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ADHD: la malattia degli adulti
di Roberto Gilardi
Quest’anno le segnalazioni di ADHD sono cresciute del 200%, come è possibile
un fenomeno di questa portata, quali sono secondo lei le motivazioni, è una
questione di genetica che si sta modificando anche grazie o per colpa degli
alimenti di cui si nutrono i bambini, le famiglie non sanno più educarli al
contenimento oppure sta succedendo qualcosa di cui non conosciamo la radice?
La domanda mi viene posta da un Dirigente Scolastico, quindi da una fonte
oggettiva di dati attendibile. E il fenomeno non è circoscritto ad una singola realtà.
Le segnalazioni di bambini con questo ed altri “disturbi”, in questi ultimi quindici
anni, forse meno, forse più, sono in aumento esponenziale.
Così come sono in aumento esponenziale gli esperti che di questi disturbi si
occupano, di questi disturbi ne fanno la loro professione, con questi disturbi
guadagnano la loro pagnotta quotidiana.
Viva i disturbi verrebbe da dire, incrementano il PIL.
La domanda di quel Dirigente Scolastico è legittima, così come il dubbio sui motivi
che porta con sé la moltiplicata necessità di segnalazione e diagnosi.
Io non sono un esperto del disturbo da deficit di attenzione / iperattività chiamato
con la sigla che richiama un noto gruppo rock fuori dagli schemi. Per cui la mia non
potrà essere né una analisi clinico-diagnostica del problema, né tantomeno di
possibile cura o risoluzione della patologia, se così la si può chiamare.
Vorrei solo soffermarmi, anche ironicamente, sul nostro sistema adulto e sui suoi
di disturbi da deficit di attenzione/iperattività.
I bambini respirano come l’ossigeno l’aria che li circonda.
Nell’articolo sono presenti alcuni video con Max Pisu, ecco il primo.
Nel binomio natura-cultura, è ormai stupido pensare ed ostinarsi nel voler
affermare e persuadere, che vi sia una prevalenza certa di uno dei due aspetti
nella costruzione di noi tutti come persone.
Genetica e Apprendimento si mischiano in un storia dai contorni confusi e non
ben definiti.
In questo articolo saranno presenti alcuni video, che oltre a far sorridere (si spera,
perché questo è uno dei nostri scopi), potrebbero anche far pensare. Almeno un
po’, a patto che chi legge si dia un po’ di tempo per guardarli e continuare a leggere
il seguito dell’articolo.
Ho iniziato ad occuparmi e a lavorare nel mondo dell’informatica nel 1975, in un
altro mondo, dove i computer occupavano intere stanzoni e la memoria RAM
complessiva dell’elaboratore centrale (quella di lavoro per intenderci) era di
qualche K, cioè qualche migliaio di Byte, che non è quell’aggeggio da mettere in
bocca la notte per sistemare lo scheletro e la postura.
Una cosa per pochi addetti ai lavori, misteriosa, fatta di schede perforate e al
massimo nastri in enormi bobine o dischi magnetici grandi come pizze giganti
sovrapposte.
Niente video, niente monitor, niente tempo reale, niente interattività, niente
comunicazione immediata. Tempi lunghissimi di attesa per ogni attività, molta,
moltissima pazienza nello scrivere un programma in uno dei pochi linguaggi di
programmazione disponibili, compilarlo, stamparlo, testarlo, correggerlo. Giorni e
giorni per un singolo programma.
Un allenamento all’attesa, come molte cose che in su questa terra avvenivano in
quegli anni, e ancor di più in quelli precedenti.
Un allenamento alla pazienza, come molte cose che su questa terra avvenivano in
quegli anni, e ancor più in quelli precedenti.
Attesa e Pazienza, due simpatiche sorelle, protagoniste della nota trasmissione
televisiva in onda ai giorni nostri su un canale RAI : “Chi le ha viste? “.
