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INDICE

PIANTE BIBLICHE NEL TERRITORIO RODIGINO (2) Pag.1 Antonio Todaro

IL DISCORSO PUBBLICO TRA VECCHI E NUOVI MODELLI Pag.41 Matteo Viale

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PIANTE BIBLICHE NEL TERRITORIO RODIGINO (2)Antonio Todaro

Finchè durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno (Genesi, 8:22)

1. Strada facendoLa natura sacra del testo biblico è un mistero della fede, sia per i credenti, che immaginano il Libro come un dettato divino, sia per i non credenti, che lo ritengono un’opera tutta terrena, senza tuttavia riuscire a decifrarla e a inserirla in un particolare genere, perché la Bibbia, dalle nostre parti, è tuttora un oggetto sconosciuto, che sfugge ad ogni riduzione o accostamento. Disteso tra le parole sta un passato che intimorisce e volutamente si nasconde, lasciando intravedere una infinità di storie, di personaggi, di scorci, pronti a suggerire stimolanti approfondimenti, normative applicabili, oltre a svariati ambiti della vita domestica e sociale, alle leggi sulla proprietà e sulle pratiche alimentari, le regole sui cicli agricoli e a quelle sulle unioni matrimoniali. Tanto per citare un esempio, è come intravedere campi, prati, paludi, boschi, analoghi a quelli che un tempo circondavano la nostra città: alcuni dotati di una popolarità sfaccettata; altri, abitati da misteriosi silenzi, destinati a valicare secoli e millenni. E questo non perché i loro protagonisti fossero dei comprimari, vissuti nel tessuto di una lontana epopea, ma piuttosto perché il destino o la provvidenza di un Dio infinito aveva deciso così sin dall’inizio. Sono storie di uomini e di donne, di fatiche e di speranze, di tormenti e di entusiasmi, di parole e di modi di dire, di saperi lontani e di piante, che continuano ancora a disegnare la superficie dei muri e con i loro profumi non invadenti a frequentare i cibi di tutti i giorni. Tutto quel mondo verde ora si incontra, si frequenta, si richiama e si raccorda nelle vicende naturali e umane anche in luoghi distesi in questa pianura. Ognuna di quelle piante ha attraversato la storia e la cultura della nostra città. Tutte appartengono in modo significativo alla storia di una quotidianità che ha operato continui passaggi tra passato e presente, tra luogo e luogo. La nostra indagine floristica è stata eseguita nei molteplici ecosistemi rodigini e ha rivelato una vigorosa e per lo più effimera vegetazione spontanea, formata da un numero elevato di specie diffuse lungo un gradiente spaziale indirizzato dal centro della superficie urbana verso la periferia, dove maggiore è il contatto con gli ecosistemi agricoli e naturali, selezionandosi in base a un

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“ordine disordinato”, imposto da precise regole fisiche e biochimiche. Quella che è stata osservata è una flora “vagabonda”, che con la sua vitalità, la sua temerarietà, il suo fulgore e poi la sua improvvisa scomparsa, ha trasformato uno spazio privo di una qualsiasi forma di vita, volgendolo a proprio favore anche nell’arco di una sola stagione.Sfondo per niente secondario sono stati i suoli smossi, aperti da qualche bulldozer, i luoghi incolti, gli spazi occupati dal cemento e dall’asfalto, i bordi strada, gli argini, i fossati, i prati, gli orti, i giardini, le aree marginali degradate, quali potevano essere le superfici limitrofe alle linee ferroviarie oppure le aree ruderali (per esempio quelle di zone industriali in disuso), le aree di cantiere, le fratture dell’asfalto o del cemento. In breve, tutte quelle zone in cui si era accumulata una minima quantità di substrato terroso e che, almeno per il tempo necessario alla germinazione del seme e allo sviluppo delle piantine, sfuggiva agli interventi dell’uomo. E’ con questo spirito “nomade” che sono state osservate con maggior frequenza piante tipicamente invasive, che si erano sviluppate isolatamente o in gruppi discontinui, anche in habitat quali cornicioni di vecchi edifici, interstizi di muri in mattoni, chioschi, edicole, distributori di benzina, perché avevano minori esigenze ecologiche e quindi erano più adattabili a vivere in condizioni estreme.In questi luoghi, la flora osservata ha rivelato anche la presenza di una cinquantina di quelle minime erbe, che erano state create nel secondo giorno dopo la spartizione delle acque, e che ora si apprestano a condurci in una sorta di minimo itinerario turistico all’insegna del motto : “E Dio vide che era cosa buona”. E qui il grande valore del testo sacro è stato nel saper imporre ai botanici curiosi un cimento sempre nuovo, il coraggioso e incerto esercizio di ricerca di un presente verde radicato in una lontana identità. Perciò ogni pianta è stata corredata da un riferimento al testo biblico che, a sua volta, rinvia ad altre voci, sì da non perder il filo. O meglio raccoglierne tanti ogni volta. In filigrana, dentro a queste storie fragili e delicate, vi è il tentativo di recuperare una memoria che, il più delle volte, si nutre di ciò che si è scordato, ma forse ancor di più è ricerca di tracce vive, che rimandano nei modi e nelle sfumature più inattese a un mondo caparbio e misterioso, che sta oltre il versetto biblico.

2. Le erbe dell’alimentazione

2.1. I CerealiDall’origine dell’agricoltura, i cereali sono le più importanti piante alimentari

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dell’uomo. Attualmente circa il 70% delle terre coltivabili è dedicato alla loro coltivazione e più del 50% delle calorie consumate dall’uomo viene fornita da queste piante, che hanno un ruolo fondamentale nell’alimentazione dell’uomo e degli animali, e il cui termine si ritiene derivi dal latino cerealis (un mito relativo alla dea Cerere, protettrice delle messi e che risalirebbe a quello della divinità greca Demetra, all’egiziana Iside e quasi certamente da collegarsi al culto di Cibele, l’antica “dea madre” delle popolazioni dell’Asia Minore. Lo stesso nome Cerealis, a sua volta, deriverebbe da ker, termine di origine orientale).Pare che la scoperta dei cereali sia avvenuta sulle pendici del monte Zagros, in quelle terre che appartenevano all’antica Babilonia, migliaia e migliaia di anni fa (Dal Corno, 2007). L’intuizione era venuta quando l’uomo si accorse che le spighe di certi cereali selvatici, appartenenti al genere Triticum, appena maturate scoppiavano e disperdevano i loro semi, che, a loro volta, affondavano nel terreno, e dopo un po’ di tempo generavano altre piante, altre spighe, altri semi. Ora, il genere Triticum definisce l’insieme delle piante che, nella lingua corrente, possono essere denominate “grano”. Le loro caratteristiche sono il risultato di una evoluzione, in larga parte voluta dall’uomo, che aveva provveduto, circa 10.000 anni a.C, alla domesticazione di alcune specie selvatiche, alla loro selezione e al loro incrocio, in quella mezzaluna di terra fertile che si estende dalla Palestina orientale ai primi contrafforti dell’altipiano iraniano. E’ là di solito che i documenti ci parlano di cereali; prima dell’orzo in Mesopotamia come in Egitto, poi del grande farro (Triticum turgidum;. Triticum dicoccum), della spelta minore o piccolo farro (Triticum monococcum L.), della spelta maggiore o grande farro (Triticum aestivum L.) e di altre granaglie selvatiche come i piselli, i ceci, le fave, le lenticchie. L’intuito stava nel far scoppiare le spighe, nel raccogliere i semi e nel trasportarli vicino alle abitazioni. Successivamente si intuì che era possibile unire i 28 cromosomi del grano selvatico dell’Iraq con i 14 cromosomi supplementari delle spighe barbate dell’Iran. Da quella unione è nato il nostro grano e con il grano, liberato dalla pula che lo rendeva ruvido e sostanzialmente immangiabile, la possibilità di consumarlo così com’era (Del Corno, 2007). A dimostrarlo, oltre alle oblazioni in Grecia e a Roma, vi è il Vangelo di Luca in cui si legge che i discepoli di Gesù “strappavano e mangiavano le spighe strofinandole con le mani”. Sono piante spesso identificate come sinonimo di civiltà poiché nelle prime società organizzate questi vegetali avrebbero assicurato alla popolazione residente gli elementi essenziali della dieta (grano ed orzo in Asia ed Europa;

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miglio e riso in Asia; frumento e orzo in Mesopotamia, in Egitto e in India; mais in Messico e Perù). Probabilmente il passaggio dalla raccolta alla coltivazione avvenne in modo impercettibile, osservando che i semi, lasciati dalle spighe o caduti casualmente nel terreno, assicuravano per l’anno seguente un raccolto abbondante. Torna il brano biblico:”E Dio disse: “Ecco Io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza,… essi costituiranno il vostro nutrimento” (Genesi 1, 29). Di questi cereali, il frumento è ancora coltivato; il panico e il miglio si trovano spontaneizzati nei luoghi ruderali.Anche questa è una storia che ci appartiene e cui apparteniamo tutti noi.

2.1.A. I cereali a chicco piccoloPanico (Panicum italicum L.), Miglio comune (Panicum miliaceum L.)

Specie erbacee annuali, originarie dall’Asia centro-orientale e biologicamente vicine. Nelle citazioni antiche erano indicate con lo stesso nome “Dohan”. Probabilmente sono tra i primi grani minuti utilizzati dall’uomo poiché richiedono poche cure e perciò particolarmente adatte ad essere coltivate da popolazioni primitive e seminomadi. A Rovigo, vivono spontanee in alcuni prati abbandonati alla periferia della città e in città in alcuni cantieri dismessi.

“Prenditi anche del frumento, dell’orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio, del farro, mettili in un vaso, fattene del pane…” (Ezechiele 4, 9 )

2.1.B. Il cereale a chicco grandeGrano o Frumento (Triticum durum L.)

“Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele.” (Deuteronomio 8, 7-8)

Il frumento era il cereale più ampiamente coltivato e al quale sono da affiancare altre piante erbacee, a ciclo annuale, originarie dall’Asia Minore e coltivate da tempi antichi nell’area mediterranea, per l’infiorescenza terminale che contiene chicchi secchi, duri, oblunghi, di color giallo e a sezione triangolare, che vengono consumati interi o convertiti in farina mediante la macinazione.

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Al genere Triticum afferiscono le specie T. aestivum o grano tenero e Triticum durum o grano duro, che sono quelle maggiormente utilizzate dall’uomo. Il loro ciclo vitale iniziava quando le prime piogge di ottobre / novembre ammorbidivano il terreno per poterlo lavorare. E in fondo, in tutta questa vicenda, si inserisce anche una precisa realtà storica che ritiene che nell’opera di osservazione, di selezione delle piante, che accompagnò la nascita della coltura della terra attorno ai primi villaggi, vi fosse una priorità femminile che aveva finito per suggerire a Mosè: “Se offrirai un’oblazione di primizie al Signore, offrirai l’oblazione delle tue primizie di spighe tostate al fuoco e di pane d’orzo mondato” (Levitico 2,14). I cereali “ebraici” più importanti erano il grano e l’orzo (Ezechiele 4, 9). Del grano Gesù, il Salvatore, parla come del granello di frumento che “caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore produce molto frutto” (Giovanni 12,24) in occasione della sua morte imminente. Di orzo era il pane miracolosamente moltiplicato da Gesù “…vi è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma cosa sono per tanta gente?” (Giovanni 6,9). Il grano tra le pagine della Bibbia si rivolge contro coloro che comprano con denaro i poveri e gli indigenti.

“Il Signore mi disse: “Ascoltate questo, voi che volete calpestare il povero e sterminare gli umili del paese; voi che dite:”Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E quando finirà il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo, falsificando le bilance per frodare, comprando il misero con denaro, e il povero per un paio di sandali? E venderemo lo scarto del grano”. (Amos 8, 4-7)

2.1.C. Coltivazione della terraIn filigrana, dietro queste storie quotidiane stanno i tempi di un’agricoltura biblica ritmata dallo scorrere delle stagioni, dai lavori nei campi, dalle principali feste ebraiche che accompagnavano i ritmi agricoli. Talvolta i testi biblici si riferiscono ad un solo cereale, più spesso ad un gruppo di essi. La ricca agricoltura egiziana viene descritta con precisione quando si narra delle “piaghe d’Egitto” inviate per punire il faraone:

“Fece piovere grandine su tutto il paese … il lino e l’orzo furono colpiti, perché l’orzo era in spiga e il lino era in fiore, ma il grano e la spelta non erano stati colpiti, perché tardivi…” (Es. 9, 25-31)

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Ma tra i significati più profondi legati al grano spicca quello derivato dal suo principale prodotto, il pane.

“Tu prepari agli uomini il grano, quando prepari così la terra; Tu adacqui largamente i suoi solchi, ne pareggi le zolle, l’ammollisci con le piogge, ne benedici i germogli; Tu coroni dei tuoi beni l’annata…” (Salmo 65, 9-11)

“Allora (il Signore, al posto del pane dell’afflizione e dell’acqua della tribolazione) / concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno, / e pane, come prodotto della terra: sarà abbondante e grasso. / In quel giorno, il tuo bestiame pascolerà su un vasto prato. E i buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno biada saporita, ventilata con la pala e con il vaglio”. (Isaia 30, 23-24).

Sono richiami che rinviano ad un’agricoltura in cui si accenna, oltre che ai cereali, al pane e a una “biada” saporita o salata. La Traduzione Ecumenica della Bibbia (TOB) ricorda un proverbio arabo: «Il foraggio dolce è il pane dei cammelli, ma quello salato è il loro companatico».Dentro sta la terra che era un bene inalienabile e che apparteneva solo a Dio; non poteva quindi essere venduta per sempre, ma solo per un tempo limitato, trascorso il quale, il proprietario primordiale doveva rientrarne in possesso. La legge intendeva, in questo modo, impedire l’accaparramento delle terre denunciato dai profeti.

«Il Signore disse a Mosè sul monte Sinai: “….Quando entrerete nel paese che vi do, per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dal seme caduto nella mietitura precedente e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un completo riposo per la terra.Ciò che la terra produrrà durante il riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà. Le terre non potranno essere vendute per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini». (Levitico 25, 3-7)

I brani che seguono, al di là del testo, inducono verso una tradizione agricola

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– aratura, seminagione, mietitura di cereali – con l’uso degli animali. Ad esempio, non era possibile arare aggiogando due animali appartenenti a specie diverse:

«Non arare con un bue e un asino insieme».(Deuteronomio 22, 10)

Era proibita anche la messa a dimora in un campo coltivato di semi appartenenti a specie diverse (es. frumento e orzo), come anche la commistione dei vestiti:

«Non seminerai il tuo campo con due sorta di semi, né porterai veste tessuta di due materie diverse». (Levitico 19,19)

Era però consentito porre altri semi ai margini del coltivo, probabilmente contro l’incertezza che crea angoscia, paura e inquietudine. Il testo sacro richiama una agricoltura efficace con accenno ai prodotti abbondanti del campo e all’arte di coltivare come ad un dono della sapienza di Dio.

«Porgete l’orecchio e ascoltate la mia voce, / fate attenzione alle mie parole. / Ara forse tutti i giorni l’aratore in vista della semina, / rompe e sarchia la terra? ./ Forse non ne spiana la superficie, / non vi semina la nigella e non vi sparge il cumino? / E non vi pone grano e miglio e orzo e spelta/farro lungo i confini? / E la sua perizia rispetto alla regola gliela insegna il suo Dio. / Certo, la nigella non si batte con il tribbio, /né si fa girare sul cumino il rullo, / ma con una bacchetta si batte la nigella / e con la verga il cumino. / Il frumento vien schiacciato, / ma non lo si pesta all’infinito; /e vi si spinge sopra il rullo /e gli zoccoli delle bestie non lo schiacciano. ». (Isaia 28,23-28)

Quando si mieteva il grano, si raccoglievano le olive o si vendemmiava la vigna, non si doveva tornare indietro. Le spighe, cadute a terra, le olive, che non erano cadute dall’albero, e i grappoli d’uva, che erano stati dimenticati, dovevano essere lasciati perché potessero raccoglierli i bisognosi.

«Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore benedica ogni lavoro delle tue mani. Quando abbacchi il tuo olivo, non ripassare ciò che resta indietro: sarà per il forestiero, per l’orfano e la vedova. Quando vendemmi la tua vigna, non tornare indietro a racimolare; sarà per forestiero, per l’orfano e

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per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto; perciò ti prescrivo di fare questo». (Deuteronomio 24,19-22)

Una tradizione cui si allude nella storia di Rut, un minuscolo libro ambientato all’epoca dei Giudici e che ancora si legge nella tradizione ebraica nella festa “della mietitura” o “delle settimane” che si celebra a distanza di sette settimane o di cinquanta giorni dalla Pasqua (da cui il nome di Pentecoste).

