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Angelo Fusari DISCORSO SUL POTERE. DOMINIO E SERVIZIO Chiarimenti su un grande equivoco che angustia il governo delle società umane Pubblicato in: © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma www.europaedizioni.it – [email protected] ISBN 978–88–9384–931-9 I edizione febbraio 2019 Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A. Con il titolo IL PROBLEMA DEL POTERE: DAL POTERE-DOMINIO ALLA NECESSITÀ DEL POTERE-SERVIZIO (ma con notevoli differenze nel capitolo primo e nella retro copertina) Retro copertina Questo libro riveste particolare interesse nella attuale epoca di profondo sconcerto sul 1

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Angelo Fusari

DISCORSO SUL POTERE. DOMINIO E SERVIZIOChiarimenti su un grande equivoco che angustia il governo

delle società umane

Pubblicato in:

© 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma www.europaedizioni.it – [email protected]

ISBN 978–88–9384–931-9 I edizione febbraio 2019

Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

Con il titolo

IL PROBLEMA DEL POTERE: DAL POTERE-DOMINIO ALLA

NECESSITÀ DEL POTERE-SERVIZIO (ma con notevoli differenze nel capitolo primo e nella retro copertina)

Retro copertina

Questo libro riveste particolare interesse nella attuale epoca di profondo sconcerto sul comportamento e governo delle società umane con l’associata necessità di evitare le degenerazioni finanziarie del capitalismo della globalizzazione. Il libro è diretto a comprendere quello che il potere è stato attraverso i secoli e cosa esso sta diventando nelle moderne società dinamiche attraversate da rapidi mutamenti evolutivi ed offre un’esplorazione dettagliata dei diversi sistemi di potere che hanno operato nei vari contesti sociali e

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culturali della Terra. Esso fa uso di un metodo di analisi della realtà sociale che consente deduzioni scientifiche. La materia trattata viene analizzata con il fine di evidenziare soluzioni definitive di numerosi equivoci che hanno afflitto il pensiero sociale sulla questione del potere. Viene messo in evidenza il persistente carattere del potere quale forma di dominio e il suo stimolo alla guerra e ai disastri ecologici. Inoltre, il libro mostra che l’avvento della moderna democrazia, fondata sulla divisione dei poteri e la sovranità popolare, se da un lato ha favorito i cambiamenti dinamici, fieramente avversati da precedenti forme di potere, non ha però eliminato il fenomeno del dominio ma ha in effetti causato una intensificazione di esso, soprattutto attraverso forti combinazioni di potere economico e potere politico spesso rafforzate dalla loro estensione a livello internazionale. Ciò ha causato la diffusione di un superficiale e confuso populismo accompagnato da non minori confusioni sulla nozione di sovranità. Un altro aspetto principale del libro è la definizione di una nozione di potere-servizio, in alternativa all’idea e pratica corrente del potere-dominio. Il libro offre una trattazione scientifica delle esigenze organizzative che debbono essere adempiute per poter costruire un sistema sociale esprimente potere-servizio dove, in particolare, le innovazioni e incertezza crescenti siano principalmente di competenza di imprenditori non-capitalisti. Infine, il libro mostra che il potere-servizio sarà sempre più richiesto per il governo delle società contemporanee e che esso arrecherà grandi benefici alle popolazioni povere ed oppresse, come pure alla pace universale e agli equilibri ecologici.

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IntroduzioneSono stato spinto a scrivere questo libro dal proposito di rimediare alla sostanziale

assenza, nel pensiero sociale, di analisi organiche sul fenomeno del potere malgrado la grande importanza di questo nel caratterizzare, con le connesse implicazioni e contenuti, la vita e gli stessi destini delle società umane. Il pensiero scientifico non può insistere ad ignorare, spesso per opportunismo, i prevalenti contenuti delle forme di potere, un fenomeno aduso a privilegiare i forti e sacrificare i deboli. Occorre interrogarsi a fondo su quello che il potere è stato ed è, contrapponendovi ciò che questo grande attore de sistemi sociali è sempre più chiamato ad essere.

Viviamo in uno dei periodi più drammatici della storia umana e tale drammaticità tende a crescere insieme alle incomprensioni che l’accompagnano. Il mondo ha compiuto enormi progressi nelle scienze logico-formali e naturali, nelle conquiste meccaniche e tecnologiche. Ma tali progressi, in quanto autori di mutamenti non ripetitivi delle società umane, si sono tradotti in una crescente incapacità, stimolata dagli interessi di classi dominanti, di intendere e governare gli associati processi e mutamenti sociali. Profondi malintesi sul metodo del sapere sociale sono i principali responsabili di questa situazione. Le ragioni, implicazioni e trionfo di tali malintesi emergono con particolare chiarezza in relazione alla questione del ‘potere’.

Questo studio occupa una posizione particolare nel complessivo itinerario delle mie ricerche sulle società umane. Esso presenta una intensa esplorazione che attraversa, con arresti e riprese, il procedere di altri miei studi sui sistemi sociali, giacché tali studi si sono in vari modi incrociati con la questione del potere.

Iniziai a trattare il tema in un saggio pubblicato nel 1985 dal titolo ‘Problemi di analisi e interpretazione dei processi economici, storici, sociali’1, che contiene vari spunti ripresi in miei studi successivi.

Subito dopo, i miei approfondimenti sulla storia universale mi fecero comprendere la centralità della questione del potere nel contesto del divenire delle società umane e pertanto mi indussero ad avviare una intensa analisi sul fenomeno del potere. Ma presto dovetti prendere atto che tale impegno era prematuro; in particolare, mi resi conto che la questione del potere solleva importanti interrogativi sul metodo del pensiero sociale. Decisi così che la prosecuzione dell’indagine sul potere esigeva di affrontare prioritariamente problemi e superare equivoci metodologici che si andavano rivelando sempre più pressanti nel corso della mia analisi storica. Di conseguenza, arrestai gli studi sul potere, per concentrare l’attenzione sulla questione del metodo del pensiero sociale.

Dopo aver portato a termine tale impegno ed aver formulato un metodo che sembra più appropriato di correnti metodologie all’analisi della realtà sociale, sono in grado di riprendere e spingere a fondo l’analisi sul potere munito di una attrezzatura analitica che ritengo sufficientemente penetrante e illuminante su contenuti, implicazioni, ecc. di tale fenomeno. Pertanto, è giunto il turno del grande assente, il fenomeno del potere, fulcro del governo delle società umane.

Questa esigenza di riprendere gli studi sul potere è indotta dal bisogno di chiarire a fondo cose che credo oltremodo sbagliate e fuorvianti sul tema e che sono causa di crescenti equivoci concernenti soprattutto le moderne società dinamiche: un mondo reso largamente sofferente, come già accennato, da equivoci e impotenza delle metodologie correnti in presenza del crescente dinamismo e non ripetitività dei fatti sociali.

1 Cfr. A. Fusari, Problemi di analisi e interpretazione dei processi economici, storici, sociali Edizioni CREF, Roma, 1985

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Ho dedicato la seconda parte del mio libro intitolato ‘Methodological Misconcptions in the Social Sciences’2 ad applicazioni del metodo ivi delineato ai vari campi del sapere sociale: antropologia, scienze politiche, diritto, sociologia, pensiero etico e religioso. Dopo di che, non ho potuto fare a meno di dedicare uno studio d’insieme alle società umane nel volume dal titolo ‘Understanding the course of social reality. The necessity of institutional and ethical transformations of utopian flavour’3, nonché alla teoria economica, nel libro dal titolo ‘A new economics for modern dynamic economies- Innovation, uncertainty and entrepreneurship’4. Riprendo ora e condurrò a fondo l’analisi su forme e teorie del potere, verso la definizione di una nozione di potere che vagamente è apparsa e presto scomparsa nel contesto delle vicende umane, scacciata in quanto assai scomoda e ingombrante per le classi egemoni, ma che oggi appare una necessità per il governo delle moderne società dinamiche: la nozione di potere-servizio. Credo di avere già provato tale necessità in altra opera5. Ora ne farò oggetto di uno specifico contributo analitico, teso a tracciare con chiarezza e abbondanza di riferimenti la sua necessità funzionale. Chi non gradisce semplificazioni, può trovare maggiori dettagli nel mio libro sulla storia dal titolo ‘L’avventura umana’6.

Quel che dirò non riguarda la gestione personale del potere e/o la gestione del potere da parte di strutture direttive, tematica questa privilegiata da Machiavelli. Il problema centrale nella mia analisi sul potere è l’emergere e la sostanza delle forme di potere che hanno operato nel corso della storia e le implicazioni del loro modo di essere. Quindi: il potere negli imperi burocratici-centralizzati e autocratici, nelle società primitive, nelle società feudali, nel capitalismo, ecc.

Naturalmente, questi aspetti si intrecciano con la questione dell’esercizio personale del potere, giacché tale esercizio è molto influenzato dai vigenti caratteri dell’organizzazione del potere. Vedremo succedersi varie forme di potere-dominio, più o meno dispotiche, il loro confrontarsi e interagire, l’operare di varie forme di liberazione; ma mai vedremo, in nessuno degli ordinamenti sociali venuti in essere, attuarsi la liberazione dal potere-dominio. Vedremo l’incontrollato agire in varie forme del potere-dominio e le sue gesta più e meno disgustose. Esploreremo come si pone il problema del potere nel mondo del mutamento e come le forme di potere influenzano le capacità dinamiche delle società umane, esaltando la stazionarietà dei processi o, viceversa, il movimento dinamico-evolutivo.

In parallelo alla ampia discussione delle varie forme di potere-dominio, verrà anche considerato l’itinerario storico che porta verso il potere-servizio in quanto necessità organizzativa dei moderni sistemi sociali: una tendenza che, per quanto energicamente respinta ed occultata dalle classi dominanti, è tuttavia inevitabile e sempre più pressante.

La nozione di potere-servizio esige una rivoluzione metodologica che consenta di definire e trattare scientificamente l’organizzazione dei sistemi sociali, centrandola sulla definizione di necessità organizzative, di imperativi funzionali e non solo. Le mie varie e accennate analisi sul metodo intendono fornire preziose nozioni al riguardo.

2 Cfr. A. Fusari, Methodological misconceptions in the social sciences. Rethinking social thought and social processes. Springer, New York, London, 2014 3 Cfr. A. Fusari, Understanding the course of social reality. The necessity of institutional and ethical transformations of utopian flavor, Springer, 2016 4 Cfr. A. Fusari, A new economics for modern dynamic economies- Innovation, uncertainty and entrepreneurship, Routledge, 2017 and H. Ekstedt & A. Fusari, Economic Theory and Social Change. Problems and revisions, Routledge (Frontiers of Political Economy) 205 Cfr. A. Fusari, Understanding the course of social reality, opera citata6 Cfr. A. Fusari, L’avventura umana. Indagine sul cammino dei popoli e delle civiltà. SEAM, Roma, 2000, pp. 773

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PARTE PRIMA

Potere-servizio e principali forme di dominio comparse nella storia

Premessa

Questa parte inizia con un raffronto fra potere-dominio e potere-servizio, il sovrano regnante e quello destinato a rimpiazzarlo. Avremo modo di scandagliare a fondo la sostanza e i modi di essere del sovrano in carica, di cui sono ben note gesta, caratteri e inclinazioni. Invece, con riguardo all’aspirante successore, illustre ma quasi sconosciuto, alla definizione dei suoi caratteri, delle sue pretese ed eventuale legittimazione, dobbiamo rinviare a nostri voluminosi scritti su: a) ‘Methodological misconceptions in the social sciences. Rethinking social thought and social processes’, che nella sua prima parte si concentra sulla questione del metodo del pensiero sociale e nella seconda parte estende i risultati conseguiti sul metodo ad antropologia, scienze politiche, diritto, sociologia, pensiero religioso; b) A new economics for modern dynamic economies. Innovation, uncertainty and entrepreneurship, che tratta di teoria economica e politica economica.c) Un libretto intitolato ‘Understanding the course of social reality.The necessity of institutional and ethical transformations of utopian flavour’, che configura le istituzioni e il funzionamento di un sistema sociale che appare reclamato sempre più dal corso dei tempi. Nei capitoli terzo e quarto di questa prima parte insisteremo sull’enuclearsi e poi lo stabilirsi di varie forme di potere-dominio nelle più antiche società umane ed il loro sostanziarsi in una varietà di tipologie caratterizzate, per lo più, da forme istituzionali e di civiltà fra loro assai differenti ma sempre animate dalla interazione fra dominatori e dominati. Considereremo l’importanza delle forme di potere nel caratterizzare la sostanza e il divenire delle società umane, affiancandovi il ruolo delle forme di civiltà, con gli associati imperativi ontologici, nel determinare l’andamento delle condizioni generali di sviluppo con le associate necessità organizzative (imperativi funzionali) in quanto imposte da problemi di razionalità ed efficienza organizzativa.

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CAPITOLO I

Potere-dominio e potere-servizio

Premessa

Destano profonda impressione i dati del recente rapporto Oxfam sulle diseguaglianze nel mondo. Il rapporto si intrattiene anche su suggerimenti e strategie volti a fronteggiare e attenuare tale incredibile situazione. Purtroppo, viene ignorato il problema di fondo e quindi la via maestra per poter agire proficuamente contro le dilaganti diseguaglianze economiche e sociali: la questione del potere, con le associate forme di dominio. Più precisamente, viene accettata l’identità fra potere e dominio, in quanto ritenuta inevitabile dal pensiero sociale. Questo libro si propone di penetrare a fondo il problema del potere, che è alla base della situazione descritta dalle statistiche Oxfam.

Il fenomeno del potere, con i suoi contenuti, modalità di esercizio e implicazioni sui modi di essere e sentire degli uomini, riveste importanza centrale nel caratterizzare le varie forme di civiltà e il modo di agire dei singoli sistemi sociali. Gli studi sociali richiedono pertanto chiare impostazioni e attenti approfondimenti sul tema: opera non agevole, in verità, dato che la questione del potere solleva nel pensiero sociale problemi metodologici che ancora attendono soluzione.

Il concetto di potere può essere inteso in vari modi. Ad esempio, ci si può concentrare sull’esercizio dell’arte del potere, in particolare, sulle modalità più appropriate, anche sotto il profilo psicologico, di rendere efficace l’esercizio del potere e farlo accettare a chi vi è sottoposto, cioè sul rapporto fra comandante e comandato. N. Machiavelli nel Principe, ed assai prima di lui l’indostano Kautilya nell’Arthasastra, sono stati gli autori che hanno trattato questo aspetto con il maggior acume, quasi con provocatoria spregiudicatezza. Basterà ricordare il seguente suggerimento di Machiavelli al principe: «Uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a essere non buono, et usarlo e non usare secondo le necessità» ed «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno dé dua».7

R. Greene ha dedicato una voluminosa trattazione a questo aspetto8 elencando, con dovizia di argomentazioni, 48 cosiddette leggi del potere: non ponete in ombra il vostro capo; non fidatevi troppo degli amici; imparate ad approfittare dei nemici; mascherate le vostre intenzioni; dite lo stretto necessario; difendete strenuamente la vostra reputazione; fate sì che gli altri lavorino per voi, attribuendovi il merito del loro operato; vincete attraverso le azioni, mai col ragionamento; ecc. Egli aggiunge, inoltre, che per cimentarsi con successo con il gioco del potere occorre saper mentire, raggirare, giocare con le apparenze; essere pazienti, non fidarsi mai completamente di nessuno. Sottolinea anche che l’arte dell’inganno è l’arma più potente nel gioco del potere; ecc.

Qui non interessano questi aspetti concernenti l’arte del potere e del governare. La nostra attenzione sarà rivolta in modo secondario ai rapporti personali di potere, cioè all’esercizio del potere da parte del governante sul governato. Siamo interessati alla questione ben più rocciosa ed invasiva delle forme di potere, del loro avvento, significato e implicazioni sia nel governo delle società umane che sulla stessa configurazione degli umani sentimenti. Dunque, concentreremo l’attenzione sui contenuti dei sistemi di potere e di governo, cioè sulle forme di potere. In parallelo, ripercorreremo molta parte delle

7 Cfr: N. Machiavelli, Il Principe, Rizzoli, Milano, 1950, pag. 66 e pag. 718 Cfr:R. Greene, Le 48 leggi del potere, a cura di Joost Elffers, Baldini e Castoldi editore. Milano, 1998

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teorizzazioni svolte dagli studiosi sociali sulle forme di potere e sull’operare di queste nel corso della storia. Insomma, dobbiamo ribadire che non siamo interessati alla psicologia del potere ma al ruolo delle forme di potere con riguardo all’organizzazione delle società umane e alle implicazioni di esse sul divenire del mondo e sullo stesso modo di essere degli uomini. Le forme di potere esercitano per tal via la loro influenza anche su alcuni aspetti dell’arte di governare, accennati in precedenza. Più in generale, vedremo che le forme di potere rivestono un ruolo centrale negli studi sui contenuti e sul divenire dei sistemi sociali e nell’interpretazione della storia; infatti esse costituiscono aspetti fra i più significativi dei processi storico-sociali e, parallelamente, nel caratterizzare e determinare gli andamenti delle condizioni generali di sviluppo. Ripercorreremo la vicenda e il significato dell’avvento di varie forme di potere di comando al variare delle condizioni generali di sviluppo: a partire dalle società primitive dove non esistono poteri di comando ma vige un non meno perentorio ‘potere della società’. Con l’avanzare dello sviluppo, vedremo emergere ‘poteri di comando’ incarnati da grandi capi, gruppi armati e altri raggruppamenti sociali. Visiteremo le forme emergenti di poteri di comando nelle società di nomadi. Vedremo poi il potere di comando vestire in forme sempre più esplicite i panni del potere statale negli stati autocratici, negli imperi burocratico-centralizzati ma anche nei regimi teocratici; inoltre, lo vedremo all’opera nelle condizioni di decentralizzazione politico-amministrativa, in forme apparentemente meno rigide ma non meno penetranti dei casi precedenti: società feudali, società mercantili e infine nel capitalismo.

Una grande distinzione si impone all’attenzione degli studiosi del potere: quella fra potere-dominio e potere-servizio. La storia umana è disseminata di forme di potere-dominio; le varie teorie sulle forme di potere elaborate dagli studiosi concernono, come vedremo, il potere inteso quale dominio, essendo questo il genere di potere offerto dall’esperienza storica. Dedicheremo una attenta analisi alle varie forme e teorie del potere-dominio, illustrandone caratteristiche ed effetti. Ci sforzeremo di delineare le ragioni delle varie forme di potere venute in essere e di chiarire i loro limiti e inganni. Parallelamente, considereremo i limiti delle varie teorizzazioni sul potere che tutte, pur nelle loro specificità, concernono sempre forme di dominio.

1. Contenuti, conseguenze e radici di un grande malinteso.

Il fenomeno del potere, in quanto concerne l’esercizio di ruoli di comando, tende per sua natura ad assumere la veste di una relazione di dominio dell’uomo sull’uomo, tende a sottomettere, non a servire. Quel che è peggio, usa vigorosamente le prerogative insite nel ruolo di comando per difendere e consolidare tale relazione di dominio da parte dei detentori di essa. Ma l’esercizio del dominio costituisce un dramma per chi lo esercita, cioè i dominatori, ancor più che per coloro che lo subiscono, cioè i dominati. Per rendersi conto di ciò basta leggere le analisi di quanti hanno indagato sul potere, a partire da quella del più acuto e universalmente apprezzato studioso della materia, Niccolò Machiavelli. Questi esprime grande ammirazione per Cesare Borgia, citandolo quale esempio di accorto politico in grazia della grande spregiudicatezza con cui si sbarazzò dei suoi avversari sopprimendoli fisicamente e, qualche volta, limitandosi ad imprigionarli, nel corso delle sue conquiste. Con quali risultati? Fu a sua volta vittima della logica di dominio del nuovo papa e si limitò a subirla, per ragioni di salute. Machiavelli non dà importanza al fatto che le vittime di Cesare Borgia erano anch’essi dei dominatori implacabili e che l’esercizio delle forme di dominio implica assai spesso il reciproco massacro fra dominatori ed una loro condizione di estrema insicurezza. Sembra che il kedivè d’Egitto Mohammed Alì, dopo aver sterminato attraverso i fedeli albanesi i Mammelucchi che gli contendevano il potere, attratti con l’inganno e rinserrati nella cittadella del Cairo, e dopo aver completato

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lo sterminio dei Mammelucchi sfuggiti all’inganno, leggesse Machiavelli per sentirsi assolto da tanta crudeltà. In effetti c’è grande somiglianza, tranne le dimensioni, fra la strage dei Mammelucchi e la strage di Senigallia orchestrata dal Borgia. L’esercizio del dominio è sempre stato un gioco al massacro, specie fra i dominatori; dopotutto, ai sudditi dominati bastava accettare il gioco e starsene sottomessi.

Se dagli accennati pesanti contenuti del dominio passiamo a considerarne le conseguenze, vediamo moltiplicarsi le atrocità e sofferenze che ne accompagnano l’esercizio. Di più. Ci rendiamo conto che il dominio costituisce il fenomeno in cui si sono più estrinsecati e da cui sono stati maggiormente alimentati i vizi umani e le guerre, distruzioni e aggressioni fra popoli e uomini, magari per precedere potenziali aggressori o evitare di essere aggrediti. La storia umana è scandita dai fenomeni bellici e la vita umana assai più dagli scontri che dagli incontri; il tutto all’insegna di rapporti di dominio. L’economia ha quasi sempre operato, specie nei paesi di cosiddetto libero mercato, attraverso crudeli e reciproche aggressioni, anziché attraverso una sana competizione; e gli equilibri ecologici soffrono sempre più l’aggressione delle forme di dominio. Questa situazione va aggravandosi con lo sviluppo a scala planetaria, nel mondo della globalizzazione, delle forme e della forza del dominio. Pochi dati tratti dal rapporto Oxfam 2019 sulle diseguaglianze nel mondo sono sufficienti a dare un’idea dell’estrema gravità della situazione. L’1% della popolazione della Terra possiede il 47,2% della ricchezza mondiale, All’80% della popolazione mondiale va appena il 5,5%. Dal 1970 al 2016 il capitale privato è fortemente aumentato, contro il declino del capitale pubblico; in pari tempo, si è circa dimezzata la quota percentuale di tassazione a carico degli individui ricchi e delle corporazioni. Per gli anni che verranno è prevista una forte tendenza delle diseguaglianze a crescere.

Desta profonda impressione il moltiplicarsi della miseria materiale e tanto prosperare delle diseguaglianze sociali a danno di grandi masse umane, in un mondo distinto da enormi progressi delle tecnologie, delle conquiste scientifiche e delle capacità di produrre. Tale povertà di massa soffoca, per giunta, la valorizzazione di tanta parte delle capacità intellettive e della genialità che la natura distribuisce a caso fa gli esseri umani, fra poveri e ricchi, sviluppati e sottosviluppati.

Come spiegare tanta universale accettazione, non solo nella realtà fattuale ma anche nel pensiero scientifico, di un fenomeno luttuoso come il dominio e tanto prosperare della ingiustizia sociale? Ci deve essere qualche grande equivoco metodologico del pensiero sociale a propiziare il libero esercizio di un fenomeno come il dominio che danneggia dominatori e dominati ed è responsabile e autore delle tante assurdità che abbiamo sinteticamente richiamato. Solo un radicato equivoco sul metodo può impedire motivate condanne da parte degli studiosi del dilagante fenomeno del dominio e chiudere loro la bocca. Orbene, tale equivoco è costituito dal trionfo, anche nel sapere sociale, del glorioso metodo osservativo-sperimentale.

E’ saggio trarre insegnamenti dalla realtà naturale attraverso l’osservazione attenta dell’accaduto, giacché in tal caso il passato e il presente differiscono assai poco dal divenire. In verità, anche la realtà naturale registra processi evolutivi, soprattutto attraverso la lotta per l’esistenza e l’esercizio del dominio dei più dotati. Ma tale evoluzione produce nuove specie solo attraverso i millenni. Questa presenza e opera inoffensiva, ma anzi migliorativa, del dominio nei processi naturali, sottolineata da Darwin, ha indotto il sapere umano a credere che nello studio dei processi sociali possa essere proficuamente applicato l’osservazionismo naturalista. Ma l’esplicarsi della creatività umana determina, in luogo dei lentissimi processi evolutivi del mondo naturale, un succedersi di innovazioni che causano marcate differenze fra passato e presente ed elevate capacità di dominio autrici,

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fra l’altro, di un sistematico interagire di ricchezza e miseria. Pertanto, è priva di senso l’estensione della realtà constatata anche al futuro della società, come fa il metodo osservativo-sperimentale; peraltro tale estensione implica l’esplicarsi, sull’onda dei rapporti di dominio, di un tremendo darwinismo sociale.

L’operare incontrastato del dominio nel corso della storia umana, quale forma di esercizio del potere, fa sì che la fede nelle capacità esplicative dell’osservazione storica tende a trascinare lo studioso nel regno del potere-dominio, inducendolo a credere nell’inevitabilità di tale forma di potere. Machiavelli costituisce solo il più noto e famoso esempio di come la mera osservazione della realtà e la deferente accettazione dell’accaduto conduce gravemente fuori strada nello studio dei processi sociali e nel ricavare dall’osservazione della realtà effettuale insegnamenti sul governo delle società umane.

C’è di più. Il metodo osservativo fornisce ai dominatori un altro formidabile strumento per rafforzare e conservare la loro egemonia: la possibilità di forgiare liberamente le forme etiche appropriate alla difesa di indebiti privilegi. Precisamente, l’osservazione del gran numero di forme etiche espresse dalla storia induce, sulla scia dell’osservazionismo, a statuire la libertà nella definizione dei valori (relativismo culturale). Consente inoltre alle varie religioni di affermare che i valori costituiscono l’espressione dei loro assai vari precetti di fede (assolutismo culturale). Ma alcuni fondamentali valori hanno carattere oggettivo, cioè sono una necessità organizzativa, come vedremo nel paragrafo su potere-dominio e potere-servizio che seguirà. A ben vedere, il potere-dominio costituisce una assurdità sul piano organizzativo ed è sorprendente che l’intelligenza umana si sia assoggettata, nel corso della storia, alle astute gesta del dominio, ritenute inevitabili dalla teoria dominante.

Bisogna temere più di ogni altra cosa i venerati insegnamenti, sulla vita sociale, del metodo osservativo-sperimentale e mai farsi incantare dai grandi successi conoscitivi che tale metodo ha consentito nel campo del sapere naturalistico: un campo in cui l’uomo è costretto, per lo più, ad agire da spettatore e a trarre insegnamenti attraverso la quasi ripetitività dei fenomeni naturali, senza mai operare da grande attore e protagonista degli eventi. Lo studio degli avvenimenti sociali, opera dell’uomo, richiede una metodologia centrata sull’aspetto organizzativo, sulla costruzione dell’esistente, anziché sulla mera accettazione di questo; richiede insomma (e come vedremo) una metodologia centrata sul dover essere, muovendo da aspetti fondamentali dell’essere.

Ci si lasci insistere sul fatto che i fenomeni naturali hanno eminentemente carattere ripetitivo, sono qualcosa che preesiste all’uomo, con cui questi interagisce; essi, salvo il caso di occasionali movimenti caotici, rispecchiano leggi di movimento che l’uomo può scoprire attraverso attente osservazioni. Invece, i fenomeni sociali sono impregnati dall’azione creativa, innovativa e organizzativa dell’uomo e questo tende a sospingere dalla quasi-stazionarietà del mondo primitivo verso processi sociali sempre più dinamici, caratterizzati da modifiche crescenti delle forme organizzative in atto. Ne segue che, specie con riguardo alle moderne società umane, il vero problema non è di interpretare l’esistente ma di aprire gli occhi rispetto al divenire; non serve l’ottica dell’osservazione da cui ricavare leggi di movimento, ma la questione è di organizzare le società umane (nel corso della loro evoluzione) nei modi più rispondenti alle esigenze presenti e in divenire e precisamente ai contenuti e movimenti delle condizioni generali di sviluppo in atto. Orbene, il fenomeno del potere occupa una posizione centrale nel contesto di tali esigenze organizzativistiche.

Dunque, per evitare i tanti mali arrecati dal grande equivoco metodologico appena richiamato occorre sostituire, negli studi sociali, alla visione osservativa l’idea organizzativa e parallelamente all’idea di dominio quella di servizio, di cui passiamo ad occuparci.

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2. Dal potere-dominio al potere-servizio

Procediamo dunque ad alcune considerazioni sui caratteri e la sostanza del potere-servizio, questa moderna necessità organizzativa che bussa sempre più insistentemente alla porta con l’evolvere delle condizioni generali di sviluppo in forme sempre più incompatibili con l’abituale regnante costituito dal potere-dominio.

A mia conoscenza, una nozione di potere alternativa al dominio è emersa con chiarezza solo una volta nel corso delle vicende umane: è la formulazione evangelica del (ed esortazione al) potere inteso quale servizio. E’ scritto nel vangelo di Matteo: «colui che vorrà diventare grande fra di voi si farà vostro servo e colui che vorrà essere il primo fra di voi si farà vostro schiavo, appunto come il Figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito ma per servire»

Tale prescrizione (che riprenderemo più estesamente nel capitolo VI, sezione b dal titolo Il potere secondo il cristianesimo orientale e occidentale) non è accompagnata da una teoria di supporto, è piuttosto un’esortazione. E’ un appello alla coscienza dell’uomo, un appello che non è riuscito a scalfire gli ardimenti e la forza d’imperio del potere-dominio. Ed infatti, il concetto di potere-servizio venne accantonato quasi subito dopo la sua enunciazione, già nelle lettere dei due maggiori apostoli, Pietro e Paolo, forse per ragioni tattiche o perché scarsamente rilevante nel loro tempo, che aveva a che fare con la forma di potere tipica del Principato di Augusto la quale nella storia ha espresso in modo assai tenue la veste di dominio. Con l’affermarsi del potere esercitato dal Cristianesimo nella società, la nozione evangelica di potere-servizio venne riferita alla sfera spirituale; riemerse nella sua veste originaria solo a vari secoli di distanza, negli scritti del frate francescano G. Occam.

In verità, il concetto di potere-servizio costituisce una prescrizione assai scomoda e istintivamente aborrita da chi esercita il potere. E’ molto più facile e gratificante governare dominando che governar servendo. Per quanto si voglia dichiarare di governare e sacrificarsi per il bene del popolo, l’asservimento dell’uomo di potere, cioè un potere senza potere, sembra quasi una contraddizione terminologica. Così, il fenomeno del potere-dominio è restato ad improntare, spesso con arroganza crescente, il governo delle società umane ed a dirigere le trasformazioni conosciute da queste nel corso della storia.

Forse non si poteva fare di meglio. Il concetto di potere-servizio è molto impegnativo, sia sul piano teorico e scientifico, sia dal punto di vista della realizzazione pratica. Esso può inverarsi solo allorché il processo evolutivo dei sistemi sociali ha raggiunto livelli in cui non se ne può fare a meno. Ma, fino a quando il potere-servizio si limita ad essere una esortazione alla bontà dell’uomo, esso tende ad essere respinto dalla logica dei rapporti di forza, logica che caratterizza il creato dall’inizio dei tempi. Se così è, perché intrattenersi a discutere di ciò che incarna una sorta di inevitabile frustrazione concettuale? Semplicemente (giova ripeterlo) perché l’evoluzione delle condizioni generali di sviluppo, in particolare la continua accelerazione dei fenomeni innovativi e la conseguente non ripetitività dei fatti sociali tendono a far assumere al potere-servizio la veste di una “necessità” organizzativa dei sistemi sociali. Il punto è che, per consentire l’avvento del potere-servizio, c’è crescente bisogno dell’opera degli scienziati sociali, muniti di una metodologia di ricerca all’altezza della situazione. Precisamente, c’è bisogno di una capacità interpretativa dei fenomeni sociali e di una sofisticazione metodologica che il pensiero sociale stenta ad acquisire. Vediamo meglio.

La nozione evangelica di potere-servizio rappresenta una grande rivelazione. Ma il problema vero è di definire i contenuti e le possibilità della rivoluzione istituzionale che l’operatività di tale concetto richiede. Tale definizione esige di penetrare a fondo la

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questione delle forme organizzative delle società umane; richiede quindi un metodo di studio che si basi su una visione organizzativistica. Purtroppo, di tale visione non c’è traccia negli studi sul metodo, che sempre raccomandano l’analisi attenta della realtà di fatto. Il punto è che gli andamenti spontanei e la realtà sociale osservata soggiacciono a logiche di dominio, e peraltro l’esercizio del potere segue, come già accennato, di per sé logiche di dominio dato che chi governa non è incline a servire e viene spodestato se non ha forza di dominio.

Ma, come già visto, il potere-dominio costituisce una forzatura e un inganno ai danni della massa dei sottoposti; ancor più, opera a danno dei dominatori in quanto attiva tendenze verso la loro reciproca eliminazione o sottomissione. Affinché l’inganno venga in superficie, occorre dimostrare il carattere di abuso del potere-dominio e il fatto che questo non costituisce una ineludibile necessità organizzativa. Ma sappiamo che tale comprensione è oscurata del grande equivoco metodologico che si è impossessato del sapere sociale e affligge l’opera degli studiosi: l’affermarsi della prospettiva osservazionistica, che ha consentito la nascita delle scienze naturali ed ha sottomesso a sé anche le scienze sociali, in sostituzione dell’inclinazione organizzativistica con cui la Chiesa intese sfidare Galileo. E’ curioso vedere che la Chiesa ha espresso entrambi gli strumenti metodologici su cui andiamo insistendo: l’esortazione al servizio e l’idea organizzativistica. Purtroppo, non solo li ha lasciati cadere ma mai più ha tentato di riesumarli, neppure oggi che sono resi indispensabili dal corso dei tempi.

Nel caratterizzare il nuovo ospite (il potere-servizio), nuovo imperativo funzionale, riprenderemo alcune considerazioni svolte sul tema nel libretto dal titolo ‘Understanding the course of social reality. The necessity of institutional and ethical transformations of utopian flavour’, che confronta la società terrestre con una ipotetica società extraterrestre i cui studiosi e governanti ci hanno preceduto nella definizione di un metodo di analisi appropriato alla realtà sociale ed esattamente all’opposto di noi terrestri hanno erroneamente preteso di estenderne le prescrizioni anche al sapere naturalistico e tecnologico. Il loro metodo, centrato sull’organizzazione dei sistemi sociali di riferimento, anziché sulla mera osservazione dei rapporti e dei fatti sociali in essere o, più precisamente, centrato sulla derivazione, dai caratteri di base della realtà in atto, dei modi più razionali ed efficienti di organizzazione di essa, ha sospinto le loro indagini sull’organizzazione dei sistemi sociali dalla sottomissione ai rapporti di dominio verso edificazioni istituzionali attuate all’insegna della nozione di potere-servizio, in alternativa al potere arbitrario di dominatori. Vediamo brevemente alcuni aspetti concettuali concernenti il potere-servizio, iniziando con il ribadire che tale forma di potere non è un fatto di mera osservazione; la realtà tende ad ignorarlo ed a seguire logiche di dominio. E’ bensì una forma organizzativa delle società umane che, per inverarsi, deve essere perseguita con decisione. Non riguarda meramente l’essere ma deve combinare essere e dover essere.

Franco Ferrarotti ha sottolineato giustamente che: «l’errore della concezione scientista consiste nella sommaria riduzione delle scienze storico-sociali alle scienze naturali».9 Per poter evitare ciò, occorre innanzitutto concentrarsi sulla definizione di categorie organizzative che esprimano basilari aspetti delle società umane e sul loro divenire, ricavandoli da tratti di fondo delle formazioni sociali e dalla importanza funzionale di questi; ma non ricavandoli attraverso una sorta di pedanteria osservazionistica sui fatti sociali bensì attraverso la combinazione di osservazione e organizzazione, essere e dover essere.10 Occorre, insomma, una progettazione

9 Cfr. Ferrarotti F.: Filosofia e ricerca sociale, Edizioni Solfanelli, Chieti 2018, pag. 5110 Scrive Ferrarotti: «L’analisi sociologica ci dice che dalla storia non si evade»….e più oltre «ecco la sociologia come scienza d’osservazione concettualmente orientata». Cfr. Ferrarotti F: Scienza e coscienza, EDB, Bologna, 2014, pp. 41 e

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organizzativa tratta dalla concentrazione su tratti di base e particolarmente significativi dei processi sociali. Tre importanti categorie organizzative sembrano fornire una trama preziosa per l’interpretazione e il governo dei sistemi sociali, e quindi anche per delineare il concetto di potere-servizio:

a) Gli imperativi ontologici, forme organizzative che influenzano in modo decisivo l’estrinsecarsi delle potenzialità evolutive della natura umana, quindi i processi innovativi e creativi. I maggiori di questi imperativi sono il principio di tolleranza e la centralità e dignità dell’individuo, fondamentali per alimentare, attraverso la ricerca e il dibattito, l’evolvere delle conoscenze umane, il pluralismo, il principio di responsabilità, ee..

b) Le forme di civiltà, che costituiscono fondamentali scelte organizzative di lunga durata. Una loro importante caratteristica è la presenza o meno, nel loro ambito, di imperativi ontologici.

c) Gli imperativi funzionali, sospinti e reclamati dalle condizioni generali di sviluppo in atto e che incarnano forme istituzionali, comportamentali e etico-valutative rese indispensabili da mere ragioni di razionalità ed efficienza organizzativa in presenza di date condizioni generali di sviluppo. Pertanto, questi imperativi tendono ad evolvere nel corso del tempo, con il maturare di nuove condizioni generali di sviluppo dietro la spinta delle capacità evolutive quale è conferita dal grado di presenza (nelle forme di civiltà in atto) degli imperativi ontologici in quanto motori dei processi evolutivi.

Queste tre categorie organizzative consentono di delineare i tratti di una chiara teoria esplicativa dei processi sociali: il grado di presenza di imperativi ontologici nelle vigenti forme di civiltà sospinge il processo evolutivo verso nuove condizioni generali di sviluppo e pertanto verso l’avvento di nuovi imperativi funzionali, che segneranno l’affermarsi di nuove fasi storiche. Sicché, troviamo qui espressi anche i fondamenti di una teoria interpretativa dei processi storici.

La considerazione di altre e più elementari scelte organizzativistiche consentirà l’arricchimento dei contenuti, e quindi dell’analisi, dei sistemi sociali.

Nel definire il potere-servizio, imperativo funzionale delle moderne società dinamiche, occorre distinguere il concetto di arbitrio da quello di discrezionalità. Molte attività, fra esse quelle imprenditoriali, richiedono e implicano elevati livelli di discrezionalità. Affinché questi non configurino arbitrio, occorre che le funzioni attribuite siano chiaramente definite e il loro esercizio sia assoggettato a precisi criteri di responsabilità per i risultati delle funzioni espletate e delle decisioni prese. Ma ciò non basta; negli ordinamenti burocratico-centralizzati le funzioni vengono perfettamente definite e le responsabilità precisamente imputate, al punto da rendere i funzionari di quegli imperi praticamente privi di discrezionalità e agenti di penetranti forme di potere-dominio. Occorre distinguere il concetto di potere-servizio da quello di autorità intesa quale prestigio e capacità di ottener consenso. Infatti, questa capacità può essere espressione delle peggiori forme di dispotismo se consacrate dalla tradizione. Quanto sopra differisce dalla distinzione fra potere e autorità intesa quale: «facoltà in primo luogo “legittima”».11

Occorre anche rimarcare che è errato pensare di limitare l’arbitrio nella gestione del potere attraverso il pluralismo, lo sviluppo di contropoteri e di poteri fra loro concorrenti. I grandi despoti furono maestri nel rafforzare il loro potere attraverso la contrapposizione fra contropoteri, l’uso di spie incaricate di controllare altre spie, la sovrapposizione di apparati amministrativi. Farraginosi sistemi di controllo vengono impiegati per risolvere il problema del ‘controllo dei controllori’. Da parte sua, il pluralismo è utile a facilitare l’avvicendamento di forme di dominio, ma non conduce al potere-servizio.

43 11 Cfr. Ferrarotti, F: Il potere, Newton & Compton Editori., Roma, 2004, pag. 72

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L’edificazione di un sistema di potere-sevizio, in alternativa al potere-domino, richiede la precisazione scientifica, soprattutto attraverso la nozione di imperativo funzionale, delle funzioni svolte e la determinazione di criteri di successo nel loro esercizio, quindi la sottoposizione dei dirigenti a precisi e ineludibili criteri di responsabilità. Il punto è che le funzioni debbono essere definite rigorosamente da una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali incentrata sulle nozioni di imperativi funzionali, imperativi ontologici e forme di civiltà, non discendere da mistificazioni e dall’autorità della tradizione.

Assai grande è l’importanza etica e funzionale dei concetti di responsabilità e servizio. Essi implicano la selezione accorta del personale; inoltre, stimolano il senso del dovere, la soddisfazione per quello che si fa, il rispetto per le funzioni espletate e il consenso nei riguardi delle istituzioni. Nell’esercizio del potere-dominio prevale invece la logica dell’asservimento. L’enunciazione del principio di sovranità popolare non è sufficiente ad affrancare il popolo dal potere-dominio. Affinché tale sovranità possa esprimersi con autorevolezza e svolgere un ruolo realmente direttivo almeno sulle questioni di fondo occorre l’enunciazione scientifica, da parte del pensiero sociale, dei fondamenti sopra accennati sul governo delle società umane: imperativi funzionali, scelte di civiltà e altre scelte di minore importanza. Ciò è indispensabile affinché tale sovranità riesca a farsi valere e non soggiaccia agli inganni di agguerriti detentori del potere-dominio.

La nozione di potere-servizio implica tale consapevolezza del cittadino attraverso lo sviluppo scientifico del sapere sociale. Invece, l’assenza di un metodo deputato a garantire tale scientificità sospinge il mondo in cui viviamo, in quanto percorso da movimenti innovativi sempre più intensi, verso un’intollerabile confusione.

Dunque, il concetto di potere-servizio è una questione di scienza; non può limitarsi a costituire una esortazione, ma deve costituire una possibilità e necessità scientificamente dimostrate. Infatti, come scrisse Machiavelli, che delle umane virtù se ne intendeva: «Gli uomini sempre riusciranno tristi se da una necessità non sono fatti buoni»12. Aggiungeva G. Mosca vari secoli dopo: «gli uomini sciaguratamente essendo così fatti che, quanto più sono soggetti al capriccio di chi sta in alto, tanto più, in generale, tendono a far pesare il loro capriccio ed il loro arbitrio su chi sta in basso e resta in loro balia».13 I nostri studi sul metodo del sapere sociale ecc. hanno mirato a fornire le basi di tale scienza sociale, la cui indispensabilità viene sempre più chiaramente espressa dalla crisi delle moderne democrazie e dall’affermarsi di confuse istanze sovraniste e populiste.

In questa sede, non c’è bisogno di dire di più sugli aspetti accennati che, come già detto, vengono attentamente analizzati nel nostro libro dal titolo ‘Methodological Misconceptions in the social sciences’ con riferimento a vari rami del sapere sociale: antropologia, sociologia, diritto, scienza politica, economia.

3. Qualche esempio chiarificatore

Quale esempio chiarificatore prendiamo un fenomeno centrale nei processi economici e negli studi di economia: la funzione imprenditoriale e le associate implicazioni. Se ci affidiamo al metodo osservativo, abbiamo a che fare con l’imprenditore e il profitto capitalisti e pertanto con il dominio capitalista e le sue implicazioni a livello locale e sopranazionale, particolarmente distorsive nel mondo globale. Abbiamo a che fare con grandi monopoli istituzionali che rendono sempre più difficile il governo delle società

12 Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, Rizzoli, Milano, pag. 96 13 Cfr. G. Mosca , 1994, pag. 113

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umane e generano enormi profitti dovuti non ad efficienza produttiva e non al successo nella competizione, inclusa quella basata sull’introduzione di innovazioni, ma a condizioni di mero privilegio. Il metodo osservativo ci fa spettatori di tutto ciò, rendendoci impotenti e incapaci a sfuggirvi.

Diversa è la situazione se ci ispiriamo al metodo organizzativo. Vediamo in tal caso che nelle economie dinamiche, quindi con elevata incertezza radicale e continue innovazioni, il ruolo imprenditoriale e il connesso saggio di profitto sono fondamentali categorie organizzative (imperativi funzionali), con il saggio di profitto che funge da criterio di valutazione dei risultati e quindi quale criterio di responsabilità per l’azione svolta e le decisioni prese (senza dover essere una categoria della distribuzione del reddito).14 Tale imprenditorialità, non necessariamente privata, è cosa ben diversa dall’imprenditorialità capitalista.

C’è bisogno dell’imprenditore e del saggio di profitto, in quanto importanti categorie (e necessità) organizzative imposte da ragioni di efficienza produttiva. Ce ne è bisogno anche nelle grandi imprese pubbliche oggi afflitte da elevata inefficienza e amministrate da managers incompetenti, intenti a condividere posizioni di potere con il mondo politico che li nomina, addossando le perdite al contribuente. L’imprenditore e il profitto intesi non in senso capitalistico ma quali imperativi funzionali evitano l’assoggettamento all’arroganza del capitale, soprattutto a quella del grande capitale multinazionale che opera, più che da fattore di produzione, quale strumento del dominio di grandi monopoli istituzionali, con le associate enormi distorsioni sulla distribuzione del reddito, cui abbiamo fatto cenno nel primo paragrafo.

Procediamo con qualche ulteriore esemplificazione. Forse il più antico imperativo funzionale che ha assillato l’uomo è stata la lotta contro il fenomeno della scarsità, che ha caratterizzato tutta la storia umana, fino ad improntare di sé l’impalcatura della teoria economica tuttora dominante. Un altro antico imperativo funzionale che caratterizza la storia dell’uomo è il principio della divisione del lavoro. Si tratta di due principi basilari per l’efficienza produttiva e organizzativa dei sistemi sociali. L’ampliamento e approfondimento dell’organizzazione sociale determina l’esigenza di altri imperativi funzionali, in particolare del principio di autorità, di pari passo con la formazione delle gerarchie sociali. Parallelamente, vediamo diffondersi varie forme di parentela, in tutte le società umane. Le forme di potere iniziano ad occupare il centro della scena. Infatti, incrementi di autorità sono necessari a far eseguire le decisioni concernenti la collettività. A dire il vero, nelle società primitive non emerge un vero e proprio potere di coazione dei capi; chi cerca di acquisirlo viene respinto e posto al margine. Ivi è sufficiente quello che può essere definito potere della società, basato sull’educazione comunitaria all’obbedienza, sulla tradizione, su superstizioni e tabù.

L’approfondirsi delle segmentazioni e complessità sociali determina un più forte bisogno di autorità. Nasce il potere di comando, cioè la capacità di ottenere l’esecuzione dei comandi ricorrendo all’uso di una forza organizzata. Il potere di comando apre la strada all’avvento di un successivo e basilare imperativo funzionale, il potere statale, contraddistinto dall’intreccio di organi e funzioni amministrative, distretti e sistemi di comunicazione. Con l’avvento di questo imperativo funzionale, il potere di comando penetra nell’ordinamento dominante e si sovrappone alla forza unificante delle relazioni parentali, delle credenze religiose, dei costumi e della tradizione. Orbene, tutto ciò si è attuato all’insegna dell’estendersi di poteri (e forme) di dominio.

Parallelamente, le civiltà venute in essere danno vita a società stagnanti, se nelle scelte di civiltà effettuate è scarsa la presenza di imperativi ontologici con le associate capacità e spinte evolutive. Si assiste al consolidarsi, per tal via, di sistemi coriacei di

14 Abbiamo estesamente considerato questo aspetto in A. Fusari, A New Economics for Modern Dynamic Economies, Routledge, 2017

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potere-dominio che si sono protratti, con modesti alti e bassi, per secoli e millenni. Invece, le civiltà rese evolutive dalla presenza di imperativi ontologici vedono una fioritura e successione di forme di potere-dominio più o meno oppressive, verso il maturare di nuove fasi storiche. Con l’avanzare del processo evolutivo, si apre la strada verso un nuovo imperativo funzionale: il potere-servizio. Dal mondo della sottomissione si transita al mondo della partecipazione. A che punto di tale percorso siamo giunti? Vediamo.

L’evoluzione, nelle moderne società, della presa di coscienza delle masse ha suscitato grandi sforzi analitici tesi a mascherare le forme di dominio, cioè a fare accettare ai sottoposti il potere-dominio sotto mentite spoglie. Si è trattato di un abile sforzo di mascheramento, che ha consentito di continuare un esercizio del dominio perfino più forte e penetrante di quello conosciuto in epoche precedenti. Tale operazione ha potuto giovarsi dell’acutezza teoretica di importanti studiosi e si è servita del concetto di sovranità popolare, che indica il popolo quale detentore di una cosiddetta “volontà generale” da cui discende l’investitura di chi esercita poteri di comando. Tracceremo in capitoli successivi, con molti dettagli, il procedere di questo itinerario storico. Vedremo che i prodromi di questa mistificazione risalgono all’impero romano del Principato in quanto non interamente soggiogato dal potere-dominio; essi tornarono in campo verso la fine del periodo medievale e trovarono più in là appassionati approfondimenti ad opera di importanti filosofi dell’età moderna quali Rousseau, Kant e i costituzionalisti americani. Sottolineeremo che gli approfondimenti sulla sovranità popolare non preparano il terreno per l’estinzione del fenomeno del potere-dominio, né nei casi di democrazia diretta, né in quelli di democrazia rappresentativa.

Il popolo non ha conquistato il potere. A decidere sono ‘classi elette di governo’, sicché al comando sono sempre restate piccole minoranze. Non poteva essere diversamente. Infatti (e come vedremo in dettaglio più oltre), affinché il concetto di ‘volontà generale’ del popolo sovrano abbia senso, occorre che i contenuti di tale concetto siano scientificamente definiti, quindi ben chiari al popolo sovrano; insomma, occorre una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali e quindi la rivoluzione metodologica organizzativistica di cui tale scienza ha bisogno per vedere la luce. Senza di che, mai il fenomeno del potere-dominio potrà essere sconfitto, ma si conserverà a dispetto dell’ostilità nei suoi confronti di importanti studiosi.

Vediamo dunque che l’esercizio del potere si è andato sempre più spostando, nel corso della storia, dai contenuti di una necessità funzionale a quelli di un brutale dominio.

Sappiamo che il potere-servizio esprime i contenuti scientificamente definiti della forma di potere. Nel capitolo finale ne tratteremo con riferimento all’economia e a fondamentali principi etici. Un altro aspetto assai delicato del potere-servizio riguarda il potere giudiziario. Tale potere richiede l’indipendenza della magistratura, così da evitare che subisca le intimazioni provenienti da altre forme di dominio; ma richiede anche un’applicazione rigorosa del principio di responsabilità, affinché il potere giudiziario non sia espressione di dominio attraverso la libertà di sentenziare e affinché non possa agire in combutta con altre forme di dominio. C’è inoltre la questione del potere politico, essendo forte l’inclinazione a dominare di tale potere. Abbiamo trattato diffusamente questi aspetti nel nostro citato libro su ‘Understanding the course of social reality’, delineando le forme organizzative di una ipotetica società extraterrestre.

Speriamo di aver chiarito che nelle moderne società riveste importanza fondamentale la lotta contro il fenomeno del dominio, previo l’approfondimento di un metodo del sapere sociale fondato sull’idea organizzativa anziché sulla dominante visione osservativo-sperimentale la quale tende a conservare il dominio sulle ali dell’osservazione della incessante presenza di esso in cattedra nel corso della storia. Tale azione rivolta al progressivo sradicamento delle forme di dominio è una conseguenza del crescente

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deperimento, dietro l’attacco della competizione attraverso l’introduzione di innovazioni, della ipotesi osservazionista di ripetitività dei fatti sociali, deperimento che impone il passaggio a una visione metodologica di tipo organizzativo. In queste condizioni, chi perseguirà il passaggio dal potere-dominio al potere-servizio opererà al passo con i tempi, in nome di una fondamentale esigenza. Ed avrà il supporto della quasi totalità del popolo, dominati e dominatori, se resi consapevoli di essere vistosamente danneggiati, come già visto, dalle forme di dominio e se consapevoli del bisogno non rinviabile dell’idea organizzativista. Quindi non ci sarà più da temere i poteri dominanti, che anzi dovranno temere sé stessi. Sia i popoli sviluppati che, e ancor più, quelli sottosviluppati beneficeranno grandemente di chiarimenti sul potere del tipo di quelli che noi andiamo sviluppando.

Conclusione

Viviamo nel culmine dei trionfi e delle miserie di questa cosiddetta era volgare e non sappiamo come e fino a che punto essa riuscirà a procedere in tale sempre più devastante contraddizione che incarna. L’inizio di questa era volgare vide una grande rivelazione, fra le maggiori di tutti i tempi: l’esortazione evangelica al potere-servizio e, in pari tempo, la forma di dominio forse più tenue e benevola che la storia umana ha conosciuto: il potere imperiale romano dei primi tre secoli. Poi l’orizzonte ha iniziato a incupirsi sempre più, con il libero e crescente esplicarsi della prepotenza e avidità delle aspirazioni al dominio.

Abbiamo chiarito le radici metodologiche che hanno consentito al fenomeno del dominio di sfidare i secoli in pieno accordo con gli sviluppi del pensiero sociale e, in pari tempo, hanno consentito la libertà etica (relativismo culturale) indispensabile ad offrire il supporto morale alle varie forme di dominio venute in essere. Abbiamo analizzato l’esplicarsi del fenomeno del dominio e le sue implicazioni.

Quanto sopra ci ha condotti a sostenere che la lotta contro il dominio e per la trasformazione del potere in sevizio costituisce un impegno non solo possibile ma reso sempre più indispensabile dall’esplicarsi, nelle vigenti forme di potere, di conflitti e altre implicazioni lesivi degli interessi di tutti gli uomini, dominatori (più o meno di passaggio), non meno dei dominati. Pertanto, la lotta contro le forme di dominio potrà giovarsi dell’appoggio della quasi totalità degli esseri umani.

L’uomo deve essere reso consapevole della necessità del potere-servizio. Osiamo sperare che l’inizio di questo terzo millennio porti con sé la grande svolta, prima che sia troppo tardi, cioè la generale convinzione dell’indispensabilità della transizione dal potere-dominio al potere-servizio.

CAPITOLO II

Una digressione storica su misfatti del potere-dominio

Alla base di ogni sistema di dominio c’è l’inganno e un uso perverso della ragione volto a giustificare, attraverso il fatto che le società umane non possono prescindere

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dall’esercizio del potere, le immense mostruosità e infinite miserie propinate all’uomo dai sistemi di dominio in cui sempre si è sostanziato l’esercizio del potere.

Questo capitolo, dedicato alla trattazione di alcuni maggiori misfatti del potere-dominio, può essere introdotto dai versi di Dante sul diavolo Gerione, che si accingeva a trasportare il poeta nel girone dei fraudolenti:

Ecco la fiera con la coda aguzza,che passa i monti, e rompe muri ed armi,

ecco colei che tutto il mondo appuzza.Questi versi offrono incidentalmente una descrizione molto incisiva della capacità di

diffusione dei sistemi di dominio, delle nefandezze e della corruzione dei costumi di dominatori e dominati che sempre hanno accompagnato il dominio. Qui ci intratterremo su episodi particolarmente emblematici e istruttivi dell’esercizio di varie forme di dominio..

Le vicende dell’antica Grecia dimostrano che le forme di dominio tipiche delle città particolaristiche e mercantili non sono meno pesanti e virulente di quelle tipiche degli imperi dispotici e, in periodi di accesa conflittualità, frequenti in tali contesti particolaristici, possono esserlo di più. La lettura di Tucidide sulla Guerra del Peloponneso fornisce una prova impressionante dei lutti, rovine e atrocità provocati dalla corsa al potere nella antica patria della ‘democrazia’. Scrive Tucidide: «fu quello il primo di una catena lunga d’orrori che in un progresso di tempo implicò e travolse fino agli estremi confini, si può dire, il mondo greco» e più in là: «impegnavano intrepidi gli strumenti più sanguinosi, e replicavano con rappresaglie anche più orrende senza intravedere nell’ordine legale e nel beneficio dello stato un limite invalicabile. L’orizzonte delle atrocità si ampliava ad abbracciar via via quanto potesse spegnere per un attimo la brama di ciascuno. Occupavano il posto di comando appoggiandosi a un illegale verdetto di condanna o a un atto violento: nessuna bassezza era loro d’ostacolo a soddisfare l’attacco improvviso e sconvolgente della loro frenesia: il potere!»15

L’impero romano, specie nel periodo del Principato, espresse un’epoca di pace e tolleranza. I misfatti di vari imperatori romani di quel periodo (Caligola, Nerone, Domiziano) furono piccolezze, a dispetto della risonanza attribuita ad essi dagli storici; tali misfatti si esercitavano nel ristretto ambito della corte, cioè a danno di pochi cortigiani. Le persecuzioni di Nerone contro i cristiani riguardarono una infima minoranza di quel tempo

Assai meno rosea fu la forma di dominio espressa dall’impero romano del Dominato ma, anche in questo caso, la crudezza del potere-dominio si manifestò con una certa qual parsimonia. Uno dei casi più eclatanti di tale crudezza si incontra nella rinascita dell’ordinamento del Dominato sotto il grande Giustiniano del Corpus Iuris. Basterà citare un brano delle ‘Storie Segrete’ di Procopio. Questi scrive: «1. Ch’egli non fosse un uomo, ma una sorta di demone, come s’è detto, in forma umana, lo può provare chi valuti la dimensione del danno da lui inflitto all’umanità; 2, è dalla dismisura dei fatti che si chiarisce la potenza del loro responsabile. 3, Nessuno, mi pare, se non Dio, potrebbe riferire con esattezza l’ammontare delle vittime sue: 4, si conterebbe prima quanti granelli ha la sabbia, che non le vittime di questo imperatore. A una considerazione sommaria della terra ch’egli lasciò deserta d’abitanti, direi che siano morti milioni e milioni di persone. 5. La sconfinata Libia si era svuotata a tal punto, che anche affrontando un lungo cammino era arduo imbattersi in anima viva – un fatto memorabile…. Insomma, a stimar cinque milioni i morti in Libia, non si sarebbe ancora al livello dei fatti».16 .

Mezzo millennio più tardi, i crociati non furono da meno nel fornire testimonianza dei misfatti del potere-dominio. Scrive S. Runciman sulla gloriosa prima crociata, nella sua accurata ‘Storia delle crociate’: «I crociati, resi come pazzi da una vittoria così

15 Cfr. Tucidide, Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano 1974, pagg. 212 e 21416 Cfr. Procopio, Storie segrete, Universale Rizzoli, Milano, 1996, pagg. 231 e 235

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esaltante dopo tante sofferenze, si precipitarono per le strade, nelle case e nelle moschee uccidendo tutti quelli che incontravano, uomini, donne e bambini senza distinzioni. Il massacro continuò per tutto il pomeriggio e per tutta la notte. Il vessillo di Tancredi non servì a proteggere quelli che si erano rifugiati nella moschea di el-Aqsa: nelle prime ore della mattina seguente, una banda di crociati fece irruzione nella moschea e trucidò tutti quanti. Quando Raimondo di Aguilers, più tardi nella mattinata, andò a visitare l’area del Tempio, dovette aprirsi la strada fra i cadaveri e il sangue che gli arrivava fino alle ginocchia.

Gli ebrei di Gerusalemme si rifugiarono tutti insieme nella loro principale sinagoga, ma furono incolpati di aver aiutato i musulmani e non trovarono misericordia alcuna: l’edificio venne incendiato e vi bruciarono tutti dentro.

Il massacro di Gerusalemme impressionò profondamente tutto il mondo. Nessuno può dire quante siano state le vittime, ma la città venne svuotata dei suoi abitanti musulmani ed ebrei. Anche molti cristiani rimasero inorriditi per ciò che era stato fatto; e fra i musulmani, che erano stati disposti fino a quel momento ad accettare i franchi come un nuovo fattore della ingarbugliata situazione politica dell’epoca, ci fu da allora in poi la netta determinazione che gli occidentali dovevano essere cacciati. Quella sanguinosa dimostrazione di fanatismo cristiano risuscitò il fanatismo dell’Islam».17

I dispotismi orientali furono regni di grandi e crudeli dominatori. Facciamo un salto

di due secoli, giungendo alle gesta del Grande Emiro Tamerlano. Scrive Jean-Paul Roux :«Per un terzo di secolo Tamerlano ha deportato popolazioni, ha ridotto in schiavitù folle di esseri umani, ha incendiato città, trasformato province in deserti, permesso o incoraggiato torture e stupri, depredato tesori di ricchi e di principi, torchiato i poveri, innalzato “minareti” con teste umane mozzate, terrorizzato, giustiziato prigionieri a decine di migliaia, massacrato senza distinzione i buoni e i cattivi, gli uomini, le donne e i bambini…..Una delle manifestazioni più spettacolari (motivata tra l’altro dalla volontà di impressionare gli animi) della “barbarie timuride” è la costruzione di quelli che sono chiamati “torri”….e “minareti”…di teste umane…Alcuni erano piccoli, altri raggiungevano dimensioni monumentali: parecchi metri di diametro e altezza “superiore a quella delle più alte architetture”. Secondo la valutazione di Hafiz-i Abru, testimone oculare, a Isfahan erano 45, dalle mille alle duemila teste ciascuna. A Baghdad ne sarebbero stati contati di più….Ibn al-Athir valutava che a Merv i morti furono 700.000; altri autori facevano cifre superiori; Hrat Seify ne contava 1.600.000 e Juwaini 2.400.000!».18

Non possiamo far mancare qualche riferimento a tirannie dello zarismo russo, il cui più vivido esempio è forse offerto da Ivan il Terribile.

