supremazia papale , ebbene questi atteggiamenti in quegli anni erano ancora cattolici, cioe’ erano possibili pensarsi all’interno della chiesa ; cosa che ovviamente dopo il concilio di Trento non sara’ piu’ possibile. A quel punto si e’ al bivio, o accettare una chiesa di cattolicesimo contro-riformato o come qualcuno fece passare alla riforma . Ebbene in quel particolarissimo contesto l’anticlericalismo non e’ anticristianesimo, e’ una vena

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polemica che nasce dalle scelte politiche di Clemente VII de Medici e che assurge poi ad un tema piu’ generale : e’ l’anticlericalismo di Bocaccio per intenderci. Prendere in giro frati e suore ma senza che questo implichi automaticamente una posizione anticristiana tout court.

Il tema esotico e’ un tema visto nella sua dimensione come dire in qualche modo un po’ magica un po’ degna di sospetto. Infatti esisteva tutta una corrente imperiale che era molto perplessa sulla politica imperiale riguardo ai domini americani. E lo era per una ragione semplicissima, perche’ piu Carlo V diventava il Signore effettivo di buona parte del mondo, vedi tutto il mito dell’impero su cui non tramonta mai il sole, piu’ perdeva la sua vocazione di essere sacro romano imperatore, cioe’ qualcosa di piu’ specifico di piu’ legato alla Germania e all’Italia ; e chi e’ il grande collaboratore piu’ perplesso di fronte a questa grande ecumenizzazione dell’impero di Carlo : Mercurino Arborio di Gattinara . Per inciso sul palazzo , poco lontano da qui , Stampa di Soncino, poi Casati –Stampa di Soncino ci sono due colonne con il motto di Carlo V “ Plus Ultra “ . Cioe’ il vecchio motto delle colonne di Ercole “ Non plus ultra “, limite invalicabile, Carlo V lo adoperava al contrario : Plus Ultra .

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Il limite che io posso valicare eccome , perche’ padrone di mezza Europa ma anche padrone di mezza America : il re , l’imperatore , ma anche re dei paesi bassi re di Spagna , re di Napoli , duca di Milano signore dell’America latina e quant’altro . Ma dicevamo che c’era una linea di pensiero contraria e chi sono gli esponenti di questa linea ? Sono i Gallarati, sono gli Scaccabarozzi, sono i Morone sono i Medici di Marignano, quelli che daranno Pio V e Medeghino, poi ci sono i Borromeo e gli Sfondrati quel nucleo di grandi famiglie milanesi che hanno in mente un tipo di politica , cioe’ una politica che e’ anche disposta a buttare a mare gli Sforza , che e’ anche disposta all’impero di Carlo V , purche’ quell’impero abbia in Milano il proprio baricentro.

Questa aristocrazia e’ l’antico partito ghibellino la fazione filo sforzesca. E’ quel partito che a fine 1400 ha un leader eccezionale nella figura del cardinale Ascanio Maria Sforza il fratello di Lodovico il moro , la testa pensante della politica sforzesca. Quel partito che in questi anni ha il suo baricentro in una grande figura, la figura di Gerolamo Morone . Morone e’ il cancelliere , il primo ministro di Francesco II Sforza che ad un certo punto ordisce una congiura la congiura della lega di Cognac appunto , viene arrestato . L’accusa e’ di alto tradimento e come primo ministro la pena e’ il patibolo . Chi lo salva ? Mercurino Arborio di Gattinara , interviene col suo peso e non solo salva Gerolamo Morone , ma addirittura lo reintegra nella carica. Clamoroso , il piu’ clamoroso affare politico del 1500. Questo partito , quando nel 1535 muore Francesco II accetta piu’ che volentieri la devoluzione all’impero , ma si arrabbiera’ molto invece per il successivo passaggio alla Spagna.

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In realta’ c’e’ la volonta si di essere sudditi degli Asburgo, ma degli Asburgo austriaci , non spagnoli. Purtroppo le cose vanno in modo diverso e questo partito che ha delle capacita’ di metamorfosi terrificanti diventa il partito spagnolo ma estremamente consapevole della propria eredita’ . Ed allora siamo nella meta’ del 1600 ecco la grande figura di Giulio II Arese,presidente del senato di Milano, che organizza la consorteria di Arese , questa consorteria questo partito politico che viene a trovarsi di fronte ad una prova durissima che e’ la peste ed io credo di aver dimostrato che la famosa vicenda degli untori di Milano della colonna infame non lontana da via del Bollo, della vicenda terribile degli accusati torturati ed uccisi come colpevoli di diffondere la peste per unzione, il Manzoni ce ne parla ampiamente nei promessi sposi, altro non sia che un durissimo gioco che contrappone gli Arese e i Monti ai Trivulzio. Uno scontro violentissimo in cui i Trivulzio soccombono e dopo nel 1600 il grande partito con Bartolemeo III Arese di Castel Lambro e’ il massimo esponente di questa fazione che domina Milano. Bartolomeo Arese e’il padrone di Milano, il dio di Milano come diceva con enfasi FilippoIV di spagna e questo partito poi diventera’ nel 1700 il partito filo-austriaco, e’il partito degli Arese, dei Clerici,degli Archinto , il partito delle grandi famiglie di Milano . Siamo quindi di fronte ad una testimonianza impressionante di lotta politica , siamo di fronte ad un preciso momento che viene ricordato attraverso questo ciclo di affreschi. Ovviamente quando passano gli anni l’immediatezza si perde, non si vive il quotidiano con tutti i suoi protagonisti soprattutto in una realta’ in continua modifica ove interagisce la politica con i suoi instabili equilibri . Pero’ rimane la bellezza di questo ambiente . Alle pareti c’erano i quadri descritti dal Vasari , erano piu’ di 70, c’era anche una collezione archeologica poi spostata nel castello di Cusago di proprieta’ Casati Stampa da Soncino . Era la dimora dello zecchiere: uno spazio pubblico della citta’ fondamentale per la percezione

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statale di Milano . In quei momenti di grande crisi , l’arte viene utilizzata come potentissimo strumento di lotta politica, di tonificante ideologia, di un incontro – scontro di idee che si realizza negli qualita’ di questi affreschi. Milano vive un ulteriore dramma la perdita della funzione di capitale. Nel 1535 alla morte di Francesco II Sforza cessera’ di essere quello che era da millenni, cioe’ una citta’ capitale e da allora diventera’ la sede di un governatore prima spagnolo poi austriaco poi francese poi sabaudo e poi ancora austriaco poi napoleonico e poi ancora austriaco , fino ad arrivare al regno d’Italia . Cessera’ per sempre quella che dal 286 era stata : una grande capitale , con tutte, come dire, le crisi di adattamento che fanno parte di questa funzione ed al tempo stesso con quella forza quella grandezza ideologica e di conseguenza artistica che si esprime attraverso questi formidabili affreschi che qui vengono codificati e rappresentati. Un frammento prezioso non solo come dire “ el noster Milan” in termini un po’ folckloristici ma un frammento prezioso della civilta’ politico figurativa milanese dei primi anni del 1500 . Con l’affermarsi della riforma promossa dal Concilio di Trento , gli affreschi persero il loro scopo. Vennero controsoffittati e dimenticati . La polvere del tempo li ha coperti per 500 anni ; oggi riportati alla luce ed al loro splendore ci raccontano di quel passato burrascoso e delle passioni umane che lo animarono .

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Finche' e' stata un centro importante, per eventi storici o favorevoli congiunture politiche, Milano ha avuto la sua Zecca. Gia' in eta' celtica, ha supposto qualcuno, basandosi sul ritrovamento sotto piazza Fontana, nel 1936, di alcune dracme. Ma rimane una semplice ipotesi. E certo invece che una Zecca opero' a Mediolanum in eta' romana imperiale, nel terzo secolo. I barbari premevano ai confini, la citta' aveva assunto importanza strategica e l' attivita' di una Zecca locale era suggerita dalla necessita' di provvedere alle spese di guerra e di assicurare il "soldo" ai legionari. Milano comincio' a coniare monete probabilmente al tempo dell' imperatore Gallieno (253.268 d.C.) e prosegui' a lavorare per secoli fatta eccezione per temporanei periodi di sosta, quando l' officina fu trasferita dall’ l'imperatore Aureliano, nel 270 - 275 d.c per sicurezza a Pavia.

L'antica Milano romana (Mediolanum) con il tracciato delle mura, al centro del quale si trovava il Forum, antica piazza principale della città di Mediolanum Il foro si estendeva per circa 160 metri in lunghezza e 100 in larghezza, affiancato sui lati lunghi da due ali di portico colonnato e sovrastato probabilmente come nel forum di Brescia, da una lunga balaustra marmorea ornata di statue. Sue tracce archeologiche sono state trovate nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana, oggi aperta al pubblico solo in particolari date e della chiesa di San Sepolcro. Qui è possibile trovare ancora i resti dell'antica pavimentazione di epoca augustea. Il forum si estendeva, inoltre, al di sotto delle attuali vie dell’Ambrosiana, piazza San Sepolcro, via Cardinale Federico, piazza Pio XI e parte di via Moneta. La piazza si trovava esattamente all’incrocio tra il decumano massimo ed il cardo massimo. Su entrambi i lati si aprivano delle tabernae (simili alle nostre botteghe, negozi). Sul lato occidentale del Foro si affacciava probabilmente la Zecca imperiale della città di Mediolanum dell’epoca di Gallieno e poi di Massimiano (rimasta aperta fino ai primi anni del V secolo A Milano, diventata nel frattempo capitale dell'Impero Romano d'Occidente, l'attività riprenderà

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solo nel 353 d.C., con Costanzo II, il quale inizio’ a coniare monete d'oro, sostituendo così l'oro, metallo scelto come base, all'argento della tradizione romana. Il primo a nominarla in modo ufficiale è Ausonio attorno al 380-390, quando riferendosi a Mediolanum dice:

« Mediolani mira omnia, copia rerum, innumerae cultaeque domus, facunda virorum ingenia et mores laeti, tum duplice muro amplificata loci species populique voluptas, circus, et inclusi moles cuneata theatri, templa Palatinaeque arces opulensque moneta et regio Herculei celebris sub honore lavacri; cunctaque marmoreis ornata peristyla signis moeniaque in valli formam circumdata limbo. Omnia quae magnis operum velut aemula formis excellunt nec iuncta premit vicinia Romae. »

« A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose sono le case nobili. La popolazione è di grande capacità, eloquenza ed affabile. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura. Vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle terme Erculee. I cortili colonnati sono adornati di statue di marmo, le mura sono circondate da una cinta di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell'altra, come se fossero tra loro rivali, e non ne diminuisce la loro grandezza neppure la vicinanza a Roma. »