“Ruth, la Moabita, disse a Naomi: “Lasciami andare nei campi a spigolare dietro a colui agli occhi del quale avrò trovato grazia … Ed ella rispose: “Va’ figliola mia” Ruth andò dunque e si mise a spigolare dietro ai mietitori…”. (Ruth 2, 2-3)

Tutto ciò porta inevitabilmente a ricomporre un quadro sociale e culturale di un popolo che prestava attenzione al mondo della natura e che anche tra le pieghe delle erbe più comuni induce in un serrato dialogo con il proprio Dio, inaccessibile eppure vicino.

2.2. I LegumiI legumi contengono più proteine dei cereali e dal punto di vista nutrizionale rappresentano la seconda famiglia vegetale più importante. I semi sono ricchi di fibra insolubile, proteine, amido, grassi e contengono da due a tre volte più ferro, calcio e fosforo, se paragonati ai cereali. La parola legume viene dal latino “legumen” e significa seme trattenuto in un caratteristico contenitore. A produrre questi semi, per lo più eduli, sono delle piante erbacee, arbustive o arboree con foglie disposte lungo i rami prevalentemente in modo alterno e talora composte da molteplici foglioline.

Lenticchia (Lens culinaris Medic.)Erbacea annuale, gracile, semiprostata, pubescente con fusti ramificati, foglie tralora trasformate in un viticcio, fiori riuniti in infiorescenze; legumi corti e piatti che racchiudono semi piccoli, schiacciati, di gradevole sapore e di elevato valore nutritivo. È una delle leguminose di più antica coltura, come è dimostrato dalla scoperta che ne evidenziava la presenza, oltre 5000 anni fa, nelle tombe neolitiche europee, in tombe egizie e della tradizione biblica.

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Ha una notevole resistenza all’aridità e alla salinità dell’ambiente. I semi, se macinati, producono una farina da mescolare con quella dei cereali per impastare focacce; interi, sono un importante ingrediente per minestre e riportano alla “minestra rossa” per cui Esaù ha venduto la primogenitura..

“Giacobbe aveva cotto una minestra (di lenticchie) ed Esaù venne dalla campagna ed era sfinito. Esaù disse a Giacobbe: «Lasciami mangiare un po’ di questa (minestra) rossa, perché sono sfinito» – per questo fu chiamato Edom (rosso) –.E Giacobbe disse: «Vendimi subito la tua primogenitura». Rispose Esaù: «Ecco io sto morendo: a che mi serve una primogenitura?». Disse Giacobbe: «Giurami subito»; ed egli giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe.E Giacobbe diede a Esaù pane e minestra di lenticchie. Egli mangiò e bevve, si alzò e se ne andò: Esaù disprezzò la primogenitura” (Genesi 25, 29-34).

Un curioso episodio avvenne durante le guerre di Davide e dei suoi prodi

“I Filistei erano radunati a Lechì. In quel luogo vi era un campo pieno di lenticchie. Mentre il popolo fuggiva dinanzi ai Filistei, Samma (figlio di Aghé, in greco Asa) si piantò in mezzo al campo, lo difese e sconfisse i Filistei. E il Signore concesse una grande vittoria.” (2 Samuele 23,11)

Fava (Vicia faba L.)Pianta erbacea annuale con fusto eretto, foglie composte e fiori riuniti in brevi infiorescenze violacee. Il legumi sono oblunghi e compressi. I semi vengono usati freschi o secchi, sia per l’alimentazione dell’uomo sia degli animali, per l’elevato contenuto proteico. Richiede suolo argilloso, fresco, lavorato profondamente. Per millenni fu cibo fondamentale per i ceti più poveri. Viene coltivata fin dalla preistoria nei climi temperati e utilizzata per l’alimentazione nel Medio Oriente e nei paesi circostanti il Mediterraneo. Secondo la tradizione sarebbe derivata da culture avviate nel nordafrica. Il nome specifico (faba) sembra derivare dal sostantivo arabo habba o dalla voce bhabba (cosa che si gonfia) da una voce indoeuropea. Vista nei pressi di un orto abbandonato.

“Quando Davide fu giunto a Macanaim… portarono letti e tappetti, coppe e vasi di terracotta, grano, orzo, farina, grano arrostito, fave, lenticchie, miele e latte acido, formaggi di pecora e di vacca.”(2 Samuele 17,27-29)

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2.3. Le vicine di casa

2.3.A. Gli ortaggiNome generico con cui vengono indicate le piante alimentari che crescono nei piccoli o medi appezzamenti di terreno spesso adiacenti alle case, recintati da muro, siepi o reti metalliche e lavorati con un’assiduità e un impegno sconosciuto nei campi aperti. Vi veniva coltivata una grande varietà di erbe importanti perché fonte di vitamine e di sostanze minerali che frequentemente scarseggiavano nei principali componenti della dieta. Il nome viene dal latino ortus derivato dal latino oriri = nascere, sorgere. E’ uno degli spazi più significativi della vita quotidiana rurale, un frammento di terra, radicato nell’ambiente e che una ampia documentazione consente di interpretare come una appendice del podere o come una proiezione esterna della dimora cui era connesso. E’ un archivio di fatiche ove si trova sedimentata una cultura popolare essenzialmente pratica, edificata da mani, che non stavano mai ferme, e suggerita da pensieri che dovevano produrre qualcosa di utile e di nuovo.Della sua mancanza il popolo ebraico nel deserto si lamenta, ricordando il cibo saporito di cui si nutriva in Egitto, pur nella condizione di schiavitù.

“Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo / dei cocomeri, dei meloni, angurie, dei porri / delle cipolle e dell’aglio.” (Numeri 11,5-6).

Aglio (Allium sativum L.) Il termine aglio deriverebbe dal celtico all, cioè urticante, con riferimento al sapore del bulbo. E’ una pianta erbacea, bulbosa, forse originaria del Mediterraneo Orientale e conosciuta fin dalla più remota antichità per le sue proprietà toniche, antisettiche e antinfluenzali. Si narra che i faraoni dell’antico Egitto facessero consumare molto aglio agli schiavi proprio per prevenire le malattie infettive e renderli più forti nella costruzione delle piramidi. La nostra fitoterapia ha ampiamente documentato una riduzione del tasso di glucosio, colesterolo, trigliceridi, della pressione sanguigna e anche come antiaggregante piastrinico, vermifugo (essenzialmente contro gli ossiuri) e fungicida. I nostri contadini, fino a metà del secolo scorso, in caso di mal dei denti, lo facevano bollire in aceto e con il preparato praticavano sciacquiSvolge azione antisettica, ipocolesterolemizzante.

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Cipolla (Allium cepa L.)Pianta erbacea con un grosso bulbo costituito da un corpo centrale avvolto da numerose squame carnose, bianche, ravvolte da una sottile tunica membranosa di vari colori ritenuta originaria dell’Asia occidentale e diffusamente coltivata per il sapore e l’odore piccante. E’ una pianta biennale, dotata di proprietà diuretiche, antisettiche e vasodilatatrici, di limitato valore nutritivo, basso contenuto vitaminico. Il succo fresco è batteriostatico e fungicida, in grado di abbassare il tasso del colesterolo nel sangue dell’uomo. A scopo vermifugo, si assumevano oralmente , a digiuno, il macerato in vino bianco, del bulbo. Contro gli ascessi si coceva sotto la cenere il bulbo e si applicava in cataplasmi. Non sono da trascurare le qualità organolettiche e il sapore che conferisce ai cibi.

Porro (Allium porrum L.)La specie ha un bulbo appena accennato, costituito da foglie che vengono indicate con il nome di tuniche. Il vero fusto è accorciato ed ha la forma di un disco piatto (girello), su cui sono inserite le foglie e le radici.E’ ritenuta originaria dell’ Asia centrale, ove vive allo stato spontaneo; è stata diffusamente coltivata fin da tempi assai remoti nelle regioni del Medio Oriente e del Mediterraneo per il sapore e l’odore piccante, entrambi dovuti ai composti dell’allina. E’ apprezzata per le sue proprietà diuretiche, toniche e anti-infettive. E’ spesso rappresentata anche nei dipinti delle tombe egizie. Deriva dalla coltivazione di un aglio spontaneo e ora inselvatichito (Allium ampeloprasum).

Cocomero (Citrullus vulgaris (Thub.) Mansfeld); Melone (Cucumis melo L.) Erba annuale, con fusti striscianti, ramificati, pelosi e foglie larghe profondamente incise in lobi arrotondati e ricoperti da una fitta peluria; fiori isolati, ascellari, unisessuali, con corolla profondamente lobata, giallo chiara. Il frutto è un peponide succulento e dolce che contiene circa il 90% di acqua e il 9-10% di zuccheri (fruttosio, glucosio, saccarosio) variabile nella forma (globoso o oblungo) e nelle dimensioni. Nativo e addomesticato in Africa, il cocomero era già coltivato dagli Egiziani.

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“Ci ricordiamo dei cocomeri e dei meloni (angurie) [che mangiavamo in Egitto] “. (Numeri 11,5).

2.3.B. Le piante aromaticheL’uomo utilizza da tempi remoti varie sostanze accessorie che di per sé hanno scarso valore nutritivo, ma sono in grado di aumentare il sapore dei cibi. Molteplici piante, dotate di queste proprietà, crescono spontanee ovunque; altre sono diffusamente coltivate per l’estrazione dei principi attivi che possono essere contenuti in tutta la pianta o solo in alcuni organi (foglie, fiori, frutti, semi, radici, bulbi, tuberi, ecc.).

Aneto (Anethum graveolens L.)E’ una pianta erbacea annuale molto apprezzata dal popolo ebraico per il sapore gradevolmente aromatico. Alta circa un metro, sottile radice a fittone fibrosa, stelo eretto, ramoso nella parte superiore, foglie laciniate, di colore verde glaucescente; infiorescenze terminali ad ombrello composte da numerosi fiori gialli che compaiono in estate. I semi raccolti a perfetta maturità in estate, sono usati come aromatizzanti dei cibi, dell’aceto e dei liquori. Svolgono un’azione stimolante e contemporaneamente spasmolitica a carico degli organi dell’apparato digerente (favoriscono la secrezione del succo gastrico e facilitano pertanto i porcessi digestivi. Originaria dal Medio Oriente, da lungo tempo è coltivata negli orti ma si trova anche inselvatichita in alcuni luoghi erbosi.

“Guai a voi, che pagate la decima della menta e dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”. (Matteo 23,23-24).

Coriandolo (Coriandrum sativum L.) E’ una delle spezie di più antico uso. Il nome del genere (Coriandrum) deriva dal greco si chiama korìannon ed è correlato con kòris=cimice per l’intenso e sgradevole odore emesso dalle foglie e dai frutti acerbi quando vengono stropicciati.. Al limitato profumo delle foglie si contrappone il delizioso profumo dei semi secchi. Per le gradevoli caratteristiche aromatiche e digestive, viene usato per aromatizzare i cibi e come blando sedativo contribuendo ad aumentare la secrezione gastrica e quindi facilitando così i processi digestivi e antifermentativi a livello intestinale. Applicato

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esternamente sotto forma di linimento, l’olio manifesta proprietà antalgiche a livello muscolare e articolare, moderatamente narcotico e con proprietà antisettiche. E’ coltivato in alcuni orti e si è spontaneizzato in alcuni luoghi erbosi aridi.

“La casa di Israele la chiamò manna. Era simile al seme del coriandolo e bianca; aveva il sapore di una focaccia con miele”. (Esodo 16, 31)

Cumino (Cuminum cyminum L)E’ una pianta erbacea annuale, di modeste dimensioni, glabra, con foglie divise in sottili foglioline, fiori bianchi, semi scuri, detta anche “falso anice” per il sapore lievemente amaro, muschiato e aromatico, che facilitano la digestione. Viene indicato nelle forme dolorose gastriche ed intestinali accompagnate da flatulenza ed eruttazione. Si adoperava ampiamente nella preparazione di liquori, caramelle, dolci e per esaltare l’aroma del caffè. In tempi passati, l’offerta dei piccoli semi era un atto di benvenuto e di amicizia. E’ coltivato in alcuni orti. In veterinaria, veniva aggiunto al mangime per renderlo più gradevole, per eliminare i gas putrefattivi in conseguenza di un’anomala fermentazione intestinale. Semi di cumino figurano tra i reperti ritrovati nelle tombe dei faraoni. Il profeta critica la sua coltivazione, tipica dell’antico Egitto, esaltando quella del grano.

“Certo, l’aneto non si batte con il trebbio, / e il cumino con il rullo, / ma l’aneto si batte con un bastone / e il cumino con la verga.” (Isaia 28, 25-27)

Fanciullaccia (Nigella damascena L.)Erba annuale di modesto sviluppo, con foglie laciniate e fiori solitari di un tenue colore azzurro, spesso accompagnati da un vistoso involucro. Il seme è di colore scuro e da ciò viene il nome Nigella che deriva dal latina nigellus-niger - ner.E’ originaria dell’Asia Minore e ampiamente coltivata in una vasta area geografica compresa tra l’Egitto e l’India per i suoi semi che trovano impiego come spezie e nella medicina popolare. Anfore colme di olio estratto dai semi, che ora sappiamo erano usati per la cura dei disturbi intestinali e dell’apparato genitale, sono state rinvenute in diversi siti archeologici dell’Egitto come la tomba del faraone Tutankhamon. Ora sappiamo che dovevano accompagnare il faraone dopo la vita e, quindi, dovevano avere

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un ruolo rilevante nella società. La pianta manifesta una duplice attività, antistaminica e vasoregolatrice.Fino a qualche anno fa, era diffusa nelle colture del grano, ma non era difficile osservarla anche negli incolti aridi e lungo i bordi delle strade di campagna. Da quando è arrivata la civiltà dei diserbanti chimici, la sua capacità riproduttiva si è sempre più affievolita. A Rovigo, un cultivar viene coltivato a scopo decorativo in alcuni giardini privati e si è spontaneizzato tra le fessure di qualche marciapiede in alcune vie (via della Pace, via Sicchirollo, via De Polzer). I suoi semi nerastri hanno un sapore analogo a quelli del cumino e nella medicina popolare erano impiegati come digestivi e aromatizzanti.

“Porgete l’orecchio e ascoltate la mia voce, / fate attenzione alle mie parole. / Ara forse tutti i giorni l’aratore (in vista della semina), / rompe e sarchia la terra? / Forse non ne spiana la superficie, non vi semina la nigella e non vi sparge il cumino? / E non vi pone grano e miglio e orzo e spelta / farro lungo i confini? / E la sua perizia rispetto alla regola / gliela insegna il suo Dio.” (Isaia 28, 25-27)

Issopo (Hyssopus officinalis L.)Con questo nome nella Bibbia si indicano diverse piante; perciò la sua identificazione è controversa. Di certo l’issopo è un’erbacea della famiglia delle Lamiaceae, cespugliosa, con rametti eretti e ascendenti legnosi alla base; le foglie sono lanceolate e aromatiche; fiorisce in estate. L’ Hyssopus officinalis è diffuso in Europa e non si trova in Israele, ove piuttosto vive l’Origanum syriacum, appartenente alla stessa famiglia delle Lamiaceae (Zohary, 1983). Nell’Antico Testamento aveva una valenza sacra ed era usato durante le feste pasquali (Esodo 12,22), per purificare i lebbrosi (Levitico 14,4), contro la peste, e in alcuni riti di aspersione con l’acqua (Salmo 51, 7; Numeri 19, 6; Ebrei 9, 19), ecc. Alla pianta sono riconosciute proprietà espettoranti, antisettiche e stimolanti per cui viene impiegata nel trattamento delle forme catarrali dell’apparato respiratorio e nei raffreddori. Presenta proprietà aromatizzanti, digestive e carminative. In Italia è coltivata e spontaneizzata in molti luoghi. A Rovigo è coltivata in vaso e in alcune aiuole di orti, per aromatizzare insalate e cibi cotti. Si usano gli steli teneri prima della fioritura. Unitamente ad altri componenti (bacche di ginepro, cannella, chiodi di garofano, ecc), veniva usato per preparare un liquore dalle proprietà stimolanti detto “dei frati”.

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“Prenderete un fascio di issopo, lo intingerete nel sangue che sarà nel catino, e spruzzerete di quel sangue che sarà nel catino, l’architrave e i due stipiti” (Esodo 12,22)

Un accostamento crudele avviene durante la Passione di Cristo.

“Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a un ramo di issopo e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto». E chinato il capo spirò.” (Giovanni 19,28-30).