La prima lettera a Ivan il Terribile del principe di Kurbskij dice: «hai escogitato contro i tuoi fautori, che per te davano la vita, torture inaudite da che mondo è mondo, e morti e persecuzioni, imputando agli ortodossi incolpevoli tradimenti e stregonerie e altre oscenità, e adoperandoti con zelo per volgere la luce in tenebra…»19 . Al che il Terribile rispondeva: «E questo secondo il tuo ragionare sarebbe empio, che noi stessi esercitiamo i poteri ricevuti da Dio e non vogliamo sottostare al potere di un pope….»20 ed, a giustificazione delle sue atrocità, si appellava a episodi biblici, a san Paolo, a Davide, ecc. Al che il principe Kurbskji rispondeva in una seconda lettera: «tu hai rinchiuso il regno di Russia, vale a dire la libera natura umana, come dentro a una fortezza infernale, e

17 Cfr. Steven Runciman, Storia delle crociate, Einaudi, Torino, 1993, pagg. 247-24818 Cfr. Jean-Paul Roux, Tamerlano, Garzanti editore, 2000, pagg. 151, 161, 16519 Cfr: Ivan il Terribile, Un buon governo nel regno, Adelphi edizioni, Milano, 2000, pag. 3520 Ivan l Terribile, ibidem, pag. 47

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chiunque, secondo il profeta, andasse dalla tua terra in terre straniere, come dice Gesù il figlio di Sirach, tu lo chiameresti traditore e, se venisse catturato alla frontiera, tu lo supplizieresti con varie torture».21

Scrive Casimiro Waliszewski, narrando del terrore di Ivan: «lo zar giudicava sommariamente le vittime che a centinaia finivano miseramente, prima interrogate mentre bruciavano a fuoco lento, quindi in maggioranza condannate a morte nelle acque del fiume. Sanguinanti e tremanti, i disgraziati venivano attaccati a slitte che si facevano scendere per una ripida china fino a un punto ove il fiume, data la grande rapidità della corrente, non gelava mai; là, tra spaventevoli gorghi, gli infelici trovavano la loro triste fine. Si affogavano i figli con le madri legandoli insieme e gli opritchniki, montati su barche armati di picche, vigilavano affinché nessuno potesse salvarsi

Secondo la Terza cronaca di Novgorod, i massacri durarono cinque settimane; rari furono i giorni in cui non fossero così sacrificate almeno cinque o seicento persone. Spesso in una sola giornata il numero di vittime saliva a millecinquecento… Horsey parla di settecentomila persone massacrate a Novgorod»22

Ma, per vari aspetti, il peggio doveva ancora venire. Ed è venuto con l’avvento dell’età moderna, nelle sue incarnazioni capitalistiche e, ancor più, attraverso i cosiddetti regimi del ‘socialismo reale’ protesi a cancellare il capitalismo. Cosa quasi incredibile e assai significativa dei grandi equivoci che oscurano la questione del potere, ciò è avvenuto nonostante le grandi disquisizioni degli illuministi contro il potere di oppressione; è avvenuto nonostante la rivoluzione americana opera dei figli di emigranti europei in fuga dai sistemi di dominio in atto in Europa; è avvenuto a dispetto delle sagge teorizzazioni sul modo di sfuggire al dominio attraverso la divisione dei poteri che nella pratica si è tradotta purtroppo in una divisione dei poteri di abuso, nella accentuazione dei conflitti di potere e di varie e più o meno subdole forme di oppressione.

Quali i misfatti delle nuove forme di potere? Nel rammentarle, c’è l’imbarazzo della scelta. Basta pensare alla tratta degli schiavi verso il Nord-America, al massacro di milioni di indios nelle miniere d’argento sudamericane, allo sfruttamento selvaggio dei bambini nelle fabbriche inglesi della prima rivoluzione industriale e nelle solfatare siciliane. Poi venne la reazione a tanto sfacelo incarnata da sfaceli assai peggiori operati da regimi che intendevano redimere l’umanità dall’oppressione: vennero il terrore staliniano e dei kmer rossi, il nazismo e quant’altro. Una realtà di tremenda oppressione e terrore: la conclamata urgenza di abbattere l’oppressione del potere-dominio si è risolta nell’edificazione di forme di dominio ancora più oppressive. Tutto ciò è quasi incredibile e squalifica oltre ogni dire il ruolo guida della ragione umana. A ben vedere, è il risultato di tremende carenze concernenti il metodo di analisi delle formazioni sociali, carenze in parte dovute ad errori speculativi ed in parte all’interesse dei dominatori a tenere in vita quelle, per loro, benefiche carenze intellettive. Ma siamo giunti alla resa dei conti. O si esce dall’imbroglio del potere-dominio, o si sarà sempre più strangolati dal suo eventuale persistere, forse fino ad essere sopraffatti da questo demiurgo finora incontrastato dei processi storici.

CAPITOLO III

Il potere nelle società quasi-stazionarie

1. Il potere nelle società primitive

21 Cfr: Ivan il Terribile, ibidem, pagg. 149-150.22 Casimiro Waliszewski, Ivan il Terribile, dall’Oglio Editore, Milano, 1973, pagg. 178 e 181

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Una analisi dei contenuti, del significato e delle implicazioni delle forme di potere deve in primo luogo analizzare l’evoluzione di queste nel corso dei processi di sviluppo, a partire dalle società primitive, dove assumono la veste particolare e mai più ripetuta di autorità priva di capacità di comando. Pierre Clastres ha scritto pagine molto illuminanti, talora di notevole bellezza, sul potere quale si presenta fra i primitivi amerindiani. Egli ha cura di dimostrare che le società primitive non sono società di “sussistenza” ma piuttosto del “tempo libero” e, in particolare, che la loro maggiore peculiarità è costituita dall’assenza di potere coercitivo (non però dall’assenza di potere politico23). In verità, nelle società primitive esistono poteri coercitivi sottili e coriacei, derivanti dalla forza della tradizione, da credenze e pregiudizi che, ad esempio, rendono temutissimi stregoni e sciamani. Quelle società sono prive non già di poteri coercitivi bensì di poteri di comando. Tuttavia l'imprecisione di Clastres è puramente terminologica; infatti, egli riferisce esplicitamente la non coercitività del potere all'assenza di capacità di comando, tipica dei capi primitivi.

Alcune principali caratteristiche dei capi amerindiani e delle loro società, evidenziate dal nostro autore, ci informano della cura ossessiva che i primitivi pongono nell’impedire l’avvento di poteri di comando e doveri di obbedienza. Clastres sottolinea: che la principale funzione dei capi primitivi è di mantenere la pace e l’armonia del gruppo con l’eloquenza, la saggezza ed il prestigio; che questi capi hanno il compito di arbitrare e comporre liti ma non possono emettere sentenze e non possono usare la forza per imporre l’esecuzione dei loro deliberati; che dispongono, insomma, di un potere “impotente”. I capi si sforzano di conciliare i contendenti e, se non riescono a convincere le parti, non hanno mezzi per imporre il loro parere; i contendenti tornano a scontrarsi ed il capo perde prestigio a causa del fallimento della sua opera di conciliazione. Per questi motivi, il capo primitivo deve essere, più che un buon comandante, un bravo oratore che, in continui sermoni, rammenta il costume dei padri, così da tener desto il senso della tradizione. La sua parola non esige obbedienza e rappresenta l’adempimento di un dovere, più che un diritto. Questa assenza di poteri di comando non è tipica solo dei primitivi amerindiani, ma si incontra in tutte le società tribali dei vari continenti e, a maggior ragione, nelle più elementari bande di cacciatori-raccoglitori che le precedettero.

Bisogna dire che non sempre i segmenti costitutivi delle società primitive rappresentano unità elementari omogenee che, per somma, formano la tribù; in alcuni casi, quei segmenti esprimono forme di stratificazione sociale implicanti un sistema di privilegi spesso dipendenti dal grado di parentela, reale o presunta, con l’antenato comune. Ma in nessun caso tali privilegi implicano poteri di comando. Trattando dei lignaggi segmentari, M.D. Sahlins scrive: «Quando gli obiettivi competitivi che determinano la confederazione sono stati realizzati, la confederazione de facto si dissolve nei suoi diversi segmenti e i leader che sono emersi ricadono nell’oblio sociale o al più mantengono solo un’influenza locale… Il leader tipico di una società tribale è solo l’equivalente glorificato dell’anziano influente in una società di cacciatori-raccoglitori… Si crea delle fedeltà attraverso la generosità; acquiescenza timorosa attraverso la magia; disposizione ad accettare le proprie opinioni attraverso la saggezza, l’abilità oratoria e così via… Ma non appena la confederazione si dissolve, cioè al più presto, si ritrova con pochi seguaci»24. Scrivendo dei Baluchi iraniani, P.C Salzman afferma che il sardar era «un leader che dipendeva dal proprio prestigio e dalla propria statura che andavano a sommarsi alla sua autorità molto

23 Dice Clastres: «Il potere politico è universale, immanente al fatto sociale». Cfr. P. Clastres, La Società contro lo Stato, Feltrinelli, Milano 1984, pag. 2024 Cfr. M. D. Sahlins, «Il lignaggio segmentario: una organizzazione per l’espansione predatoria», in: Dalla tribù allo stato, a cura di U. Fabietti, Edizioni Unicopli, Milano 1991, pag. 93

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limitata»25 . I capi dell’antica Israele erano poco più che dei comandanti militari, come emerge dalle narrazioni bibliche su Jefte, Gedeone, Samuele, Saul e lo stesso Davide.

Il collante delle società primitive è costituito dalle relazioni di parentela, da credenze religiose, dalle tradizioni, dalla pressione sociale; ma mai è rappresentato dall’agire di poteri di comando. Il potere risiede nella società, nei suoi costumi e tradizioni, non è ad essa sovrapposto. Vedremo che esistono organizzazioni claniche inclini a generare potere di comando e ad evolvere verso più avanzati stadi di sviluppo. Ma, anche in questi casi, è impressionante l’impegno posto da quelle società primitive a preservare, con vari espedienti, la loro basilare caratteristica costituita dalla inesistenza di poteri di comando.

I dispositivi volti ad impedire l’affermarsi di poteri di comando sono assai variegati. Il dovere di liberalità dei capi primitivi, fondamentale per il loro prestigio e che non di rado li riduce in miseria, ha precisamente il ruolo di impedire il concentrarsi di un potere autonomo di disposizione nelle mani del capo. Un aspetto centrale di varie culture primitive, ad esempio quella degli Zuñi, è l’ostilità aspra nei confronti di chi cerca di emergere, di imporsi agli altri; gli individui che cercano di primeggiare vi sono considerati pericolosi e vengono emarginati. Nei casi in cui prevalgono culture basate sull’affermazione individuale, sulla sfida e la prevaricazione, l’emergere di poteri di comando e di concentrazioni di ricchezza vengono tenuti a freno legando l’onore dei capi ad eccentriche e cospicue distruzioni di beni nel corso di banchetti (potlac) e ad atti di generosità. La stessa ereditarietà della carica di capo, assai frequente fra i primitivi, è tesa ad evitare conflitti successori e quindi l’imporsi, nel corso di essi, di uomini forti e abili nel procacciarsi potere vero, cioè capacità di comando. La società fa di tutto per evitare di dover subire il potere dei capi. L’oratoria di questi non deve tendere a conquistare ma piuttosto a rammentare e seguire la tradizione. Allorché è indispensabile conferire al capo poteri di comando, come accade nel corso di operazioni belliche, al termine di queste si ha cura di negargli ogni ulteriore potere di comando. Il prestigio guadagnato militarmente accresce la capacità di persuasione del capo in quanto paciere. Ma se egli intende sfruttarlo per fomentare ulteriori operazioni belliche, così da mantenere le sue prerogative di comando e soddisfare sue personali ambizioni, il gruppo non lo segue, lo isola e lo respinge, così come accadde a Geronimo e ad altri ambiziosi capi indiani. In breve, il capo deve fare ciò che l’intera tribù si attende da lui altrimenti questa lo abbandona per scegliersi un altro capo. Il suo potere è e deve restare al servizio della società. Parlando dei Tiv della Nigeria settentrionale, Paul Bohannan annota che essi attuano periodiche epurazioni di possibili tiranni26.

Nondimeno, la figura di capo resta essenziale fra i primitivi, come in qualsiasi altra società umana. Si impone quindi la necessità di invogliare a questo strano mestiere di capo impotente, cioè «compensare» il capo per il fastidio e le «frustrazioni» implicati dal suo potere senza comando. Tale compensazione ha luogo attraverso il riconoscimento di particolari privilegi, primo fra tutti, il diritto di avere più donne. Vediamo dunque che i privilegi dei capi di società primitive non discendono dalla conquista di una capacità di disposizione sulla società. Al contrario, sono spesso un compenso erogato dalla società al capo per la rinuncia di tale capacità di disposizione.

Questa stupefacente coerenza e decisa perseveranza delle società primitive nel negare ai capi poteri di comando sembra testimoniare che gli uomini hanno capito fin dalle origini che essere comandati è cosa sgradevole e forse hanno intuito profeticamente quale immensa causa di male sarebbe stato il dominio di comandanti; conseguentemente, in tutti i modi hanno cercato di sottrarsi a tale dominio, fin quando ciò è stato oggettivamente possibile.

25 P.C. Salzman, «Adaptations and political organization in Iranian Beluchistan» in Ethnology, vol X, n° 4 1971, pag. 437.26 Cfr. P. Bohannan, «Extra-processual events in Tiv political institutions», in American Antropologist, 1958, p.60

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Detto questo, occorre sottolineare subito che la posizione dei primitivi rispetto al potere non è tuttavia così idilliaca come può sembrare a prima vista, e come Clastres lascia intendere. In verità, le stesse analisi di questo autore smentiscono tale visione idilliaca e noi dobbiamo insistere su questo aspetto, che è di grande rilevanza per comprendere il senso e la logica del potere.

Il potere è ben vivo e presente fra i primitivi; ma è sotto il controllo della società, pertiene all’aggregato sociale. Sul potere della società, E. Durkheim ha scritto pagine illuminanti. Egli dice: «Perché l’individuo sia tenuto a conformare la propria condotta a certe norme, bisogna che queste norme emanino da un’autorità morale che gliele impone; e per potergliele imporre, bisogna che lo domini; se no donde verrebbe l’ascendente necessario per far piegare la volontà?» E più in là: «Essa (la società) prescrive al fedele i dogmi da credere e i riti da osservare: e ciò, proprio perché riti e dogmi sono opera sua» 27. La società primitiva è permeata di potere, nonostante l’assenza di poteri di comando. Anzi il potere della società è costretto ad esservi particolarmente forte proprio dalla assenza di poteri di comando, e viene esercitato con una durezza solitamente superiore a quella richiesta dal bisogno di mantenere l’ordine. Le torture inflitte agli adolescenti nel corso dei riti di iniziazione non sono solo finalizzate a fortificarne il carattere; intendono anche imprimere il marchio della società sul corpo dei suoi membri, indelebile e onnipresente. Le torture iniziatiche esprimono tutta l’invadenza dura e brutale di questo «potere della società»; esse intendono causare l’obliterazione del desiderio individuale di potere, rimarcare l’appartenenza alla società, alle sue regole, costumi e tradizioni. Orbene, tutto ciò esprime un assoggettamento non meno intenso di quello implicato dal potere di comando, pur se affranca l’uomo dallo sgradevole ordine diretto e perentorio dato da un comandante. I vari tabù delle società primitive implicano una soggezione più forte di qualsiasi singolo ordine; a quest’ultimo ci si piega, ma esiste la possibilità di brigare per rovesciare il corrispondente potere di comando; invece praticamente inconsistente è la possibilità di rovesciare la forza pervasiva dei tabù.

Nelle bellissime pagine sull’arco e il canestro, tratte dalla diretta osservazione di società amerindiane, Clastres sottolinea tutta la forza dei condizionamenti, rinunce, frustrazioni che la società primitiva impone ai suoi membri per poter garantirne la convivenza, nonché l’ordine e la stessa preservazione dell’aggregato sociale. Vi vediamo vividamente espresso il peso della società, delle sue regole e prescrizioni dolorose presidiate da tabù tremendi e da costumi inflessibili: la perfetta divisione e opposizione dei ruoli di uomini e donne (la caccia per i primi, il trasporto di masserizie e le faccende domestiche per le seconde); il divieto per il cacciatore di mangiare le sue prede, pena l’insuccesso nel cacciare e quindi il declassamento a portatore di canestro. Tutto ciò ha un preciso ruolo funzionale: impone la dipendenza dagli altri membri del gruppo per non morir di fame, evitando alla società di disgregarsi. Nelle tribù Guayaki esiste il diritto delle donne di avere più mariti, diritto che intende evitare conflitti fra gli uomini provocati dalla rarità di donne. Gli uomini sentono tutta la frustrazione provocata da questa condivisione delle donne, e vi danno sfogo in canti notturni in cui esaltano la loro individualità e il loro valore (sono un grande cacciatore, io, io, io…). Rifiutano nel canto tale costrizione e cercano di fugarla nell’immaginazione, ma la subiscono: la società lo comanda. Vediamo così che il tanto vituperato senso di alienazione che nasce dalla divisione del lavoro è solo una delle pene da alienazione che la società può infliggere ai suoi membri.

Dunque, l’attenzione che stiamo riservando alle società primitive, in quanto prive di poteri di comando, non intende evocare paradisi perduti. Abbiamo visto, infatti, che i poteri in esse incarnati possono essere più duri e tirannici di altre forme di potere; per giunta, la loro preservazione esige, come meglio sarà chiarito presto, il soffocamento dei

27 Cfr. E Durkheim, «Definizione dei fenomeni religiosi», in E. Durkheim e M. Mauss, Sociologia e Antropologia, Fratelli Melita, 1981, pag. 37

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processi evolutivi. La nostra attenzione per le società primitive nasce dalla necessità di scandagliare le origini del potere di comando, così da capirne meglio i contenuti e il modo di evolvere. Intende, inoltre, puntualizzare quale è il prezzo del non comando o, più precisamente, che il potere della società non è un’attraente alternativa al potere di comando. Vedremo presto l’importanza di questo carattere chiuso ed oppressivo delle società tribali per la spiegazione di alcune forme di potere ad esse succedute. Il fatto di muovere da condizioni di inesistenza del potere di comando agevola il chiarimento dei modi attraverso cui quest'ultimo ha assunto le vesti di dominio; inoltre, facilita l’accertamento delle possibilità e dei modi di rimuovere questa sua truce sembianza e di riconciliare l’esercizio del potere con chi vi è sottoposto; in particolare, evita di cadere nell'illusione di sfuggire ai mali del potere confidando nel potere della società.

2. Condizioni e fattori che facilitano l’avvento del potere di comando

Dobbiamo ora chiederci come abbia potuto aver luogo la nascita di poteri di comando, a dispetto dell’ossessiva attenzione posta dalle società primitive per evitare questo evento. L’evoluzione del potere verso forme di comando richiede il superamento dello stadio della primitività, richiede quindi il verificarsi di fenomeni innovativi che inneschino forme di sviluppo. Varie connotazioni delle società tribali possono agevolare o contrastare tendenze evolutive. Ad esempio, i clan stratificati (cosiddetti conici) promuovono concentrazioni di ricchezza e perciò di potere a vantaggio degli strati privilegiati, concentrazioni che tendono a determinare dissidi interni a questi, la distruzione della organizzazione clanica ed il passaggio a formazioni sociali con poteri di comando. Ma attenzione. Mentre l’eguaglianza e l’armonia sociali tendono sempre ad eternare la primitività, l’esistenza di tendenze conflittuali e squilibranti non sempre stimola i processi evolutivi; può talvolta generare vere e proprie trappole della stazionarietà. Una situazione di questo genere si incontra fra gli Yanoama della foresta amazzonica, dotati di una organizzazione estremamente elementare, per vari aspetti somigliante a quella dei cacciatori-raccoglitori, poco bisognosa di cooperazione e costituita da famiglie nucleari che regolano al loro interno la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni. Queste popolazioni sono turbate dal seguente micidiale meccanismo squilibrante, che soffoca possibilità evolutive: Le famiglie, essendo interessate ad allevare maschi cacciatori e guerrieri, ed essendo limitate le possibilità di sostentamento di una numerosa prole, ricorrono all’infanticidio femminile; questo fatto, insieme alla tendenza dei guerrieri e cacciatori più valorosi ad accaparrarsi più donne, determina una endemica rarità di queste, che scatena violenti conflitti all’interno e con l’esterno. L’accennato circolo vizioso, in cui la carenza di donne è, in pari tempo, conseguenza causa delle inclinazioni e attività guerresche, nega a queste popolazioni ogni possibilità di sviluppo.

In generale, vediamo le società primitive fare di tutto per soffocare lo sviluppo, forse nell’istintiva consapevolezza che quest’ultimo vanificherebbe il loro potere, a vantaggio di quello di singoli membri. Non sempre, tuttavia, riescono nell’impresa. Circostanze esterne possono imporre mutamenti e salti qualitativi nell’organizzazione sociale, anche nei casi in cui la struttura dell’aggregato comunitario tenda vigorosamente a soffocare il mutamento. È molto significativo che Clastres, nonostante non sia interessato a scandagliare le condizioni che determinano l’emergere dello stato ma insiste piuttosto sulla inesistenza di questo fra i primitivi, debba prendere atto dell’emergere di nuove forme di potere implicanti comando all’interno di società primitive attraversate da mutamenti strutturali. Discorrendo delle comunità Tupi-Guaranì, formate da varie famiglie estese e perciò caratterizzate da ragguardevoli dimensioni demografiche, egli nota che l’autorità dei capi delle singole famiglie è sovrastata da quella di un capo principale che funge da supremo

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coordinatore e che esprime l’unità del gruppo, in modo da evitare il determinarsi di disgreganti ed esplosive divergenze e contraddizioni interne. Vediamo, in questo caso, che il semplice ampliamento demografico determina l’evoluzione della forma di potere verso un embrionale potere monarchico costituito da un’autorità centrale sovrastante quelle dei sottocapi locali, spesso però affiancata da un consiglio di anziani la cui approvazione è necessaria al capo principale per l’esercizio della propria autorità. Ora, se è sufficiente un modesto ampliamento demografico a generare forme neppure tanto larvate di potere di comando, questo prenderà piede assai più perentoriamente nel caso di più profondi cambiamenti della struttura sociale.

Più rilevante è il fatto che l’avvento di poteri di comando (e, più in là, di formazioni statali) scaturisce spesso dall’evoluzione interna del corpo sociale, senza bisogno del verificarsi di sovrapposizioni esterne. Come già accennato e come dimostrano quasi tutte le società primitive euro-asiatiche e polinesiane, la presenza di stratificazioni nell’organizzazione clanica, rappresentate in genere da privilegi legati al grado di parentela, apre importanti varchi al superamento di tali organizzazioni, verso forme più concentrate di potere e di ricchezza. J. Bodin ha dato una vivida descrizione del processo di assoggettamento dell’uomo all’uomo verificatosi agli albori della storia umana. Egli scrive: «dopoché la forza, la violenza, l’ambizione, l’avidità, il desiderio di vendetta ebbero armati gli uni contro gli altri i capi delle famiglie, le loro guerre e contese ebbero l’effetto di ridurre gli uni in servitù degli altri, i vincitori; e tra i vincitori stessi quello che era stato eletto capo e condottiero, sotto la cui guida si era riportata la vittoria, mantenne la propria autorità sugli uni in qualità di sudditi fedeli e leali, sugli altri come su schiavi»28. Ma questo è solo l’aspetto più appariscente della questione. Vi è qualcosa di più fondamentale alla base dell’intero processo.

Non appena entrano in gioco forze e vicissitudini che hanno l’effetto di elevare il livello di sviluppo della società, il potere è sospinto ad evolvere verso forme di comando. Non fosse altro che per la seguente ragione: È indispensabile l’azione di innovatori per trascinare la società fuori dalle secche del mondo primitivo; ma gli innovatori, per poter incidere e poter trascinare gli altri, hanno bisogno di farsi ubbidire, hanno quindi bisogno di conquistare poteri di comando che li pongano in grado di zittire e sopraffare il potere repressivo della società, la forza della tradizione e di sopprimere le autonomie di villaggio. Tanto più ne hanno bisogno in quanto le nuove condizioni implicheranno il passaggio dall’economia del tempo libero, tipica delle società primitive, a economie dello sfruttamento, cioè i cui membri dovranno essere costretti a un prolungamento dei tempi di lavoro dedicato a produrre surplus a favore delle classi dirigenti. Di mano in mano che l’organizzazione sociale si estende ed evolve, cresce il fabbisogno di surplus e, parallelamente, l’esigenza di poteri di comando tesi a permetterne l’estrazione ed a difendere la posizione dei capi.

Come è evidente, qualsiasi aggregato sociale non può sfuggire all’esistenza del potere politico. Nelle fasi successive alla primitività, questo assumerà necessariamente contenuti di comando, dando vita a quelli che gli antropologi chiamano domini, cioè a entità politiche di più vasto raggio costituite da segmenti ordinati e fra loro connessi, dirette da veri e propri capi. La questione centrale che si pone è se tale forma di potere debba essere necessariamente intrisa di abusi e soprusi o se possa essere, invece, da questi emendata, cioè se il potere sia necessariamente destinato ad assumere la veste del dominio o possa invece assumere quella più edificante del servizio. Clastres sostiene che le società primitive hanno capito l’affinità del potere di comando con la natura, in quanto condizionamento esterno e limitazione dell’universo culturale, cioè hanno capito che tale potere costituisce una minaccia per la cultura; accortamente, hanno inventato il modo di

28 Cfr. J. Bodin, Antologia di scritti politici, Il Mulino, Bologna 1981, pag. 138

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depotenziarlo conferendo alla società, depositaria della cultura, il modo di soffocare il potere di comando. Ma questa è una forzatura analitica derivante, per così dire, da un eccessivo apprezzamento delle formazioni sociali primitive. Il potere non ha affinità con la natura; è, in tutte le sue forme, una relazione sociale in quanto scaturisce dal vivere insieme. Assume qualche affinità con la natura, cioè il carattere di una sorta di sovrapposizione esterna, allorché prende la veste di dominio. Orbene, uno degli scopi principali di questo saggio è di dimostrare che tale veste non è figlia necessaria e legittima del vivere in società, ma è stata imposta a quest’ultima attraverso lacrime, sangue e ogni sorta di nefandezze.

Il potere di comando è connaturato in qualsiasi società non primitiva, è un imperativo funzionale. Le società primitive possono allontanarlo da sé, le altre società potrebbero solo emendarsi dalle forme di potere dominio. Vedremo che è sbagliato considerare il potere di comando come una negazione della cultura, a meno di intendere la cultura quale libertà di contraddire gli imperativi funzionali e, per tal via, suicidarsi.

La società costituisce un’opportunità ma anche un peso per l’individuo. È vana pretesa diminuirne il peso depurandola dei poteri di comando; sappiamo, infatti, che il peso della società sui suoi membri è alquanto gravoso fra i popoli primitivi nonostante la (e anzi proprio a causa della) cura da essi posta nell’osteggiare l’avvento di poteri di comando. I primitivi, in quanto tali, non possono sottrarsi al peso della società. Abbiamo visto che i Guayaki non hanno altra scelta che ricorrere al canto per cercare di ingannare il peso delle costrizioni e frustrazioni impostegli dalla ragion di stato della loro società. Vedremo che i non primitivi possono fare di peggio. Essi si sono assoggettati, attraverso l’edificazione del potere dominio, a dure forme oppressive non necessarie. Nel corso del loro «incivilimento», gli uomini si sono forgiate pesanti catene; poi cantano e sognano, per eludere i conseguenti patimenti.

Procediamo ora ad analizzare come questa forma distorta di incivilimento, cioè finita sotto gli artigli e il becco di dure forme di potere-dominio, ha potuto aver luogo e come tenda spontaneamente a nascere e riprodursi, in assenza di una deliberata azione tesa ad impedirla. Abbiamo visto che i primitivi sono maestri nell’ostacolare la nascita del potere di comando; ma in realtà non traggono da ciò giovamento giacché si condannano a condizioni di oppressione non minori; per di più, soffocano lo sviluppo e perciò la forza liberatoria di ultima istanza di questo. I non primitivi hanno mille ragioni di ostacolare il potere-dominio con almeno altrettanta energia; vedremo, infatti, che ne trarrebbero grandi vantaggi, senza condannarsi alla stazionarietà ed anzi ricevendone in premio la rimozione di seri ostacoli allo sviluppo; ma non lo fanno. Sembra proprio che una delle maggiori preoccupazioni dell’uomo sia sempre stata quella di forgiarsi catene con le sue proprie mani.

3. Verso il potere-dominio

Abbandoniamo ora le società primitive, custodi gelose della forma di potere esercitato dalla società, ed inoltriamoci nel mondo assai più vivace, ingordo e tumultuoso del potere di comando. Questa forma di potere tende, per sua natura, a soggiacere agli interessi particolari del comandante. Per evitare ciò, occorre la definizione di un legame stretto e ben vigilato di tale potere con la funzione che questo è chiamato a svolgere nella società.

Ogni forma di potere ha sempre assolto nella storia ad esigenze funzionali, cioè ha reso dei servizi alla società. Al tempo stesso, ogni forma di potere ha sempre implicato oppressione, abusi e soprusi ai danni dei sottoposti. Il problema analitico che si pone prioritariamente, a chi intenda approfondire il fenomeno del potere, è di accertare se i suddetti due aspetti (funzione e abuso) possano essere distinti in maniera rigorosa nella

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teoria e nella pratica. Se ciò è possibile, infatti, esisterà la possibilità di accertare il modo attraverso cui preservare il primo aspetto e, al tempo stesso, determinare un progressivo deperimento del secondo. Una siffatta possibilità avrebbe conseguenze di immensa portata sul piano sociale, istituzionale, etico, psicologico. Questo tema assai impegnativo verrà ripreso più in là. Qui ci limiteremo a preparare il terreno, attraverso l’analisi del fenomeno del potere così come si è andato configurando nel corso della storia, a partire dal passaggio dalle società primitive a forme più evolute di civiltà.

Ogni forma di potere storicamente esistita è sempre stata contraddistinta da una stretta compenetrazione fra le due accennate componenti: quella del dominio e quella della funzione-servizio. Assai spesso la prima ha nettamente prevalso sulla seconda; in verità, quest’ultima ha per lo più agito da mero paravento, giustificazione e pretesto per l’imposizione di brutali forme di dominio. L’esperienza storica mostra questa regolarità in modo talmente pronunciato da far sembrare quasi impossibile immaginare l’avvento di forme di potere emendate dalla veste del dominio.

Cercheremo di documentare con vari esempi storici questo fatto, questa persistente associazione fra il male e il bene, forse la più terribile e diabolica di tutte le commistioni, in quanto nel suo ambito il bene agisce da pretesto e giustificazione del male. L’intera storia umana è intessuta di tale tragica e apparentemente inscindibile relazione fra dominio e funzione. Al punto da generare il convincimento che il fenomeno del potere sia inevitabilmente fatto di tale pasta e che sia vana pretesa sfuggirvi. Così, il cinismo è diventato bandiera delle attività di governo, e nei sudditi si è diffusa l’idea che l’alternativa è fra il sottostare all’abuso, o ribellarvisi nella speranza di passare dalla posizione di dominati a quella di dominatori. In verità, il potere tende di per sé ad assumere connotati di dominio e gli slanci etici più generosi diretti contro questa connotazione non possono che rivelarsi, come sempre si sono rivelati, impotenti in assenza di precise conoscenze sul modo di emendare il potere dalla veste del dominio.

Niente giova di più allo stabilirsi di forme di dominio della dissociazione, nell’organizzazione e gestione delle società umane, fra pensiero ed azione. Purtroppo, il fatto si è che l’inesistenza di una scienza sociale ha sostanzialmente lasciato il destino dei popoli nelle mani degli uomini d’azione: forse oggi ancor più che in passato, visto che le difficoltà di comprendere scientificamente il modo di essere delle società umane e le loro esigenze organizzative sono maggiori nelle dinamiche società del nostro tempo che nel mondo quasi stazionario del passato.

L’uomo d’azione è un cacciatore di potere dominio; ed assai spesso è proprio la sete di dominio che stimola l’azione. Abbiamo visto che le società primitive, contraddistinte dall’oppressione della società sull’individuo, reprimono l’iniziativa dell’uomo d’azione e pongono quest’ultimo al bando allorché manifesta sete di poteri di comando. Abbiamo visto poi che il superamento della primitività richiama in causa l’uomo d’azione, e che la rottura della tradizione richiede l’opera di grandi individualità, dotate della capacità di mobilitare i membri del consorzio sociale su obiettivi di mutamento e trascinarli verso nuovi approdi.

L’azione e le ambizioni dei cacciatori di potere-dominio sono agevolate dal fatto che il popolo ha istinti gregari, si sottomette ai più dotati, a chi riesce a suggestionarlo, a intimidirlo con la sua irruenza, ad entusiasmarlo con le sue imprese. Non di rado la gente comune sente il bisogno di affidarsi a un dominatore. Da parte sua, chi intende (e ha stoffa per) svolgere un ruolo guida nell’ambito di società evolutive, presto constata che deve conquistare capacità di dominio e di costrizione sugli altri per poter procedere. L’uomo d’azione, se non è investito di potere-servizio, cioè se non è costretto da precise normative e da opportune forme istituzionali ad espletare potere-servizio, deve conquistare potere dominio se vuol farsi valere. Ma neppure è necessaria la consapevolezza di tale necessità ad innescare la corsa al dominio. Solitamente l’uomo di successo viene aggredito da una

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sete cieca e insaziabile di potere di disposizione. È un fatto di comune osservazione che la conquista di posizioni di comando in genere non placa la sete di potere ma la alimenta. Forse la maggiore contraddizione della natura umana e, in pari tempo, il maggior propellente dello sviluppo sono costituiti dal fatto che l’uomo, essere finito e vulnerabile, cova dentro di sé una lacerante proiezione verso l’infinitamente grande. Aspira all’onnipotenza e, siccome questa trova espressione nel potere arbitrario e incontrollato, è fortemente attratto dalle forme di dominio.

Ora il fatto è che l’evoluzione delle società umane, essendo bisognosa di poteri di comando, offre esca e materia alla corsa al potere-dominio. L’aumento della ricchezza materiale, da un lato amplia la base del dominio e la famelicità dei dominatori e dall’altro fornisce a questi ultimi gli strumenti per esercitare, consolidare e ampliare le loro capacità di disposizione. Peraltro, con lo sviluppo della divisione del lavoro e della collaterale articolazione del tessuto sociale, il potere di comando diventa, da fenomeno occasionale indispensabile a promuovere e fronteggiare eventi innovativi, una necessità. Occorre un potere di comando stabilmente incarnato per poter governare società articolate e complesse ed evitare che queste ultime tendano a sfaldarsi, lacerate dai conflitti interni. Le concentrazioni della ricchezza materiale, l’ampliamento della base territoriale e demografica delle singole comunità e la necessità di organizzare il territorio hanno determinato un continuo rafforzamento e radicamento dei poteri di comando ed il consolidarsi di questi, talora ereditariamente, in particolari ambiti della società. Parallelamente allo svolgersi di queste vicende, la sfera politica si evolve e si autonomizza dal potere incarnato nella società. Sorge sempre più il bisogno di un ordinamento normativo che stabilizzi e precisi le nuove forme di potere, dando ad esse un contenuto e un’autorità chiari e ben definiti. Vengono in essere strutture amministrative che formalizzano e imputano con chiarezza i poteri di comando. Insomma, questi poteri prendono ad assumere sempre più distintamente la veste di un potere formalmente autonomo e impersonale, con al vertice il potere statale.

La nascita del potere statale ha richiesto grandi innovazioni nel corpo sociale. È tuttavia importante sottolineare che, una volta affermatosi, tale potere resta incarnato nella vita della società a prescindere dall’ulteriore verificarsi di eventi innovativi. Anzi vedremo presto che in più casi il potere statale ha assunto forme duramente dispotiche, di per sé veicolo di stazionarietà. Le società che Marx ha catalogato nel cosiddetto modo di produzione asiatico e che Wittfogel ha qualificato come dispotismi orientali sono società stazionarie, sovrastate da un potere statale estremamente saldo, oppressivo e onnicomprensivo, talora intriso di feroce dispotismo.

Nella realtà storica vediamo che questo consolidarsi del potere di comando nel potere statale solitamente avviene attraverso guerre e conquiste, e precisamente in seguito al sorgere dell’opportunità, per i vincitori, di dominare e sfruttare i vinti, attraverso un potere di controllo ferreo e radicato. Ma, da un punto di vista logico e fattuale, questa non è l’unica via che conduce al potere statale.

R. L. Carneiro ha esposto una teoria sull’origine dello stato29 che chiama in causa la guerra quale condizione necessaria per il verificarsi di tale evento. Precisa, tuttavia, che quest’ultimo non avrà luogo se non in presenza di almeno una delle seguenti condizioni sufficienti:

a) Circoscrizione ambientale, cioè localizzazione su un’area coltivabile circoscritta, da cui gli abitanti sconfitti non possano uscire per sottrarsi alla preminenza degli invasori e che, al tempo stesso, stimoli, con il bisogno di terra, aggressioni nei confronti dei vicini. La sottomissione, unificazione e controllo di queste entità, l’estrazione di tributi e prestazioni d’opera, comportò la nascita di domini, regni e imperi che dovettero

29 Cfr. R. L. Carneiro, «A theory of the origin of the state», in Science, vol 169, Agosto 1970, pagg. 733-738

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munirsi di poteri centralizzati di comando. Portò cioè alla nascita di veri e propri stati, con i guerrieri più valorosi che fungevano da amministratori e classe dirigente. Per parte loro, le vittime degli espropri di terre si andarono raggruppando intorno alle classi dirigenti, prendendo a svolgere attività artigianali e altre prestazioni d’opera richieste da tali classi.

b) Concentrazione delle risorse in ambiti limitati, che è una versione modificata del caso precedente

c) Circoscrizione sociale, cioè addensamento demografico nelle aree centrali, che accentuava le reciproche interferenze dei villaggi e rendeva più difficile sfuggire ad attacchi e più intensa la competizione per la terra obbligando, per ragioni di difesa e offesa, a costituire più ampie unità dimensionali e a sottomettersi a più forti poteri dei capi.

Questa teoria non è del tutto convincente. L’indicazione della guerra quale causa della nascita degli stati scambia una mera coincidenza per una causa. Per parte loro, le tre suddette condizioni sufficienti non sono tali. Le guerre incessanti fra le tribù mongole per lungo tempo non diedero vita a una formazione statale. Ci volle il genio di Gengiz Khan perché ciò avvenisse. E avvenne non in virtù di circoscrizione ambientale, concentrazione di risorse o circoscrizione sociale ma piuttosto perché la struttura clanica dei mongoli favoriva le stratificazioni sociali e quindi tale forma evolutiva. La nascita dello stato arabo fu il prodotto della predicazione del Profeta Maometto e fu preceduta dalla organizzazione religiosa degli Hums: emanazione dei mercanti della Mecca, che avvenne con l’intento principale di promuovere gli interessi economici dei mercanti. Abbiamo visto che l’affermarsi del potere statale può essere determinato da eventi quasi esogeni come la crescita demografica, che implicherà una più complessa organizzazione territoriale, e/o essere stimolato dalle forme di strutturazione interna dei clan tribali.

Ad ogni modo, bisogna riconoscere che la guerra accompagna fedelmente la nascita di poteri di comando e, in un certo senso, si presenta storicamente come la levatrice del potere statale. La spiegazione di questa coincidenza è piuttosto semplice. Abbiamo visto che occorre l’opera di innovatori e trascinatori per imporre la rottura costituita dall’avvento di poteri di comando e trascinare il mondo primitivo fuori della propria pelle. Sappiamo, inoltre, che la nascita di poteri di comando implica e richiede che il comandante abbia gruppi armati al suo servizio. Orbene, il coagularsi di poteri di comando attraverso la formazione di gruppi armati implicherà una inclinazione verso le attività belliche e di conquista, dovendo il comandante acquisire prestigio e sedare gli appetiti dei suoi armati attraverso conquiste. È per questo motivo che vediamo la guerra accompagnare il coagularsi del potere statale che, di per sé, cioè in quanto necessità funzionale, non la richiede. Naturalmente la guerra con le sue conquiste, la riduzione in schiavitù delle popolazioni sconfitte e la concentrazione della ricchezza a disposizione della società in poche mani, può molto accelerare l’organizzazione di forme statali. Ad ogni modo, il potere statale costituisce una necessità ineludibile (un imperativo funzionale) per società che abbiano raggiunto un livello di complessità e di sviluppo superiori a quelli tipici dei primitivi, a prescindere dal bisogno di attuare e mantenere l’asservimento di popoli vinti. Tale forma di potere rappresenta una evoluzione istituzionale indispensabile per il governo di società complesse, tanto più se di grandi dimensioni, in cui risulteranno inadeguati i sistemi di controllo in vigore nelle società primitive. Questa necessità dello stato è sottolineata con particolare evidenza dagli ordinamenti dispotici, che vediamo costretti a istituire e preservare dure forme di potere statale nonostante e anzi proprio a causa della loro tendenza a soffocare, a somiglianza delle società primitive, il mutamento. Il potere di una élite di comandanti su compagini sociali più e meno estese ha bisogno di una forza di comando salda ed incarnata, a prescindere dal fatto che i sudditi siano popoli vinti o popoli fratelli.

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Dunque, l’importante e decisivo fenomeno che occorre spiegare preliminarmente è il sorgere del potere di comando da società primitive che ne sono prive e che gli sono fermamente ostili; cioè spiegare attraverso quali rotte e per quali esigenze questo fenomeno riesce ad imporsi vanificando i formidabili strumenti dissuasivi apprestati dalle società primitive per impedirlo. Abbiamo visto che il potere di comando si impone quale ineludibile esigenza non appena si innescano mutamenti evolutivi che, per parte loro, hanno luogo se esistono smagliature e altre condizioni atte a favorirli. In tale situazione evolutiva, la fame dell’uomo di poteri di comando trova opportunità di soddisfazione e sarà lesta ad approfittarne. Questi andamenti spontanei conducono il potere di comando ad assumere la veste di dominio dell’uomo sull’uomo. L’ulteriore evolvere dei livelli di sviluppo conduce il potere di comando ad assumere la veste di potere statale. Ma il discorso non si esaurisce qui. Siamo anzi agli inizi delle difficoltà. Infatti, il vero problema consiste nella spiegazione della varietà di formazioni statali venute in essere nel corso della storia.

4. Il potere nelle prime società di comando

a) Verso il potere feudale

L’evoluzione forse più naturale delle prime forme di potere di comando è verso il potere feudale.

Le tribù barbariche confinanti con l’impero romano offrono probabilmente gli esempi più istruttivi della graduale evoluzione dal potere incarnato nella società, tipico dei primitivi, verso forme sempre più esplicite di potere di comando. Di più: esemplificano il confluire di queste in forme di potere statale, di pari passo con i cambiamenti indotti fra quei popoli primitivi dapprima dai contatti con il mondo romano e poi dalle opportunità offerte dalla disgregazione dell’impero. La vicenda di Arminio, mitico capo germanico, chiarisce in modo esemplare quanto difficile e sofferto risulti l’affermarsi di poteri di comando in società primitive e come, nonostante tutto, tale affermazione sia inevitabile se eventi e condizioni favorevoli costringono quelle civiltà a svilupparsi. Narra Tacito. «Arminio del resto, quando i Romani partirono dalla Germania e Maraboduo fu espulso, aspirando a regnare si attirò contro i connazionali amanti della libertà; minacciato con le armi, si batté con varia fortuna e morì tradito dai suoi».30 Significativamente, nelle lontane distese dell’Arizona, un destino forse ancor più atroce per un comandante, anche se meno cruento, toccò al capo indiano Geronimo. Abbandonato dal suo popolo, insofferente dei poteri del capo e reso sospettoso dalle ambizioni di costui, fu infine accerchiato e catturato dai bianchi insieme al suo esercito di 13 uomini. In entrambi i casi, i tempi non erano ancora maturi per l’instaurarsi di saldi e duraturi poteri di comando. Allorché iniziarono le grandi migrazioni nei territori dell’impero romano, altri capi germanici conquistarono un potere meno effimero e giunsero a cingere la corona reale.

La instaurazione di poteri di comando si è assai spesso servita dell’appoggio dei cosiddetti compagni d’arme denominati, nel caso all’esame, comitatus germanicus: associazione di armati legati da vita in comune sotto il comando di un capo, con lo scopo di effettuare operazioni di conquista e dalla quale i singoli componenti potevano sganciarsi a piacimento. Questa istituzione consentiva ai capi vittoriosi di sottrarsi alle restrizioni imposte dalle costumanze tribali e alla influenza dei nobili. Essa rappresentò il vivaio dei grandi capi che guidarono le migrazioni di confederazioni tribali barbariche attraverso i territori dell’impero di cui, con le loro conquiste, determinarono lo smembramento.

30 Cfr. Tacito, Annali, Newton Compton Roma, 1995, pag. 163

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Di mano in mano che si ampliavano i territori e le ricchezze controllati, i poteri di quei comandanti barbarici crescevano, fino a divenire dei veri e propri sovrani, a dispetto dell’impegno posto dai guerrieri per limitarne e imbrigliarne l’influenza anche attraverso l’eliminazione fisica. Dopo ogni assassinio, altri capi si imponevano, resi più forti di quelli soppressi dall’ampliarsi delle conquiste e più accorti dalla esperienza sulla sorte toccata ai predecessori. Il potere regale, pur limitato in vari modi, si rese sempre più indispensabile. Fu così che i maestri di palazzo Carolingi subentrarono ai Merovingi divenuti dei re feineantes, cioè buoni a nulla. Il fatto che i nuovi arrivati trovavano nei territori conquistati superiori strutture amministrative agevolò la nascita di formazioni statuali a ridosso dei precedenti costumi tribali.

Fra questi capi barbarici, il più intelligente e lungimirante fu Teodorico. Ammaestrato dalla sua lunga permanenza alla corte di Costantinopoli, ebbe l’accortezza di far tesoro del grande e quasi intatto patrimonio di strutture ed esperienze amministrative trovate in Italia, e si fece re di un ordinamento statale in piena regola. Anche più istruttiva è la vicenda dei Longobardi. Questo popolo portava con sé preesistenze tribali quasi intatte allorché penetrò in un’Italia spossata dalle lunghe guerre fra goti e bizantini, che avevano scompaginato le strutture civili e amministrative, e praticamente distrutto le forme di insediamento urbano sopravvissute alla caduta di Roma. I Longobardi stentarono molto a costruire una forma di stato; anzi cercarono di evitare tale incombenza. Ma non poterono sottrarvisi. Dopo aver assassinato vari re e aver fatto a meno per parecchi anni di un monarca, furono infine costretti ad eleggere nuovi re per poter resistere alle minacce esterne, e a dotarli di poteri più consistenti dei predecessori. Ma ciò non affrancò i nuovi sovrani dai condizionamenti, le insidie e l’invadenza di duchi e potentati locali. È comunque significativo che la forma di stato dei Longobardi, pur embrionale, espresse un panorama giuridico e amministrativo in cui i retaggi tribali avevano perso ogni ruolo normativo.

Anche i visigoti non poterono esimersi dall’erigere compagini statuali e furono governati da re. Questi, pur insidiati, condizionati e talora deposti dalla dissidenza interna, e, assai più spesso, intimoriti e manovrati dalla tracotanza di grandi capi guerrieri, fecero nondimeno tesoro del diritto romano, della sapienza amministrativa di chierici e retori e della esperienza delle vecchie classi dirigenti.

I popoli slavi, per lungo tempo tagliati fuori da contatti con il mondo romano, si svilupparono con notevole ritardo rispetto al mondo germanico. Ma, anche in questo caso le incursioni nel mondo bizantino e i contatti con la grande cultura di quell’impero produssero una evoluzione verso forme relativamente concentrate di potere di comando. Inoltre, anche qui il coagularsi di tali forme di potere prese avvio attraverso il fenomeno dei compagni d’arme, nella veste della cosiddetta druzina russa, raggruppamento di guerrieri di mestiere sotto la guida di un capo, che erano liberi di sconfessarlo e abbandonarlo quando volevano. Più in là, queste iniziali forme di potere furono indotte a dar vita a più robuste strutture politiche dalla necessità di resistere ai colonizzatori germanici. Significativamente, nelle società slave, meno evolute di quelle dell’Europa occidentale, le strutture comunitarie conservarono a lungo un importante ruolo: le assemblee tribali affiancavano e condizionavano in modo decisivo l’autorità del capo.

I principati di Kiev rappresentarono le prime forme statuali comparse nel mondo slavo. Soprattutto a causa dello loro labili strutture politico-amministrative, essi furono, a più riprese, posti in serie difficoltà dall’avanzata di popoli centro asiatici e, infine, furono agevolmente travolti dalla valanga mongola. Dopo di che, la nascita del potere statale imboccò in Russia la scorciatoia di un dispotismo orientale della peggiore specie, sotto l’influenza combinata della eredità di Bisanzio e della necessità di apprestare in tempi rapidi una forma di potere statale adeguata a fronteggiare un nemico della statura dei mongoli.

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Nell’Occidente europeo, l’abile politica autonomistica della chiesa di Roma, le segmentazioni del territorio in grandi ville e domini signorili dove rifluirono le popolazioni urbane, e lo scompaginamento dei traffici ostacolarono il risorgere di un grande organismo imperiale. Ai re fannulloni merovingi, che Eginardo descrive come succubi dei prefetti di palazzo, succedette l’impero feudale di Carlo Magno, che attuò il maggiore sforzo di unificazione e ricomposizione di quella realtà spopolata e frammentata, in cui il monopolio della cultura era detenuto da un organismo fieramente autonomistico quale era la Chiesa di Roma. Questo impero, pur dotato di labili strutture amministrative e di poteri di comando la cui forza dipendeva dal prestigio dell’imperatore, rappresentò nondimeno una forma di stato che andava ben oltre le esigenze di governo di quel mondo disgregato, disperso in lande desolate e fra i boschi, ridottosi alla autarchia e solidarietà di villaggio. In verità, l’idea di impero costituiva in Occidente un retaggio culturale, rinfocolato dalla proiezione universalistica della chiesa romana; ma non trovò espressione in un vero e proprio stato imperiale, semplicemente perché tale forma organizzativa non costituiva una esigenza strutturale. Fu sufficiente la scomparsa di Carlo Magno a riportare le forme di governo entro limiti, diciamo, naturali, tanto più che le scorrerie di arabi e vichinghi avevano accentuato la frammentazione, lo spopolamento, e il rintanarsi della popolazione residua in radure e foreste. Lo spostamento verso Nord del baricentro dell’Occidente, lontano dalle rotte mediterranee, accentuò il rapporto con la terra. A quel mondo contadino, ridotto a condizioni di vita estremamente elementari dalla grande regressione delle condizioni generali di sviluppo succedute al crollo dell’impero romano, in cui il particolarismo e il localismo la facevano da padroni, bastava un potere politico-amministrativo povero e disgregato. Venne così in essere una società di protettori e protetti, legata alla zolla, invece che di governanti e sudditi: la società feudale. Fu certamente qualcosa di più di una società tribale: l’eredità civile e culturale dei tempi trascorsi vietava il ricostituirsi di una società primitiva.

La società feudale espresse una forma organizzativa del potere di comando a metà strada fra l’organizzazione delle società primitive, basata sul rapporto di parentela, e il potere statale. Precisamente, le forme iniziali di potere di comando espresse dal fenomeno dei compagni d’arme assunsero la veste di una molteplicità di domini realizzati da valorosi comandanti militari, che consideravano il sovrano un primus inter pares. L’atto di omaggio vassallatico, una sorta di apparentamento artificiale fra signore e cliente, costituì il fondamento di questa società basata sui rapporti di clientela. Era compito del signore difendere e proteggere i suoi servi, che si autogovernavano nei loro villaggi autosufficienti e da cui riceveva una varietà di servizi e prestazioni, formalmente in cambio di tale difesa e protezione ma in verità attraverso la più persuasiva minaccia dei suoi armati, il monopolio della giustizia e la collaborazione dei depositari del verbo di Dio.

Il carattere del feudalesimo di regime sociale a metà strada fra le tribù primitive e la nascita di un potere statale (carattere tipico di popolazioni rurali) emerge con particolare evidenza nei regimi feudali prosperati in Asia ed Africa che, diversamente dall’Occidente, non furono il risultato di una lunga e dolorosa regressione delle condizioni generali di sviluppo succeduta al crollo di un grande stato imperiale ma si enuclearono più o meno direttamente da società primitive. Il regno degli Ashanti dell’Africa subsahariana, basato sulla nozione di stirpe e sulle strutture di villaggio, costituisce uno dei migliori esempi di passaggio diretto dalla organizzazione parentale a forme superiori di potere politico. Ma anche il feudalesimo cinese, quello dei rajiput indiani e quello giapponese delle origini esprimono formazioni sociali immediatamente successive alla organizzazione tribale delle società primitive.

Assai presto, il Giappone provò a fare il passo più lungo della gamba attraverso l’imitazione del sofisticato ordinamento imperiale cinese dell’epoca Tang, ma dovette desistere in quanto quell’evoluto sistema statale era inappropriato alle condizioni generali

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di sviluppo dell’isola. Le riforme di Umako e Shotoku avevano sovrapposto il modello centralizzato di tipo cinese a preesistenti gruppi parentali e verso questi regredì il potere politico, assumendo veste feudale. Il potere subì un processo di decentramento verso la periferia, a beneficio delle grandi casate di provincia. Yatitomo Minamoto riuscì a realizzare un apparato di governo centrale dislocatosi a Kamakura, lontano dalla corte imperiale e basato sulla fedeltà dei cavalieri del Kanto, dei vassalli della casa e su acquisti di grandi possedimenti terrieri. Nel 1192 ricevette il titolo di shogun. Fu il preannuncio del cosiddetto feudalesimo centralizzato, tipico dell’esperienza giapponese. Ma nel secolo XIV la regressione verso il feudalesimo si accentuò, al tempo dello shogunato della famiglia Ashkaga. Gli shugo (governatori militari) divennero dei veri e propri sovrani locali. Nacque in questa epoca di disgregazione del potere centrale, caratterizzata da grande vivacità creativa, una classe di facoltosi mercanti; nelle campagne si diffusero la moneta, la divisione del lavoro e la produzione per il mercato. Ma questi sviluppi, avvenuti sotto la tutela del potere centrale e degli shugo delle province non generarono, a differenza dell’Europa medievale dove avvennero nelle città stato, un vero e proprio sistema di autonomie comunali; per questa ragione, le nascenti energie mercantili poterono essere più in là imbrigliate dal consolidamento del potere politico centrale shogunale che fu tipico del superfeudalesimo giapponese. L’organizzazione feudale fu in grado di utilizzare tratti della relativa forma di civiltà quale abito culturale di una formazione statale assai avanzata quale fu lo stato Tokugawa.

Il modello feudale non esprime una società propriamente aperta, tanto è che dal suo ambito può perfino germogliare la teocrazia dei talebani; ma ben si presta all’apertura. Una caratteristica eminente dell’organizzazione feudale del potere e della società ereditata dalle formazioni primitive e incarnata nel sentimento della tradizione, nei rapporti di parentela e nella vita di villaggio, è la tendenziale chiusura al mondo esterno e la collaterale osticità allo sviluppo; a meno che forze estranee non riescano ad incunearsi nel feudalesimo e, approfittando della sua frammentazione e labilità organizzativa, riescano a rompere il suo fragile guscio stazionario.

b) Il potere nelle società nomadiche

Anche il nomadismo costituisce una forma di organizzazione del potere politico immediatamente successiva a quella tipica delle società primitive. Essa riveste grande importanza, sia per la vastità delle aree geografiche su cui ha agito, sia per la sua lunga persistenza nel tempo, in forme praticamente invariate, cui ha aggiunto talvolta una grande capacità di aggregare vaste compagini territoriali poi trapassare in grandi imperi. Le strutture organizzative e il destino storico di queste società appaiono influenzati in modo decisivo dai condizionamenti dell’ambiente naturale, che ne hanno costretto la vita entro ritmi assolutamente ripetitivi, scanditi dall’alternarsi delle stagioni. Tale ripetitività dei processi vi ha determinato una forte specializzazione delle attività (e dunque una loro elevata efficienza stazionaria). L’organizzazione tribale e di clan vi regola, soprattutto attraverso i vincoli parentali, la vita associata. Fra i nomadi asiatici, la struttura clanica era contraddistinta da stratificazioni e privilegi, al punto da confluire in una organizzazione gerarchica in cui i prìncipi di grado più elevato esercitavano l’autorità su capi di più basso rango che, a loro volta, controllavano altri uomini, e via dicendo. Al vertice era il khan, che esercitava la sua autorità sull’intera compagine sociale. I nobili occupavano i pascoli migliori e decidevano l’uso dei pascoli restanti. Sulle decisioni di maggiore importanza si pronunciavano le assemblee di clan. Una tipica caratteristica dei nomadi asiatici era costituita dalla istituzione degli schiavi amministratori e soldati, che avrebbe conosciuto sviluppi e un’importanza straordinari nel mondo turco ed arabo.

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Il nomade è soggetto, nel suo libero vagabondare, solo alle dure leggi di natura; è tuttavia indotto dalla sua bellicosità (nonché obbligato da esigenze di difesa contro rivali e predoni e dal desiderio di depredare a sua volta), a riconoscere il valore dei capi ed accettarne il comando. Questi capi esercitano poteri di comando forti ma di tipo embrionale e quasi puro in quanto non discendono da consolidate e ramificate strutture amministrative. Diversamente dalla società feudali, tale potere è basato più sui rapporti di parentela che di clientela. Si tratta, pertanto, di formazioni sociali intermedie tra le società primitive e il feudalesimo. Tuttavia, le inclinazioni militariste e le loro grandi capacità belliche hanno dato luogo, nei casi in cui sono emersi condottieri di grande prestigio, ad aggregazioni su vastissimi territori conosciuti alla perfezione e percorsi con straordinaria rapidità dai cavalieri nomadi.

L’incessante attività di conquista di questi popoli dotati di una sofisticata organizzazione militarista ha dato vita a forme di potere caratterizzate da grandi capacità di disposizione e imposizione, e ciononostante pronte a vanificarsi di pari passo con la parabola del grande capo. Si tratta di società suscettibili di forte mobilitazione, di rapide e quasi miracolose aggregazioni su basi militariste, e di altrettanto rapide disgregazioni facilitate e stimolate dalla elementarità della compagine sociale. Queste vicende aggregative e disgregative, ripetutamente verificatesi nelle steppe dell’Asia centrale, hanno sottoposto il mondo circostante a grandi devastazioni. Solo Gengiz Khan riuscì, fra tutti i capi centro asiatici, a costituire un vero e proprio impero, dotato di salde strutture amministrative, che consentirono la nascita di un autentico potere statale su vasti domini e il suo perpetuarsi ad opera dei successori che si divisero il grande impero. Di più. Questi ultimi furono indotti a perfezionare e consolidare il potere statale nelle aree conquistate, per poter dominare e sfruttare le società sedentarie cadute in loro soggezione e che fornirono loro i mezzi e le esperienze per organizzare un potere statale in piena regola. Invece, altri grandi capi mongolo-turcheschi, quali Attila e Tamerlano, non riuscirono ad edificare strutture amministrative all’altezza delle grandi conquiste realizzate; pertanto, alla morte di quei conquistatori, i loro domini prontamente si disfecero, lasciando in eredità nulla più del ricordo di immense stragi e distruzioni, e qualche tumulo funerario.

Le vicende dei nomadi asiatici dimostrano che è piuttosto agevole l’edificazione di strutture statali dispotico-militariste a ridosso delle quasi primitive società di appartenenza. L’esito maggiore e più duraturo di questa sorprendente capacità del tribalismo nomade di dar vita a forme statali dispotiche e autocratiche è rappresentato dallo stato ottomano edificato da esponenti abili e fortunati di popolazioni turcomanne provenienti da uno stadio tribale.

L’impero indiano Moghul fu un’altra grande costruzione politica degli eredi di queste popolazioni delle steppe, ammaestrati dai contatti con la civiltà iranica e dalle dure forme di dispotismo islamico realizzate sia nelle steppe dell’Asia centro-meridionale sia dai capi schiavi del sultanato di Delhi. Ma queste forme statali costituirono, nella peculiarità dell’India, una mera e per vari aspetti labile sovrapposizione rispetto al sistema delle caste, che è riuscito sempre a vanificare, in terra indiana, l’affermarsi di salde e penetranti compagini statali.

Assai diverse sono state le forme di potere cui diede vita il nomadismo arabo. Fra le tribù arabe, a contatto con le fiorenti civiltà mediorientali, l’aspetto religioso assunse presto forme assai più sofisticate rispetto all’animismo delle popolazioni delle steppe asiatiche. Per contro, i rapporti di parentela e di clientela agivano da potenti amplificatori della conflittualità. In queste società angustiate dalle vendette, cui erano tenuti a partecipare parenti e clienti dell’offeso, l’associazionismo religioso prese ad agire da efficace strumento di stabilizzazione sociale. Già in epoca preislamica, l’associazione religiosa degli hums, patrocinata dai mercanti meccani, aveva apprestato importanti forme di regolazione dei rapporti intertribali, anche nei confronti di mercanti e popolazioni

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stanziati in terre molto lontane. Poi iniziò la predicazione di Maometto, che assoggettò questi popoli ad un sistema normativo e di potere di impronta teocratica.