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Nel 402 Onorio trasferì corte e zecca a Ravenna. Facendo un lungo balzo in avanti nel tempo, l'attività monetaria milanese riprese nella seconda metà dell' VIII secolo, con Desiderio f, (756 * 774), che coniò monete d'oro, imitato in seguito da Carlo Magno, che riprese però ben presto a coniare denari d'argento, riprendendo la tradizione romana, abbandonata con la riforma di Costantino. Ma arriviamo alla prima moneta autenticamente nostrana. Fu coniata sul finire dell' eta' comunale, tra il 1250 e il 1310: e' il famoso "ambrosino" d' oro, cosi' chiamato perche' sul rovescio recava l' effigie del patrono. Oggi viene riprodotta a cura del Comune, che l' ha ribattezzata "ambrogino" e la conferisce ai benemeriti: cittadini o foresti. Sulle monete l' immagine di Sant' Ambrogio ha goduto lunga fortuna. E comparsa accanto al biscione visconteo, a Francesco Sforza, a Ludovico il Moro, ai gigli di Francia, a Carlo V. L' ultima apparizione nel 1737, sotto Carlo VI, imperatore e duca di Milano. La Zecca conio' poi quattrini per Maria Teresa e successori, per Napoleone, per i ritornati sovrani austriaci compreso Cecco Beppe e finalmente per Vittorio Emanuele II e Umberto I. Finche' fu soppressa, con decreto reale, nel 1893: da allora il privilegio di fornire monete allo Stato spetta alla Zecca centrale di Roma. A Milano nel 1932 fu abbattuto l' edificio all' angolo tra via Manin e via Moscova, dove la Zecca aveva trovato la sua ultima sede, dopo essersi trasferita dal palazzo di Brera nel 1809. Per quanto riguarda le prime sedi della zecca in Milano non c'è certezza fino all'anno 872.: un documento ritrovato all'Archivio di Stato di Milano, (Mus. Dipl., cartella IV, N. 124) attesta infatti la presenza della Zecca presso il 'forum publicurn, non longe o moneta", (probabilmente si tratta del Forum di epoca romana) che si trovava nell'area attualmente occupata dalla odierna Piazza San Sepolcro, nella quale confluiva la Via Moneta, al termine della quale si trovava, in posizione ad angolo con la piazza, la Chiesa di San Mattia alla Moneta. (vedi la " Pianta prospettica del centro di Milano" di M. A. Barateri del 1629, tratta da: M. Strada, 1930, La Zecca di Milano e le sue monete, Milano.) Dal secolo IX dunque la zecca era sicuramente ,situata nel centro della città, ma non si sono trovati documenti che ne defìniscano né la struttura, né le dimensioni,

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né nulla, per esempio sulla presenza in quel luogo di tutto quello che era necessario alla conio delle monete, cioè la vicinanza di un corso d'acqua, di una fonderia ed altro. Federico I di Svevia nel 1155 tolse a Milano il privilegio di coniare monete fino al 1176, dopo la vittoria di Legnano, quando lo stesso Federico, che aveva così affermato il suo potere su Milano, riaprì la zecca di Via Moneta, che riprese la sua attività, per essere poi demolita in epoca sforzesca: lo Stato di Milano era diventato sempre più potente, la sua economia era in forte espansione, e la vecchia zecca medioevale era ormai insufficiente alle nuove necessità: ne venne costruita dunque una nuova, molto vicina logisticamente a quella precedente. La nuova sede doveva essere di maggiori dimensioni, più moderna e razionale. Nell'opera di Antonio Averlino, detto Il Filarete, "Trattato di Architettura", Ed. Il Profilo (1972), Biblioteca Trivulziana , C 1611, la cui forma letteraria è quella del dialogo e del romanzo, il Filerete immagina "di aver ricevuto incarico da un signore munifico, Francesco I Sforza," (1450 - 1466), di ideare un progetto per la città ideale di "Sforzinda". A proposito della Zecca, a pagina 278 del Libro X del Trattato, il Filarete scrive" ...la metterò in testa della piazza a dirittura di questa proprio... ".

La realizzazione della nuova zecca avvenne poi più tardi, commissionata dal figlio di Francesco, Galeazzo Maria Sforza: una curiosità: nel 1474 venne coniata Ia moneta chiamata "lira". Le

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indicazioni dettate dal Filarete nel suo progetto vennero seguite, e la zecca venne edificata, come detto sopra, pressapoco nello stesso luogo in cui esisteva la precedente, nell'area delimitata, verso Piazza San Sepolcro, dalle odierne via Zecca Vecchia e via Del Bollo. La produzione di monete in quell'epoca fu particolarmente eccezionale, se si pensa che vennero coniate le piu' belle monete per Milano, come per esempio i ducati con i ritratti dei vari appartenenti alla dinastia degli Sforza, quelli con le effigi dei re di Francia, duchi di Milano, Luigi XII e Francesco I, e le monete fatte coniare da Carlo V d'Asburgo con le solenni immagini religiose e classiche suggerite dal momento storica della Controriforma. Prima della demolizione, avvenuta nell'aprile del 1780, venne fatto, da F. Bellati un disegno della facciata della Zecca che dava sulla Contrada del Bollo "all' effetto, - come lui stesso scrisse - di tenerne la memoria". Accompagnava il disegno una breve descrizione: " ... abbozzo della facciata della Zecca vecchia di Milano dalla parte della Contrada del Bollo quale era quando fu demolita, per costruirvi le officine del bollo, e altre botteghe. Le quattro finestre avevano il contorno di mattoni, ossia brevi rilievi di terracotta all'uso antico....Le parole D.C. suppongo che indicar vogliano Domus Ceche...." N.B. Con il termine di origine araba "cecha", si indicava Ia zecca nel periodo sforzesca. Il termine "zecca" ha origine, in italiano, dal vocabolo arabo "sikka", strumento usalo per coniare. Per quanto riguarda le zecche, esistono studi sulle varie zecche italiane e su quelle straniere, ma gli storici e i ricercatori hanno normalmente privilegiato, nel loro studio e nella ricerca, l'aspetto che riguarda il conio delle monete piuttosto che la ricerca sulla loro ubicazione, sull'organizzazione del lavoro, e sugli ambienti con i relativi metodi di produzione. Un elemento comune delle zecche è comunque quello di avere un cortile aperto all'interno, con mura esterne alte e chiuse. All'interno, le finestre delle eventuali botteghe che si affacciavano sul cortile dovevano essere murate. Altre note riguardano la loro localizzazione , (normalmente la Zecca era collocata al centro della città, perché più controllabile e difendibile), la ,struttura dell'edificio, la possibilità di approvvigionamento idrico, la presenza di materiali per il conio delle monete. Attualmente lo studio condotto dal Laboratorio Sperimentale BEST del Politecnico di Milano indica che i locali in via del Bollo 3 a Milano facevano parte di una struttura quattrocentesca che era connessa alle attivita’ della Zecca di Milano ed in particolare, alla residenza del Maestro della Zecca.

Indagine storica ed evidenze materiali dei locali sotterranei in via del Bollo, 3 a Milano

Arch. Andrea Bonavita

Localizzazione

L’immobile presso il quale si trovano gli ambienti oggetto dell’indagine si trova a Milano al civico 3 di via del Bollo. La via del Bollo, anticamente nota come “contrada della Zecca”, ricalca il primo tratto del decumanus che dal Foro si dirigeva verso nord-ovest in direzione di Novara, lungo una direttrice oggi riconoscibile nelle vie Santa Maria Fulcorina e Santa Maria alla Porta1. La strada unisce due punti tra i più caratteristici della città storica: le cosiddette “cinque vie”, snodo fondamentale della trama viaria certamente in epoca altomedioevale (già in un documento della fine del secolo VIII è menzionato il toponimo ad quinque vias) ma forse anche in epoca romana, e la piazza San Sepolcro, da sempre il vero cuore del tessuto urbano milanese.

1 Per le questioni relative al decumanus maximus si vedano M. David, Indagini sulla rete viaria milanese in età romana, in M. L. Gatti Perer (a

cura di), Milano Ritrovata. L’asse via Torino, Milano 1986, 126 e 130 e più recentemente A. Ceresa Mori, Il Foro, Milano 1998, 14-15.

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Quant

o riman

e dell’edificato

storico a sud

della via è costituito da

un articol

ato compl

esso di

corpi di

fabbrica, corti e piccoli cavedi che seguono giaciture ortogonali rispetto alla sede viaria; i setti murari sono cioè allineati con l’ancora riconoscibile sistema insediativo e stradale romano più antico, che in questa porzione di città, assai prossima alla zona del Foro (l’attuale piazza S. Sepolcro) assume un orientamento N-NE/S-SW (circa 40° NE e 220° SW)2. Gli ambienti sotterranei si trovano nella parte più interna dell’isolato. Oltrepassata la cortina sulla via del Bollo esiste una seconda linea di edificato parallela alla prima: i sotterranei si estendono da qui fino ad una terza fascia costruita, separata dalla precedente mediante un cortiletto. Quest’ultima fascia definisce anche il limite superiore di una corte (accessibile dalla non lontana via santa Marta) sulla quale affacciano edifici che in larga parte non sono più orientati secondo la giacitura di via del Bollo, ma di via santa Marta.

2 David 1986, 120.

Proposta di ricostruzione della prima fase di sviluppo dell’età romana (da Milano Ritrovata 1986, 130)

Planimetria ricostruttiva della zona del Foro (da Il Foro 1998, 3)

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Catasto detto “Lombardo Veneto” relativo alla zona tra piazza S. Sepolcro e le “Cinque Vie” (1855 c.ca)

Particolare con evidenziate le linee principali di edificazione e la porzione corrispondente ai sotterranei

L’accesso agli ambienti sotterranei avviene attualmente attraverso una porta in testa al cortile principale da cui si raggiunge, mediante breve scala e stretto passaggio in leggera discesa, la prima di due cantine. Si tratta di due ambienti, a circa 3.50 m sotto il piano stradale, di dimensioni importanti: il primo è caratterizzato dalla presenza di un sistema di volte sostenuto da colonne con capitelli, che si sviluppa sotto il cortiletto e l’edificato più interno all’isolato; il secondo, rettangolare, si sviluppa in corrispondenza della cortina edilizia intermedia. Colpisce immediatamente l’ampiezza dei locali rispetto al calibro degli ambienti e degli spazi fuori terra.

La ricerca storica

Le emergenze che hanno catturato maggiormente l’interesse degli studiosi interessati a questa porzione di isolato a sud di via del Bollo sono principalmente due: le decorazioni ad affresco contenute sulle pareti interne ed esterne dei locali terreni che insistono sulla cantina colonnata; la presenza delle strutture edilizie della Zecca di Milano. Si partirà da queste attenzioni particolari e dallo sguardo più generale che lo studio Milano Ritrovata3 ha prodotto nella seconda metà degli anni Ottanta del Novecento sopra un’ampia parte del tessuto urbano di Milano (compresa la nostra area di riferimento), per arrivare poi ai contributi più recenti.