Menta (Mentha sp.pl) E’ una erba con rizoma stolonifero e fusti tetrangolari, con spigoli lisci, eretti, ramificati, di color verde. Le foglie sono brevemente picciolate, opposte e allungate con apice acuto e margine seghettato. I fiori sono piccoli e riuniti in un’infiorescenza conica. La storia di questa specie risale ai millenni dell’antica medicina orientale e mediterranea come è testimoniato nel “papiro di Ebers” del 1550 a.C. in Egitto. Le specie appartenenti al genere Mentha si ibridano fra loro con molta facilità e da questi scambi genetici si sviluppano individui con notevole variabilità, sia nell’aspetto (dimensione della pianta e morfologia delle foglie), sia nella ricchezza delle componenti aromatiche. Nel mondo contadino le foglie venivano utilizzate nei disturbi dell’apparato gastrointestinale per le proprietà stomachiche, coleretiche, antispasmodiche e carminative e per profumare il tabacco. A ciò si aggiunge un’azione di stimolo generale a carico del sistema nervoso che determina un’attività corroborante.

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché pagate la decima della menta,, della ruta e d’ogni erba, e trascurate la giustizia e l’amore di Dio” (Luca 11,42)

Ruta (Ruta gravaeolens L.) E’ una pianta erbacea selvatica o coltivata con radice legnosa e fusto eretto, dall’odore caratteristico e sgradevole e che conosce un uso antico come emmenagogo a dosaggio piccolo, mentre, a dosaggi più elevati, risulta ossitocitica e abortiva. Cresce nei luoghi aridi, poveri e rocciosi, nelle posizioni più calde e soleggiate. E’ sfuggita alle coltivazioni dell’orto ove era coltivata come erba aromatica di uso domestico. Spesso nella civiltà

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contadina del secolo scorso era considerata una pianta magica, una sorta di talismano contro ogni malattia, al punto che in certe abitazioni veniva coltivata, a scopo propiziatorio e apotropaico, accanto all’uscio per tenere lontano le streghe, i malefici e le bestie velenose. Rientra nella composizione dell’aceto dei 4 ladroni che compare a Tolosa durante la terribile peste del 1628-1631 e il cui uso consentiva di non essere contagiati

“Guai a voi, farisei, perché pagate la decima della menta, della ruta e di tutte le erbe, ma poi trascurate la giustizia e l’amore di Dio” (Luca 11, 42)

Senape (Brassica nigra Koch) Pianta erbacea annua, proveniente dall’Asia Minore. Ha un fusto eretto, ispido e ramoso. Le foglie della rosetta basale sono glauche, ispide, in genere ricoperte di una pruina cerosa. I fiori gialli, riuniti in infiorescenze. Di questa pianta si usano i semi, piccolissimi (circa 500 per grammo) per l’estrazione dell’olio, di un colore che vira dal giallo al rosso, al bruno nero. Occupa i terreni incolti come pianta infestante. L’uso dei suoi semi, consacrato da una antichissima tradizione popolare, era un valido antidoto contro i veleni e per curare, mediante l’applicazione di cataplasmi umidi, bronchiti, tossi, raffreddori. Agli Ebrei era stato promessa la salute fisica in cambio dell’osservanza della legge di Dio.

“A che cosa posso paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senape che quando viene seminato in terra, è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra. Ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gi ortaggi e fa ramni tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra”. (Luca 13,18-19)

Questa parabola del regno di Dio si trova anche in altri due Vangeli sinottici Marco (4, 30-31) e Luca (13, 18-19).

3. Le erbe amare, le erbe dell’umiliazione e della prigionia

Sul monte Sinai, l’Eterno non si è accontentato di incidere sulle tavole la legge. Dopo l’uscita dall’Egitto, prescrisse altri riti “Si mangi…, con pane senza lievito e con delle erbe amare” (Esodo 12, 8) con cui il suo popolo avrebbe dovuto ricordare la propria storia. Perciò, ogni anno la sera di

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Pasqua (che in ebraico si dice Pesach = passaggio e che è uno dei riti più antichi esistenti di tutte le tradizioni religiose), gli ebrei si siedono intorno alla tavola e vi pongono in mezzo un grande vassoio, smaltato di Pesach, con i cibi tradizionali: la zampa anteriore arrostita di un agnello, per ricordare quello che era stato ucciso in Egitto perché si potessero macchiare gli stipiti della case per essere riconosciuti dal loro Dio di passaggio sulla terra d’Egitto. Accanto alla zampa è accostata una ciotola di maror o erbe amare, per ricordare il gusto aspro dell’umiliazione e della prigionia. Su altri piatti separati e che stanno attorno al vassoio centrale sta un uovo cotto, come simbolo di vita; i carpas, le erbe primaverili amarognole (es prezzemolo, tarassaco, cicoria, crespigni), per ricordare la stagione della primavera e la rinascita, ma intinte nell’acqua salata per richiamare le lacrime della schiavitù. Accanto c’è il charoset , mele e nocciole tritate con vino, che rappresenta la malta con cui gli ebrei schiavi preparavano i mattoni che servivano per erigere le piramidi del faraone. Infine c’ è anche il piatto di matzot, quel pane azzimo (dal greco azùme = senza lievito), un particolare pane non lievitato che assomiglia ai nostri cracker poiché la storia racconta che quando gli ebrei lasciarono l’Egitto, non ci fu tempo di aspettare che la pasta lievitasse.Le erbe amare, diffuse nella nostra città, sono la cicoria (Cichorium intybus), la lattuga (Lactuca sativa), il tarassaco (Taraxacum officinale), il rafano (Armoracia rusticana), il romice (Rumex sp.pl.), la cicerbita (Sonchus oleraceus), la ruta (Ruta graveolens), i vari cardi ecc. Sono piante che svolgono una notevole protezione contro le malattie degenerative le malattie cardio-vascolari e i disordini neurologici. Recenti ricerche sulle proprietà dei metabolici secondari di queste piante selvatiche presenti nei prati e nei terreni abbandonati, appaiono particolarmente interessanti per il loro alto contenuto in polifenoli e la elevata attività antiossidante. Tutte ora sono occasione per suggerire il respiro di una storia che è esistita nel tempo e che ora torna a ricorda i periodi dell’umiliazione, dell’amarezza e dell’esilio.

Assenzio (Artemisia absinthium L.) Pianta perenne, alta circa un metro. Il fusto è legnoso con molte foglie alterne. I fiori sono riuniti in una infiorescenza apicale. Vive bene nei terreni argillosi, secchi e incolti. In Palestina crescono varie specie di assenzio. Sembra che nella Bibbia si alluda all’A. alba o all’A. judaica (Zohary, 1983). Ambedue hanno un sapore amarognolo. perciò la pianta è divenuta simbolo di preoccupazione, di amarezza, di sventura, di veleno. Il sapore amaro è dovuto alla presenza di

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un principio attivo (absintina) che agisce eccitando le terminazioni nervose della mucosa orale e stimolando così, per via riflessa, la secrezione del succo gastrico. Perciò, l’infuso dell’intera pianta era assunto oralmente come aperitivo, mezz’ora prima dei pasti, o dopo come digestivo. Si ricorda che sui Colli Euganei, una foglia, per il suo sapore forte e amaro, veniva strofinata sul seno della madre per svezzare il bambino. A Rovigo, viene coltivata in qualche orto domestico anche per preparare con le parti aeree una grappa digestiva. E’ comunque una delle più antiche piante medicinali, conosciute come un vero e proprio rimedio universale.

“Eccomi: io nutrirò questo popolo di assenzio e gli farò bere acque avvelenate.” (Geremia 9,14)

“Cadde dal cielo una grande stella... Il nome della stella è Assenzio; e la terza parte delle acque divenne assenzio e molti uomini morirono a causa di quelle acque, perché erano divenute amare.” (Apocalisse 8,8-10)

Cicoria (Cichorium intybus L.) Erbacea perenne, spontanea, cresce nei campi e nei terreni sabbiosi. Il fusto è eretto, alto circa un metro o prostrato, con aspetto zigzagante; i fiori azzurri sono riuniti in infiorescenze, le foglie semplici e per lo più a margine frastagliato. Appartiene a una famiglia delle Asteraceae, che comprende altre piante chiamate cicoria, a radice edule e carnosa, o di cui si utilizzano le foglie in insalata. La radice ha un diametro di circa 3 cm e una lunghezza di oltre mezzo metro. Era tra i cibi contadini più conosciuti, soprattutto per le sue proprietà nutrizionali e per le virtù depurative, diuretiche e blandamente lassative. L’infuso delle foglie era assunto oralmente il mattino, alla dose di un bicchiere, nel trattamento primaverile della stanchezza. Uno studio risalente a metà del secolo scorso ha evidenziato blande proprietà antidiabetiche. Tali proprietà sono presenti anche nell’acqua di cottura che, se assunta oralmente, aiuta a depurare il sangue. Le radici essiccate, torrefatte e macinate venivano utilizzate come succedaneo del caffè. Cichorium viene dal greco Kichorion: secondo alcuni di origine egiziana, per altri, da Kio=io vado e Chorion= campo, perché si incontra nei campi.

“In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco: la mangeranno con azzimi ed erbe amare.” (Esodo 12, 8)

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Cardo (Silybum marianum Gaertn.) Con tale nome nella Bibbia viene citata una ventina di piante. Si tratta di piante spinose con fusto eretto, semplice o con pochi rami, nudo e ragnateloso in alto, usato anche per formare barriere. Simboleggiano il risultato di inutili sforzi e la testimonianza di un giudizio divino sugli empi. Secondo alcuni autori, sembra che si intenda riferirsi, in particolare, al cardo mariano, un’erba biennale, antiepatotossica e antiossidante, un po’ ragnatelosa sul fusto, con foglie chiazzate di bianco lungo le nervature, con margini provvisti di denti forniti di spine gialle. E’ diffusa sui bordi delle strade, sui campi. Il nome volgare (cardo mariano) indica una specie le cui foglie, verdi e lucide, maculate di bianco, che sarebbe stato provocato da gocce di latte cadute dal seno della Madonna quando la pianta si era prestata a nascondere la Sacra Famiglia, inseguita dai soldati di Erode.La pianta veniva coltivata come verdura, se ne utilizzavano le radici bollite, i capolini come succedanei dei carciofi e le foglie tenere con aroma analogo allo spinacio.Si mangiavano anche i fusti decorticati e conservati sotto aceto o sotto olio, mentre un infuso delle foglie in una tazza d’acqua bollente, era assunto oralmente per ridurre la febbre e sedare l’arsura del paziente.

“Tu, figlio dell’uomo (Ezechiele), non temere le loro parole; saranno per te come cardi e spine, e ti troverai in mezzo a scorpioni; ma tu non temere le loro parole, non ti impressionino le loro facce, sono una genia di ribelli. Tu riferirai loro le mie parole, ascoltino o no” (Ezechiele 2,6-7).

Rucola (Eruca sativa L.) Erba spontanea annua, dal sapore piccante, diffusa, pur essendo pianta mediterranea, su tutto il territorio italiano. Vive spontanea qua e là ai bordi di campi e strade, fra le macerie, ma spesso è coltivata anche negli orti poiché le sue foglie insaporiscono le insalate. Il decotto veniva assunto oralmente per facilitare la digestione, sedare l’aerofagia e migliorare la funzionalità intestinale.Per Zohary la specie biblica si identifica nell’Eruca sativa; per Cultrera nelle coloquintidi= Cucumis colocynthis; per la CEI nelle “zucche agresti” = Bryonia dioica L.).

“Eliseo tornò in Galgala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui, egli disse al suo servo:

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«Metti la pentola grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse oroth (=rucola) e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c’è la morte, uomo di Dio!». Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina». Versatala nella pentola, disse: «Danne da mangiare alla gente». Non c’era più nulla di cattivo nella pentola.” (2 Re 4,38-41).

3.A. AlimentazioneTutte queste erbe riverberano l’eco di stagioni remote, di cibi condivisi, di vite cariche di amore, di fatiche e di profumi. Per secoli, anche le nostre donne di campagna con il loro ripetitivo andare avanti e indietro tra i prati incolti, lungo i filari e lungo le straducce di fango pietrificato, continuarono a coglierle per assortire insalate crude e per mettere insieme una minestra o un piatto di verdure lesse. Ora testimoniano una storia antica, densa di particolari e di immagini quasi pittoresche nei loro tratti umani fatti di abitudini e di confidenze. E che interpretano e gonfiano di significati ogni momento. Affiora una cultura gastronomica del territorio quando la fame e le ansie della penuria avevano finito per aguzzare l’ingegno, affinare le abilità, moltiplicare le esperienze e ora rinviano a consuetudini cariche di storia e di ritratti umani che sanno di antico, e che sono trascorse di tempo in tempo con i ricordi che si accavallano uno sull’altro, con i racconti che emergono dalla memoria pronta a suggerire un’alimentazione imperniata sulla coltura dei cereali, dei legumi, delle erbe dell’orto e poi della vite, dell’olivo e di alcuni alberi da frutto. Sono le “piante della civiltà contadina” attorno a cui si andò formando un sistema alimentare, assai articolato e variegato, non solo ebraico. La prima immagine di questo tipo di alimentazione induce a riflettere su una gastronomia “locale” aperta verso l’orto, il campo e il prato, realtà naturalistiche ricche di profondi significati umani e perciò difficili da immaginare senza rapportarle all’uomo, alle sue azioni, alle sue idee, ai suoi progetti spesso condizionati da sensi di attesa, di speranze, di sogni. Per la maggior parte di questa gente grano, vite, ulivo sono stati i punti di forza di un’ alimentazione a forte caratterizzazione vegetale, impostata sul pane, sulle farinate, sul vino, sull’olio e sulle verdure. Il tutto era integrato da carne e formaggio proveniente per lo più da pecore e capre che frequentavano i nostri prati incolti. Da qui la necessità di incontrare il mondo biblico che spesso ha dovuto fare i conti con le carenze tecniche dell’epoca e con le

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complesse condizioni geografiche, pedologiche e climatiche necessarie per ottenere una buona produzione. Per quella società, il vino, l’olio e il pane, soprattutto il pane, caratterizzarono un regime alimentare povero cui si attenevano i contadini e più in generale i ceti subalterni. Ciò non significò che solo i contadini e i poveri fossero consumatori di pane. Lo erano anche i signori che ne consumavano, ma di qualità diversa. In questo tipo di dieta, la carne e il pesce erano cibi di lusso, riservati per lo più ai ricchi, fatta eccezione per i periodi di festa (Gower, 2001)Nel tempo, il pane divenne qualcosa di più; si intrise di profumi e sapori in cui si sono stratificate memorie ancestrali, valori simbolici, usi e connotazioni sociali e culturali tali da considerarlo espressione della stessa vita. Unitamente al vino e all’olio divennero simboli alimentari sacri e strumenti per una religione, sorta in ambito mediterraneo, che traeva dalla coltura del grano, della vite e dell’olivo riferimenti ed immagini per divulgare i suoi messaggi, per spiegare i suoi misteri, per alimentare i suoi riti. Vi è un sermone di Agostino che identifica la preparazione del pane con la formazione del cristiano:”Questo pane racconta la vostra storia. E’ spuntato come grano nei campi. La terra l’ha fatto nascere, la pioggia l’ha nutrito e l’ha fatto maturare in spiga. Il lavoro dell’uomo l’ha portato sull’aia, l’ha battuto, ventilato, riposto nel granaio e portato al mulino. L’ha macinato, impastato e cotto in forno. Ricordatevi che questa è anche la vostra storia.”Il brano si dischiude verso un’alimentazione povera, monotona e razionata, in tempo di carestia

«Prendi grano, orzo, fave, lenticchie, miglio, spelta/farro; mettili in un recipiente e fattene del pane. Ne mangerai durante tutti i giorni che tu rimarrai disteso sul fianco, cioè 190 giorni. Il cibo che prenderai sarà del peso di venti sicli al giorno“ (meno di 200 grammi)». (Ezechiele 4,9)

Quindi farina per fare pani e focacce, come era accaduto ad Abramo quando chiese a Sara di impastare per ristorare gli angeli in visita alle querce di Mamre per annunciare la nascita di Isacco. “Prendete un pezzo di pane e vi fortificherete…” (Genesi. 18,5). Quel cibo, oltre ad esser un indice di una identità contadina, diventa, al tempo stesso, uno strumento e un documento per capirla, esprimerla e comunicarla.Stride nel ricordo nostalgico del cibo saporito dell’Egitto, la presenza della fame e della manna, il cibo quotidiano, povero e semplice che fa dimenticare la preziosa libertà guadagnata.

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«La gente raccogliticcia, che era tra il popolo, fu presa da bramosia, ma di cibo; anche gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: “Chi ci potrà dare carne da mangiare. Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna”. (Numeri 11,4-7)

Il nutrimento fondamentale in Israele viene sintetizzato anche nei doni portati dagli amici per soccorrere Davide che fuggiva dopo il colpo di stato del figlio Assalonne.