Dunque, dal mondo dei nomadi si sono enucleate forme di potere fra le più dure e pervasive, nella veste del dispotismo autocratico e della teocrazia. Dobbiamo ora procedere ad una analisi e spiegazione più circostanziate di questo sorprendente fenomeno costituito dalla rapida e quasi miracolosa edificazione di potenti organismi statali, scaturiti come per incanto da un mondo tribale formato da unità assai elementari e spesso fieramente ostili verso il potere statale.

c) Il potere nei grandi imperi autocratici e burocratico-centralizzati

Nella vicenda del potere statale, il fatto più impressionante è rappresentato dal passaggio quasi subitaneo da società primitive al costituirsi di forme iperboliche di potere di comando nella veste di grandi imperi burocratico-centralizzati, incarnanti sistemi di dominio totale su grandi aree geografiche e grandi masse umane da parte di un despota onnipotente e di una élite di funzionari burocrati al suo servizio. Non hanno fino ad oggi ricevuto adeguata spiegazione, a mia conoscenza, le proporzioni e la subitaneità di questo salto: da una società senza potere di comando ad una governata dal più brutale dei poteri di comando; né ha trovato adeguata spiegazione il fatto che tale salto non costituisce un’eccezione bensì un aspetto assai frequente nell’evoluzione delle forme di potere. Ma questa enorme discontinuità è solo apparente.

Gli studiosi hanno spiegato l’emergere del dispotismo con vari argomenti: necessità di grandi opere pubbliche specie di carattere idraulico, ecc. Ma resta inesplicata la relativa rapidità e facilità dell’affermarsi di un così radicale rivolgimento delle forme di potere. Tale spiegazione appare alquanto naturale se si rammenta il potere oppressivo esercitato sulle popolazioni primitive dalla società, dai suoi costumi e tradizioni, e se si rammentano le accentuazioni di tale oppressione imposte, come vedemmo, dalla lotta contro la nascita di poteri di comando. Nel dispotismo quasi impersonale, ierocratico e lontano esercitato dall’autocrate imperiale e dalla sua corte c’è una vaga somiglianza con l’oppressione impersonale esercitata dalle società primitive sui loro membri. La presenza del potere di comando, che la società primitiva non tollera, risulta visibile e fastidiosa se ad esercitarlo sono individui vicini ai governati e nelle cui mani tale potere si modifica ed evolve attraverso soprusi, abusi e lotte cruente tese a rafforzarlo. Invece, il potere di comando è assai meno visibile quando è incarnato e quasi immobilizzato in un despota lontano e che sovrasta tutto e tutti. Un’altra affinità con il mondo primitivo è costituita dal fatto che il potere autocratico è costretto, per sopravvivere, a riprodurre e custodire nel modo più coerente e intransigente il carattere chiuso e immobile della società. Esso incarna la realizzazione di una forma di potere statale indispensabile a realizzare, governare e preservare compagini amministrative di grandi dimensioni territoriali nel mondo quasi-stazionario del passato più e meno lontano. Se tutto ciò è vero, sorge la domanda del perché mai questa forma di potere e di oppressione non si è imposta dappertutto. La risposta la si trova in numerose indagini descrittive di questo fenomeno, le quali evidenziano che esso ha avuto bisogno, per vedere la luce, di contingenze storiche, forme di civiltà e, soprattutto, condizioni geografiche che favorivano il formarsi di grandi concentrazioni di potere in mani ristrette: il monopolio del sale, di metalli preziosi e altri minerali indispensabili, il controllo di vie del traffico e l’emergere di grandi leaders, che facilitavano la unificazione di ampie compagini territoriali. Inoltre, la promozione e il finanziamento di grandi e costosi lavori pubblici di carattere idraulico, viario ecc. esigevano l’opera di una grande autorità e amministrazione centralizzate. Di mano in mano che le aree conquistate andavano assumendo le dimensioni di un impero, il centralismo burocratico e autocratico diveniva, come appena visto, una necessità per

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Fusari, 26/04/2017,
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l’amministrazione e preservazione della grande compagine venuta in essere. Queste impressionanti concentrazioni di potere diedero vita, attraverso l’organizzazione e lo sfruttamento del lavoro di larghe masse di uomini, a suggestive forme di civiltà.

Dunque, la nascita di grandi stati dispotici a ridosso di civiltà quasi primitive non deve destar sorpresa in quanto costituiscono il passaggio più naturale e, dopotutto, meno arduo dalla soggezione al potere immobilistico e pauperistico delle società tribali, incapaci di espandersi oltre i confini del villaggio, alla nascita del potere statale espresso dalla soggezione ad un despota potente e distante, signore di società non meno chiuse, immobili e sature di tradizione di quelle tribali. In formazioni sociali appena uscite dalla fase della primitività, il potere di comando riesce più facilmente ad imporsi e organizzarsi nella veste estrema di potere massimamente concentrato che non nella veste di poteri di comando frammentati fra una molteplicità di capi in lotta fra loro, deboli e malsicuri. Vedremo presto che quasi tutti i grandi imperi dispotici sono scaturiti da società tribali….

Nei grandi stati dispotici l’uomo conobbe, assai per tempo, l’amarezza dell’asservimento e dello sfruttamento più cupi ed esasperati. Inoltre, l’imprigionamento in un sistema di dominio totale e senza speranze, custode di società vegetative, impediva il cambiamento. L. Pellicani ha ben chiarito i meccanismi di tale chiusura. Egli scrive: «Il potere autocratico e burocratico centralizzato e il risultante Moloch statale tendono, per loro natura, ad annientare l’individuo e quindi a soffocare il mutamento. Erigono civiltà dell’obbedienza in cui il despota imperiale, padrone di tutto e tutti, costituisce anche la suprema autorità religiosa e l’intransigente custode dell’intero ordinamento, con le sue credenze ed i suoi culti, riti e forme cerimoniali»31.

Queste caratteristiche contraddistinguono tutti i sistemi dispotici centralizzati in quanto costituiscono loro imprescindibili esigenze funzionali. Un organismo statale vasto, rigido e relativamente sofisticato, ed il connesso sistema di asservimento e sfruttamento, non tollerano mutamenti, discrasie, interne contraddizioni e imprevisti che, data la sua rigidità, lo manderebbero in frantumi. Per preservarsi, richiede un andamento assolutamente stazionario e ripetitivo dei processi sociali, l’invarianza delle proporzioni, la tacitazione e soppressione dei devianti, un assoluto conformismo. Di più. Attraverso la dominante cultura di stato, deve inculcare nei sudditi il rispetto e la sacralità dell’ordine costituito e preservare quest’ultimo da «infezioni» attraverso una chiusura il più possibile ermetica al mondo esterno e l’autosufficienza. Questa impresa di addomesticamento non presentava difficoltà in popolazioni provenienti dalla stazionarietà del mondo primitivo e abituate al ruolo direttivo della sacra tradizione. L’isolamento rispetto all’esterno era agevolato dalle grandi dimensioni di quegli stati imperiali e ingigantito dalle difficoltà tecniche di spostamento.

Così le popolazioni cadute in soggezione di questi sistemi di dominio, vi sono restate quasi fossilizzate per tempi lunghissimi, vittime delle peggiori forme di oppressione, di addomesticamento dell’uomo e di soffocamento delle inclinazioni creative umane. Tuttavia, è bene precisare che il grado di oppressione e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo praticati nel loro ambito non costituirono il loro carattere distintivo. Vedremo infatti che, sotto questo aspetto, le comunità particolaristiche non furono da meno e anzi non di rado hanno espresso forme di dominio anche più acute. Dopotutto, i sudditi dei sistemi sociali dispotici erano portati a vedere questi sistemi come un rassicurante strumento di ordine e di pace sociale e ne accettavano il dominio quale espressione della volontà divina; ne erano servi rassegnati e solleciti, grati della benevola protezione ricevuta dalla maestà imperiale e desiderosi di preservarla. L’aspetto di quei sistemi di dominio che appare orrendo a noi moderni, scaltriti dalle conquiste e dagli ardimenti della società dinamica, è la loro capacità di preservare e trasmettere per tempi immemorabili la stazionarietà degli ordinamenti sociali, di incarnare una realtà senza speranze di

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mutamento, di ridurre in una paciosa schiavitù grandi masse umane considerate dai magnanimi governanti quale gregge protetto, guidato al pascolo, tosato e sottoposto a mungitura dai venerabili funzionari imperiali.

Lo stato dei Faraoni e quello babilonese rappresentano gli esempi più antichi di questi dispotismi scaturiti da società primitive. La loro edificazione fu indubbiamente agevolata da quella che Carneiro chiama circoscrizione ambientale (cioè la loro dislocazione in circoscritte aree di terra coltivabile, da cui la massa degli sfruttati non poteva evadere) e dal bisogno di un potere forte e centralizzato, in grado di attuare grandi opere pubbliche di bonifica e irrigazione. M. Weber, scrivendo sull’Egitto dei Faraoni, sintetizza molto incisivamente degli aspetti di questa civiltà che sono tipici delle società chiuse. Egli dice: «Era solo l’istruzione a determinare chi fosse nobile (star). E l’assoluta subordinazione gerarchica della burocrazia determinava l’ideale di vita. Ma, la "lealtà", che era nello stesso tempo "decoro", "rettitudine", "fedeltà al dovere" - l’equivalente, un po’ modificato, della virtù dei burocrati cinesi, il Li- costituiva la quintessenza di tutti i pregi. L’imitazione del superiore, l’approvazione incondizionata delle sue opinioni, la rigida osservanza dell’ordine di rango anche nella posizione delle sepolture nelle necropoli, erano doveri del suddito leale. "Inchinarsi per tutta la vita" era considerato il destino dell’uomo. In conformità a queste inclinazioni, il concetto di professione rimase rigidamente tradizionalistico. Era proibito all’operaio essere occupato al di fuori della sua professione abituale»32. Il defunto trasferiva con sé nell’al di là la sua posizione di rango; nella tomba venivano collocate statuette (ushebiti) divise in squadre dirette da capisquadra, con il compito di espletare attività di servaggio post mortem, mantenere i canali, curare l’irrigazione ed altro.

Anche le satrapie dell’impero persiano governavano popolazioni primitive, agevolmente assoggettate dall’organizzazione militare degli Achemenidi.

Gli stati subsahariani furono vaste aggregazioni territoriali popolate da società tribali, che non irradiarono un vero e proprio dominio dispotico sulle popolazioni assoggettate. Essi furono opera di condottieri che poterono finanziare le loro conquiste grazie al monopolio dell’estrazione di oro, sale, rame e avorio, al controllo di importanti vie di traffico. Spesso furono spinti ad attuare tali conquiste dalla necessità di conferire sicurezza ai traffici di lunga distanza..

In India, la nascita del dispotico impero Maurya e di quello Moghul furono agevolati dalla acquiescente struttura delle caste che, consapevole della sua solidità e del suo indiscusso controllo delle masse indù, ebbe buon gioco nel rendere quegli imperi (come pure altre forme di stato comparse nella penisola indostana) delle mere sovrapposizioni rispetto alla dura e rocciosa capacità immobilistica delle caste.

Il grande impero dispotico cinese scaturì dalle acute lotte per l’egemonia fra una miriade di stati ben armati, sviluppatisi a ridosso di una precedente organizzazione imperiale di tipo feudale. Tali lotte portarono, attraverso graduali eliminazioni dei contendenti, alla edificazione di un grande stato. Nel mondo cinese del tempo, ricco di una fioritura di teorie filosofiche e politiche, spregiudicate dottrine del dominio politico agevolarono la costruzione di un impero dispotico armato di una rara brutalità e coerenza centralistica, che procedette alla realizzazione di grandi opere di difesa, bonifica, irrigazione, canalizzazione e viabilità. Tale brutalità venne più in là addolcita dallo stabilirsi, per volontà degli imperatori Han, dell’egemonia della dottrina sociale confuciana reinterpretata in funzione delle esigenze del nuovo ordinamento. Tale dottrina fornì le basi intellettuali, morali e amministrative di un impero burocratico centralizzato governato da colti mandarini con saggezza, benevolenza, lungimirante spirito di dedizione e levigata sensibilità, e fu artefice di una civiltà impressionante per le sue realizzazioni nel campo del pensiero e dell’azione, e per la meticolosità delle sue elaborazioni. Eppure tale

32 Cfr. M. Weber, Sociologia delle religioni, Vol. II, UTET, Torino, 1976, pag. 14

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civiltà, assai significativamente, nonostante tanto splendore, non ha fatto che imprigionare fino ai nostri giorni le popolazioni amministrate in un dorato vicolo cieco.

Troviamo un altro esempio delle capacità immobilistiche dei grandi imperi centralizzati nello stato dispotico peruviano degli Incas. Questi riuscirono ad unificare con straordinaria rapidità i villaggi e le tribù della maggior parte della regione andina e ad edificare, a ridosso di quelle comunità, un grande stato centralizzato in grado di controllare nei dettagli e irretire la vita delle popolazioni assoggettate. Questo caso ci mostra una stretta continuità dell’organizzazione dei villaggi con i caratteri delle società tribali, mentre il figlio del Sole esercitava una autorità distante e venerata.

Anche l’impero ottomano scaturì dall’opera di tribù nomadi di turcomanni, abilmente guidate dalla dinastia Osmanli. L’affermazione di questo grande impero dispotico, in un mondo ricco di storia e cultura, fu facilitata da: a) l’eredità imperiale bizantina, che aveva assuefatto le popolazioni balcaniche e dell’Asia Minore all’ordinamento burocratico centralizzato; b) il metodo degli schiavi amministratori e soldati che costituì una peculiarità del nomadismo centro-asiatico. Questo impero costituisce una tipologia a metà strada fra gli stati centralizzati nati in via quasi diretta da forme tribali e lo stabilirsi dell’ordinamento centralizzato in forme regressive, nell’ambito di società assai più avanzate.

La tipologia più importante a questo riguardo (cioè di centralizzazione regressiva), è rappresentata dall’impero romano del Dominato, evolutosi poi, nelle province orientali, nella forma statale bizantina. La costruzione imperiale di Roma fu il prodotto delle straordinarie capacità organizzative del suo popolo, guidato dalla abilità e lungimiranza della classe senatoria e, in particolare, dell’invenzione del diritto e della giurisprudenza, che conferì a Roma uno strumento formidabile per unificare la sofisticata area mediterranea, quanto mai bisognosa di pacificazione. Dato che le conquiste dei romani si esercitarono su popolazioni abbastanza evolute, esse non poterono dar vita in via immediata a un ordinamento dispotico centralizzato. Come presto vedremo, l’impero repubblicano, lacerato dalle sue contraddizioni, riuscì a consolidarsi attraverso quella peculiare forma istituzionale che fu il Principato: struttura imperiale imperniata sulle autonomie municipali e perciò idonea a rispettare e preservare la molteplicità di culture e tradizioni dell’area mediterranea. Ma, più in là, il grande organismo imperiale romano, gettato in una acuta crisi dalla contraddizione fra la apertura del suo ordinamento istituzionale e la chiusura della sua forma di civiltà, per sopravvivere dovette edificare un ordinamento dispotico centralizzato in piena regola; a conferma che tale forma organizzativa era indispensabile all’esistenza dei grandi stati imperiali del mondo quasi-stazionario.

Grandi imperi sono giunti fino alla nostra epoca: direttamente, come nel caso della Cina, o in qualità di legati più o meno diretti di precedenti stati imperiali, come nel caso dell’impero ottomano e dello zarismo russo, che succedettero all’impero bizantino, e hanno ingessato larga parte dell’umanità nell’immobilismo, imprigionandola in vicoli ciechi per uscire dai quali sono tuttora in atto dure lotte.

d) Il potere teocratico

Fra le forme assunte dai sistemi di potere nel corso della loro evoluzione, una si impone all’attenzione per la radicale differenza rispetto alle altre: il potere teocratico. Quest’ultimo basa il governo delle cose terrene sulla legge di Dio, sul magistero dei depositari della dottrina e degli insegnamenti religiosi, e fa discendere la costruzione istituzionale dalla loro ispirata sapienza. La linea evolutiva delle forme di potere qui richiamata non è contraddistinta, a differenza di tutte le altre, da quella esplicita rottura rispetto alle società primitive rappresentata dall’emergere di poteri di comando.

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Precisamente, uno dei tramiti più importanti attraverso cui nei sistemi tribali viene esercitato il potere e il controllo della società sui suoi membri è rappresentato dalle credenze religiose, principalmente nelle forme di tabù. Scrive Durkheim: «la religione ha la propria genesi non in sentimenti individuali, sì bene in stati d’animo collettivi, variando col variare di questi». C’è dell’esagerazione in questa affermazione, ma essa chiarisce bene la capacità di dominio e controllo sulla collettività che la religione conferisce alla società, pur in assenza di poteri di comando; tanto più che «Chiunque tenda a divergerne (dalla fede collettiva), anche su punti secondari, diviene oggetto di riprovazione, tenuto a distanza, esiliato nell’intimo»33.

La forza e il prestigio delle credenze religiose hanno costituito per le società primitive, sommamente ostili al potere di comando, lo strumento migliore per mascherare l’imporsi della dura necessità del comando nel corso dell’ampliamento delle loro dimensioni e dell’approfondimento del processo di strutturazione ben oltre il livello tribale. L’avvento della soluzione teocratica è stato favorito dal radicamento e dal grado di evoluzione del subsistema religioso nell’ambito della società nonché dalla abilità dei suoi esponenti nel rintuzzare la tendenza dei capi secolari a trar vantaggio dai mutamenti in atto; invece, è stato ostacolato dall’audacia, dal prestigio e ambizione dei capi e precisamente dal numero di seguaci che questi riuscirono a mobilitare attraverso le prospettive di dominio e arricchimento e le aspettative salvifiche che seppero trasmettere nei loro accoliti.

In un gran numero di casi, prevalse l’effetto negativo, che ostruì l’affermarsi del potere teocratico; insomma, prevalse l’ambizione dei capi favorita dalla debolezza, nel mondo primitivo di provenienza, del subsistema religioso (stregoneria, ecc.) in confronto all’impeto e al ruolo funzionale espresso da grandi capi e condottieri nel corso del tumultuoso passaggio dalla tribù a forme più evolute di società. In questi casi, la religione entrò al servizio dei despoti di grandi imperi centralizzati o di re, cioè divenne chiesa di stato alle dipendenze del sovrano divinizzato, e quindi puntello di un sistema di potere dichiarato espressione della volontà di Dio e che utilizzava l’opera dei profeti, il sacrificio dei martiri e la sapienza dei chierici, con il fine di meglio imporre il suo dominio

In altri casi, come nell’Europa feudale, fu l’opera dei religiosi a propiziare, legittimare e sollecitare la nascita di formazioni statali nelle varie società barbariche, quale prerequisito per la conversione alla religione universale dei popoli primitivi adoratori di feticci.

Nelle società militariste, le religioni furono al servizio delle dominanti élite militari. Invece, in quelle mercantili hanno avuto in genere rapporti tutt’altro che idilliaci con l’élite del denaro; esse sono state da questa sostanzialmente tollerate e lasciate al loro ruolo, prezioso per ispirare rassegnazione nei governati e ubbidienza a un potere secolare scarsamente compatto, insidiato dalla sua inerente apertura al nuovo e che aveva ben altro a cui pensare che disputare con i chierici. In nessuno di questi casi il potere di comando è caduto nelle mani dei religiosi, se non per aspetti del tutto marginali.

Ma, in alcuni casi particolari, estremamente importanti per le dimensioni delle aree geografiche e delle masse umane coinvolte, e talvolta per la loro capacità di irradiazione, gli uomini hanno potuto nutrire l’impressione e percepire la soddisfazione di sfuggire allo sgradevole potere di comando dei loro simili e di élite dominatrici rifugiandosi sotto le ali della legge divina.

Ubbidire ai comandamenti di Dio è cosa assai simile all’ubbidienza ai comandamenti della società primitiva, tutti gli abitanti sono egualmente soggetti a tali comandamenti e non emerge, almeno sul piano formale e nel modo di sentire, una élite di comandanti sovrapposta alla massa dei comandati. Le leggi divine sono eterne ed immutabili, non sono

33 Cfr. E. Durkheim, «Definizione dei fenomeni religiosi», in E. Durkheim e M. Mauss, Sociologia e antropologia, opera citata, pagg. 38 2 32

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l’opera di una classe di legislatori che codifica le forme e i diritti di dominio dei dominatori sui dominati. Anche se i codificatori della teocrazia sono pur sempre degli uomini, essi operano in nome di Dio, quali profeti devoti, disinteressati e ispirati dall’alto.

Un’altra somiglianza degli ordinamenti teocratici con le società primitive è che tali ordinamenti sono, per loro natura, chiusi. Quale che sia la rottura inizialmente operata dai messaggi religiosi, questi tendono in prosieguo di tempo ad ingessare la società, per il semplice motivo che le verità divine vengono proclamate come eterne ed immutabili. Dovunque le religioni sono riuscite ad impossessarsi della società e ad appropriarsi del diritto di forgiarne le istituzioni, hanno prima o poi soffocato le inclinazioni evolutive. Un incurabile immobilismo si è impadronito delle società cadute in soggezione della teocrazia. Il dominio dei ministri di Dio non è meno oppressivo del dominio di autorità secolari. Può essere subito senza astio e addirittura con devozione, ma proprio per questo è assai difficile da rovesciare. Esso imprigiona le società cadute in sua soggezione "in carceri a prova di evasione in quanto affidate alla vigilanza del più vigile dei secondini: la sanzione religiosa".

Due grandi ordinamenti teocratici hanno forgiato i destini di almeno un terzo del genere umano e tuttora restano saldi in sella, nonostante l’immenso potere radioattivo e di contagio della moderna società dinamica: l’ordinamento indiano delle caste e il mondo musulmano.

La nascita della teocrazia indiana fu inizialmente propiziata dalla grande importanza dell’elemento religioso, in specie delle funzioni rituali, nella vita degli invasori Arya dell’India. Nei Veda (i libri sacri di questo popolo) è menzionata la distinzione della società in quattro caste, con al vertice quella sacerdotale dei brahmani, che sovrastava in potere, in ascendente e privilegi la stessa classe politica. Ogni re o principe indiano doveva sottostare ai consigli di un brahmano, il cosiddetto purohita, cioè che in onore sopravanza il re. Questa classe sacerdotale, manipolando con grande acume e abilità forme di religiosità presenti in terra indiana, seppe avvolgere la vita di quei popoli nella fitta rete delle ineludibili prescrizioni di una teocrazia totale. Alla base della costruzione teocratica indiana è la dottrina religiosa della eterna reincarnazione degli esseri viventi in forme determinate da meriti e demeriti nella vita precedente e tanto più elevati per quanto più devota è stata l’accettazione delle prescrizioni di fede, in particolare, della condizione in cui si è nati, cioè del luogo in cui si è stati posti per espiare le colpe commesse nelle vite precedenti. Questa dottrina ha costituito il supporto invincibile dell’immobilismo totale inflitto al sub continente indiano dalle dottrine e dagli insegnamenti astuti dei brahamani. Dalla casta di appartenenza non si esce in vita; costituisce il più grave dei peccati sforzarsi di uscirne e mescolarsi con caste diverse da quella in cui si è nati. Ancora alla fine degli anni '60 Gunnar Myrdal, scrivendo sulla povertà di undici paesi asiatici, lamentava che «la rigida struttura di casta mancava della adattabilità necessaria per un positivo accomodamento ai cambiamenti»34. Non ci sono limiti al dolore, ai lutti, rovine e miseria che la società imperniata sull’ordinamento delle caste può accogliere e sopportare senza scomporsi. L’India ospitò con devota rassegnazione l’oppressione e i taglieggiamenti inflittile dai dispotici imperi Maurya e Moghul, superò imperturbabile le immense devastazioni arrecate dalla invasione islamica, insomma, digerì le peggiori tirannie senza neppure chiedersi di porvi riparo, ed è rimasta sommersa da una miseria infinita e che sembra inestirpabile.

Anche la teocrazia islamica è scaturita da una società quasi primitiva, quella dei nomadi arabi, in un mondo reso incline a recepire i messaggi religiosi sia dalla abitudine del medio oriente al fervore dei messaggi profetici sia, come si è accennato, dalla presenza di organizzazioni religiose, quali quella degli hums che esercitava un importante ruolo

34 Cfr. G. Myrdal, Il dramma dell’Asia, Il Saggiatore, Milano 1973, vol 2°, pag. 153.

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nella società meccana. Ma in questo caso la costruzione teocratica ha assunto contenuti e avuto implicazioni profondamente diversi da quella indiana.

Il misterioso soffio dell’al di là ha sempre toccato gli uomini nelle forme più diverse, spingendoli a variegate costruzioni; i sentieri del cielo sono i più vari. Nel caso islamico, la legge divina trasmessa da Dio agli uomini in forma definitiva attraverso il ‘sigillo’ dei profeti non ha saputo irreggimentare la società in un inossidabile ordinamento ripetitivo. Al contrario, ha generato una endemica labilità istituzionale. La saggezza e lungimiranza del Profeta potevano ben soddisfare i bisogni istituzionali del suo tempo e di età immediatamente successive, ma non quello delle società via via più complesse che si sarebbero affermate cammin facendo. Né potevano colmare quei bisogni gli approfondimenti di madrase e sapienti, circoscritti nel perimetro dell’insegnamento coranico e della Sonna. L’assenza di una classe sacerdotale e di una chiesa, in grado di approntare ferrei strumenti di dominio, ha accentuato tale labilità istituzionale. Quest’ultima e il conseguente timore dell’anarchia (fitna) e del vuoto di potere, considerati come il maggiore dei mali, hanno favorito l’avvento in dar al islam delle peggiori tirannie: i regni di schiavi soldati dell’Egitto, i famelici sultanati dell’India e i regni semi tribali afgani e dell’Asia centrale, flagello per le popolazioni circostanti, sono solo fra i più noti. Nell’Africa magrebina e in quella subsahariana, sette e ordini religiosi furono autori di devastanti sistemi di dominio. All’interno dei giovani regni sorti lungo l’ansa del Niger, furono artefici di lotte furibonde (ancora al tempo di Caillé).

L’unica forma di stato ben strutturato sorto nel mondo islamico fu l’impero ottomano; ma fu anche un duro sistema di dominio, che dovette la sua solidità alla antica eredità bizantina corroborata da tradizioni delle steppe centro asiatiche, da cui scaturì una forma di potere del tutto eterodossa rispetto alla tradizione musulmana. Infatti. la teocrazia islamica, dovunque è riuscita ad impiantarsi, ha seminato labilità istituzionale ed amministrativa, immobilismo e, a dispetto del grande respiro universalistico proprio dell’insegnamento coranico, frammentazione politica, intervallati non di rado da duri sistemi di potere e oppressione.

La teocrazia costituisce la peggiore delle forme di governo e crea i sistemi di dominio più coriacei in quanto imposti alla credulità umana da sedicenti interpreti o portavoci della volontà divina; per giunta, conduce a conflitti insanabili e crudeli oltre ogni dire. I suoi esiti disastrosi possono essere interpretati come un segno del cielo volto ad ammonire gli uomini, ad indurli a diffidare di profeti e chierici troppo invadenti, a non consentire che, attraverso i sistemi di governo, le acque dell’al di là si mescolino e confondano con quelle dell’al di qua.

La costruzione istituzionale ha da essere, a somiglianza del patrimonio tecnologico, opera dell’uomo, della sua scienza, ed attivare un continuo processo evolutivo che, con le sue conquiste, può fornire aiuto nella stessa ricerca di Dio. La storia umana insegna concordemente che tale ricerca segue una varietà di strade e richiede, per poter procedere proficuamente, tolleranza, invece che l’assolutismo degli atti di fede. Le grandi divergenze che distinguono la predicazione dei vari e sedicenti depositari della volontà di Dio, causa di spaventose lotte fratricide e sofferenze, sembrano dimostrare che il Creatore non ha voluto che gli uomini possedessero la Verità. Ha voluto che conquistassero frammenti di verità grado a grado, a prezzo di una intensa applicazione e attraverso il sommarsi dei contributi infinitesimi alla conoscenza di tanti suoi figli. Credo costituisca un orrendo peccato ostacolare tale ricerca.

La teocrazia rappresenta la più ipocrita, e perciò la più coriacea forma di oppressione degli uomini e forse il più grave peccato contro natura. Dante Alighieri, disgustato e sdegnato dalle immoralità associatesi al potere temporale della chiesa romana, esclamò:

Ahi Costantin, di quanto mal fu matreNon la tua conversion ma quella dote

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Che da te prese il primo ricco patre.Chissà quali versi sdegnatissimi sarebbero usciti dalla sua penna se avesse saputo

che quella donazione era un falso inventato dalla curia romana. Tuttavia, se Dante avesse potuto guardare le cose con l’esperienza di noi moderni, avrebbe certamente rimproverato a Costantino una colpa assai maggiore: quella di aver fatto del cristianesimo una chiesa di stato, da cui scaturì il cesaropapismo che avrebbe gettato nell’immobilismo le regioni balcaniche e allungato il suo sinistro e luttuoso legato in terra di Russia attraverso l’autocrazia zarista, ben più criminale di quella bizantina erede della saggezza di Roma, sfociando infine nell’oppressione comunista. Di fronte a tali esiti, forse Dante non avrebbe esitato a convenire che il potere temporale dei papi, malgrado il disgustoso mescolamento di sfera spirituale e temporale e la corruzione di cui fu protagonista, era servito per lo meno a presidiare la autonomia della Chiesa d’Occidente dall’invadenza dello Stato e quindi, mirabile eterogenesi rispetto ai fini perseguiti, a far trionfare, pur fra tante lotte e anatemi tesi a proclamare la supremazia della chiesa sull’impero, l’insegnamento di Cristo concernente la distinzione fra spirituale e temporale. Soprattutto, un Dante spettatore del mondo contemporaneo avrebbe lanciato invettive sdegnatissime contro la mala pianta della teocrazia e forse avrebbe apprestato, nei recessi più profondi del suo paesaggio infernale, un apposito girone destinato ad ospitare i brahamani.

CAPITOLO IV

Forme di potere gradatamente più evolute

1. Il potere nelle società mercantili dell’antico Mediterraneo e nella repubblica di Roma

Veniamo ora a una linea evolutiva delle forme di potere ricca di promesse e messaggera di grandi avanzamenti del processo sociale, che ha condotto il mondo dove siamo giunti. Si tratta delle società che, con termine generale, possiamo definire mercantili in quanto sviluppatesi intorno al ruolo del mercato, che ne ha plasmato i meccanismi istituzionali, i caratteri e le sorgenti del potere, le forme di civiltà.

Queste società mostrano una rottura nei confronti del mondo primitivo ben più netta di quella espressa dai monumentali ordinamenti amministrativi dei grandi imperi

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centralizzati. Nel loro ambito prese presto piede una totale apertura al mondo esterno, dietro l’iniziativa dei mercanti e i loro traffici di sempre più vasto raggio.

Assistiamo qui all’esatto contrario rispetto alle società primitive e di tutti gli altri sistemi di potere già analizzati, che furono società chiuse, in cui lo sforzo economico era proporzionato alla soddisfazione dei bisogni vitali, o veniva prolungato in ragione della estrazione di beni indispensabili al lussuoso sostentamento delle classi dominanti e a fornire i mezzi necessari al mantenimento del dominio di queste.

Le società mercantili furono società aperte eminentemente dedite a produrre; nel loro ambito, l’attività economica rappresentava lo strumento di base per conseguir successo e l’individuo era considerato il vero artefice dei suoi destini. L’attivismo individuale, in particolare la ricerca incessante di nuove opportunità e nuove avventure, vi stimolava la fantasia, la curiosità e l’apertura intellettuale, fino a rendere queste spinte evolutive dei veri e propri torrenti in piena. La logica delle relazioni di mercato vi implicava forme di potere di impronta individualistica.

In questi sistemi sociali, i rapporti di comando emergono in maniera più diretta e spesso più esasperata, ma anche più volubile e dispersa, rispetto ai sistemi centralizzati. Tali rapporti di potere vi sono subiti o tollerati dai sottoposti, ma non venerati, e appaiono armati di un cinismo e di una spregiudicatezza senza riscontri nelle altre società. Ma, proprio per questo, costituiscono forze evolutive assai attive e feconde, invece che fattori di immobilismo, pronte come sono a rinnegare qualsiasi preesistenza, fede o tradizione in nome del successo personale. Mentre altrove è la tradizione a segnar la strada e a dettar legge attraverso coriacee forme di potere ammantate di sacralità, qui l’istinto dell’uomo esploratore alla ricerca di nuove e più promettenti strade genera incessantemente nuove forme di potere. Il potere del mercante è in balia di successi e rovesci, spinge lungo sentieri avventurosi, ad inerpicarsi lungo salite impervie e insidiose.

Gioverà rammentare che queste società basate sull’interesse individuale non hanno nulla in comune con le società primitive dominate da valori individualistici; in particolare, non sottostanno alla cura ossessiva posta da queste ultime nel reprimere l’avvento di poteri di comando e il germogliare di novità. Al contrario, stimolano il proliferare di poteri individuali di comando e disposizione e le attività esplorative in quanto strumento di base per il rafforzamento, attraverso la risultante ricchezza materiale, delle dominanti forme di potere. Queste tipologie organizzative sono comparse piuttosto di rado nella storia universale e vi hanno recitato inizialmente ruoli assai modesti. Le grandi civiltà antiche sono state edificate da ordinamenti centralizzati, non dall’opera di questi irregolari.

La nascita di società mercantili ha richiesto la presenza di condizioni geografiche adatte a favorire la frammentazione e le attività di scambio. Il bacino del Mediterraneo fornì condizioni ideali per una grande espansione di queste formazioni sociali e la nascita di civiltà assai feconde, che fecero di questo mare l’ombelico del mondo. L’orografia tormentata di questa regione stimolava la nascita di sistemi localistici di autonomia e ne facilitava la difesa da aggressioni esterne; la scarsità di terra e, in generale, di risorse naturali, e la difficoltà di comunicazioni terrestri e di controllo di vasti ambiti territoriali scoraggiavano l’avvento di poderosi sistemi di governo e di sfruttamento imperniati sui servizi di una burocrazia funzionariale docile e numerosa. L’individuo, obbligato a risolvere in prima persona e privatamente i quotidiani problemi di sussistenza, costituiva il principale agente di quelle società; la presenza di un vasto mare interno facilitava gli spostamenti, le esplorazioni e i contatti fra i numerosi insediamenti che punteggiavano il perimetro costiero.

I lunghi viaggi alla ricerca di mercati di scambio e di possibilità di insediamenti, e i conseguenti contatti con nuovi modi di vita e nuove problematiche, con differenti civiltà e forme organizzative, stimolarono lo spirito critico e l’abitudine al cambiamento in quelle ardite popolazioni di esploratori. Il mercato e la libera contrattazione, con le regole

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relazionali e le forme istituzionali ad essi connesse, costituiranno sempre la basilare impalcatura di queste società. Esse, pur caratterizzate da una pluralità di forme di civiltà, saranno tutte società aperte, anche quelle professanti l’esclusivismo più esasperato nei confronti dello straniero, non meno di quanto le società primitive furono, pur nella pluralità delle loro forme di civiltà, tutte improntate da una rigida chiusura. Particolarismi e conflitti interni assai esasperati hanno angustiato queste società mercantili, al punto da farle apparire come un mondo fragile, caotico, intento a procurarsi pene e tormenti, un mondo apparentemente senza prospettive.

I mercanti fenici e greci furono i grandi protagonisti della vivacizzazione del mondo mediterraneo e punteggiarono le coste di questo mare di numerosi insediamenti coloniali: i fenici, dediti alle attività di scambio e alla scoperta e sfruttamento di risorse, costruirono un grande impero commerciale; nel caso dei greci, insieme agli interessi commerciali agì una straordinaria curiosità intellettuale alimentata dalla fantasia e dallo spirito critico di questo popolo e dalle sue molteplici esperienze. Le attività esplorative dei greci, spaziando su orizzonti assai più vasti dei meri interessi commerciali, determinarono, attraverso ardite speculazioni intellettuali, grandi e profonde conquiste del pensiero nei campi più svariati del sapere, e quindi sviluppi culturali di grande spessore.

La vivacità e le capacità espansive manifestate dalle comunità particolaristiche prosperate nel bacino del Mediterraneo furono tuttavia afflitte dalla vacuità e dalla inerente contraddittorietà delle forme di potere che contraddistinsero quei popoli. Il potere economico e gli automatismi incarnati dalle relazioni di mercato non avevano ancora raggiunto proporzioni e attuato elaborazioni istituzionali che conferissero loro la capacità di garantire un saldo e coeso tessuto relazionale in quelle comunità lacerate da acute contrapposizioni. Per giunta, il potere politico restò lontano dall’esprimere capacità di mediazione e strutturazione idonee ad imbrigliare le inclinazioni particolaristiche, esclusivistiche e auto disgreganti tipiche di quelle formazioni sociali. Fu così che il grande impero mediterraneo cartaginese finì vittima dei miopi interessi dell’aristocrazia commerciale, che deteneva anche il potere politico, e delle acute forme di sfruttamento praticate nei possedimenti coloniali. Da parte sua, il mondo greco, afflitto dai limiti del sistema di democrazia diretta e antiprofessionale, causa di frantumazione e solo idoneo a governare su territori ristretti, e da un sentimento di libertà senza freni (eulatheria), che acuiva frantumazioni e contrapposizioni, perì travolto dalle guerre intestine e dalle rivalità fratricide fra le polis e, non ultimo, dai risentimenti contro il disinvolto sistema di sfruttamento che Atene praticava ai danni dei suoi alleati della Lega di Delo. Dopo queste parentesi, la centralità del subsistema economico, con le sue straordinarie capacità dinamizzanti, tornerà a riproporsi assai più in là nel tempo, e cioè nell’ambiente ben più ricco di capacità di elaborazione istituzionale rappresentato dalle città stato dell’Italia medievale.

In entrambi i casi citati, risultò fatale la "carenza di potere politico". In effetti, talmente forte era l’ostilità dei greci e della loro civiltà verso l’organizzazione statale che, allorquando, sulla scia degli eserciti macedoni, essi giunsero a realizzare un dominio universale, che li costrinse ad apprestare un potere politico idoneo a governare vasti ambiti territoriali, non riuscirono a fare di meglio che affidarsi al dominio di sovrani dispotici e dei loro funzionari dotati di poteri arbitrari e incontrollati. Questi riproposero su più vasta scala una voracità non inferiore e conflitti ancor più aspri e sanguinosi rispetto a quelli che avevano afflitto la Grecia di Pericle. Il concetto di libertà senza limiti tipico delle poleis si trasferì in capo al despota ellenistico. Del dinamismo delle antiche società mercantili quasi non restò traccia, se non per aspetti instillati dalla perdurante vivacità della civiltà greca e dalle potenzialità di un’arte e una scienza che, pur stipendiate dai sovrani tolemaici, prosperarono nel fertile terreno arato dai pensatori della Grecia classica.

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Di fronte a questo fallimento della civiltà greca nel campo del potere e degli ordinamenti politico-amministrativi, brillò l’iniziativa di Roma. Spesso è accaduto nella storia che, dove non arriva la sapienza delle grandi civiltà, irretite in precisi schemi di pensiero, soccorre il genio di nuovi arrivati miseri e cenciosi. Fu così che, meraviglia delle meraviglie, il senso pratico dei rozzi abitanti di una piccola città stato italica, crocevia fra il mondo greco ed etrusco, riuscì dove erano fallite le gloriose civiltà vicine. L’oculata forma di potere politico elaborata dai romani a servizio della loro città-stato rimediò alla carenza di potere politico-amministrativo rivelatasi fatale alle società mercantili dei fenici e dei greci ricche di aperture, senza tuttavia cadere nel brutale e sfrenato dispotismo del mondo ellenistico. Questa scoperta dei romani concernente il potere politico avrebbe fornito la chiave per l’unificazione del turbolento mondo mediterraneo. Vediamo meglio.

Roma edificò un potere statale fondato su leggi scritte e una costituzione equilibrata . La grande conquista che decretò l’assoluta superiorità dello stato romano rispetto agli ordinamenti politici delle società del tempo fu l’invenzione del diritto e della giurisprudenza, basati sul concetto di impersonalità e inesorabilità della legge. La libertas dei romani intese liberare i cittadini dall’arbitrio e dal disordine attraverso la disciplina imposta da leggi inflessibili, sovrastanti tutto e tutti. Inoltre, e caso quasi unico nel mondo antico, la legislazione di Roma fu fin dall’inizio immune dai condizionamenti religiosi, che sono causa di inclinazioni teocratiche e immobilistiche. Il metodo della giurisprudenza conferì flessibilità e sorprendenti capacità evolutive e adattative all’ordinamento romano, che incarnò un potere politico solido ma non oppressivo, totalmente aperto nei confronti delle novità (anche religiose) incontrate sulla sua strada, e disponibile ad associare nuove comunità in condizioni di sostanziale parità. Tutto ciò conferì alla repubblica di Roma grandi capacità di comando, espansione e assimilazione, e la condusse, soprattutto per iniziativa della sua ambiziosa e lungimirante aristocrazia senatoria, ad unificare il mondo mediterraneo e, infine, a sedarne gli endemici conflitti e particolarismi. Non hanno eguali le capacità dimostrate da Roma nell’elaborare forme di potere politico aperte, salde ed equilibrate, che sottoposero i popoli assoggettati ad una amministrazione assai più benevola dei preesistenti ordinamenti caratterizzati dall’arbitrarietà del potere sovrano.

Ma la conquista, in tempi brevi, di un vasto impero non poteva mancare di far emergere l’insufficienza di un sistema di potere che, per quanto saggio ed oculato, era nato al servizio di una città-stato. Le tensioni e gli squilibri determinati dal tumultuoso processo di trasformazione innescato dalle conquiste sfuggirono al controllo dell’ordinamento vigente, sboccando in laceranti guerre civili. La "carenza di potere politico" che aveva angustiato il mondo mediterraneo tornava a riproporsi nell’impero romano. Occorreva innestare, sulle basi della grande tradizione ed elaborazione giuridico-amministrativa apprestata da Roma, una forma di potere politico idoneo alla amministrazione di un grande impero. Emerge a questo punto l’altro grande miracolo politico-istituzionale dei romani.

La storia umana insegna concordemente che l’amministrazione e la sopravvivenza dei grandi imperi universali dell’antichità ha sempre richiesto l’edificazione di ordinamenti a carattere autocratico e burocratico-centralizzato, di cui si è detto nel capitolo precedente sulle società chiuse. Solo Roma ha compiuto il miracolo di governare e tenere unito per oltre due secoli un grande impero attraverso un ordinamento politico-amministrativo unico nel suo genere, una sorta di "ordinamento costituzionale" che aveva tutti gli attributi delle forme di potere politico di cui ha bisogno una società aperta in fase di avanzata evoluzione. Questa mirabile e astuta costruzione degli antichi romani fu rappresentata dall’ordinamento politico del Principato, che merita particolare attenzione.

2. Uno straordinario intermezzo: il potere nell’impero romano del Principato

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La repubblica di Roma aveva, in qualche misura, ereditato le inclinazioni conflittuali e disgreganti tipiche delle comunità particolaristiche del Mediterraneo. Il concetto romano di libertà, pur rispettoso della sovranità della legge e ben ancorato sul senso del dovere, non impedì l’affermarsi del potere abusivo di fazioni e il verificarsi di feroci guerre civili. La soluzione della crisi fu rappresentata da una forma di governo senza precedenti nella storia e che, dopo la sua crisi, non è più rinata e neppure è stata più presa in seria considerazione in esperimenti successivi: una monarchia costituzionale sui generis, in cui l’elevato e crescente potere del monarca, conquistato da Ottaviano Augusto attraverso l’eccezionale successo arriso alla sua azione di ristrutturazione dell’apparato statale, si celava dietro l’appellativo di princeps (primo dei senatori e primo cittadino di una comunità libera) e dietro la pretesa nominale, ma tuttavia condizionante, di conservare intatte nell’impero pacificato le istituzioni repubblicane e la sovranità della legge. Augusto visse nel terrore di venire assassinato da cittadini romani fieri della tradizione repubblicana. Per impedire tale eventualità, egli si sforzò di sottolineare in tutti i modi la continuità del suo regime con la tradizione, con il precedente ordinamento dello stato e una pretesa restaurazione della libertà repubblicana; egli nascose accuratamente i grandi poteri di cui disponeva. Una serie di oculate riforme riportò la pace sociale e restaurò i meccanismi funzionali dello stato romano, adeguandone le capacità amministrative alle esigenze del grande impero. Venne in essere un delicato ordine istituzionale che intese (e riuscì a) sposare il potere crescente del principe, necessario alla amministrazione efficiente e pacifica dell’impero, e la proclamata salvaguardia della libertà repubblicana. Una libertò che, per quanto declamatoria, imponeva tuttavia al «monarca» le virtù che Seneca raccomandava a Nerone: morigeratezza, temperanza, magnanimità e clemenza nella gestione del potere. Insomma, l’accresciuto potere del principe e la preservazione delle libertà vennero fra loro magistralmente combinati all’insegna della benevolenza e della magnanimità dei sovrani. Ciò avvenne in gran parte grazie all’efficienza, alla dedizione e al buon senso dei funzionari pubblici, prescelti sulla base di un rigoroso cursus honorum.

Fu una geniale intuizione di Augusto stemperare lo spinoso concetto di sovranità attraverso la più flessibile e generica nozione di auctoritas, ben appropriata ad esprimere il ruolo protettivo del potere sovrano. Gli studiosi hanno molto discusso sulla voluta ambiguità del concetto augusteo di sovranità. Esso subì evoluzioni e conobbe precisazioni nel corso del tempo, a partire da Vespasiano, nel senso di un chiarimento e ampliamento progressivi del ruolo dell’imperatore. Ma i contenuti della sovranità non vennero mai precisati in modo rigoroso e con la pignoleria che vedremo contraddistinguere, ad esempio, le teorie della sovranità dello stato nazionale, quasi ossessivamente preoccupate di puntualizzare l’autorità del potere sovrano. Questa voluta vacuità esprime una sorprendente modernità della nozione di sovranità che, come vedremo, nel mondo attuale è afflitta da incoerenze ed edulcorazioni. Ritorneremo, nella parte dedicata alla "idea di potere", sul peculiare concetto di sovranità affermatosi nel Principato e sul suo evolvere nel corso del tempo, fino a confluire, quasi senza scosse sotto il profilo della teoria del diritto, nell’ordinamento dispotico del Dominato. Qui dobbiamo sottolineare un aspetto che costituisce la maggiore caratteristica del Principato in quanto ordinamento istituzionale straordinariamente idoneo a governare una società aperta: precisamente, dobbiamo sottolineare il fatto che dal concetto di auctoritas e, più in particolare, dall’ampliarsi delle capacità legislative dell’imperatore che quel concetto consente, scaturì l’organizzazione municipale, che costituisce la caratteristica più moderna e peculiare dell’impero romano del Principato. Tale caratteristica ripropose, in un contesto integrato a scala mediterranea e pacificato, il fecondo sistema di autonomie e autogoverno che abbiamo visto affermarsi in questa area fin dall’antichità. Un sistema che confluì malgrado tutto e pur con sostanziali appannamenti, finanche nello stesso stato dispotico imperiale

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nato dalle riforme di Diocleziano e Costantino, costituendone una delle maggiori contraddizioni interne.

La visione ecumenica degli imperatori trasse, dai crescenti poteri legislativi che riuscirono a conquistare grazie al volutamente ambiguo concetto romano di sovranità, l’opportunità di precisare la distinzione fra populus e civitas, e così sedare l’esclusivismo da città stato proprio dell’ordinamento repubblicano. Con il riconoscimento, da parte di Adriano, alle comunità municipali del diritto di governarsi "secondo i loro costumi e con leggi proprie" (suis moribus legibusque uti possunt), si assiste al perfezionamento del sistema di autonomie cittadine, nel contesto di un ordine imperiale fermamente unito e pacificato sotto l’autorità dell’imperatore. Fu un ordinamento istituzionale aperto, leggero ed efficiente, che sposava in modo esemplare la sovranità e inflessibilità della legge con le libertà individuali e l’iniziativa personale, e con le multiformi realtà locali, il policentrismo e pluralismo pullulanti nel bacino del Mediterraneo. Pochi funzionari centrali e la dislocazione nelle province più turbolente di un numero ridotto di manipoli militari assicuravano la coesione e l’armonico funzionamento del grande impero. La società aperta, che per lunghi anni aveva cercato di aprirsi tumultuosamente la strada nelle vivaci comunità particolaristiche del Mediterraneo, era riuscita a procacciarsi un mirabile quadro istituzionale, come non si sarebbe potuto far di meglio. Sfortunatamente, questa grande apertura dell’ordinamento istituzionale, irrobustita sia dalla tipica disponibilità dei romani a recepire e assimilare le novità incontrate dai loro eserciti nel corso delle conquiste, sia dal carattere inerentemente laico della forma di potere (quindi potere non irrigidito da vere e proprie forme di sacralità), fu svirilizzata dal carattere chiuso della civiltà greco-romana, improntata dalla dottrina dell’eterno ritorno e ostile allo sviluppo economico, e sfociò nelle armonie e nel manierismo dell’età degli Antonini. Insomma, la mirabile apertura e la grande efficienza del vigente ordinamento istituzionale finirono soffocate dalla sostanziale chiusura delle forme di pensiero, della concezione del mondo, e dalla stazionarietà dell’economia. Ha scritto K. Polanyi: «Il periodo greco-romano, nonostante il suo commercio fortemente sviluppato… era caratterizzato dalla redistribuzione del grano su vastissima scala praticata dalla amministrazione romana nell’ambito di un’economia per altri versi domestica, e questo non rappresentava un’eccezione alla regola per cui fino alla fine del medioevo i mercati non svolgevano una parte importante nel sistema economico; altre strutture istituzionali prevalevano»35.

Questo centauro costituito dal connubio fra un ordinamento istituzionale aperto e leggero e una civiltà stazionaria era alquanto innaturale. La stazionarietà e la sostanziale chiusura imposte al mondo dell’età imperiale dalla egemonia della civiltà greco-romana, non potevano convivere con un ordinamento politico da società aperta. Sappiamo che la sopravvivenza dei grandi imperi del mondo quasi-stazionario ha sempre richiesto un ordinamento istituzionale da società chiusa, e precisamente l’ordinamento autocratico e/o burocratico-centralizzato. Verso questo approdo si diresse l’impero romano, non appena fu chiaro che le istituzioni del Principato, ben adatte a propiziare i mutamenti di una società evolutiva, non erano idonee a governare una società pressoché immobile, bisognosa di (e congeniale con) strutture amministrative rigide e pervasive. Un grandioso, ma forse prematuro, esperimento giungeva a termine, il mondo tornava a chiudersi in se stesso e molti secoli sarebbero occorsi per scoprire i meccanismi della società aperta.

Lo spazio che abbiamo qui dedicato alla vicenda del Principato è stato suggerito dalla opportunità di far chiarezza sul suo ordinamento politico-istituzionale congeniale con la società aperta e, ancor più, dal fatto che ancora oggi nulla del genere è stato riedificato in una forma altrettanto compiuta. La lunga strada percorsa dalla società aperta fino ai nostri giorni appare tuttora ostacolata prevalentemente da questa grande insufficienza e strozzatura: la sua inadeguatezza ai bisogni delle forme di potere politico e amministrativo

35 Cgr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, pag. 72

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in essa vigenti. La vicenda dell’impero romano del Principato offre il seguente prezioso insegnamento: un ordinamento politico-istituzionale aperto allo sviluppo, per poter sopravvivere e prosperare, ha bisogno di una civiltà aperta. La vicenda del mondo contemporaneo insegna, all’opposto, che una civiltà aperta, per poter esprimere le sue potenzialità e non andar soggetta a pericolose inclinazioni disintegrative, ha bisogno di un ordinamento istituzionale da società aperta. Questi due insegnamenti vanno tenuti costantemente presenti e vanno combinati, nella ricerca di soluzioni alle maggiori carenze direttive e organizzative che travagliano la presente epoca delle moderne società dinamche.

3. Il potere nelle società mercantili dell’Occidente

Vediamo ora come le forme di potere si sono andate enucleando in Occidente dopo la regressione feudale. All’inizio del nuovo millennio, una grande svolta prese avvio nel povero e frammentato mondo occidentale. Dal cuore lacerato ed esitante del feudalesimo iniziò ad enuclearsi una nuova ed aggressiva società, principalmente dietro la sollecitazione di interessi e inclinazioni mercantili. L’indebolimento, per frammentazione, della potenza araba, il venir meno della pirateria scandinava e la sconfitta degli ungari favorirono la ripresa dei traffici marittimi, l’incremento demografico e, di conseguenza, le correnti di scambio continentali. Al tempo stesso, l’eccesso di popolazione rispetto alle modeste potenzialità dell’economia curtense generò una massa di sradicati "senza terra" pronti a cogliere le nuove opportunità. I cadetti delle famiglie feudali fremevano per dar prova del loro valore e conquistare posizioni di rango. L’Europa pullulava di avventurieri in cerca di fortuna o, più modestamente, di possibilità di vita. Alla vigilia della crociata questi irregolari erano diventati un torrente in piena. Le attività mercantili offrivano, attraverso il commercio d’oltremare e i traffici interni, possibilità di grandi guadagni, specie in occasione delle frequenti carestie e attraverso la fame crescente di beni esotici da parte della nobiltà. Queste occasioni di guadagno stimolavano la fantasia, le brame e l’aggressività di arditi avventurieri e dei "diseredati". Iniziò un’epoca di ardimentose vicende. Le imprese di conquista, che poterono giovarsi del valore e dell’avidità dei cavalieri cadetti, furono prevalentemente orientate dagli interessi commerciali.

La ripresa del commercio diede impulso allo sviluppo dell’artigianato. L’addensarsi delle nuove attività e l’incrociarsi delle vie di traffico stimolò la rinascita delle città, divenute rifugio di chi intendeva sottrarsi alle costrizioni feudali gravanti sui servi della gleba. I comuni medievali furono lesti ad apprestare nuove elaborazioni istituzionali in sintonia con la nuova realtà: organismi politici di autogoverno, espressione della "sovranità popolare"; norme giuridiche, funzioni giudiziarie e procedure arbitrali agili e snelle, atte a soddisfare le esigenze di prontezza ed efficienza tipiche del commercio; libertà di iniziativa e dei traffici.

Il mondo feudale, povero e frammentato, dapprima assistette impotente a questa evoluzione; ma presto i signori feudali, attratti dai nuovi generi di consumo, iniziarono ad aprirsi alla nuova realtà, cercando di trarne opportunità di guadagno indispensabili al miglioramento dei livelli di vita. I nuovi centri urbani, popolati da artigiani e commercianti, sedi delle estese e composite attività dei mercanti imprenditori, conobbero una capacità propulsiva senza precedenti sia nel mondo mediterraneo antico e meno antico, sia, e a maggior ragione, nelle città prebendarie del resto del mondo. La creatività del mondo degli affari ed i nuovi orizzonti che essa andava dischiudendo stimolarono la creatività del mondo intellettuale. La concezione dinamico-evolutiva del mondo, propria del cristianesimo, agevolò l’azione delle emergenti forze dinamiche. Al tempo stesso, la memoria storica di Roma e l’ideologia organicistica della Chiesa permisero di attenuare la

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carenza di potere politico che aveva afflitto il mondo greco classico e, insieme al dominante spirito universalistico del medioevo, stemperarono gli ardori antagonistici, esclusivistici e destrutturanti che agitavano la nuova società mercantile.

Dal mondo sostanzialmente chiuso e stazionario del feudalesimo si era enucleata una società tipicamente aperta e progressiva; la centralità dell’attivismo economico aveva inseminato meccanismi e inclinazioni dinamiche come mai era accaduto in epoche e in società precedenti e che nessuna avversità sarebbe stata più in grado di cancellare. Già nel secolo XIII operavano grandi società commerciali e finanziarie, con filiali sparse nelle più lontane regioni del mondo allora conosciuto.

Le lotte fra chiesa e impero per la supremazia fornirono preziosi spazi di manovra a questo sistema di autonomie municipali sospinto da prorompente vitalità e ne consentirono il consolidamento. L’eredità policentrica, pluralistica e individualistica delle antiche comunità mediterranee era tornata a rivivere, ma ad un più elevato livello di forza propulsiva. Questa società di viaggiatori e irregolari avrebbe inflitto alla rete immobilistica della tradizione fendenti raramente registrati in formazioni sociali precedenti.

A lungo le capacità autoregolatrici del mercato e la forza propulsiva di questo sono stati sottovalutati dagli uomini e, fino a tempi recentissimi, sono stati oggetto di acceso e disgustato vituperio. Bisogna però riconoscere che sono state queste disorganiche società mercantili che hanno condotto l’uomo a cantare, a torto o a ragione, le magnifiche sorti e progressive del mondo. Dovunque il mercato è riuscito a mettere lo zampino, ha innescato, nel bene o nel male, il cambiamento.

È tuttavia errato vedere nel mercato il liberatore dell’uomo dal malanno del dominio. Il mercato, di per sé, non ha questa virtù; al contrario, esaspera lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, affila le armi, il becco e gli artigli dello sfruttamento. In ciò hanno ragione i molti che vi hanno visto un meccanismo straordinariamente idoneo ad avvelenare i rapporti fra gli uomini, ad esasperare la conflittualità.

Il grande merito del mercato e della libertà di commercio sta nella loro capacità di stimolare la divisione del lavoro e di liberare l’uomo dall’immobilismo, nel porre sotto tensione l’inventività umana e nel pizzicarne le corde e, più ancora, nello stimolare l’applicazione dei ritrovati tecnici che siano fonte di lucro, insomma nella attitudine ad apprestare le condizioni per lo sviluppo autopropulsivo. È però errato ritenere che il mercato liberi dai rapporti di dominio o tenda, di per sé, ad attenuare questi ultimi; al contrario, promuove forme di oppressione dell’uomo sull’uomo fra le più invadenti, insidiose, e odiose. Quel che è peggio, tende ad auto delegittimarsi. L’uomo può accettare la peggiore oppressione che gli venga propinata come cosa sacra e inviolabile, ma stenta ad accettare rapporti di potere-dominio continuamente mutevoli, assisi su una base volubile e incerta quale è quella costituita dalle relazioni di mercato.

Il grande merito di queste società decentralizzate intente a trafficare non è di aver inventato forme di potere più tollerabili ma di aver ravvivato il ruolo dell’individuo. Hanno portato quest’ultimo al centro del sistema sociale e ne hanno valorizzato le infinite e cruciali potenzialità per la promozione del nuovo e dello sviluppo. Un mondo mutevole è obbligato, a causa della limitatezza delle capacità cognitive umane, a procedere per tentativi ed errori. Orbene, bisogna convenire che il mercato è lo strumento più idoneo a guidare, disciplinare e regolamentare il determinarsi di un ordine spontaneo in società percorse da movimenti evolutivi di tipo non meccanicistico (in quanto emananti da creatività). Di più. Il mercato costituisce il principale crivello dei tentativi ed errori, che consente la selezione dei pochi successi arrisi, fra i tanti tentativi andati a vuoto.

In principio e per lunghi anni le società di mercato si sono presentate come una realtà modesta, spesso quasi miserevole, al cospetto dei monumentali ordinamenti e civiltà apprestati dai grandi imperi centralizzati. Ma da quando l’economia giunse a guadagnare sempre più il centro e gli interessi di queste società particolaristiche, individualistiche ed

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egoistiche, le capacità propulsive delle relazioni (e delle civiltà) di mercato hanno preso ad espandersi a vista d’occhio. L’accumulazione della ricchezza ad opera dei mercanti ha trascinato quelle società verso una continua espansione ed ha conferito loro una crescente capacità di frantumare grandi, venerabili ed elaborate civiltà, fino ad asservirle ai suoi ritmi ed al potere capitalistico.

4. Il potere nel capitalismo

Il periodo di assestamento rappresentato dalla crisi tardo medioevale fu seguito dalla ripresa e intensificazione del processo di mutamento, stimolato con forza crescente dal progressivo dilatarsi del sistema economico con il correlativo ampliamento delle dimensioni aziendali, del giro d’affari e delle reti dei traffici, dei fabbisogni di capitale, dei mercati di acquisto e vendita e, più in là, delle grandi scoperte geografiche. Tutto ciò rese le forme di potere politico e amministrativo di respiro municipale formatesi in epoca medievale insufficienti a governare il processo economico ed a soddisfarne le accresciute esigenze. Come ha scritto J. L. Romero: «l’allargamento degli orizzonti economici e il conseguente incremento dei profitti corporativi comportava rischi e problemi che non potevano essere affrontati senza la collaborazione del potere politico»36.