L’edificio di via del Bollo, 3

Gli studi4 hanno segnalato la presenza di decorazioni tanto nel cortiletto interno, (pitture oggi perdute), quanto nei locali al piano terreno, in parte visibili ancora oggi. Le pareti del cortiletto presentavano, almeno fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, “freschi a disegno architettonico del primo Cinquecento, riproducenti un finto loggiato di colonne toscane sopra un fondo azzurro cielo: fregio di caulicoli e grottesche, rosso su fondo bianco”5.

3 Si veda il riferimento bibliografico a nota 1.

4 Si veda la scheda 37.2 in Milano Ritrovata 1986, 447-452 con bibliografia.

5 P. Mezzanotte, G. C. Bascapè, Milano nell’arte e nella storia, Milano-Roma 1968, 130.

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All’interno dell’intelaiatura venivano anche ricordati “affreschi prospettici: raro esemplare superstite di un genere decorativo tutt’altro che infrequente nel primo rinascimento lombardo”6. Nei locali al piano terreno l’attenzione si è particolarmente concentrata su di un fregio a fresco “composto da due curiosissime scene popolate di gatti ed altri singolari personaggi”7 scoperto dopo aver rimosso un prezioso soffitto ligneo sotto cui correva un’altra fascia decorata a putti e intervallata da stemmi identificati come quelli dei Gallarati e dei Pio da Carpi. Le scene dei gatti venivano datate dei primi del Cinquecento, con ipotesi di retrodatazione8.

I due livelli di decorazione nei locali al pian terreno (da La porta ticinese 1927, fig. 86)

Particolare del fregio con le storie di gatti (da Milano Ritrovata 1986, 88)

A queste considerazioni vanno certamente aggiunte alcune note contenute sempre nello studio Milano Ritrovata, ma riferite al civico 13 di via santa Marta: avendo infatti impostato le descrizioni delle fronti interne degli edifici facendo riferimento ai vuoti dei cortili piuttosto che ai volumi edificati, lo schedatore non era nelle condizioni di riconoscere che “il fabbricato, posto sulla sinistra rispetto all’ingresso”con “tracce di decorazione primo cinquecentesca” fosse l’affaccio meridionale dei locali già decorati dal fregio con i gatti9. Oggi rimane solo una porzione di decorazione, ma nel 1986 si potevano ancora leggere “una serie di riquadrature architettoniche simulate” che suggerivano all’autore della scheda di considerare l’edificio “una delle espressioni tipiche dell’architettura civile nobiliare del primo Cinquecento Lombardo”10. Queste dunque le qualità formali annotate nella letteratura specialistica degli ambienti che insistono sui sotterranei oggetto di studio.

6 R. Bagnoli, Le strade di Milano: storia della città attraverso la sua toponomastica: attualità e monumenti, Milano 1969, I, 161.

7 Milano Ritrovata 1986, 448.

8 Milano Ritrovata 1986, 452: “Se la pista che riconduce alla tradizione di Michelino da Besozzo si rivelasse fondata, gli affreschi di via del

Bollo, generalmente datati ai primi del Cinquecento, potrebbero anche essere anticipati”. Il fregio non è più conservato in situ.

9 Scheda 39.2 in Milano Ritrovata 1986, 455-457.

10 Milano Ritrovata 1986, 457.

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Stato attuale del fronte verso il cortile di via S. Marta

La Zecca

Non sono molte le notizie sulla Zecca, che occupò questa porzione di città dal XV al XVIII secolo11. La storiografia ne attribuisce la realizzazione a Galeazzo Maria Sforza, le cui insegne campeggiavano su di un tratto dell’affaccio verso via del Bollo, e un successivo perfezionamento a Ludovico il Moro. Nel 1779, dopo che Maria Teresa d’Austria ne aveva decretato il trasferimento, gli edifici della Zecca furono venduti; una minima parte venne ristrutturata per ospitare le officine del Bollo e alcune botteghe (da qui l’origine del nome della attuale via). Per Luciano Patetta doveva trattarsi “di un edificio molto modesto”12. Maggiormente citate dalla letteratura specialistica sono le cosiddette Case della Zecca, presso le quali soggiornava anche il cosiddetto magister cecche o maestro della zecca. Le case sono particolarmente note perché ospitavano un celebre nucleo di dipinti ammirato e descritto nel 1566 da Giorgio Vasari che, durante il suo viaggio di aggiornamento nel settentrione d’Italia, era riuscito a vederli probabilmente grazie all’interessamento dello scultore Leone Leoni, medagliere in quegli stessi anni presso la Zecca13. Un recente contributo di Rossana Sacchi14 che tratta anche delle questioni relative alla committenza di questi quadri, segnala alcuni dati di estremo interesse che si possono così riassumere: la studiosa individua il ruolo rivestito da Bernardo Scaccabarozzi in qualità di maestro della Zecca per gli anni dal 1530 circa al 1561; ne riconosce lo stemma accanto a quello dei Gallarati nelle stanze decorate con le scende di gatti, laddove invece gli autori precedenti avevano parlato dei Pio da Carpi; identifica quindi i locali come parte delle “case della Zecca” abitate dallo Scaccabarozzi: “La sala conferma quindi che Bernardo Scaccabarozzi e la moglie Maddalena Gallarati abitarono qui, nelle «case della zecca» che Vasari potè visitare nel 1566 […]. Vasari seguì la consuetudine milanese di denominare «case della zecca» la dimora del magister: lo conferma un documento dal quale risulta che il successore di Bernardo nella carica […] risiedeva «in domibus Ceche, in sala superiori»”15. Dagli studi della Sacchi possiamo quindi ritenere che anche gli ambienti sotterranei sui quali insiste la dimora Scaccabarozzi facevano parte delle Case della Zecca, a loro volta porzione occidentale di un complesso residenziale-produttivo tutt’altro che modesto, esteso da questi

11 Scheda 36.3 in Milano Ritrovata 1986, 446-447.

12 L. Patetta, L’Architettura del Quattrocento a Milano, Milano 1987, 374.

13 L’attività del Leoni come fonditore di statue si svolgeva invece presso la sua abitazione. Vedi P. B. Conti, Vita milanese di Leone Leoni da

documenti inediti, in M. L. Gatti Perer (a cura di), Leone Leoni tra Lombardia e Spagna, Atti del Convegno Internazionale (Menaggio, 25-26

settembre 1993), Milano 1995, 40.

14 R. Sacchi, Il Disegno incompiuto. La politica artistica di Francesco II Sforza e di Massimiliano Stampa, Milano 2005, I, pp. 82-93

15 Sacchi 2005, I, 90.

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ambienti fino ai locali prospicienti via Zecca Vecchia.

Confronto tra il Catasto “Lombardo Veneto” e il rilievo della Zecca vecchia in vista della sua alienazione. In verde i locali destinati all’Ufficio del Bollo e corrispondenti esattamente al mappale 3109 (il rilievo è segnalato in Sacchi 2005, 92-93). Quando dunque nel 1779 si procedette all’alienazione dei locali della Zecca, ci si occupò solamente della metà circa delle strutture che originariamente componevano l’intero complesso, poiché una porzione consistente dei locali, probabilmente i meno interessati dalle strutture di produzione e quindi meno “specializzati”, era già stata venduta. Risulta pertanto importante, prima di seguire le vicende dell’alienazione della porzione di via del Bollo, cercare di verificare da quale epoca esistessero le Case della Zecca. Rossana Sacchi specifica che “per lunga tradizione i maestri della zecca milanese abitarono negli edifici adiacenti ai laboratori; l’uso era ancora parzialmente attestato da Serviliano Latuada nel 1738, quando registrò che «vi è l’officina per il Maestro delle Stampe, che le appronta in questo luogo, come ancora altre stanze per il soggiorno dell’Impresajo se gli piacesse di dimorarvi»”16. In Archivio di Stato si conservano alcuni “capitoli” sulla base dei quali veniva appaltato al Maestro della Zecca la conduzione della produzione di monete17: di particolare interesse risultano quelli stabiliti il 12 aprile 1466, cioè i “Capituli quali sempre sono conceduti ali magistri pasati dela zecha de Milano a fare fabricare monete ducale”: al punto 21 si legge: “item che lo dicto magistro e compagni non sieno obligati apagamento alcuno dela pensione dela caxa dela zecha dove se farà fabricare le monete e oro”. Ciò induce a considerare che fin dal tempo della creazione delle nuove strutture della Zecca da parte di Galeazzo Maria Sforza si prevedesse di realizzare, “dove se farà fabricare le monete”, una “caxa dela zecha”, concessa in affitto gratuito al maestro come da antica consuetudine. Altri capitolati relativi al Cinque, Sei e Settecento, riportano la medesima prescrizione richiesta al magister18. 16 Sacchi 2005, I, 88-89

17 Archivio di Stato di Milano (d’ora in poi ASMi), Finanza p.a. 833. Anche la nota successiva, ove non meglio specificato fa riferimento a

questa cartella d’archivio.

18 1549 settembre 4, Capitoli dell’impresa della zecca (deliberata poi a Bernardo Scaccabarozzi): “3 Item che esso magistro di Cecca possa

per il tempo del suo offitio usare della casa di essa Cecca quale è della camera senza alcuno pagamento de fitto et il simile delli utensilij

necessarij…”.

Capitoli tra la Regia Camera et il mastro di zecca di Milano per gli anni 1634, 1635, 1636, 1637, 1638: “8 Che il Mastro di Zecca per il

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Sulla destinazione d’uso dei sotterranei potrebbe ancora una volta costituire un indizio di ricerca il prosieguo della descrizione della Zecca contenuta nel testo del Latuada: “Vi hanno […] le prigioni, o sia tesoreria, nelle quali le regie guardie custodiscono il nuovo danaro, finchè venga loro trasmesso l’ordine di rilasciarlo”19. L’alienazione delle Case della Zecca (porzione di via del Bollo, 3) E’ realistico ipotizzare che la vendita degli immobili di via del Bollo sia avvenuta tra il 1738 e il 1757, anno in cui viene compilata la Rubrica dei Possessori del Catasto cosiddetto “Teresiano”, che registra al n° 24 subalterno 2:

24.2: Luogo Pio di Santa Corona. Porzione di casa d’affitto in faccia alla porta. A quali uniti coerenza a Levante contrada detta della Zecca, a Mezzogiorno in parte Reggia Zecca e per pocca parte P.P. Gerolimini di Sant’ Damiano alla Scala, a Ponente in parte li P.P. sudetti ed in parte Conte Papis, ed a Tramontana in parte [f. 64] Carlo De Carolis, ed in parte Dottore Filippo Carcano.20

E’ una conferma dell’indicazione che Paolo Mezzanotte aveva fornito quando, nel parlare dei fregi dei gatti, riportava: “La casa fu, secondo il Malvezzi, dei fondatori dell’O.P. di S. Corona: nel secolo scorso fu dei Villa-Pernice, che donarono all’Accademia di Brera un dipinto di scuola leonardesca, una ‘Madonna col bambino’, ch’era nel cortile”. I registri catastali conservano la memoria di almeno 8 passaggi di proprietà che interessano in particolar modo le vicende dell’immobile dal possesso del Luogo Pio fino alla proprietà Pernice prima e Villa-Pernice poi (1865).

tempo del suo officio, o impresa possa usare della casa di detta Zecca, qual è della Camera, senza alcun pagamento di fitto, et

occorrendo, che fosse necessario durante la presente locazione, fare qualche raparationi, ò altre cose necessarie in detta casa, si habbia à

fare à spese della camera delli danari gli saranno dovute delle scarsisie, dandone però aviso al prefato illustre magistrato, et caso

succedesse qualche danno, per non haver’ il Mastro di Zecca avisato in tempo, sia tenuto del proprio; 16 Che il Mastro di Zecca sia

obligato pagare al precessore Mastro di Zecca, o ad altri, a chi per l’illust. Magistrato sarà ordinato, il prezzo delli proprij utensilij d’essa

Zecca, quali saranno estimati per duoi amici communi, et di più pagare scudi cento per lui pagati in virtù dell’ordinatione fatta a favore

del q. Bernardo Scacabarozzo sotto li 16 novembre 1532, o l’anno et giorno in essa contenuti, et quali danari, sì per rispetto delli utensilij,

come ancora per li danari pagati per causa della sodetta ordinatione, il prefato Mastro di Zecca haverà da essere rimborsato dal

successore in detta Zecca, conforme alla lista, qual sarà presso il notaro della Camera…”.