«Quando Davide giunse a Macanaim… portarono letti e tappeti, coppe e vasi di terracotta, grano, orzo, farina, grano arrostito, fave, lenticchie, miele acido, latte acido e formaggi di pecora e di vacca, per Davide e la sua gente perché mangiassero; infatti dicevano: “Questa gente ha patito fame, stanchezza e sete nel deserto”». (2 Samuele 17,28-29)

Torna in filigrana il ricordo di un’abbondante offerta di Abigail, moglie di Nabal, che si era rifiutata di offrire beni a Davide e ai suoi compagni, come prezzo della “protezione” concessa ai suoi greggi, mediante il controllo del territorio. Davide ne riconoscerà la saggezza e, quando il marito morirà, la manderà a prendere come sposa.

«Abigail allora prese in fretta duecento pani, due otri di vino, cinque arieti preparati, cinque misure di grano tostato, cento grappoli di uva passa e ducento schiacciate di fichi secchi e li caricò sugli asini».(1 Samuele 25,18)

Non mancano, come già possiamo intravedere dai brani citati, indicazioni sul modo di preparare il cibo. Oltre al pane misto di Ezechiele, all’uva passa e alle schiacciate di fichi secchi, si ricordano il pane all’olio e la focaccia cotta sulla piastra.

«Il Signore parlò al profeta Elia e disse: “Alzati, va’ a stabilirti in Zarepta di Sidone (una città fenicia, oggi Sarafand). Ecco io ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo”. Egli si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere”.Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Prendimi anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio;

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ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”.Elia disse: “Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra”.Quella andò e fece come aveva detto il profeta Elia. Mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia».(1 Re 17, 8-16)

«Elia impaurito si alzò e se ne andò per salvarsi… Si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò. Sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb».(1 Re 19,4-5)

La preparazione delle minestre è ricordata più volte, come la minestra immangiabile, preparata forse con rucola o altra erba amara, che i “figli dei profeti” ritengono avvelenata e che il profeta Eliseo rende commestibile con una manciata di farina (2 Re 4,38-41). La più famosa è probabilmente la minestra di lenticchie: per un piatto di lenticchie Esaù vendette la primogenitura a Giacobbe.

«Giacobbe aveva cotto una minestra (di lenticchie) ed Esaù venne dalla campagna ed era sfinito. Esaù disse a Giacobbe: “Lasciami mangiare un po’ di questa (minestra) rossa, perché sono sfinito”. E Giacobbe disse: “Vendimi subito la tua primogenitura”. Rispose Esaù: “Ecco io sto morendo: a che mi serve una primogenitura?”. Disse Giacobbe: “Giurami subito”; ed egli giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. E Giacobbe diede a Esaù pane e minestra di lenticchie. Egli mangiò e bevve, si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura». (Genesi 25,34)

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In un passo, alcune traduzioni vorrebbero riconoscere un’allusione ai ceci, ma sembra trattarsi piuttosto di foraggio per animali, forse “biada saporita o salata” che ricorda un proverbio arabo: «Il foraggio dolce è il pane dei cammelli, ma quello salato è il loro companatico».

«Allora (il Signore), al posto del pane dell’afflizione e dell’acqua della tribolazione concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno, e il pane, come prodotto della terra: sarà abbondante e grasso. In quel giorno, il tuo bestiame pascolerà su un vasto prato. E i buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno biada saporita, ventilata con la pala e con il vaglio».(Isaia 30,23-24).

Al cibo insipido o saporito rinvia il documento seguente.

«Raglia l’asino sulla sua erba / o ruggisce il toro sulla sua biada/foraggio? / Si mangia forse un cibo insipido? / Che gusto c’è nell’acqua o infuso di malva?». (Giobbe 6,5-6)

4. Per prati e dintorni

“Ogni uomo è come erba / e ogni sua gloria come un fiore di campo. / L’erba si secca, il fiore appassisce / quando il vento del Signore soffia su di essi …”. (Isaia 4, 6-8)

L’attività trasformatrice dell’uomo ha alterato la pianura anche attorno alla nostra città ove gli ecosistemi più estesi e maggiormente soggetti all’azione di disturbo sono gli agroecosistemi. Altri ambienti, meno estesi ma sottoposti a “disordini”, sono i margini delle strade e delle ferrovie, i terreni e le scarpate smosse, le discariche, i cumuli di macerie e i ruderi. In queste situazioni si sviluppano le vigorose “malerbe” che sono indesiderate e combattute ogni volta che si voglia privilegiare una specie coltivata. Le loro caratteristiche salienti sono lo spiccato opportunismo, che si traduce nell’approfittare di ogni temporaneo aumento di risorse. Il loro valore ecologico è quello di essere piante pioniere e colonizzatrici di suoli ricchi di nutrimenti, ma sconvolti da drastici interventi. Tutte hanno in comune una strategia biologica “opportunistica”, perché investono notevoli quantità di energia nella riproduzione sessuale e nella diffusione della specie.La conseguenza più vistosa è la presenza accanto e dentro le colture agrarie e lungo i bordi delle strade di una vegetazione ruderale, un termine derivato dal latino rudus = detrito, formata dalle piante spontanee più diffuse, più

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conosciute e più adattate a convivere con i disturbi e gli stress ambientali indotti dalle molteplici attività umane. Appartengono a questa categoria, il papavero (Papaver rhoeas), il loglio (Lolium temulentum), la nigella (Nigella damascena), il fiordaliso (Centaurea cyanus), la camomilla (Matricaria camomilla) e tante altre piante vagabonde giunte da queste parti in modo più o meno clandestino. Nelle colture di cereali, che fioriscono da aprile a luglio, vi sono specie come la malva (Malva sylvestris), la cicoria (Cichorium intybus), la gramigna (Agropyron repens), il loglio (Lolium temulentum), l’ortica (Urtica sp.pl), ecc. Molte vengono simbolicamente citate nel Libro Sacro. Ma “i fiori di campo” sono veramente tanti che è impossibile nominarli tutti.

4.1.A. La vegetazione degli ambienti disturbati Alcune di queste erbe si addensano un po’ qua e un po’ là, anche in alcuni angoli remoti della nostra città tra la vegetazione delle strade e dei “ruderi”, nelle aiuole di qualche orto privato, sul davanzale di alcune abitazioni e in molteplici luoghi incolti (zone dismesse nei pressi dell’ospedale, lungo gli argini dell’ Adigetto, in cantieri edili abbandonati, lungo i bordi strada, tra le fessure dei marciapiedi, nei luoghi abbandonati, …). A descrivere questo ricco, disordinato ordine, Alessandro Manzoni, appassionato coltivatore della terra, nei “Promessi Sposi”, descriveva la vigna abbandonata di Renzo: ”Una fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della mano dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radichelle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettanti piante, di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce.” Un gruppo eterogeneo con alcuni esemplari che si rincorrono tra le pagine del Libro.

Loglio, Zizzania (Lolium temulentum L.)Nome con cui si indicano alcune specie di piante annuali o perenni, di taglia media, con fusti, talvolta fragili ed esili, glabri, lucidi, sottili, spontanei, pigmentati di rosso alla base e diffuse nelle regioni temperate di tutto il mondo. Un tempo era una comune infestante delle culture di cereali, particolarmente nelle regioni perimediterranee e poteva essere causa di avvelenamenti dei foraggi o delle farine inquinate dalle sue cariossidi. Tuttavia, va precisato che questa velenosità non deriva direttamente dal Lolium, ma piuttosto è il prodotto della simbiosi con un fungo che vive nei suoi semi e che secerne diversi principi attivi nocivi che potevano contaminare la farina e indurre

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gravi disturbi.

“Il regno dei cieli è paragonato a un uomo che seminò un buon seme nel suo campo. Mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, seminò fra il grano la zizzania e se ne andò…..Lasciate che l’uno e l’altra crescano insieme sino al tempo della messe, e allora dirò ai mietitori che prima raccolgano la zizzania e la leghino in fasci per essere bruciata;…” (Matteo 13, 24-30)

Malva (Malva sylvestris L.)E’ una erbacea, bienne o perenne, molto comune nei luoghi erbosi ed incolti, con fusto prostrato od eretto, cespuglioso, striato, legnoso alla base e coperto da una ispida peluria di color verde rossiccio. Le foglie sono alterne, con un lungo picciolo e la lamina palmata, tondeggiante e divisa in cinque lobi. I fiori di color roseo striati di rosso, crescono in gruppi da due a sei alla base dell’ascella delle foglie. Cresce nei luoghi ruderali, perciò è comune nei prati, presso le discariche, i bordi delle strade, le rive dei fossati, le fessure dell’asfalto e dei marciapiedi. La droga è rappresentata dai fiori e dalle foglie che venivano usate nella medicina popolare in tutti gli stati infiammatori e per guarire foruncoli, ascessi dentali, gengiviti e punture di api. Le foglie giovani, da queste parti, si mangiavano crude o lessate in mescolanza con altre erbe di campo, come il farinello (Chenopodium album), l’ortica (Urtica sp.pl.), il radicchio selvatico (Cichorium intybus), il tarassaco (Taraxacum officinale),.. La moderna fitoterapia le attribuisce un’attività antinfiammatoria sulla mucosa dell’apparato respiratorio e come antiflogistico per gargarismi e sciacqui orali. Le foglie unite a semi di lino venivano date da mangiare alle mucche per ripristinare la ruminazione.

“Raglia l’asino sulla sua erba o ruggisce il toro sulla sua biada/foraggio? Si mangia forse un cibo insipido? O che gusto c’è nell’acqua o infuso di malva?” (Giobbe 6, 6-7)

Ortica (Urtica dioica L.; Urtica urens L.)Pianta erbacea spontanea e perenne caratteristica degli ambienti ruderali, ricchi di azoto. Il fusto e le foglie sono coperte di fitti peli urticanti che secernono un liquido caustico. Il meccanismo del processo è abbastanza semplice. Le pareti dei peli sono uniformemente calcificate, meno che alla punta ove, invece, sono silicizzate e fragili: al momento del contatto della pelle con la parte del pelo terminale, sottile, viene portata via mentre il pelo,

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grazie alla parte restante più dura, penetra nella cute riversandovi i prodotti secreti (istamina, acetilcolina, acido formico,…) che provocano l’irritazione. Si riproduce con notevole facilità. Il decotto delle foglie e degli steli era assunto oralmente ed applicato esternamente per il trattamento delle malattie cutanee. I giovani germogli si mangiavano, dopo cotti, come gli spinaci, nelle minestre, nelle frittate nei risotti e nelle zuppe. Curiosa era la consuetudine di sceglier ove mettere gli alveari nei luoghi più frequentati dalle ortiche, per impedire alle rane di avvicinarsi. L’infuso delle foglie ha effetto diuretico, depurativo, antinfiammatorio, ricostituente e rimineralizzante. Dal fusto si ricavavano delle fibre tessili molto robuste.

“Moab diventerà come Sodomia e gli ammoniti come Gomorra, una terra dominata dalle ortiche e dalle cave di salgemma: sarà una terra desolata in eterno.” (Zafania 2, 9)

4.1.B. La vegetazione degli ambienti palustriPer vegetazione palustre si allude fondamentalmente a piante che emergono dal ristagno dell’acqua e si reggono “in piedi” da sole. La prima immagine è quella dei canneti, un’associazione vegetale strettamente legata ad affioramenti idrici ed a suoli variamente umidi ma non completamente sommersi, e frequentati dalla cannuccia palustre (Phragmites australis) (anche se da un punto di vista strettamente botanico di canne ve ne sono di vari tipi). La cannuccia si accontenta di un suolo umido e riesce a risalire per un buon tratto le rive e gli argini degli ambienti circostanti. Non appena il livello medio dell’acqua lo consente, si insediano altre comunità di erbe palustri, che emergono per gran parte del loro corpo vegetativo, e da quelli dominati dalla tifa a foglie sottili (Typha angustifolia) seguita dalla tifa a foglie larghe (Typha latifolia). Tutte tollerano periodi più o meno lunghi di emersione e contribuiscono a preparare l’interramento del substrato su cui successivamente radicherà qualche arbusto idrofilo.In questi luoghi non è infrequente notare oltre la presenza tra i canneti di giunchi (Juncus sp.pl.), papiri (Cyperus sp.pl.), canne comuni (Arundo donax L.), e molte altre piante di ripa (es. carici). Tutt’intorno stanno le malerbe ad indicare una contiguità ecologica tra questa vegetazione pioniera di suoli ricchi e disturbati e la vegetazione, anch’essa pioniera, che vive nel sistema antropogeno delle colture agrarie.Alcune di queste presenze “verdi” si addensano anche fra le pagine del Libro Sacro, un libro aperto dagli esiti imprevedibili.

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Canna comune (Arundo donax L.)E’ una erbacea legnosa, perenne con fusto robusto, alto oltre i tre metri e con lunghe foglie larghe circa cinque centimetri e una pannocchia che può arrivare fino a 50 centimetri ) presente nei luoghi sabbiosi ed umidi. Il decotto dei germogli teneri era assunto oralmente come antinfiammatorio sistemico in primavera. Presso gli orientali è simbolo di fragilità e flessibilità, ma soprattutto di vita, poiché è la prima forma vegetale a comparire sugli argini del fiume dopo la siccità.Nella Bibbia è stata usata per misurare il nuovo tempio previsto dal profeta Ezechiele.

“L’uomo aveva in mano una canna da misurare, lunga sei cubiti, ogni cubito d’un cubito e un palmo. Egli misurò la larghezza del muro, ed era una canna; l’altezza era una canna.” (Ezechiele 40,5 e seg.)

Cannuccia palustre (Phragmites australis L.)In Polesine, la Cannuccia di palude appartiene a una delle associazioni vegetali presochè ubiquitaria e cosmopolita che si insedia nelle zone dove l’acqua è più superficiale e che conferisce al paesaggio una caratteristica impronta: popolamenti assai compatti, chiusi, monotoni che talora annoverano anche molteplici altre specie con cui si formano robuste cortine alla base degli argini fluviali, nelle golene, negli acquitrini, nei ruscelli e in ambienti rimaneggiati da attività umane. E’ una pianta perenne con grosso rizoma che emette stoloni, e che si erge con il fusto, molto grandi, vuoti e lignificati; porta foglie persistenti, lunghe anche mezzo metro, che, in parte, lo avvolgono. I fiori, piccolissimi, sono riuniti in una infiorescenza di colore violaceo, lunga e compatta, posta all’apice del fusto. Caratteristico l’uso che se ne faceva dei pennacchi fioriferi per confezionare scope e dei fusti per arelle, graticci e tetti per le capanne. I germogli erano consumati sia crudi, sia cotti; le radici fresche per stimolare la fuoriuscita delle spine o di altri corpi dal derma; i semi, contenuti nelle pannocchie, per preparare minestre analogamente al riso. Da questa pianta il profeta Ahia toglie una similitudine inquietante.

“Il Signore Dio percuoterà Israele, talché sarà come la canna dimenata nell’acqua; sradicherà Israele da questa buona terra che aveva dato ai loro padri, e li disperderà oltre il fiume”. (1 Re 14:15)

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Giunco (Juncus sp.pl.)Il giunco è un’erbacea perenne alta oltre un metro che vive nei luoghi molto umidi. Le foglie sono ridotte a guaine scure, attorno alla base del fusto; i fiori brunastri o verdastri sono riuniti in una infiorescenza globosa. Come la canna palustre non vive fuori dell’acqua. I fusti erano usati per comporre mazzi di fiori freschi e intrecciati come materiale per confezionare sporte e cesti. Era invalso anche l’uso di “segnare” porri e verruche usando un ramo su cui si erano intrecciati dei nodi in numero pari a quello dei porri e recitando qualche formula magica segreta. Una volta terminato il rito, il fusto veniva sepolto il più lontano possibile dall’abitazione della persona “segnata”, altrimenti sarebbero tornati.Isaia volendo far capire che Sennacherib, re dell’Assiria, avrebbe invaso l’Egitto e distrutto quanto incontrava disse: “i rivi diventeranno infetti, i canali d’Egitto scemeranno e resteranno asciutti, le canne e i giunchi deperiranno” (Isaia 19,6)E nell’annunciare la liberazione e il ritorno di Israele annotava: “delle acque sgorgheranno nel deserto, e dei torrenti nella solitudine; il miraggio diventerà un lago, e il suolo assetato un luogo di sorgenti d’acqua; nel ricetto che accoglieva gli sciacalli s’avrà un luogo di canne e di giunchi”. (Isaia 35,6-7)

Tifa (Typha latifolia L.)E’ una delle più diffuse specie simbolo degli ambienti palustri in tutti i continenti. E’ alta oltre un metro, cresce nelle zone di interramento delle acque stagnanti ricche di sostanze nutritive. Forma densi popolamenti sulle rive dei corsi d’acqua, dove scorrono lentamente. Dai robusti rizomi squamosi si ergono numerosi fusti semplici, circondati dalle guaine fogliari che si sovrappongono l’una all’altra. Le foglie sono grigio – verdastre, lineari, lunghe oltre il metro e larghe un paio di centimetri. In passato erano usate per intessere sedie e impagliare i fiaschi. L’infiorescenza è formata da due spighe unisessuali sovrapposte, caratteristica quella inferiore, formata da piccolissimi fiori femminili, di forma cilindrica, compatta, dapprima verde e, dopo l’impollinazione, marrone. Il rizoma, in tempi di penuria, veniva seccato e triturato per farne farina da pane.