L’impero medioevale non fu all’altezza della situazione; non seppe scorgere la sua grande occasione nella necessità incombente sui comuni di una sovranità di più alto livello, in grado di sedare i conflitti particolaristici e di fornire un orizzonte di maggior respiro e adeguata protezione normativa alle crescenti dimensioni delle attività di produzione e scambio. L’edificazione di una forma istituzionale simile a quella dell’impero romano del Principato, cioè flessibile e aperta al mutamento, che riconoscesse il ruolo delle autonomie municipali e munita di una edulcorata ma ferma sovranità esercitata dall’imperatore, avrebbe rappresentato l’ordinamento politico più adeguato ai bisogni. Diversamente dai tempi dell’impero romano, questa volta la vigente forma di civiltà, a carattere aperto e dinamico, era congeniale a tale ordinamento; in particolare, la centralità dell’economia forniva la spinta evolutiva di cui l’accennato ordinamento ha bisogno per porre a frutto i suoi pregi in termini di flessibilità e capacità adattativa. Ma questa grande opportunità restò sconosciuta agli imperatori medioevali, forse soprattutto a causa della tendenza a identificare l’ordinamento dell’impero romano con quello dispotico e centralistico realizzato dal basso impero e dalla sua proiezione bizantina, tendenza che indusse ad ignorare la peculiarità del Principato augusteo. L’impero medievale uscì annientato dal lungo scontro per la supremazia con la Chiesa romana soprattutto perché quest’ultima seppe assai più accortamente strumentalizzare le istanze autonomistiche dei comuni, stoltamente ignorate dagli imperatori che avrebbero dovuto esserne i naturali interpreti.

Dopo di che, fu compito dei nascenti stati nazionali apprestare, attraverso un processo di elaborazione assai difficile e travagliato, le forme di potere politico adeguate alle esigenze in atto. Lo stato nazionale, bisognoso di una economia fiorente per poter finanziare politiche di potenza e coprire i costi gravosi della organizzazione diplomatica e militare e delle attività belliche, sollecitò e protesse vigorosamente lo sviluppo capitalistico: sia agevolando in vari modi le industrie nascenti e le attività economiche ritenute di interesse strategico; sia difendendo militarmente gli interessi degli esportatori e l’accesso ai mercati di rifornimento di materie prime; sia stimolando la ricerca scientifica e tecnologica, facilitando il reperimento di manodopera qualificata e agevolando lo sfruttamento di quella generica. L’unificazione del mercato interno, attraverso l’abbattimento dei privilegi corporativi e altri particolarismi ereditati dal medioevo e

36 Cfr. J. L. Romero, La città e le idee, Guida Editori, Napoli, 1989, pag. 29

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attraverso il miglioramento della rete stradale costituirono il maggiore contributo del potere politico allo sviluppo economico. Ha scritto K. Polanyi: «L’azione deliberata dello stato nei secoli quindicesimo e sedicesimo impose il sistema mercantile alle città e ai principati ancora ferocemente protezionisti… aprendo quindi la strada ad un mercato nazionale che ignorava sempre di più la distinzione tra città e campagna così come quella tra le varie città e province»37. In questa fase iniziale di formazione dell’economia capitalistica, fu il potere politico ad aprire la strada al potere economico. Solo più in là quest’ultimo sarebbe stato, di tanto in tanto e sempre più spesso, in grado di rovesciare le parti, cioè di imporre al potere politico la tutela dei suoi interessi e di dettare le modalità di tale tutela.

Le potenzialità delle società mercantili sono esplose dacché esse, attraverso un lungo e travagliato processo di estensione e approfondimento, sono approdate al cosiddetto modo di produzione capitalistico. È stato a questo punto che la società aperta è giunta pienamente ad inverarsi, imponendo al mondo ritmi di mutamento crescenti e irrefrenabili.

Ampia e variegata è la disputa sulle origini del capitalismo. Alcuni studiosi le fanno risalire alle prime società mercantili del Mediterraneo; altri le collocano nel periodo della grande ripresa dei traffici successiva all’epoca feudale, oppure le fanno coincidere con le grandi trasformazioni innescate in Europa dalle scoperte geografiche. Ma il capitalismo è qualcosa di assai più specifico della varietà di società mercantili che il mondo ha conosciuto e che, al più, possono essere viste come generatrici di basilari prerequisiti del capitalismo. Quest’ultimo costituisce una particolare forma di civiltà e un sistema relazionale e di potere che si inserisce nella grande linea evolutiva inaugurata dalle società mercantili e probabilmente ne rappresenta l’apice.

Il capitalismo nasce allorché i ritmi e le forme di accumulazione del capitale conquistano il palcoscenico della società e sottomettono i meccanismi di potere di questa alle loro esigenze; conquista la scena allorché l’innovazione tecnologica diventa strumento decisivo di competizione e la sorgente principale del profitto, quindi la maggiore cura dell’azione imprenditoriale, prendendo così ad alimentare ritmi accumulativi e innovativi crescenti.

Il capitalismo differisce marcatamente, in quanto sistema di dominio, dal mondo mercantile, in cui il potere dell’affarista è qualcosa di epidermico e quasi contingente, che va e viene con i risultati d’impresa. Invece il potere capitalista prende le vesti di un sistematico, avvolgente e poderoso sistema di sfruttamento e oppressione, che pone al suo servizio tutti gli altri segmenti della società, ad iniziare da quello politico.

La caratteristica più peculiare del sistema di potere capitalista è che esso ha moltiplicato gli antagonismi di classe e centuplicato nelle masse la percezione del dominio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nelle società primitive, il dominio emanava in una forma quasi impersonale dall’aggregato sociale e si diffondeva in modo pressoché naturale su tutti i membri della tribù. Altrove era addolcito e tenuto nascosto dai dettami religiosi, dall’attaccamento alla venerata e rassicurante tradizione e dall’immobilità, nel corso dei secoli, dei rapporti sociali, in un mondo sempre uguale a sé stesso. Nella società bizantina, la possibilità di conquistare il trono imperiale e sedervisi quale vicario di Cristo, aperta anche a personaggi provenienti da posizioni sociali infime, accendeva di ardimento la fantasia di avventurieri senza scrupoli, al punto da suscitare una vera e propria «malattia della porpora». I sudditi accettavano con devozione ogni forma di usurpazione del trono coronata da successo, in quanto considerata espressione della volontà di Dio.

Il modo di produzione capitalistico ha riversato nel mondo schiere assai più numerose e fameliche di personaggi in cerca di fortuna: affaristi, avventurieri, capitani di industria, geniali innovatori e lungimiranti imprenditori. Ma le immense ed improvvise fortune arrise all’attivismo dei più sagaci e fortunati di essi, come pure i più modesti

37 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, opera citata, pagg. 84 e 85

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guadagni dei minori uomini d’affari, e l’aggressività forcaiola imposta dalla competizione, hanno propagato con una chiarezza solare nei sottoposti il senso del dominio e dello sfruttamento. Tanto più in quanto le capacità destrutturanti e distruttive a danno dei precedenti assetti sociali tipiche di questo modo di produzione hanno causato, nel corso della sua ascesa, infiniti disagi e malessere. Marx ed Engels esprimono con grande lucidità tutto ciò allorché scrivono: «Dove è giunta al potere, la borghesia ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato "pagamento in contanti". Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni. In conclusione, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche ha messo uno sfruttamento aperto, privo di scrupoli, diretto, arido…» E più in là: «Vengono meno tutti i rapporti solidi e irrigiditi col loro seguito di opinioni e concetti rispettati per tradizione, mentre i nuovi invecchiano ancor prima di essersi potuti impiantare. Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce, ogni cosa sacra viene profanata e gli uomini si trovano costretti infine ad osservare senza più illusioni la loro condizione di vita, i loro reciproci rapporti»38.

Ma l’aspetto più impressionante del modo di produzione capitalistico concerne le grandi e crescenti concentrazioni di ricchezza, e quindi di potere, che accompagnano (e di cui è artefice) il suo meccanismo di sviluppo e accumulazione. Il mondo conobbe le prime rumorose avvisaglie di questo fenomeno nell’età del cosiddetto capitalismo monopolistico, sfociato nell’ "imperialismo". Vedremo che il pensiero teorico e il dibattito politico hanno sostenuto tesi più e meno plausibili sul suddetto fenomeno e sui suoi riflessi. Una molteplicità di argomenti, di tipo celebrativo e detrattivo, possono essere riferiti a quei riflessi. Ma su un punto le valutazioni non possono non essere concordemente improntate a grande preoccupazione: le oscure implicazioni delle forme di potere capitalistico, specie nel mondo odierno della globalizzazione.

La moderna società dinamica ha ricevuto in legato dalla sua anima capitalista la necessità impellente di stabilire con il problema del potere un serrato confronto, al fine di spogliarlo dai suoi usuali attributi di dominio e sfruttuamento. Tale legato è rimasto del tutto ineseguito. Per maggior disgrazia, esso tende oggi ad essere disconosciuto, dopo che il marxismo, pur avendo enunciato il problema con grande lucidità e acutezza, ha fallito clamorosamente nel tentativo di risolverlo ed anzi ne ha aggravato i termini dovunque ha conquistato la supremazia politica. La causa principale di tale fallimento risiede innanzitutto nel carattere mutilato e fuorviante del metodo marxista di interpretazione della storia, nell’omissione di una approfondita ricerca sui problemi del dominio e dello sfruttamento, nell’essersi concentrati quasi esclusivamente sul modo come questi sono emersi dagli squilli di tromba capitalisti e sugli immediati dintorni. È accaduto così il fatto curioso e sorprendente che le rivoluzioni socialiste, lungi dal liberare l’uomo dallo sfruttamento, lo hanno ricondotto a forme di dominio e sfruttamento ben più antiche e soffocanti, del tipo di quelle incarnate dalle società chiuse dei grandi imperi centralizzati della antichità.

5. A proposito del militarismo

38 Cfr. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Newton Compton Italiana, Roma 1974, pagg. 151-153

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Il militarismo non esprime una particolare fase di sviluppo, né una determinata forma di civiltà. Lo si incontra, nel corso della storia, negli stadi di sviluppo e nelle forme di civiltà più diversi. Pertanto, le sue caratteristiche variano con le forme di civiltà in cui si è impiantato e con cui è convissuto. Abbiamo così: un militarismo spartano, un militarismo gengiskanide, forme di militarismo in diversi periodi di vita della repubblica di Roma, un militarismo capitalista che ha caratterizzato i momenti di più virulento imperialismo di questo modo di produzione, e numerosi altri ancora. L’unico aspetto che accomuna i vari tipi di militarismo è costituito dal prevalere dell’apparato bellico e delle gerarchie militari nell’ambito del relativo sistema sociale, in una posizione di grande influenza o addirittura in una posizione direttiva.

G. Ferrero ha tentato di fare del fenomeno del militarismo un criterio interpretativo di carattere generale della storia universale; ma significativamente è incorso in numerose ambiguità. Egli argomenta che la cupidigia, passione umana fra le più intense e universali, genera le guerre e queste ultime producono una oligarchia di dominatori; infatti, la guerra è il mezzo più adatto ad arricchire i pochi audaci attraverso razzie e predazioni, e a soddisfare la loro cupidigia. Il nostro autore scrive: «L’anima della guerra è la cupidigia dei beni altrui. Tutti i grandi imperi militari, dall’assiro al napoleonico, sono nati dallo sforzo di piccole oligarchie, che volevano possedere e consumare oltre le proprie capacità di produrre»39. Ma chiaramente ce ne vuole per appaiare l’impero napoleonico a quello assiro.

Ferrero sottolinea che la corruzione, l’abbrutimento, la sottomissione, l’orgoglio, i consumi voluttuari e il parassitismo caratterizzano il militarismo; e che il mantenimento del lusso costringe a sempre nuove imprese militari; ma quei vizi provocherebbero l’avvilimento e, prima o poi, la rovina delle società militariste. Al contrario, le società contemporanee, dedite ad attività produttive, non hanno bisogno dei bottini di guerra per accumular ricchezza. Tuttavia, essendo anche esse mosse dalla cupidigia, dal desiderio di far quattrini, producono malamente; stimolano il consumismo anche fra i miseri popoli sottosviluppati, e spesso incarnano altri modi di rapinare.

L’estensiva definizione di militarismo adottata da Ferrero include l’impero romano, degenerato nell’asservimento del Dominato, l’impero turco, governato da odalische ed eunuchi, l’impero napoleonico, che sostituì al militarismo di Luigi XIV basato sulla nobiltà, uno basato sulla borghesia. Ma, per poco che si rifletta, appare evidente che l’impero romano, dal Principato al Dominato, come pure l’impero turco, non furono governati da classi militari, se non in periodi anomali e di grave crisi. Questi presunti militarismi non furono, in genere, animati dalla cupidigia e basati sulla rapina. Solo in circoscritti periodi storici è dato osservare, all’interno di varie formazioni sociali, una prevalenza dei ceti militari e delle attività belliche. Le grandi civiltà non furono animate da spirito militarista, che in genere rappresenta una patologia. Anche i ceti militari barbarici che invasero e si spartirono l’impero romano cercarono strenuamente una legittimazione e l’edificazione di un apparato istituzionale non militaristi; perfino il militarismo gengiskanide si stemperò nel corso della costruzione del grande impero, specie in terra cinese e iraniana. L’analisi di Ferrero sull’impero romano, basata sul militarismo, fornisce un’interpretazione del tutto fuorviante dei caratteri e del significato di tale impero.

Il militarismo, come pure il fenomeno bellico, hanno riguardato tutte le età e moltissime società, in periodi diversi. Tale concetto può essere utile ad analizzare aspetti della vita di singole società e particolari vicende storiche, ma giammai può essere inteso come una forma di civiltà, e raramente appare quale tratto dominante di particolari formazioni sociali. È per questa ragione che, nonostante il militarismo incarni il potere più virulento di tutti, quello delle armi, non lo abbiamo incluso fra i modi di evoluzione dei

39 Cfr. G. Ferrero, Militarismo, Fratelli Treves, Milano 1898, pag. 411.

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sistemi di potere. Esprime piuttosto una patologia del potere, configurazioni particolari e trasversali di questo, presenti qua e là, che poco si prestano ad una distinta classificazione.

6. Conclusione della prima parte

In questo breve excursus sulle principali forme di potere comparse nella storia abbiamo visto che l’evoluzione di esse successiva alle società primitive è caratterizzata dall’inarrestabile avvento di poteri di comando sempre meno larvati. Abbiamo visto, inoltre, che questi poteri di comando si sono andati coagulando in una varietà di tipologie, contraddistinte da una comune caratteristica: l’affermarsi di sistemi di dominio e sfruttamento di ristrette élite su grandi masse umane. Varia, nei singoli casi, la dimensione e concentrazione delle élite di comando, la loro mobilità e capacità di rinnovarsi, il grado di apertura del sistema sociale al nuovo e allo sviluppo. Ma, in tutte le tipologia analizzate, feudalesimo e prime monarchie post-tribali, centralismo dispotico-burocratico, teocrazie, nomadismo, società mercantili e capitalistiche, il fenomeno del dominio-oppressione domina la scena.

Le forme di dominio (e di esercizio dell’oppressione) si servono di una varietà di strumenti: la forza della spada nelle società nomadiche e quella del denaro nelle società mercantili; il carisma del supremo ed indiscusso despota e dei suoi funzionari nei grandi imperi, il verbo di Dio nelle società teocratiche, il privilegio ereditario nei regimi feudali. Non è facile dire in quali di questi sistemi la massa dei servi è stata meno infelice, forse in quelli in cui la forza della tradizione conferiva ai dominati maggiore rassegnazione e dove i mezzi di stretta sussistenza erano meno soggetti a subire decurtazioni. Il grado di felicità è uno stato psicologico e l’appagamento dell’uomo può essere particolarmente elevato proprio nelle società stazionarie che riescono meglio ad instillare nei dominati il senso della rassegnazione e l’assoggettamento ai dominanti. In quanto tale, il grado di felicità non può costituire un indicatore della bontà dei sistemi sociali presi in considerazione. Se si parte dalla constatazione che l’uomo è essenzialmente un essere evolutivo e, per tal motivo, non è fatto per essere felice, deve convenirsi che il metro di giudizio sui vari sistemi di dominio venuti in essere deve riguardare il loro grado di inclinazione a soffocare lo sviluppo, ad apprestar dei vicoli ciechi o, viceversa, la loro capacità di aprire la strada verso nuove opportunità e, infine, verso la liberazione dalle catene dell’asservimento. L’uomo può auspicare tutto, tranne che di dover vivere in servitù e che venga impedito, più o meno surrettiziamente, l’esercizio delle sue capacità intellettive e quindi evolutive. Questo significa che il punto decisivo nella comparazione fra i sistemi sociali esistiti è data dalla esistenza o, al contrario, dal soffocamento, nel loro ambito, dei germi del mutamento, visto che l’operatività di questi ultimi giungerà necessariamente ad implicare, nel lungo andare, possibilità di liberazione dei molti dal giogo dei pochi.

Tutti i regimi sociali storicamente succedutisi sono stati sistemi regolati da dure forme di dominio. In nessun caso vediamo all’opera meccanismi di controllo del potere che lo emendino da abusi, arbitrii e soprusi. Abbiamo visto che i sistemi teocratici, basati sul verbo di Dio, e quelli autocratici, sono stati protagonisti delle forme di dominio più longeve, cupe e soffocanti comparse nella storia. Invece, il dominio feudale sembra incarnare, attraverso il pluralismo dei centri di potere che gli è tipico, elementi di moderazione dell’abuso; ma anche il feudalesimo fu il dominio di una ristretta aristocrazia su una massa di servi. Né più tranquillizzanti sono apparse le capacità di moderare abusi e soprusi espresse dalle pluralistiche società mercantili, che anzi hanno apprestato forme assai acute di dominio e sfruttamento. Ancora peggiore si è rivelato il dominio capitalista. Appare dunque tutta da esplorare la via per liberare l’uomo dal male antico e apparentemente incurabile dei rapporti di dominio.

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PARTE SECONDA

Principali concezioni e teorie del potere dall’antichità agli inizi dell’età moderna; loro incontestata accettazione del fenomeno del

dominio

Premessa

Questa seconda parte amplierà il discorso sulle forme di potere avviato nel capitolo IV. Si soffermerà dapprima sui caratteri delle concezioni e forme di potere di lungo corso e larga diffusione geografica affermatesi nell’India vedica e delle caste e proseguirà poi ad analizzare le inizialmente estremistiche e poi accorte visioni e forme di potere che hanno governato la Cina dall’antichità fino all’inizio dell’era moderna. Passeremo quindi ad

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esplorare gli insegnamenti sul potere della filosofia greca e greco-romana. Ripercorreremo la vicenda esemplare dello svolgersi delle forme di potere nell’impero romano, dall’età repubblicana al sistema di potere che caratterizzò l’impero romano dei primi tre secoli dell’era volgare; per considerare, infine, il perché e per come della degenerazione nell’ordinamento dispotico del tardo impero di tale illustre sistema istituzionale aperto all’inverarsi del potere-servizio. Seguiremo poi l’evolvere delle concezioni e pratiche del potere nel mondo monoteista, fino al punto di svolta segnato dalla civiltà tardo medievale, e ci intratterremo sulle maggiori teorizzazioni sul potere maturate in quel movimentato periodo della storia umana. Infine, ci intratterremo sul successivo evolvere degli approfondimenti teorici sul fenomeno del potere, in parallelo con la, e alimentati dalla, progressiva apertura del mondo occidentale verso la dinamizzazione dei processi sociali ed economici.

CAPITOLO V

Teorie e forme del potere nel mondo antico

1. Concezioni del potere in alcune principali società orientali

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Gli studi sul potere appaiono sempre largamente improntati dalla configurazione che questo fenomeno ha assunto nel corso della storia. Più precisamente, essi sono sempre stati espressione e tentativi di razionalizzazione delle forme di dominio vigenti o in cammino e prossime a inverarsi; sicché configurano forme di dominio anche nei casi in cui sono tutti dediti ad esaltare le libertà umane. Vedremo che mai le teorizzazioni sul potere si sono impegnate a cercare il modo di sradicare dalla vita degli uomini la mala pianta del potere-dominio. Vedremo poi che nell’epoca a noi contemporanea il potere-servizio, alternativo al potere-dominio, è divenuto una necessità e un imperativo funzionale.

a) India vedica e post-vedica

Il sub continente indiano ha visto fiorire le teorie del potere di impronta più schiettamente teocratica comparse nella storia e l’applicazione delle stesse. Ha rappresentato una assai sfortunata eredità per le popolazioni indiane l’aver mutuato la concezione e la forma di potere che ne ha retto le sorti dalle acute e astute elaborazioni dei brahmani, che fondarono un sistema di dominio totale e quanto mai oppressivo, penetrante, longevo e soffocante, sostenuto da una agghiacciante coerenza e da un terribile sistema di sanzioni. In questo caso emergono più che mai i guai provocati dall’assoggettamento della attività dei governi alla mano del cielo; guai tanto maggiori quanto più dettagliati, invadenti e precisi sono apparse le verità rivelate, i dettami e le prescrizioni religiosi con cui viene irretita la vita degli uomini, fino a farne mandrie umane guidate al pascolo da occhiuti e fanatici guardiani.

In India, la teoria e la pratica del potere sono scaturite direttamente dall’insegnamento vedico, una raccolta di testi sacri prodotta dalla riflessione di varie scuole rituali. Nell’insegnamento vedico colpisce l’esaltazione del dominio. Il mondo sociale vi viene descritto, sulla scorta del mondo naturale, come una società di dominatori e dominati, di forti che sopraffanno i deboli, di «mangiatori e mangiati». La violenza che è nell’ordine naturale delle cose viene accettata in tutta la sua crudezza ed esaltata senza reticenze. Emerge qui con chiarezza esemplare quanto grande sia stato il ruolo dell’ordine di natura nell’instillare nell’uomo il sentimento del dominio e della sopraffazione. La principale distinzione sociale è vista, ad imitazione del mondo animale e vegetale, come quella fra divoratori e cibo, e le gerarchie umane sono, a somiglianza di quelle animali, dedotte dalla catena alimentare: le classi inferiori sono al servizio delle superiori.

Ma questa distinzione non è, a differenza del mondo animale, una quasi meccanica espressione del bisogno di nutrimento. Trasferita nell’ordinamento della società, essa viene posta a fondamento della distinzione fra sfruttatori e sfruttati, e ne viene tratta la legittimazione delle classi più elevate a vivere del lavoro di quelle meno elevate. Di più. L’atto del mangiare è, in questo suo riferimento all’organizzazione sociale, inteso ed esaltato come sconfitta e soggiogamento del rivale. Il fenomeno del dominio fa così ingresso duramente e senza reticenze nei gangli della società, per ispirazione e sollecitazione della spietata lotta per l’esistenza, ed inizia a forgiarne valori e comportamenti di base, dopo aver penetrato la psiche umana nel corso di tale lotta diuturna per l’esistenza. In un siffatto contesto, gli sforzi di culture fini e profonde non sarebbero più riusciti ad estirpare la mala pianta del dominio; e mai vi riusciranno fino a quando l’uomo non avrà appreso i mezzi e modi di governarsi altrimenti, e (come vedremo) non avrà superato quella moderna e particolare ricaduta nella soggezione al naturalismo dovuta alla imitazione, da parte degli studiosi sociali, del metodo delle scienze naturali.

La reazione verificatasi nel mondo indù, a partire dal VI secolo a. C., contro la concezione vedica del potere e della violenza mutuati dall’ordine naturale culminò nel vegetarianismo, estrema espressione della cultura della non violenza; ma tuttavia senza

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riuscire a cancellare le forme di dominio propiziate dall’insegnamento vedico. Si limitò a venire a patti con queste. In particolare, non scalfì il sistema di dominio di casta configurato da tale insegnamento. Al contrario, quest’ultimo venne perfezionato dall’acume sacerdotale, che ne fece il più saldo ed estremo dei domini che il mondo ha conosciuto.

Incontriamo in questa vicenda uno degli esempi più impressionanti dell’abilità e del vigore con cui le forme di dominio riescono ad assoggettare e a possedere, magari attraverso l’aiuto di teorizzazioni rigorose e suggestive, anche realtà estremamente ostili ad abusi e violenze: fino a fare della non violenza, trasformata in devota accettazione e rassegnazione, un’arma dell’abuso. Con grande abilità, la dottrina brahmanica della salvezza si affrettò a sostituire, alla centralità del sacrificio (su cui i sacerdoti avevano precedentemente basata la loro supremazia), quella dell’obbedienza ai doveri di casta (svadharma). La Baghavad Gita, scritta presumibilmente intorno al II secolo a.C., costituisce forse la migliore espressione di tale accorto trasformismo brahamanico, lesto nell’appropriarsi della dottrina della non violenza e nel trasformarla nel miglior presidio del dominio di casta. Vi si legge: «Io (cioè Krsna) ho emanato le quattro caste, in relazione alla distinzione e all’agire degli elementi fondamentali»40. Subito dopo, troviamo esposta la dottrina della rinuncia (ancella della assuefazione), nei termini seguenti: «L’uomo disciplinato, una volta abbandonato il frutto del suo agire, consegue la pace estrema, ma chi non è disciplinato, attaccato al frutto (delle proprie azioni), è vincolato da un agire determinato dal desiderio… Il Brahman-Nirvana prosegue ad elogiare gli asceti che hanno conosciuto l’essenza individuale, che si sono liberati del desiderio e dell’ira, e che hanno dominato la loro attività mentale»41.

La relazione predazione-preda, tipica del mondo animale, continua ad influenzare la concezione della società indiana anche nel periodo post vedico della non violenza. Infatti, nel Mahabarata (il grande poema epico di cui è parte la Bhagavad Gita) si legge: «Non scorgo alcun essere che viva nel mondo senza violenza. Le creature esistono a spese le une delle altre; i più forti mangiano i più deboli. La mangusta mangia i topi, così come il gatto mangia la mangusta; il cane divora il gatto, o re, e le bestie selvagge mangiano il cane. L’uomo mangia tutti –vedi il dharma per quello che è! Tutto ciò che si muove e che è immobile è cibo per la vita»42. E nelle Upanisad che, a partire dal VI secolo a. C. presero a sviluppare una intensa azione contro gli elementi di violenza presenti nell’insegnamento vedico, troviamo scritto: «Quanto esiste nel mondo è invero mangiatore e mangiato»43.

Anche nelle Leggi di Manu, che codificano il compromesso brahamanico con i nuovi sentimenti profondamente avversi alla violenza, e costituiscono forse l’espressione più significativa del passaggio dal mondo vedico a quello indù, troviamo scritto: «Quelli che non si muovono sono il cibo per quelli che si muovono, e quelli che non hanno zanne sono il cibo di quelli con le zanne; quelli che non hanno mani sono il cibo di quelli che hanno mani; e i codardi sono il cibo dei coraggiosi»44. Ma queste reminiscenze della dottrina vedica della violenza e della sopraffazione, mutuata dal mondo della natura, costituiscono aspetti secondari del formidabile sistema di dominio concepito dalla sottile logica dei brahamani e ben espresso da quell’intreccio di prescrizioni precise e dettagliate costituito dalle «Leggi di Manu». Queste abbracciano tutti gli aspetti della vita: relazioni di casta e fra uomini e donne, riti ed espiazioni, matrimonio e vita coniugale, divisione dell’eredità, tassazione e attività di governo, nozione di re giusto e precise disposizioni per risolvere dispute, rapporti fra uomini ed animali, problemi ultramondani. Per meglio

40 Cfr. Bhagavad Gita, Mondadori, Milano 1999, pag. 2341 Cfr. Bhagavad Gita, pagg. 28 e 3042 Cfr. Mahabarata, traduzione di D. Schulman, The king and the Clown in South Asian Myth and Poetry , Princeton 1985, pag. 2943 Cfr. Upanisad, Brhadaranyaka, Chandogya, Mondatori, Milano 1998, pag. 1244 Cfr. Le Leggi di Manu, (a cura di W. Doniger), Adelphi, Milano 1996, pag. 37

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dominare la vita del credente, le Leggi di Manu si esprimono con una sconcertante precisione anche su particolari minuti, fino alla prescrizione che «un uomo non deve prendere in moglie una ragazza con i capelli rossi (e che) un uomo di trenta anni deve sposare una ragazza di dodici…un uomo di ventiquattro anni una ragazza di otto»45.

Nel precedente ordinamento, imperniato sul trionfo della nuda forza, i sacerdoti, autori e custodi del disegno organizzativo della società espresso nel Veda, si erano garantiti una posizione di supremazia rispetto ai sovrani (che è indispensabile all’esistenza di un ordine teocratico) attraverso il ruolo centrale espletato nella società aria dai sacrifici, che erano specializzazione della casta dei brahmani. Nel nuovo clima, i sacerdoti consolidarono tale supremazia, nonostante il declino delle pratiche sacrificali, in quanto riuscirono a presentarsi come campioni della non violenza e di purezza, trasformando lo stesso rito sacrificale, da assoluta forma di violenza, in una forma estrema di non violenza, espiazione delle violenze della vita reale. Guadagnarono così una netta posizione di superiorità morale rispetto ai sovrani, moralmente incompleti e dediti (o costretti) ad esercitare la violenza del potere. L’identificazione della rivelazione con la tradizione fece di questi custodi della tradizione degli agenti di rivelazione perpetua e la bocca del creatore.

Il fitto reticolo di divieti, meticolose e minute prescrizioni su forme rituali e metodi di purificazione costituito dalle Leggi di Manu fornì ai sacerdoti, autori di esse, lo strumento pratico con cui si procacciarono il monopolio del potere: non solo il potere spirituale ma anche quello inerente alla gestione del sistema in quanto regolato da quella miriade di prescrizioni religiose e dai dettami dei bramani custodi della tradizione, depositari e interpreti della rivelazione. Dice Manu: «il sacerdote è il signore di tutta questa creazione, perché nacque dalla parte più alta del corpo, perché è il più anziano e perché conserva il Veda»46. Così la teocrazia indù forgiò armi idonee a resistere a qualsiasi insidia autocratica.

Una delle caratteristiche più eminenti di questa forma di dominio teocratico è l’assoggettamento totale della donna, concepita come un oggetto e una terra di proprietà dello sposo. Manu prescrive che: «Una ragazza, una giovane donna o anche una donna anziana non deve far nulla in modo indipendente, neppure a casa propria. Nell’infanzia una donna deve stare sotto il controllo del padre, nella giovinezza sotto il controllo del marito e, quando il marito è morto, sotto il controllo dei figli. Essa non deve godere dell’indipendenza… Quando il padre, oppure il fratello con il consenso del padre, la dà in moglie a qualcuno, finché quell’uomo è in vita essa gli deve obbedire, e quando è morto non deve violare il voto che la lega a lui… Una moglie virtuosa deve servire costantemente il marito come fosse un dio, anche se questi si comporta male, si abbandona alla concupiscenza ed è privo di qualsiasi buona qualità. Separate dai mariti le donne non possono sacrificare né iniziare un voto o un digiuno; è perché una donna obbedisce al marito che in cielo è magnificata… Una donna infedele al marito è oggetto di biasimo in questo mondo; poi essa rinasce nel ventre di uno sciacallo ed è tormentata dalle malattie nate dalla sua malvagità»47. E più oltre: «Gli uomini devono rendere le loro donne dipendenti giorno e notte… Tradizionalmente si dice che la donna è il campo, e l’uomo il seme… Proprio come non è il maschio riproduttore a possedere la progenie nata dalle vacche, dalle giumente, dalle cammelle e dalle schiave, dalle bufale, dalle capre e dalle pecore (ma il proprietario di esse), così è anche per la progenie nata dalle mogli altrui. Gli uomini che non hanno il campo ma hanno il seme e lo seminano nei campi altrui, in nessun caso ottengono il frutto del raccolto che ne nasce»48.

45 Cfr. Le leggi di Manu, opera citata, pagg. 129 e 29346 Cfr. Le leggi di Manu, opera citata, pag. 9847 Cfr, Le leggi di Manu, opera citata, pagg 200 e 20148 Cfr, Le leggi di Manu, opera citata, pagg. 282, 286 e 287

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Il sovrano non è un dominatore; è bensì un dispensatore di giustizia, deputato a proteggere i suoi sudditi, a sconfiggere i nemici del regno ed estendere i confini di questo; soprattutto, ha il compito di imporre il rispetto della legge e dell’ordine. «egli è colui che infligge le pene e punisce… Se il re non infliggesse instancabilmente punizioni a coloro che devono essere puniti, i più forti arrostirebbero i più deboli come pesci allo spiedo… Il mondo intero è dominato dalla punizione, poiché un uomo incontaminato è difficile da trovarsi…L’universo intero trema al cospetto di un re la cui verga è sempre alzata; con quella stessa verga egli deve pertanto soggiogare gli esseri viventi… Ma il re deve consigliarsi sulle questioni più importanti della sestuplice politica con un sacerdote sagace… Il fatto di non rifuggire la battaglia, la difesa dei sudditi e l’obbedienza ai sacerdoti sono la fonte ultima di ciò che è meglio per il re. … Anche se sta morendo di fame, un re non deve prelevare tasse da un sacerdote che conosce il Veda a memoria»49. Recita un mito indiano: «Quando il sovrano nacque, gli dei ebbero paura. Mentre era ancora dentro il grembo lo legarono con una corda. Pertanto il sovrano nasce legato. Se il sovrano nascesse slegato, ucciderebbe continuamente i suoi nemici. (Ma un sacerdote) può slegarlo offrendo per lui le offerte bollite dedicate a Indra e Berhaspati… Per mezzo del potere del brahman egli così lo libera dalla corda che lo lega»50.

Così, resta alla casta sacerdotale l’autorità di ultima istanza e una sostanziale supremazia anche rispetto ai depositari dell’uso della forza. Ma è nella costruzione, affinamento e giustificazione del sistema delle caste che la teocrazia indiana (e la furbizia brahmanica) rifulgono in tutto il loro implacabile rigore. Manu dice: «Ma allo scopo di proteggere tutta la creazione, il luminoso creò attività innate divise per quelli nati dalla sua bocca, dalle sue braccia, dalle sue cosce e dai suoi piedi»51. Non si tratta di una divisione di compiti basata sulle doti di natura, ma della legittimazione delle quattro classi eterne, dei sacerdoti, dei sovrani, degli uomini comuni e dei servi, come viene esplicitamente detto nei versetti successivi, e conclude: «Il Signore assegnò al servo una sola attività: servire queste altre classi senza risentimento»52. Il piatto avvelenato del dominio di casta è così servito. Le prescrizioni successive sono principalmente dedite a consolidarlo e perfezionarlo.

La dottrina del karma, secondo cui l’accettazione della posizione (e quindi del dominio) di casta, in quanto espiazione delle colpe commesse in vite precedenti, è condizione per rinascere in una posizione migliore nelle vite future, ha garantito l’assoluta pietrificazione dell’ordine sociale. Nessuna forma di dominio ha saputo escogitare nel corso della storia una sua difesa altrettanto solida e con altrettanta scaltrezza ha saputo possedere la vita degli uomini e i loro sentimenti più profondi. Ma i brahmani non si accontentarono di questo. Escogitarono punizioni tremende e orribili, già in questo mondo, per coloro che avessero violato le prescrizioni di casta, e perciò attentato all’«ordine divino» in cui si era avuto cura di imprigionare l’uomo. Ed è qui che rifulge tutta la brutalità di questa forma di dominio, forse venuta al mondo per fungere da ammonimento agli uomini contro i pericoli senza pari insiti nelle mistificazioni teocratiche; forse un avvertimento del Creatore agli esseri umani, per porli in guardia contro pretese assurde di suoi sedicenti “servi ed interpreti”.

La mescolanza di classe, maggior nemico dell’ordine delle “classi eterne” e che darebbe origine al disordine della «epoca buia», viene repressa con spietata energia. In particolare, Manu, ben consapevole che il maggior pericolo di violazione delle divisioni di casta può venire dall’impulso sessuale, ha cura di precisare: «Ma essi (gli esclusi) generano anche un gran numero di figli esclusi e disprezzati, ancor più contaminati di

49 Cfr. Le leggi di Manu, opera citata, pagg. 216, 224, 220, 223, 22750 Cfr. Taittiriya Samhita 8 voll. Anandãsrama Sanskrit Series, XLII, Anandãsrama, Poona II 4, 13, 1 51 Cfr. Le Leggi di Manu, opera citata, pag. 9852 Cfr. Ibidem, pag 98

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quanto lo siano loro stessi, nelle mogli l’un dell’altro. E come un servo genera in una donna della classe sacerdotale una creatura esclusa, così un uomo escluso genera in una donna delle quattro classi un figlio ancora più escluso. Uomini esclusi e carenti, che vanno “contropelo” (cioè si accoppiano con donne di casta superiore) producono classi ancora più escluse e carenti, in tutto quindici»53. Tremenda maledizione è questa esclusione a cascata dei figli dei trasgressori, gettati nell’immondezzaio degli intoccabili. Di fronte a tale terribile destino propinato, già su questa terra, ai figli della trasgressione, quale potenziale madre oserà varcare il Rubicone dei confini di casta, concedendosi a un uomo di casta inferiore? Tanto più che «queste caste nate dalla mescolanza delle classi e definite in base al padre e alla madre possono, palesi o nascoste che siano, essere riconosciute dalle attività innate loro proprie…che sono disprezzate dai nati due volte»54. Fra tutte, risalta la tremenda esclusione inflitta agli intoccabili: la loro dimora «deve essere fuori dal villaggio; essi devono fare uso di ciotole di scarto e i loro beni devono essere cani e asini. Per veste devono avere gli abiti dei morti e mangiare in piatti sbreccati, i loro ornamenti devono essere di ferro nero ed essi devono vagare continuamente. Un uomo che compie i propri doveri non deve cercare di avere contatti con loro, essi devono fare affari fra di loro e sposarsi con loro simili. Il loro cibo, che dipende dagli altri, deve essere dato loro in un piatto sbreccato ed essi non devono aggirarsi di notte per villaggi e città. Possono spostarsi durante il giorno per fare il loro lavoro, identificabili dai segni distintivi stabiliti dai decreti del re, e devono trasportare i cadaveri della gente che non ha parenti; questa è una regola fissa. Per ordine del re, devono giustiziare i condannati a morte, sempre secondo gli insegnamenti, e devono prendersi gli abiti, i letti e gli ornamenti dei condannati a morte»55.

Il mantenimento dell’ordine è di pertinenza del re, ma la legge è opera del sacerdote; ad essa il re è «legato» e, come già visto, solo il sacerdote può «slegarlo». Già nelle Upanisad emerge chiaramente questa preoccupazione dei sacerdoti di preservare e consolidare la loro supremazia nel passaggio dal vedismo all’induismo. Vi si legge, infatti: «E quel re che offende il sacerdote, va contro al suo grembo materno; egli finisce male, perché offese uno più degno di lui»56. Nelle Leggi di Manu che completarono, all’inizio dell’era volgare, la transizione verso l’induismo vegetariano e non violento, i sacerdoti perfezionano la loro primazia attraverso inaudite prescrizioni contro la dignità umana ed estendendo la loro competenza a tutto ciò che non è previsto da quelle minuziose leggi. «Se ci si domanda: “che si deve fare riguardo alle leggi che non sono state menzionate?” la risposta è “ciò che dicono i sacerdoti deve essere legge incontestata”… La legge decisa anche da un solo sacerdote che conosce il Veda va riconosciuta come legge suprema, ma non quella proclamata da milioni di ignoranti»57. Le riunioni di questi “non danno luogo ad alcun consenso”.

Infine, troviamo impresso il suggello della rivelazione, accompagnato dalla ineffabile promessa per i sudditi fedeli e credenti: «Così il divino signore, mosso dal desiderio di fare quel che è bene per la gente, mi espose per intero questo supremo segreto della religione. Un nato due volte che legga questo, la dottrina di Manu quale fu proclamata da Bhrgu, terrà sempre la giusta condotta e raggiungerà il livello di esistenza che desidera»58. Il piatto è servito e chi vuol esser lieto sia.

L’uomo che si guarda intorno, e guarda indietro nella storia, osserva con orrore i mali e le nefandezze disseminati nel mondo dai fanatismi religiosi, le servitù imposte e i conflitti suscitati da mille Verità rivelate. In tanto squallore, che sembra additare il concetto di Dio come una sorta di maledizione, all’uomo non resta che intendere tali

53 Cfr. Le leggi di Manu, opera citata, pagg. 321-32254 Cfr. Le leggi di Manu, opera citata, pagg. 323 e 32455 Cfr. Le Leggi di Manu, opera citata, pag. 32556 Cfr. Upanisad, opera citata, pag. 1457 Cfr. Le Leggi di Manu, opera citata, pagg. 371 e 37258 Cfr. Le Leggi di Manu, opera citata, pagg. 372 e 373

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nefandezze come segnali inviati da Dio per guidare l’uomo verso la vera fede: quella della tolleranza e della fratellanza; e per fargli intendere la missione assegnatagli: quella di esplorare il conoscibile senza soste, in piena consapevolezza dei limiti e della imperfezione delle conoscenze umane, e per estendere sempre di più tali conoscenze. L’unico modo non millantatore di cercare la verità divina sembra richiedere di non indulgere mai all’arroganza di averne acquisito piena consapevolezza, e di lavorare indefessamente per accorciare la distanza incolmabile fra verità assoluta e conoscenza, usando l’unico strumento che la natura ha dato all’uomo per farlo: l’umana ragione.

L’altro importante documento sulla concezione del potere politico nel mondo indiano è costituito dall’Arthasastra, o trattato sull’arte del governo, attribuito a Kautilia, i cui insegnamenti al sovrano sul modo di governare allargano al re la già vista precettistica indù sull’esercizio del potere-dominio. Il fatto che tale dettagliata precettistica, come d’altronde quella espressa dalle Leggi di Manu, è probabilmente il frutto della sedimentazione di riflessioni ed esperienze maturate nel corso dei secoli, costituisce una conferma del radicamento delle forme di dominio nel subcontinente indiano. Ma il riferimento dell’Arthasastra a un potere, quello del monarca, che ha sempre rappresentato in India una fragile sovrapposizione rispetto alla teocrazia delle caste, pone il contenuto del libro in una posizione di subordine rispetto alle Leggi di Manu (tavole della teocrazia indiana) quale espressione della sostanza del potere indù. In particolare, questa sua natura conferisce alla dottrina del potere che vi viene esposta una forma che, malgrado tutto, appare meno virulenta di quella espressa nelle Leggi di Manu.

La giustificazione che l’Arthasastra fa del potere sovrano è analoga a tante altre che incontreremo nel corso della nostra analisi. «Se manca il potere del magistrato, il forte finirà per sopraffare il debole e solo grazie alla tutela del magistrato quest’ultimo potrà resistere al forte»59. L’invadenza del potere teocratico non manca di farsi valere. Infatti, si ha cura di sottolineare che: «Come uno studente seguirebbe il suo maestro, o il figlio suo padre, o un servo il suo padrone, così il re seguirà il suo sacerdote»60.

Vari adescamenti vengono proposti per accertare il grado di onestà del personale politico e assegnarlo ai ruoli più confacenti. I dettagliati suggerimenti relativi all’apprestamento di un vasto e ramificato corpo di spie, stabili o erranti, operanti sotto i più vari travestimenti e deputati a controllare nei particolari la vita privata dei sudditi, sono chiara espressione del carattere dispotico del potere che viene configurato. È scritto: «Dopo aver sottoposto al controllo delle spie lo stesso primo Ministro, il re porrà sotto sorveglianza ogni singolo abitante delle città e delle campagne»61. Al terrorismo spionistico si aggiunge l’altro tocco del potere dispotico, la segretezza: «Nessun estraneo, quindi, saprà nulla delle intenzioni del re»62.

Questo potere totale di disposizione del sovrano è in qualche modo temperato, con atteggiamento paternalistico tipico dei tiranni di tutti i tempi, dalla proclamazione dei doveri del re nei confronti dei sudditi: «La felicità dei sudditi è la felicità del re, nel loro benessere sta il benessere del re. Il re considererà cattivo tutto ciò che gli procurerà un piacere esclusivamente personale, mentre considererà buono tutto ciò che procurerà piacere ai suoi sudditi…nei periodi di carestia, il re proteggerà il suo popolo distribuendo semi e provviste»63.

Come è tipico del dispotismo, viene espressa diffidenza nei confronti della ricchezza privata: «Chiunque sia avaro e, malgrado la sua immensa fortuna continui ad accumulare, a depositare e spedire… all’esterno, sarà seguito da una spia. Questa scoprirà non solo i suoi consiglieri, amici, servi, parenti, collaboratori, ma anche i suoi guadagni e le sue

59 Cfr. Kautilia, Arthasastra, Bariletti Editori, Roma 1990, pag. 2660 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag. 3561 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag. 4362 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag. 4963 Cfr. Kautilia, Ibidem, pagg. 60 e 243

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spese»64. È professata una chiusura pressoché ermetica all’avvento del nuovo e rispetto al mondo esterno: «Queste persone forniranno informazioni sugli spendaccioni e sugli incauti che intraprendano imprese rischiose… I capi famiglia dovranno riferire gli eventuali arrivi, o partenze, di stranieri loro ospiti… A 6 malika dall’arrivo della notte, un suono di tromba indicherà che nessun movimento verrà permesso fino a 6 malika dall’alba, momento in cui suonerà un’altra tromba»65.

Sul trattamento delle donne, l’Arthasastra non si discosta dalle Leggi di Manu, se non per qualche pittoresca precisazione come: «Le donne sono state create per avere figli maschi»66. L’esposizione di una sequela di inganni, doppiezze, tradimenti, cui il sovrano dovrebbe ricorrere nella sua politica estera e interna, è valsa a Kautilia l’appellativo di Machiavelli indiano. Ma la scissione di principio postulata da Kautilia fra artha e dharma (utile e giusto) fa sì che, nella massa di prescrizioni dell’Arthasastra sulle tecniche di governo, l’esposizione di tale sequela assuma una forma quasi asettica e naturale, che non ha bisogno di ricorrere al supporto di esempi storici su azioni moralmente disgustose cui non potrebbe sottrarsi una preveggente attività di governo.

Infine, vale la pena riportare una significativa asserzione sulla questione della legittimazione del potere. Scrive Kautilia: «Quanto a un figlio di nobile nascita e un figlio saggio, la gente rimarrà fedele al primo anche se non è saggio»67. Come dire che, per l’opinione pubblica, il principio di legittimità è nella nascita, non nel merito. Vedremo operare a lungo questo principio di legittimità nel corso della storia, e vedremo il problema della sovranità complicarsi enormemente con il venir meno di tale convincimento.

b) Legalismo e confucianesimo nell’antica Cina

La teorizzazione forse più coerente e spietata del potere politico in quanto dominio totale e illimitato del governante sui sudditi, trasmessaci dall’antichità, vide la luce in Cina intorno al V secolo a.C. I rapidi cambiamenti delle forme di governo che erano in atto, dal feudalesimo originario alla formazione di principati in aspra lotta fra loro per l’espansione territoriale e la conquista dell’egemonia, stimolarono la nascita di una scuola di pensiero sull’arte di governo impressionante per la lucidità, la coerenza e l’estremismo con cui tratta la questione del potere di disposizione del sovrano. Mai l’avvento di compagini statali, fino alle formazioni statuali più recenti, è stato accompagnato e assistito da una teoria altrettanto spregiudicata, cinica e assolutistica del potere statale di comando. L’insistenza di questi teorici del potere sul rispetto e la sovranità della legge, inflessibile e uguale per tutti, non deve ingannare. Infatti la legge è intesa come emanazione del dominio incontrastato del despota e come strumento di inflessibile dominio, prima ancora che di governo: strumento teso a costruire la potenza dello stato attraverso la dedizione di un popolo timorato e asservito. Tale dottrina, passata alla storia con il nome di “legalismo” e che si proponeva di fornire allo stato la forza, i mezzi e la legittimazione per attuare radicali trasformazioni richiedenti immensi sacrifici, ebbe in Shang Yang, primo ministro dello stato Ch’in, il suo principale esponente.

Alcuni passaggi tratti dal libro di questo autore, una sorta di manifesto del «legalismo» cinese, consentiranno di meglio evidenziare il ruolo attribuito al potere dispotico nell’arte di governo prescindendo da ogni norma morale. Insegnava Shang Yang: «Chi è forte va spezzato e chi è acuto va reso ottuso… quando la porta che conduce a ricchezza e onore è accessibile solo attraverso il servizio militare, ecco che, sentendo parlare di guerra, la gente si congratula e, al lavoro o a riposo, quando beve o mangia,

64 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag. 9365 Cfr. Kautilia, Ibidem, pagg. 168, 169 e 17066 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag.. 18167 Cfr. Kautilia, Ibidem, pag 360

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canta canzoni guerresche…Colui che riesce a far sì che il popolo tragga piacere dalla guerra consegue la supremazia»68. Il problema dell’ordine dispotico è al centro dell’attenzione. «Quando le punizioni sono gravi, la gente non osa trasgredire, dunque non vi saranno punizioni… Uno Stato o incoraggia un governo ordinato oppure incoraggia il disordine…Chi è detto sovrano virtuoso non ha ministri fedeli, e un padre compassionevole non ha figli devoti… ciò che si chiama forza è fare in modo che ogni atto di coraggio e di gagliardia non possa essere utilizzato se non a vantaggio del principe… Un re saggio non dà valore alla rettitudine: dà valore alla legge»69. Poi aggiunge: «Un popolo debole significa uno Stato forte e umano. Stato forte significa un popolo debole. Pertanto, un paese che possiede la retta via deve preoccuparsi di indebolire il popolo… Se il governo ricorre a provvedimenti odiati dal popolo, il popolo si indebolisce; se ricorre a provvedimenti amati dal popolo, il popolo si rafforza. Ma un popolo debole significa uno Stato forte e un popolo forte significa uno Stato debole. Se il governo ricorre a provvedimenti amati dal popolo, quest’ultimo si rafforza, e se un popolo forte viene reso ancora più forte, l’esercito diventa doppiamente debole… rafforzando il popolo si diventa doppiamente deboli e si perisce; indebolendo il popolo si diventa doppiamente forti e si consegue la supremazia»70. E per meglio chiarire i contenuti e le esigenze della politica di potenza, Shang Yang scrive: «Queste tre funzioni fanno insorgere i parassiti, e cioè: aver cura della vecchiaia, vivere alle spalle degli altri, bellezza, amore, ambizione e condotta virtuosa. Se questi sei parassiti riescono a far presa, vi sarà smembramento… se ci si affida alla virtù, le chiacchiere saranno molte… Che cosa si intende per dottrine inique? Quelle che si hanno quando si dà valore al sapere e ai sofismi, si conferiscono cariche ai politici itineranti e si considerano importanti l’erudizione e la reputazione private… Il sistema del buon governo è quello di trascurare i virtuosi ed eliminare i sapienti»71. Tutto ciò viene sposato a un rigoroso funzionalismo militarista a servizio di una politica di espansione territoriale. «Il modo in cui il principe intelligente amministra l’impero è di operare secondo la legge e ricompensare secondo il merito. È la brama di rango e di emolumenti che spinge la gente a combattere con energia e a non schivare la morte. La legge è il principio di autorità per il popolo e il fondamento del governo; è ciò che plasma il popolo»72. Dunque, lo Stato è tutto, il popolo e l’individuo sono nulla o meglio, sono meri strumenti da asservire integralmente alla politica di potenza e alla volontà del potere sovrano. Occorre tener presente che questi insegnamenti non restarono teorie stravaganti e fuori della realtà; essi vennero formulati per assistere e indirizzare l’attività di governo; più precisamente, furono un riflesso e la giustificazione di sistemi di governo che hanno fatto la storia della Cina ed hanno abituato i cinesi a ubbidir tacendo all’assolutismo statale.

Il legalismo costituì il grande propulsore dell’unificazione della Cina; in tal modo, aprì la strada alla nascita di una grande civiltà. Fu una scuola di pensiero che fornì insegnamenti precursori sul fatto che le società umane e, in primo luogo, l’organizzazione politico-amministrativa, sono opera dell’uomo; addirittura, pretese che l’uomo può plasmare a piacimento l’ordine sociale. Presto divenne evidente che la concezione iper dispotica del potere professata dai legalisti era di corto respiro. Le loro dottrine contenevano insegnamenti acuti e basilari sul concetto di stato e sull’impersonalità della legge. Ma il culto del dispotismo statale da esse professato sboccò, infine, in un’arida ossessione per il potere fine a se stesso, pregna di potenziale distruttivo.

Sotto il Primo Imperatore, lo statalismo senza freni dei ministri legalisti diede vita a un terrorismo di stato che verrà a mala pena superato dai crimini di moderni stati totalitari.

68 Cfr. J. J. L. Duyvendak (a cura di), Il libro del signore di Shang, Adelphi, Milano 1989, pagg. 235, 236 e 23869 Cfr. J. J. L. Duyvendak (a cura di), Ibidem, pagg. 240, 242, 243 e 245 70 Cfr. J. J. L. Duyvendak (a cura di), Ibidem, pagg. 251 e 25371 Cfr. J. J. L. Duyvendak (a cura di), Ibidem, pagg. 254, 259 e 26772 Cfr. J. J. L. Duyvendak (a cura di), Ibidem, pagg. 262 e 275

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Vediamo espressa in questa esperienza storica la forma più cruda e cruenta di dispotismo orientale. I suoi eccessi fecero comprendere che l’enorme potere di disposizione del grande impero centralizzato, per poter sopravvivere, aveva bisogno di essere temperato da altri principi direttivi. L’astuzia e abilità cinese nell’apprestare il correttivo costituisce uno dei maggiori esempi di saggezza e lungimiranza politica. Venne infatti attuata un’operazione di mimetizzazione e trasformismo culturale che avrebbe quasi immortalato, pur fra alti e bassi, la vita del grande impero burocratico centralizzato, e avrebbe fatto di esso un organismo addirittura intramontabile se la civiltà aggressiva e destabilizzante degli europei non fosse giunta a mettere il naso nel mirabile meccanismo politico, ideologico e amministrativo venuto in essere. Tale operazione mimetica consistette nel recupero e adattamento alle esigenze dell’impero centralizzato, della dottrina di Confucio, che in verità propugnava la restaurazione del feudalesimo. Riveste grande importanza, nell’analisi delle forme di potere, lo studio di questo fenomeno straordinario. Fra i tanti abiti con cui sono state vestite le forme di dominio dai teorici e uomini d’azione, l’abito cinese è fra i più brillanti e seducenti; esso propiziò l’avvento di una grande civiltà e la nascita del dispotismo più vitale comparso nella storia.

La dottrina di Confucio costituisce un sistema completo di prescrizioni etiche e comportamentali miranti a disciplinare e rinsaldare i legami sociali. La sua capacità di suggestione fu accresciuta dal suo affacciarsi in un mondo che, attraversato da profonde trasformazioni, appariva senza regole e perciò assurdo e violento. Per poter ripristinare l’ordine sociale, Confucio riteneva indispensabile la restaurazione degli antichi costumi e tradizioni. La venerazione per il passato costituì un tratto dominante della sua dottrina. Questa muove dall’idea che l’ordine delle cose è immutabile, e da ciò deduce che lo studio degli antichi ordinamenti fornisce le nozioni cui ispirarsi per il ristabilimento dell’ordine sociale. Confucio afferma: «Io trasmetto non creo. Confido negli antichi e li amo»73.

In accordo con questa dottrina statico-conservatrice della società, il saggio cinese addita quali tratti dominanti di una personalità ben educata la sobrietà, l’autocontrollo, l’armonia interiore ed esteriore, le buone maniere, il soffocamento delle passioni ed indica nello studio dei letterati il veicolo principale per il conseguimento di tali virtù. L’etica confuciana non ha ispirazioni e tensioni ultramondane e non suscita tensioni spirituali concernenti l’al di là; riguarda prettamente l’ordine sociale; di conseguenza, contempla solo peccati nei riguardi della società. Costituiscono peccati capitali la violazione delle convenzioni tramandate, delle regole cerimoniali e, soprattutto, l’omissione dell’obbedienza all’autorità stabilita dalla tradizione. Il grande filosofo cinese fissò una precisa gerarchia di regole comportamentali riguardanti: i rapporti tra sovrano e sudditi, l’ambito familiare e le relazioni fra amici. Al duca Jing che lo interrogava sul governo, rispose: «Il sovrano sia sovrano; il ministro, ministro; il padre, padre; il figlio, figlio»74

Confucio considerava la natura dell’uomo improntata dalla bontà, aperta al perfezionamento e incline ad imitare il buon esempio dei governanti; riteneva pertanto fondamentale che questi vivessero virtuosamente. Egli consigliava ai governanti: «Se lo guidi con le leggi e lo regoli con le pene, il popolo mirerà ad evitarle, e sarà senza vergogna. Se lo guidi con la verità e lo regoli con i riti, conoscerà la vergogna e arriverà a migliorarsi… Governare significa correggere. Se si guida verso la correttezza, chi oserà non correggersi?»75. E al principe che si preoccupava dei ladri disse: «Se tu non fossi avido, non ruberebbero neppure se li pagassi (e poco oltre) Per governare che bisogno c’è di uccidere? Se tu vuoi il bene, il popolo sarà buono. La virtù del superiore è quella del vento. La virtù del volgo è quella dell’erba. Se sopra vi passa il vento, l’erba deve

73 Cfr. Confucio, I Dialoghi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2000, pag. 7374 Cfr. Confucio, Ibidem, pag, 175 Cfr. Confucio, I Dialoghi, opera citata, pagg. 50 e 2

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piegarsi»76. Il sistema morale confuciano costituisce forse il più imponente modello di educazione (per completezza, intima connessione e coerenza) teso a stimolare le virtù civiche ed a stabilire un governo della società basato sulla temperanza, la saggezza, il buon senso e il buon esempio del governante.

Gli imperatori cinesi, avendo constatata l’insostenibilità degli eccessi dell’interventismo legalista e la fragilità del potere iper dispotico del Primo Imperatore, videro nella dottrina confuciana un formidabile strumento per temperare i contenuti del potere centralizzato del grande impero e favorirne l’accettabilità, senza pregiudicare la capacità di sopravvivenza dello stato ma anzi procurandogli una legittimazione e fondamenta assai solide. L’insistenza di Confucio sul rispetto della tradizione e della autorità stabilita, sui doveri civici, sulla sobrietà e sulle regole cerimoniali, la sua ostilità all’innovazione in quanto violatrice dell’ordine tramandato e perciò causa di disordine, di offesa per gli antenati e quindi di calamità, la capacità dei suoi insegnamenti di stemperare passioni, la negazione di tensioni mistiche ed estatiche, l’inclinazione per l’equilibrio e la preservazione dell’ordine costituito e l’ostilità verso pur leggere contaminazioni riformistiche, erano tutti attributi preziosi per la legittimazione e conservazione di un grande sistema di potere.

A ben vedere, la nostalgia di Confucio per l’ordinamento feudale è puramente contingente; è centrale per il suo sistema normativo il culto della tradizione. Per questo motivo, tale sistema poté agevolmente essere fatto proprio da un grande impero centralizzato, desideroso di esercitare il potere con temperanza e saggezza, di suscitare l’adesione convinta dei sudditi e così prolungare illimitatamente la sua esistenza. Non ci volle molto a conquistare i letterati confuciani alla causa dell’impero. La loro cultura divenne cultura di stato ed i depositari di essa i fedeli amministratori e la classe dirigente dell’impero. Il passato, invece di essere ripudiato, come proponevano i legalisti e come, con estrema brutalità, aveva cercato di fare il Primo Imperatore, divenne la fonte di ispirazione dell’attività di governo. Nacque così lo stato centralizzato amministrato forse con la maggiore efficienza, benevolenza, dedizione e rettitudine fra tutti quelli finora esistiti, uno dei più accetti ai sudditi e di tutti il più longevo.

L’insistenza confuciana sulla santità della tradizione (rispecchiata dal culto degli antenati) servì a mitigare, nella pratica, l’inclinazione al dispotismo implicita nel governo centralizzato: la mitigò sia in via diretta, sia soffocando il mutamento, per motivi in parte analoghi a quelli che consentirono nelle società primitive, in quanto basate sulla tradizione, di tenere in scacco la nascita del potere di comando. Inoltre, l’assurgere del confucianesimo a dottrina di stato propiziò, soprattutto attraverso la passione confuciana per la cultura, il decoro e il cerimoniale, la nascita di una stupenda forma di civiltà, giunta a conseguire i vertici del perfezionismo. Diceva Confucio: «Nell’istruzione non vi sono differenze di classe»77. Di più. I letterati confuciani ebbero cura di apprestare una dottrina tesa a stimolare la sollecitudine dell’imperatore Figlio del Cielo e dei suoi amministratori per la prosperità dei sudditi, e ad inculcare in loro moderazione e temperanza. Disse Confucio: «I capi degli stati e della famiglia non si preoccupano che il popolo non sia numeroso, ma che a ciascuno sia dato il suo; non si preoccupano che sia povero, ma che non sia in pace. Se a ciascuno sarà dato il suo, non sarà povero; se sarà in armonia, sarà numeroso; se sarà in pace, non vi sarà sovversione. È così. Perciò se genti lontane non si sottomettono, si perfezioni la cultura come forza d’attrazione. Una volta attratte, le si tranquillizzi»78.

Mencio sosteneva che il vero re governa non attraverso la forza ma tramite le sue virtù e con l’esempio morale. Sono tipici del confucianesimo il fatto di assegnare effetti

76 Cfr. Confucio, Ibidem, pag. 277 Cfr. Confucio, Ibidem, pag. 12278 Cfr. Confucio, Ibidem, pagg. 124-125

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quasi taumaturgici alla virtù del sovrano e l’insistenza sulla forza educativa del suo esempio sul comportamento dei sudditi.

Significativamente, le poche proiezioni ultramondane della dottrina confuciana sono volte a stimolare la sollecitudine dei governanti per il bene dei sudditi. La dottrina della revoca del mandato celeste al Figlio del Cielo per indegnità, cioè nei casi di calamità, l’attribuzione della prosperità alla virtù dei governanti e delle calamità ai vizi di questi e allo sdegno da essi provocato nello spirito degli antenati, inculcava nei detentori del potere un timoroso spirito di servizio e addolciva l’esercizio del loro enorme potere.