Archivio Storico Civico di Milano (d’ora in poi ASCMi), Materie, 946: Capitoli tra la Regia Camera ed il regio zecchiere di Milano per il

periodo dal 19 gennaio 1728 al 19 gennaio 1736: “11 che il Regio Zecchiere per il tempo del suo officio, o impresa possa usare della Casa

di detta Zecca, quale è della Camera senz’alcun pagamento di fitto, et occorrendo, che fosse necessario durante la presente locazione far

qualche reparazioni, o altre cose necessarie in detta casa s’abbi a fare a spese della Camera, dandone però prima l’avviso al prefato

illustrissimo magistrato…”

19 S. Latuada, Descrizione di Milano, IV, Milano 1738, 128.

20 ASMi, U.T.E. Registri catastali 2639, ff. 59-60.

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Particolare del Catasto cosiddetto “Teresiano” (1751)

Ci è per ora nota la documentazione relativa al primo passaggio di proprietà dal Luogo Pio di Santa Corona al privato cittadino Gerolamo Perego: poiché l’archivio del Luogo Pio è conservato presso l’Archivio di Stato, è stato possibile recuperare i riferimenti al rogito attraverso il quale avvenne la compravendita. L’atto notarile21 contiene un’interessante descrizione dell’immobile compilata dall’ingegnere Collegiato Francesco Ferrari il 30 dicembre 1779 al fine di quantificare il valore del bene: la descrizione comprende anche gli ambienti sotteranei in oggetto, identificati inequivocabilmente come tali grazie ad alcuni passaggi del testo: “…per mezzo d’una pusterletta si passa ad altro cortile privato tutto selciato di vivo con pozzo in angolo […] a ponente del cortile suolato di vivo vi è sala e studietto […]. Sotto al cortile suolato di vivo, sala e studietto, evvi cantina grande, le volte della quale sono sostenute da duplicato ordine di colonne, ed in questa cantina vi è uscio chiuso con ante, che comunica ad altri sotterranei del signor Gatti; finalmente, sotto a detta cucina grande, altra cantina”. Come verrà successivamente evidenziato, questa descrizione fornisce alcuni importanti elementi per la datazione delle strutture edilizie sotterranee. La possibilità di consultare in un prossimo futuro i faldoni delle cosiddette “Petizioni di trasporto d’Estimo” o “Volture”, attualmente non accessibili per riordino del materiale conservato presso l’Archivio di Stato, dovrebbe potenzialmente permettere di recuperare ulteriori documenti relativi alla consistenza e all’articolazione della proprietà di via del Bollo 3 e delle vicine particelle che costituivano le antiche Case della Zecca.

Analisi del costruito

La datazione delle strutture e la mensiocronologia

La datazione delle parti di un manufatto ha la finalità di mettere in sequenza le fasi costruttive studiando il rapporto di relazione (anteriore/posteriore/contemporaneo) tra varie parti di cui si compone l’oggetto dello studio. Dopo aver ricostruito un quadro cronologico necessariamente relativo, poiché si basa unicamente sull’osservazione diretta delle successioni costruttive tra le

21 ASMi, Notarile, 47806, rogito del 22 settembre 1780.

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parti, è possibile inserire riferimenti temporali definiti (sia date precise che intervalli più o meno ampi come “post 1780 – ante 1870”) incrociando i dati provenienti da fonti scritte e utilizzando strumenti di datazione assoluta. La mensiocronologia dei laterizi è un metodo di datazione assoluto e non distruttivo: permette di ottenere una data precisa (ad esempio 1570), alla quale verrà aggiunto un certo margine d’errore (± 30 anni), attraverso il confronto tra l’elaborazione statistica delle dimensioni lineari (o una loro combinazione) dei mattoni e una curva di variazioni cronologiche di elementi sicuramente datati. Essa si basa sulla constatazione che le dimensioni dei mattoni cambiano nel tempo all’interno di una certa area geografico-culturale, e che possono quindi essere assunte come fattore datante. Il metodo, nato in ambito genovese, ha avuto interessanti applicazioni in altre parti d’Italia: una decina di anni fa alcuni studi hanno messo a punto una prima curva di riferimento mensiocronologica relativa all’area milanese alla quale ci si è appoggiati22.

Cantina rettangolare; a sinistra il passaggio all’altro ambiente

Rapporti stratigrafici e datazioni delle strutture dei sotterranei

Le prime considerazioni riguardano la sequenza costruttiva tra la cantina rettangolare e quella colonnata: la prima è cronologicamente anteriore alla seconda. Ciò risulta particolarmente evidente analizzando le relazioni esistenti tra le superfici voltate e le murature in corrispondenza del passaggio tra le due: in particolare esiste una soluzione di continuità verticale tra lo spicchio di crociera nella cantina colonnata prossimo al passaggio e le spalle di muratura in corrispondenza del sopraluce. Mentre la volta a botte della cantina rettangolare è in fase con il muro che la sostiene e che divide i due ambienti, il sistema di volte a crociera dell’altra si appoggia a tale muro, non potendo essere altrimenti.

22 I testi di riferimento sono L. Casolo Ginelli, Indagini mensiocronologiche in area milanese, in “Archeologia dell’Architettura”, III, 1998, 53-

60 e la tesi di laurea di Pablo Binda, Mensiocronologia dei laterizi. Un metodo di datazione assoluta in ambito milanese (sec. XII-XVIII), rel.

Giuseppe Cruciani Fabozzi, corel. Stefano Della Torre, A. A. 1997/98.

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In evidenza la soluzione di continuità Meno evidente, ma più significativa, risulta la traccia dell’intonaco che riveste parte delle le spalle del sopraluce (lo stesso della volta della cantina rettangolare): l’intonaco risvolta verso l’altro ambiente rimanendo nascosto dalle nuove strutture murarie che ad esso si addossano e che necessariamente sono da considerarsi successive.

L’intonaco nella cantina rettangolare Il voltino va ad addossarsi ad una superficie intonacata:

l’intonaco è cronologicamente anteriore alle strutture che

lo nascondono

Il rilievo evidenzia infine (vedi tavole allegate) come le murature che delineano i confini a sud-est nelle cantine sembrano non essere allineate, in accordo al fatto che il setto murario che divide i due ambienti sotterranei marca una linea che distingue due fasi costruttive cronologicamente distinte. Il piccolo ambiente ricavato nella cantina colonnata accanto al passaggio racchiude un tratto piuttosto ampio di paramento di tale setto: i risultati della mensiocronologia dei laterizi,

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effettuata sugli spessori degli elementi hanno dato come indicazione cronologica 1460 (± 30 anni; vedi mensio 2) La cantina rettangolare corrisponde alla “altra cantina” sotto la “cucina grande” menzionata nella descrizione del 1779.

La cantina colonnata

E’ l’ambiente sul quale si è concentrata maggiormente l’attenzione per via della maggiore complessità delle strutture. Il sotterraneo prende luce da tre bocche di lupo che affacciano nel cortiletto di via santa Marta ed è stato parzialmente riconfigurato da una serie di setti murari che hanno finito per nascondere quasi completamente il muro divisorio tra le due cantine, inglobando anche una della quattro colonne. Accanto all’ingresso si conservano le strutture di un pozzo utilizzabile sia dalla cantina che dal cortiletto superiore.

La cantina colonnata vista dalla porta di comunicazione con l’altro sotterraneo

La recente controparete nella cantina colonnata, accanto alla quale si intravede la struttura cilindrica del pozzo.

Le colonne sono costituite da fusti monolitici di granito; non sono dotate di base e sorreggono quattro capitelli scudati a foglia liscia (o a semplice foglia): gli scudi sono rivolti verso l’asse longitudinale dell’ambiente sotterraneo, in modo da sottolineare il percorso di accesso all’altra cantina. Esse reggono un articolato sistema di volte che in corrispondenza del cortiletto al piano

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terreno assumono la configurazione di volte a crociera con apparecchiatura dei laterizi di testa disposti a spina pesce. In corrispondenza dei locali affrescati al piano terreno, la volta è invece a botte, ribassata e unghiata, con due differenti sistemi di apparecchiatura dei laterizi: elementi disposti di testa dall’imposta fino alle creste delle unghie, a filari longitudinali oltre tale quota.

Le mensiocronologie effettuate sulle murature di una delle bocche di lupo (la prima da sinistra) della parete sud ovest e sopra l’apertura tamponata della parete sud est confermano entrambe una datazione attorno al 1460 (± 30 anni; vedi mensio 3).

Capitello nord Capitello ovest

Capitello sud Capitello est

Aspetti cronotipologici dei capitelli

Capitelli di tale fattura sono assai diffusi a Milano e nel Ducato, spesso associati a pilastri ottagonali. Luisa Giordano inquadra questa tipologia nel cosiddetto capitello gotico a foglie lisce, che “non scompare con l’avvento della civiltà rinascimentale”23 e la riferisce, nella sua forma “standard” e semplificata alla seconda metà del Quattrocento: “E’ contraddistinta da foglie poco elaborate, a profilo continuo, talora nervate ed aventi apice bulbiforme. Consta di due giri di foglie: quelle angolari sino all’estremità superiore dell’orlo del calato e reggono l’abaco; le foglie disposte lungo gli assi ortogonali del capitello si alzano sino ad un terzo od alla metà della campana. Le foglie minori scompaiono talora per la sovrapposizione di stemmi e targhe. […] Il tipo viene impiegato come capitello di colonna, di pilastro, e come capitello pensile. La forma molto semplice garantisce la facile esecuzione e il largo impiego del tipo. La sua

23 L. Giordano, Tipologie dei capitelli dell’età sforzesca: prima ricognizione, in La scultura decorativa del primo Rinascimento. Atti del primo

convegno internazionale di studi : Pavia 16-18 settembre 1980, Roma 1983, 183-184.