Papiro (Cyperus sp.)Pianta erbacea perenne rizomatosa con fusti verdi, glabri e a sezione triangolare,manca di vere foglie e ha una vistosa infiorescenza, sotto alla

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quale vi sono alcune lunghe brattee filiformi di aspetto fogliaceo. Originario dell’Africa settentrionale, vive anche in Sicilia. Nei nostri fossati vi sono alcune specie di Cyperus che possono ricordarne la forma. In Egitto fin dal 2500 a,C. Il neonato Mosè venne salvato dall’infanticidio comandato dal Faraone in un cestello di papiro deposto tra i giunchi sulla riva del Nilo

“Ma non potendolo più tenere nascosto, prese una cesta di papiro, la cosparse di bitume e pece, vi mise il bambino, e lo pose nel canneto sulla riva del fiume.” (Esodo 2,3).

5. Le piante tessiliL’uomo cominciò ad usare le fibre di origine vegetale per fabbricare tessuti e cordami, molto prima dell’inizio della coltivazione delle terre. Le principali fonti di fibra erano il lino e il cotone. Il lino è stata una pianta di notevole importanza economica, già coltivata nel 5000 a. C. e conosciuta dai popoli della Mesopotamia e dagli antichi egizi che avvolgevano le mummie con tessuti di lino.

Lino (Linum usitatissimum L.)Il lino è una pianta annuale con una radice a fittone e fusto esile ed eretto, generalmente glabro; le foglie verdi chiare, strette, lineari, lanceolate; i fiori a cinque petali azzurri riuniti in infiorescenze terminali. La coltivazione nel rodigino occupava un ampio spazio. Ora la pianta è rarissima e sopravvive in qualche prato non frequentato dalle colture dell’uomo. La raccolta avveniva estirpando la pianta dal suolo. La fibra tessile si estraeva dalla macerazione in acqua e dalla maciullatura degli steli. I filamenti, che si ottengono, sono tenaci, finissimi, morbidi, servivano per tessere vesti e biancheria e finirono per diventare segno di distinzione e di eleganza, simbolo di purezza e di santità necessarie ai sacerdoti. In Palestina, lo si raccoglieva tra marzo e aprile, tagliando con una zappa gli steli a livello dei terreni. Un breve passo ci ragguaglia sulla stagione della sua coltivazione. «Il lino (pistah) e l’orzo (se‘orah) erano stati colpiti (dalla grandine), perché l’orzo era in spiga e il lino in fiore. Ma il grano e la spelta/farro non erano stati colpiti, perché tardivi». (Esodo 9,31-32).La tessitura avveniva usando un telaio che, in un primo tempo, era orizzontale e fissato al suolo mediante picchetti, poi verticale. Il lino faceva parte dei paramenti del sacerdote “rivesta la sua tunica di lino e indossi i calzoni di lino” (Levitico 6,3; 14). Di “lino fino ritorto” erano le tendine dell’altare dei

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sacrifici e misto ad oro i paramenti sacri (Efod) “ fecero le tuniche di lino fino, di lavoro tessuto, per Aaronne e per i suoi figlioli e la mitra di lino fino e le tiare di lino fino da servir come ornamento e le brache di lino fino ritorto e la cintura di lino fino ritorto, di color violaceo, porporino, scarlatto, in lavoro di ricamo, come l’Eterno aveva ordinato a Mosè”. E’ pure associato a Giuseppe: “Il faraone disse a Giuseppe:”Guarda io ristabilisco sopra tutto il paese d’Egitto.” Il faraone si tolse di mano il proprio anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo fece rivestire di abiti di lino fine e gli mise al collo una collana d’oro”. (Genesi 41,41-42)L’Eterno proibì agli Ebrei di coprirsi con vesti tessute di lino e di lana. “Non indosserai un tessuto composito, di lana e di lino insieme” (Deuteronomio 22,11) e avvicinò Israele ad una sposa infedele, “Non avrò pietà dei suoi figliuoli, perché sono figliuoli di prostituzione giacché la loro madre si è prostituita;… Andrò dietro ai miei amanti, che mi danno il pane, la mia lana, il mio lino, il mio olio, le mie bevande”. (Osea 2,5-6).Un curioso episodio mostra che il lino fu utile anche per nascondere alcune spie inviate da Giosuè in avanscoperta per esplorare il paese. Ricercate dal re di Gerico, queste, aiutate dalla prostituta Rahab, “li aveva fatti salire sul terrazzo e li aveva nascosti sotto i mannelli di lino che vi aveva accatastato” (Giosuè 2,6) e messi a seccare sul tetto della casa, a cui si accedeva mediante una scala. Di lino fino era anche l’arredamento di un banchetto elegante e nelle vele di una nave raffigurante la città di Tiro. “Vi erano cortine di lino fine e cotone” (Ester 1,6)

“Di lino ricamato d’Egitto era la tua vela che ti servisse d’insegna, di giacinto e scarlatto delle isole di Elisà era il tuo padiglione».(Ezechiele 27,7)

Della moglie ideale, descritta alla fine del libro dei Proverbi, si dice che

“Si procura lana e lino e li lavora con le mani…” (Proverbi 31, 13)«Tesse drappi di lino e li rivende, ….». (Proverbi 31,24)

6. All’ombra dei giardiniAloe (Aloe vera L.)Il nome di questa pianta grassa sembra derivi da “als” = sale, termine che dovrebbe ricordare i suoi amari succhi medicinali, noti agli antichi scrittori greci e latini. E’ formata da una rosetta di foglie basali, sessili, carnose,

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dentate e con denti duri come spine. Dalla rosetta basale si innalza lo scapo fiorifero che termina con fiori penduli e di color rosso o giallo, riuniti in spighe terminali. Dalle foglie si estrae una droga usata in medicina, in veterinaria, e dagli egiziani per la profumazione e l’imbalsamazione. Il succo fresco si applicava sulle ferite per facilitarne la cicatrizzazione e si masticavano le foglie per sedare il mal di denti. Le varie specie comunque vengono tuttora coltivate a scopo decorativo.

“I tuoi germogli sono un giardino di melagrani e d’alberi di frutti deliziosi, di piante di cipro e di nardo; di nardo e di croco, di canna odorosa e di cinnamomo, e d’ogni albero da incenso; di mirra e d’aloe, e d’ogni più squisito aroma” (Cantico dei Cantici 4,13-14)

Edera (Hedera helix L.)Pianta sempreverde, lianosa, rampicante per la presenza di radici avventizie, brevi e fitte, che consentono ai rami sterili di aggrapparsi a piante e muri anche per decine di metri. Le foglie sono verdi, lucide, coriacee con lungo picciolo. Molto comune era la consuetudine di adoperare le foglie fresche bollite in acqua oppure fresche e contuse applicandole su bruciature, escoriazioni, foruncoli e altre allergie dermatologiche. Un uso originale era quello di utilizzare il decotto di foglie fresche come panacea in grado di curare anche tumori. Il frutto è di color nero, globoso, tossico e irritante per l’uomo, innocuo per gli uccelli. Una manciata di foglie, immerse in acqua calda, era usata per ravvivare il colore dei panni scuri, talora aggiungendo foglie di noci (Juglans regia).

“Si era trascinati con aspra violenza ogni mese nel giorno natalizio del re ad assistere al sacrificio; quando ricorrevano le feste dionisiache, si era costretti a sfilare coronati di edera in onore di Dioniso.” (2 Maccabei 6,7).

Giglio (Lilium sp. pl.)Piante perenne, bulbosa, erbacea, dal fusto eretto, verde, foglioso, per lo più non ramificato e con fiori terminali, grandi, profumati. E’ originario

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dell’Asia e ora è ampiamente coltivato a scopo decorativo in ogni luogo. E’ stata riferita, sui Colli Euganei, la consuetudine di utilizzare il bulbo cotto nell’olio di oliva schiacciato fino a formare un preparato cremoso, per curare il fuoco di sant’Antonio (Herpes zoster) Per gli Ebrei fu simbolo di purezza, di prosperità, di virtù. I capitelli del portico del tempio erano scolpiti da forme di gigli (1 Re 7,18)

“Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?” (Matteo 6, 28-30)

Giusquiamo (Hyosciamus niger L.)Pianta erbacea, annuale o biennale, piuttosto rara, vischiosa e coperta di una bianca peluria, maleodorante, alta oltre un metro e con una grossa radice a fittone. Cresce talora tra i cespugli selvatici e i ruderi. Era conosciuta come l’erba Polònia cioè dedicata a Santa Apollonia, spesso invocata contro il mal di denti poiché, durante il suo martirio, le furono violentemente strappate le unghie e i denti. Le foglie secche venivano fumate come le sigarette per sedare il mal dei denti. Sui Colli Euganei si usava anche mangiare un seme oppure inserirlo direttamente nella cavità del dente cariato. Un paio di piante molto rigogliose fiorivano sull’argine adiacente al convento dei frati cappuccini.

“Poi il confine (di Giuda) raggiungeva il pendio settentrionale di Accaron, piegava verso Siccaron (dal nome dello Hyosciamus aureus o muticus?), passava per il monte Baala, raggiungeva Iabneel e terminava al mare.” (Giosuè 15,11).

Narciso (Narcissus pseudonarcissus L.)E’ una pianta erbacea, perenne, con bulbo avvolto da tuniche, bulbosa, spesso coltivata come pianta ornamentale, diffusamente inselvatichita e naturalizzata. Le foglie sono tutte basali, di forma varia. Ora vive, in parte coltivato in molteplici giardini e balconi, e in parte allo stato spontaneo in alcuni coltivi abbandonati nelle zone circostanti il cimitero ove lo si può osservare in primavera, alto anche una cinquantina di cm, con le foglie tutte basali, lineari, piuttosto carnose, e il fiore formato da sei tepali gialli chiaro, uniti alla base in un tubo allungato. All’interno, vi è una corona a forma di

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tromba, ondulata al bordo e di color giallo scuro. E’ leggermente tossica per la presenza di alcune sostanze ad attività sedativa e antispasmodica. La famiglia dei narcisi comprende 65 generi e 800 specie. Due sole sono le specie native in Israele, N. tazetta L. e Pancratium maritimum L. e vengono citate nel Cantico dei Cantici 2, 1-2.

Io sono un narciso di Sharon, un giglio delle valli. Come un giglio tra i cardi …

Ricino (Ricinus communis L.)E’ una elegante erbacea annuale con fusto cilindrico, diritto, robusto, ramificato, di colore rosso verdastro e alto anche qualche metro. Le foglie hanno un lungo picciolo rossastro e una lamina palmata e largamente suddivisa. I fiori sono unisessuali, riuniti in infiorescenze terminali: le inferiori maschili, le superiori femminili. Il frutto è una capsula ovale e globosa, rivestita da aculei e all’interno con tre semi grigio-verdastri che, raccolti in estate, decorticati e pressati forniscono un olio lassativo, incolore o appena giallognolo, di sapore caratteristico e nauseante. Questi semi possono provocare gravi avvelenamenti e talora anche la morte poiché il principio attivo ha forti proprietà agglutinanti i globuli rossi. Nell’olio estratto a caldo sono presenti dei principi attivi tossici che causano vomito, emorragia gastro-intestinale e danni epatici. Una credenza popolare locale attribuiva alle foglie, applicate sul petto delle donne dopo il parto, la capacità di favorire la montata lattea. In veterinaria veniva somministrato dopo il parto alle mucche per indurre l’espulsione della placenta. A Rovigo, sul finire dell’ottocento, si seminava in quasi tutta la provincia; ora viene coltivato a scopo ornamentale in molteplici giardini privati per le foglie palmate e le colorate infiorescenze. Secondo il testo biblico, rappresenta la fragilità misteriosa dell’esistenza, l’incoerenza delle cose, l’assurdità degli eventi che sfuggono alla logica umana.In ebraico viene identificata con il nome kikajon, la cui etimologia è di natura incerta.Nel testo sacro si racconta che Giona, dopo aver predicato a Ninive per ordine

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di Dio, diventa triste, si sente stanco e il mondo gli sembra senza leggi. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, perché vi fosse ombra sopra la sua testa e fosse liberato dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.” (Giona 4, 6-7)

7. Spigolando nel verdeE così dopo le tante piante descritte e le altrettante scordate, ci si sta avviando alla fine. E su tutto è giunto il momento di calare il silenzio. Un silenzio che non vuol essere uno spazio di tempo vuoto ma, come accade nel rigo della musica, un momento di pausa, denso di attese e di riflessioni, perché in tutte queste erbe bibliche è impressa l’impronta millenaria della sapienza del popolo di Israele. E’ una sapienza da cui affiora una certa visione delle cose, uno stile di vita, un credo religioso, in breve, una cultura, intesa come un bagaglio di conoscenze, di credenze, di abitudini acquisite. In questo senso, ogni pianta è divenuta testimone del suo tempo, prodotto della storia, voce di un’epoca, di un’atmosfera, di un popolo nel quale c’erano dei valori, alcuni permanenti, altri caduchi. Ognuna ha aiutato a vivere, ha spinto ad agire e a trasmettere, di generazione in generazione, un patrimonio di cultura e un dialogo mai concluso. Con queste premesse, l’indagine floristica, realizzata nei singoli ecosistemi urbani presenti nella città di Rovigo, ha rivestito un significato particolare sia come strumento per evidenziare la consistenza di un locale patrimonio vegetale e sia per la sua valorizzazione rapportandolo al Libro Sacro. Il lavoro ha proceduto con ritmi alterni un po’ con i fatti, un po’ con i sentimenti, un po’ con tenaci nostalgie, un po’ con le voci di un padre o di una madre, di un re o di uno schiavo. L’elenco delle piante osservate si proponeva di fornire un modo innovativo di lettura del territorio integrando storia, ambiente e cultura popolare con le parole di un Dio a volte inaccessibile. L’obiettivo finale era quello di suggerire un itinerario biblico-naturalistico in grado di ampliare i confini delle conoscenze botaniche in una prospettiva di maggior respiro in cui beni naturalistici e beni biblici potevano proporsi come un valore aggiunto. Come dire che si viene tutti da quel comune fondale.Tutto ha così finito per suggerire il respiro di una disciplina scientifica e il racconto di una sommessa elegia che trattiene un lontano passato e rinvia a timide storie, che ci appartengono. Ognuna tramanda il senso di una lunga continuità con la storia insieme alla capacità di riflettere su una realtà immemorabile, cioè sul tempo in cui le regole di vita, dettate dal Signore, dovevano essere rispettate senza chiedersi alcuna motivazione. E qui passato

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e presente hanno iniziato ad intrecciarsi fino a formare un ruvido e talora sgualcito tessuto verde, spesso ordito attorno a squarci di storie, sospese in luoghi indefiniti, e intrufolati, alla chetichella, nelle nostre quotidiane consuetudini. In filigrana, dentro queste storie fragili e delicate, vi è il tentativo ad avvicinare una quotidiana convivenza botanica con qualcosa di più sottile e profondo: la voce dei ricordi, la memoria di tante vite stravolte dalle leggi razziali, la triste e non rassegnata consapevolezza che all’ebreo sarebbe sempre e comunque toccato arrancare per avere, in termini di diritti concreti, ciò che altrove era dato per scontato.Così il popolo ebraico si è raccontato e ha vissuto, di generazione in generazione, osservando una legge divina formulata nella Bibbia e ampliata nel Talmud, un po’ con i fatti, ma soprattutto con i sentimenti.Ora tutte queste erbe, da sfondo accessorio di un paesaggio, sono diventate le protagoniste di una compenetrazione tra città e campagna, continuano a ricordare questa raffinata simbiosi con l’uomo e divengono lo specchio di un lungo racconto che con sapienza riflette un passato che non c’è più, ma che si può ancora scorgere per trattenerlo, soprattutto nell’attuale spaesamento della condizione contemporanea.