Dunque, il contenuto dell’insegnamento confuciano si mostrò eccezionalmente adatto alla preservazione del carattere statico-conservativo della società, che costituisce il terreno naturale per l’esercizio della giurisdizione dei grandi imperi centralizzati, ed apprestò la civiltà dell’obbedienza più nobile, sottile e raffinata di tutte quelle che nella storia hanno servito i grandi imperi. Forse una delle sue maggiori virtù è di aver sottratto il potere statale alla necessità di cercare un puntello nelle religioni e nella strumentalizzazione della fede oltremondana, evitando così il fanatismo, le barbariche contrapposizioni tra atti di fede e disinvolte speculazioni sul problema dell’al di là che tale strumentalizzazione ha determinato in altri ordinamenti statali. Il potere in Cina non fu mai basato su irriverenti mistificazioni religiose; grazie al confucianesimo e alla sua etica, tutta presa dai problemi dell’al di qua, ebbe basi eminentemente laiche. Mai conobbe inclinazioni cesaropapistiche oppure teocratiche e mai dovette confrontarsi con la critica tagliente e le intemperanze di mistici e profeti, con i rimproveri dei monaci athoniti o studiti e l’ambizione di qualche patriarca, che assillarono molti imperatori bizantini.

Non esiste nella storia esempio di una dottrina rivelatasi più idonea di quella confuciana all’esistenza e nobilitazione degli ordinamenti burocratico-centralizzati e ad addolcirne o velarne il dispotismo; essa è stata una delle più complete e sofisticate dottrine dell’organizzazione e gestione dei sistemi sociali conosciute dall’uomo: stupenda dottrina laica del potere, che non ha rivali per la sua capacità di armonizzarsi con lo stato imperiale, di cui si fece custode e garante. Il suo limite risiede nella forte inclinazione statico-conservativa, nella sua grande ostilità alle innovazioni, considerate un affronto alla sacertà della tradizione. Ma le società quasi-stazionarie del passato non percepivano tale limite, che solo a noi moderni è apparso, infine, in tutta la sua evidenza. Peraltro, il suddetto limite venne forzato da rigurgiti delle volontaristiche dottrine legaliste, ogni volta che ciò risultò indispensabile.

Fu così che l’ordinamento cinese apparve ad osservatori e studiosi europei una stupenda costruzione fin nel diciottesimo secolo, quando era già in piena decadenza, e perfino grandi illuministi lo celebrarono con entusiasmo e lo additarono ad esempio. Ma l’imperatore Chien Lung, nell’esprimere il suo orgoglio per la civiltà del suo impero, ormai priva di capacità evolutive, manifestava una esatta percezione dell’inimitabilità di essa da parte degli occidentali. Egli così rispondeva nella lettera indirizzata a Giorgio III nel 1793: «Tu o Re, vivi oltre i confini dei mari lontani e tuttavia, spinto dal tuo nobile desiderio di partecipare ai benefici della nostra civiltà, hai inviato una missione per presentare rispettosamente un tuo memoriale (e aggiungeva)… se pure tu affermi che la tua riverenza verso la nostra celestiale dinastia ti riempie del desiderio di acquistare gli elementi della nostra civiltà, il nostro cerimoniale e i nostri codici di leggi differiscono così radicalmente dai vostri che, anche se il tuo inviato riuscisse a impadronirsi dei rudimenti della nostra civiltà, tu non potresti mai riuscire a trapiantare le nostre maniere e i nostri costumi in terra straniera»79.

Per memoria, varrà la pena dedicare un breve riferimento ad altre due correnti di pensiero che hanno espresso in Cina insegnamenti suggestivi sul potere politico.

79 Cfr. G. Borsa, L’estremo oriente fra due mondi, Laterza, Bari 1961, pag. 24

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Innanzitutto il pensiero di Mo-tse, vissuto tra il V e il IV secolo a. C.. Questi spiega l’origine del potere statale con il fatto che ogni uomo tende ad avere un proprio metro di misura del giusto e dell’ingiusto e ognuno propende a ritenere di essere nel giusto e che gli altri siano nel torto; il disordine che scaturiva da questo stato di cose consigliò gli uomini di dotarsi di un’autorità politica per poter vivere in pace. Di qui l’enfatizzazione, da parte del mohismo, del principio di gerarchia. Mo-tse proclamò: «Quello che il superiore giudica giusto, tutti dovranno ritenerlo giusto. Quello che il sovrano giudica ingiusto, tutti dovranno ritenerlo ingiusto… e… Sii sempre d’accordo con il superiore; non seguire mai l’inferiore»80. Si preconizza dunque, per il bene dei sudditi, un sistema di dominio totale, in cui il sovrano fissa e unifica il sistema dei valori e insindacabilmente stabilisce il giusto e l’ingiusto.

All’estremo opposto è il pensiero politico taoista, che osteggia il potere e l’interventismo statale e professa una totale apertura alla libera iniziativa, nella convinzione che le restrizioni e proibizioni impoveriscano il popolo. Il sovrano saggio non dovrebbe fare, ma disfare quanto fatto dai sovrani precedenti, tanto forte è la convinzione che l’interventismo sarebbe solo fonte di male. Nel Lao-tse, scritto posteriormente a Confucio, si legge: «Non agisco e il popolo si trasforma da solo. Me ne sto tranquillo e il popolo si dà da fare. Non mi occupo di nulla e il popolo prospera. Non ho desideri e il popolo è semplice»81. Ma quella che viene propugnata è una libertà nella stagnazione. Infatti, l’altra prescrizione è: «Non esaltare i meritevoli e la gente non litigherà più. Non dar valore ai rari tesori e non vi saranno più ladri. Se la gente non vedrà più quello che accende il desiderio, vivrà tranquilla. Quindi il saggio governa svuotando le menti, riempiendo i ventri, indebolendo le volontà, rafforzando i muscoli e togliendo sempre più ai sudditi conoscenza e desiderio»82. Come si vede, l’avversione all’interventismo è motivata semplicemente dal fatto che esso è visto come un fattore di disturbo dello "stato di quiete". Ciò non ha nulla a che fare con il ruolo storico della libera iniziativa individuale. Anzi, ne vediamo qui configurata una forma di annichilimento, forse non inferiore a quella messa in atto dal Primo Imperatore. Davvero peculiare è il pensiero cinese!

2: Il potere politico nel pensiero greco

Profondamente diverso è il pensiero greco sul potere. Come è noto, i greci sono stati i primi in Occidente ad analizzare in modo approfondito il fenomeno del potere politico, in ciò stimolati dalla varietà e dalle vicissitudini delle forme di governo di cui erano testimoni, e agevolati dalla contiguità dell’argomento con altre forme di sapere in cui furono maestri. È sintomatico constatare che anche in quella che fu la patria della democrazia degli antichi, il potere assunse sempre la veste di dominio, per giunta particolarmente duro e vessatorio. Ciò emerge con chiarezza nell’interpretazione della storia di Tucidide, maturata dall’osservazione delle guerre peloponnesache. Tale interpretazione si impernia infatti su due impulsi dominanti dell’agire umano: la corsa verso il potere-dominio, cui fa da contraltare la tendenza degli assoggettati a coalizzarsi per preservare la libertà dall’egemonia dei dominatori. La conseguenza sarebbe una lotta incessante, nel corso della storia, da un lato per la conquista del potere e dall’altro per la salvaguardia della libertà. Emerge qui una fondamentale differenza rispetto al dominio piatto e totale degli imperi dispotici orientali: l’affiorare dell’anelito per la libertà dal dominio. Ma tale sentimento non addolcisce la virulenza dell’oppressione, e può anzi

80 Dal Mo-tse, capitolo 1181 Dal Lao-tse, capitolo 57. 82 Ibidem, capitolo 3

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accentuarla. Tucidide fa dire dagli ambasciatori ateniesi a Sparta: «Non fummo noi i primi a porre in vigore questa legge, ma è universale e perenne norma che il più debole sia suddito del più forte… per calcolo di utilità, ora sbandierate il concetto di giustizia. Ma chi realmente preferisce applicarlo, quando si offra l’occasione di realizzare con la forza un acquisto?»83. L’ambasceria cercava di far risaltare la moderazione di Atene nel governare il suo impero. Ma è noto che quell’impero rappresentò un rapace dominio imperialistico, come riconosceva lo stesso Pericle allorché affermava: «Si tratta… di esporvi all’immenso odio che avete sollevato dominando»84.

La riflessione degli studiosi greci si appuntò presto sui tipi di costituzione e sulle forme di governo che vedevano proliferare tutt’intorno, sul loro grado di stabilità e sulle cause di tale stabilità. Già Erodoto si era interrogato su meriti e demeriti delle tre principali forme di governo (aristocrazia, democrazia, monarchia) e sulla loro inclinazione a corrompersi, giungendo a teorizzare un loro ciclico alternarsi nel corso del movimento storico. Ma fu con Platone e Aristotele che l’analisi delle forme di governo, dei loro pregi e difetti, e dei connessi sistemi di potere politico, toccò il maggiore approfondimento, che a lungo avrebbe improntato i dibattiti in proposito.

a) Il potere secondo Platone

L’attenzione di Platone, vissuto in un periodo di profonda crisi politica e di diffusa corruzione, fu attratta dalla ricerca di una forma di governo in grado di rimediare ai mali che affliggevano la società in cui viveva, cioè che fosse dotata di stabilità e nella quale il potere politico fosse affidato a «uomini veramente e schiettamente filosofi».

Il problema della qualità, dell’educazione e della scelta del personale politico occupa la maggior parte della Repubblica di Platone. L’educazione di guardiani e filosofi è alla base di tutto e deve tendere ad evitare che «al guardiano occorra un guardiano». Una volta raggiunto tale obbiettivo, le leggi sarebbero superflue.

Nella Repubblica, Socrate strappa al sofista l’ammissione che il potere è servizio. Ma non vengono individuati meccanismi istituzionali idonei a garantire che il potere venga espletato nella forma di servizio; semplicemente, tale garanzia è affidata alla rettitudine e all’altruismo di filosofi governanti muniti di pieni poteri. Ora però la storia insegna che il potere assoluto e incontrollato corrompe chi lo detiene. L’uomo, anche il più sapiente di tutti, ha capacità limitate ed è corruttibile. Il potere illimitato lo rende arrogante e lo acceca; non c’è forma educativa in grado di spegnere la sete di potere che può accendersi in un uomo o gruppo di uomini muniti di poteri incontrollati.

È importante delineare le ragioni che inducono Platone ad ignorare le elementari considerazioni appena accennate. L’ideale di questo filosofo è l’immobilismo nella perfezione. Nella Repubblica, le forme educative, la divisione in tre classi con precisi compiti, la stessa idea di giustizia consistente nel fatto che ciascuna classe e ogni singolo cittadino svolgano il proprio compito, mirano a realizzare tale ideale; la garanzia della perseguibilità di esso risiede nella dottrina platonica delle idee. Platone è convinto della possibilità per il filosofo di percepire «quell’essenza che è permanente e che non subisce le vicissitudini della generazione e della corruzione… , e della possibilità di usare la pura intellezione per giungere alla pura verità»85. Questa presunta possibilità di raggiungere la conoscenza delle verità supreme implica lo sbocco nel quieto mare della perfezione e del sapere totale, in un mondo che sarebbe possibile governare scientificamente e con totale disinteresse. In una comunità politica perfetta, non ci sarebbero desiderio di cambiamento e possibilità di frode. Inoltre, nella piatta ripetitività di un mondo siffatto, la sapienza dei

83 Cfr. Tucidide, Guerre del Peloponneso, opera citata, pag. 4884 Cfr. Tucidide, Ibidem, pag. 13085 Cfr. Platone, La repubblica, Laterza, Roma, Bari, 1995 pag. 198 e 241

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governanti filosofi potrebbe essere facilmente indotta ad espletare il potere con somma rettitudine e nella forma del servizio. Sfortunatamente la dottrina platonica delle idee esprime una concezione del tutto errata delle capacità intellettive degli uomini; essa ignora il modo necessariamente graduale e sempre largamente incompleto dell’evolvere delle conoscenze umane.

Un completo disvelamento del significato delle cose costituisce una vana e lontanissima speranza per l’uomo, che mai sarà adempiuta. L’uomo è costretto ad esplorare e, più apprende, più diventa consapevole dei limiti delle sue conoscenze; ciò lo incita ad approfondire la sua attività esplorativa. Ma in un mondo caratterizzato da conoscenze limitate e costretto ad un mutamento incessante dall’evolvere di queste sotto l’impulso della creatività umana, l’imperfezione è la regola. Ciò fa sì che la soluzione del problema del potere, cioè della conversione di questo in servizio, sia assai più complicata di quel che riteneva Platone; inoltre, ha fatto sì che la forma di organizzazione statale enunciata nella Repubblica abbia, da un lato ispirato il più ingenuo utopismo e dall’altro facilitato l’avvento delle peggiori tirannie.

Purtroppo, è restato in secondo piano nell’insegnamento di Platone il riconoscimento, da questi espresso nelle «Leggi», del fatto che, in un mondo di conoscenze imperfette c’è bisogno del legislatore, non del filosofo, e che solo la divisione del potere può contrastare gli abusi del potere. Su tale base, il nostro filosofo procedette ad enunciare una teoria costituzionale mista, basata sulla divisione dei poteri fra re e popolo, assai più feconda delle farneticazioni della Repubblica e che avrebbe molto influenzato il successivo dibattito sulle forme di governo.

b) Il pensiero di Aristotele sul potereAristotele prende le distanze dall’insegnamento espresso nella Repubblica di

Platone, che ritiene postuli un ideale irraggiungibile. Egli si preoccupa di delineare la migliore costituzione possibile in rapporto alla realtà, cioè alla moltitudine degli uomini, con i loro vizi e virtù. Conseguentemente, rivolge la sua attenzione agli assetti politici storicamente esistiti, analizzando meriti e demeriti dei vari tipi di costituzione, le loro forme degenerative e le forze da cui queste degenerazioni sono determinate. In sintonia con la quasi generalità degli studiosi di politica dell’antica Grecia, Aristotele considera quale pregio principale degli ordinamenti politici la loro stabilità. Egli teme la stasis (la ribellione), causa di sovvertimento istituzionale, e raccomanda che la classe forte nello stato sia quella interessata a preservare la costituzione. In particolare, insiste sul fatto che la forma più stabile di costituzione è quella che si basa sui ceti medi. Afferma, al riguardo: «È chiaro, dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere bene amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso… Per ciò è una fortuna grandissima che quanti hanno i diritti di cittadino possiedano una sostanza moderata e sufficiente, perché dove c’è chi possiede troppo e chi niente, si crea una democrazia sfrenata o un’oligarchia autentica, o, come risultato di entrambi gli eccessi, una tirannide: e in realtà dalla democrazia più baldanzosa e dalla oligarchia nasce la tirannide, mentre dalle costituzioni medie e da quelle affini molto meno»86.

Queste affermazioni esprimono una dottrina della limitazione del potere degna delle migliori tradizioni democratiche. Più in là, Aristotele precisa in maniera inequivoca questo aspetto allorché scrive: «È chiaro poi che si conservano, per parlare in generale, in forza di condizioni opposte e, considerandoli in particolare, i regni, se si ispirano a una certa limitazione di potere. Quanto minori sono le attribuzioni del sovrano, più a lungo durerà necessariamente il governo nella sua integrità, perché allora i re personalmente diventano meno dispotici e più moderati nei loro atteggiamenti e perciò meno odiati dai sudditi»87.

86 Cfr. Aristotele, Politica, Laterza Bari-Roma 1996, pag. 13787 Cfr. Aristotele, Ibidem, pag. 189

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Purtroppo l’ottica investigativa del grande stagirita, mentre da un lato appare priva della unilateralità delle grandi astrazioni (tipiche di Platone), grazie al riferimento costante ad osservazioni empiriche, dall’altro è limitata dal fatto di concentrare l’attenzione sulla polis, vista come la creazione più completa dello spirito umano.

Al di là della citazione di cui sopra sulla limitazione del potere, Aristotele resta nel mondo del dominio, diversamente da Platone che, nella sua visione astratta, aveva identificato il potere come un servizio. Più precisamente Aristotele, attento alla realtà dei fatti, vede il dominio come un fenomeno del tutto "naturale", fino al punto di dichiarare la schiavitù come un fenomeno naturale. Egli dice: «Taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e per costoro è giusto essere schiavi»88. E giunge ad asserire che l’arte bellica … si deve praticare contro quegli uomini che: «nati per obbedire, si rifiutano di farla giacché per natura tale guerra è giusta…e… avendo per natura i barbari un carattere più servile dei Greci, e gli Asiatici degli Europei, sottostanno al dominio dispotico senza risentimento»89.

Forse il peggiore messaggio trasmesso da questo filosofo alla posterità consiste nell’uso disinvolto e fallace oltre ogni dire del termine «naturale» nel giudicare istituzioni e assetti delle società umane. Avremo modo di ritornare sui pessimi servizi resi all’uomo da questa eredità intellettuale, nonostante le encomiabili intenzioni di quanti se ne sono serviti. Invece, non si può onestamente obbiettare alcunché all’avversione di Aristotele e dei suoi contemporanei per il mutamento in quanto essi vivevano in un mondo caratterizzato dalla sostanziale stazionarietà dei processi e ciò li induceva a considerare il mutamento un fenomeno degenerativo. Nondimeno, anche in questo campo il realismo viene in soccorso di Aristotele, inducendolo in una certa qual inclinazione ad accettare e finanche a promuovere il mutamento. Egli rimprovera a Platone la sua chiusura al mutamento.

Questi due filoni di pensiero, il platonico e l’aristotelico, hanno influenzato fortemente il pensiero occidentale sulla concezione del potere e dello stato. Molto significativamente, nel mondo ellenistico, l’ambiguo pensiero greco sul potere politico si spostò decisamente verso il versante del dispotismo. Il re è l’incarnazione dello stato, della lex (in quanto lex animata) e della virtù. Il suo diritto a governare discende dalle sue conquiste, dal fatto di essere re vittorioso. La difesa del diritto dei singoli perde rilevanza; l’erogazione della giustizia dipende dalla benevolenza dei sovrani divinizzati, nei riguardi dei loro greggi umani. La stessa stoa, pur nella sua mitezza umanitaria, accetta questa figura trionfalistica di sovrano despota e solo vi contrappone, quale elemento temperante, la postilla che il re, proprio perché non deve rendere conto ad alcuno, deve essere sapiente e giusto. Vediamo in ciò un’eco della dottrina platonica sui governanti filosofi. Ma il potere di disposizione del monarca è totale. Egli è l’evergete.

Vediamo così che, con il venir meno della polis, il fenomeno del potere getta la maschera ed il suo carattere di dominio emerge in forma nuda e cruda: solo la morigeratezza del sovrano può circoscrivere e addolcire nella pratica il dominio che egli esercita sulle masse. Il pensiero greco non ebbe nulla da contrapporre a questo brutale emergere, nell’ellenismo, del despota più o meno capace e illuminato; in questo si rivelò da meno dell’insofferenza dell’esercito nei riguardi di tale svolta. La pronta assimilazione, da parte dell’ellenismo, del dispotismo orientale non deve sorprendere; costituì infatti quasi uno sviluppo naturale della preesistente concezione greca del potere in quanto dominio, sviluppo sollecitato dalla necessità di governare vaste compagini statali e, in minor misura, dal contatto con le tradizioni asiatiche.

1. Sviluppi dell’idea e delle forme di potere nell’impero romano

88 Cfr. Aristotele, Ibidem, pag. 1289 Cfr. Aristotele, Ibidem, pagg. 17 e 2

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Torniamo qui a concentrare l’attenzione sulla più illustre concezione del potere comparsa nella storia che, in quanto tale, merita attenta riflessione.

a) Polibio e la divisione dei poteriLa forma di potere che contraddistinse l’impero di Roma, sia in epoca repubblicana

che nei periodi successivi, costituisce un fenomeno di straordinaria importanza per i suoi contenuti, longevità ed efficienza amministrativa. L’invenzione del diritto e quindi la fondazione dell’ordinamento statale sul solido terreno della generalità e inflessibilità della legge costituiscono le basilari caratteristiche dello stato romano. L’analisi teorica di questo organismo da parte degli studiosi dell’epoca fu largamente influenzata dal pensiero politico greco; non a caso, lo studio più acuto della costituzione repubblicana di Roma fu opera del greco Polibio. Questi intese fornire una risposta alla sorpresa dei greci per la rapida conquista, da parte della piccola città stato italica, dell’intero bacino del Mediterraneo, apparentemente assai indocile e difficile da assoggettare.

In sintonia con l’insegnamento di Platone, di Aristotele e di altri suoi illustri conterranei, l’analisi di Polibio muove dall’idea che la forma di costituzione riveste importanza centrale per poter giudicare la solidità e le sorti di una comunità politica,. Egli espone un’interpretazione del processo storico basata sull’avvicendarsi ciclico delle tre forme di governo (regno, aristocrazia, democrazia) e delle loro forme degenerate (tirannide, oligarchia, oclocrazia). Cerca quindi la conferma di tale dottrina attraverso l’analisi storica comparata.

Polibio muove dal comune presupposto che le forme di potere sono forme di dominio. Egli dice: «è inevitabile che chi si distingue per forza fisica e per ardimento, prevalga e domini… gli uomini, come gli animali si raccolgono e seguono i più validi e potenti: la forza segna il limite del dominio di questi, che si può chiamare monarchia» 90, la quale è intesa come oppressione di un capo, in contrapposizione al regno. Ma subito emerge il grande e acuto contributo dell’analisi polibiana. Il nostro autore attribuisce la grande efficienza e stabilità della costituzione di Roma repubblicana alla accorta distinzione dei poteri, divisi fra: consoli, incaricati del potere esecutivo e del comando militare; senato, detentore del controllo delle entrate e delle spese, della esecuzione delle opere pubbliche; delle relazioni con l’estero; il popolo, “arbitro dell’assegnazione degli onori e delle punizioni” e delle cariche pubbliche, approvava le leggi, decideva su pace e guerra e sui patti di alleanza. Polibio svolge una analisi stupenda e straordinariamente anticipatrice del ruolo di garanzia e di moderazione espletato dalla divisione dei poteri, attraverso l’opposizione e il reciproco controllo dei vari organi dello stato. A questo riguardo, egli sottolinea che i consoli non possono fare a meno del senato per l’approvazione delle spese di guerra e perché ha competenza sulla loro conferma o sostituzione al termine dell’incarico annuale e sul finanziamento dei trionfi del comandante militare vittorioso. Inoltre, i consoli hanno bisogno del consenso popolare, che sanziona i trattati di pace. Infine, allo scadere del mandato, debbono render conto del loro operato, e di nuovo cadono sotto la giurisdizione del senato e del popolo. Per parte sua, il senato non può prescindere dalla volontà popolare, che approva le leggi, è parte in causa nei processi per i più importanti reati politici e, tramite i tribuni, può interporre il veto alle decisioni e sedute del senato. Al tempo stesso, il popolo ha bisogno del senato che, come già detto, controlla le spese pubbliche e, in particolare, l’esecuzione delle opere pubbliche e che, inoltre, elegge i giudici dei processi privati e pubblici di considerevole importanza. Tutto ciò fa dire a Polibio che: «il rapporto fra le diverse autorità è così ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana…Se difatti uno

90 Cfr. Polibio, Storie, Mondatori, Milano 1998, pag. 439

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degli organi che lo costituiscono (costituiscono lo stato) diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l’uno all’altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa. Ciascuno dunque si tiene nei limiti prescritti o perché non riesce ad attuare i suoi piani o perché fin da principio teme il controllo degli altri»91.

Presto la crisi della Repubblica, inevitabile conseguenza del grande e rapido processo di espansione territoriale e delle collaterali trasformazioni che inflissero un immenso travaglio all’impero nel II e I secolo a. C., avrebbe confermato la teoria degenerativa polibiana delle forme di governo. Ma il processo di riorganizzazione che seguì fu lungi dal convalidare tale teoria. Polibio ignorava che esistono delle forme di potere e di governo assai diverse da quelle considerate dal pensiero politico greco (ad esempio quelle di tipo orientale), che possono vivere assai a lungo e talora illimitatamente. Ad ogni modo, l’analisi di Polibio, al di là del suo tema specifico concernente la costituzione repubblicana, aiuta a comprendere il pensiero politico romano coevo di quella forma di governo assolutamente peculiare che fu il Principato augusteo. Più in là, la trasformazione dell’impero nello stato burocratico e centralizzato ci condurrà in un pianeta del tutto estraneo alle speculazioni dei greci e assai importante per la sua grande estensione a scala planetaria.

b) Le nozioni di potere politico e di sovranità proprie del Principato augusteo Vediamo delinearsi in questo caso una teoria del potere nata dalla pratica di questo

nel governo dello Stato. Riveste grande importanza l’analisi del peculiare concetto di potere politico e di sovranità incarnati dall’ordinamento romano del Principato. Abbiamo visto nella prima parte che tale ordinamento costituì una straordinaria invenzione per il governo di una società aperta. L’idea del principato auctoritate costituì una geniale trovata di Ottaviano, che consentì di legittimare i suoi grandi poteri, indispensabili alla coesione dell’impero, e di avvolgerli in una nube di ambiguità, così da preservare il consenso e la fiducia dei romani, gelosi delle libertà repubblicane.

Il concetto di auctoritas ha assunto nel diritto una varietà di significati, tutti però espressivi di un ruolo protettivo e integrativo di capacità: esattamente quel che occorreva ad una repubblica lacerata dalle lotte di fazione. Tale concetto permise l’edificazione di «un modello di stato la cui peculiare e fondamentale caratteristica risiede proprio nel tipo di potere, ai margini della costituzione e contemporaneamente al centro di essa, riconosciuto al principe»92. Ne derivò un esercizio accorto ed efficiente del potere politico in una difficile fase di transizione, nonché la stabilizzazione dello stato per circa un secolo, attraverso la trasmissione dell’auctoritas principis nell’ambito della famiglia Giulio-Claudia; ma non attraverso una successione ereditaria che avrebbe costituito un inaccettabile allontanamento dalla tradizione repubblicana, bensì in base al principio dell’investitura.

I padri coscritti del senato vennero trattati con grande rispetto; essi conservarono prestigio e potere rappresentativo. Il consolato, i tribuni della plebe e le elezioni popolari vennero formalmente mantenuti in vita, come pure la durata annuale delle cariche e la loro collegialità. Ma tali istituzioni vennero depotenziate; esse non incarnavano più la divisione dei poteri e il reciproco controllo di questi, celebrati da Polibio; su tutto sovrastava la grande e indefinita autorità del principe.

91 Cfr. Polibio, Ibidem, pagg. 448 e 44992 Cfr. F. Lucrezi, Leges super principem. La monarchia costituzionale di Vespasiano. Casa Editrice Eugenio Jovene, Napoli, 1982, pag. 28

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Tacito, pur grato per i servizi resi da Ottaviano alla sopravvivenza dello stato romano, lamentava che il princeps non aveva restaurato, complice il lassismo dei romani, le libertà repubblicane, bensì sostituito il proprio potere personale a quello di una fazione. Ma si tratta di un potere personale sui generis, bisognoso, come già visto, della virtus del principe e che, inoltre, incontrava dei limiti riequilibratori nel potere e negli interessi della aristocrazia senatoria grande avversaria, fino alla disgregazione dell’impero e del potere imperiale. La diminuzione sostanziale del grado di libertà rispetto all’epoca repubblicana venne addolcita da una equanimità maggiore di quella conosciuta in tale epoca. I limiti del potere furono assicurati assai più dal buon senso dei governanti che da appositi meccanismi istituzionali.

Si registrarono degenerazioni dispotiche ad opera di esponenti della "dinastia" Giulio-Claudia, che però colpirono cortigiani e uomini di palazzo ma non furono avvertite dal grande apparato dello stato e furono, infine, stroncate dal dissenso senatorio. Ma la damnatio memoriae che colpì Nerone dopo la sua morte spazzò via la forza coesiva e legittimante del principio dell’auctoritas principis incarnata nella domus Augusta. Occorreva ripristinare il principio di autorità su basi diverse e meno ambigue.

La guerra civile che seguì alla caduta di Nerone mise in evidenza una profonda crisi dell’impero. Quasi come al tempo di Mario, l’esercito era tornato ad essere protagonista di aspre contese; le popolazioni delle province (specie quelle orientali) e nuove classi sociali bussavano alle porte per essere più equamente integrate nella vita dell’impero; le finanze dello stato erano in sfacelo; in particolare, era andato in frantumi il delicato meccanismo augusteo che, abilmente coniato in una situazione di emergenza, collocava l’imperatore al di fuori della legge, extra ordinem rei publicae, e che aveva conferito alla domus Augusta un ruolo di protezione sul governo dello stato e una supremazia auctoritate. Tornava a diffondersi nei romani un acuto desiderio di ordine e certezze. Vespasiano fu l’abile interprete di queste esigenze. Le sue riforme fecero compiere al meccanismo del potere politico un salto di qualità Esse determinarono la transizione dalla fase del potere extra ordinem del princeps ad un potere sovrano meglio precisato sotto il profilo giuridico-istituzionale. Non vennero ripristinati, se non per aspetti marginali, la divisione e il controllo reciproco dei poteri evidenziati da Polibio. Ciò avrebbe richiesto l’approfondimento del delicato concetto di sovranità. Tale concetto rimase ravvolto nell’ambiguità di una concezione dell’auctoritas del principe che andò evolvendo secondo le esigenze organizzative dell’impero, ma sempre restando nell’indeterminatezza.

Vespasiano non era un discendente di Augusto; era un uomo della piccola borghesia italica. Il suo adventus segnava una netta rottura con il principio di legittimazione successoria invalso con la famiglia Giulio-Claudia; era il frutto del colpo di stato di un comandante militare che, con il favore delle province orientali, aveva umiliato l’aristocrazia senatoria, confusa ed impotente di fronte alla sua ascesa. Egli non poteva né intendeva negare questi fatti, espressione di tempi nuovi e delle pressanti esigenze di riorganizzazione dei meccanismi del potere93. La propaganda della parte Flavia aveva abilmente sottolineato le straordinarie capacità del nuovo sovrano e proclamato il suo ruolo salvifico, anche diffondendo notizia di segnali celesti che ne avrebbero propiziato l’avvento. Ma Vespasiano, organizzatore accorto e prudente, sapeva che tutto ciò non era sufficiente a legittimare la sua autorità conquistata militarmente, e a stabilizzare il governo dello stato. Occorreva una precisa formulazione giuridica e per legge della potestà del nuovo sovrano, che rimediasse al venir meno del ruolo protettivo espletato in precedenza dalla domus Augusta. A ciò provvide la lex de imperio Vespasiani, probabilmente in origine un senatus consultum, poi votato dai comizi popolari94. Tale approvazione comiziale intese riaffermare il principio di legalità repubblicana, secondo cui la sovranità

93 Tanto che considerò dies imperii (primo giorno del suo impero) il primo luglio del 69 d. C., allorché il giuramento in suo favore delle legioni d’Egitto avviò la sollevazione contro Vitellio)

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trovava la sua origine nel popolo: un principio che sempre condizionerà i meccanismi successori nell’impero romano, estendendo i tentacoli del concetto di elettività dell’imperatore fino all’epoca bizantina, e che testimonia una delle più grandi mistificazioni conosciute dal concetto di sovranità popolare nel corso della storia.

Gli studiosi hanno fornito contrastanti valutazioni del contenuto, dello scopo e del significato della lex de imperio; i contrasti sono stati accentuati dal fatto che è andata perduta la parte iniziale dell’epigrafe in cui è scolpita la legge. Ma è fuori di dubbio che questa non pose fine all’ambiguità del concetto romano di sovranità. La struttura della lex de imperio Vespasiani esprime anzi una forte e probabilmente voluta ambiguità sui poteri del principe. Il famoso articolo 6 della legge, o "clausola discrezionale", conferisce all’imperatore il diritto e la potestà di fare tutto ciò che ritiene necessario ex usu rei publicae, configurando così la nascita di un forte potere autocratico, in barba al popolo e con la benedizione del voto popolare.

In verità, questo ampio potere discrezionale appare smentito dai fatti storici, ed è inoltre contraddetto dagli altri articoli della tavola a noi pervenuti, che specificano i contenuti del potere imperiale in: politica estera, rapporti con il senato e potere imperiale di direttiva e controllo dei patres , legalità di tutte le sedute da lui promosse, anche se in violazione di norme procedurali, elezione extra ordinem di candidati alle magistrature raccomandati dall’imperatore, e infine fare tutto quello che fu consentito ad Augusto, Tiberio e Claudio ed esenzione dalle leggi e plebisciti da cui questi imperatori furono esentati. Tutto ciò fa sembrare che la lex de imperio abbia voluto attribuire per legge all’imperatore i poteri già informalmente esercitati dai predecessori. Come che sia, la lex esprime un chiarimento del concetto di sovranità e costituisce una importante riforma istituzionale, che fa discendere la suprema autorità dalla legge anziché dal prestigio, e ribadisce il principio di sovranità popolare. Nondimeno, è innegabile che i contenuti della sovranità restano volutamente avvolti nell’ambiguità, come sancisce la clausola discrezionale. Inizia di qui un’evoluzione del concetto di autorità imperiale verso approdi assai lontani da quella coniata dal divo Augusto e basata sul prestigio. Nel corso del tempo, si assisterà a un progressivo aggiramento della sovranità del popolo in prò del ruolo legislativo dell’imperatore. Senza rinnegare la repubblica, iniziava la lunga transizione di Roma verso l’autocrazia del Dominato.

Resta in vigore, per il momento, il principio della leges super principem, insito nella lex de imperio, che verrà riaffermato da Traiano, dopo il prematuro tentativo eversivo di Domiziano, ma più a parole che nei fatti. In realtà, il sovrano verrà sempre più a trovarsi in una posizione di pari grado rispetto alla legge. Con Adriano, la potestà legislativa dell’imperatore inizierà a "debordare". Il princeps, che nel regime costituzionale di Augusto era un tutore e protettore della repubblica sito al di fuori della costituzione ma con un potere che di fatto non poteva far violenza ai meccanismi costituzionali, con la lex de imperio fa ingresso a pieno titolo nei poteri costituzionali dello stato; ciò apre la strada al princeps super leges. L’auctoritas del sovrano non scaturisce dal carisma personale ma diventa sempre più un potere coercitivo, conferito alla posizione che l’ordinamento costituzionale assegna all’imperatore. Dagli eccessi di Domiziano venne travolto il meccanismo della successione dinastica che Vespasiano si era sforzato di introdurre. Invece, si consolidò il principio dell’adozione da parte dell’imperatore del suo successore in base a distinte qualità dell’adottato che, come affermò Galba, era chiamato «a comandare su uomini incapaci di essere schiavi fino in fondo e fino in fondo liberi».

Sopravvissero delle forme, ancorché labili, di bilanciamento dei poteri. Ad esempio, alla raccomandazione imperiale delle candidature a pretore e a console faceva da

94 La docile approvazione, da parte dei due organi legislativi (senato e popolo) di un identico testo, emanante dalla volontà del princeps, testimonia un inizio di esautoramento del senato e dei comitia. In prosieguo di tempo, il potere legislativo si trasferirà, gradualmente ma irresistibilmente, sempre più nelle mani del princeps

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contraltare la scelta di tali candidature a cura di senatori e cavalieri. Ma si trattò di poca cosa, di un mascheramento dei grandi poteri del principe e non di una sistematica e acuta divisione dei poteri tesa a limitare le capacità di disposizione del monarca nel contesto di una sorta di monarchia costituzionale che preservasse realmente le libertà repubblicane.

Stupisce che su queste ambiguità del concetto di sovranità abbia potuto prosperare per secoli un potere politico e un ordinamento istituzionale aperti, benevoli ed efficienti, ma inflessibili contro i contravventori della legge, come mai più ne verrà conosciuto dall’umanità fino ai nostri giorni: un ordinamento dalle grandi potenzialità evolutive, purtroppo restate soffocate dalla stazionaria civiltà greco-romana.

L’ordinamento repubblicano, con i sapienti meccanismi di divisione e controbilanciamento dei poteri, celebrati da Polibio, degenerò in accanite guerre civili, in lotte particolaristiche, e in una crisi che l’ambiguo ordinamento del Principato seppe superare con un successo perfino eccessivo. Il senso della legge, il senso pratico e dell’organizzazione propri dei romani, lo spirito di servizio ed il buon senso dei loro governanti, spiegano tale successo. Cogliamo qui un avvertimento per i costituzionalisti di tutte le epoche: la soluzione del problema del potere richiede assai di più della divisione dei poteri. Avvertimento che diviene perentorio allorché si riflette sul fatto che fu l’affermarsi della funzione normativa delle costitutiones principum (la legislazione imperiale) a consentire alla visione cosmopolita e universalistica degli imperatori di perfezionare quel memorabile sistema di autonomie che fu l’ordinamento municipale, e chiarire la questione delle relazioni fra Roma e le comunità delle province espressa dalla distinzione fra civitas e populus, che l’esclusivismo e il particolarismo dei comitia (causa principale della guerra italica) non avrebbe mai consentito. Nella equivoca distribuzione dei poteri, costituente una area grigia da cui emerge con crescente chiarezza l’indefinita autorità dell’imperatore, si staglia questa luminosa peculiarità del Principato, che incarna un fecondo sistema di autentiche libertà. Sotto Adriano, l’ordinamento municipale conseguì una coerente regolamentazione, la quale sottolineava il diritto dei municipi di autogovernarsi sulla base dei loro costumi e leggi, nel rispetto del principio di unità dell’impero. Tale autonomia municipale trovò ampia e convinta applicazione nella pratica, e fornì l’impero di un ordinamento flessibile e ricettivo. In pari tempo, assicurò una sentita coesione dell’area mediterranea, sotto la sovranità di Roma: una amministrazione pubblica leggera ed efficiente, in grado di combinare con impareggiabile coerenza tale sistema di autogoverno con il rispetto della legge e dell’ordine costituito. Il concetto romano di libertas, cioè libertà intesa come insieme di diritti e doveri nel rispetto delle leggi vigenti, la repulsione da parte dei romani della licentia (libertà senza limiti) tipica della nozione di libertà (eleutharia) conosciuta dai greci, il senso civico e del dovere, costituirono l’eredità di valori che assicurò il grande prestigio, la temperanza e morigeratezza del sistema di potere del principato, nonostante la crescente concentrazione di potere nelle mani dell’imperatore e della sua burocrazia.

c) Evoluzione verso il dispotismo dell’ordinamento burocratico centralizzato nel tardo impero romano

Ma la flessibilità e l’inerente ambiguità dell’ordinamento istituzionale romano erano a doppio senso. Coniugati al senso pratico e dell’organizzazione romani, si prestarono a consentire una profonda mutazione dei meccanismi istituzionali, sollecitata dalla necessità di salvare l’unità dell’impero.

La mirabile organizzazione politico-amministrativa del Principato era troppo impregnata dai particolarismi della società mediterranea e troppo aperta per poter garantire una sua illimitata conservazione nel mondo quasi-stazionario di allora. Per questa ragione, la decadenza nel corso del tempo delle forme di governo, teorizzata dai greci, doveva

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infine riproporsi anche nel Principato. Seguì un lungo e difficile periodo di ristrutturazioni e di ridefinizione del potere del sovrano, che diede vita anche nell’impero romano alla nascita di quella forma di potere che, come vedemmo, è tipica dei grandi imperi sorti nelle società quasi-stazionarie del passato in quanto più adatta alla persistenza di essi: l’organizzazione burocratico-centralizzata95.

Non esiste nella letteratura del tardo impero una lucida teoria di questa nuova forma di potere. Essa nacque dalla esperienza e consapevolezza di grandi uomini d’azione, al termine di un lungo, travagliato e, per certi aspetti, fortunoso processo di tentativi ed errori. Il pensiero di giuristi e politologi si sforzò piuttosto di conciliare le nuove forme di governo con l’impero del Principato, di farli apparire come la continuazione del primo, a dispetto della diversità radicale fra i due. E potette farlo alquanto agevolmente. Gli elementi di equivoco che contraddistinsero il Principato, in specie nel campo dell’autorità del princeps imperatore, favorirono la legittimazione di questa pretesa continuità, cioè l’estrazione del Dominato dall’ordinamento giuridico precedente. Dalla clausola discrezionale della lex di imperio, Ulpiano, giurista della monarchia militare dei Severi, poté agevolmente dedurre la statuizione: quod principi placuit, legis habet vigorem e che, votando tale legge, il popolo ha trasferito nel princeps ogni proprio imperio e potestà. Veniva così celebrata una delle più sfacciate beffe della sovranità popolare, cioè di un concetto che ha forse subito le maggiori manipolazioni e conosciuto le maggiori strumentalizzazioni di quanti la storia ne ricordi.

Vedremo che l’equivoco sul concetto di sovranità insito nella nozione di potere politico espressa dalla lex de imperio Vespasiani che Ulpiano chiamò lex regia , dopo aver legittimato l’ordinamento del Dominato, riemergerà con la riscoperta, in epoca medievale, del diritto romano nella veste che aveva nell’ordinamento autocratico di Giustiniano. Tale veste depotenzierà la fecondità che la predetta riscoperta possedeva in un mondo pullulante di poteri autonomi, diritti di resistenza ecc., molto propizi a conciliarsi con le aperture costituzionalistiche del diritto romano e a valorizzarle. Nel contesto delle concezioni politiche maturate nel tardo impero, un elemento di rottura rispetto al passato, inizialmente flebile, è rappresentato dall’accettazione del cristianesimo quale chiesa di Stato, con i suoi riflessi sulla concezione del potere politico. Ma di ciò si dirà fra breve.

CAPITOLO VIConcezioni pre secolari del potere nel mondo monoteista

1. Il potere nel pensiero ebraico, cristiano e mussulmano,

a) Ebraismo e potere: Tendenze dinamico-evolutive, concezioni antiteocratiche, attivismo e profetismo ebraici

A fondamento dell’ebraismo è il patto stipulato con Jahvè dal popolo di Israele e la

"elezione" di questo popolo a depositario e custode della "Legge di Dio". Questo concetto di elezione non ha contenuti esclusivistici o, peggio ancora, razzisti, come può lasciare intendere la chiusura del popolo ebraico in un esasperato particolarismo, nella disperata difesa della sua identità e sopravvivenza. Nel Talmud si dice che Dio offrì le sue leggi anche agli altri popoli; essi però le rifiutarono. Solo Israele le accettò, ma non per tenerle in esclusiva, bensì per difenderle e farne partecipe il mondo intero.

95 Questi aspetti sono ampiamente trattati in : Fusari A., L’avventura umana, Edizioni SEAM, Roma 2000

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Non ha riscontri nelle altre religioni l’idea di un patto con Dio, che è all’origine sia delle sventure, sia dell’eccezionale capacità di sopravvivenza del popolo ebraico contro tutto e tutti. Qui ci concentreremo sulle implicazioni di tale idea sul sistema di potere e sulle attitudini evolutive di questo.

L’idea di patto con Dio (berit) è scaturita, con tutta probabilità, principalmente da ragioni di autodifesa e coesione interna. Precisamente: fu uno strumento di difesa dell’unicità e sopravvivenza del gruppo rispetto alle nazioni circostanti, ma questo aspetto solo più tardi balzerà in primo piano; soprattutto, fu strumento per amalgamare e galvanizzare il popolo nelle lotte contro le città stato cananee, nel corso delle operazioni di conquista della Terra Promessa. Sottrarsi a servire militarmente nella confederazione delle tribù impegnate in una "guerra santa" era come negare l’appoggio a Dio, contraente del patto. L’unicità del Dio degli eserciti era garanzia di unità nazionale; la presenza, nelle operazioni militari, dell’arca dell’alleanza incitava e rincuorava i combattenti. Ciò permise a un esercito di contadini che combatteva a piedi, guidato da capi che cavalcavano un asino bianco, di prevalere contro ben più armati eserciti di cavalieri montati su carri.

I rapporti di Dio con Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe si sostanziano in una serie di patti; il più importante di tutti è quello stipulato con Dio da Mosè sul monte Sinai. Non è semplicemente un patto garantito da Dio, ma con Dio in prima persona quale controparte. La struttura del patto non è nuova; ha forti somiglianze con i trattati di vassallaggio stipulati dai grandi sovrani orientali: enunciazione dei titoli del sovrano e degli impegni del contraente, maledizioni per inadempienze e benedizioni per la lealtà del vassallo. L’originalità sta nell’ardimentosa pretesa di stipulare un patto di alleanza con Dio in persona, che vi figura come un despota imperiale. Dopo il prodigio del Mar Rosso, Jahvè fa dire al popolo di Israele da Mosè: «Voi stessi avete veduto quello che ho fatto agli Egiziani, e come vi ho portato quasi sopra ali d’aquila, e v’ho fatto miei. Se dunque ascolterete la mia voce e custodirete il mio patto, sarete il mio tesoro fra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra. Voi sarete per me un regno sacerdotale, un popolo santo»96. Sembra il dettato di una teocrazia in piena regola, tanto più in quanto espresso da un Dio geloso e iracondo, pronto a trasformare la protezione in severe punizioni in caso di violazione del patto; lo sembra ancor più se si pensa al dettaglio dei 613 comandamenti che formano la legge ebraica per eccellenza, l’halakà.

Il ricordo dei prodigi che sottrassero gli Israeliti alla schiavitù in Egitto avrebbe sempre ravvivato, nel corso delle aspre vicende del popolo israelita, la fedeltà a questo singolare patto di alleanza, che imponeva normative indispensabili alla vita in società con la perentorietà del comando divino e poneva l’indipendenza del popolo eletto sotto la tutela del Dio signore dell’universo. La cosa singolare è che i risvolti di questo patto di ferro sul sistema di potere furono completamente diversi da quelli che ci si aspetterebbe. Esso non diede vita a una teocrazia, ad un potere chiuso ed oppressivo. Al contrario, ha sprigionato potenti e preziose energie dinamico-evolutive che, alla prova dei fatti, hanno costituito uno dei maggiori propellenti per lo sviluppo delle società umane. È indispensabile esaminare le ragioni di questi strani esiti, per poter comprendere aspetti decisivi delle forme di potere affermatesi nel mondo monoteista.

Una causa fondamentale della inerente apertura delle forme di potere suscitata da un patto di cui fa impressione la perentorietà dispotica sembra risiedere proprio nei caratteri all’apparenza più rozzi e primitivi della dottrina religiosa vetero testamentaria, e precisamente nell’immagine di Dio da essa configurata e nello stretto coinvolgimento della fede in Jahvè nelle cose terrene. L’immagine del Dio del patto è contrassegnata da tratti spiccatamente antropomorfici, malgrado il divieto di rappresentarla e l’impronunciabilità del nome di Dio. È un Dio dei lampi e delle tempeste, assiso su un’alta montagna, che soffia e abbatte, collerico con i disobbedienti, in guerra assetato del sangue

96 Esodo XIX, 4-6

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dei nemici, geloso, dal cuore passionale e mutevole. Solo più in là, per influenza delle culture circostanti, maturerà una evoluzione verso il concetto di un Dio benigno, regolatore dell’universo; ma non venne mai meno l’idea di Jahvè quale sovrano dispotico che fa il diritto.

Non vi è traccia nella letteratura etica ebraica della nozione di un ordine eterno e perfetto delle cose e dei conseguenti sviluppi di un diritto naturale. La concezione di Dio basata su criteri etici e di un’etica valida in eterno, che si svilupperà assai più tardi e gradatamente, ad opera degli intellettuali, non è congeniale all’ebraismo, che ha sempre diffidato del logos greco, di un mondo delle idee dotato di esistenza autonoma e della concettualizzazione astratta della realtà. Jahvè è un Dio dei destini politici, un signore cui si deve obbedienza, non un oggetto di contemplazione. Egli pone non un diritto naturale bensì un "diritto positivo", e lo può mutare a suo piacimento. Invitato da Giobbe a spiegargli il perché delle ingiustizie umane, non dice nulla in difesa del suo ordine; si limita a dar prova della sua grandezza e potenza. Ha scritto Weber molto espressivamente che Jahvè «Era e rimase sempre il Dio della liberazione e della promessa. Ma il fatto importante è che tanto la liberazione quanto la promessa riguardavano questioni politiche e attuali e non cose del mondo interiore…il diritto positivo di Israele era stato creato da un berith concreto con la divinità; non era sempre esistito e poteva essere cambiato da nuove rivelazioni e nuovi berith con Dio…il diritto non era un tao o un dharma eterno ma un’istituzione divina a carattere positivo sul cui contenuto Jahvè discuteva… Le disposizioni di Dio sono nelle sue mani e per loro natura sono mutevoli. Egli si può vincolare ad esse mediante un berith ma ciò è il risultato di una libera decisione della sua volontà… L’ordinamento sociale del mondo era il contrario di quanto era promesso per il futuro e nell’avvenire doveva essere nuovamente rovesciato così che agli ebrei potesse toccare nuovamente il loro posto come popolo dominatore della terra»97.

È facile intendere il significato dinamico-evolutivo di queste concezioni e l’intrinseca instabilità delle forme di potere che implicano. La concezione dei rapporti con Dio attivistica e modellata su uno stretto rapporto con la realtà, l’assenza nell’ebraismo di una teodicea e delle inclinazioni mistico-contemplative tipiche delle religioni misteriche ed estatiche, accentua in senso dinamico-evolutivo la predetta peculiarità del rapporto con Dio: Tale concezione dice "Faremo e udremo", prima il fare e poi l’ascolto… Il giudaismo è una dottrina dell’azione e dell’operosità. «Il giorno è corto, l’opera è molta, e gli operai sono pigri, e la mercede è grande, e il Padrone di casa sollecita»98.

L’interesse è per la vita, non per l’al di là, dove il defunto è un’ombra, privo di sangue e respiro, e il pensiero è spento. Quel che sopravvive è il buon nome. Lo shoel, cioè l’ade, non è opera di Dio. L’accentuazione di questo atteggiamento negativo per l’al di là, forse dovuto al desiderio di non subire contaminazioni dalla religiosità egiziana con il suo elaborato culto dei morti, ha indubbi risvolti attivistici. L’uomo è invitato a godere delle cose del mondo che, in quanto opera di Dio, sono tutte buone. È un peccato sfuggire il benessere materiale e, nonostante le raccomandazioni in favore della carità, la povertà è indicata come un demerito. «Dove non c’è farina non c’è Torah»99, intendendo che, in assenza del necessario per vivere, non c’è possibilità di penetrare la scienza concernente l’adempimento della volontà di Dio. La fuga dal mondo e l’ascetismo sono banditi. L’uomo deve vivere nel mondo, opera di Dio, e le istituzioni del mondo sono opera dell’attività umana in interazione con la volontà di Dio.

Gli studiosi dei processi storico-sociali hanno molto insistito sull’importanza, per lo sviluppo delle società umane, della concezione ebraico-cristiana della linearità del tempo storico, Ma non sono stati debitamente approfonditi l’importanza antistagnazionista di

97 Cfr. M. Weber, Sociologia delle religioni, Vol II, UTET, Torino, 1976, Pagg. 966, 961, 962 e 80498 Cfr. Aboth, II, 2099 Cfr. Aboth, II, 21

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questi altri aspetti delle credenze religiose ebraiche e gli ostacoli da essi frapposti allo stabilirsi di un sistema di potere totalizzante e immobilistico.

Le sorti della monarchia davidica sono un chiaro esempio della ostilità dell’ebraismo a forme di potere burocratico-centralizzato. Tale monarchia aveva edificato una entità statale ben strutturata, dai tratti quasi autocratici. Aveva creato una burocrazia con cariche riservate ereditariamente alla classe sacerdotale e diviso il paese in 12 distretti amministrativi, sostituito con truppe mercenarie l’esercito contadino dei gibborim, che provvedevano direttamente al proprio armamento. Nondimeno, tale struttura politica, pur protetta dal favore divino che ne avrebbe garantito l’eternità, anziché consolidarsi con l’andar del tempo, non tardò a sfaldarsi sotto il peso di interne contraddizioni alimentate proprio dall’idea (e dai contenuti) del patto. Il regno si frantumò sotto i colpi del malcontento popolare e delle veementi accuse dei profeti.

Il profetismo costituisce uno degli aspetti più significativi della intrinseca instabilità ed evolutività del sistema ebraico di potere. Corrispondentemente all’indebolimento del potere centrale della monarchia, crebbe l’ascendente dei profeti. Questi contestavano il regime burocratico edificato da Salomone, le sue compromissioni con culti e usanze esterni, la sua empia politica estera da grande potenza. Chiedevano l’abolizione dell’apparato burocratico, del lavoro servile, delle imposte gravose, del tesoro e dell’harem regi e dei regi funzionari. Pretendevano che il monarca fosse un primus inter pares, un principe che cavalca l’asino, difensore dei poveri. Inveivano contro la corruzione, l’ingiustizia e la parzialità dei giudici. Senza posa tuonavano contro le violazioni del patto stipulato con Jahvè.

La veemenza dei profeti trasformò l’idea del patto con Dio (che sembrerebbe il ferreo supporto di un regime teocratico) in uno strumento di contestazione del potere. I lampi delle loro predizioni annunciano sventure per Israele; esortano a ravvedersi e diffondono speranza in tempi migliori. Lanciano irose minacce, maledizioni e invettive. Amos urla "Il giorno del Signore sarà tenebre e luce". Osea, inorridito dal generale pervertimento, tuona contro il tradimento e l’infedeltà del suo popolo verso Dio. Isaia annuncia che la collera implacabile di Dio si abbatterà sui Giudei e Geremia preannuncia la cattività babilonese. Queste tremende invettive dei profeti superano di molto le asprezze delle lotte politiche nelle democrazie antiche e moderne. In verità, essi non si sentivano partigiani politici bensì portavoci di Dio. Ma, senza volerlo, entravano pesantemente nell’agone politico, agevolando o contrastando consorterie in lotta. La loro ispirazione religiosa agiva al centro di profondi contrasti di interesse. Parlavano su suggerimento di Dio e tutta la passione ed ira di Jahvè usciva dalla loro bocca. Non preconizzavano tuttavia una democrazia popolare; ritenevano che il popolo dovesse essere guidato nell’applicazione della legge di Dio.

I profeti israeliti costituiscono la più pura incarnazione della libertà di parola. Non proclamano la fuga dal mondo, la loro parola irrompe e scende nel mondo con veemenza; reclamano l’ubbidienza alla Torah, ma non sacrifici e rituale. In loro non c’è estasi mistica, né appagamento nella contemplazione di Dio; sentono di vivere in un mondo difficile, spietato e burrascoso. Agiscono individualmente, sono odiati e temuti. Girano con gioghi al collo e con corna di ferro, talvolta completamente nudi. Si incontrano e scontrano sulle piazze e nelle strade: profezia contro profezia; si lanciano invettive reciproche. Questo fenomeno nulla ha a che fare, per veemenza, contenuti e modalità di ispirazione, con gli oracoli del mondo pagano. Ha scritto Weber: «Da nessuna parte si trova la tradizione di una libera demagogia di estatici profetizzanti alla maniera dei profeti israeliti»100.

Emerge nella loro opera tutta la potenzialità destabilizzante, per gli assetti di potere, propria dell’idea israelitica di patto con Dio. Non annunciano nuovi comandamenti o

100 Cfr. M. Weber, Sociologia delle religioni, opera citata, pag. 1140

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nuove concezioni di Dio. Cosa è bene e cosa è male è stato detto. L’uomo non deve disubbidire alla Legge divina. Ma il fatto è che Dio interviene piuttosto tumultuosamente nel reclamare l’obbedienza a un patto i cui termini non sono definiti in maniera univoca ma sono oggetto di reinterpretazioni. È la mutevole volontà di un Dio despota che ispira i profeti. Il carattere imperioso del Dio ebraico vieta loro la pace interiore. Presi come sono da questioni terrene, non indugiano in speculazioni sulle ragioni del mondo e sull’al di là. Ha scritto B. Spinoza: «ebbero il dono profetico uomini rozzi e privi di cultura»101. Niente è più lontano dall’ottica dei profeti della costruzione di una teodicea. Scrive ancora Spinoza: «Senza dubbio uomini di tal genere potevano trar facilmente dalla loro parte un popolo che fosse oppresso e indurlo a credere tutto ciò che volessero con l’aiuto di segni anche di scarso valore»102. Da questa tradizione profetica il mondo monoteista ha mutuato profonde venature "democratiche e libertarie". Non si capiscono le forme di potere conosciute dai popoli monoteisti e gli esiti fortemente evolutivi vissuti da una parte di essi, senza tener presenti queste peculiarità della religiosità ebraica e limitandosi a guardare esteriormente l’idea apparentemente teocratica di patto con Jahvè.

Per completare il quadro degli strani risvolti sul sistema di potere dell’idea israelitica di berit e di ubbidienza alla alleanza stipulata con Dio, sarà bene portare l’attenzione anche sull’altro aspetto del culto di Jahvè, avverso al profetismo e che sembrerebbe dover esprimere i risvolti teocratici della custodia dell’arca dell’alleanza: il potere sacerdotale.

L’antica lega israelitica non disponeva di un culto centralizzato. Il potere sacerdotale dei Leviti era dovuto principalmente alle loro capacità rituali, essendo la correttezza dei riti decisiva per porgere quesiti a Jahvè e allontanarne la collera. Il Deuteronomio incita a portare i giudizi davanti ai Leviti.

Più in là, la monarchia di Salomone creò la classe sacerdotale ereditaria dei discendenti di Sadoc. Ma il potere sacerdotale dovette sempre fronteggiare accanite contestazioni e mai riuscì ad approssimare l’edificazione di un ordinamento teocratico.. Israele non conobbe una potente casta sacerdotale, del tipo di quella egiziana o mesopotamica con i loro culti e conoscenze esoterici.

Dopo il ritorno dall’esilio babilonese, i rimpatriati, ricchi di dottrina e di riflessioni sulla Torah, dovettero lottare con le "genti del paese" (i contadini, che non erano stati deportati a Babilonia) ostili a questi discendenti della aristocrazia urbana, da cui erano stati oppressi; a stento poterono essere persuasi a ricostruire il Tempio. Con la restaurazione della legge mosaica (Legge di Dio) ad opera di Esdra, il sacerdozio diviene la suprema autorità del Paese, sotto la tutela persiana. La Legge di Dio è la fonte basilare del diritto e del rituale. Scribi, sapienti e Dottori della Legge sono incaricati di applicarla e adeguarla alle necessità dei tempi. Ma significativamente questo predominio del clero di Gerusalemme, preservatosi a lungo sotto i vari dominatori stranieri, configura una teocrazia solo di facciata. La crisi del II secolo a. C. vede vari aspiranti alla carica di pontefice fare a gara per ottenere la designazione dai sovrani seleucidi, offrendo loro aumenti del canone. Questi pontefici, ritenuti illegittimi dopo l’assassinio di Onia III, divennero tanto più impopolari in quanto avevano ottenuto per i ricchi israeliti loro partigiani lo statuto di cittadini di una città ellenistica, con le relative istituzioni. L’ostilità popolare a questa classe detta degli "Antiochiani di Gerusalemme" e la compromissione con l’ellenismo da essa incarnata, esprimono tutta la labilità del potere sacerdotale. Si giunse così al 168 a. C., anno in cui Antioco IV, intervenuto per reprimere una rivolta contro il pontefice massimo Menelao, abrogò l’autonomia di Gerusalemme e la Legge di Dio e adibì il Tempio a culti pagani. In tale sfacelo, fanno la prima comparsa gli scritti apocalittici; ci si consola con l’idea del "giudizio finale".

101 Cfr. B. Spinoza, Etica e trattato teologico-politico, TEA, Milano, 1999, pag. 418102 Cfr. B. Spinoza, Ibidem, pag. 682

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La vittoriosa guerra di liberazione di Giuda Maccabeo porterà al potere la famiglia degli Asmonei, con autorità sacerdotale e temporale. Rinasce la monarchia e, sotto Alessandro Janneo, lo stato ebraico, profittando della crisi dei Seleucidi, ragginge una estensione mai più toccata dopo le conquiste di Davide. Ma le divisioni della società ebraica restano profonde, al punto che è sufficiente una inavvertenza del sommo sacerdote nell’eseguire il rituale del Sukkoth a scatenare una sommossa a Gerusalemme. Gli Asmonei debbono destreggiarsi fra: a) I Sadducei, che rappresentano i ceti privilegiati, ancorati alla vecchia tradizione del giudaismo; essi respingono le innovazioni e sostengono una applicazione letterale della legge mosaica, fissata per sempre dal Pentateuco; b) ed i Farisei, che chiedono l’abdicazione del re dal pontificato in nome della separazione tra ruolo sacerdotale e temporale e infine la ottengono; essi rappresentano gli strati più umili della società, in specie l’artigianato cittadino, contestano ai sacerdoti l’interpretazione esclusiva della Torah, contrappongono all’autorità sacerdotale l’opera dei loro rabbini e non considerano essenziale il culto del Tempio103. I contrasti nella famiglia degli Asmonei portano infine alla abolizione della monarchia, ad opera di Pompeo Magno, e allo smembramento dello stato ebraico.