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diffusione è infatti capillare su tutta l’area del Ducato milanese. Viene realizzato di norma in granitone o sarizzo […]”24. I diversi diametri delle colonne, lo scarto esistente tra i fusti delle colonne e le basi dei capitelli, la variazione dimensionale nelle altezze, le sottili differenze tra la fattura dei quattro capitelli (lunghezza delle foglie laterali, profilo più o meno accentuato dell’apice bulbiforme, ecc.) depongono a favore dell’ipotesi che tanto le colonne quanto i capitelli siano elementi di reimpiego.

Tamponamenti e tramezzi della cantina colonnata

24 Tanto per rimanere nelle zone oggetto delle ricerche a vasta scala si può ricordare come in Vicolo Santa Maria Valle, 1 – forse si tratta

dell’ex Monastero di S. Marcella – Patrizia Barbara segnala “capitelli quattrocenteschi scudati a semplice foglia. Sulle targhe dei

medesimi compare l’emblema della croce su disco siglato”: cfr.: M. L. Gatti Perer (a cura di), Milano Ritrovata. L’asse via Torino, Milano

1986, 337, 338). In Corso di Porta Ticinese, 18 esistono volte a crociera sostenute da “colonne ottagonali con capitelli scudati e fogliati

della prima metà del sec. XV”: vedi M. L. Gatti Perer (a cura di), Milano ritrovata: la via sacra da San Lorenzo al Duomo. Parte seconda,

Milano 1991, 165-166 (la scheda, compilata da Andrea Spiriti, rimanda per questa citazione a La porta ticinese, 1927, 47). In via Gian

Giacomo Mora, 18 esiste un analogo capitello murato “di chiara fattura quattrocentesca” per il quale vale sempre Gatti Perer 1991, 257

(scheda di Andrea Spiriti). Infine nel cortile di via C. Correnti, 5 è conservato un capitello scudato a foglie lisce (Gatti Perer 1991, 245).

Anche Luciano Patetta ricorda (L. Patetta, L’architettura del Quattrocento a Milano, Milano 1987) numerose abitazioni nelle quali si

ritrovano capitelli scudati a foglia liscia: case in via Disciplini già in contrada di S. Pietro Martire (pp. 418-419, “capitelli scudati della

prima metà del secolo”), Via Torchio, 5 già in contrada di S. Bernardino (p. 419, “edificio del primo ‘400”). Dei già ricordati capitelli di

vicolo Santa Maria Valle egli dice (p. 418): “capitelli scudati, grezzi nella fattura: datazione evidente il primo ‘400”; così come per Porta

Ticinese 18 il cortiletto è considerato di primo quattrocento.

I capitelli del chiostro della Farmacia dell’Ospedale a Lodi, datati all’ottavo decennio del Quattrocento, possono essere un esempio di

impiego di tali elementi in cantieri del Ducato: vedasi S. Pesenti, L’ospedale maggiore di Lodi, in L. Franchini (a cura di), Ospedali

lombardi del Quattrocento, Como 1995, 179, 187, 188 (nel settimo decennio del Quattrocento l’ospedale è ancora in corso di

completamento; Defendente da Lodi fa risalire al 1473 l’appalto per le colonne del cortile).

L’apertura tamponata nella cantina colonnata

Particolare del tamponamento La muratura raccordata alla Particolare del profilo della

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La stima del 1779 fornisce un elemento di datazione importante quando ricorda che “in questa cantina vi è uscio chiuso con ante, che comunica ad altri sotterranei del signor Gatti”. Ciò permette di considerare il tamponamento dell’apertura di cui si scorgono alcuni tratti del profilo in cotto sulla muratura est, posteriore al 177925. Come anche evidenziato dalle riprese termografiche, il tamponamento è realizzato impiegando corsi alternati più o meno regolarmente di mattoni di spessore dell’ordine di 4 e 6 cm legati tra loro da una malta di calce.

Un analogo tipo di paramento si riscontra tanto nel tamponamento della apertura nell’angolo dell’altra cantina (un vano a muro?)26, quanto soprattutto, sempre nel locale colonnato, nella muratura del piccolo ambiente trapezio raccordata alle volte da un profilo inclinato. Tale muratura ha spessore di due teste e nella parte sommitale presenta, dietro il tratto inclinato, un paramento che prosegue verticale conferendole una forma vagamente Y asimmetrica27: escludendo una sua funzione legata ad un elemento di collegamento verticale non più esistente, potrebbe essere più probabile una funzione statica (la volta sembra molto rimaneggiata) oppure ricollegarsi alla realizzazione di qualche impianto tecnologico. A questa muratura ortogonale (e ad un suo probabile risvolto a L in aderenza con la muratura sud est) se ne appoggiano altre: quella che va a costituire il fronte inclinato verso la cantina (muratura a due teste, spessore cm 27-28 circa, con giunti di malta di calce) e che prosegue con tratti verticali fino a raggiungere il profilo della volta soprastante) e quella più recente ancora, che ridefinisce lo spazio interno del localino, costituita da mattoni disposti per fascia con malta che sembra presentare nel legante un certo tenore di cemento. Questi elementi possono essere datati post 1780- XX secolo.

25 Non si può evitare di evidenziare una certa ricercatezza nella realizzazione delle aperture di collegamento tra ambienti sotterranei:

sia per quella in uso che per i passaggi tamponati, gli stipiti sono realizzati con elementi laterizi sagomati per ottenere la battuta degli

elementi di chiusura. Spesso sono presenti ancora gli alloggi per i cardini. Lo spessore degli stipiti è realizzato anche con laterizi di

dimensioni importanti (si sono registrati elementi anche di 42.1 x 15,2 x 7,2 cm). Nei passaggi tamponati il filo della sagomatura

prosegue oltre l’apertura determinando, assieme all’architrave, un profilo rettangolare che inquadra l’apertura vera e propria ottenuta

con un arco ribassato; l’apertura di collegamento tra le due cantine presenta la variante di una architrave in pietra e un sopraluce i cui

stipiti denunciano la presenza di ulteriori strutture metalliche di chiusura. 26 Nella cantina A è stata eseguita una analisi mensiocronologica anche sui mattoni che chiudono la comunicazione con il locale attiguo

(sempre un vano rettangolare voltato a botte) parzialmente visibile da una breccia nel tamponamento. I risultati della mensiocronologia

(vedi mensio 4 a pagina), pur con il margine di incertezza più ampio, indicano che la chiusura è certamente posteriore al XV secolo e

anteriore al XVIII.

27 La parte sommitale è realizzata in mattoni di spessore estremamente ridotto, segno di un’ulteriore fase, certamente successiva a quella

post 1779.

volta con un breve tratto inclinato

muratura

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Le strutture murarie che occludono un’intera campata della cantina inglobando una colonna del sotterraneo sarebbero invece da riferire a fine XIX - inizi del XX secolo. Sono muri di spessore e compattezza notevole (oltre 50 cm), realizzati con laterizi di produzione industriale o semi-industriale (come evidenziato anche dall’analisi mensiocronologica; vedi mensio 5), legati tra loro con una malta idraulica cementizia. Le strutture servono a definire un volume parzialmente occluso da detriti e terra visibile in parte da un tombino posto nel cortiletto superiore: la presenza di percolamenti e infiltrazioni indica che il volume è stato realizzato con funzione di cisterna sotterranea verso cui convogliare parte degli scarichi delle abitazioni. Ciò avveniva principalmente mediante un collettore di dimensioni importanti che attraversava la cantina colonnata parallelamente al muro divisorio tra le due cantine, di cui resta traccia nella muratura cementizia28.

Ipotesi di ricostruzione cronologica complessiva

Le osservazioni sinora compiute portano a considerare la seguente linea cronologica di trasformazione delle strutture. L’edificazione dei sotterranei avviene nella seconda metà del XV secolo, partendo inizialmente dalla cantina rettangolare per poi proseguire con la cantina colonnata. Le due fasi costruttive potrebbero anche essere distanziate l’una dall’altra di un certo lasso temporale: non si spiegherebbe altrimenti la stesura di un intonaco di finitura non tanto sulla volta della prima cantina, quanto soprattutto sulle superfici di risvolto verso l’altra, su cui sono andate successivamente ad appoggiarsi le volte dell’ambiente colonnato. Indizi di due momenti costruttivi distinti (al di là di considerazioni legate al diverso fronte di affaccio delle aperture) potrebbero essere anche dati dal differente profilo delle spalle con cui sono state realizzate le bocche di lupo

28 L’ispezione è stata effettuata con una videosonda introdotta dal tombino nella cisterna: si è potuto accertare come le pareti del vano

siano intonacate con malta cementizia anche all’interno e come la volta soprastante sia apparecchiata in maniera del tutto analoga alle

crociere visibili nella cantina colonnata.

La campata della cantina completamente murata; in evidenza il profilo del collettore non più in sito

Il collettore intercettava il condotto verticale e proseguiva poi in corrispondenza dello scasso sopra l’apertura voltata, fino ad innestarsi nella muratura dell’immagine accanto