Allegato 1 - Il calendario di GhezerQuando gli ebrei lasciarono l’Egitto, si organizzarono secondo un calendario, che recuperava, da un lato l’esperienza egiziana e dall’altro la vita di un popolo che viveva nel deserto e che scandiva il suo tempo rapportandosi al sole e alla luna. Nel computo di questo calendario, coesistono perciò due sistemi di calcolo: quello solare, che si identifica con la durata dell’annata agricola, e quello lunare, che si riferisce nelle sue unità alle quattro fasi della luna e viene usato per calcolare i mesi. Perciò è un calendario lunare e quindi è più corto di quello in uso presso il popolo ebreo. I mesi iniziavano sempre con una luna nuova. I nomi dei mesi spesso rinviano a lavori agricoli. Nel 1908 a Ghezer, località situata a Nord-Ovest di Gerusalemme, è stato trovata una tavoletta d’argilla su cui era inciso un documento relativo alla vita agricola del periodo biblico più antico.E’ un esercizio, forse inciso da uno scolaro su una tavoletta di argilla, e descrive i lavori agricoli nel corso di un anno.Può ricordare una filastrocca del tipo “trenta giorni a novembre…”

Due mesi sono per il raccolto delle olive (settembre/ottobre)Due mesi sono per piantare il grano (novembre/dicembre)Due mesi sono per le semine del lino (gennaio/febbraio)

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Un mese per la raccolta del lino (marzo)Un mese per la raccolta dell’orzo (aprile)Due mesi sono per la cura delle viti (giugno/luglio)Un mese per la frutta dell’estate (agosto)

(Le semine di gennaio e febbraio riguardavano miglio, piselli, lenticchie, meloni e cetrioli)

Allegato 2 - Botanica e saluteLa guarigione è dono di Dio, ma anche opera dell’uomo (il medico), al quale Dio dona la sua arte. Questa opera di mediazione è compiuta in Siracide. Le “opere” sono le opere di Dio, che continua a dare agli uomini e alle cose una partecipazione alla sua potenza guaritrice, diffondendo così il bene sulla terra. Il benessere dipende da Dio e dal buon uso dei medicamenti che egli ha diffuso sulla terra e che il saggio sa scoprire.

«Onora il medico come si deve secondo il bisogno, / anch’egli è stato creato dal Signore / Dall’Altissimo viene la guarigione, / anche dal re egli riceve doni. Da Dio il medico diviene saggio / dal re riceve doni. La scienza del medico lo fa procedere a testa alta, / egli è ammirato anche tra i grandi. / Il Signore ha creato medicamenti dalla terra, / l’uomo assennato non li disprezza. / Dio ha dato agli uomini la scienza / perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie / Con essi il medico cura ed elimina il dolore / e il farmacista prepara le miscele. / Non verranno meno le sue opere! Da lui proviene il benessere sulla terra».(Siracide 38,1-7)

Secondo la legge ebraica la protezione della vita (propria e altrui) e la tutela della salute sono obbligatorie. Quest’obbligo, qualora sia in pericolo la vita dell’uomo, è preminente su tutte le regole della Toràh.( Di Segni, 1976).

Riferimenti bibliciLe erbe dell’alimentazioneI CerealiGrano o Frumento (Triticum durum) Genesi 27, 37; 30, 14; 41, 22 e sgg; Esodo 6,9; 7,22; 29,2; 34,22; 23,14; Numeri 18, 27; Levitico 2, 2-12 e 14-15; Deuteronomio 7, 13; 8,8 ; 11, 14; 12, 17; 14, 23; 18, 4; 28, 51; 32, 14; 2 Re 4, 42; 2 Samuele 17, 28; ecc.Panico (Panicum italicum L.) Miglio comune (Panicum miliaceum L.)Ezechiele 4, 9

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I LegumiLenticchia Lens culinaris Medic2 Samuele 17, 28; Ezechiele 4,9.Fava Vicia faba L.2 Samuele 17, 28; Ezechiele 4, 9;

Gli ortaggiAglio (Allium sativum L.) Cipolla (Allium cepa L.) Porro (Allium porrum L.)Numeri 11,5-6.Cocomero (Citrullus vulgaris (Thub.) Mansfeld) Melone (Cucumis melo L.) 2 Re 4, 39; Is. 1:8; Numeri 11: 5-6;

Le erbe aromaticheAneto (Anethum graveolens L.)Isaia 28, 25; 27; Matteo 23: 23Coriandolo (Coriandrum sativum L.) Esodo 16:31; Numeri 11, 7; Cumino (Cuminum cyminum L)Matteo 23:23; Isaia 28: 25; 27;Fanciullaccia (Nigella damascena L.)Isaia 28: 25-27Issopo (Hyssopus officinalis L.)Esodo 12: 22, Levitico 14: 4; Salmo 51, 7; Numeri 19: 6; Ebrei 9, 19Menta (Mentha sp.pl) Matteo 23, 23; Luca 11, 42Ruta (Ruta gravaeolens L.) Luca 11:42Senape (Brassica nigra Koch) Marco 4,31-32; Matteo 13,31-32; Luca 13:19;

Le erbe amare Assenzio (Artemisia alba L.; Artemisia absinthium L.) Deuteronomio 29,18; Lamentazioni 3: 15 e ,19; Proverbi 5, 3-4; Geremia 9: 15; 23,15; Apocalisse 8: 11Cicoria (Cichorium intybus L.) Vedi Erbe amareCardo (Silybum marianum Gaertn.) Isaia 34:13; Rucola (Eruca sativa L.)Luca 11. 42

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Le piante dei campi - Ambiente prativoLoglio, Zizzania (Lolium temulentum L.)Matteo 13:24; 27-30; 36-40; Malva (Malva sylvestris L.)Giobbe 6:6-7Ortica (Urtica dioica L.; Urtica urens L.)Isaia 34:13; Osea 9:6; Sofonia 2:9

Le piante dei campi - Ambiente palustreCanna (Arundo donax L.) Is. 36:6; 42:2-3; Ezechiele 29: 6-7, 40:5 e seg.; Luca /:24;Cannuccia palustre (Phragmites australis L.)1 Re 14: 15; Salmo 67: 31; Geremia 13:1; Osea 2: 5; Luca 7:24;Giunco (Juncus sp.pl.)Isaia 19:6; 35:7 Papiro (Cyperus sp.) Esodo 2:3; Giobbe 8:11; Isaia 18:2;

Giardini e dintorniAloe (Aloe vera L.)Salmo 45, 8-9; Proverbi 7:Cantico dei Cantici17; 4:14; Giovanni 19, 39Edera (Hedera helix L.)2 Maccabei 6:7Giglio (Lilium candidum L.)Cenni bibliografici: Cantico dei Cantici 2: 1-2; 2:2; 3:5; 4:5; 5:13; 6:2-3; 7:3; Eccl. 39:19; Dan. 13:2; Osea 14:5; 1 Re 7:18; Mat. 2: 28-29; Luca 2:16; 3:23; 12: 27-28Giusquiamo (Hyosciamus niger L.) Giosuè 15,11.Narciso (Narcissus pseudonarcissus L.)Cantico dei Cantici 2:1-2; Isaia 35:1-2.Ricino (Ricinus communis L.)= kikajonGiona 4.5-8;

Le piante tessiliLino (Linum usitatissimum L.)Ezechiele 27,7; Daniele 12:7; Esodo 9:31;

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BIBLIOGRAFIA- Cultrera D., Erbario Biblico. Città del Vaticano, 2000.- Darom D., Le Belle Piante della Bibbia. Palphot Ltd p.o. box 2, Herzlia,1998. - Di Segni R., Guida alle regole alimentari ebraiche. Roma, 1976.- E Dio disse… La Bibbia. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1997- Foggi B., Flowers of Israel. Bonechi, Firenze, 1999.- Gower R., 2000, Usi e Costumi della Bibbia. Torino.- Guarrera P. M., Piante autoctone in Israele. Natural, 72, 2008.- La Sacra Bibbia, Libreria Sacre Scritture. Roma, 1973.- Linder A., Le piante di Dio, in Viaggio attraverso la Bibbia. Borla, 1986.- Loewenthal E., Buon appetito, Elia. Baldini&Castoldi, 1998.- Pavari Mazzetti E., Storie di piante nella Bibbia. Torino, 1999.- Moldenke, H.N. & A.L., Plants of the Bible. Chronica Botanica Co., 1952.- Silva F., Abraham A., The potentiality of the Israeli flora for medicinl purposos. Fitoterapia 52, 195-200.- Zohary M., Plants of the Bible. Cambridge University Press., Cambridge, 1982.- Zoppi M., Plants, flowers and scents of the Bible. Perugia, 2008.

I disegni sono tratti da- Ceruti A., Il nuovo Pokorny. Loescher, 1975.

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IL DISCORSO PUBBLICO TRA VECCHI E NUOVI MODELLIMatteo Viale*

SOMMARIO: 1. Chiarezza e razionalità del discorso pubblico. 2. La lotta al “burocratese” 3. Scrivere chiaro: principi e idee generali. 4. Suggerimenti per scrivere con semplicità ed efficacia. 5. Un esempio: la riformulazione in forma chiara ed efficace delle “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione”. 6. Bibliografia essenziale.

1. Chiarezza e razionalità del discorso pubblicoIl linguaggio ha principalmente due funzioni: una “espressiva” e una “comunicativa”. Nel primo caso può servire ad esprimere sentimenti, stati d’animo, emozioni; in questa accezione il linguaggio può anche realizzarsi attraverso espressioni artistiche come racconti, romanzi, o con la poesia, che è la forma espressiva più alta che il linguaggio possa assumere. Ma il linguaggio serve all’uomo anche per altri scopi più “prosaici”: lo usiamo per rivolgerci agli altri mossi da qualche scopo particolare, come ad esempio organizzare e gestire attività, coordinarci con altre persone nei rapporti commerciali, sociali, politici, attraverso lettere, progetti, ecc. Dal punto di vista della redazione di testi, si parla di “scrittura creativa” per quanto riguarda i testi che hanno finalità espressive ed artistiche (come racconti, poesie, ecc.) e di “scrittura funzionale” per tutti i testi legati a esigenze professionali, organizzative o pratiche. Se il linguaggio artistico, creativo, è un’arte, quello pubblico, comunicativo, assomiglia più a un insieme di tecniche che possono essere apprese e perfezionate. Storicamente, i linguisti si sono occupati soprattutto del linguaggio artistico, degli usi letterari ed espressivi della lingua, ma da qualche decennio aumenta sempre più l’interesse verso le tecniche di comunicazione che possono garantire una maggiore efficienza negli usi pratici, quotidiani del linguaggio, con tutte le implicazioni “sociali” che questo comporta. In questo contributo si prenderà in considerazione in particolare questo seconda funzione del linguaggio, cioè la comunicazione legata a esigenze pratiche, in particolare gli usi “pubblici” della lingua, con testi come manifesti, avvisi, lettere, moduli, ecc. rivolti a un grande numero di persone per gestire e coordinare rapporti a vari livelli.

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* Dipartimento di Romanistica dell’Università degli studi di Padova; e-mail: [email protected].

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Questo uso del linguaggio dovrebbe essere caratterizzato da razionalità e chiarezza, dovrebbe essere funzionale per garantire il buon esito della comunicazione, eppure non è sempre così. Già il filosofo Karl Popper, nel suo celebre La Società aperta e i suoi nemici1, notava:

Noi stessi e il nostro linguaggio abituale siamo, nel complesso, piuttosto emotivi che razionali; ma possiamo cercare di diventare un po’ più razionali e possiamo abituarci a usare il nostro linguaggio come uno strumento non di autoespressione, ma di comunicazione razionale.

E ancora2:

Il linguaggio ordinario non è razionale, ma è nostro compito razionalizzarlo, o almeno elevarne il livello di chiarezza.

D’altro canto, per verificare quanto sia fondamentale la chiarezza, non è necessario scomodare grandi filosofi, ma è sufficiente fare riferimento alla nostra esperienza quotidiana di utenti del linguaggio pubblico. Come fa notare il linguista Maurizio Dardano3, nei supermercati inglesi può capitare di leggere un avviso come questo, che scoraggia quanti pensano di rubare la merce con un messaggio semplice e diretto:

Thieves will be prosecuted

che può essere tradotto all’incirca così:

I ladri saranno denunciati.

In Italia, lo stesso messaggio è normalmente espresso in modo meno diretto e più contorto, con frasi come:

La mancata regolarizzazione alle casse costituisce reato ed è perseguibile a norma di legge.

Ancora, in Italia, qualche anno fa poteva capitare di leggere nei caselli autostradali avvisi come:

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1 Karl R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. II, a cura di Dario Antiseri, Roma, Armando Editore, 2009 (seconda edizione italiana), p. 328.2 Ibidem, p. 449n.3 Gli esempi che seguono sono tratti da Maurizio Dardano, Profilo dell’italiano contemporaneo, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. II, Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, p. 365.

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La riscossione del pedaggio viene effettuata dal lato in cui opera l’esattore.

Lo stesso avviso, negli Stati Uniti è invece espresso in modo decisamente più immediato:

Pay here.

Al di là delle lingue diverse, questi esempi sottolineano come nel discorso pubblico italiano esista una certa tendenza alla complicazione linguistica, alla ricerca della parola raffinata a scapito della chiarezza. Eppure, il linguaggio dovrebbe essere strumento di comunicazione e non di fraintendimento. Da qualche tempo in Italia sono state avviate iniziative per porre rimedio a questa situazione e rendere i testi di rilevanza pubblica più chiari, semplici ed efficaci. Si tratta principalmente di una serie di tecniche messe a punto da linguisti e comunicatori pubblici per migliorare la qualità dei testi prodotti e aumentare la possibilità di farsi capire. Al di là dell’ambito per cui sono pensate, la pubblica amministrazione, queste tecniche di scrittura possono facilmente essere messe a frutto all’interno della propria esperienza personale o sociale4. Quello intrapreso è solo il primo passo di un cammino che si preannuncia lungo e tortuoso. Rendere la lingua italiana più immediata e diretta è un problema antico, legato alla storia dello sviluppo dell’italiano e alle intricate vicende di una lingua solo scritta e solo letteraria, che ha faticato a diventare strumento di comunicazione e organizzazione sociale5. Come notava uno scrittore dell’Ottocento, Francesco Domenico Guerrazzi6:

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4 Una lista dei principali riferimenti bibliografici sull’argomento è disponibile al § 6. Per una panoramica dettagliata delle iniziative per la semplificazione del linguaggio amministrativo italiano cfr. Matteo Viale, Studi e ricerche sul linguaggio amministrativo, Padova, Cleup, 2008, in particolare i capp. 3 e 9.5 Basti pensare, come nota Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (Roma-Bari, Laterza, 1963), che al momento dell’Unità d’Italia solo il 3% della popolazione era in grado di esprimersi e capire l’italiano. Altri studiosi hanno successivamente messo in dubbio questo dato, ma anche le statistiche più ottimistiche non superano il 10% di italofoni.6 Il passo è ricordato da Marcello Durante, Dal latino all’italiano moderno. Saggio di storia linguistica e culturale, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 174.

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Noi pendiamo sempre dubbi se la parola che stiamo per adoperare sia o non sia di buona lega, ed il pensiero aspetta fremendo che noi abbiamo esaminato prima se la veste con la qual anela prorompere sia veramente italiana. E intanto, mentre apparecchiamo la vesta, il pensiero etereo per eccellenza si è dileguato, e troppo spesso ci avvien di vestire cadaveri.

2. La lotta al “burocratese”Certe inutili complicazioni linguistiche anticomunicative toccano il loro apice nel caso del linguaggio amministrativo: a tutti sarà capitato di ricevere da qualche amministrazione pubblica comunicazioni incomprensibili o di leggere avvisi di cui sfuggiva l’obiettivo comunicativo. Il cosiddetto “burocratese” e i tentativi di semplificazione del linguaggio amministrativo rappresentano un esempio emblematico di un problema che in realtà vale anche per il settore privato (politica, commercio, organizzazione sociale, documenti bancari e assicurativi, istruzioni per l’uso di elettrodomestici, per limitarsi a citare qualche caso). I primi tentativi, frutto del lavoro congiunto di linguisti e giuristi per rendere accessibile il linguaggio della pubblica amministrazione ai cittadini, sono cominciati all’inizio degli anni ‘90. In quegli anni, parallelamente ad un processo di avvicinamento della pubblica amministrazione italiana ai cittadini dal punto di vista del diritto amministrativo, stava acquistando sempre più peso l’idea che anche la trasparenza e la semplificazione del linguaggio usato dalle istituzioni rappresentassero un aspetto importante del più ampio processo di rinnovamento della pubblica amministrazione.Si faceva strada l’idea che i cittadini dovessero essere in grado di comprendere il linguaggio di quegli atti amministrativi ai quali la legge riconosceva il diritto di accesso materiale e che le disposizioni normative di rilevanza pubblica dovessero essere tradotte in termini comprensibili anche ai non specialisti, dal momento che tutti i cittadini hanno il diritto di capire “cosa devono fare”. Tutto ciò, non solo per ragioni di “democrazia linguistica”, ma anche per la consapevolezza che una comunicazione più efficace avrebbe portato ad un notevole risparmio organizzativo e di risorse anche economiche, evitando inutili richieste di chiarimento e migliorando la qualità dei servizi. Dall’apparire nel 1993 del Codice di stile delle comunicazioni scritte7,

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7 Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposta e materiali di studio, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la Funzione Pubblica, 1993.