Traendo le fila di questo breve excursus storico sul potere sacerdotale, possiamo dire che l’esercizio di tale potere fu in tutto una lotta di sopravvivenza, fra opposizioni e conflitti; mai riuscì ad instaurare una vera teocrazia. L’immagine di Dio, l’idea di patto, lo stretto legame della religione con le cose del mondo e la diffusione alle masse dei precetti etici e religiosi, l’assenza di una teodicea e di culti esoterici, impedivano l’affermarsi di una casta sacerdotale e di poteri teocratici. Significativamente, solo il farisaismo, ostile al potere sacerdotale, diede vita ad una sorta di casta legata ad obblighi rituali, dato che considerava alcuni mestieri riprovevoli per la purezza rituale. La storia dell’ebraismo, tra rivolte, disgregazione, esilio, restaurazione, è una lotta incessante per la sopravvivenza, tesa a preservare l’entità ebraica; in tutto ciò, il patto con Dio agisce da fattore dirompente, non da codificazione eterna ed immutabile.

L’opera dei farisei, con la sua versatilità nell’interpretazione della "Legge", conferma il potenziale innovativo e destrutturante insito nella religiosità ebraica. Da tale opera prese le mosse l’importante nozione di Torah orale, che avrebbe fornito il soffio vitale all’ebraismo della diaspora. Gli sviluppi della Mishna-Talmud, accantonata la pretesa di una rigida ed immutabile codificazione della "Legge di Dio", sono giunti a configurare una sorta di sovranità popolare nell’interpretazione della Torah. «Mosè disse dinanzi a Lui: "Sovrano dell’universo: Fammi conoscere quale è la decisione finale di ciascun argomento della Legge". Egli rispose: "Bisogna seguire la maggioranza: Quando la maggioranza dichiara una cosa permessa è permessa, e quando la maggioranza la dichiara proibita, è proibita; così la Torah sarà suscettibile di interpretazione con quarantanove punti pro e quarantanove punti contro"»104. La Torah orale è divenuto un dogma centrale del giudaismo. In base ad essa, Mosè non ha trasmesso per iscritto i precetti affidatigli al momento della Rivelazione, né la interpretazione di essi. Ha insegnato oralmente il commentario a Giosuè, ai sacerdoti e all’intero Israele. Si è giunti a sostenere che la Torah è per sua natura orale e lo scritto funge da promemoria, che essa è un’eco della parola divina. La trasmissione per via orale, attraverso le generazioni, ha implicato arricchimenti interpretativi, in linea con l’esperienza e le mutevoli esigenze della vita. Sono stati gli studi incessanti e approfonditi della Legge, che per gli ebrei restati privi di patria rimaneva l’unico segno di identità, a consentire la sopravvivenza dell’ebraismo. Tanto più che le Scritture, essendo state adottate anche dal cristianesimo, non bastavano a salvaguardare la specificità del popolo ebraico.

103 Per questo motivo, dopo la seconda distruzione del Tempio ad opera dei romani, a sopravvivere sarà solo il giudaismo fariseo.104 Cfr. p. Sanh, 22a

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Nella duttilità dell’insegnamento rabbinico, sviluppato con accanita tenacia nel corso della diaspora, non c’è alcunché di teocratico. Piuttosto, vi si scorge una immensa apertura intellettuale. Al popolo di Israele che chiedeva a Mosè cosa sarà il Mondo Avvenire, il profeta rispose: «Non so che dirvi. Siate felici per ciò che vi è preparato»105. Si impose l’idea che il Mondo Avvenire, senza ineguaglianze e illuminato dalla giustizia divina, va preparato e che occorre prepararsi ad esso. «Questo mondo è come un vestibolo che precede il Mondo Avvenire; preparati nel vestibolo per entrare nella sala»106. Inizia l’attesa della venuta del Messia, in una data che sarà sempre più considerata come indeterminata. L’espressione: «Io, il Signore, a suo tempo l’affretterò»107, interpretata nel senso: se sarete degni l’affretterò, coniuga l’attesa e la preparazione del mondo. Dio, per portare a termine la sua opera (lasciata volutamente incompiuta), ha bisogno della collaborazione dell’uomo. Sarebbe compito del popolo ebraico preservare la "Legge" e preparare il mondo all’instaurazione del regno di Dio in terra, che avverrà nell’era messianica.

Non c’è traccia, nelle civiltà antiche, di una altrettanto grande apertura al movimento evolutivo, al divenire della società. Il "progredire" del mondo ha un debito immenso nei confronti di queste elaborazioni dottrinali.

Le acute disquisizioni della dottrina talmudica, se da un lato non si sono stancate di accentuare, per ragioni di sopravvivenza, la specificità del popolo ebraico attraverso rituali esigenti e dettagliati, regole di commensalità, prescrizioni alimentari, ecc., fino a condannare quel popolo a una sostanziale autoghettizzazione, dall’altro lato hanno apprestato un sistema di normative concernenti tutti i campi dell’esistenza, dalla vita domestica alla giurisprudenza; soprattutto, ha apprestato un’etica sistematica e razionale da insegnare al popolo: tutte cose che stupiscono per il grado di elaborazione e di avanzamento.

Pur rinchiusosi in se stesso per poter sopravvivere, l’ebraismo non poteva mancare di trasmettere al mondo intuizioni ed elementi molto importanti per la promozione dello sviluppo. Il cristianesimo avrebbe provveduto a combinarli con il logos della cultura greca ed, emendati attraverso le innovazioni del Nuovo Testamento, a diffonderli nel mondo. Poi verrà l’islamismo, che riprenderà il messaggio in un diverso contesto; ma purtroppo conferendogli una caratura priva della duttilità della Torah Orale e del cristianesimo.

b) Il potere secondo il cristianesimo orientale e occidentale Il cristianesimo recepì il Vecchio Testamento, ma emendandolo da aspetti in

contrasto con il messaggio del Salvatore e dal ritualismo esasperato dell’ebraismo finalizzato a salvaguardare questo popolo dall’estinzione. In particolare, l’Evangelo contiene insegnamenti assai fecondi in tema di potere, avversi a degenerazioni del medesimo e, per la prima volta nella storia, ostili al potere-dominio. Tali insegnamenti poggiano su tre capisaldi:

a) L’esplicita separazione di quel che è di Dio da quel che è di Cesare, cioè dell’esercizio del potere temporale dal potere e dal magistero spirituali; separazione espressa sia dalla prescrizione «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»108; sia, nel Vangelo di Giovanni capitolo 18, dalla risposta di Gesù a Pilato «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù», sia dall’accettazione, da parte di Cristo, del giudizio della autorità secolare;

105 Cfr. Si fré, Deut. Paragr. 356; 148b106 Cfr. Aboth, IV, 21107 Cfr. Isaia LX, 22108 Cfr. Vangelo di Matteo, capitolo 22

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b) Una chiara enunciazione del concetto di potere-servizio laddove, nel discorso agli apostoli, Gesù dice: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere fra voi; ma colui che vorrà diventare grande fra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo fra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti»109; (tali espressioni vengono riferite in modo quasi identico negli altri Vangeli.). E ancora: «il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato»; e infine «gratuitamente avete avuto, gratuitamente date»110, che completa il concetto di potere-servizio;

c) Il fatto che il messaggio evangelico, rivolto all’individuo in quanto figlio di Dio, contrasta con l’oppressione e il soffocamento dell’individualità, tipici del potere dispotico.

Veniamo ora ad esaminare come si è posto, nel concreto il cristianesimo nei confronti del potere statale, e precisamente quale parte dei surriferiti insegnamenti evangelici è stata accantonata o stravolta dalle chiese cristiane e quale parte ha invece continuato a fecondare l’evoluzione del mondo cristiano, specie in occidente, dove ha propiziato la nascita di forme di potere aperte e tolleranti.

La dottrina cristiana del potere statale venne delineata dall’apostolo Paolo nella “Lettera ai romani”, che ha profondamente improntato le concezioni e forme del potere statale affermatesi nel mondo occidentale e nell’oriente d’Europa. Dice l’apostolo: «Ogni persona si sottometta ai poteri superiori. Non vi è potere se non da Dio. Così chi si oppone al potere contesta l’ordine divino, e chi lo contesta riceverà una condanna. I governanti infatti non sono temibili per chi opera il bene, ma il male. Desideri non provar timore del potere? Fa il bene e ne riceverai elogi: infatti il potere è al servizio di Dio per il tuo bene (corsivo nostro). Se invece fai il male, abbi timore, perché non porta la spada invano: è al servizio di Dio per rendere giustizia alla sua ira verso chi fa il male. Di qui l’obbligo di sottomettersi, non solo per l’ira divina ma anche per coscienza. Quindi pagate anche i tributi, perché costoro sono i ministri di Dio, addetti a quell’ufficio. Rendete a tutti il dovuto tributo: il tributo a chi si deve il tributo, l’imposta a chi si deve l’imposta, il timore a chi si deve il timore, l’onore a chi si deve l’onore»111.

Questa concezione secondo cui il potere “opera il bene, non il male” non trova giustificazione nei fatti storici, se non in modo assolutamente parziale. Chissà se l’apostolo dei gentili ebbe qualche ripensamento al riguardo allorché il potere stava per giustiziarlo.

Per maggior chiarezza sul contenuto di questi svolgimenti paolini, sarà bene risalire al passaggio del Vangelo di Giovanni in cui Gesù, in risposta a Pilato, dice: «Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto»112. La predetta affermazione è stata largamente interpretata come un’attestazione dell’origine divina dei poteri. Ma in essa non c’è alcuna automatica identificazione dell’esercizio del potere con il perseguimento del bene comune. Peraltro, nel racconto degli altri tre evangelisti, Gesù tace di fronte a Pilato. Tutto considerato, dal Vangelo sembra emergere un’immagine di Cristo sprezzante nei confronti del potere-dominio (di scribi, farisei, romani e quant’altri).

Non ha avuto buona sorte l’esplicita formulazione evangelica del concetto di potere-servizio. I primi padri della chiesa, che vivevano nel tardo impero romano (Origene, Crisostomo, Girolamo), desiderosi di assolvere quel sistema di potere-dominio, che con l’imperatore Costantino avrebbe fatto del cristianesimo la sua chiesa di stato, e altri dopo di loro, hanno affermato che la prescrizione evangelica del potere-servizio è da intendere come riferita esclusivamente agli apostoli, e quindi al potere spirituale e non anche a

109 Cfr. Vangelo di Matteo, capitolo 20110 Cfr. Vangelo di Matteo, capitoli 20 e 23111 Cfr. Paolo di Tarso, Lettera ai romani, Einaudi, Torino 1990, pag. 41 112 Cfr. Vangelo di Giovanni, capitolo 18

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quello secolare. Ma si stenta a credere che Cristo, venuto al mondo per redimere l’uomo dal male e dal peccato, non abbia inteso riferire (attraverso l’esempio dei suoi discepoli) la prescrizione del potere-servizio anche alla sfera secolare, visto che il potere-dominio esercitato nel mondo secolare è forse la causa principale del male nel mondo.

Come che sia, la formulazione paolina sul potere va molto al di là del Vangelo. Paolo di Tarso era un uomo d’azione e, come è tipico di questa categoria di persone, non esitò a forzare il contenuto del messaggio originario, ove ciò appariva necessario alla diffusione e al consolidamento del medesimo: ad esempio, il suo apostolato fra i gentili fu in totale contraddizione con la prescrizione di Gesù ai discepoli: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele»113. Parimenti, l’apostolo Paolo non esitò ad enunciare la surriferita forzatura sul potere secolare, la quale molto avrebbe aiutato la diffusione del cristianesimo in situazioni difficili guadagnandogli l’appoggio dei vigenti sistemi di dominio.

Il fondatore del cristianesimo viveva nella forma di potere statale forse più rispettabile che il mondo abbia mai conosciuto: quella dell’impero romano del Principato. Forse questa situazione lo indusse a trascurare maggiori approfondimenti e la debita cautela sulla questione scottante del potere. Non lo sfiora l’idea che il potere possa essere anche agente del male e operare al “servizio di Satana”, anziché di Dio. Purtroppo, l’esperienza storica dimostra che la maggior parte delle sciagure, miserie, inefficienze ed efferatezze che l’uomo si è inflitto provengono dall’imperversare del potere-dominio nel mondo. Questa forma di potere ha sempre incarnato il maggiore agente del male e, per il credente, il maligno. Abbiamo visto nel capitolo I che la maggiore sfida per l’uomo contemporaneo risiede proprio nella transizione dal potere-dominio al potere-servizio.

La dottrina paolina secondo cui il potere “viene da Dio e opera al servizio di Dio”, che legittima e santifica ogni forma di potere, ha suscitato immensi malintesi, gravi leggerezze e facili assoluzioni verso i depositari del potere sovrano; benedicendo il dispotismo, ha contribuito a frenare le capacità evolutive delle compagini sociali che più la hanno presa sul serio.

L’aspetto pregevole della formulazione di S. Paolo è la riaffermazione del precetto evangelico di dare a Cesare quel che è di Cesare. Invece, la statuizione della “santità” del potere, qualunque esso sia, oscura il precetto evangelico del potere-servizio e l’esigenza di proteggere l’individuo dall’oppressione, che costituisce un aspetto cruciale del messaggio cristiano.

Bisogna dire che dagli apostoli del cristianesimo doveva essere molto sentita l’esigenza tattica di accettare il potere ed evitare le sue provocazioni, visto che anche l’apostolo Pietro si esprimeva al riguardo in questi termini: «Per amore del Signore, vivete sottomessi a tutte le autorità umane: sia all’imperatore, che comanda su tutti, sia ai governatori che egli manda a punire i malfattori e a premiare quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che voi facciate il bene, in modo da chiudere la bocca agli uomini stolti e ignoranti…adorate Dio, onorate l’imperatore. E aggiunge: Voi, servi, ubbidite con grande rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e gentili, ma anche a quelli prepotenti. Chi conosce Dio considera una grazia soffrire per il fatto di essere trattato ingiustamente. E infatti che merito ci sarebbe a sopportare un castigo quando si è colpevoli?»114. Purtroppo, questo atteggiamento, mosso da esigenze tattiche e di testimonianza della nuova fede, ha poi assunto la veste di una posizione di principio a difesa di vantaggiosi compromessi e accomodamenti del cristianesimo con forme anche assai brutali di potere-dominio.

Il tentativo cristiano di conciliare la nuova fede con l’impero romano si intensificò nel II secolo. Il vescovo Melito di Sardi scrisse a Marco Aurelio per sollecitarne la

113 Cfr. Vangelo di Matteo, capitolo 114 Cfr. Prima lettera di Pietro (ai cristiani dell’Asia Minore),

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clemenza verso la nuova religione, sostenendo che la protezione imperiale del cristianesimo aveva sempre giovato alla prosperità dell’impero e che non a caso la nuova religione era comparsa nell’età felice di Augusto. Atenagora inviò a Marco Aurelio una supplica in cui affermava la lealtà dei cristiani verso l’imperatore e insisteva nel sostenere che i suoi correligionari erano sudditi ubbidienti. Nel III secolo, Origene riconosceva all’impero una funzione provvidenziale, dato che Cristo era stato inviato nel mondo nel clima della pax augustea in quanto il più propizio alla diffusione della nuova religione. Egli aggiungeva che i cristiani pregavano per la salute dell’impero e in riconoscenza dei servizi resi da questo, e che erano cittadini fedeli. Tertulliano si spinse ad affermare: «L’imperatore appartiene piuttosto a noi, egli infatti è stato istituito dal nostro Dio», e ad intravedere l’eventualità di un impero cristiano.

Tutte queste dichiarazioni di disponibilità verso l’impero sono meno opportunistiche e più oculate di quel che può sembrare a prima vista. Abbiamo visto che l’impero del Principato espresse una forma esemplare di potere politico, che fu logorato dalla stazionaria civiltà greco-romana. Orbene, se quell’impero fosse stato cristianizzato nel corso della grande età dell’oro culminata sotto gli Antonini, forse l’innesto nella civiltà stazionaria greco-romana dei germi dinamizzanti propri del messaggio evangelico (con la sua concezione lineare-progressiva del tempo) avrebbe salvato quella grande e irripetuta costruzione politico-istituzionale. Tale messaggio ben si sposava con il carattere umanitario dell’impero degli Antonini, e con l’apertura e il carattere policentrico dell’ordinamento di esso. Non ci sarebbe stata, come avverrà nel IV secolo, una chiesa di stato poi immortalatasi nel mondo bizantino, ma sarebbe nata una libera chiesa in un libero stato, al quale avrebbe offerto le energie dinamiche insite in dottrine vetero e neo testamentarie. Sarebbe nata una nuova civiltà, ma non con le sembianze di quel grande sarcofago che fu il Dominato, cioè di una civiltà stazionaria e dell’obbedienza del tipo di quelle incarnate dai grandi imperi della storia, bensì qualcosa di assai più moderno e vitale. Purtroppo, la ristrettezza delle prime conventicole cristiane non era in grado di conquistare l’impero. Ciò richiederà tempi assai lunghi e, in primo luogo, ebbe bisogno della grande crisi del III secolo.

Il cristianesimo fu accettato quale religione di stato nel mondo romano per volontà del despota imperiale Costantino il Grande, che intese farne puntello dell’ordinamento burocratico-centralizzato del suo impero. La concezione paolina del potere fu di grande utilità per il maturare di tale svolta e consentì una forte amalgamazione della chiesa cristiana con la vigente forma di potere dispotico, che si sarebbe prolungata nell’oriente bizantino per oltre un millennio. Eusebio, teologo di corte di Costantino, enfatizzò la trasposizione, attraverso la figura dell’imperatore cristiano, del potere divino nel potere terreno del despota imperiale rappresentante di Dio in Terra e braccio secolare del disegno divino.

Come sappiamo, gli imperi centralizzati necessitano della sudditanza di una religione di stato per poter imporre la civiltà dell’obbedienza di cui hanno strutturalmente bisogno. In verità, la relazione fra chiesa e impero non costituì mai, nel mondo bizantino, una pacifica sudditanza; fu bensì un rapporto difficile e travagliato. Il profetismo vetero testamentario non aveva agito invano. Nondimeno, tale relazione mise radici assai profonde e approdò alla edificazione di una vera e propria teologia imperiale che avrebbe giustificato il potere politico dell’autocrazia bizantina fino al tramonto dell’impero. Di più; avrebbe portato la chiesa ortodossa, nella sua benevola consonanza con lo stato, a benedire o accettare i peggiori tiranni e, da ultimo, perfino la tirannia stalinista.

In breve, gli imperatori del tardo impero romano e bizantini, a somiglianza di tanti altri despoti imperiali, fecero della religione un importante puntello del loro potere autocratico e carismatico: presiedevano e guidavano i concili ecclesiali intervenendo attivamente in materia di fede, ne facevano eseguire i deliberati, emettevano ordinanze

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ecclesiali, nominavano vescovi e patriarchi. L’imperatore, vertice dell’ordine gerarchico, era considerato inviato e favorito di Dio, la sua immagine era ritenuta espressione sulla terra dell’ordine cosmologico, preposto alla attuazione del piano divino di salvezza dell’uomo. Eusebio di Cesarea espresse nitidamente, già nel IV secolo, questa sorta di teologia politica che, come appena visto, avrebbe profondamente caratterizzato la vita dell’impero bizantino fino alla fine.

L’unico elemento di attenuazione di questa sudditanza della religione rispetto al potere politico fu rappresentato dalla distinzione fra potere imperiale e ufficio sacerdotale (imperium et sacertotium), ma nel contesto di una ben ferma unità di principio fra entrambi. Tale distinzione impedì una completa sudditanza e strumentalizzazione della chiesa rispetto all’impero; ma mai si giunse alla contrapposizione fra due poteri e due comunità distinte, la teologia politica bizantina enfatizzò sempre la cooperazione e consonanza fra chiesa e stato, glorificò l’imperatore quale espressione massima delle due entità, così come appare dal cerimoniale di corte ridondante di simbolismi liturgici. Il latente dualismo fra stato e chiesa avrebbe determinato nondimeno crepe sempre più evidenti e fastidiose nella compattezza del potere autocratico bizantino. Ciò contribuì in notevole misura al tramonto dell’impero; ma talmente forte era il legame di dipendenza teologicamente fondata della chiesa dall’istituzione imperiale che alla caduta dell’impero la chiesa ortodossa si sentì orfana, e tuttora tale sentimento non è estinto.

Bisogna dire che nel tratto finale della vita sempre più stentata dell’impero emerse qualche tentativo flebile e privo di seguito, principalmente ad opera di Manuele Mascapulo e Gemisto Pletone, di contrapporre alla imperante teologia imperiale una differente concezione dell’autorità statale. Ma la dottrina ufficiale non ne risentì. Restò inesplicata la contraddizione secondo cui l’imperatore era, al tempo stesso, scelto da Dio e, in omaggio al diritto romano, eletto dal popolo. Tali equivoci sul concetto di sovranità lasciavano libero campo agli abusi di potere, tanto più che l’autocrate era immune da scomunica e quindi non poteva essere scalzato dal clero; egli doveva piuttosto temere le usurpazioni ricorrenti.

Ma, dopotutto, queste ambiguità ben si conciliavano con il carattere dispotico dell’impero centralizzato. L’idea dell’impero universale si andò con il tempo stemperando nella concezione della «famiglia di re», secondo cui l’autocrate bizantino esercitava una sorta di potere paterno sugli altri regnanti, e questa concezione persistette anche dopo il tramonto dell’impero. La chiesa ortodossa restò ancorata alla teologia politica imperiale, e si sforzò di trasferirla a Mosca, la terza Roma.

Invece, in occidente il crollo dello stato romano predispose le condizioni per una assai diversa evoluzione del rapporto fra cristianesimo e potere politico.

Già nel IV secolo, Ambrogio vescovo, nella lettera all’imperatore Valentiniano II con cui chiedeva di impedire che l’aristocrazia romana restaurasse nella curia senatoria l’altare della Vittoria, ebbe a sostenere che l’impero era al servizio di Dio e quindi della sua chiesa. Egli identificava la salvezza della chiesa con quella dello stato e assegnava alla chiesa di vigilare sulla consonanza della politica imperiale con la promessa salvifica del cristianesimo. Una politica empia avrebbe offeso gli interessi e il ruolo dello stato. Incontriamo qui forse la prima enunciazione di quella pretesa di superiorità della chiesa sullo stato che assai più in là sarebbe approdata al papismo dei Cesari.

I pagani sono ora diventati i supplici dell’imperatore, come prima lo erano i cristiani. Essi rivendicano lealtà all’impero e rammentano i meriti dell’antica religione nel promuovere la grandezza di Roma. Ma l’invito alla tolleranza religiosa, che quando a supplicarla erano i cristiani non venne accolto in un mondo tollerante e aperto alle istanze di giustizia quale fu il Principato, a causa della apparente irrilevanza del fenomeno

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cristiano al cospetto della grande civiltà greco-romana, ora non trova spazio a causa dell’intolleranza dei devoti dell’unico Dio, diventati chiesa di stato.

Di fronte alle sventure dell’impero e soprattutto in seguito al saccheggio di Roma da parte di Alarico, la contrapposizione fra il glorioso passato della Roma pagana e il decadente impero della Roma cristiana prese a turbare le coscienze dei cittadini in modo crescente. In questa situazione, maturò nell’ardimentosa speculazione di Agostino di Ippona la grande svolta nel Cristianesimo occidentale sulla concezione del potere politico. Agostino provvide a regolare i conti con gli orgogliosi richiami al passato del movimento neopagano in un ampio trattato, la De civitate Dei, che costituì una rottura della sudditanza del cristianesimo rispetto al pensiero politico pagano. Per Agostino, il faro che deve guidare l’azione politica non è costituito dall’esempio della gloria e del valore terreni che distinsero i romani, ma dalla città celeste. Scrive Agostino: «È forse un grande sacrificio respingere tutte le lusinghe, per quanto deliziose di questo mondo per l’eterna patria in cielo, se per quella passeggera in terra Bruto ha potuto perfino uccidere i figli? Certo, è più difficile il gesto di mandare a morte i figli che quello da compiere per la città eterna, e cioè dare ai poveri le ricchezze che si era ritenuto doveroso mettere da parte per i figli ovvero rinunziarle se s’impone la scelta che spinge a compiere il gesto per la religione e per la giustizia»115. Al fondo della concezione politica agostiniana c’è sfiducia nell’uomo, considerato incline al peccato. Il potere politico ha il compito di guidare e costringere l’uomo verso la libertà di Dio. Questo è ciò che conta realmente, non la città terrena, ed è il principale dovere dei reggitori di quest’ultima. Il loro potere è uno strumento per conseguire tale risultato, visto che «le due città non sono riconoscibili in questo fluire dei tempi e sono fra loro commischiate, fino a che non siano separate dall’ultimo giudizio»116.

Una superba intolleranza pervade la posizione agostiniana. Nella contrapposizione tra città terrena e città celeste, la storia di Roma gli appare insignificante e l’attenzione è concentrata sull’Antico Testamento. Naturalmente, Agostino non negava l’utilità di una rinascita dell’impero e credeva nella preservazione di esso; ma questo aspetto non riveste importanza nel suo piano analitico. La svolta agostiniana non cancellò l’inclinazione della chiesa a mutuare contributi dell’antica civiltà con essa congeniali; e lo stesso Agostino prese ampiamente atto, nei primi dieci libri della Città di Dio, della gloriosa storia di Roma e non esitò a scrivere: «Sono i due valori, la libertà e la passione della gloria umana, che spinsero i romani ad azioni degne di ammirazione»117. Ma era stata aperta una strada nuova all’evolvere del pensiero politico, che giungerà a maturità in epoca medievale.

c) Una nuova teocrazia: l’idea islamica di potere

115 Cfr. Agostino di Ippona, La città di Dio, Città Nuova Editrice, Roma 2000, pag. 240116 Cfr. Agostino di Ippona, Ibidem, pag. 58117 Cfr. Agostino di Ippona, Ibidem, pag. 250

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Veniamo ora all’altra grande ramificazione della radice ebraica, quella rappresentata dall’islamismo. Mentre nel cristianesimo della Roma imperiale abbiamo visto prevalere l’inclinazione dispotico-autocratica della dottrina vetero testamentaria, e solo la dissoluzione dell’impero di Occidente avrebbe fatto riemergere il predominio degli aspetti dinamico-evolutivi e libertari vetero e neo testamentari, nell’islam trionfa l’inclinazione teocratica del messaggio vetero testamentario, tuttavia non senza subire il potenziale destrutturante insito in tale messaggio. Maometto non poteva esimersi dall’organizzare politicamente le tribù primitive dei suoi primi fedeli. Questo ha fatto sì che nell’Islam il pensiero religioso sta alla base del pensiero politico. Non v’è distinzione tra chiesa e stato; precisamente, l’insegnamento coranico non contempla né una chiesa né uno stato da questa separato. Al suo posto esiste l’umma, comunità religioso politica, nel cui ambito l’esercizio del potere politico e amministrativo spetta al califfo, successore e rappresentante del Profeta Maometto. L’islam costituisce una tipica teocrazia, una società in cui il potere politico (e non solo questo) spetta al capo religioso, e in cui il diritto e le forme istituzionali traggono direttamente vita dalle prescrizioni coraniche.

In verità, il contatto del mondo islamico con la filosofia greca e con il pensiero politico dell’antichità stimolò riflessioni sullo Stato e le sue istituzioni non strettamente legate all’impostazione coranica. Al Farabi, Avicenna e Averroe definiscono lo stato e il governante ideali combinando teorie platoniche e islamiche, con diversa e decrescente accentuazione del ruolo della filosofia rispetto a quello della rivelazione. La “città virtuosa” di Al Farabi ha evidenti assonanze con La Repubblica di Platone, e l’affermazione secondo cui: «La relazione della Prima Causa (Dio) rispetto agli esseri viventi è analoga alla relazione del sovrano della città virtuosa rispetto agli altri cittadini… che devono compiere atti, in ordine gerarchico che imitino il fine del governatore capo»118

si ispira alla gerarchia delle intelligenze neoplatonica. Ma poi, nell’elencare le qualità richieste al “reggitore supremo”, «un uomo che ha ottenuto la perfezione ed è divenuto intelligenza e intelligibile in atto,… (aggiunge) se un simile individuo non lo si incontrerà poi in un’epoca successiva, si manterranno e si confermeranno quelle leggi (shari’à)»119. Ma i contenuti teocratici che emergono dal pensiero di questi falasifa sulle istituzioni sono nulla rispetto al tasso di teocrazia che improntò la realtà effettiva. L’identità religione-politica fu sempre assai forte e il dominio politico restò sempre al servizio della diffusione religiosa, disciplinato dalle leggi rivelate dal Profeta (shari’a) ed esercitato dal califfo suo rappresentante, a somiglianza della primitiva umma guidata da Maometto. Il califfo era difensore della fede, capo militare, amministratore della giustizia e guida delle preghiere.

Ma non si trattò di una teocrazia di ferro, quale è stata quella indiana delle caste. Gli aspetti destrutturanti del monoteismo dei figli di Abramo vi hanno fatto sentire il loro peso. Nel corso del tempo, il verificarsi di occupazioni del potere da parte di emiri, visir e vari fortunati avventurieri, e la nascita di califfati aggiuntivi, determinarono una sostanziale separazione fra potere civile e spirituale, e di conseguenza la necessità di conciliare questa situazione con le prescrizioni della shari’a. Al Mawardi insistette, in base alla tradizione, sulla unicità del ruolo di califfo, fondato sul Corano. Egli ribadì anche che spettano al califfo le funzioni spirituali, giudiziarie, amministrative, finanziarie e militari, e che la legge e il diritto discendono dalla verità rivelata una volta per tutte dal Profeta.

L’attenzione dei pensatori successivi si concentrò sul rapporto fra i califfi, sempre più esautorati, e gli effettivi detentori del potere nelle province del vasto impero. La preservazione dell’ordine, in una comunità tendente a disgregarsi, divenne preoccupazione prioritaria. In tale situazione, Al-Ghazali si spinse a riconoscere ai sultani, detentori del potere politico e tutori dell’ordine, il diritto di designare il califfo. Ma ribadì con dotte

118 Cfr. Al-Farabi, La città virtuosa, Bur classici, Milano 1996, pagg. 213 e 215119 Cfr. Al-Farabi., Ibidem, pag. 215

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disquisizioni «il modo in cui il diritto deriva dal Corano». Di più. Affermò che «i principi fondamentali di tutte le scienze, sia di quelle che abbiamo enumerato sia di quelle che non abbiamo citato, sono contenuti nel Corano»120. Ibn Jama’a, nel giustificare l’usurpazione del califfato da parte di un sultano, in nome del mantenimento dell’ordine e dell’unità dell’Islam, sostenne l’infausto principio secondo cui un tiranno è preferibile all’anarchia, che tanto successo avrebbe riscosso nel mondo islamico. Con Ibn Taimyyah cade l’attenzione per il problema dell’autorità califfale, ma non l’inclinazione teocratica del pensiero islamico. Infatti egli si preoccupò del fatto che la vita delle varie comunità islamiche fosse in accordo con la shari’a e affidava la vigilanza su questo aspetto alla sapienza degli ulama, custodi della tradizione.

Ma l’opera forse più interessante sulle forme di potere maturata fra i dotti islamici è da attribuire a Ibn Khaldun. Questi pose i contenuti e l’evolvere delle forme di potere al centro della sua elaborazione di una matura e suggestiva teoria del processo storico-sociale e del potere politico. Ibn Khaldun contrappone l’osservazione storica al razionalismo astratto dei filosofi secondo i quali la verità rivelata sarebbe «qualcosa di necessario per l’umanità (e continua)… Una loro premessa è che l’influenza disciplinatrice viene in essere solo attraverso una legge religiosa proveniente da Dio… Questa premessa non è accettabile»121. E, sulla scorta dell’osservazione storica, rammenta che gli uomini sono vissuti in società anche in assenza di Rivelazioni, e vi hanno sviluppato civiltà ricche e suggestive. Sottolinea che il persistere e lo sviluppo delle comunità richiede l’esistenza di una volontà interna di coesione, dovuta a legami di sangue (parentela) oppure alla forza e alle ramificazioni di una idea. Il nostro autore chiama tale forza unificante asabyya. L’intensità ed il carattere di questa determinano la formazione e l’evoluzione degli organismi statali.

A questo concetto di asabyya spetta un posto eminente nel contesto delle teorie del potere, soprattutto perché evidenzia e precisa con rara chiarezza un aspetto centrale del fenomeno del potere: la “legittimazione” di esso. Scrive Ibn Khaldun: «il sentimento di gruppo fornisce protezione e consente la mutua difesa… ed ogni genere di attività sociale… gli esseri umani, per loro natura, necessitano di qualcuno che svolga attività repressiva e di mediazione in ogni organizzazione sociale, così da porne i membri al riparo da vicendevoli conflitti. Una tale persona deve necessariamente avere superiorità sugli altri nel contesto dei sentimenti di gruppo. Se così non è, il suo potere disciplinante non può materializzarsi. Tale superiorità consiste nell’autorità reale. Questa è più della leadership… il leader è obbedito ma non ha il potere di costringere gli altri ad accettare le sue regolamentazioni. L’autorità reale significa superiorità e potere di governare con la forza… Egli (il sovrano) non può conseguire completamente i suoi obbiettivi senza l’aiuto del sentimento di gruppo, che induce gli altri ad obbedirgli»122. Dove asabyya «significa mutuo affetto e volontà di combattere e morire per l’altro»123. Parlando dell’inclinazione anarchica degli arabi, l’autore scrive: «L’anarchia distrugge l’umanità e conduce la civiltà alla rovina, dato che, come ho già detto, l’esistenza di un’autorità reale è richiesta dalla natura umana. Solo essa garantisce la loro esistenza e l’organizzazione sociale»124. Più in là aggiunge che, allorché la classe dirigente ha trascorso molte generazioni al potere: «Diventa un radicato articolo di fede che si debba esserne sudditi… È come se l’obbedienza al governo fosse un comandamento divino, che non può essere cambiato o osteggiato»125. Siamo in presenza di un concetto di sovranità e potere politico pienamente

120 Cfr. Al-Ghazali, Le perle del Corano, Bur Classici, Milano 2000, pagg. 113 e 123121 Cfr. Ibn Kaldun, The muqaddimah: An introductory to history, Vol 1°, Routledge & Kagan Pauls, London 1958, pag 390 122 Cfr. Ibn Khaldun, Ibidem, pag 284123 Cfr. Ibn Khaldun, Ibidem, pag. 313124 Cfr. Ibn Khaldun, Ibidem, pag. 304125 Cfr. Ibn Khaldun, Ibidem, pag 314

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definito. Aggiunge l’autore che lo stato raggiunge la massima estensione, durata e stabilità se la asabyya è incarnata dalla religione. Così, la religione torna al centro anche della speculazione di questo importante studioso.

La teoria del potere di cui si è fatto cenno consente a Ibn Khaldun una analisi assai ricca della nascita, funzionamento e decadenza delle numerose formazioni politiche da lui considerate. La sua indagine combina questioni di economia, diritto, religione e altri rami dell’attività umana, nel contesto di un progetto di ricerca che mobilita ed unifica la maggior parte delle scienze umane. Diversamente dalla speculazione di ulama e falasafa, che si impernia sul concetto di legge e disdegna il fenomeno statale, in Ibn Kaldun troviamo una spiegazione dello stato basata sulla volontà dei consociati di unirsi (asabyya), anziché come un risultato dell’empia frantumazione dell’identità fra religione e politica. Purtroppo, questa identità resta per il fedele Ibn Kaldun, se non la precondizione necessaria del bene comune, la condizione della perfetta organizzazione sociale, nella veste della teocrazia islamica. Egli scrive: «Esercitare il califfato significa indurre le masse ad agire come richiesto dalla religione nel loro interesse nell’altro mondo ed in questo… Così il califfato sostituisce in realtà il Legislatore (Maometto) per quanto occorre per proteggere la religione ed esercitare la leadership politica sul mondo»126. È assai significativo della prorompente inclinazione teocratica insita nell’islamismo il fatto che il potere e il governo teocratici restino il modello ideale anche per questo accorto musulmano attento osservatore delle forme di potere e di governo con i loro limiti e virtù, e lo restino nonostante vivesse in un’epoca in cui gli impacci e i mali arrecati dalla teocrazia allo sviluppo del mondo musulmano cominciavano ad emergere con grande evidenza. In verità, il grande ostacolo che il messaggio di Maometto ha arrecato sulle inclinazioni dinamico-evolutive della sua radice vetero testamentaria consiste nella pretesa coranica di esprimere la parola di Dio trasmessa al Profeta e valida per sempre, con tutte le sue prescrizioni politiche e istituzionali. Ciò ha privato l’islamismo della preziosa duttilità conquistata dall’ebraismo attraverso l’idea della Torah Orale e conferita al cristianesimo dall’idea di separazione di quel che è di Dio da quel che appartiene a Cesare.

Anche la teocrazia islamica, pur assai diversa da quella indiana, è restata prigioniera di una grande inclinazione immobilistica, dopo il forte impulso da essa impresso inizialmente all’incivilimento delle terre conquistate. Quale miglior prova del fatto che la presenza pervasiva, nel sistema politico, delle verità eterne conduce l’uomo in vicoli ciechi, e spesso in sterili contrapposizioni e settarismi.

Si obbietterà che lo sviluppo del mondo arabo è stato frenato anche dal forte ruolo che ha sempre espletato nel suo ambito la tradizione. Ma, per l’appunto, tale ruolo fu confermato ed accentuato dal trionfo dell’islam. Scrive J. Schacht a questo riguardo: «L’originaria idea araba di sunna -come “precedente” o consuetudine normativa- si affermò nell’islam fin nei suoi primordi. Gli arabi erano, e sono tuttora, legati alla tradizione e al concetto di “precedente”: ogni consuetudine si riteneva giusta e conveniente; qualsiasi cosa compiuta dagli avi diveniva degna di essere imitata. Era questa la regola d’oro degli arabi i quali, vivendo in condizioni sfavorevoli in un ambiente ostile, non potevano rischiare esperimenti e innovazioni che avrebbero potuto sconvolgere il precario equilibrio della loro vita. In questa idea di “tradizione” o sunna trovava espressione tutto il loro spirito conservatore»127. La grande fioritura dell’islam in tutti i campi del sapere, nel corso della rapida espansione araba, fu accompagnata da una estrema duttilità e ricettività anche nei campi istituzionale e dell’evoluzione del diritto. Poi, gradatamente, prevalsero una crescente chiusura e staticità normative. L’ortodossia e il tradizionalismo presero il sopravvento e, subito dopo l’iniziale effervescenza abbaside, la

126 Cfr. Ibn Khaldun , Ibidem, pagg. 387 e 388127 Cfr. J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Edizioni Fondazione Agnelli, Torino 1995, pag. 21

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libertà di ragionamento delle scuole giuridiche conobbe ostacoli crescenti e la duttilità del diritto musulmano venne progressivamente meno.

La teocrazia islamica ha dato vita a dispotismi anche più feroci, pur se meno coriacei, di quelli conosciuti dal mondo indù. La considerazione di questo aspetto è importante in quanto evidenzia un tipo di influsso della teocrazia sul sistema di potere assai diverso da (ma non meno deleterio di) quello incontrato nella teocrazia indù. La letteratura islamica sullo «specchio dei principi», concernente suggerimenti ai sovrani sul modo di svolgere proficuamente la loro attività di governo, fornisce importanti e suggestive conoscenze sui contenuti e sul carattere del potere politico islamico. Molto interessante è, a questo riguardo, il libro dal titolo «L’arte della politica», scritto nell’undicesimo secolo da Nizam al_Mulk (Hasan di Tus), uomo di stato al servizio dei sultani selgiuchidi. Tale libro è tanto più utile per la conoscenza delle forme di potere invalse nell’oriente islamico in quanto accompagna i suggerimenti al «principe» con una fitta narrazione di episodi concernenti l’azione di governo di califfi, sultani e altri regnanti del mondo musulmano. Vi vediamo il potere fortemente concentrato nelle mani del sovrano assoluto: califfo, sultano o altri capi locali.

Significativamente, l’autore inizia la sua opera con la seguente affermazione: «In ogni epoca l’Altissimo sceglie un uomo tra gli uomini e, fattogli dono delle arti regali, lo rende illustre affidando a lui gli affari del mondo e la tranquillità dei suoi servi; a lui il compito di sedare disordini, discordie e ribellioni. E tanto è il timore e il rispetto per lui negli occhi e nel cuore degli uomini, che essi vivono la loro vita sotto il suo giusto governo mantenendosi tranquilli e augurandogli ancora un lungo regno»128. Così fin dall’inizio vengono tracciati i lineamenti del sovrano assoluto che, munito di pieni poteri, governa il mondo nell’ordine e incute, attraverso l’inflessibilità del suo comando, il rispetto e il timore nei sudditi. Tale potere dispotico è temperato solo dalla fede, dalle prescrizioni coraniche e dal timore per il giorno del giudizio.

Il sovrano amministra direttamente la giustizia in affollate udienze. «Per un re non c’è regola migliore che tenere udienze frequenti…qualunque cosa sia di competenza del re, conviene che la sbrighi lui personalmente e dia ordini in merito… (anche nel caso di) castighi tipo decapitazioni, taglio di gambe o di braccia, evirazioni e qualunque genere di punizione»129. Il sultano deve circondarsi di una fitta rete di informatori e spie che lo mettano al corrente di tutto quel che accade nel regno. «Si dovrà sempre fare in modo che spie, travestite da mercanti, pellegrini, santi uomini, venditori di medicine e mendicanti, vadano dovunque e riferiscano tutto ciò che sanno affinché nessuna faccenda, di qualunque genere, rimanga nascosta»130. Queste raccomandazioni esortano alla edificazione di uno Stato poliziesco, in cui il potere del sovrano onnipotente vigili su tutto e su tutti. Tanto più che i feudatari «devono insomma rendersi conto che la terra e i contadini sono di proprietà del sovrano»131.

È significativo che nel libro non ci sia riferimento alcuno a un vero e proprio apparato amministrativo e alle sue ramificazioni; si rimedia alla inesistenza o debolezza di tale apparato tramite il potere dispotico e l’attivismo del signore del mondo, del principe dei credenti. «E a chiunque venga affidata una carica importante occorre mettere a fianco segretamente, in modo che egli non se ne accorga, un controllore che riferisca continuamente sul suo comportamento e le sue azioni»132. Ma chi vigila sugli abusi e soprusi del sovrano onnipotente? Solo la fede. Purtroppo, il rispetto delle prescrizioni di fede e la luce sinistra delle verità rivelate hanno dato vita, specie nel mondo musulmano, alle più mostruose tirannie. Non a caso, il criminale turco-afgano Mahmud, che in nome

128 Cfr. Nizam al Mulk, L’arte della politica, Luni Editrice, Milano 1999, pag. 56129 Cfr. Nizam al Mulk, Ibidem, pagg. 189 e 135130 Cfr. Nizam al Mulk, Ibidem, pag. 137131 Cfr. Nizam al Mulk, Ibidem, pagg. 83-84132 Cfr. Nizam al Mulk, Ibidem, pagg. 82-83

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dell’Islam sterminò, trasse in schiavitù e ridusse in rovina enormi masse di indiani, è assunto a modello dal nostro autore che dice di lui: «Era un sovrano giusto e timorato di Dio, amava il sapere, era generoso, acuto, intraprendente, di fede pura e coraggioso»133. Forse questo giudizio incorpora un atteggiamento adulatorio nei confronti della dinastia di cui Nizam al-Mulk era al servizio. Ma, come che sia, l’islam è pieno di questi tiranni.

Appare qui il volto di un potere che supplisce alle carenze di strutture amministrative ramificate ed efficienti attraverso il dominio di sovrani iper dispotici. Purtroppo i suggerimenti di accorti consulenti poco possono nel moderare un potere illimitato. La storia insegna che i migliori consigli di precettori a principi e sovrani sono in genere impotenti contro la tracotanza, le credulità e la cecità tipici di sovrani dal potere incontrollato. È significativo che i racconti su episodi della vita di sovrani illustri e «virtuosi», che Nizam al-Mulk porta ad esempio di buongoverno, spesso narrino di atroci carneficine, veri e propri stermini, perpetrati in nome della fede, dell’ordine, della giustizia e della potenza dello stato.

La teocrazia islamica, con le carenze istituzionali e organizzative necessariamente implicite nelle prescrizioni coraniche in quanto prescrizioni storicamente datate, ha dato vita a forme di potere-dominio fra le più oppressive, degenerate e soffocanti che il mondo abbia conosciuto. Con buona pace per la sollecitudine del Profeta riguardo al governo saggio, pio e illuminato dell’umma islamica.

2) Evoluzione delle teorie e delle forme del potere nell’Europa feudale e medievale

Caratteristica del pensiero politico feudale e medievale è un sistematico e persistente orientamento contro l’abuso di potere. Questa peculiarità fu dovuta soprattutto all’influenza della chiesa che, sul piano dei principi, vincolava il potere ai contenuti della verità rivelata, e sul piano pratico lo limitava attraverso la sua contrapposizione al potere statale, contrapposizione degenerata più in là in una accanita lotta per la supremazia. Un altro aspetto basilare del pensiero politico medievale, anch’esso risultante dall’influenza della dottrina cristiana della salvezza in quanto concernente l’intera umanità, è la sua inclinazione universalistica. Fin dall’inizio, la riflessione politica appare improntata da una commistione di etica e teologia cui, in una fase più matura, si aggiungerà il contributo della filosofia e del diritto.

Costante è l’insistenza sulle virtù personali del governante, identificate nelle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, coraggio e temperanza. Tale insistenza operò con particolare incisività nei periodi in cui la carenza di istituzioni stabili e ben definite ampliava la sfera del dominio personale del sovrano. Le fonti testamentarie costituiscono il fondamento di questa etica del governante, che sempre più converge verso precetti riguardanti la devozione e la giustizia del sovrano, l’osservanza e imposizione delle leggi divine da parte di questi. Il signore non deve avere superbia, deve essere incline alla clemenza, deve dare ascolto ai devoti consiglieri e soprattutto al sacerdote, che ha il compito di rimproverare e ammonire il re caduto in errore.

Il proliferare di formulazioni precettistiche denominate Specchi dei Principi, tutti incentrati sulla raccomandazione di questi attributi della regalità, fornisce una chiara idea del grande ruolo espletato dalle forme di moderazione del potere che vi vengono raccomandate. Forte è l’insistenza sul fatto che il re deve costituire guida ed esempio per il suo popolo nella applicazione delle virtù cristiane dell’amore per il prossimo e, in particolare, nella protezione dei poveri; egli deve osservare i comandamenti, essere incline alla pace, amare e temere Dio. Nella “Via Regia”, il primo specchio dei principi, di epoca carolingia, Smaragd Di S. Michel subordina ai testi sacri le modalità di esercizio del potere

133 Cfr. Nizam al Mulk, Ibidem, pag. 5

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e giunge a chiedere l’emancipazione degli schiavi, essendo la schiavitù frutto del peccato e quindi incompatibile con la missione redentrice del Salvatore. Nei Libri Carolini di Carlomagno è scritto: «Nelle sacre scritture si trova la norma che regola come debbano comportarsi i superiori nei confronti dei sottoposti e i sottoposti nei confronti dei superiori, come il consiglio mondano amministri con prudente riflessione, come si difende la patria, come ci si difende dal nemico, come si amministra al di fuori e all’interno della casa»134. C’è un sapore confuciano in queste disposizioni. Invece, del ruolo del diritto e delle leggi generali ed inflessibili quale base e limite dell’attività di governo, che fecero la grandezza di Roma, non vi è traccia nelle elaborazioni del pensiero politico di epoca feudale.

Anche la legittimazione del potere viene ricavata da fonti bibliche, principalmente dal libro dei Re e dal Pentateuco: il potere viene da Dio, cui appartengono dominio e potenza, che lo trasmette al re incaricato di dare le leggi al popolo; quest’ultimo ha l’obbligo della sottomissione e obbedienza al potere del sovrano, che deriva da Dio. Seguendo il modello vetero-testamentario, il re viene indicato come un nuovo David e un nuovo Salomone.

Questa evoluzione della concezione del potere e del pensiero politico nei territori dell’ex impero romano d’occidente fu propiziata dall’attacco agostiniano alla venerazione del maestoso sistema politico romano, nonché dal concentrarsi delle residue e striminzite funzioni sociali dello stato nelle mani dell’amministrazione ecclesiastica, e dal concentrarsi del monopolio del sapere nei chierici. L’alleanza del papato con i Franchi liberò la chiesa di Roma dalla soggezione all’autorità di Bisanzio, pur se non l’affrancò dalla sostanziale soggezione all’autorità imperiale.

Già Ambrogio vescovo di Milano aveva affermato che «i palazzi appartengono agli imperatori, le chiese ai sacerdoti», e non aveva esitato a scomunicare l’imperatore Teodosio I. Nel 494, papa Gelasio I aveva scritto al despota di Bisanzio: «Vi sono due principi, augusto imperatore, dai quali questo mondo è governato: l’autorità consacrata dai pontefici e il potere regio. Tra questi due tanto più gravoso è il compito dei sacerdoti in quanto devono rendere conto davanti al giudizio di Dio anche degli stessi re»135. Gregorio Magno aveva insistito sul coordinamento dell’attività spirituale, spettante alla chiesa, e temporale, spettante al sovrano, essendo quest’ultima deputata a spianare la strada verso la salvezza attraverso la repressione del male e la promozione del bene. A sua volta papa Zaccaria, rispondendo alla domanda di Pipino, maestro di palazzo dei re Merovingi, sull’opportunità o meno che questi fossero privati del potere, aveva enunciato il principio di idoneità a gestire il potere, con il proposito di legittimare il passaggio dei poteri dai re inutili merovingi ai carolingi, veri detentori del potere e suoi potenziali alleati. Ma subito dopo, per consolidare l’alleanza con i carolingi, la chiesa tornò a prediligere il principio dinastico, già accolto all’atto della conversione di Clodoveo, che lo riprendeva da usanze germaniche. Ma, col passar del tempo, il principio di idoneità avrebbe ampliato la sua sfera d’azione; muovendo dal concetto di rex inutilis (cioè privo di potere), si sarebbe spinto a condizionare e contestare il potere dei regnanti attraverso le figure del rex iniquus (cioè indegno) e del rex iniustus (cioè tiranno).

La sacra unzione di Pipino e dei suoi figli, che santificava l’intera stirpe regale, attribuiva ai regnanti franchi una sacralità per grazia di Dio, in base al Vecchio Testamento. Questa regalità, che conteneva vari elementi di ambiguità, lasciava tuttavia incontestata la pretesa bizantina di continuità rispetto al dominio di Roma. Comunque, a partire da Carlomagno la concezione universalistica del potere temporale prese posto accanto al respiro universalistico della chiesa romana e venne riconosciuta all’imperatore una posizione di grande autorità nel contesto stesso dell’organizzazione e del ruolo della

134 Cfr. Mertens, D., Il pensiero politico medievale, Il Mulino, Bologna 1999, pag. 66135 Cfr. Rahner H. (a cura di), Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo- Documenti della chiesa dei primi otto secoli, Jaca Book, Milano 1970, pag. 136

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Chiesa. La quale ultima seppe però abilmente conquistare un ruolo di grande rilievo nella trasmissione del potere. Il cerimoniale della incoronazione papale dell’imperatore, di assai dubbio significato e che Carlo non gradì136, sarebbe più in là divenuto un punto di forza della pretesa papale di supremazia, in base alla teoria secondo cui i papi erano stati e restavano gli autori della traslatio, della traslazione dell’impero dai Greci ai Franchi. La sottile lungimiranza papale aveva, in questo, avuto la meglio sul rozzo pensiero politico del sovrano dei Franchi.

Carlomagno trasformò in legge i comandamenti biblici del riposo sabbatico e del pagamento della decima. Il re, unto del Signore, era per l’Ambrosiastro immagine e vicario di Dio; invece, il papa è più semplicemente successore di Pietro, e solo nel secolo dodicesimo sarebbe asceso al rango di successore di Cristo. Insomma, il legame fra religione e politica favorisce, per il momento, l’autorità del monarca, che espleta funzioni di responsabilità e protezione nei confronti della chiesa. Carlomagno deliberava in materia di fede, quasi a somiglianza dell’autocrate bizantino. Egli convocava e presiedeva sinodi e pretese l’appellativo di vescovo dei vescovi; era rex e profeta, incaricato di diffondere la fede cristiana. Paolino d’Aquileia, nel celebrare la folta partecipazione di vescovi al concilio di Francoforte, convocato da Carlo Magno, riconosce a questi l’ispirazione dello Spirito Santo. Papa Adriano I, in una lettera diretta agli adozionisti spagnoli e inviata a Carlo, che la inserisce nella documentazione del concilio, saluta il sovrano franco, che ha rinnovato la consuetudine imperiale costantiniana, come spiritalis compater, padre con il quale condividere la funzione spirituale. In una lettera a papa Leone III in prossimità dell’800, Carlo precisa che: al papa spetta il compito di sollevare le braccia al Cielo e intercedere con la preghiera per la vittoria degli eserciti franchi, al sovrano spetta il compito di difendere la chiesa all’esterno dai suoi nemici, e di difendere all’interno l’integrità della fede.

Sotto gli Ottoni si assiste a un rafforzamento della sacralità regale e della preminenza dell’imperatore rispetto alla chiesa. L’ordine di Magonza, che descrive dettagliatamente la liturgia dell’incoronazione del sovrano, assimila la consacrazione del signore all’ordinazione dei vescovi. Nel corso del cerimoniale, il sovrano si genuflette dinanzi all’altare e si impegna a governare e proteggere le chiese, gli ecclesiastici e il popolo con accortezza, giustizia e nel timor di Dio. L’unzione con olio catecumenale richiama quella di David ad opera di Samuele, nonché quella battesimale e dei vescovi. Questa somiglianza con le consacrazioni vescovili è riflessa anche dalla consegna della spada, dell’anello, del fermaglio, del mantello e di altri segni della regalità. La corona, che secondo P.E. Schramm «doveva poi distinguere i successori di Ottone, fossero essi re o imperatori», nella ricostruzione del Decker-Haulf, è carica di simbolismi vetero testamentari. Lo Schramm fa discendere dal mantello e dagli ornamenti del Sommo Sacerdote di Gerusalemme il mantello di Ottone I e dei suoi discendenti e il mantello cosmico di Enrico II, con figurazioni dello zodiaco e scene dell’apocalisse. Il re è l’alto sacerdote del popolo di Dio. L’insistenza sull’aspetto spirituale della regalità e la quasi partecipazione di questa al ministero ecclesiastico segnano una sostanziale cancellazione dei confini tra le sfere spirituale e profana. Il Privilegium Othonis affermava il controllo imperiale sul papato e il contratto Ottonianum imponeva ai papi di giurare in favore dell’imperatore prima della loro consacrazione.

Tutto ciò dà l’impressione di una sorta di cesaropapismo occidentale, tuttavia assai lontano dai fatti. L’estrema debolezza dello stato imperiale mai consentì di approssimare neppure l’ombra di una autocrazia di tipo bizantino e di una chiesa di stato. Nella realtà, la figura del sovrano giunse solo ad esprimere un equivoco mescolamento delle sfere

136 A detta di Eginardo,: «in un primo momento ne fu così contrariato da dichiarare che in quel giorno, anche se era la più grande festività, non sarebbe mai entrato in chiesa se avesse potuto avere un qualche indizio del progetto del pontefice». Cfr. Eginardo, Vita di Carlo Magno, Bompiani, Milano 1995 pag. 41

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spirituale e temporale, senza mai pervenire ad una chiara definizione e attribuzione, al sovrano, di un ruolo di capo religioso. Presto tale equivoco sarebbe degenerato in una dura lotta per il potere fra papi e imperatori, che avrebbe pesantemente indebolito il potere statale proprio nel decisivo periodo in cui la ripresa del mondo occidentale si apprestava a prefigurare nuove forme di sovranità, più inclini verso quelle conosciute dall’antico mondo mediterraneo pullulante di città stato.

Già sotto i deboli successori di Carlomagno prendono ad essere definiti, nelle assemblee dell’828 e 829, nuovi criteri direttivi di coordinazione delle sfere spirituale e temporale. La principale materia del contendere è la proprietà e l’amministrazione dell’immenso patrimonio di chiese e conventi, che vengono attribuite ai vescovi. A questi viene però interdetta l’intromissione in attività temporali non implicate dal loro ruolo. Lo Specchio dei Principi del vescovo Giona d’Orleans ha cura di sottolineare che il re che viola le norme etiche diventa tiranno e perde il diritto alla propria funzione. I vescovi hanno il compito di vigilare sull’osservanza di tali norme; essi sono deputati a giudicare il re ma non possono essere da questi giudicati. Attone di Vercelli si diffonde sulle tecniche del potere tirannico. Queste disposizioni, pur dirette a condizionare il potere principesco a vantaggio di quello della chiesa, assai più che a mitigare l’esercizio del potere, nella pratica hanno l’effetto di moderare gli abusi del potere sovrano. Il vescovo Incmaro di Reims insiste sul dualismo dei poteri, con il fine di sottolineare l’indipendenza dei vescovi e la superiorità del potere religioso rispetto a quello civile. Verso la metà del secolo IX, papa Nicola I rivendica l’autorità papale sui vescovi e il consenso del papa alla assegnazione delle loro sedi, ed afferma che i sacerdoti non ricadono nella giurisdizione regia. Riprende quota la distinzione gelasiana fra autorità dei pontefici e potere regio; così la dottrina dei due poteri, che non tarderà ad assumere forme virulente, inizia a prendere il largo.

Verso la metà del secolo IX era stata apprestata quell’ampia rete di falsificazioni passate alla storia con il nome di decretali pseudo-isidoriane: una raccolta di documenti attribuita a papi vissuti prima e dopo Costantino il Grande e a concili da quello di Nicea in poi, avente lo scopo di dimostrare il diritto dei vescovi in dissenso con l’imperatore di appellarsi all’autorità papale. Le pseudo-isidoriane, specie la più famosa di tutte concernente la presunta «donazione di Costantino», fornivano alla chiesa i fondamenti giuridici dell’estensione della giurisdizione papale. Ma occorreva un’iniziativa dura e decisa per poter far valere nella pratica tali rivendicazioni e cancellare così quella parvenza di chiesa di stato che ancora persisteva sotto gli imperatori salici. Tale iniziativa prese quota nel secolo XI, sull’onda del progetto riformatore della chiesa, i cui fautori, con alla testa Umberto di Silvacandida, concentrarono i loro attacchi contro l’occupazione di cariche ecclesiastiche da parte dei laici, accusati di simonia.

Ai laici, ivi compreso l’imperatore, vengono negati compiti sacerdotali, previsti dal precedente ordinamento. Coloro che non vi si adeguano sono additati come agenti della corruzione e dell’anticristo. Agguerriti riformatori, servendosi anche delle falsificazioni formulate dalle decretali pseudo-isidoriane, hanno cura di estendere le basi giuridiche del primato papale, che viene fissato sinteticamente dalle 27 proposizioni del Dictatus Papae di Gregorio VII. Ogni aspetto e ogni diramazione dell’organizzazione ecclesiale sono sottoposti all’autorità papale e dei suoi delegati. Il papa si arroga il diritto di deporre e scomunicare gli imperatori. Viene meno il rapporto di collaborazione fra stato e chiesa, che cede il posto, nelle pretese del papa, all’obbligo di obbedienza delle autorità secolari al potere papale, deputato a legare e sciogliere. Così, la lotta per la libertà della chiesa e per la tutela della sua identità spirituale degenera in una lotta per la conquista della supremazia politica. Questa lotta di poteri contrapposti vivacizza l’ambiente intellettuale, specie il pensiero politico, ed evita lo stabilirsi di un potere unico, totale e soffocante.

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Fino alla rivoluzione gregoriana, la chiesa occidentale non aveva rotto, malgrado tutto, la tradizione di una sostanziale subordinazione al potere dell’imperatore; al riguardo permaneva una sostanziale sintonia dottrinaria con la chiesa d’oriente. Tale sintonia venne interrotta nell’undicesimo secolo, ed iniziò un periodo assai tempestoso nei rapporti fra chiesa e impero. La lotta di Gregorio VII e dei suoi successori fallì nell’intento di imporre il primato della chiesa sullo stato. Ma ebbe pieno successo nell’opera di centralizzazione e riorganizzazione della curia e del potere papale, da cui nacque la concezione moderna del diritto e dello stato, che trovò espressione nel sistema del diritto canonico e che costituisce forse la maggiore eredità della rivoluzione gregoriana. H. J. Berman ha sottolineato questo aspetto. Egli scrive: «La Rivoluzione pontificia gettò le fondamenta per la successiva nascita dello stato laico moderno, privando gli imperatori e i re della competenza spirituale che avevano in precedenza esercitato… La Chiesa assunse il carattere paradossale di una Chiesa-Stato, una Kirchenstaat: una comunità spirituale che esercitava anche funzioni temporali, e la cui costituzione aveva la stessa forma di quella di uno Stato moderno»137. Dall’ordinamento moderno e accentrato dello stato pontificio e dalla frantumazione dell’idea di impero universale nel corso delle lotte fra chiesa e impero avrebbero tratto ispirazione e impulso gli ordinamenti degli stati nazionali, in via di formazione.

La letteratura sulla primazia del potere papale continuò a fiorire abbondantemente: Bernardo di Chiaravalle elaborò la dottrina della incomparabilità della dignità dei papi. Il papa è il re sacerdote Melchisedech e l’unico vicario di Cristo. Egli soltanto ha la piena potestà (plenitudo potestatis), mentre tutte le altre autorità espletano compiti parziali. Entrambe le spade spettano al papa, ma la chiesa si serve di quella spirituale, mentre quella materiale viene usata dai combattenti, su indirizzo del papa. Per Graziano, la chiesa non deve gestire il potere temporale ma rammentare a questo il compito di difendere la chiesa e chiamarlo alle armi quando è necessario. Alcuni seguaci di Graziano sostenevano che i sovrani hanno ricevuto la loro spada dal papa, dato che a questi spetterebbe il potere di sciogliere e legare giuridicamente, di ordinare i regnanti e deporli.