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della cantina colonnata, leggermente arretrato rispetto al filo del muro, rispetto a quello nella cantina rettangolare, perfettamente complanare. Questo schema tenderebbe a confermare quanto evidenziato dalle fonti sei-settecentesche, ossia un perfezionamento delle strutture della Zecca sempre in periodo sforzesco, dopo l’impulso iniziale dato all’impresa da Galeazzo Maria. Il medesimo modo di trattare la profilatura dei passaggi tra i vari ambienti dei sotterranei non sembra tuttavia evidenziare uno scarto temporale così ampio tra la parte più antica rispetto all’altra, così come indicherebbe anche la forte relazione instaurata tra l’asse del percorso evidenziato dall’orientamento dei capitelli scudati nella cantina colonnata e l’accesso al sotterraneo più antico. La presenza del pozzo che giungeva nel cortiletto e di un condotto tra piano terreno e sotterraneo nella parete sud est della cantina colonnata29, la perfetta corrispondenza tra le colonne nord ed est e la muratura delle strutture fuori terra, nonché le indicazioni che si possono trarre sulla tessitura muraria al piano terreno verso la corte di via Santa Marta visibile in alcune fotografie degli anni Ottanta del Novecento, inducono a ritenere che anche le strutture in elevazione di questa terza linea di edificato possano considerarsi coeve con il sotterraneo. Si potrebbe pertanto ipotizzare una datazione alla fine Quattrocento delle murature, seguita da una decorazione di primo Cinquecento delle facciate e una contemporanea decorazione interna (il fregio con i gatti), lasso temporale che coincide con gli anni dal 1488 al 1528 in cui Luigi Scaccabarozzi, padre di Bernardo, rivestì il ruolo di Maestro della Zecca30. Infine seguirebbe una ridefinizione di alcuni ambienti interni, probabilmente in occasione della nozze tra Bernardo e Maddalena Gallarati, che comportò l’occultamento del fregio dei gatti, la realizzazione del prezioso soffitto ligneo (poi venduto) e del sottostante fregio che celebrava l’unione delle due casate; il tutto da riferire cronologicamente ad un periodo post 1550 (La Sacchi definisce le pitture “del maturo Cinquecento”) e ante 1562, anno di morte dello Scaccabarozzi. Ad una fase compresa tra il XVI e il XVII sarebbe da ascrivere l’occlusione del passaggio nella cantina rettangolare con quella della proprietà adiacente, segno di un differente utilizzo dei locali. Fino al 1780 l’ambiente colonnato è da considerarsi libero da ulteriori strutture murarie: non potrebbe in altro modo accordarsi la descrizione dello stimatore che rileva nella “cantina grande” un “duplicato ordine di colonne”. Dopo tale data seguono il definitivo tamponamento del passaggio tra la cantina colonnata e quella della proprietà adiacente (la citata cantina del signor Gatti) e, in più fasi, la realizzazione del localino ricavato a destra del passaggio. Infine nel XX secolo seguirebbe l’occlusione della campata per realizzare la cisterna, il posizionamento del collettore (successivamente rimosso), alcuni rabberci della pavimentazione e una intonacatura sommaria delle porzioni inferiori delle pareti delle cantine31.

Brevi osservazioni finali su intonaci e malte

Nonostante i problemi di adesione che anche l’analisi termografica evidenzia, è doveroso segnalare come l’intonaco della volta nella cantina rettangolare possa ritenersi della fine del XV secolo (si vedano le considerazioni sui rapporti stratigrafici tra le due cantine). Esso si presenta di colore grigiastro, steso in due strati, con una capacità di adesione al supporto crescente dalla volta, all’imposta, al muro.

Anche la cantina colonnata mantiene gran parte dell’intonaco delle volte, non tanto laddove vi 29 Il condotto, ispezionato con endoscopio, è parzialmente occluso nella parte basamentale da uno o più elementi lignei che è

ragionevole immaginare siano stati introdotti dall’alto.

30 Sacchi 2005, I, p. 88

31 La muratura nord ovest a sinistra del pozzo è intervento recente.

Si ringraziano gli architetti Stefania Bossi, Marco Leoni e la laureanda Agata Aiazzi per la collaborazione prestata nelle fasi di rilievo,

analisi delle strutture edilizie e redazione del testo.

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corrisponde il cortiletto, ma piuttosto dove esistono i vani e le abitazioni soprastanti. Di colore decisamente più biancastro, è realizzato in due strati e presenta aggregati di colore scuro. Risvolta anche sulle superfici verticali, compresa la struttura cilindrica del pozzo. Si è individuato uno strato di intonaco anche nelle superfici sottosquadro delle porte, ora tamponate, che mettevano in comunicazione le cantine con quelle della adiacente proprietà: l’intonaco, di colore giallastro, è steso sul paramento laterizio per uno spessore di pochissimi millimetri. Nelle murature delle pareti di fondo delle bocche di lupo infine, la malta di allettamento assume una colorazione rosacea, probabile indizio dell’impiego di malta di cocciopesto.

Particolare dell’intonaco grigio quattrocentesco

L’intonaco che riveste le volte della cantina colonnata

Il sottile strato di intonaco nel sotto squadro dell’apertura tamponata

Particolare della pavimentazione nella cantina colonnata realizzata con elementi laterizi disposti a coltello

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Descrizione della proprietà contenuta nel rogito del 22 settembre 1780 compilata dall’ingegnere collegiato Francesco Ferrari Illustrissimo signore Con verbale ordine di vostra signoria illustrissima don Luigi Marliani, sedente priore nel venerando Luogo Pio di santa Corona, sono incaricato di rilevare il valore capitale della casa situata in poca distanza della vecchia Zecca di ragione di detto Pio Luogo di presente affittata al signor Giovan Sarono, e dalla visita fatta in luogo il giorno 22 dicembre cadente per rilevare il suo stato mi è risultato: Che la medesima ha una porta verso la contrada, che dal piazzale di Santo Sepolcro mette alle cinque vie successivamente un andito con cortiletto, e tutto ciò è in comune col signor Perego, servendo egualmente al medesimo signor Perego, ed a questa casa

A sinistra di detto cortiletto comune evvi porta privativa del signo Perego [che] serve per andare alla di lui casa, di facciata alla sudetta porta comune, ed in fine del medesimo cortiletto comune evvi altra porta per solo uso di questa casa sbocca ad un altro cortile riservato, a sinistra vi sono due lastrine [sic], indi una cucinetta con mezanino, di facciata poi evvi portico con due luogo terreni, che hanno la loro luce da altra corte in comune col signor Gatti, di testa a detto portico una cantina con pozzo verso corte. Sotto all’enonciato portico vi è scala di tavole [che] mette al primo piano superiore consistente in una loggia, e tre stanze, indi per altra scala simile si va a due mezzanini Si torna a piano terra, e dall’enonciato portico per mezzo d’una pusterletta si passa ad altro cortile privato tutto selciato di vivo con pozzo in angolo A levante di detta cucina vi è cucina grande, sito per lavandino con altro picciol cortiletto rustico di testa, al quale diametralmente oposti due portichetti uno a tetto l’altro con superiore che ha comunicazione col surriferito lavandino A ponente del cortile suolato di vivo vi è sala e studietto A meriggio poi dello stesso evvi la scala di vivo che mette alli superiori, e cantine, essendosi nelli repiani diversi ripostigli A piano nobile vi sono cinque stanze, e verso al cortile a due lati vi è ringhiera di vivo, e dall’altro lato è suolata di cotto con parapetto di ferro Sopra la cucina grande vi sono due mezzani A tutti li superiori vi sono suolari morti a tetto Sotto al cortile suolato di vivo, sala e studietto evvi cantina grande, le volte della quale sono sostenute da duplicato ordine di colonne, ed in questa cantina vi è uscio chiuso con ante, che comunica ad altri sotterranei del signor Gatti, finalmente sotto a detta cucina grande altra cantina. Dalla surriferita sala si và ad altra corte grande, ed è in comune col signor Mario Gatti, indi alla porta per mezzo d’un andito pure comune e sbocca alla strada che da Santo Mauriglio mette alle cinque vie In detta corte resta comune la cisterna, ed il pozzo. Il portico poi in due campi situato a settentrione della stessa corte dicesi privativo del sudetto signor Gatti quantunque sotto di esso vi corrisponda una finestra d’un luogo terreno di questa ragione.

A questa casa in complesso escluse le surriferite comunioni confina a levante in parte col cortiletto comune col signor Perego a muri in parte proprii, ed in parte comuni, in parte caseggiato di detto signor Perego a muri in parte lasciati, ed in parte comuni, ed in parte la Zecca vecchia a muri divisorij. A mezzo giorno casa del signor Gatti sempre a muri comuni sino alli rispettivi apoggi. A ponente in parte corte riservata al signor Gatti a muri di edificio con finestra, e gronda libera, in parte cortile comune col detto signor Mario Gatti, ed in parte portico, dicesi privativo di detto signor Gatti con finestra in servitù, e ciò riguarda l’inferiore e per li superiori muri di edificio per metà. A settentrione per la maggior parte casa del signor Mainardi, e Carcano a muri comuni sino alli appoggi, ed in parte muri compresi con una finestra pel mezzanino in servitù di altra etc. 19 ½ per etc. 13, e per poca parte casa del signor Perego a muri comuni […] Milano li 30 dicembre 1779

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Ecco alcune immagini della cantina grande in fase di restauro

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Ed ormai completamente restaurata

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Appendice

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Mercurino Arborio da Gattinara

•1465 Il 10 giugno nasce MERCURINO ARBORIO, figlio di Paolo e di Felicita Ranzo. La madre proviene da una illustre famiglia vercellese e il nome gli viene dato, perché nello stesso anno della sua nascita muore l'avo materno Mercurino Ranzo, reggente della cancelleria sabauda in Vercelli.

•1479 A soli quattordici anni perde il padre ed il nonno paterno. Sua madre, rimasta vedova a soli ventotto anni e con sette figli ancora fanciulli, stenta a curare da

sola l'educazione degli orfani e l'amministrazione del patrimonio famigliare e prende in casa una parente orfana Andreetta Avogadro, di nobile famiglia vercellese. MERCURINO quindicenne, impedito di continuare gli studi, sposa segretamente Andreetta, ventenne. La famiglia, scoperto il loro segreto, dimostra aspramente il suo dissenso.

•1480 Viene mandato a Vercelli presso il notaio Pietro Arborio di Gattinara, cugino del padre. •1482 Si trasferisce presso lo zio materno Bartolomeo Ranzo, che lo tratta come un figlio; quando questi viene inviato come prefetto a Cassine nel Monferrato, lo segue e lo aiuta nel nuovo incarico politicoamministrativo, facendo tesoro dei suoi consigli ed ammaestramenti.

•1489 A venticinque anni decide di intraprendere gli studi di Legge presso l'Università di Torino, benché la famiglia si dimostri espressamente contraria alla decisione. Sposa ufficialmente Andreetta Avogadro e con la dote della moglie riesce a pagarsi gli studi e il trasferimento a Torino presso lo zio paterno Giovanni Arborio, giudice in quella città. •1493 Conclude gli studi e consegue la laurea in legge.

•1494 Esercita l'Avvocatura a Torino, distinguendosi per la sua preparazione e competenza.

•1501 Svolge vari incarichi come consulente e consigliere di MARGHERITA D'ASBURGO, moglie del duca di Savoia regnante e figlia dell'Imperatore MASSIMILIANO 1°.

•1504 Prematuramente muore il duca Filiberto II e MERCURINO continua ad assistere la vedova MARGHERITA D'ASBURGO nelle controversie legali per l'assegnazione delle sue rendite dotali e del dovario.

•1505 Margherita ottiene, per la durata della sua vita, l'amministrazione delle contee di Romont e di Villars e delle terre della Bresse. La Duchessa nomina MERCURINO avvocato fiscale, nonché Presidente della Bresse.

•1506 Muore FILIPPO, re di Castiglia, lasciando sei figli in tenera età (tra i quali il futuro CARLO V, per gli spagnoli Carlos primero); né la madre Giovanna, che vive in Spagna affetta da un male incurabile, né il nonno materno FERDINANDO D'ARAGONA, anziano e lontano dalla Spagna, né il

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nonno paterno MASSIMILIANO D'ASBURGO, trattenuto in Germania da gravi affari di Stato, possono occuparsi della tutela dei nipoti orfani; l'Imperatore affida l'incarico alla figlia Margherita, previa l'approvazione del Parlamento degli Stati Bassi. MERCURINO si occupa della pratica e porta a termine la missione in poco più di otto mesi.