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primo importante strumento editoriale sull’argomento, il Dipartimento per la Funzione Pubblica, indipendentemente dal colore politico dei governi che si sono succeduti, ha proseguito la sua attività di ricerca e organizzato alcuni corsi di formazione per educare i dipendenti pubblici a mettere a frutto i risultati della riflessione teorica. A distanza di qualche anno, nel 1997, dopo la promozione di un ulteriore progetto specifico, il Dipartimento per la Funzione Pubblica ha potuto dare alle stampe una nuova opera pensata esplicitamente per gli operatori delle pubbliche amministrazioni, il Manuale di stile8, diffuso presso i pubblici dipendenti.Un rinnovato impegno in materia ha portato, nel 2002, all’inserimento esplicito del problema linguistico nella direttiva del Ministro della Funzione Pubblica del 7 febbraio 2002 su Le attività di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni. L’art. 8 è espressamente dedicato al linguaggio e merita di essere citato per intero:

Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha già promosso e realizzato, a partire dai primi anni ‘90, progetti dedicati alla semplificazione del linguaggio amministrativo usato nei contatti con i cittadini. L’opinione pubblica, ma anche le amministrazioni, si aspettano ulteriori sforzi per rendere il cosiddetto “burocratese” più chiaro ed accessibile e la comunicazione tra i cittadini e la pubblica amministrazione più snella ed efficace. La comunicazione delle pubbliche amministrazioni deve soddisfare i requisiti della chiarezza, semplicità e sinteticità e, nel contempo, garantire completezza e correttezza dell’informazione. Questo obiettivo dovrà essere perseguito anche con l’impiego dei nuovi strumenti informatici.Il Dipartimento della Funzione Pubblica attiverà nei prossimi mesi, presso la Struttura di Missione, un servizio di consulenza il cui scopo sarà di assistere le pubbliche amministrazioni e i gestori di servizi pubblici a riscrivere atti e documenti, a migliorare la qualità della comunicazione per renderla più semplice e comprensibile a tutti i cittadini ed utenti dei servizi pubblici. L’obiettivo sarà quello di rendere ufficiali le regole della semplificazione e di promuoverne la diffusione in tutte le amministrazioni.

A questa è seguita la Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi, emanata l’8 maggio 2002, con cui si è sottolineata l’importanza della chiarezza e della semplicità linguistica e sono stati indicati, per la prima

8 Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, a cura di Alfredo Fioritto, Bologna, Il Mulino, 2007.

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volta in un testo con valore normativo, alcune “regole di comunicazione e di struttura giuridica” e una serie di “regole di scrittura del testo” con valore formale9. Anche in seguito, a qualche anno di distanza, la Direttiva sulla semplificazione del linguaggio del 24 ottobre 2005 è tornata sull’argomento ribadendo questi concetti e ampliandone la portata. Accanto a queste iniziative del Dipartimento per la Funzione Pubblica, la ricerca e gli sforzi di formazione dei dipendenti pubblici si sono sviluppati anche nelle Università, su stimolo degli stessi enti locali o, talvolta, con proficue collaborazioni tra queste due realtà. Tra le altre, merita di essere segnalata l’esperienza di semplificazione dei propri testi amministrativi promossa dal Comune di Padova alla fine degli anni novanta in collaborazione con l’Università di Padova10.Frutti importanti della ricerca universitaria sul tema della semplificazione del linguaggio amministrativo sono poi i manuali di Cortelazzo e Pellegrino e di Franceschini e Gigli, del 2003, e quello di Raso del 200511.Anche la narrativa non è rimasta indifferente al fenomeno, e così lo scrittore Andrea Camilleri nel suo romanzo La gita a Tindari12, mette in bocca al protagonista, il commissario Montalbano, una graziosa satira del linguaggio burocratico, il linguaggio del potere, che ha bisogno di parole altisonanti per prendersi sul serio e poter dare importanza a qualcosa:

“Ci tieni tanto al ringrazio? Cerca piuttosto il rapporto di scriverlo bene. Domani a matino me lo porti e lo firmo”“Che significa che devo scriverlo bene?”“Che lo devi condire con certe cose: ‘recatici in loco, eppertanto, dal che si evince, purtuttavia’. Così si trovano nel loro territorio, col loro linguaggio, e pigliano la facenna in considerazione”.

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9 Il testo della direttiva si può leggere per intero nella sezione dedicata alla normativa del sito www.maldura.unipd.it/buro. 10 I materiali del progetto sono stati pubblicati nel volume Semplificazione del linguaggio amministrativo. Esempi di scrittura per le comunicazioni ai cittadini, a cura di Michele A. Cortelazzo, con la collaborazione di Federica Pellegrino e Matteo Viale, Padova, Comune di Padova, 1999.11 Michele A. Cortelazzo e Federica Pellegrino, Guida alla scrittura istituzionale, Roma-Bari, Laterza, 2003; Fabrizio Franceschini e Sara Gigli (a cura di), Manuale di scrittura amministrativa, Roma, Agenzia delle Entrate, 2003; Tommaso Raso, La scrittura burocratica. La lingua e l’organizzazione del testo, Roma, Carocci, 2005.12 Andrea Camilleri, La Gita a Tindari, Palermo, Sellerio, 2000, p. 264.

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Analogamente, Italo Calvino, uno dei più importanti scrittori del Novecento, in un suo noto articolo degli anni ’60 ha stigmatizzato questa tendenza al linguaggio vuoto, questa fuga verso la complessità fine a se stessa, in una parodia13:

Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata». Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: «Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».

Calvino chiama questa inutile traduzione del linguaggio di tutti i giorni “antilingua” e ne trae conclusioni che vanno al di là dei semplici problemi linguistici. Prosegue infatti:

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato (…). Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente (…) Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse

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13 Italo Calvino, L’antilingua, «Il Giorno», 3 febbraio 1965 (ora in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995, pp. 149-154).

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per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua - l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” - la lingua viene uccisa.

3. Scrivere chiaro: principi e idee generaliPer ragionare sulle tecniche di redazione di un testo è importante tenere presente i livelli linguistici sui quali è possibile intervenire. Se ne devono distinguere almeno tre:

1) l’ORGANIZZAZIONE TESTUALE, cioè la scelta e la disposizione delle informazioni nel testo;2) la SINTASSI, cioè il modo in cui sono organizzate le frasi;3) il LESSICO, cioè le parole scelte per esprimere i concetti.

A questi tre livelli prettamente linguistici se ne deve aggiungere almeno un altro, dal carattere trasversale, cioè l’ORGANIZZAZIONE GRAFICA del testo. La grafica non si deve intendere come un semplice elemento estetico, ma deve essere pensata come un vero e proprio strumento comunicativo per dare risalto all’articolazione logica data al testo. Come risulterà più chiaro con gli esempi presentati più avanti, questi livelli rappresentano dei veri e propri piani di lavoro. Perché un testo risulti comprensibile, ciascuno di questi livelli deve essere realizzato in modo sufficientemente adeguato. Non basta, cioè, che un testo abbia una sintassi e un lessico semplice perché sia efficace dal punto di vista comunicativo, ma è necessario che anche l’organizzazione testuale sia soddisfacente. Inoltre, prima di esaminare in dettaglio i consigli di scrittura che si possono dare per ciascuno dei livelli linguistici, è utile tenere presente tre “regole” fondamentali che esprimono il corretto punto di vista da assumere per redigere testi chiari ed efficaci:

1: mettiamoci dalla parte del destinatario;2: evitiamo di essere prigionieri dell’inerzia;3: tutti vorremmo dei testi chiari, efficaci ed eleganti; ma, dovendo scegliere, meglio chiari ed efficaci che eleganti14.

14 Semplificazione del linguaggio amministrativo, cit., p. 5.

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A prima vista possono sembrare suggerimenti scontati, ma è facile verificare come molti fallimenti comunicativi dei testi di rilevanza pubblica siano legati proprio al mancato rispetto di questi principi elementari. Ad esempio, il testo originale che segue, un avviso nella bacheca di un asilo nido, non rispetta la prima regola: chi ha scritto il testo non ha saputo mettersi dalla parte del destinatario e ha dato le informazioni dal punto di vista dell’emittente, dilungandosi in dettagli utili per l’amministrazione, ma irrilevanti per l’utente. Inoltre, l’informazione principale per il destinatario – il fatto che l’asilo resta aperto – rimane implicita e ambigua. Quella a fianco è una possibile riformulazione del testo di partenza che tiene conto solo del punto di vista del destinatario, porgendo in modo diretto l’informazione principale che l’avviso vuole dare15.

Testo originale Testo semplificato

COMUNE DI PADOVA SETTORE SERVIZI SCOLASTICI

Padova, 7 novembre 1997

AVVISO

SI INFORMANO I GENITORI DEI BAMBINI FREQUENTANTI L’ASILO NIDO “CHIESAVUOVA”, CHE NELLA SETTIMANA DAL 10/11/97 AL 14/11/97 LA DITTA INCARICATA DAL SETTORE EDILIZIA SCOLASTICAPROVVEDERÀ ALLA TINTEGGIATURA DEI LOCALI. CI SCUSIAMO SIN D’ORA DEL DISAGIO ARRECATO. DISTINTI SALUTI

Il Capo Settore ai Servizi Scolastici

COMUNE DI PADOVA SETTORE SERVIZI SCOLASTICI

Padova, 7 novembre 1997

DAL 10 AL 14 NOVEMBRE 1997 I LOCALI DELL’ASILO NIDO VERRANNO RIDIPINTI. L’ASILO FUNZIONERÀ COMUNQUE REGOLARMENTE.

15 L’esempio è tratto da ibidem, pp. 85-88.

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Scrivere testi semplici e attenti alle esigenze del destinatario richiede impegno. Per questo è necessario liberarsi della pigrizia e sforzarsi di portare a buon esito la comunicazione, come evidenzia la seconda regola che invita ad abbandonare l’inerzia, ad assumere un atteggiamento attivo quando si scrive. La terza regola proposta mette invece l’accento su un altro aspetto: scrivere testi chiari e semplici comporta inevitabilmente delle scelte a livello di stile. Trattandosi di testi legati a scopi pratici e non artistici, le necessità della semplicità devono prevalere sull’eleganza estetica. La ricerca del “bello stile” in testi dal carattere funzionale può anche portare a commettere veri e propri errori comunicativi. Ad esempio, chi ha redatto il testo originale nella tabella che segue, tratto da un bando universitario, ha preferito evitare di ripetere a breve distanza l’etichetta formale “docente responsabile di flusso”, alternando di volta in volta sinonimi diversi. Questa scelta – che sarebbe corretta nella scrittura creativa, legata a diverse finalità artistiche – rappresenta un vero e proprio errore in un testo funzionale, in cui ci si aspetta rigore terminologico, anche a costo di ripetere la stessa etichetta lessicale più volte. Gli effetti di questa scelta stilistica sono devastanti per il buon esito della comunicazione: chi legge il testo originale è portato a credere che “docente responsabile”, “docente coordinatore” e “professore titolare” di flusso siano tre figure distinte! La riformulazione corretta a lato mantiene l’etichetta formale di “docente responsabile di flusso” senza temere gli effetti stilistici negativi della ripetizione ravvicinata16.

Testo originale Testo semplificato

Prima di presentare la domanda, si consiglia di contattare sia il docente responsabile del flusso di mobilità di interesse, sia i docenti dei corsi equivalenti a quelli che si intendono seguire all’estero.Ogni professore titolare di un flusso ha la facoltà di adottare propri criteri per l’assegnazione delle borse.

Prima di presentare la domanda, si consiglia di contattare sia il docente responsabile del flusso di mobilità di interesse, sia i docenti dei corsi equivalenti a quelli che si intendono seguire all’estero.Ogni docente responsabile di un flusso ha la facoltà di adottare propri criteri per l’assegnazione delle borse.

16 L’esempio è tratto da M.A. Cortelazzo e F. Pellegrino, Guida alla scrittura istituzionale, cit., p. 48.

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Le domande di assegnazione di borse Erasmus per l’anno accademico in corso devono essere presentate al più presto possibile e comunque non oltre 18 aprile p.v. al docente coordinatore del flusso.

Le domande di assegnazione di borse Erasmus per l’anno accademico in corso devono essere presentate al più presto possibile e comunque non oltre 18 aprile p.v. al docente responsabile del flusso.

4. Suggerimenti per scrivere con semplicità ed efficaciaDopo aver distinto i piani linguistici sui quali si può intervenire e aver introdotto alcune regole generali, è possibile riassumere le tecniche di scrittura fin qui messe a punto nei manuali sull’argomento in dieci sintetici suggerimenti che entrino maggiormente nel dettaglio17.

OR

GA

NIZ

ZA

ZIO

NE

TE

STU

AL

E

1. Impariamo a individuare il pubblico a cui ci rivolgiamo;

2. Cerchiamo di avere un progetto di testo (sapere cosa scrivere e come ordinarlo);

3. Scriviamo solo quello che è necessario che il destinatario sappia: stiamo comunicando, non educando;

SIN

TASS

I

4. Facciamo corrispondere a ogni informazione fondamentale una frase;

5. Scriviamo frasi brevi, senza troppo incisi, con poche secondarie al gerundio, poche catene di sostantivi;

6. Usiamo formulazioni dirette (quando sono equivalenti: scrivere frasi attive e non passive; frasi affermative e non negative);

LE

SSIC

O

7. Se c’è la possibilità di usare una parola comune al posto di una rara, complessa, tecnica, facciamolo;

8. Se è necessario usare termini tecnici, facciamolo; ma prima sinceriamoci che siano davvero termini tecnici, e poi, se decidiamo di usarli, spieghiamo cosa significano;

GR

AFI

CA

9. Curiamo la punteggiatura: solo così il lettore capisce come articoliamo il nostro pensiero;

10. Curiamo la forma grafica: per catturare l’attenzione del lettore, ma anche per fargli capire come articoliamo il testo.

17 Per una trattazione più ampia si rimanda al manuale di M. A. Cortelazzo e F. Pellegri-no, Guida alla scrittura istituzionale, cit., dal quale questi suggerimenti sono ripresi.

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Un esempio di applicazione di questi suggerimenti ad un testo scarsamente comunicativo rende molto bene il senso dell’operazione svolta e la necessità di una “pulizia” linguistica18.

Testo originale

COMUNE DI TRENTOSERVIZIOAFFARI DEMOGRAFICI

Trento, xx/yy/zzzz

OGGETTO: Revisione onomastica stradale e numerazione civica.

Si comunica che a seguito di revisione ecografica, l’ingresso dello stabile situato in ... assume il seguente nuovo indirizzo: ...L’Ufficio Anagrafe del Comune provvederà d’ufficio alle conseguenti variazioni nel registro della popolazione residente; alla messa in opera delle nuove targhe sull’edificio provvederanno direttamente gli Uffici comunali competenti.Come indicato dalla circolare del Ministero dei Trasporti del 21 gennaio 1982, prot. n. 90/4630, la variazione anagrafica in esame non comporta per i proprietari di autoveicoli e per i titolari di patente di guida l’obbligo di fare aggiornare la carta di circolazione e la patente di guida, in quanto tale obbligo è previsto dal Codice della Strada soltanto per i casi di trasferimento effettivo di abitazione.La medesima circolare ministeriale suggerisce altresì che il Comune, allo scopo di evitare contestazioni che potrebbero comportare il ritiro dei documenti di circolazione non aggiornati munisca i cittadini di una attestazione da cui risulti che la variazione di indirizzo non è dovuta ad un trasferimento effettivo di abitazione.A tal fine si inviano a tutti i componenti ultrasedicenni della Sua famiglia residente nella zona interessata alla revisione le attestazioni predette.Si comunica inoltre che la suddetta variazione viene segnalata direttamente da questo ufficio ai seguenti enti: ENEL, SIT s.p.a. e Servizio Postale. Per l’aggiornamento dell’indirizzo della Sua utenza telefonica dovrà invece dare comunicazione per iscritto alla TELECOM ITALIA s.p.a. Ufficio Programmazione, Via Torre Verde, 11.Distinti saluti.

IL DIRIGENTE DEL SERVIZIO

18 L’esempio è tratto da Semplificazione del linguaggio amministrativo, Trento, Comune di Trento, 1998 (“Quaderni del Comune di Trento. Progetti”, 3).

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Testo semplificato

COMUNE DI TRENTOSERVIZI DEMOGRAFICI E COMUNICAZIONE

Trento, xx/yy/zzzz

OGGETTO: Modifica della denominazione stradale e del numero civico a seguito di decisione del Consiglio Comunale.