Uguccione da Pisa sostenne l’indipendenza del potere imperiale, ma con voce flebile e varie limitazioni. Precisamente, egli concedeva che: il sovrano è sottoposto alla giurisdizione spirituale e può venir bandito; ci si può appellare al papa contro l’imperatore che viola il diritto, non esistendo un tribunale più alto per giudicare l’imperatore; in accordo coi principi del regno, il papa può deporre un sovrano dopo ammonizioni e punizioni. In base a questa impostazione, il papa è giudice supremo della cristianità e la sua giurisdizione si estende al temporale in assenza di un tribunale superiore.

Non ha gran rilievo indugiare su queste e simili dottrine visto che, dopotutto, esse vertono su una materia, quella del potere spirituale e del suo ruolo, che non appartiene alla scienza ma alla fede. La scienza può tuttavia pronunciarsi sul fatto che il trionfo delle pretese teocratiche papali avrebbe imprigionato l’occidente in un ordinamento istituzionale privo di capacità evolutive, quale è la teocrazia. Ma ciò non avvenne soprattutto perché, come sappiamo, la concezione del potere politico espressa dal Vangelo e dall’insegnamento degli apostoli può bensì conciliarsi con l’autocrazia ma non accetta la teocrazia.

Riveste invece grande importanza l’elaborazione dottrinale e istituzionale che andò sviluppandosi a partire dalla rivoluzione gregoriana, attraverso la legislazione canonistica. Tale elaborazione conobbe una crescente fioritura, che sotto Innocenzo III toccò l’apice della autorevolezza, cioè la capacità di influenzare i regnanti dell’intera Europa e godette di una incontrastata egemonia culturale. Questo pontefice regolò il problema dei due poteri in base alla seguente definizione: Il potere spirituale spetta indubitabilmente al clero, mentre il potere mondano, che si cura della vita terrena, viene istruito, indirizzato e, quando occorre, giudicato da quello spirituale. Scriveva Innocenzo III: «Così come la luna

137 Cfr. H. J. Berman, Diritto e rivoluzione, Il Mulino, Bologna 1998, pagg. 130-131

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riceve la sua luce dal sole e per tale ragione è inferiore a lui per quantità e qualità, dimensione ed effetti, similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità e quanto più è con essa a contatto, di tanto maggior luce si adorna, e quanto più ne è distante, tanto meno acquista in splendore»138.

L’ordine sacerdotale viene assoggettato alla chiesa romana e inserito in un perfetto ordinamento gerarchico al cui vertice è il papa, successore di Pietro e vicario di Cristo, con potere giurisdizionale sull’intera cristianità. Si sostiene che solo a questa struttura spetterebbe l’attributo dell’universalità, non agli imperatori. Tale potere giurisdizionale e spirituale dei papi permetterebbe loro di giudicare se le azioni dei re sono o meno peccaminose e, per tal via, di intervenire nella sfera mondana. Il monopolio papale dell’universalità permette al pontefice di decidere sulle controversie mondane che possono essere risolte solo da un’autorità posta al di sopra dei regna.

I successori di Innocenzo III esercitarono sempre più ampiamente la plenitudo potestatis (la pienezza dei poteri) nel creare il diritto e, con Innocenzo IV, questa divenne un potere svincolato dalle leggi. Nacque di qui il concetto di legislatore non vincolato dalle leggi che, in uno con la concentrazione di poteri nella curia romana, può essere considerato l’antesignano del moderno stato assoluto. La chiesa ampliò notevolmente il suo diritto di deposizione dei sovrani, interpretando estensivamente il principio dell’aiuto reciproco fra sfera spirituale e mondana. Innocenzo IV giunse a rivendicare il diritto di deporre i regnanti e signori territoriali ritenuti non in grado di far valere il loro potere e di difendere la pace e amministrare la giustizia, e il diritto di nominare un curatore in loro vece. Egli pretese di basare tale potere su una proposizione di diritto naturale: il papa, essendo vicario di Cristo, che non è soltanto dominus della chiesa ma dominus naturalis, sarebbe stato legittimato a punire chiunque trasgredisse il diritto naturale, cristiani o pagani.

La legislazione canonistica apprestò istituzioni nuove, in netto contrasto con il diritto feudale e imperiale. Andando oltre, essa considerò il potere della chiesa e la summa potestas papali in senso temporale e, così operando, assunse il ruolo di battistrada dei moderni stati nazionali e della moderna concezione di stato e sovranità. L’aspetto più importante di questa vicenda è che essa diede vita a una concezione evolutiva del diritto, in opposizione a quella puramente statico conservativa e interpretativa. Ha scritto H. J. Berman: «Contrariamente non solo al diritto popolare, ma anche a quello romano, sia perche post-giustinianeo, il diritto dell’Occidente nel tardo undicesimo secolo e nel dodicesimo e oltre, venne concepito come un sistema organico in via di sviluppo, un corpo di principi e procedure in divenire o in crescita, costruito -come le cattedrali- attraverso le generazioni ed i secoli»139. Ciò ha avuto un grande ruolo nell’agevolare il carattere evolutivo del mondo occidentale dal medioevo in avanti, anche se bisogna dire che, in parte notevole, è un riflesso di tale evolutività.

Il potere temporale dei sovrani non subì passivamente le pretese della chiesa e le teorizzazioni dei canonisti. La risposta dei regnanti fu affidata alla riscoperta del diritto romano, principalmente alla pienezza del potere imperiale affermata dalla lex regia di Giustiniano (così come trasmessa da Ulpiano), che definiva la sovranità imperiale. Diversamente dall’imperatore franco-tedesco, l’autocrate bizantino non aveva bisogno dell’unzione e incoronazione papale ma derivava la sua autorità in via immediata da Dio. Così, il riferimento al diritto romano consentì a Federico Barbarossa di insistere sulla sacra autorità imperiale, in opposizione a quella papale, e sulle sue sacre leggi.

La lex regia affermava che «ciò che piace al principe ha valore di legge», e Federico II di Svevia trasse tutte le conseguenze da tale affermazione. Nel Liber Augustalis, ne derivò la pienezza dei poteri legislativi dell’imperatore e la legittimazione di una

138 Dalla lettera di Innocenzo III, Sicut universitatis conditor, del 30 ottobre 1198139 Cfr. H. J. Berman, Diritto e rivoluzione, opera citata, pag. 135

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concezione fortemente autocratica della sovranità imperiale. Ne pagò duramente il prezzo, in quanto tale concezione del potere non gli permise di vedere le grandi opportunità che avrebbe offerto all’impero una forma organizzativa del tipo del Principato di Augusto e Adriano, con le sue autonomie municipali; e lo oppose ai comuni, la parte più dinamica del suo impero, in una disputa logorante e insanabile che, abilmente sfruttata dal papato, portò l’impero alla rovina. Dopo di che, restò aperta agli sviluppi istituzionali dell’Europa occidentale la sola strada degli stati nazionali, con le sue inaudite lacerazioni140. In tale contesto, la lex regia venne riferita ad ogni regno, cioè usata per giustificare la pienezza dei poteri di ogni re, secondo il detto rex imperator in regno suo.

Bartolo di Sassoferrato, utilizzando il concetto di potere originario del popolo espresso dalla lex regia, qualificò il diritto comune e statutario formulato dalle città come leggi che il popolo ha accettato mediante tacito assenso. Così, anche la città viene intesa come dotata di pienezza di poteri legislativi e giurisdizionali. Il consiglio cittadino o anche il solo podestà rappresentano il popolo e le sue intenzioni; hanno perciò la pienezza dei poteri spettante al popolo.

Invece, non ebbe fortuna il ritorno al popolo propiziato dalla riscoperta della lex de imperio di Vespasiano da parte di Cola Di Rienzo, che ne traeva l’argomento della revocabilità di tale lex da parte del popolo, con la conseguenza che il potere sarebbe tornato al popolo di Roma, originario detentore della sovranità. Né arrise successo all’uso conciliarista della lex de imperio che, al fine di dimostrare la superiorità dell’insieme dei fedeli rispetto al papa, intese valorizzare l’affermazione di tale legge, secondo cui è il popolo il detentore originario della sovranità.

In base alle formulazioni giustinianee, solo l’imperatore aveva il diritto di legiferare, mentre ai re non spettava la pienezza di poteri, idonea a crear diritto. Uguccione e soprattutto Giovanni Teutonico sostennero esplicitamente che i re dovevano sottostare all’imperatore e che, nei casi in cui ciò non avveniva, si trattava di situazioni di fatto, contrarie al diritto.

Ai canonisti, che non fondavano il loro diritto sulla continuità dell’impero, si aprivano altre strade. In base alle loro elaborazioni, re ed imperatori dovevano il loro insediamento ad unzione ed elezione. Rifacendosi alla posizione espressa da Innocenzo III nella bolla Per venerabilem, secondo cui il papa può giudicare su questioni mondane coinvolgenti il re poiché questi «non riconosce in nessun modo un superiore nelle cose mondane», e sostituendo all’espressione non riconoscere quella di «non avere», si dedusse che ogni re è imperatore nel suo regno. Con ciò non si intendeva conferire sovranità ai regna ma stabilire la loro pari dignità basata sulla grazia divina e, soprattutto, sussumere questi sotto l’unica universalità papale. Ma la crisi dell’universalismo medievale fece sì che tali sviluppi contribuissero invece a consolidare il principio della piena potestà dei re, che presto si sarebbe risolto contro i papi, contro il popolo e contro le libertà cittadine.

Un nuovo tipo di sovranità regale aveva visto la luce: quella del re laico, tutore dell’ordine e della giustizia, munito di autorità legislativa ed esecutiva, che espletava queste sue funzioni servendosi di un corpo di funzionari professionali. Comunque, nel corso del medioevo il re, pur inteso (sulla scorta del diritto romano), come un legislatore che emana leggi in piena potestà, resta vincolato dal consenso dei Grandi, nel mondo dell’ordinamento per ceti basato sul consensus omnium. La vicende di vari tentativi legiferanti (Siete Partidas di Alfonso X di Castiglia, Majestas Carolina di Carlo IV di Boemia) attestano i limiti del sovrano medievale nel fare il diritto. La regalità deve sempre fare i conti, nel medioevo, con i signori territoriali e con i privilegi di questi. La regola è la reciprocità di obblighi e non il comando della legge e l’obbedienza. In tutto questo si fanno sentire i tentacoli del feudalesimo. Solo il sorgere di casi di necessità e la tutela del

140 Su questa importante occasione perduta ci siamo intrattenuti nel libro L’avventura umana, Edizioni SEAM, Roma, 2000

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bene comune autorizzano il sovrano a legiferare (a creare diritto). La lotta per lo stato moderno coincide, in buona sostanza, con la lotta per la competenza nel definire in modo obbligatorio quei concetti. Si procederà poi, specie in Inghilterra, verso la regola del consenso (approvazione della comunità, consenso dei grandi e autorità reale).

Passiamo ora a considerare tre autori il cui insegnamento sembra costituire la vetta raggiunta dal pensiero politico medievale e tardo medievale, e che ha ampiamente fecondato gli sviluppi successivi, fino ai nostri giorni.

Capitolo VII

Teorie del potere dal periodo medievale all’inizio della modernità

1. Tre teste di ponte delle moderne teorie del potere

a) Tommaso D’Aquino

Con Tommaso d’Aquino la riflessione sul potere e sulla sua legittimazione compie un salto di qualità rispetto alle precedenti teorizzazioni. Questo autore ha fornito una delle migliori risposte alla questione dei limiti del potere ed ha anticipato la soluzione forse più rigorosa sulla questione del potere-dominio. Come è noto, la svolta Tommasiana nasce dalla rielaborazione della filosofia aristotelica in funzione del pensiero teologico cristiano. Questa operazione fa tornare in primo piano l’idea di natura e di diritto naturale, su cui

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insiste Aristotele, e pone il pensiero politico e sociale sul binario della riflessione scientifica.

Già Giovanni di Salisbury aveva affermato la legittimità della conoscenza filosofica dell’ordine naturale in quanto corrispondente alla volontà di Dio. La ricerca tesa a fornire tale conoscenza apre la strada a una dottrina dei doveri naturali. Tommaso precisa che Dio è il principio e la meta del processo di realizzazione dell’uomo; ma il tratto intermedio di tale processo è opera dell’uomo, che lo persegue come parte della creazione, in modo conforme ai suoi scopi. Egli scrive: «Anche l’uomo ha un suo determinato fine cui sono ordinate tutta la sua vita e ogni azione, come è noto: il suo agire, infatti, è guidato dall’intelligenza la quale fa tutto in vista di uno scopo»141. Questa dottrina indirizza la riflessione razionale verso il problema dell’organizzazione della società e, in particolare, verso la teoria della politica.

Aristotele aveva sostenuto che lo stato è una costruzione dell’uomo realizzata secondo natura e secondo ragione tesa a propiziarne il perseguimento dei fini. Seguendo questa impostazione, Tommaso rigetta la dottrina agostiniana secondo cui il potere è sorto in conseguenza del peccato, e cioè per reprimere le inclinazioni peccaminose dell’uomo e guidarlo verso la salvezza. L’Aquinate argomenta che fin dall’inizio, cioè nello stato primordiale di innocenza, c’era il potere sui liberi, anche se non ancora il dominio sugli schiavi.

La schiavitù non esiste per natura, mentre per natura esiste l’unione dei liberi che discende dalla natura umana e dalla ragione, della quale ultima l’uomo si serve per perseguire i suoi fini. Tommaso aggiunge che l’uomo, in quanto essere razionale, vive della legge eterna attraverso la conoscenza, di cui Dio lo ha dotato; pertanto, agire secondo ragione è legge naturale, e le leggi umane debbono essere derivate tramite ragione dalla legge naturale; se contraddicono quest’ultima, non hanno veste di leggi. Dunque il legislatore è vincolato alla legge naturale e lo stato nasce in quanto gli uomini si realizzano come parte della creazione. Vedremo che questa insistenza sulla legge naturale è priva di fondamento se riferita alla realtà sociale in quanto quest’ultima è soggetta a profondi mutamenti.

L’aspetto importante e oltremodo innovativo di questa teorizzazione rispetto al precedente pensiero sociale è il ruolo centrale che viene assegnato alla ragione nella definizione dell’ordinamento politico e dei contenuti del potere. Malgrado alcune commistioni fra ragione e fede, accentuate dai seguaci di Tommaso, questo indirizzo pone le basi per la nascita di una scienza politica propriamente intesa; in particolare, pone le basi di una teoria moderna dello stato e del potere politico. I successivi sviluppi in senso democratico della teoria politica e sul potere non hanno fatto altro che ripercorrere questa strada. Strada purtroppo assai insidiosa, giacché presta il fianco a obbiezioni decisive. Vediamo.

L’esaltazione della lex aeterna, da parte di Tommaso e degli scolastici, può essere accettata in riferimento al mondo della natura ma non per le opere dell’uomo, che la natura ha dotato di capacità creative; infatti tali capacità imprimono agli assetti della società andamenti evolutivi imprevedibili. La vicenda delle dottrine scolastiche avverse all’usura e all’accumulazione del capitale, e delle sofferte circonlocuzioni escogitate per aggirarle, visto che il mondo proseguiva per la sua strada ignorando la sostanza di tali dottrine, dimostra platealmente che le leggi che regolano le società umane, lungi dall’essere eterne ed immutabili, evolvono con le condizioni generali di sviluppo. A nulla valse l’ammonimento che «non esiste nessun motivo che renda lecito accrescere il prezzo per il fatto che se ne dilaziona il pagamento…La necessità…di elevare il tenore di vita e di allargare il giro d’affari, non costituisce un tipo di bisogno tale da eliminare la

141 Cfr. Tommaso d’Aquino, Il governo dei principi, in "Opuscoli politici", ESD, Bologna 1997, pag. 32

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peccaminosità dell’atto»142. L’esempio di Tommaso della formichetta, teso a dimostrare la legittimità e «naturalità» del risparmio a fini di consumo e l’innaturalità dell’accumulazione di capitale praticata dall’imprenditorialità allora emergente e che avrebbe costituito il grande motore dello sviluppo, è straordinariamente istruttivo sulla povertà interpretativa dell’ipotesi giusnaturalista.

Parlando di Aristotele, abbiamo visto che il riferimento alla legge di natura e, sulla base di essa, ai diritti naturali si presta a gravi ambiguità e fraintendimenti. Tommaso è, a questo riguardo, reso più cauto dello stagirita da una assai più lunga osservazione storica. Forte dell’etica cristiana, egli non cade nell’errore di considerare naturale la schiavitù. Nondimeno, non può eludere le insidie insite nella applicazione del concetto di legge naturale alle società umane. Scrive Tommaso: «Ciò che è secondo natura manifesta una situazione ottimale, poiché nei singoli esseri l’opera della natura tocca la perfezione, e nella natura il governo è esercitato da uno solo: la molteplicità delle membra animali è mossa da un unico principio: il cuore… Anche le api hanno un re e c’è un solo Dio». Salvo poi a riconoscere, più realisticamente, che «se, invece, il potere degenera nella ingiustizia, è preferibile che sia esercitato da molti, affinché sia più fragile ed essi si ostacolino reciprocamente»143, vera e propria anticipazione della dottrina della divisione dei poteri. Le proposizioni di "diritto naturale" ricavate dall’Aquinate e, dopo di lui, da giusnaturalisti di varia estrazione, sono argomentazioni derivate in base a ragione. Ma questo fatto non autorizza a chiamarle leggi (o diritti) "naturali". La ragione, anche nel campo delle scienze naturali, serve all’uomo piuttosto per dominare la natura, per eludere e attenuare i condizionamenti derivanti dalle sue leggi. Ma nel campo sociale la ragione va oltre, giacché serve a costruire il mondo degli uomini, con tutti i suoi artifici (civiltà, istituzioni, credenze) e in tal modo a sottrarre l’uomo all’animalità del mondo naturale. Ora, è a tutti evidente che, con lo sviluppo, variano le forme (e le esigenze) organizzative della società. Si può da ciò dedurre che variano le leggi naturali? Certamente no.

Non bisogna mai dimenticare che l’uomo ha inclinazioni e capacità creative. Queste possono essere annichilite da civiltà repressive; ma se si conviene che il proprium dell’uomo risiede nella ragione, si deve convenire che tale annichilimento è innaturale e che l’uomo è, per sua natura (e, se si vuole, per compito assegnatogli dal Creatore nel munirlo di intelligenza), tenuto a sviluppare le sue conoscenze. I cambiamenti della base materiale e intellettuale della società da ciò determinati implicano mutamenti delle esigenze e forme organizzative di questa (cioè nuovi imperativi funzionali). Cosa significa tutto ciò? Significa che l’organizzazione delle società, le forme di stato e le altre istituzioni, essendo opera dell’uomo, della sua attività costruttiva e inventiva, non possono essere dedotte da presunte leggi naturali; sembra più corretto intenderle, invece, come dedotte, in base a ragione, dalle esigenze funzionali caratterizzanti le varie fasi di sviluppo e le forme di civiltà di volta in volta edificate. Il richiamo insistente di Tommaso all’uso della ragione e al conseguente sviluppo delle conoscenze e delle potenzialità umane avrebbe potuto fargli comprendere tutto ciò per via puramente astratta, nonostante il fatto che il carattere quasi-stazionario della società in cui viveva tendesse ad occultare gli effetti dello sviluppo economico sull’organizzazione della società.

Una corretta metodologia dei fenomeni sociali non può affidarsi all’uso della ragione astratta; occorre dare il debito posto all’osservazione. I fenomeni sociali non sono per l’uomo un dato esterno ma una sua costruzione; nell’analizzarli, occorre seguire un metodo costruttivistico, a partire da premesse realistiche. Orbene, la logica costruttivistica di Tommaso è certamente più adeguata, per lo studio della società, dell’osservazionismo di quanti si ispirano al metodo di indagine sulla natura. Purtroppo, sono arbitrarie le sue premesse; precisamente è arbitraria l’idea che la spiegazione della costruzione sociale

142 Cfr. Tommaso d’Aquino, La dilazione nella compravendita, in "Opuscoli politici", opera citata, pagg. 425 e 427143 Cfr. Tommaso d’Aquino, Il governo dei principi, Opera citata, pagg. 40 e 43

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possa essere dedotta da ipotetiche leggi di natura concernenti la società (che invece è opera dell’uomo). Facendo appello a leggi naturali, si pretenderà, più tardi, di giustificare le peggiori aberrazioni e perfino il razzismo. Gli studi di antropologia e sulle civiltà umane smentiscono decisamente tali assunti naturalistici. Vero è che anche le teorie giusnaturalistiche sono nate al servizio di particolari sistemi di dominio: originariamente quello incarnato dalla società medievale, e si sono poi evolute in sintonia con l’evolvere delle forme di potere-dominio.

Quel che resta fondamentale e affascinante nell’insegnamento di Tommaso è il ricorso deciso al ruolo guida della ragione, che candida tale insegnamento a padrino della modernità. La desacralizzazione del potere politico, iniziata con la lotta per le investiture, trovò nella speculazione dell’Aquinate una nuova fondazione basata sullo studio, attraverso la ragione, del perseguimento dei fini dell’uomo costruttore, che spinge il nostro autore a postulare la distinzione dei poteri della chiesa e dello stato: «il re… deve avere l’autorità su tutte le cariche attinenti alla sfera della realtà temporale, ordinandole con il suo potere sovrano»144. Invece, sembra da respingere il concetto di legge naturale. Dovremo ritornare in seguito su questo “equivoco naturalistico”, che pervade e invalida la parte migliore e più suggestiva delle teorie sociali, ivi incluso il pensiero politico della modernità e della nostra epoca.

b) Marsilio da Padova

La lotta fra chiesa e impero per il potere favorì lo sviluppo del pensiero politico, specie del concetto di sovranità. Una delle più importanti opere maturate in tale contesto è il Defensor pacis, di Marsilio da Padova. Marsilio è un sostenitore della monarchia universale, ma non insiste su questo aspetto. Il problema vero risiede per lui nell’assenza di pace e nel mal funzionamento dello stato dovuto alla pretesa papale della piena potestà.

Diversamente dall’Aquinate, in Marsilio il legislatore umano non deve incontrare limiti in più alte leggi metafisiche. Il criterio direttivo dell’azione legislativa deve risiedere solo nella ragione, che impedisce al legislator humanus di fare cose diverse da quel che è utile alla comunità. Ma l’uso della ragione non è sufficiente a garantire il benessere comune; infatti, essa può venire utilizzata anche per soddisfare interessi particolari. L’altra condizione per il perseguimento dell’interesse comune è che a legiferare sia il popolo. Scrive Marsilio: «L’autorità umana di legiferare spetta solo al corpo sociale nella sua totalità o alla sua parte più significativa»145, in quanto solo portatore di un genuino interesse per il bene comune. Egli aggiunge: «Confermo… che una legge ottima possa essere emanata soltanto dall’ascolto e dal consiglio della totalità dei cittadini, supponendo con Aristotele che la legge è ottima quando è fatta in vista del bene comune dei cittadini… È ovvio che una quantità di cittadini maggiore che non una sua certa parte può notare più facilmente in una legge da approvare una inesattezza…(e poco dopo)… il che invece, non accadrebbe se la legge fosse fatta da una o da poche persone che guardassero più alla loro personale utilità che non al bene comune»146. Ma il popolo di Marsilio non è riferito agli individui, bensì ai ceti organizzati (esclude i fanciulli, i non liberi, gli stranieri e le donne, che non sono cittadini). Questo concetto di sovranità popolare non si basa ancora sull’eguaglianza individuale; si ispira, piuttosto, alle costituzioni comunali dell’Italia settentrionale del XIII secolo e dell’inizio del XIV. Ma non è questo il punto. La cosa rilevante è che la sovranità popolare viene energicamente indicata come la fonte del potere politico. Soprattutto, merita grande attenzione la surriferita giustificazione della sovranità popolare con l’argomento che questa è il solo portatore di un genuino interesse per il bene

144 Cfr. Tommaso d’Aquino, Ibidem, pag. 98145 Cfr. Marsilio da Padova, Defensor Pacis, Minerva Italica, Firenze, Roma, Bari 1976, pag. 75146 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pagg. 76 e 77

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comune. Giustificazione ineccepibile in linea di principio, ma che incorre in una difficoltà la quale non ha mai cessato di affliggere la nozione di sovranità popolare. Tale difficoltà concerne la capacità o meno, da parte del popolo, di intendere il "bene comune" . Marsilio dà per scontata la capacità del popolo di riconoscere (e indirizzare le sue scelte verso) l’interesse generale. Egli dice: «Inoltre l’utilità comune di una legge viene meglio valutata dalla totalità dei cittadini per il semplice fatto che nessuno può voler nuocere coscientemente a se stesso»147. Questa capacità del popolo è probabile che esista in società assai semplici, ma non è necessariamente presente nel caso di società complesse, particolarmente nelle moderne società. In verità, l’incapacità del popolo di afferrare i termini dell’interesse generale e, nella sostanza, di esercitare la sua "sovranità" fa sì che nella pratica la sovranità viene esercitata, anche nelle sedicenti democrazie, in barba al popolo e spesso contro il popolo, dai professionisti della politica, da quella che G. Mosca chiamerà la "classe eletta di governo". Questo implica che la sovranità popolare finisce, nella realtà, per rivelarsi una beffa e con ciò viene meno la pretesa legittimazione del potere politico basata su tale sovranità. In effetti, il problema di fondo che attanaglia il fenomeno del potere politico nelle società moderne è di cercare i modi attraverso cui la sovranità del popolo possa realmente operare, cioè quello di porre il popolo nella condizione di esercitare realmente tale prerogativa. Abbiamo diffusamente analizzato questo aspetto nel libro "Understanding the course of social reality" e dovremo tornare ad insistervi ampiamente nel corso di questo studio. Più in generale, sul concetto di potere politico Marsilio incorre in altre e numerose ambiguità, che cercheremo di chiarire procedendo per gradi.

Proprio la suggestiva presa di distanza di Marsilio dal giusnaturalismo medievale fa emergere l’ambiguità di questo autore sulla questione del potere politico. Egli scrive: «Alcuni, però, chiamano "diritto naturale" quella norma della giusta ragione nei riguardi degli affari politici, che sottopongono al diritto divino; e, di conseguenza, tutto ciò che vien fatto secondo la legge divina e secondo il semplice consiglio della giusta ragione è lecito, in senso assoluto; mentre ciò non vale per quanto viene fatto secondo le leggi umane, perché queste talvolta non seguono la retta ragione. E’ evidente però che tanto in questo quanto nell’altro caso, il termine "naturale" viene usato in modo equivoco. Perché sappiamo che non tutti i popoli permettono o ritengono onesti molti precetti fondati sulla norma della retta ragione, ossia quelli che non sono evidenti di per sé a tutti e, di conseguenza, non riconosciuti da tutti. Così accade che vi siano dei comandi, delle proibizioni o permessi secondo la legge divina che non concordano con la legge umana»148. E nella prima parte del libro, parlando dei vari significati del termine legge, Marsilio scrive: «Si può poi considerare la legge ancora in un altro modo, secondo che per la sua osservanza venga dato un precetto coattivo legato ad una punizione o a una ricompensa da attribuire in questo modo, o secondo che venga tramandata per mezzo di un tale precetto; e solo quando è considerata in tal modo viene chiamata "legge" e lo è propriamente»149. Questi sviluppi hanno una duplice valenza: (ecco l’ambiguità), una innegabilmente pregevole, che propugna la valorizzazione della ragione nel governo delle società umane, vista all’inizio; un’altra assai più ambigua, che propende per la statuizione della "positività" del diritto: il criterio del giusto è nelle leggi coercitive, quali che siano, e non al di fuori di esse. Nella prima parte del libro viene posto un chiaro deterrente contro l’arbitrarietà delle legge che consiste nel conferimento al popolo sovrano del ruolo di legislatore. Ma questo deterrente viene a cadere nella seconda parte del libro, in cui si insiste sulla sovranità del principe.

147 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 76148 Cfr. Marsilio da Padova, Il difensore della pace, UTET, Torino 1960, pagg. 383-384. Qui non si fa riferimento all'altra e più sintetica edizione del Defensor pacis, che abbiamo preferito in quanto espone un italiano assai più chiaro ma che non comprende questi brani.149 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 155

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Nel dare la spiegazione del titolo del suo libro, Marsilio scrive: «discute e spiega le cause principali per cui esiste e viene mantenuta la pace e la tranquillità; e quelle per cui nasce invece la contesa che è il suo opposto, ed anche quelle mediante le quali questa contesa può essere però frenata ed eliminata150». Risiede qui, per Marsilio, l’origine dello stato e del potere statale, non nel postulato medievale di attuare la giustizia. Il nostro autore espone un rigoroso concetto di sovranità, che anticipa le elaborazioni che verranno svolte in proposito da Bodin in avanti, concetto indispensabile a che il governante possa esercitare il suo ruolo di defensor pacis. Egli scrive: «sia le leggi che qualsiasi altro istituto legislativo creato con regolare elezione, attendono la necessaria approvazione dall’autorità primaria ma non da alcuna altra… la stessa primaria autorità deve affrontare le necessarie aggiunzioni, modificazioni, cambiamenti generali o anche interpretazioni o sospensioni alle leggi»151. Ed a proposito del conflitto fra chiesa e impero sul potere politico, dice: «Chi fruisce degli onori e dei vantaggi della società civile, quali la pace e la protezione da parte del legislatore umano, non deve poi essere reso esente dagli obblighi della giurisdizione civile senza decreto dello stesso legislatore umano… bisogna dunque sostenere secondo verità che il governante civile estende la propria giurisdizione sui vescovi, sui preti, su tutti i chierici con tutta l’autorità che gli deriva dal fatto di essere legislatore, proprio perché non accada che lo stato sia sommerso e annullato da una pluralità di altri poteri»152. Infatti: «due autorità coattive sulla stessa popolazione, poste su di essa senza alcuna subordinazione una all’altra, finiscono per elidersi a vicenda»153.

Ora il punto è che, nella seconda parte del libro, questa sovranità viene sempre più esplicitamente riferita al potere del principe, difensore della pace, che prende ad essere inteso quale legislatore e governante. Di più. Viene affermato un dovere di obbedienza incondizionata dei sudditi al loro signore. Marsilio scrive: «Chiaramente infatti, in questi passi l’Apostolo insegna che i suoi sudditi devono obbedire ai loro signori secondo la carne, "non solo se sono buoni e saggi ma anche se sono cattivi", come dice il Beato Pietro nel II cap. della sua lettera… Il che poi le glosse dei santi confermano appieno, dicendo chiaramente che i sudditi sono tenuti e anzi obbligati ad obbedire ai loro principi, quanto si voglia malvagi e perfino infedeli»154. E nel cap. V par. 4 del secondo discorso riprende ampiamente il contenuto dell’epistola di Paolo ai romani sul potere, sulla provenienza di questo da Dio, sulla necessità di ubbidire ai principi buoni e malvagi, e cita il parere di Agostino di Ippona sul dovere di sudditanza. Insomma, nella prima parte del libro, dominano l’influenza repubblicana e gli insegnamenti dei comuni riguardanti il popolo legislatore ecc. Invece, nella seconda parte viene enfatizzato il ruolo del capo assoluto, sulla scorta di quel che iniziava a profilarsi nei nascenti stati nazionali, particolarmente in Francia. Assistiamo qui a un vero e proprio ricorso storico: il passaggio dalla repubblica romana (caratterizzata dalla sovranità del popolo) all’impero fu accompagnato dall’emergere di un concetto di sovranità ambiguo, in cui la sovranità del popolo restava sullo sfondo, e figurava come ceduta al principe; ritroviamo la stessa ambiguità nel libro di Marsilio (e nella vicenda del passaggio dai comuni mediovali, con sovranità popolare, agli stati nazionali, governati da sovrani assoluti). Nel Defensor minor, l’inclinazione di Marsilio verso l’assolutismo regio si fa più esplicita; infatti, egli riprende i contenuti della Lex regia secondo cui (nell’interpretazione di Ulpiano) il popolo trasferisce il potere al governante, conferendogli la potestà assoluta di legiferare.

Il postulato della sovranità popolare torna a riemergere, e viene anche indicato quale principio di legittimazione del potere ecclesiastico, nella polemica con la curia romana e le sue decretali e rivendicazioni della pienezza della potestà. Marsilio sostiene che il Concilio

150 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag 741151 Cfr. Marsilio da Padova, Defensor pacis, Minerva Italica, 1976, pag. 74152 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 114153 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 92154 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 136

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generale, formato da delegati delle chiese locali (sacerdoti e laici) ha il compito di decidere sulla dottrina e di imporre e deporre il papa; quest’ultimo altro non è che un organo del concilio ed espressione dell’unità della fede. Ma nella sua foga di sostenere la distinzione fra potere spirituale e temporale, passa il segno, cadendo nell’errore peggiore che uno studioso della sovranità statale possa commettere in presenza di un concetto di sovranità popolare mal definito (come già detto): errore che, riproposto dagli studiosi dei secoli successivi, avrebbe condotto allo stabilirsi delle peggiori tirannidi in nome della sovranità del popolo. Vediamo meglio.

Nell’intento di mostrare, attraverso riferimenti al Vangelo e ai padri della Chiesa, l’infondatezza del potere temporale dei papi, il nostro autore non si limita a negare alla Chiesa il potere di sciogliere e legare («Il peccatore non è dunque liberato dalla pena della morte eterna dal sacerdote, ma da Dio»), che anticipa Lutero. Egli nega anche e recisamente che il potere secolare possa essere svolto nella forma del potere-servizio. Quest’ultimo riguarderebbe solo il potere spirituale. L’affermazione di Cristo sul potere-servizio sarebbe stata da questi indirizzata solo ai suoi interlocutori, gli apostoli, e ai successori di questi, non al potere secolare, che Marsilio intende invece quale dominio crudo e duro. Il nostro autore porta a sostegno di questa sua tesi gli argomenti di Origene, Crisostomo e Girolamo, autori certo non al di sopra di ogni sospetto, visto che sentivano la necessità di conciliare il sistema di dominio del basso impero romano con il Vangelo. Ma, come già visto nel capitolo sul cristianesimo, la separazione del potere temporale da quello spirituale non ha bisogno di questo argomento dato che trova nel Vangelo ben altre e più esplicite statuizioni. Ed è comunque poco credibile che il Vangelo non abbia voluto dire alcunché sul potere temporale, se non per legittimarne anche le forme più oppressive attraverso la risposta di Gesù a Pilato, secondo cui questi non avrebbe avuto alcun potere su di lui se non gli fosse stato concesso da Dio. Infatti, se Cristo è venuto al mondo per liberare l’uomo dal peccato, come può egli aver voluto disinteressarsi della causa maggiore del male e del peccato nel mondo, cioè l’esercizio del potere secolare nella forma del dominio?

Marsilio ribadisce che «nessuna importanza ha il fatto che uno che la esercita (la capacità giurisdizionale, proveniente da Dio) nell’esercizio di essa pecchi»155. Alla pienezza del potere rivendicata dai papi, causa di ogni male, disordine e discordia, contrappone la pienezza dei poteri dello stato secolare. Il concetto di sovranità popolare finisce così per apparire quasi uno strumento pretestuoso usato nella lotta contro le rivendicazioni papali. Certamente Hobbes non disdegnò il concetto marsiliano di sovranità.

In verità, l’insegnamento di Marsilio non brilla per coerenza. La sua importanza risiede piuttosto nel fatto che troviamo nell’opera di questo studioso straordinariamente in grado di sentire e presentire le novità dei tempi, una decisa cesura con il mondo medievale, di cui è figlio, e l’anticipazione delle svolte fondamentali che si accingevano ad aprire nel mondo occidentale la strada alla moderna società dinamica: la riforma protestante e lo stato nazionale laico e assoluto fonte esclusiva del diritto. Nonostante la difesa appassionata dei diritti imperiali, vi troviamo l’avvicendamento, all’universalismo medievale, della nuova forma di sovranità, quella degli stati nazionali, che avrebbe segnato il nuovo corso storico; inoltre, vi troviamo anticipati quasi tutti i maggiori errori dei successivi studi sul potere politico, sui quali dovremo intrattenerci .

c) Guglielmo di Occam. Potere-dominio e potere-servizio

In Marsilio non ci sono sviluppi sul diritto del caso d’emergenza e di un diritto di resistenza (se si eccettua la strenua difesa del libero pensiero). A ciò rimedia il pensiero

155 Cfr. Marsilio da Padova, Ibidem, pag. 96

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politico del francescano inglese G. di Occam, che assegna una posizione centrale alla libertà individuale.

Anche il pensiero politico di questo autore ruota intorno al problema della sovranità, pomo della discordia nella lotta fra chiesa e impero. Come è noto, l’asprezza tardo medievale della polemica in proposito fu alimentata anche dall’emergere nel seno stesso della Chiesa (soprattutto per effetto della corruzione dilagante nella curia papale) di agguerriti oppositori all’egemonia intellettuale di curialisti e canonisti. Fra tutti, spicca la polemica di Occam per originalità e rigore di analisi. Qui non interessa il mero dibattito sulla sovranità papale e imperiale, che rivestono oggi un rilievo prettamente storico. Interessano gli svolgimenti che accompagnarono tale dibattito rilevanti per la teoria sociale.

Occam riprende i brani evangelici sul potere-servizio, nell’intento di negare la doppia sovranità del papa, spirituale e secolare, e la pienezza dei poteri papali. Ma si serve del messaggio evangelico in una maniera assai più sottile e feconda di quel che abbiamo visto fare da Marsilio. In estrema sintesi, la linea del suo ragionamento è la seguente: Il potere andrebbe esercitato nella forma del servizio, specie da parte degli eredi degli apostoli cui fu prescritto da Cristo in modo esplicito; il possesso della pienezza dei poteri induce ad esercitare un dominio turpe e malvagio; inoltre, essa implica la servitù dei fedeli, contraddicendo così le prescrizioni evangeliche sulla libertà degli individui. Per tali motivi, il papato non ha diritto alla plenitudo potestatis.

In verità, all’inizio Occam riprende l’argomento di Marsilio. Egli scrive infatti: «Il supremo potere laicale include per sua natura il dominio… Il supremo potere spirituale… esclude il dominio… Quei due poteri, dunque, non possono essere nelle mani della stessa persona»156. Questo ragionamento incentrato sulla duplicità delle forme di potere (il potere secolare quale dominio e il potere spirituale quale servizio) torna varie volte a far capolino qua e là nella sua analisi, ma in modo sempre più flebile. Comunque, gli equivoci in proposito vengono definitivamente e chiaramente superati nella trattazione sull’ottimo principato, che intende fungere da modello di riferimento per giudicare (e pensare) l’organizzazione dei sistemi sociali. È qui il grande legato lasciato da Occam agli studiosi delle società umane, che purtroppo è restato sepolto fino ai nostri giorni nella sua parte più suggestiva e anticipatrice.

L’autore inizia con l’affermazione che «dall’ottimo principato si esige in primo luogo che sia istituito per il bene comune dei sudditi e non per l’interesse personale di chi ha il potere supremo. Per questo, infatti, l’ottimo principato… non solo differisce dal principato illegittimo, corrotto ed ingiusto, ma anche dal dispotismo, cioè dalla tirannia che è rivolta all’interesse personale di chi comanda, e da ogni altra sovranità, anche legittima, che non è ordinata al bene comune»157. L’autore passa poi a riferire l’ottimo principato all’organizzazione ecclesiale, e a precisarne meglio i contenuti richiamando prescrizioni di Cristo e degli apostoli, dalle quali trae l’argomento che «l’autorità che Cristo gli conferì (al beato Pietro) non potesse affatto contraddire i diritti e le libertà dei fedeli, concessi loro da Dio e dalla natura, dal momento che Pietro ricevette il potere da Cristo per affermare, non per distruggere i diritti e le libertà»158. Qui fa subito capolino il diritto di resistenza dei sudditi. Infatti, aggiunge: «se il beato Pietro avesse comandato a tutta la comunità o a una parte di essa qualcosa contraria ai diritti e alle libertà dei fedeli senza che ci fosse uno stato di necessità o di utilità equiparabile alla necessità, nessuno sarebbe stato obbligato ad eseguire tale ordine (corsivo nostro)»159. Procede poi ad

156 Cfr. G. Ockam, Politica, Rusconi Editore, Milano 1999, pag. 73157 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 275158 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 277159 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 279

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enunciare i passi del Vangelo in cui Cristo definisce (e prescrive agli apostoli) il potere-servizio.

Personalmente credo che l’interpretazione e l’uso di Occam di vari passaggi dei Vangeli siano corretti. Ma questa convinzione è poco rilevante e, per i nostri fini, non avrebbe alcun rilievo se essa venisse dimostrata falsa. Quel che conta è che Occam giunge ad enunciare, sulla scorta del Vangelo, basilari imperativi funzionali delle moderne società dinamiche assai prima che essi si affermassero e quando appena prendevano a far timidamente capolino.

Naturalmente, i riferimenti di Occam ai diritti di "natura" vanno soggetti alle obbiezioni che abbiamo delineato parlando dell’insegnamento di Tommaso d’Aquino; ed il riferimento al "bene comune" resta un’espressione troppo generica per configurare in modo passabilmente stringente una forma organizzativa che lo rispecchi (ma tale genericità non va incontro, in questo caso, alla obbiezione che abbiamo rivolta a Marsilio allorché questi coniuga la sovranità popolare al potere-dominio, visto che Occam respinge il potere-dominio). Ad esempio, è priva di senso la sua affermazione, ispirata ad Aristotele, secondo cui: «È ingiusto e contro natura che qualcuno comandi, come su dei servi, su uomini più insigni o eguali e simili a lui o di cui ci sia qualche non infondata probabilità che diventino più insigni o eguali o simili a lui per virtù e sapienza»160. Infatti, non si vede come intendere tale eguaglianza, somiglianza o superiorità; il potere di comando può essere esercitato su sapienti e virtuosi se l’attitudine per esercitarlo in singoli campi di attività è posseduta da persone diverse dai predetti "sapienti e virtuosi".

Ma seguiamo l’estensione di Occam al mondo secolare della sua analisi sull’ottimo principato. Forse gli aspetti più pregevoli di tale estensione sono: l’esatta percezione del fatto che l’ottimo principato richiede che anche il potere secolare venga esercitato nella forma del servizio, e la precisa concettualizzazione del potere-servizio. Egli scrive: «La sovranità su dei servi, invece, che è detta anche dispotismo, è indirizzata principalmente all’interesse di chi comanda… all’ottimo principato ripugna che tutti i sudditi siano servi di un solo uomo che comanda»161. E in risposta all’obbiezione che la religione perfettissima richiede l’obbedienza perfettissima (cioè totale), richiede quindi dei servi, scrive: «la religione perfettissima non promette semplicemente l’obbedienza in ogni cosa, così come i servi sono tenuti a fare… ma la religione perfettissima promette l’obbedienza in tutto ciò che non è contrario a Dio ed alla sua regola»162. La definizione sia del carattere del potere-servizio sia dei modi per renderlo effettivo appare più chiaramente precisata allorché viene affrontato il problema se il potere supremo debba appartenere ad uno o essere ripartito fra molti. Egli dice: «se il principe supremo è uno solo, non potrà assolutamente esserci nessuna discordia al vertice; nessuno, infatti, è in dissidio con se stesso; (ammette però che)… ad una comunità governata nel migliore dei modi non è necessario che ogni giurisdizione dipenda dal supremo reggitore»163. Dopo di che, riguardo alla nomina nel comando di singole giurisdizioni, scrive: «Al bene comune, per esempio, è indifferente chi legittimamente nomina il comandante dell’esercito o il capo delle milizie, purché costui sappia condurre le guerre con prudenza e valorosamente per la salvezza della repubblica; ed è del pari indifferente al bene comune chi legittimamente nomina un giudice inferiore, purché ciò che è giusto sia correttamente fatto…(e poco oltre)… chi conferisce un potere legittimo ad un uomo non pregiudica il bene comune, purché chi ha il legittimo potere, nell’ambito dell’autorità ricevuta, faccia diligentemente quanto giova al bene comune… e ciò accadrà se colui che esercita tale potere, qualora abbia sbagliato, non possa sottrarsi alla necessaria correzione (corsivo nostro)»164.

160 Cfr. G. OcKam, Ibidem, pagg. 288-289161 Cfr. G. OcKam, Ibidem, pagg. 287 e 289162 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 289163 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pagg. 285 e 301164 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 295

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Vediamo qui che Occam, dopo aver chiarito che il potere-servizio è un potere non arbitrario, delinea le condizioni necessarie per impedire tale arbitrarietà, e precisamente che chi esercita il potere sia tenuto esattamente responsabile per quel che fa, ci sia la possibilità di accertare il grado di successo e rispondenza del potere alla funzione per cui è stato assegnato e ci sia la necessaria correzione per chi sbaglia. Corre una enorme distanza fra queste formulazioni sul potere e la posizione di Marsilio, che configurava la pienezza (e sostanziale dispoticità) del potere secolare, dando per scontato che quest’ultimo dovesse assumere la forma di dominio. Purtroppo il mondo ha seguito Marsilio e non Occam.

Queste posizioni di Occam sul potere vengono ulteriormente chiarite dal suo attacco alla pienezza dei poteri. Il nostro autore non si limita a confutare le rivendicazioni papali della plenitudo potestatis, che renderebbe «la sua sovranità non volta al bene comune ma la farebbe insuperbire eccessivamente e costituirebbe per lui un’occasione per commettere innumerevoli malvagità»165. Generalizzando il discorso sull’ottimo principato, egli scrive: «Infatti, tutti i sudditi di un uomo che ha tale pienezza di poteri, sono suoi servi, secondo l’accezione più rigorosa del termine servo;… Ma contraddice l’ottimo principato il fatto che tutti i sudditi siano servi; dunque, anche ad esso ripugna possedere tale pienezza di poteri»166. Avvertimenti del tutto vani e inascoltati, visto che il concetto di plenitudo potestatis stava sempre più divenendo il termine di riferimento e l’aspirazione del potere secolare, negli stati nazionali che andavano affermandosi in Europa a ridosso del fallimento dell’universalismo medievale.

Occam ha una chiara percezione della necessità del potere. Egli scrive: «se in una comunità non ci fosse nessuno da punire per una colpa o delitto…sembrerebbe del tutto superfluo uno che comanda…La legge è istituita non per i buoni, ma per i malvagi che devono essere corretti e puniti… un capo in primo luogo deve comandare non per i buoni, ma per i malvagi che devono essere repressi»167. Ma chiunque «si distingua per la dignità reale sia che si segnali per qualunque altra dignità, per un qualsiasi crimine, merita, se è correggibile, di essere deposto dalla sua carica»168. E giunge ad ammettere, in nome delle libertà individuali, l’uccisione del tiranno da parte del cittadino.

Vedremo che, del pensiero politico di Occam, solo gli sviluppi sulla centralità dell’individuo e sulle libertà di questi verranno ripresi e approfonditi dal pensiero politico liberale, dopo essere restati per circa cinque secoli voce nel deserto. Ma le fondamentali intuizioni del nostro autore sul potere-servizio, in contrapposizione al potere-dominio, restano tuttora dimenticate e ignorate. Conquistò il campo la linea di pensiero che, sulla scorta della lex regia, intende la sovranità quale insindacabile e indiscutibile potere-dominio del principe. Essa, sul piano teorico, sarà portata da Hobbes alle estreme conseguenze, mentre i suoi effetti pratici toccheranno l’acme con i totalitarismi del secolo XX.

165 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pagg. 9 e 113166 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 291167 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pagg. 291 e 293168 Cfr. G. Ockam, Ibidem, pag. 447

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CAPITOLO VIII

Il salto di qualità nella concezione del potere politico all’inizio dell’età moderna

1. N. Machiavelli e la virtù del dominatore

All’inizio dell’età moderna, il flusso di nuove tecnologie favorì l’addensarsi di forti concentrazioni di potere nelle mani dei signori territoriali: sia facilitando (attraverso la polvere da sparo) le operazioni di conquista, sia perché rese indispensabili notevoli estensioni territoriali (ed elevati aumenti delle entrate tributarie) per poter trarre vantaggio dalle nuove opportunità tecnologiche. La virulenza delle nuove concentrazioni di potere-dominio fu stimolata anche dalla crisi dell’universalismo medievale determinata dalle aspre lotte fra chiesa e impero che, come già visto, provocarono l’estensione, ad opera della stessa curia romana, del concetto di plenitudo potestatis ad entità diverse e più circoscritte dell’impero universale. Questa situazione stimolò le teorizzazioni più acute e spregiudicate del potere inteso quale rapporto di dominio che siano comparse in occidente.

Fra tutte, spicca per acutezza e realismo il pensiero politico di Nicolò Machiavelli. Buon conoscitore dei metodi politici dei principi rinascimentali italiani, questi rappresentò con grande schiettezza il cinismo indispensabile all’esercizio del potere-dominio. Egli,

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primo in occidente, strappò la maschera dietro cui edulcorate elaborazioni sull’origine divina del potere, sulla sua missione al servizio dell’uomo e della salvezza ultraterrena di questi, avevano a lungo celato (o giustificato) le malefatte del potere-dominio. G. Mosca fa torto all’acume di questo studioso allorché scrive: «Machiavelli ebbe per modello quasi esclusivo dello stato il Comune italiano della fine del Quattrocento, colle sue alternative di tirannide e di anarchia, nel quale il potere si conquistava e si perdeva per un gioco di violenze e furberie, che facea guadagnare la partita a chi sapea meglio mentire e dava l’ultimo colpo di pugnale»169. L’analisi di Machiavelli ha una validità assai più generale di quella attribuitagli da Mosca. Egli ha svelato con competenza e incisività forse ineguagliate la sostanza del potere-dominio, cioè i comportamenti che il suo esercizio richiede e sempre richiederà: astuzia, cinismo, prepotenza, inganno, terrore, ecc.

Si incontrano nell’analisi di questo autore riferimenti a caratteristiche comportamentali della natura umana abbastanza diffuse, e quindi la formulazione di consigli utili in generale a trattare con gli uomini: ad esempio, dove si dice che: «è comune difetto degli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta… E quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili che dipendono da te proprio e dalla virtù tua».170 Sul valore generale di altri consigli è lecito qualche dubbio; infatti, non è del tutto chiaro se la validità di essi dipenda o meno dall’abitudine dell’uomo a vivere in un contesto di potere-dominio; ad esempio, quando egli dice: «le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò, che, assaporandosi meno, offendino meno: e’ benefizi si debbono fare poco a poco, acciò si assaporino meglio»171. O: «imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo le necessità… non partirsi dal bene, potendo, ma saper entrare nel male».172 E ancora: «gli uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni»173.

Ma la grandissima parte dei consigli di Machiavelli al principe, e proprio quella in più stridente contraddizione con la morale comune, cioè tutte le ribalderie e i misfatti portati ad esempio al principe quali arti di buon governo, hanno a che vedere con il fenomeno del potere dominio, ed hanno un senso solo in presenza di tale forma di potere. Ad esempio, dove si dice: «hai inimici tutti quelli che hai offesi in occupare quello principato, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hanno messo, per non li potere satisfare in quel modo che si erano presupposto, e per non potere tu usare contro a di loro medicine forti, sendo loro obligato»174. E: «gli offesi non possono nuocere, sendo poveri e dispersi, come è detto…gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere…non li potendo né contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque volta venga la occasione»175. Ancora: «Chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella…E però conviene essere ordinato in modo che, quando e’ non credono più, si possa far loro credere per forza»176. Oppure: «a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo… Bisogna adunque essere golpe e conoscere e’ lacci, e lione e sbigottire e’ lupi».177 Come è evidente, questi consigli, che rappresentano il grosso della “consulenza” di Machiavelli, sono per lo più legati al fatto che il principe deve gestire un potere-dominio.

Un aspetto delicato dell’opera di Machiavelli richiede qualche chiarimento supplementare anche perché rappresenta, a ben vedere, la parte più importante del suo

169 Cfr. G. Mosca, La classe politica, Biblioteca Universale Rizzoli, Roma-Bari, 1994 pag. 43170 Cfr. N. Machiavelli, Il principe, Rizzoli Editore, Milano 1950, pag. 98171 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pag. 46172 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pagg. 66 e 75173 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pag. 96174 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pag. 15175 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pagg. 22 e 29176 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pagg. 31 e 34177 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pagg. 73-74 e 71

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insegnamento. Tale aspetto è espresso incisivamente dalla seguente citazione: «non si curi (il principe) di incorrere nella infamia di quelli vizii (cioè non tener fede ai patti ecc.…), senza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considererà bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la sicurtà e il bene essere suo» 178. Questo insegnamento sul potere è ineccepibile sul piano generale. Dato che non può essere respinto, si è cercato di conciliarlo con l’etica attraverso la teoria della doppia morale. Ma ciò non è indispensabile. Se i (predetti) comportamenti dell’uomo di stato riguardano il soddisfacimento di imperativi funzionali e non il soddisfacimento di personali appetiti dello statista, essi rientrano nel concetto di potere-servizio e quindi si inquadrano nell’eticità del potere in quanto servizio. Ritorneremo su questo aspetto delicato, che ha dato adito a tanta confusione.

La presenza costante, nelle cose umane, del potere nella forma del dominio conferisce agli insegnamenti di Machiavelli il sapore di leggi universali;179 ma essi costituiscono, per la loro grande maggioranza, solo «leggi» riguardanti l’esercizio del potere-dominio. L’organizzazione dei rapporti di potere nella forma del servizio ci trasporta in un mondo in cui le leggi di Machiavelli perdono per lo più validità. La scissione degli aspetti etici dai fenomeni politici, incontestabile nel caso del potere-dominio, cessa di esserlo nel caso del potere-servizio. Infatti, in questo caso, l’aspetto etico diventa costitutivamente un fatto fondante nella organizzazione e gestione del sistema sociale.

Machiavelli credeva nella ripetitività dei fatti storici e, di conseguenza, nella possibilità di ricavare leggi sul modo di essere delle società umane attraverso l’osservazione attenta degli accadimenti verificatisi. Il pregio e, al tempo stesso, il limite della sua opera risiedono nella spregiudicata analisi dei fatti. La scissione dell’aspetto etico dal fenomeno politico, che emerge dall’insegnamento di Machiavelli, fu una mera conseguenza di questa scelta metodologica, cioè della base strettamente osservazionistica della sua analisi; giacché nell’osservazione storica tale scissione emerge come un indubitabile dato di fatto. Questa scissione ebbe l’importante effetto di incoraggiare e motivare il processo di secolarizzazione, liberando così il pensiero politico dalle pesanti e per lo più insensate bardature apprestate dalla scolastica.

Ma in linea di principio non ha senso la pretesa di comprendere i modi di funzionamento dei sistemi sociali attraverso la stretta osservazione dei fatti accaduti, neppure nel caso in cui quegli accadimenti trovino sistematica conferma in tutta la storia fin qui vissuta. Questo non senso dipende da qualcosa di più stringente e reale della perplessità logica di Hume, secondo il quale «è impossibile che argomenti ricavati dall’esperienza possano provare questa somiglianza del passato col futuro, poiché tutti questi argomenti sono fondati appunto sulla supposizione di tale somiglianza»180. Il non senso dipende dal fatto che la realtà sociale è opera dell’uomo, non esterna all’opera di questi e a lui preesistente; più precisamente, dipende dal fatto che, essendo l’uomo un essere creativo, questa sua dote implica una inerente tendenza dei fatti storici a sottrarsi alla ripetitività, specie nelle moderne società dinamiche.

Il grande insegnamento di Machiavelli è stato in realtà male utilizzato. Alcuni lo hanno accettato come una realtà ineluttabile; altri vi hanno replicato con uno sdegnato e astratto moralismo che, in quanto tale, è incapace di incidere sulla realtà. Si dice che Mohammed Alì, kedivé d’Egitto, nel corso dello sterminio dei mammelucchi da parte dei suoi fedeli albanesi, orchestrato con l’inganno, leggesse il Principe di Machiavelli per

178 Cfr. N. Machiavelli, Ibidem, pag. 67179 Non a caso, abbiamo incontrato nell’opera di Nizam al Mulk, che era consigliere del sultano selgiuchide, esaltazioni di episodi delittuosi attuati da potenti e accorti uomini di stato, nonostante l’inclinazione moralista impressa al suo insegnamento dal Corano.180 Cfr. D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Bari 1996, pag. 57

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tranquillizzare la sua coscienza. Ma, se considerato in questo senso, Machiavelli ha avuto ben maggiori e insospettati precursori. Un esempio: quegli assai più tremendi tiranni che furono J. Stalin e Ivan il Terribile non avevano bisogno di Machiavelli per mettersi l’anima in pace. Bastava loro rammentare l’insegnamento di Paolo di Tarso sul potere (riferito all’inizio del capitolo 5) che Stalin, da ex seminarista, ben conosceva, per trovarvi l’assoluzione da tremendi misfatti e vedere i milioni di vittime fatte trucidare e deportare in Siberia quali agenti del male, e se stesso quale agente del bene.

Diversamente da Paolo di Tarso, Machiavelli dichiarava le nefandezze del potere. È molto strano che l’insegnamento del nostro autore non abbia agito da stimolo a sottrarre il mondo agli artigli del potere-dominio ed a costruire formazioni sociali basate sul potere-servizio. L’equivoco metodologico consistente nel considerare la realtà quale “necessità” o comunque a farne il metro esclusivo dell’elaborazione scientifica è il principale responsabile di questa omissione. Tale equivoco conduce gravemente fuori strada i processi di apprendimento della realtà sociale. In particolare, l’idea che il passato dei rapporti umani racchiude il segreto delle leggi del divenire delle società umane lega praticamente le mani all’attività costruttiva dell’uomo, giacché la incatena assai più del necessario al senso e contenuti delle cose accadute. Ma, nonostante tale idea sia stata messa in crisi nella pratica dal dinamismo delle moderne società, continua a condizionare le speculazioni teoretiche.

Nel caso specifico, l’osservazione di un passato sempre e invariabilmente contraddistinto da rapporti di potere-dominio, almeno dal momento in cui il potere di comando ha visto la luce, induce a concludere che quella è l’unica forma possibile dei rapporti di potere e che pertanto gli insegnamenti di Machiavelli esprimono leggi di validità universale. Noi sosteniamo che ciò non è vero, se non in minima parte. Compito di questo studio è di cercare il modo di costruire sistemi sociali che approssimino sempre più il potere all’esercizio di un servizio, allontanandolo così dall’arbitrio di despoti e tiranni che la speculazione storicistica tende ad assolvere.

C’è un punto dell’insegnamento di Machiavelli di grande importanza e concerne la questione del libero arbitrio. Egli dice: «Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi».181 Dovremo ricordarcene parlando di religioni e dei primi studiosi dell’età moderna.

2. Un punto di avvio delle successive linee speculative: Jean Bodin e il concetto di sovranità

L’opera di Bodin sul potere politico è assai al di sotto del contributo di Machiavelli

per incisività, chiarezza e capacità dirompente. Ma la scarsa compattezza e linearità del suo contenuto ben esprimono quel che ribolliva nella pentola del pensiero politico all’inizio dell’età moderna e fanno dell’insegnamento di Bodin un punto di avvio delle principali linee lungo le quali si sarebbe incamminata la successiva speculazione sul potere statale. In particolare, l’opera di questo autore: a) abbozza una incerta transizione dal giusnaturalismo medievale al giusnaturalismo illuminista e moderno; b) segna l’avvio del positivismo giuridico e della speculazione liberale sulla divisione dei poteri.

Ai nostri fini, l’aspetto più importante dell’opera di Bodin è costituito dalla lucida analisi del concetto di “sovranità”. I tempi erano maturi per tale sviluppo. La sovranità dei moderni stati nazionali si faceva sentire distintamente ed incideva con mano sempre più pesante sulle relazioni sociali; esigeva pertanto una precisa teorizzazione. Bodin ha avuto il merito di fornirne una definizione rigorosa. Nondimeno, anche a causa della non linearità della sua analisi complessiva, tale rigore non ha impedito che il concetto

181 Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, pag. 3

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bodiniano di sovranità venisse utilizzato per sviluppare concezioni dell’ordinamento politico fra loro assai divergenti, che spaziano dall’assolutismo di Hobbes, alla nozione liberale di stato di diritto, al moderno giusnaturalismo. Ma procediamo a esaminare dal vivo il pensiero politico del nostro autore, attraverso citazioni che sembrano particolarmente significative.

Scrive Bodin: «lo stato non è più tale senza quel potere sovrano che tiene unite tutte le membra e le parti di esso, che fa di tutte le famiglie e di tutti i collegi un solo corpo». Questo autore definisce la sovranità come «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello stato»182. Purtroppo, mai viene chiarito limpidamente nell’opera del nostro autore il significato del termine assoluto. Egli ha ben ragione di sottolineare che il sovrano può revocare a piacere il potere concesso ai suoi funzionari e che «se il potere assoluto concesso al luogotenente del principe si chiamasse sovranità, egli potrebbe valersene contro il suo principe, che sarebbe ridotto a uno zero, e così il suddito comanderebbe al signore, il servo al padrone, il che è assurdo. Aggiunge poi. (sulla scia di Ulpiano)… ciò che al principe piace consentire o negare, comandare, o proibire, passa in vigore di legge, di editto, di ordinanza»183. Bodin chiarisce che «sotto questo stesso potere di dare e annullare le leggi sono compresi tutti gli altri diritti e prerogative sovrane (e incalza)…la qualifica di sovrano, ossia posto al di sopra di tutti i sudditi, non può convenire a chi di un suo addetto faccia un compagno. Così come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, perché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti,… così possiamo dire che il principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere… Il principe o il duca, infatti, ha il potere di dare la legge ai suoi sudditi collettivamente o come singoli, non è sovrano se a sua volta la riceve da un superiore o da un uguale (anche uguale, perché chi ha un compagno ha un padrone); ancor meno poi si può dire sovrano se non ha il potere altro che in qualità di vicario, luogotenente o reggente»184.