•1508 MASSIMILIANO I assegna alla figlia Margherita il governo della Borgogna, e la duchessa nomina, a sua volta, MERCURINO Presidente del Parlamento di DÔLE. Nel frattempo MERCURINO viene impegnato in importanti missioni diplomatiche e svolge un ruolo di primo piano nelle trattative per la Lega di CAMBRAI.

•1509 L'IMPERATORE nomina MERCURINO ambasciatore presso il Re di Francia LUIGI XII al fine di indurlo a farsi mediatore di un accordo tra l'Imperatore stesso e FERDINANDO D'ARAGONA per la successione al regno di Castiglia al nipote CARLO. L'accordo viene siglato nell'ottobre dello stesso anno a BLOIS.

•1510 MERCURINO ritorna a DÔLE per riprendere le sue funzioni di Presidente del Parlamento di Borgogna, ma nel mese di maggio, per incarico dell'Imperatore, ritorna in Spagna per sollecitare il Re Ferdinando al rispetto dell'accordo di BLOIS, e nel settembre l'accordo viene ratificato dalle CORTES di Castiglia.

•1511 MERCURINO ritorna in Borgogna, dove fissa la sua residenza acquistando il castello ed il feudo di Chevignì, però sente intorno a lui molta ostilità, forse per la sua severa aziona amministrativa, e deve sopportare numerose vertenze giudiziarie, specie riguardo alla proprietà del castello.

•1516 MERCURINO, deluso ed amareggiato, si ritira nella Certosa di BRUXELLES per adempiere ad un voto e qui scrive la famosa operetta dedicata al giovane CARLO, nella quale espone la sua teoria sulla MONARCHIA UNIVERSALE. In quello stesso anno, deceduto FERDINANDO il Cattolico, CARLO viene eletto Re di Castiglia e di Aragona con il nome di CARLO I.

•1518 CARLO, da poco divenuto Re di Spagna, fa pervenire a MERCURINO, attraverso l'Imperatore, l'invito ad assumere l'ufficio di GRAN CANCELLIERE presso la Corte Spagnola. MERCURINO ottiene il consenso del duca di Savoia, parte per la Spagna, dove assume la nuova carica il 15 ottobre.

•1519 Muore l'Imperatore MASSIMILIANO I e MERCURINO, convinto assertore della MONARCHIA UNIVERSALE, insiste sulla necessità di assicurare a CARLO l'appoggio dei Principi Elettori per la sua salita al trono Imperiale. Superati i contrasti, riesce ad ottenere per CARLO l'elezione ad Imperatore, pur dovendo trattare l'esborso di una enorme somma di fiorini. •1521 I Francesi invadono la NAVARRA e CALAIS, che a quel tempo era possedimento inglese; MERCURINO conduce le trattative per un'alleanza tra Inghilterra, Papato ed Impero contro la Francia. Nella Dieta di WORMS MERCURINO opera con grande determinazione, al fine di cercare una conciliazione con il movimento ribelle, e consiglia CARLO V di far intervenire all'assemblea MARTIN LUTERO per spiegare davanti alla Consulta la sua teoria religiosa; è convinto e spera che un franco dialogo possa condurre la maggioranza dei Protestanti a tornare nella Chiesa.

•1522 Sorto un lungo contrasto tra CORTÉS e VELÁSQUEZ, CARLO V affida la delicata questione ad una Commissione presieduta dal Gran Cancelliere. La Commissione si esprime in favore di CORTÉS, dichiarando infondata la pretesa di VELÁSQUEZ e ridà il Comando a CORTÉS, previa l'approvazione dell'AUDIENCIA REAL di Santo Domingo. •1522 Scoppia il conflitto tra il Re di Francia FRANCESCO I e l'Imperatore CARLO V. MERCURINO si adopera per il trionfo della politica imperiale nel 1525 i Francesi vengono sconfitti a PAVIA e lo stesso, FRANCESCO I cade prigioniero degli Spagnoli e viene condotto a MADRID.

•1526 Malgrado il parere contrario di MERCURINO che temeva che il Re di Francia non avrebbe rispettato gli accordi, FRANCESCO I viene rimesso in libertà; ma appena rientrato in Patria riprende

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le ostilità contro la Spagna. Nel corso della nuova guerra CARLO V vede costituirsi contro di lui la Lega di COGNAC, della quale fan parte la Francia, la Repubblica di VENEZIA, il Papa CLEMENTE VII, FIRENZE ed il Duca di Milano FRANCESCO II SFORZA. Nel maggio del 1527 le truppe Imperiali attaccano ROMA e dopo averla espugnata, la saccheggiano (SACCO di ROMA). In seguito a nuovi successi delle armate imperiali, FRANCESCO I conclude la pace di CAMBRAI (5 agosto 1529). L'attività diplomatica del Gran Cancelliere è frenetica, egli assume un ruolo di grande rilevanza in tutte le trattative.

•1529 GATTINARA conduce e conclude con gran perizia e competenza il CONGRESSO di BOLOGNA, nel quale viene regolato l'assetto degli Stati Italiani. In occasione della sua venuta in Italia con l'Imperatore, il Papa CLEMENTE VII lo nomina CARDINALE di San Giovanni a Porta Latina. Nello stesso Congresso di Bologna, MERCURINO si adopera affinché CARLO V conceda all'Ordine Militare di San Giovanni di Gerusalemme l'Isola di MALTA, a compenso della perdita di Rodi e Tripoli ad opera di Solimano il Magnifico. Nello stesso anno i Cavalieri possono ritornare alla loro Isola.

•1530 Lasciata l'Italia dopo l'incoronazione dell'imperatore in San Petronio a BOLOGNA, segue il suo Re per prendere parte alla Dieta di AUGUSTA, ma durante il tragitto muore il 5 giugno 1530 ad Innsbruck. Le sue spoglie, secondo la volontà espressa nel suo testamento del 23 luglio 1529, vengono portate a GATTINARA e tumulate nella chiesa parrocchiale di San Pietro, ove tuttora sono riposte.

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DRÔLERIE

Termine francese, utilizzato dagli storici dell'arte in riferimento alle forme figurative di carattere bizzarro che abbondano soprattutto nei margini dei manoscritti miniati di epoca gotica.Il termine, assente nelle fonti medievali, venne formulato nel Rinascimento e applicato a partire dal sec. 16° alle immagini fantastiche o mostruose. Nel dizionario di R. Cotgrave (A Dictionaire of the French and English Tongues, London 1611) draulerie appare riferito a 'maschera', 'satiro', 'scimmia' o analoghi 'volti scimmieschi', introducendo la più antica e importante associazione delle d. con scimmie e scimmiette, sorprendenti creature definite comunemente nei testi medievali babewyn, 'simile a babbuino'. Il giurista bolognese Odofredo (m. nel 1265) narra del rammarico di un padre per aver dato denaro al figlio perché si recasse a studiare a Parigi, mentre questi lo aveva sperperato facendosi riempire i libri di buffonerie: "fecit libros suos babuinare" (Camille, 1992, p. 152). Il termine babewynerie, comunque, non era riferito soltanto a figure dall'aspetto scimmiesco, ma in generale alla categoria dei temi marginali, privi di significato, comprese le creature ibride mostruose e altre creazioni della feconda fantasia medievale (per es., Libro d'ore, New York, Pierp. Morgan Lib., M.754, c. 55v).L'iconografo che si avventuri nel campo della d. gotica si trova ad affrontare un compito tutt'altro che invidiabile (Janson, 1952, p. 163), in rapporto alla difficoltà di classificare immagini che erano state concepite come non classificabili e al problema di dare un nome e di definire forme che cambiano costantemente.

Sono comunque numerosi gli studi su singoli motivi marginali, per es. sulle chiocciole (Randall, 1962), sul mondo alla rovescia (Mellinkoff, 1973), su motivi scatologici (Wentersdorf, 1984) .

Col termine scatologia (dal greco attico σκῶρ, gen. σκατός, "escremento", e λόγος, "materia, ragionamento"), s'intende ogni cosa che abbia a che fare con le deiezioni. Forme patologiche possono portare all'eccitazione erotica in presenza di atti defecativi o di escrementi (scatofilia), al maneggiamento di deiezioni (coprofilia) e all'ingestione di feci (scatofagia).

Numerosi gli studi più recenti, sulla sessualità (Caviness, 1993); uno strumento di ricerca fondamentale è stato la catalogazione dei temi marginali (Randall, 1966), comprendente un'ampia campionatura di manoscritti dell'Europa settentrionale. Il problema che emerge dagli studi è quello di definire i limiti del significato di tali soggetti, considerati (Shapiro, 1970, p. 197) la prova evidente della libertà dell'artista e del suo possesso illimitato dello spazio che contraddice la visione dell'arte medievale come modello di ordine e devozione sistematici. Molti di questi temi marginali assunsero tuttavia forme convenzionali, copiate da un manoscritto all'altro, a dimostrazione del fatto che non si trattava di fantasie soggettive proiettate sulla pagina (Randall, 1966). La difficoltà consiste nell'individuare dove comincia e dove finisce il significato di tali immagini; non è chiaro, cioè, se questo mondo fantastico comprenda le sole rappresentazioni dei lazzi di scimmie e di mostri ibridi nei margini o se possa anche includere elementi semidecorativi o semifigurativi, come le foglie di vite che si trasformano in figure umane e animali.