In quel mondo la sindrome da deficit di attenzione / iperattività non esisteva, e a
Scuola, quei pochi ragazzini fuori norma, erano considerati un po’ ribelli,
incontenibili, svogliati, fannulloni, poco seguiti dalle famiglie.
Molto pochi a dire il vero.
A Scuola i bambini non urlavano per parlare, a casa i bambini non urlavano per
dire e farsi sentire, le uniche grida si udivano nel cortile dell’Oratorio durante le
partite a pallone o in altri giochi sociali, comunitari, divertenti perché facevano
toccare fisicamente le persone.
Guardavo le rarissime partire di calcio trasmesse dalle prime TV in bianco e nero,
con valvole e tubi catodici, antenne posticce a forma di tromba poste sulla
sommità del televisore prima ancora che sui tetti delle case, con fili che correvano
dal tetto lungo tutta la facciata dell’edificio, prima di raggiungere la stanza più
vicina, la cucina, il soggiorno. Tutto questo per i più fortunati.
Guardavo le rarissime partire di calcio commentate da telecronisti pacifici, lenti,
posati, cinque minuti di autobus tra un commento e l’altro, a volte solo la
pronuncia del nome del giocatore in possesso di palla. La parola goal, quando
doveva essere nominata, durava una frazione di secondo: secca, monocorde,
senza grossa enfasi.
Un altro mondo rispetto a quanto succede oggigiorno in questo nostro paese per
molti versi malato, di una malattia mentale, sociale, esistenziale, priva di
consapevolezza. Perché la consapevolezza richiede tempo e attenzione.
La velocità con la quale l’informatica, così la si chiamava una volta, ha reso
accessibile a tutti qualcosa di paragonabile ad una fuoriserie potente e
fiammeggiante, è sotto gli occhi di tutti.
Uno dei cambiamenti sociali rilevanti che negli ultimi cinquant’anni hanno
profondamente inciso sulla struttura sociale e sugli individui o le persone che la
compongono.
Oggi i bambini per esprimersi urlano.
Oggi i cronisti per commentare una partita di calcio urlano.
Oggi i partecipanti di un qualsiasi talkshow o programma di intrattenimento di un
certo tipo urlano.
Il problema è dei bambini ?
Oggi gli adulti vogliono tutto e subito, non possono aspettare, e l’attesa li rende
subito nervosi, irritabili, scontrosi, in qualsiasi contesto questo capiti.
Oggi gli adulti esprimono le propri e esigenze o i propri bisogni come fossero tutti
diritti essenziali ed esistenziali, e quando il mondo non li corrisponde urlano, si
arrabbiano, battono i pugni, inveiscono contro il Governo e le Istituzioni che non
danno quanto dovuto.
Oggi gli adulti che diventano genitori, sono costantemente pronti alla aggressione
verbale, alla citazione, alla denuncia di tutto quanto o di tutti quelli che si
permettono di entrare e disturbare la loro proprietà privata: i figli.
Oggi i bambini rispondono male, sfidano, danno a tutti del “tu”, insultano, dicono
parolacce o bestemmie sin dai primi anni di vita, godendo del sorriso complice di
chi li ha procreati, sono incontenibili in percentuale spropositatamente superiore
agli svogliati di quei tempi.
Il problema è dei bambini ?
Oggi il mondo di Internet è volatile, può offrire attenzione agli stimoli che riceve
solo per qualche secondo, poi abbandona e ne ricerca altri.
Il pensiero va espresso in 160 caratteri.
Gli editori con cui collaboro mi dicono che un video di 4 minuti è troppo lungo, che
la gente non lo guarda, che interrompe prima, ma non perché il video non sia
interessante, semplicemente perché non riesce a dare attenzione per più di
qualche secondo a quanto vede, deve fare altro, vedere altre cose, fare altre cose.
Uno zapping di vita continuo ed estenuante.
Il problema è dei bambini ?