Gentile Signor Rossi,Le comunico che a seguito della deliberazione del Consiglio Comunale n° xxx di data xx/yy/zzzz il nuovo indirizzo dell’edificio di Via ... è il seguente: ...Il Comune aggiornerà d’ufficio quanto di sua competenza (anagrafe, autorizzazioni, tributi, comunicazioni agli enti pensionistici ed all’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari), installerà la targhetta indicante il numero civico e comunicherà la variazione direttamente all’ENEL, alla SIT S.p.A. e all’Ente Poste Italiane.Per l’aggiornamento della Sua utenza telefonica Lei dovrà compilare e spedire alla TELECOM ITALIA, Via Torre Verde n. 11 la richiesta, utilizzando il modulo allegato. Anche per tutti gli altri rapporti (ad esempio con la propria banca, assicurazione, ecc.) spetterà a Lei effettuare le dovute comunicazioni.I proprietari di autoveicoli e i titolari di patente non sono obbligati a cambiare l’indirizzo su libretto di circolazione e patente, perché l’obbligo è previsto solo nel caso di effettivo cambio di abitazione (*).Per evitare eventuali contestazioni che potrebbero comportare il ritiro dei documenti di circolazione non aggiornati, Le invio per tutti i componenti della Sua famiglia che hanno compiuto 16 anni, la dichiarazione da custodire assieme ai documenti di circolazione, dalla quale risulta che la variazione di indirizzo non è dovuta ad effettivo cambio di abitazione.Per ogni chiarimento può rivolgersi all’Ufficio Anagrafe (tel. 0461/884293).Cordiali saluti.

IL DIRIGENTE DEL SERVIZIO

(*) Circolare del Ministero dei Trasporti dei 21 gennaio 1982, prot. n. 90/4630.

Con questo testo l’amministrazione comunica per lettera ai diretti interessati che il numero civico della loro abitazione è stato modificato. Il cittadino

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che riceve la lettera è interessato a conoscere il nuovo numero assegnato, ma anche a sapere cosa di fatto comporta questa variazione e se vi sono particolari procedure alle quali deve provvedere in prima persona.Il testo originale, redatto secondo le consuetudini del linguaggio burocratico, affronta l’argomento da un punto di vista particolare, dando spazio a ciò che le leggi in materia dicono e strutturando le informazioni in maniera poco consequenziale.Diversa, invece, l’organizzazione testuale della riscrittura, che segue una logica semplice e molto più efficace. Il testo, infatti, subito dopo la comunicazione del nuovo numero civico, prima elenca quello che l’ente provvederà d’ufficio a fare e poi informa con ordine il cittadino sugli adempimenti ai quali deve provvedere in prima persona. In tal modo le stesse informazioni vengono ristrutturate secondo una logica maggiormente funzionale, aderente al punto di vista del destinatario più che a quello dell’emittente.Vi sono, inoltre, due aggiunte significative apportate nel testo riscritto rispetto all’originale: innanzitutto la specificazione che la decisione di rivedere la numerazione civica è stata presa con una deliberazione del Consiglio Comunale (i cui estremi vengono citati esplicitamente) e non è dunque una semplice procedura di routine amministrativa; poi, al termine della lettera, l’indicazione di un recapito telefonico al quale rivolgersi per eventuali chiarimenti.Dal punto di vista della lingua utilizzata, il testo riscritto presenta un’importante variazione per quel che riguarda il modo di rapportarsi con il cittadino. L’impersonalità del testo originale è attenuata nella riscrittura rivolgendosi direttamente al destinatario e ricorrendo sistematicamente alla terza persona singolare. Questa scelta è tanto più opportuna se si pensa che si tratta di una lettera indirizzata singolarmente ad ognuna delle persone interessate alla modifica della numerazione civica, e non di un manifesto rivolto indistintamente ai cittadini della zona.Anche il lessico della riscrittura si sforza di risultare meno tecnico e formale. Nel testo riscritto, ad esempio, viene cancellata come motivazione una criptica e assai poco perspicua «revisione ecografica» e l’aulico «messa in opera delle nuove targhe» diventa «Il Comune... installerà la targhetta indicante il numero civico».Come si è mostrato, il testo è reso più efficiente con la riscrittura soprattutto grazie ad una organizzazione testuale più coerente. La riscrittura ha reso il testo più comprensibile e più efficiente dal punto di vista informativo.

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5. Un esempio: la riformulazione in forma chiara ed efficace delle “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione”Le tecniche di redazione di testi chiari possono essere applicate con successo anche a testi di grandi dimensioni, spesso di importanza cruciale per l’organizzazione di particolari settori. Un’interessante esperienza in questo senso è rappresentata dal recente volume Le “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione” tradotte in italiano, a cura di Michele Cortelazzo, Chiara Di Benedetto e Matteo Viale19. Il titolo, con garbata provocazione, si riferisce al fatto che l’astruso testo diffuso ad ogni tornata elettorale dal Ministero dell’Interno per istruire i presidenti di seggio sulle attività da svolgere è scritto in un italiano spesso inutilmente complesso che per essere capito e reso efficace ha bisogno di una traduzione, quasi si trattasse di una vera e propria lingua straniera. Il documento del Ministero dell’Interno, quindi, che dovrebbe spiegare la legge ai non addetti ai lavori, finisce invece con l’essere più astruso delle leggi stesse. Difficoltà che si amplifica per il fatto che da tempi immemorabili lo stesso testo viene ripetuto, con tagli e aggiunte ad ogni modifica alle leggi elettorali spesso mal integrati col resto del discorso. Il lavoro di riscrittura presentato nel libro è nato come esercitazione all’interno di un corso della laurea specialistica in Scienze della Comunicazione del prof. Cortelazzo. La necessità di mettere alla prova le tecniche di scrittura chiara ed efficace su un testo tecnico concreto ha portato a scegliere come oggetto di esercitazione l’astruso testo del Ministero. Un paio di mesi di lavoro con gli studenti divisi in tre gruppi guidati dai docenti hanno consentito di riformulare solo una parte del testo, con esiti molto positivi. A corso terminato i docenti e un piccolo gruppo di studenti particolarmente motivati (C. Andreatta, M. Bisognin, I. Boschin, P. Corain, E. Finucci e F. Pietropoli) hanno deciso di proseguire il lavoro, riuscendo a terminarlo giusto in tempo per le elezioni dell’aprile 2008. Mai finora era però stato semplificato un testo così lungo e tecnicamente complesso come le Istruzioni per i presidenti di seggio. Non serve sottolineare come il significato dell’operazione compiuta vada al di là del testo specifico e delle elezioni ormai concluse, ma si ponga più in generale come modello

19 Michele Cortelazzo, Chiara Di Benedetto e Matteo Viale (a cura di), Le “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione” tradotte in italiano, Padova, Cleup, 2008.

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per la riformulazione di testi analoghi, con informazioni complesse da comunicare a non specialisti. L’obiettivo è una lingua chiara, che sia sinonimo di trasparenza del modo di agire, lucidità e razionalità del modo di pensare, efficienza senza pesantezze inutili. I risultati del lento e faticoso lavoro di riformulazione sono evidenti dalla lettura del nuovo testo uscito dal lavoro del gruppo: informazioni complesse e spesso tecniche sono riportate in modo chiaro ed efficace senza perdere di precisione. Anzi, la riformulazione in forma chiara ha consentito di mettere in luce vari “punti deboli” delle procedure, Il testo riformulato dà le stesse informazioni del testo originale ricorrendo a parole più semplici: scompaiono parole come “all’uopo”, “onde”, “previo” e in generale si fa ricorso maggiormente a parole del “lessico di base” dell’italiano. Anche dal punto di vista della sintassi il testo proposto è composto da frasi più brevi e con un minor ricorso alla subordinazione. Il confronto tra alcuni passaggi del testo originale e la loro riformulazione basta a rendere l’idea del lavoro svolto20.

Testo originale Testo semplificato

Ai medesimi fini di determinazione delle schede da autenticare, dovrà tenersi conto degli elettori ammessi al voto domiciliare, nel senso che dal numero di schede da autenticare andrà detratto il numero degli elettori iscritti nelle liste sezionali votanti a domicilio in altra sezione e andrà aggiunto, invece, il numero degli elettori non iscritti nelle liste sezionali ma aventi dimora in quell’ambito territoriale dei quali, pertanto, l’Ufficio sezionale sarà chiamato a raccogliere il voto al rispettivo domicilio.

Il presidente tiene conto anche degli elettori ammessi al voto domiciliare:

sottrae dal numero di schede da autenticare il numero degli elettori iscritti nelle liste della sezione che votano a domicilio in un altro seggio;aggiunge il numero degli elettori non iscritti nelle liste, ma che abitano nella circoscrizione della sezione, dei quali il seggio raccoglierà il voto a domicilio.

20 Il testo del Ministero e la riformulazione possono comunque essere consultati in forma completa al link www.maldura.unipd.it/buro/seggi.html.

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Testo originale Testo semplificato

Gli scrutatori sono nominati, in ciascun comune, dalla commissione elettorale comunale (art. 4-bis del testo unico sull’elettorato attivo approvato con decreto del Presidente delle Repubblica 20 marzo 1967, n.223 e successive modificazioni) o, eventualmente, dalla commissione straordinaria o dal commissario per la provvisoria amministrazione dell’ente, nel periodo compreso tra il 25° ed il 20° giorno antecedente quello della votazione (art. 6 della legge 8 marzo 1989, n. 95, e successive modificazioni).

Gli scrutatori sono nominati, tra il 25° e il 20° giorno che precede la votazione, dalla commissione elet-torale comunale o, eventualmente, dalla commissione straordinaria o dal commissario per l’amministrazione provvisoria del comune.

Sulla nomina degli scrutatori: art. 4-bis del T.U. 30 marzo 1957, n. 361; art. 6 della legge 8 marzo 1989 n. 95 e successive modifiche; decreto del D.P.R. 20 marzo 1967, n.223, e successive modifiche.

Al di là degli esempi, se si confronta la percentuale di parole che appartengono al vocabolario di base21 nell’intero testo di partenza e in quello riformulato, si nota che la riscrittura del testo ha portato ad un aumento del lessico di base usato di oltre 4 punti percentuali22. I dati mostrano anche la minor brevità rispetto all’originale del testo riscritto: gli stessi contenuti sono espressi con 10.000 parole di meno.

Istruzioni, testo originale

Istruzioni, testo riformulato

Vocabolario fondamentale 65,1 % 67,5 %Vocabolario alto uso 11,1 % 12,1 %Vocabolario alta disponibilità 9,7 % 10,8 %Non vocabolario di base 14,0 % 9,7 %Totale parole analizzate (34.086) (24.996)

21 Il vocabolario di base raccoglie le circa 5000 parole più frequenti e usate nella lingua italiana. Intuitivamente, quanto più alta è la percentuale del vocabolario di base di un testo tanto più il suo lessico risulterà di facile comprensione. Per ulteriori informazioni sul vocabolario di base e sull’interpretazione dei risultati rimando a Tullio De Mauro, Guida all’uso delle parole. Parlare e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire, Roma, Editori Riuniti, 1980. 22 Cfr. Matteo Viale, Un rinnovato stile per le Istruzioni: tra tradizione e nuovi model- li, in: M. Cortelazzo, C. Di Benedetto e M. Viale, Le “istruzioni…”, cit. p. 148.

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Inoltre, come evidenzia chiaramente la tabella sotto, ad una generale diminuzione del numero di parole della riformulazione rispetto al testo di partenza corrisponde un forte aumento del numero di frasi. In effetti, le frasi del testo delle Istruzioni riformulato sono in media decisamente più brevi rispetto al testo ufficiale del 2006 e passano da una lunghezza media di 38 parole per frase a 21 parole.

Istruzioni,testo originale

Istruzioni,testo riformulato

Gulpease23 45,70 53,33Totale lettere 193.706 136.617Totale parole 37.839 26.673Totale frasi 996 1.249Lunghezza media parole (in lettere) 5,12 4,98Lunghezza media frasi (in parole) 37,99 21,36

Questa iniziativa mostra come lo sforzo di chiarezza linguistica sia possibile sia nei testi più impegnativi sia in quelli legati al lavoro quotidiano, purché si sappiano padroneggiare alcune minime tecniche di redazione di testi e vi sia la volontà di usare la lingua come strumento di comunicazione. Semplificare e rendere chiaro il linguaggio pubblico non è tuttavia solo un problema di buona organizzazione. La semplicità è la correttezza della lingua sono valori di per sé perché specchio di correttezza morale, come ricorda una bella citazione tratta da un romanzo di Claudio Magris24 che ben si adatta a chiudere questo resoconto dei cambiamenti in corso negli usi pubblici del linguaggio verso una maggiore chiarezza e razionalità:

La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale e del-l’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all’accusa-

23 L’indice di leggibilità Gulpease è uno strumento statistico che consente di prevedere la difficoltà di un testo in una scala da 1 a 100 a partire da variabili quantitative come la lunghezza media delle parole in lettere e la lunghezza media delle frasi in parole. Per ulteriori informazioni sulla costruzione dell’indice e l’interpretazione dei risultati, rimando a T. De Mauro, Guida all’uso delle parole, cit. 1980, e al sito www.eulogos.net/it/censor/default.htm.24 Claudio Magris, Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, pp. 111-112.

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tivo o il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l’ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abo-lendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità. (...) rispettando la lingua, ossia la verità, s’irrobustisce pure la vita, si sta un po’ più fermi sulle proprie gambe e si è più capaci di fare quattro passi godendosi il mondo, con quella vitalità sensuale tanto più sciolta quanto più libera dai grovigli degli inganni e degli autoinganni.

6. Bibliografia essenziale25

Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposta e materiali di studio, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la Funzione Pubblica, 1993.

Cortelazzo Michele A. – Di Benedetto Chiara – Viale Matteo (a cura di), Le “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione” tradotte in italiano, Padova, Cleup, 2008.

Cortelazzo Michele A., Pellegrino Federica, 2003, Guida alla scrittura istituzionale, Roma-Bari, Laterza.

Cortelazzo Michele A. – Viale Matteo, Storia del linguaggio politico, giuridico e amministrativo nella Romània: italiano / Geschichte der Sprache der Politik, des Rechts und der Verwaltung in der Romania: Italienisch, in: Gerhard Ernst, Martin-Dietrich Gleßgen, Christian Schmitt und Wolfgang Schweickard (Hg.), Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen, 2. Teilband / Histoire linguistique de la Romània. Manuel international d‘histoire linguistique de la Romània, Tome 2 (HSK 23.2), Berlin - New York, Walter de Gruyter Verlag, 2006, pp. 2112-2123.

Cortelazzo Michele A., con la collaborazione di Federica Pellegrino e Matteo Viale (a cura di), Semplificazione del linguaggio amministrativo. Esempi di scrittura per le comunicazioni ai cittadini, Padova, Comune di Padova, 1999.

Cortelazzo Michele A. (a cura di), Il Comune scrive chiaro. Come semplificare la comunicazione al cittadino. Con 24 esempi di testi rielaborati e le istruzioni per scrivere con stile, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2005.

De Mauro Tullio – Vedovelli Massimo (a cura di), Dante, il gendarme e la bolletta. La comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel, a cura di Tullio De Mauro e Massimo Vedovelli, Bari-Roma, Laterza, 1999.

25 Vengono riportati i riferimenti bibliografici più importanti per un inquadramento del problema. Per ulteriori informazioni e per approfondimenti: www.maldura.unipd.it/buro.

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Fioritto Alfredo (a cura di), Il progetto per la semplificazione del linguaggio amministrativo (del Ministero dell’Economia e delle finanze), Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 2002.

Fioritto Alfredo, Manuale di stile dei documenti amministrativi, Bologna, il Mulino, 2010.

Franceschini Fabrizio – Gigli Sara (a cura di), Manuale di scrittura amministrativa, Roma, Agenzia delle Entrate, 2003.

Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, a cura di Alfredo Fioritto, Bologna, Il Mulino, 2007.

Piemontese Maria Emanuela, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Napoli, Tecnodid, 1996.

Raso Tommaso, La scrittura burocratica. La lingua e l’organizzazione del testo, Roma, Carocci, 2005.

Trifone Maurizio, Il linguaggio burocratico, in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di Pietro Trifone, Roma, Carocci, 2006, pp. 213-240

Viale Matteo, L’amministrazione vi manda a dire. Formazione scolastica e scrittura amministrativa. Il parere dei dipendenti pubblici, “Italiano & oltre”, XVII, 2002, pp. 183-189.

Viale Matteo, Studi e ricerche sul linguaggio amministrativo, Padova, Cleup, 2008.

Zuanelli Elisabetta (a cura di), Il diritto all’informazione in Italia, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 1990.

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