Risulta inoltre difficile stabilire se il termine d. possa comprendere anche i ghirigori riempilinea e i richiami degli scribi oppure se esso vada riferito alle sole miniature. Nonostante recenti contributi sulla struttura formale dei mostri rappresentati nei margini delle carte dei manoscritti (Sandler, 1981), lo studio dell'evoluzione storica di queste forme e della loro ampia diffusione in Europa - specialmente in altri media artistici - necessita di ulteriori approfondimenti. A fronte di un'interpretazione restrittiva del termine d., è possibile adottarne una più ampia, che definisce tale tipo di raffigurazioni come proprie di un particolare ambito o spazio, generalmente ai margini, non soltanto della pagina, ma anche di muri, edifici, oggetti e persino corpi (Camille, 1992).Per molto tempo lo studio dei soggetti marginali è stato ostacolato da un atteggiamento puritano, che qualificava queste immagini, focalizzate sovente sul corpo e sui suoi orifizi, come 'oscene' e

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inadatte a essere oggetto di una spiegazione scientifica. Tale giudizio ha fatto sì che molti dei più affascinanti esempi in manoscritti non venissero catalogati o descritti (Randall, 1966, pp. 10-11). Soltanto grazie all'interesse nei confronti dell'arte 'primitiva' e per influenza della psicoanalisi alla metà di questo secolo le regioni liminali del processo medievale della creazione di immagini sono diventate oggetto di attenzione. La vexata quaestio delle fonti e delle origini delle d. marginali è stata studiata (Baltrušaitis, 1955; 1960) individuando nell'antico gryllus, rappresentato su gemme e cammei, la fonte classica del babewyn e presupponendo numerose fonti non occidentali - persino indiane - per i mostri a più teste che ricorrono nei manoscritti del 14° secolo. Questa analisi formalistica tende tuttavia a decontestualizzare tali soggetti e a vederli come motivi ornamentali, ovvero come aggiunte, piuttosto che come parti integranti delle opere di cui essi fanno parte. Il contesto risulta particolarmente importante nell'ambito della scultura, dove sembra possibile ritenere che le d. abbiano fatto il loro ingresso molto tempo prima di invadere le pagine dei libri; l'ampia utilizzazione di questo genere di soggetti in ambito monastico è già attestata, nel 1125 ca., nell'Apologia ad Guillelmum Abbatem (XII, 28-30) di s. Bernardo di Chiaravalle, il quale attaccava le immonde scimmie, i semiuomini, i soldati in lotta che vedeva scolpiti sui capitelli dei chiostri e che riteneva distraessero i monaci. Questi temi derivano dal repertorio non solo dell'arte classica, ma anche di quella altomedievale, vale a dire dalle forme animalistiche e di carattere magico presenti nei manoscritti e nella metallistica celtici a partire dal periodo delle migrazioni. Questa composita creatività appare meglio evidenziata nella scultura monumentale, come per es. nel trumeau della chiesa abbaziale di Sainte-Marie a Souillac, definito una 'appassionata d.' (Schapiro, 1977). Anche nell'ambito della pittura murale romanica la d. ebbe una notevole importanza: gli esseri mostruosi e ibridi, come quelli raffigurati nella chiesa altoatesina di S. Giacomo a Termeno (inizi del sec. 13°), hanno un significato cosmologico, rappresentando infatti il mostruoso mondo sotterraneo delle meraviglie che si pensava esistesse ai confini acquei della realtà (Demus, 1968, p. 311). Il repertorio di motivi che caratterizza i manoscritti dell'età gotica era dunque presente nella decorazione monumentale già dal 1200, così come i mostri ibridi e le forme zoomorfe marginali dei codici del sec. 13° erano già raffigurati nelle lettere iniziali, piuttosto che collocati al margine del testo, in libri miniati di ambito monastico del 12° secolo .Gli studi avevano inizialmente individuato nelle Isole Britanniche il luogo di origine dei motivi marginali, per la grande quantità di manoscritti, quali per es. il Salterio Rutland (Londra, BL, Add. Ms 62925, c. 14r), contenenti d. già alla metà del 13° secolo. Tuttavia, manoscritti decorati con favole di animali e con grandi glosse figurate ai margini dei libri vennero realizzati anche in altre regioni dell'Europa ancora prima che nelle Isole Britanniche (Nordenfalk, 1967), come dimostrano per es. i registri di Innocenzo III (Roma, Arch. Segreto Vaticano, Reg. Vat. 4, c. 84v), copiati in Italia tra il 1198 e il 1200, dove una volpe in abito monastico di fronte a un verro con un aspersorio per l'acqua santa costituisce una parodia liturgica di un genere comune alla scultura del sec. 12°, in questo caso ispirata da alcune frasi delle lettere del papa. Ciò vale anche per manoscritti quali il Salterio Rutland, dove molte delle scene del margine inferiore illustrano frasi chiave del salmo scritto nella stessa pagina, come per es. la figura il cui piede viene morso da un drago nel bas-de-page di c. 14r, posta direttamente sotto il verso 16 del Sal. 9 (A): "Sprofondano i popoli nella fossa che hanno scavata, nella rete che hanno teso si impiglia il loro piede". Piuttosto che rappresentare semplicemente glosse teologiche di carattere moraleggiante sui mali del mondo, exempla figurati del corpo peccaminoso, come è stato ipotizzato (Randall, 1957), questi temi hanno una più ampia gamma di fonti, compresi i fabliaux, le burle, i giochi di parole e i racconti popolari della tradizione orale, che non devono essere necessariamente considerati sempre di valenza negativa (Camille, 1992).L'improvviso sviluppo delle figurazioni marginali nell'arte del periodo gotico può essere visto come il risultato di nuove tendenze nell'alfabetizzazione, nonché dei rapidi mutamenti nella disposizione della pagina manoscritta e della sua funzione. Fondamentale fu l'impatto dei metodi di organizzazione e di lettura propri della Scolastica, che considerava il testo come qualcosa da glossare o da commentare

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piuttosto che come oggetto di meditazione. A Bologna, per es., la disposizione della pagina nei manoscritti del sec. 14° delle Decretali di Graziano facilitava l'aggiunta di motivi marginali tra le varie sezioni di testo, glosse e commentario. Nella stessa epoca si ebbe, accanto a questo umorismo di studenti eruditi - che fondamentalmente esprimeva ancora in latino i propri indovinelli e giochi di parole -, un significativo incremento dei libri miniati per i laici, specialmente salteri e libri d'ore, i cui committenti avevano il gusto profano per il bizzarro e il sensazionale. Un ulteriore impulso allo sviluppo della d. si dovette anche ai cambiamenti intervenuti nelle tradizioni orali, all'importanza assunta dalla predicazione in volgare e alla trascrizione delle tradizioni popolari tramite la poesia. Un altro fenomeno di trasformazione sociale che si ritiene possa avere influito sulla decorazione marginale in età gotica è lo sviluppo delle città e del commercio; si è rilevato infatti che le regioni nelle quali sembrano concentrarsi i più fiorenti centri di produzione di manoscritti in generale, e di codici con marginalia in particolare, specie intorno al 1300, coincidono esattamente con le aree dedite al commercio più ricche e più urbanizzate dell'Europa settentrionale .Dal punto di vista storico lo studio delle d. rivela una visione più complessa e articolata dell'artista medievale. Sebbene possa essere dimostrato il carattere convenzionale di molti motivi, copiati da libri di modelli, i margini dei manoscritti offrivano alla sperimentazione spazio più ampio di quello consentito dai cicli delle miniature inserite nel testo, maggiormente codificati. In particolare, a causa del progressivo passaggio dell'attività di decorazione dei manoscritti dall'ambito monastico a quello urbano, che ebbe peraltro come conseguenza la formazione della figura professionale del miniatore laico, tale attività assunse, nel corso del sec. 13°, carattere collettivo, realizzato da scribi, rubricatori e pittori. La divisione tra testo e immagine a livello esecutivo aveva come conseguenza che il codice - di qualsiasi genere si trattasse, dal pontificale al romanzo - poteva essere decorato con gli stessi tipi di mostri e di buffoni marginali dalle sembianze di scimmie. La sottile correlazione tra testo e raffigurazioni marginali, visibile nei numerosi manoscritti del sec. 14° prodotti in Inghilterra e nelle Fiandre, si ridusse progressivamente, specialmente a Parigi, dove la divisione del lavoro era particolarmente sviluppata. Un artista come Jean Pucelle (ca. 1320-1370), comunque, dovette essere stato chiamato a corte da committenti reali proprio in virtù della sua capacità di rendere viva l'intera pagina, dal bas-de-page alle terminazioni delle linee, e persino le lettere, grazie a meravigliose e minute creature mostruose, come per es. nel Libro d'ore di Jeanne d'Evreux, del 1324 (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters, Acc. 54.1.2, cc. 15v-16r). Lo stesso interesse per delicati oggetti preziosi e per creazioni minute è evidente nei manufatti di lusso prodotti nell'intera Europa, dove le d. adornano tessuti, avori e ogni genere di prodotto di lusso destinato alle corti. Su scala monumentale costituiscono un esempio le sculture tardo duecentesche del portale des Libraires della cattedrale di Notre-Dame a Rouen, sugli stipiti in pietra del quale si contorcono mostri e babewyns analoghi a quelli che ricorrono in manoscritti contemporanei. L'importanza della d. nella cultura medievale è dovuta al ruolo che svolgeva nella dialettica tra devozione e perversione, che permise a frammenti di ciò che viene considerato 'cultura alta' e 'bassa' di compenetrarsi e persino di unirsi letteralmente nell'ambito della visione fantastica, secondo modi destinati in seguito a non essere più ripetibili.

Bibl.: H.W. Janson, Apes and Ape Lore in the Middle Ages and the Renaissance (Studies of the Warburg Institute, 20), London 1952; J. Baltrušaitis, Le Moyen âge fantastique, Paris 1955 (trad. it. Il Medioevo fantastico, Milano 1973); L.M.C. Randall, Exempla as a Source of Gothic Marginal Illumination, ArtB 39, 1957, pp. 97-107; J. Baltrušaitis, Réveils et prodiges. Le gothique fantastique, Paris 1960; L.M.C. Randall, The Snail in Gothic Marginal Warfare, Speculum 27, 1962, pp. 358-367; id., Images in the Margins of Gothic Manuscripts (California Studies in the History of Art, 4), Berkeley-Los Angeles 1966; C. Nordenfalk, Drolleries, BurlM 109, 1967, pp. 418-421; O. Demus, Romanische Wandmalerei, München 1968 (trad. it. Pittura murale romanica, Milano 1969); M. Schapiro, rec. a Randall, 1966, Speculum 45, 1970, pp. 684-686 (rist. in id., Late Antique, Early

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Christian and Medieval Art. Selected Papers, London 1980, pp. 197-198); R. Mellinkoff, Riding Backwards: Theme of Humiliation and Symbol of Evil, Viator 4, 1973, pp. 153-176; M. Schapiro, The Sculptures of Souillac, in id., Romanesque Art, London 1977, pp. 102-130 (trad. it. Arte romanica, Torino 1982, pp. 114-144); L.F. Sandler, Reflections on the Construction of Hybrids in Gothic Marginal Illustration, in Art the Ape of Nature. Studies in Honor of W.H. Janson, New York 1981, pp. 51-65; K.P. Wentersdorf, The Symbolic Significance of 'Figurae Scatalogicae' in Gothic Manuscripts, in Word, Picture and Spectacle, a cura di C. Davidson, Kalamazoo 1984, pp. 1-20; M. Camille, Image on the Edge. The Margins of Medieval Art, London-Cambridge (MA) 1992; id., Mouths and Meanings: Towards an Anti-Iconography of Medieval Art, in Iconography at the Crossroads, a cura di B. Cassidy, Princeton 1993, pp. 43-54; M.H. Caviness, Patron or Matron? A Capetian Bride and a Vade Mecum for her Marriage Bed, Speculum 68, 1993, pp. 333-362; Mein ganz Körper ist Gesicht: groteske Darstellungen in der europäischen Kunst und Literatur des Mittelalters, a cura di K. Kroll, H. Steger, Freiburg im Brsg. 1993.M. Camille