Un tempo le trasmissioni televisive erano lente, basterebbe ricordare gli
sceneggiati TV con inquadrature che duravano minuti con la stessa posizione di
camera.
Oggi, se osservate bene i servizi televisivi, i documentari, le trasmissioni di
qualsiasi tipo e su qualsiasi canale, troverete che le immagini durano solo secondi
o frazioni di secondo. Una serie infinita di immagini in pochi minuti.
E così ci vuole una intera giornata di lavoro per montare un servizio che dura 5
minuti, martellato da un continuo avvicendarsi di immagini che non si possono
osservare, gustare, organizzare nei dettagli che le compongono.
A un occhio attento e osservatore queste cose non possono sfuggire, peccato che
pochi le notino, anestetizzati come siamo dalla consuetudine e dalla mancanza di
tempo e intenzione per il pensiero, per la riflessione, per l’approfondimento non
superficiale.
Gli abitanti di Facebok vedono una vignetta, ne vengono attratti la cliccano, ma
non si accorgono neppure del testo che sta sopra, collegato ad un articolo di
approfondimento. E senza neppure leggere l’articolo e molte volte capire la
vignetta, fanno commenti, e sui reciproci commenti iniziano ad insultarsi
reciprocamente.
E se si accorgono che collegato c’è un articolo, lo evitano abilmente, come il
peggiore degli appestati. Non c’è tempo, devo fare altro, non posso dedicare la mia
attenzione per così tanto tempo a leggere qualcosa.
Il problema è dei bambini ?
I treni devono essere sempre più rapidi e veloci, portare da qui a là in meno tempo.
Ma meno tempo di quanto ?
Meno.
Ma per fare cosa ?
Altre cose !
Ma quali altre cose ?
Ma che ne so, altre cose, non si può perdere tempo.
Siamo forti noi adulti, direbbe Celentano.
Prima creiamo la malattia, poi facciamo di tutto, non tanto per curarla all’origine,
ma per eliminarne il sintomo.
I nostri bambini sono il sintomo della nostra malattia.
Non sono loro la causa.
Noi siamo la causa della malattia dei nostri figli, e diamo loro atomexitina e
metilfenidato per potenziare la trasmissione dopaminergica, in modo che non
intralcino le nostre attività, perché non disturbino con i loro disturbi.
Da una quarantina d’anni in qua, i famosi esperti del settore, che non si capisce di
quale settore parlino e siano esperti, predicano di quanto nella relazione con i
bambini basti la qualità, non è necessaria la quantità da investire nella relazione
con loro.
Poi alle loro spalle ci sono famiglie disgregate, sfilacciate, variegate e composite,
quattro padri e tre madri con 6 figli che non sanno se chiamarsi fratelli o cittadini
di una comunità allargata che di famiglia non ha neppure pallidamente la
sembianza.
Basta la qualità: che alibi speciale, creato ad hoc per mimetizzare le proprie
mancanze, spinte da venti di ambizione lavorativa o pulsione riproduttiva.
Basta la qualità, ecco uno degli ingredienti iniziali della parte di responsabilità
sociale nello sviluppo di ADHD.
E questo è solo l’inizio.
Il secondo importante filone riguarda il rapporto con regole e disciplina, e
l’incompetenza del mondo adulto di gestire questo fronte in modo chiaro,
consapevole e intenzionale, socialmente organizzato in opposizione
all’individualmente improvvisato.
Si tratterebbe di affrontare con serietà sociale la parola “Contenimento”.
Un bambino, così come una pianta che germoglia e cresce, necessità di abbastanza
spazio per mettere radici e sufficiente contenimento per non morire.
Ma per affrontare questo tema non è sufficiente un breve articolo come questo,
anche se so che quei pochissimi lettori arrivati a questo punto avranno pensato:
“Ma come, breve questo articolo ?”.
L’ADHD siamo noi, non c’è dubbio.