Colpiscono la chiarezza e coerenza di questo concetto di sovranità. Il punto è che esso, preso in sé, può fornire giustificazione anche delle peggiori autocrazie. Pertanto, riveste importanza decisiva chiarire se tale concetto sottende o meno un potere assoluto e illimitato. Ed è qui che iniziano le grandi ambiguità proprie del pensiero bodiniano. Ma vediamo meglio.

Dopo aver ribadito che «le leggi del principe sovrano… non dipendono che dalla sua pura e libera volontà.., il nostro autore aggiunge che… il potere assoluto dei principi e delle signorie sovrane non si estende in alcun modo alle leggi di Dio e della natura» 185. Ancor più significativamente aggiunge, sui limiti della sovranità: «Così si può fissare il principio che il principe non è soggetto alle sue leggi né a quelle dei suoi predecessori, ma lo è ai suoi patti giusti e ragionevoli, soprattutto se essi implicano l’interesse dei sudditi, sia come singoli sia in generale»186. E, rincarando la dose, afferma: «in sede di giustizia, si deve avere meno indulgenza verso il principe che non verso i sudditi, quando si tratti di promesse. Il principe non può togliere al suddito la carica che gli ha conferito, senza giusto motivo… E noi andiamo ancor più in là sostenendo che il principe è talmente obbligato ad osservare i patti che ha fatto con i sudditi, siano essi pure attinenti al solo diritto civile, che non può derogarvi con tutto il suo potere assoluto…Se il principe sovrano non ha potere di oltrepassare i limiti delle leggi naturali, stabilite da quel Dio di cui egli è l’immagine, potrà prendere i beni altrui solo con un motivo giusto e ragionevole: per compera, o scambio, o confisca legittima, o per la salvezza dello stato; o se, trattando la pace col nemico, questa non possa essere conclusa altro che togliendo ai privati le loro proprietà… Non

182 Cfr. J. Bodin, Antologia di scritti politici, Il Mulino, Bologna 1981, pagg. 133 e 141183 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 142 e 148184 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 153 e 154, 155 e 156185 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pag. 146186 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pag. 147

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sussistendo le ragioni che ho dette, il re non può impossessarsi della proprietà altrui e disporne senza il consenso del proprietario»187.

Emerge qui una incisiva indicazione dei limiti del potere, anche se per certi aspetti generica e discutibile, come appare dal riferimento ai diritti di natura, che non si sa bene cosa siano. Dal canto suo, il limite costituito dal riferimento alle leggi di Dio può essere utilizzato per sviluppare dottrine teocratiche (anche se Bodin aveva piuttosto in mente il contributo delle credenze religiose alla stabilità politica); in ogni caso, il suo pensiero evoca gli impedimenti che l’immutabile Verità rivelata frappone allo sviluppo.

Comunque, le citazioni riportate esprimono anche specificazioni molto chiare e stringenti sui limiti del potere, quali l’obbligo (assai insistito) del rispetto dei patti da parte del sovrano, preteso diritto naturale la cui grande importanza consiste nel fatto di costituire un fondamentale imperativo funzionale per la vita delle società umane. Inoltre, merita attenzione l’enunciazione di quei limiti al potere sovrano (che vedremo da altri insistentemente riproposti) suggeriti dalla percezione dell’importanza dell’iniziativa individuale e costituiti dal rispetto della proprietà privata e dal divieto di espropri ingiustificati, la cui inosservanza già due secoli prima Ibn Kaldhun aveva indicato come causa principale del declino delle società islamiche.

Il punto è che manca, nell’opera di Bodin, una precisa statuizione del fatto che la sovranità possa e debba poter essere riferita solo a chi è costitutivamente idoneo (e tenuto) a esercitarla entro i limiti che l’autore vorrebbe veder rispettati. Infatti, Bodin considera vari tipi di sovranità (regimi). Egli predilige la sovranità «regia», dove il monarca «si comporta nei riguardi della legge di natura con la stessa obbedienza che esige dai sudditi nei propri riguardi, lasciando a ciascuno la libertà personale datagli da natura e la proprietà di ciò che gli appartiene… Se i sudditi obbediscono alle leggi del re e il re a quelle di natura, la legge sarà padrona e, come dice Pindaro, regina»188. Ora però, l’osservazione storica mostra al nostro autore anche l’esistenza di altri tipi di sovranità, e precisamente quella dispotica, quella tirannica, e la sovranità popolare. Ebbene, che cosa accade se il re si fa despota o tiranno? Qui Bodin resta schiacciato dalla «assolutezza» del suo concetto di sovranità, e iniziano gli equivoci. Egli scrive: «Nel caso però che il principe sia sovrano assoluto…non è lecito ad alcuno, né a un suddito in particolare, né a tutti i sudditi a titolo collettivo, attentare alla vita e all’onore del monarca, abbia pur questi commesso tutte le malvagità, empietà e crudeltà che si possano enumerare. Quanto alla via legale, il suddito non ha alcun potere di sottoporre a giudizio il suo principe, dal quale gli deriva ogni autorità e ogni potere di comando, e che può revocare ogni potere ai suoi sudditi, di fronte a cui resta sospeso ogni potere e facoltà giurisdizionale di tutti i magistrati, corpi, collegi, comunità, stati, come abbiamo già detto, e come più oltre ripeteremo»189.

Da qui al Leviatano il passo è breve, e vedremo che Hobbes non ebbe esitazione a compierlo, motivandolo con grande rigore logico. Vedremo anche che il problema cruciale del potere politico risiede proprio nell’attribuire la sovranità a chi ha l’interesse costitutivo ad usarla giudiziosamente, con moderazione e buon senso, cioè al popolo, e nel fornire quest’ultimo delle basilari conoscenze indispensabili ad esercitarla.

Non mancano, nell’analisi feconda del nostro autore, accenni alle virtù del metodo della divisione dei poteri. Egli scrive: «Per risolvere dunque la questione se è bene avere assemblee di stati, collegi e comunità, e se la repubblica può farne a meno, si può dire, a parer mio, che non vi è niente di meglio per il mantenimento degli stati popolari e la rovina delle tirannie… e non vi è cosa che abbia provocato la rovina degli stati più dell’avere spogliato il senato e i magistrati della loro autorità ordinaria e legittima, per

187 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 151, 152 e 153188 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 161 e 162189 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 166 e 167

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attribuirla tutta a coloro che detengono la sovranità. Poiché, quanto più il potere sovrano è minore (con riserva delle vere prerogative della maestà) tanto più è sicuro»190.

Vediamo così che c’è di tutto nel succulento piatto sul potere statale cucinato dal signor Bodin. Passiamo ora a vedere come tale piatto sarà gustato dai futuri commensali.

3. La lucidità estremistica di Hobbes

La dottrina e i suoi limitiL’opera di Hobbes si riallaccia alla tradizione giusnaturalista. Ma, rispetto

all’ambiente in cui era prosperato il giusnaturalismo medievale, molta acqua era passata sotto i ponti. Sicché la ricerca hobbesiana di leggi naturali concernenti le relazioni umane e sociali muove da una prospettiva affatto diversa ed opposta rispetto ai giusnaturalisti medievali. Abbiamo visto che fu grande merito di questi ultimi l’enfatizzazione del ruolo della ragione. In Hobbes tale enfatizzazione è estremizzata e, per così dire, desacralizzata. Questi sottolinea preliminarmente che lo stato è creazione dell’uomo, così come l’uomo è creazione di Dio. Ciò significa che, nello studio delle società umane, l’uso della ragione non deve limitarsi alla scoperta dell’ordine impresso al mondo dal Creatore. Ha bensì per oggetto l’ordine che la specie umana, in quanto costituita da individui interagenti, è chiamata a costruire in rapporto alle esigenze di questi ultimi. La razionalità di Hobbes agisce su una base prettamente utilitaristica e individualistica, senza equivoci né tentennamenti; ciò riflette il carattere della civiltà in cui viveva. Egli scrive: «Una legge di natura (lex naturalis) è un precetto, o regola generale, rinvenuto con la ragione, per cui si proibisce all’uomo di fare ciò che è dannoso per la sua vita, o che lo priva dei mezzi di conservarla»191.

Sulla base di tali premesse, Hobbes procede alla derivazione della “prima e fondamentale legge di natura”, quella di difendere se stessi con tutti i mezzi possibili, ivi compresa la guerra quando non sia possibile difendersi in altro modo. Questa fondamentale legge ne implica altre: in primo luogo, la rinuncia al diritto a tutte le cose tipico dello stato di natura, nella misura in cui ciò sia necessario alla pace e alla propria sicurezza e se anche gli altri concordino. E, via via: l’obbligo del rispetto dei patti; l’obbligo della gratitudine; della compiacenza; del perdono; della commisurazione della vendetta al bene che potrà derivarne; il precetto di non odiare o disprezzare gli altri; di riconoscere l’eguaglianza di principio di tutti gli uomini e di giudicare secondo eguaglianza, ecc. Insomma, una successione di dettami tutti orientati a garantire la pace e, con essa, la conservazione degli uomini, e che possono essere compendiati nel principio di non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te.

Prese in sé, queste deduzioni sono certamente incontestabili nella loro qualità di prerequisiti per la vita in società, e possono essere ben considerate «leggi di natura immutabili ed eterne»; infatti, l’accennato principio del non fare ad altri ecc. si incontra, anche se con differenti formulazioni, in tutti i consorzi umani. Esse hanno un indubbio contenuto morale e non implicano una morale necessariamente utilitaristica giacché, come vedremo, possono essere interpretate anche in un senso non propriamente utilitaristico.

Partendo da queste premesse, Hobbes procede a specificare l’origine ed il significato del potere statale. Ed è qui che inizia la parte più discutibile della sua opera. Hobbes muove dal presupposto che gli uomini siano, di fatto, uguali. Egli scrive: «La natura ha fatto gli uomini eguali, nelle facoltà del corpo e della mente, che, sebbene a volte si trovi un uomo chiaramente più forte e più pronto di mente di un altro, pure, in complesso la differenza fra uomo e uomo non è così considerevole, da permettere a un uomo di

190 Cfr. J. Bodin, Ibidem, pagg. 183 e 191191 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti, Roma 2000, pag. 76

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rivendicare un vantaggio, cui un altro non possa a pari titolo pretendere»192. Questa uguaglianza di capacità che instilla in ognuno una uguale speranza di poter soddisfare i propri desideri, ed il fatto che gli uomini sono tutti protesi a perseguire i loro stretti (ed in verità apparenti) interessi individuali, si traduce, nello stato di natura in cui ognuno può aspirare a qualsiasi cosa, in una guerra di tutti contro tutti; quindi una condizione in cui «non è possibile alcuna industria, perché il suo frutto è incerto… dominano la continua paura ed il pericolo di una morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, povera, sordida, bestiale e corta»193.Le fondamentali leggi di natura sopra considerate, indispensabili alla conservazione dell’uomo in società, sarebbero contraddette dalle passioni naturali dell’uomo. In assenza di un potere che imponga l’osservanza di tali basilari leggi naturali, queste resterebbero disattese e i conflitti di interesse la farebbero da padroni.

Da questi svolgimenti Hobbes deduce che la pace sociale richiede l’assoggettamento del corpo sociale ad un potere statale onnipotente, in quanto l’unico idoneo a sottrarre l’uomo allo stato endemico di guerra di tutti contro tutti. Sarebbe dunque giocoforza che la moltitudine degli uomini conferisca un potere incondizionato, insindacabile e irrevocabile a un sovrano (uomo o assemblea) che unifichi le volontà di tutti. Questo sovrano dal potere totale e illimitato potrà bensì commettere iniquità ma non ingiustizia, qualunque cosa decida, giacché il suo comando incarna la volontà del corpo sociale. Ne deriva che il sovrano hobbesiano non può essere punito per le sue decisioni, in quanto queste sono opera di tutti. Lo Stato, unico creatore del diritto, assume la veste del Dio terreno: rende giusto tutto quel che fa, per il semplice fatto che lo fa. Il suddito non è autorizzato a disquisire sulla validità o meno della legge civile. Deve solo rispettarla, in ossequio alla legge naturale che prescrive il rispetto dei patti, quindi anche il patto con cui ha conferito al sovrano il diritto di decidere per lui. Di più. Essendo la pace il fine dello stato, questo ha il diritto insindacabile di giudicare le opinioni, così da accertare se queste sono avverse o favorevoli alla pace. L’uomo ha il diritto di resistenza solo a chi vuole ucciderlo, essendo ciò contrario alla conservazione della vita per cui il patto è stato istituito.

La legge così intesa viene ad avere un carattere meramente formale e convenzionale, del tutto distinto da principi etici; è giusto ed è bene ciò che è conforme alla legge e ingiusto (e male) ciò che non lo è. Scrive Hobbes: «dove non c’è legge non c’è ingiustizia»194. Siamo ben al di là del cinico realismo di Machiavelli. L’assolutismo hobbesiano configura un potere-dominio veramente totale; esso non trova giustificazione nell’idea del diritto divino di sovranità ma in considerazioni attinenti alla pace interna, alla necessità di organizzare razionalmente i rapporti conflittuali degli uomini, insomma agli interessi e al benessere dell’individuo. È un assolutismo, per così dire, “moderno”, che postula una piena secolarizzazione del potere politico. Corre una enorme distanza tra questo assolutismo e i dispotismi di tipo più o meno orientale, che governavano su masse amorfe rese docili da antiche tradizioni di soggezione, da civiltà dell’obbedienza e da istituzioni collettivistiche. L’assolutismo di Hobbes è più virulento dei dispotismi orientali in quanto non deve rendere conto né a Dio, né alla tradizione, ma anche intrinsecamente più fragile di essi in quanto incentrato sugli interessi dell’individuo e quindi piuttosto incline a sospingere quest’ultimo verso la libertà che a mantenerlo eternamente schiavo. Inoltre, diversamente dal giusnaturalismo medievale, che considera l’uomo come parte di corpi intermedi, qui l’individuo è al centro di tutto e lo stesso potere statale risulta da un atto associativo di questa moltitudine di individui.

Hobbes ribadisce e perfeziona la rigorosa dottrina bodiniana della sovranità. Lo insegnamento di questo autore cancella il carattere dualistico della sovranità medievale

192 Cfr. T. Hobbes, Ibidem, pag. 70 193 Cfr. T. Hobbes, Ibidem, pagg. 73-74

194 Cfr. T. Hobbes, Ibidem, pag. 75

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che, con la teoria del doppio contratto, postula due momenti associativi: un pactum societatis con cui gli individui si raccolgono in formazioni sociali, e un pactum subiectionis con cui il popolo delega del tutto (traslatio) o in parte (concessio) il suo potere al sovrano, con la conseguente distinzione delle due personalità del popolo e del sovrano. In Hobbes il pactum unionis è un pactum subiectionis e solo in conseguenza di esso la moltitudine si trasforma in popolo. Ne risulta una concezione dello stato rigorosa e unitaria.

Qui giunto, Hobbes prosegue a precisare i rapporti tra sudditi e sovrano, tramite i concetti di autorizzazione e rappresentanza. In virtù di questi due istituti, la moltitudine diviene una unica persona, autonoma rispetto alla massa e dotata di un’unica volontà, che è volontà di ogni membro della moltitudine. Il sovrano è titolare del potere legislativo, esecutivo, giudiziario, di guerra e di pace, di imposizione e censura. Il sovrano coincide con il popolo e non può esservi contraddizione fra i due; ogni sua azione e decisione è azione e decisione dei sudditi. Di conseguenza, è privo di senso affermare che il sovrano è singulis maior et universis minor giacché l’universis, se inteso come moltitudine, non ha giuridicamente alcun rilievo, se invece è inteso come popolo, questo non esiste al di fuori del potere sovrano, visto che è la volontà del sovrano che crea la volontà del popolo.

Principali obiezioni, alla luce di alcune nostre categorie metodologiche

Questa impostazione, seducente per unitarietà e rigore, soffre di vari punti deboli. Hobbes ha ragione di ritenere che la pace e la sicurezza costituiscono i problemi basilari per la vita dell’uomo in società. Ma la sua deduzione che ciò richieda un potere statale dispotico si basa su presupposti falsi o veri solo in parte. È falsa la supposizione che gli uomini possano essere considerati approssimativamente di uguali attitudini. Infatti, la più evidente disparità distingue le capacità e inclinazioni degli uomini, e tale disparità svolge un ruolo di primissimo piano nel caratterizzare la vita sociale. Sul piano dell’osservazione dei fatti, poi, l’evidenza storica smentisce nel modo più evidente la necessità del potere assoluto hobbesiano. Tale necessità è contraddetta perfino dai regimi dispotici orientali, ancorché popolati da sudditi che accettavano una totale sudditanza con naturalezza, non pensando neppure lontanamente di affrancarsene, anzi si sarebbero trovati in estremo disagio se qualcuno avesse imposto loro di affrancarsene. I dispotismi orientali non costituivano una necessità indispensabile alla conservazione e alla quiete delle società da essi amministrate, ma rappresentavano una delle tante forme di dominio cui gli uomini sono stati assoggettati nel corso della storia. Abbiamo visto peraltro che le formazioni sociali primitive non conoscono forme statuali, con gli annessi poteri di comando, e che nondimeno esse sono assoggettate a un potere della società forse non meno forte e pervasivo del più assoluto dei poteri statali. L’assoggettamento dei primitivi, nell’ambito delle loro società senza Stato, non rappresenta un fragile consenso basato su volontà particolari, come direbbe Hobbes; esso è saldamente basato sulla forza della tradizione e di radicate credenze. Abbiamo visto che Hobbes distingue tra moltitudine e popolo; orbene le società primitive, pur prive di Stato, sono società di moltitudini; eppure esse vivono compatte e integrate intorno a precise prescrizioni. Le società feudali e del medioevo europeo non conobbero poteri politici di tipo assoluto. E si potrebbe proseguire con un’infinità di esempi.

Un maggior senso della storia avrebbe evitato al nostro autore le sue esagerazioni sugli istinti aggressivi dell’uomo. Al riguardo Montesquieu, che aveva un robusto senso della storia, affermava esattamente il contrario di Hobbes, e cioè che l’uomo selvaggio dello stato di natura è estremamente timido e pauroso, non attacca ma fugge e si nasconde, e che proprio questa reciproca paura porterebbe gli uomini ad associarsi. All’affermazione di Hobbes che perfino nelle città i borghesi girano armati e chiudono le porte delle loro

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case per non essere derubati, Montesquieu obbiettava giustamente: «qui si attribuisce agli uomini, prima dell’istituzione della società, ciò che accade soltanto dopo detta istituzione, la quale può offrire i motivi per attaccare e per difendersi»195. In verità, Hobbes si riferiva alla società dei suoi tempi, caratterizzata dal rapido espandersi dell’individualismo, utilitarismo ed egoismo borghesi. Ma proprio qui è il limite delle sue rigorose deduzioni. Ha scritto molto appropriatamente H. Arendt in uno studio che fa un uso assai discutibile di Hobbes per spiegare l’imperialismo borghese-capitalista: «Egli presenta un ritratto quasi completo non dell’uomo in quanto tale, ma dell’uomo borghese»196. Ma, se così è, deve cadere ogni pretesa giusnaturalistica da parte delle deduzioni hobbesiane.

Non si può negare che nell’uomo di tutti i tempi sono presenti, accanto a passioni più o meno sfrenate, anche istinti di benevolenza e, comunque, inclinazioni alla prudenza e socievolezza instillate dalla ragione e dal buon senso. Questo elimina l’esigenza di garantire la pace attraverso un sovrano assoluto, giudice di ogni dottrina e idea: morale, religiosa e politica. Gli uomini non sono a tal punto ciechi e di così corte vedute da inclinare a sbranarsi vicendevolmente. Né appare convincente la presunta legge naturale secondo cui, fuori dallo stato civile, ognuno ha diritto ad ogni cosa. È di evidenza immediata l’infondatezza e insostenibilità di un tale diritto; ognuno sa di doversi dare, o accettare, delle limitazioni nelle pretese e aspirazioni, in corrispondenza alle sue doti, e presto ognuno si avvede che è nel suo interesse farlo. È tipico dello stato di natura di collocare, in qualche modo, ognuno al suo posto. Hobbes non negherebbe che le bestie vivono in uno stato di natura197; eppure esistono nel loro ambito ordini gerarchici, con una divisione di funzioni calibrate sulle capacità.

Sembra evidente che il grande razionalista Hobbes abbia sottovalutato la razionalità e il buon senso degli esseri umani. La causa principale dell’infondatezza della sua teoria del potere politico e dell’origine dello stato risiede in una errata applicazione all’analisi sociale del principio di razionalità. I limiti al potere individuati dal giusnaturalismo medievale derivavano da una commistione di ragione e fede, e precisamente dal fatto che l’ingresso sulla scena della Verità rivelata implica di per sé dei limiti all’esercizio del potere umano. Hobbes ha avuto il merito di separare nettamente la ragione dalla fede, basando la sua analisi sulla ragione in sé, nuda e cruda. Ma senza avvedersi che la ragione, se propriamente usata, conduce diritto a rinvenire limiti al potere; ed è proprio questa la maggiore e più nobile missione della ragione applicata allo studio delle società umane. Il punto è che tale applicazione deve essere ben radicata nella realtà di riferimento, cioè le relative deduzioni debbono muovere da postulati concernenti aspetti assolutamente generali e di primo piano della realtà studiata. Abbiamo visto però che i postulati su cui Hobbes fonda le sue deduzioni sono del tutto discutibili e che questo autore non mostra un grande senso della storia.

Ma quel che più sorprende è che il ragionamento dell’ultra razionalista Hobbes contiene, a ben vedere, un forte elemento di sfiducia proprio nei confronti delle potenzialità della ragione. È facile intuire, infatti, che l’applicazione della ragione all’organizzazione dei sistemi sociali e, in particolare, la costruzione di una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali guiderà alla deduzione (al rinvenimento) di principi organizzativi cui il politico dovrà adeguarsi e che, in quanto tali, limiteranno la libertà d’azione dell’autorità sovrana e il suo potere. La ragione nuda e cruda di Hobbes conduce questo autore al risultato opposto, cioè a scoprire la necessità del potere arbitrario, insindacabile e assoluto del sovrano. È un risultato che, già a prima vista, appare assai sospetto; quel che è peggio, esso pone in un angolo la ragione.

195 Cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1980, pag. 150196 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pag. 194197 Anche se bisogna riconoscere che l’osservazione attenta delle specie animali più evolute induce in serie perplessità a questo riguardo e noi non ci sentiamo di escludere la loro capacità di produrre elementi di civiltà.

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Un ragionamento sulle società umane ben fondato porta a rinvenire delle forme istituzionali che occorre soddisfare per mere esigenze di razionalità, coerenza ed efficienza organizzative, rispetto alle quali non vi è possibilità di scelta (imperativi funzionali, variabili con le condizioni generali di sviluppo). Anche le scelte di civiltà implicheranno, una volta effettuate, l’emergere di “esigenze funzionali”, cioè di istituzioni e ordinamenti con esse coerenti. Se così stanno le cose (ed è del tutto evidente che non possano stare diversamente, a meno di ritenere che la ragione non abbia nulla da dire sull’organizzazione delle società umane), allora appare insensato conferire pieni, insindacabili e arbitrari poteri al “sovrano”, perfino il potere di calpestare i dettami della ragione umana, cioè della grande guida che la natura ha dato all’uomo per governare saggiamente la sua esistenza (ed evitare di procacciarsi gravi e irreparabili danni). Messo di fronte a queste argomentazioni, il razionalista e utilitarista Hobbes sarebbe stato costretto a concordare. Comunque, anche ammesso e non concesso che sia valida l’ipotesi hobbesiana dello homo homini lupus, il problema è di cercare forme organizzative capaci di imbrigliare tale istinto distruttivo, e nulla sta a dire che l’unico rimedio a ciò sia quello di farsi governare dal mostro biblico, il Leviatano di Hobbes.

Gli imperativi (e in minor misura le esigenze) funzionali esprimono delle direttive sull’organizzazione del sistema sociale che costituiscono dei limiti al potere statale, alle possibilità di decisione del sovrano. Ma essi non costituiscono, come vorrebbero i giusnaturalisti, delle leggi naturali, valide in ogni tempo e luogo; costituiscono invece un fatto storico. Il precetto di non fare ad altri quel che non vorresti venisse fatto a te stesso, e tutte le prescrizioni che ne discendono, gagliardamente elencate da Hobbes, costituiscono degli imperativi funzionali, cioè delle regole indispensabili alla vita in società. Nonostante la loro grande longevità, esse rappresentano un dato storico, visto che sono emerse con l’affermarsi della vita in società. Anche la nascita del potere statale, dovuta all’evolvere dalle società tribali verso forme organizzative più complesse, rappresenta un imperativo funzionale. Di più. L’evolvere delle condizioni generali di sviluppo e delle forme di civiltà fa emergere l’esigenza di varie forme di stato. Nella nostra epoca, poi, l’edificazione di un potere politico sopranazionale è divenuto un imperativo funzionale.

Abbiamo visto che l’analisi di Hobbes ha al centro l’individuo. Ebbene, il metodo degli imperativi funzionali dimostra al riguardo una cosa assai importate, e cioè che questa prospettiva individualistica non può essere considerata, in relazione al mondo moderno e alle sue scaturigini, come una scelta di civiltà. È infatti dimostrabile che, in relazione alla moderna società dinamica, la centralità, autonomia e sacralità dell’individuo rappresentano imperativi funzionali. Ma questo bisogno, nella modernità, della autonomia decisionale e comportamentale dell’individuo implica esattamente l’opposto della teoria di Hobbes sul potere sovrano; richiede, infatti, un potere statale limitato.

Vediamo dunque che non c’è bisogno di cercare i limiti del potere in fantomatiche leggi naturali eterne ed immutabili; né è inevitabile, per la conservazione della vita e il suo evolvere, il potere assoluto che Hobbes deduce dalle sue opinabili ipotesi.

Occorre, infine, precisare che la deduzione degli imperativi funzionali non si inquadra in (e non sottende) un’ottica utilitaristica. Essi esprimono esigenze di coerenza organizzativa, in rapporto alle vigenti condizioni generali di sviluppo. Sono svelati e imposti dal mero uso e applicazione della ragione alla realtà osservata, cioè dall’uso di un attributo di cui è dotato l’uomo per comprendere il creato e per ben governarsi.

Costituisce un grande merito di Hobbes l’attribuzione del carattere di storicità al mondo etico-politico. La celebrazione e giustificazione hobbesiana dello stato assoluto furono in sintonia con i tempi in cui il nostro autore viveva, dove appunto l’assolutismo dei grandi stati nazionali andava propiziando lo sviluppo borghese della società. Ma Hobbes non fornisce una teoria generale dello stato e del potere sovrano. L’importanza

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della sua opera non è di tipo positivo ma piuttosto di tipo negativo; consiste cioè nel fatto che l’assurdità ed erroneità delle argomentazioni addotte dalla sua analisi acuta e coerente a sostegno del potere-dominio mettono di per sé fortemente in discussione l’idea che il potere debba assumere necessariamente tale forma.

Conclusione della seconda parte

Abbiamo visto il fenomeno del potere avvolgere con forza il modo di essere delle grandi civiltà orientali e costringerle a vivere in condizioni di quasi immobilità, in sistemi soffocati da solide coerenze istituzionali, comportamentali e etico-valutative. Abbiamo visto poi il potere essesre agitato da incoerenze ed irregolarità fenomeniche sotto la spinta di individualismi talvolta esasperati, capaci di stimolare la riflessione degli studiosi ma tuttavia incapaci di innescare chiare spinte evolutive. In particolare, abbiamo visto il potere approdare a un ordinamento efficiente, equilibrato e non propriamente invasivo grazie alle capacità organizzativistiche degli antichi romani. Poi, l’abbiamo visto subire un processo di involuzione verso un centralismo burocratico di lunga vita e un piatto soffocamento delle capacità evolutive, tornando al palo delle forme di potere quasi vegetative imperanti nelle società orientali. Abbiamo analizzato l’avvento, nel mondo ebraico, cristiano e musulmano, di forme di potere assai più vivaci e inclini allo sviluppo rispetto al mondo precedente essendo esse espressione di civiltà affrancatesi dalla concezione circolare-ripetitiva del tempo storico e pervase da attesa salvifica, e abbiamo visto aprirsi così la strada verso l’agitato mondo medievale. Ciò ridiede grande impulso a importanti approfondimenti teorici sul potere, che surclassarono la grande e peculiare tradizione greco-romana. Infine, con l’annunciarsi dell’età moderna, abbiamo visto gli studi sul potere compiere un salto di qualità e incamminarsi su una movimentata strada analitico-interpretativa che avrebbe più in là conquistato la scena.

PARTE IIITeorie del potere nell’età moderna

Premessa

Conviene iniziare quest’ultima parte con una breve rima sul potere.Politici e dottor sento lodaredei poter (d’abusar) la divisione.e l’alta sovranità popolaredei potenti astutissima invenzione,mentre il pubblico assiste al malaffare e dalla tracotanza trae lezione Il più solenne antidoto al vizio

è rendere il poter quale servizio

Questa terza parte tratta i contributi sulla questione del potere dei maggiori studiosi dell’età moderna. Tali contributi portano in chiara luce le asperità sulle teorizzazioni sul potere già emerse o annunciate nei maggiori contributi di precedenti studiosi che presero a misurarsi con le difficoltà teoriche e pratiche sgorganti, sul fenomeno del potere, dall’incipiente dinamizzazione della realtà sociale. Vedremo poi, nell’epoca delle moderne società dinamiche, fiorire uno spumeggiante teorizzare sul potere ed emergere via via vari

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e contrastanti aspetti delle forme di dominio. Appaiono illuminanti i vari tentativi e proposte volti a debellare tali forme, ma dovremo prendere atto che si è sempre trattato, nella sostanza, di tentativi di nascondimento delle stesse: sia quelli basate sul ricorso a concezioni giusnaturalistiche, sia quelli postulanti il dispiegarsi di una fantomatica ‘volontà generale’ che renderebbe sovrano il popolo, sia infine l’approccio assai più proficuo ed operativo basato sulla divisione dei poteri. Merita rispetto l’attenzione rivolta dagli studiosi al concetto di società aperta ed al ruolo propulsivo della tolleranza. Ci intratterremo sulle implicazioni, sui contenuti e l’evolvere del potere-dominio dovuti al ruolo crescente conquistato dall’economia e sull’influenza di questa sulle forme di potere politico. E vedremo, a dispetto di precedenti studi e suggerimenti tesi a moderare le forme di dominio, queste ultime assumere caratteri via via più espliciti nelle forme di imperialismo stimolate dal correlativo estendersi del potere economico. Quel che è peggio, vedremo prosperare prospettive e formulazioni teoriche sul potere di chiara inclinazione irrazionalistica, che avrebbero stimolato disastrosi conflitti armati soprattutto per impulso di arroganti totalitarismi e in combutta con l’invadenza dell’imperialismo.

Solo più di recente il dibattito sul potere è tornato, per così dire, sulla retta via, cioè a riscoprire l’importanza dei limiti del potere e di idee liberali al riguardo. Ma senza sottrarsi al vicolo cieco intellettuale rappresentato dalla persistenza intonsa del fenomeno, e del concetto, di potere-dominio.

Concluderà questa parte la formulazione di tre fondamentali principi concernenti l’organizzazione dei sistemi sociali.

Capitolo IX

Ambiguità del contrattualismo giusnaturalista. Verso le dottrine liberali del potere

1. Le assurdità giusnaturalistiche dell’analisi di Locke

La speculazione di Locke sullo stato occupa una posizione intermedia tra il tagliente e dissacrante razionalismo di Hobbes e i giusnaturalisti medievali. Per tal motivo, l’analisi del pensiero di questo autore consente di evidenziare con particolare efficacia le pecche del giusnaturalismo, questa strana dottrina che pretende di ricavare attraverso l’uso della ragione leggi naturali eternamente valide concernenti la realtà sociale, cioè una realtà che essendo (diversamente dal mondo della natura) una costruzione dell’uomo, evolve in maniera imprevedibile in forza della creatività umana e che, in quanto tale, si presta solo alla derivazione di regole e principi direttivi storicamente determinati, variabili con le condizioni generali di sviluppo. Locke riprende il criterio di razionalità hobbesiano che, incentrato su assunti utilitaristici, è di per sé unilaterale. Sarebbe bastato spostare l’ottica dall’utilità alla questione più generale della razionalità ed efficienza organizzative definite in rapporto alle vigenti condizioni generali di sviluppo, perché allo sforzo razionalistico si aprisse un orizzonte più ampio, fecondo e meno ingannevole.

Diversamente da Hobbes, Locke non respinge l’idea stoico-scolastica di un universo governato da norme che la ragione umana avrebbe il compito di scoprire. Ma nel “Trattato sul governo” tale idea è presente in una forma assai debole; precisamente, allorché vi si parla di legge di natura scritta nell’animo umano, l’autore intende tale legge nel senso

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della relazione hobbesiana fra utilità e ragione. Nondimeno, tale relazione resta lungi dall’essere sviluppata con la coerenza di Hobbes. Anzi, riemerge continuamente il substrato medioevale del giusnaturalismo e la connessa questione dei limiti del potere. Così, l’eguaglianza tipica dello stato di natura è, in Locke, una eguaglianza di principio e di diritto, non di fatto.

Abbiamo visto che Hobbes utilizza l’affermazione sulla approssimativa eguaglianza degli uomini in quanto a forza fisica e intellettuale, per asserire la capacità degli uomini di distruggersi vicendevolmente. Al contrario, e più realisticamente, Locke enfatizza le disuguaglianze naturali, ed il suo assunto di eguaglianza in principio degli uomini ha carattere metafisico, è un postulato di fede. Ancora, diversamente da Hobbes, in Locke lo stato di natura è uno stato di benevolenza reciproca e di armonia. Egli riconosce tuttavia che tale stato di natura non è esente da conflitti di interesse che generano, data l’assenza di un giudice, uno stato di guerra, cioè di forza esercitata a prescindere dal diritto. Ma, in luogo dell’aspro conflitto omnia erga omnes di Hobbes, si ha uno stato di guerra latente, in cui ognuno ha il diritto di punire i reati commessi contro la legge naturale, in particolare, quelli che attentino alla sua o altrui conservazione. Precisamente, troviamo in Locke uno stato di guerra addolcito da un genuino background giusnaturalista, e cioè dal fatto che la violenza esercitata da ognuno in assenza di diritto deve limitarsi al necessario, alla prevenzione, e non eccedere le dimensioni dell’altrui trasgressione. Scrive Locke: «Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile della semplice sopravvivenza…non si tratta del potere assoluto e arbitrario di disporre di un colpevole… ma solo di retribuirlo secondo i dettami di una sana ragione e della coscienza, in misura della sua trasgressione, tanto cioè quanto può servire come riparazione e prevenzione, che sono i due soli motivi per cui un uomo può fare legittimamente ad un altro quel male che si dice punizione»198.

La guerra latente dello stato di natura lockiano è moderata dall’eguaglianza di principio fra gli uomini, e non subisce l’esasperazione ed estrema inclinazione distruttiva impressa dall’eguaglianza di fatto in presenza di smodate passioni, postulata da Hobbes. Comunque, in entrambi gli studiosi, è l’esigenza di conservazione e di sicurezza che da vita allo (e impone lo) ordine politico. Nello stato di natura, essendo «ciascuno giudice ed esecutore della legge di natura, e gli uomini essendo parziali nei propri confronti, la passione e lo spirito vendicativo tendono a spingerli troppo oltre, e a infiammarli in modo eccessivo, quando si tratta di casi propri, così come la negligenza e il disinteresse tendono a farli noncuranti dei casi altrui»199. La rinuncia a questa prerogativa e la sottoposizione consensuale, per contratto sociale, a leggi oggettive e valide per tutti segna il passaggio dallo stato di natura alla società civile e politica, cioè a una comunità di consociati «congiunti in un solo corpo e che hanno una comune legge vigente e una sola magistratura cui appellarsi, dotata dell’autorità di giudicare le controversie fra loro insorte e di punire i trasgressori»200.

A questo proposito, emerge una grande differenza rispetto a Hobbes. In Locke l’ordine politico mira non solo alla conservazione della vita ma anche di un insieme di diritti «originari» connessi alla persona e riassunti nel concetto di proprietà. Insistentemente Locke afferma che fine principale dello stato è la difesa del diritto di proprietà, inerente alla persona fin dallo stato di natura. Egli scrive: «Il grande e fondamentale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà... Quali che siano le mani cui è affidato, il

198 Cfr. J. Locke, Trattato sul governo, Editori Riuniti, Roma 1997, pag199 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 91200 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 64

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governo riceve il suo mandato a questa condizione e a questo fine: che gli uomini abbiano proprietà assicurata dei loro beni»201. Si leggono nell’opera numerose affermazioni di questo tenore.

La posizione estremistica di Locke sulla proprietà non ha riscontri in tutti i precedenti giusnaturalisti, È interessante considerarla estensivamente in quanto dimostra in maniera esemplare i limiti, sul piano logico e scientifico, del giusnaturalismo, che invece nella analisi di Hobbes restano nascosti in quanto questi, movendo da un’isoletta giusnaturalista, procede a vele spiegate verso le nuove terre che poi sarebbero state esplorate dal positivismo giuridico. Locke intende la proprietà privata come una prosecuzione della persona e garanzia della autonomia dell’individuo di fronte all’invadenza dello stato, un limite ai poteri statali e un mezzo di resistenza contro l’ingerenza di questi nella sfera privata. Egli afferma: «l’essenza della proprietà consiste nel fatto che non può essere tolta a nessuno senza il suo consenso»202. La grande importanza di questa asserzione, per la tutela della libertà, dignità e autonomia individuale e dell’imprenditività è fuori discussione ed è ormai ampiamente sperimentata. Purtroppo, lo scrupolo giusnaturalista di Locke si arresta qui. Egli non considera le implicazioni, soprattutto in termini di potere-dominio e quindi di sfruttamento, che possono discendere da forti concentrazioni di proprietà privata, Nel suo giusnaturalismo non trovano posto le limitazioni alla proprietà privata e una parte cospicua della dottrina sociale dei giusnaturalisti medievali: quella concernente il controllo sociale della proprietà, le leggi sul giusto prezzo e sull’usura, a riprova di quanto poco eterne e immutabili siano le presunte leggi naturali concernenti le società umane.

Locke si ingegna con insistenza di dimostrare che la proprietà è frutto del lavoro umano ed ha certamente ragione quando afferma: «Benché l’acqua che scorre alla fontana sia di tutti, chi può dubitare che l’acqua del secchio sia solo di chi l’ha attinta?»; e quando dice: «Né quest’appropriazione di una parte di terra (con il solo lavoro disponibile) al fine di coltivarla era di pregiudizio ad altri, poiché ve ne era ancora a sufficienza, e di altrettanto buona, più di quanta ne potessero usare coloro che non ne erano ancora provvisti… Dove non c’è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto pregiato da essere accumulato, gli uomini possono estendere la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a prendersi…Non varrebbe neppure la spesa della sua recinzione»203 la parte eccedente le necessità della sua famiglia. Ma poi deve riconoscere che le cose non stanno così. Scrive infatti: «Trovate qualcosa che abbia l’uso e il valore del denaro fra i vicini, e vedrete quello stesso uomo cominciare subito ad allargare i suoi possedimenti»204. Tuttavia, presto si sottrae a questa imbarazzante ammissione, semplicemente affermando, con sconcertante ingenuità e leggerezza: «è evidente che gli uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù oro e argento che può accumulare senza fare torto a nessuno, dato che quei metalli non si deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore»205. Questo equivale ad affermare che Caino aveva il diritto di sgozzare Abele per il semplice fatto che era stato inventato il coltello.

Numerosi sono gli inconvenienti generati dalla forte concentrazione della proprietà in mani private, non solo perché tale fenomeno è causa di espropriazione, cioè di negazione della proprietà altrui; ma soprattutto perché, attraverso la concentrazione, la proprietà si trasforma da mezzo di difesa della dignità e autonomia individuali in un

201 Cfr. J. Locke, Ibidem, pagg. 90, 91 e 2202 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 139203 Cfr. J. Locke, Ibidem, pagg. 27 e 38204 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 38205 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 38

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basilare strumento di fondazione di rapporti di assoggettamento. Già ai tempi di Locke la mercificazione del lavoro, considerata da questi espressione di libertà (la libertà di vendere le proprie capacità lavorative) e l’accelerazione crescente delle forme di accumulazione capitalistica aprivano la strada a grandi concentrazioni di ricchezza in mani private, e quindi di potere-dominio. Il nostro autore nulla paventa da tali concentrazioni, che giustifica in nome della produttività. Mai si chiede se non siano per caso possibili forme organizzative tese a conciliare efficienza ed equità distributiva.

Locke assisteva al nascere della borghesia capitalistica e la sua teoria intendeva spianare la strada a tale fenomeno e legittimarlo. Nella sua opera, lo stato e i suoi limiti hanno il compito di garantire il diritto di proprietà e lo svolgersi senza turbative dei rapporti privati. I poteri delegati allo stato trovano il loro limite, oltre che nella conservazione della vita, nella salvaguardia della proprietà dei consorziati. Di più. Il vero limite al potere dello stato è rappresentato dal diritto di ognuno a usufruire in modo incondizionato dei suoi beni. Locke non perde occasione per ribadire che la proprietà è il diritto naturale per eccellenza, e il solo diritto incondizionato. La vita e libertà possono subire condizionamenti, ad esempio nella sfera militare; solo la proprietà è intangibile. Il vincitore ha un diritto incondizionato sulla vita e la libertà del vinto, ma può prelevare dal patrimonio di questi solo quanto basta per risarcirsi delle perdite arrecategli dal nemico.

La giustificazione del principio censitario nell’attribuzione dei diritti politici completa tale enfatizzazione del ruolo della proprietà privata. Così, l’analisi di Locke, lungi dall’evidenziare delle leggi di natura eterne ed immutabili, tende a giustificare, legittimare e agevolare l’emergere, nel corso della storia, di una nuova forma di potere-dominio, quello borghese-capitalista.

Emerge limpidamente dall’analisi di Locke, al servizio di una particolare forma di stato e di diritto, la funzione mistificatrice incarnata nella storia del pensiero sociale dal concetto di diritti naturali. Nel mondo contemporaneo, dove le grandi multinazionali detengono poteri che travalicano anche il potere politico degli stati nazionali, appaiono con particolare evidenza l’insostenibilità del diritto lockiano all’indefinita appropriazione e la necessità di porre limiti alla proprietà privata; e appare ancor più evidente che la forma borghese di stato è solo una possibile forma di potere politico: a ulteriore riprova dell’improponibilità dell’idea giusnaturalista di leggi della società valide in tutti i tempi e luoghi.

Ma, nonostante queste stravaganze sul diritto di proprietà, la posizione di Locke sul potere politico, inteso come potere di rappresentanza derivato da un mandato della società, è assai più equilibrata ed accettabile della teoria hobbesiana dello stato. Egli bolla con tagliente ironia l’idea del sovrano assoluto, sottolineando che la condizione «di ogni sovrano assoluto rispetto a coloro che sono sotto il suo dominio» è simile a quella delle persone che vivono ancora nello stato di natura, giacché anche esse non hanno sopra di sé un’autorità giudicante. E prosegue dicendo: «Tanto vale pensare che gli uomini siano tanto sciocchi da evitare con cura i danni che possono far loro una faina o una volpe e darsi tranquillamente –convinti, anzi, di mettersi al sicuro- in pasto a un leone»206.

Tuttavia l’analisi di Locke appare debole e ingenua allorché pretende di dimostrare che il preteso consenso del popolo è fondamento del contratto sociale (e quindi del potere statale). Egli afferma: «gli esempi storici mostrano come i regimi politici del mondo, se nati in modo pacifico, su quel fondamento posero la loro origine e furono stabiliti dal consenso del popolo»207. Niente di più errato e contrario all’evidenza storica. Il potere-dominio degli stati è stato sempre imposto all’uomo, con le buone o con le cattive, con la forza o con l’inganno. Peraltro, nei casi in cui il conclamato consenso sgorga da forme di civiltà e di tradizione figlie esse stesse di rapporti di dominio, esso non si può certo

206 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 69207 Cfr. J. Locke, Ibidem, pag. 76

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considerare un consenso genuino, cioè tale da escludere, per l’appunto, il dominio; deve bensì parlarsi di assuefazione. Più in là, per dimostrare che il consenso al grande patto esiste, pur non emergendo mai nel corso della storia, Locke afferma: «il figlio non può generalmente godere della proprietà del padre se non alle stesse condizioni del padre stesso, diventando cioè membro di questa società…ogni uomo che goda del possesso o dell’uso di una qualsiasi parte dei domini di uno Stato dà con ciò stesso il suo tacito consenso ed è tenuto ad obbedire alle leggi di esso per tutta la durata di quella fruizione, al pari di tutti gli altri che vi sono soggetti»208. Ma non è consenso quello imposto col ricatto: ubbidisci al mio dominio e non verrai spogliato dei tuoi beni. Dove mai potrà rifugiarsi il malcapitato consociato e suddito per sottrarsi al dominio, se dovunque intorno vede fiorire il dominio? Questa pretesa manifestazione di consenso non attesta alcunché sulla «democraticità» del potere. Occorrerebbe, semmai, procedere all’inverso, cioè dimostrare prioritariamente l’assenza di dominio, per poter affermare la genuinità del «consenso».

Con questo non si vuol negare che vi siano nel pensiero di Locke sul potere politico elementi di gran pregio, che segneranno un genuino progresso verso la liberazione degli uomini dall’oppressione: in particolare, i chiarimenti sulla divisione dei poteri, sulla supremazia del potere legislativo, sulla sovranità popolare, sulle prerogative tese a mitigare la severità della legge «quando ciò non sia di pregiudizio all’innocente». Bisogna riconoscere a Locke di aver posto le premesse dello stato di diritto. Ma egli, e la generalità dei giusnaturalisti, restano lontani dall’individuare un metodo in grado di derivare scientificamente i limiti del potere. Il concetto di diritti naturali costituisce, al riguardo, una finzione buona per vari usi e ideologie. Sappiamo che lo strumento principe per tale derivazione scientifica è rappresentato dal concetto di imperativi funzionali e che le più accorte formulazioni di diritti "naturali" ruotano intorno a tale concetto. Tanto per fare un esempio, se si guarda al problema dell’organizzazione sociale in una prospettiva storica, cioè se lo si calibra sulle condizioni generali di sviluppo vigenti nelle varie epoche storiche, si comprende che l’eguaglianza e l’autonomia degli individui costituiscono bensì imperativi funzionali non solo delle moderne società dinamiche.

2. J. J. Rousseau: volontà generale e contratto sociale

Il giusnaturalismo di J.J. Rousseau presenta una maggiore coerenza e, diciamo così, genuinità di quello di Locke. Rousseau era un nostalgico dello stato di natura, in quanto contraddistinto da spontaneità e libertà dell’uomo fra animali, alberi e acque. Ma si rendeva conto dell’utilità della legge e dell’inevitabilità dello stato civile. Egli si servì dell’idea di contratto sociale per conciliare libertà e legalità, per mostrare che lo stato e la legge non debbono necessariamente esprimere oppressione e corruzione, ma possono scaturire dalla libertà delle coscienze, e che gli uomini, pur «potendo essere ineguali in forza e in genio, divengono tutti uguali in virtù di convenzione e di diritto»209. Il contratto sociale è un impegno di tutti con tutti, libera espressione della volontà dei consociati, che decidono all’unanimità di sottoporsi alla sovranità delle leggi. Queste ultime coincidono dunque con la volontà di tutti i consociati, intesa non come somma di singole volontà bensì quale unione di esse.

208 Cfr. J. Locke, Ibidem, pagg. 86 e 87209 Cfr. J. J. Rousseau, Contratto sociale, Editrice La Scuola, Brescia, 1962, pag.32. Qui Rousseau inserisce una nota assai significativa sulla sua distanza dal Locke del diritto di indefinita appropriazione. Egli dice: «Sotto i cattivi regimi, questa eguaglianza non è che apparente ed illusoria; essa non serve che a mantenere il povero nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione. Di fatto, le leggi sono sempre utili a quelli che possiedono e nocive a quelli che non hanno nulla: donde ne segue che lo stato sociale non è vantaggioso per gli uomini se non nella misura che essi abbiano tutti qualche cosa e che nessuno di essi abbia troppo». Ibidem, pag. 32 Con queste parole, Rousseau identifica lucidamente una condizione indispensabile allo sradicamento del potere-dominio: la limitazione del diritto di appropriazione.

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Questa «volontà generale» costituisce la pietra miliare della costruzione rousseauiana, lo strumento di cui l’autore si serve per dimostrare che l’obbedienza a leggi che il singolo non condivide non implica suo assoggettamento e schiavitù in quanto ognuno, in virtù del contratto sociale stipulato in condizioni di perfetta eguaglianza con tutti i consociati, non obbedisce che a se stesso essendosi impegnato ad accettare la volontà generale, e così restando libero come prima del contratto. Di più. In nome della volontà generale, si può costringere ad entrare nella vita civile e perciò ad essere libero (dagli arbitri e abusi tipici dello stato di natura) anche chi non lo volesse.

Il contrattualismo rousseauiano differisce da precedenti formulazioni soprattutto per la sua inclinazione democratica, e precisamente perché si pone esplicitamente il problema dell’estinzione, nella società civile, del dominio dell’uomo sull’uomo. Rousseau affida l’espressione della volontà generale ad assemblee popolari ordinarie e straordinarie che decidono a maggioranza. Questa sua posizione è molto netta e non indulge ad alcun compromesso con forme di dominio correnti o in fieri. In Locke la sovranità spetta al popolo possidente, che vota in base a un principio censitario. In Rousseau spetta al popolo tout court. Sulla scia di Bodin, il nostro autore insiste sul fatto che è privo di senso postulare varie sovranità, cioè la frammentazione e contraddittoria contrapposizione di singoli spezzoni della società tutti muniti di pari sovranità, che avevano mitigato le forme di dominio del mondo medievale. Ma la sovranità rousseauiana non ha nulla a che vedere con quella di Hobbes. Il Leviatano hobbesiano è bensì un rappresentante che governa in nome del popolo, ma un popolo che non esiste al di fuori della volontà del rappresentante stesso. Invece, la sovranità rousseauiana risiede nel popolo, nella volontà generale dell’assemblea popolare legiferante; come tale, è indivisibile e non può essere alienata perché la volontà generale non può farsi rappresentare. Per parte sua, il potere esecutivo, principe dei casi particolari, non è sovrano ma subordinato al potere legislativo, dato che a chi fa le leggi spetta il diritto di vigilare sull’applicazione di esse.

L’idea della volontà generale costituisce una grande intuizione che, almeno in linea di principio, fa salva la libertà dei consociati. Le difficoltà sorgono quando si tenta di sposare tale idea con la realtà, allo scopo di accertarne le concrete capacità operative. Purtroppo, Rousseau non entra nel merito dei contenuti della volontà generale; quest’ultima ha l’aria di un’entità religioso-metafisica e, per lo studioso amante della concretezza, di una mera declamazione. L’unica cosa che emerge chiaramente nell’opera di Rousseau è che tale volontà esprime il pubblico interesse. Egli scrive: «Vi è spesso molta differenza tra le volontà di tutti e la volontà generale: questa non riguarda che l’interesse comune»210. E ancora: «ciò che generalizza la volontà è meno il numero dei voti, che l’interesse comune che li unisce»211. C’è un sapore di Marsilio da Padova in queste affermazioni. Ma in Rousseau, come d’altronde in Marsilio, quale sia questo interesse resta inesplicato. Non si va più in là dal dire che esso concerne la comune conservazione e il benessere generale. Ora però, nelle questioni concernenti le società umane, non meno che in quelle concernenti il mondo naturale, l’astrazione non serve a nulla, neppure sul piano analitico, se non viene dimostrato un suo aggancio con i fatti concreti, e quindi una sua potenziale operatività.

Scrive Rousseau: «Se quando il popolo, sufficientemente informato (corsivo nostro), delibera, i cittadini non avessero nessuna comunicazione fra di loro, dal gran numero di piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sempre buona»212. Il cuore di questa proposizione sta nell’espressione «sufficientemente informato». Informato da chi e come? Questo è il punto che occorre chiarire affinché la legge non diventi, da espressione di libertà, strumento di dominio. Ma Rousseau neppure

210 Cfr. J. J. Rousseau, Ibidem, pag. 39211 Cfr. J. J. Rousseau, Ibidem, pag. 43212 Cfr. J. J. Rousseau, Ibidem, pag. 39

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sfiora questo chiarimento cruciale. Vedremo che il concetto di volontà generale ha un senso concreto, un significato operativo, e la sovranità diviene qualcosa di imputabile sostanzialmente (e non solo fittiziamente) al popolo, solo se esiste una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali che precisi i contenuti del pubblico interesse e, ciò facendo, illumini il volere del popolo. Altrimenti, il popolo sarà condannato, in un modo o nell’altro, nella «democrazia» diretta o indiretta, a subire il potere arbitrario di una élite politica. E constaterà che la sua conclamata sovranità è puramente nominale, è un inganno e una mera declamazione. Ritorneremo più oltre su questo aspetto.

Dunque, in Hobbes uomini disperati, in quanto indotti a sgozzarsi a vicenda da una natura in cui la forza delle passioni sovrasta ampiamente la forza della ragione, decidono, per poter sopravvivere, di darsi un sovrano assoluto, al di sopra della legge. Invece, in Rousseau decidono di assoggettarsi alla sovranità di un legislatore con diritto di comminare pene ai trasgressori e, insomma, decidono di sottomettersi alle leggi, per conservare la loro libertà. Purtroppo, la storia smentisce categoricamente questi nobili principi di Rousseau (e Locke). Gli uomini sono stati sempre assoggettati, con la forza e l’inganno, al dominio e allo sfruttamento di pochi e non hanno trovato ancora il modo di liberarsi di questo malanno. L’ottimismo della volontà inclina a seguire Locke e, ancor più, Rousseau; ma il pessimismo generato dall’osservazione dei fatti spinge a dubitare del loro insegnamento. È compito della moderna teoria politica liberare l’uomo da questo scoraggiante dubbio. Di più. Il mondo moderno non può sottrarsi a tale compito se vuole continuare a svilupparsi.

3. Alcune conclusioni e illuminazioni tratte dalle tre impostazioni qui considerate. Tiriamo ora le somme della vicenda intellettuale appena tratteggiata. Muovendo da

posizioni giusnaturalistiche, Hobbes entrò presto in collisione con esse e aprì la strada al positivismo giuridico. Con Locke il giusnaturalismo getta la maschera e si pone esplicitamente al servizio di una specifica e nascente forma di dominio, quello borghese-capitalista. Rousseau resiste gagliardamente a questa tentazione, ma resta a navigare in un mare di contraddizioni, senza mai riuscire ad attraccare in una sponda salda e risolutiva.

Questa è l’eredità del giusnaturalismo, una delle più grandi e affascinanti avventure intellettuali vissute dall’umanità nel tentativo di affrancarsi dalla tetra eredità dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. Purtroppo, ironia della sorte, tale avventura del pensiero politico-sociale, lungi dallo sradicare l’oppressione, ha condotto a giustificarla senza mezzi termini, oppure con ovattate, vuote e contraddittorie declamazioni: tanto radicata e insinuante è la presenza del potere-dominio nelle società umane. Ma questi esiti non debbono scoraggiare gli studiosi. L’importanza della posta in gioco impone di continuare in tale esaltante avventura intellettuale, con l’intento di regolare in maniera scientifica i conti con il fenomeno del potere: oggi più che mai, giacché il fenomeno del potere-dominio semina crescenti e sempre più intollerabili contraddizioni lungo i sentieri della modernità.

L’idea delle leggi di natura è stata una pessima idea, fra le più ingannevoli coniate dall’uomo. Nelle società umane, non si incontrano leggi di natura, e si stenta a ricondurle perfino al regno animale allorché ci si avvede che anche gli animali esprimono capacità inventive: ad esempio, si constata che il gatto e l’orca insegnano ai loro piccoli tecniche di caccia i cui elementi sono talvolta frutto di intelligenti scoperte, e che anche gli animali creano e trasmettono culture. Se guardiamo intorno a noi, vediamo pullulare civiltà e tradizioni create dagli esseri viventi, che poi forgiano il carattere di questi in maniera decisiva. L’individuo isolato è vuota astrazione. Anche Adamo doveva fare i conti con i consigli e i capricci di Eva.

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L’ uomo (e perfino gli animali) hanno bisogno di istituzioni, e queste ne influenzano il divenire. Gli uomini non sono divorati da passioni sregolate e neppure sono uniformemente e indefessamente inclini al bene; sono esseri limitati, imperfetti, ma dotati di ragione cui sono annesse capacità creative. Questi attributi hanno condotto gli esseri umani ad inventare una molteplicità di istituzioni, tecnologie e forme di civiltà, più o meno adatte alla nostra sopravvivenza. L’appetito individuale deve ogni giorno fare i conti, per ragioni di sopravvivenza, con le esigenze imposte dalla vita in società, e in genere si assoggetta a queste con spirito razionale e un utilitarismo di assai più ampia prospettiva di quel che credeva Hobbes, senza bisogno che tale atteggiamento ragionevole gli venga imposto da un dominio assoluto; a meno che i contenuti di civiltà stravaganti rendano ciò necessario. Conforme a ragione è il potere-servizio, non il potere-dominio; quest’ultimo non è figlio della necessità, bensì della beffa e dell’inganno, resi possibili dall’incapacità di ragionare sull’ordine sociale in termini scientifici.

All’opposto di Hobbes, Rousseau inclina a rappresentare l’uomo naturale come pacifico, e ad attribuire i vizi umani alla società. Anche questa è un’esagerazione, pur se meno catastrofica di quella di Hobbes. Ma, in tutti i casi, è un errore assumere il fantomatico uomo naturale quale termine di riferimento. La scienza non ha bisogno di questa finzione. Hobbes fu trascinato dal carattere antagonistico della società in cui viveva a vedere l’uomo come dominato da inclinazioni aggressive. Ma l’homo homini lupus si incontra, al più, in periodi rivoluzionari, di dissoluzione dell’ordine sociale, in cui regnano confusione e contrasti sull’idea di società, in cui dominano l’odio, l’ostilità, il sospetto e il risentimento reciproci. L’uomo naturale, comunque presupposto, non tarda a rivelarsi, a ben guardare, fratello siamese (o figlio) della società dell’autore che esalta tale naturalità. La ragione (e perfino l’istinto) hanno una inclinazione funzionale, tendono cioè ad operare al servizio della sopravvivenza in condizioni diverse, che variano anche a causa delle umane capacità creative. I contenuti di tale inclinazione funzionale, in quanto prodotto della ragione, possono essere compresi tramite l’uso della ragione. A ben vedere, la parte realmente costruttiva del moderno giusnaturalismo non è costituita dalla scoperta di leggi naturali ma dall’identificazione, sotto tale denominazione, di imperativi funzionali indispensabili alla esistenza e allo sviluppo della moderna società dinamica.

4. Un caso a sé: Montesquieu e la divisione dei poteri

L’analisi del barone di Montesquieu sullo “Spirito delle leggi” non può essere propriamente collocata nel filone giusnaturalista. I riferimenti alle leggi di natura che vi affiorano svolgono un ruolo quasi insignificante e vengono espressi in una maniera assai più accorta di quel che abbiamo visto fare dai giusnaturalisti. Montesquieu comprende lucidamente che lo stato di guerra è figlio della società, non dello stato di natura. Egli scrive: «Non appena si costituiscono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza, cessa l’uguaglianza che esisteva fra loro e ha inizio lo stato di guerra (il quale determina) l’istituzione delle leggi fra gli uomini»213. Ciò posto, egli procede ad indagare sulle cause esplicative delle singole leggi positive che gli uomini si sono date nel corso del tempo. La sua indagine coinvolge ampiamente i costumi, le tradizioni, le religioni e le forme di civiltà che improntano lo «spirito generale» delle nazioni. In tale ricerca, il senso della storia, detestato dagli illuministi, agisce in profondità. Vestigia dell’opera della natura compaiono solo allorché vengono analizzati gli effetti del clima sulla legislazione.

Inoltre, l’analisi non sfiora mai le assurdità derivate dal mescolamento di relativismo storico e positivismo giuridico che ha decretato il carattere puramente convenzionale delle leggi. Scrive Montesquieu: «Dire che non vi sia niente di giusto al di fuori di quello che

213 Cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, opera citata, pag. 151

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prescrivono o proibiscono le leggi positive, è come dire che prima che venisse disegnato il circolo i suoi raggi non erano tutti uguali»214. E un po’ più in là: «la ragione umana governa tutti i popoli della terra, le leggi positive e civili di ogni nazione non devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana»215. Vediamo, dunque, che il relativismo storico di Montesquieu è temperato da un sano e ben calibrato razionalismo: non il razionalismo astratto degli illuministi, né quello puramente convenzionalistico che troveremo nei positivisti giuridici, ma un razionalismo fortemente radicato nella realtà e ispirato dall’esperienza storica. Su queste basi, corredate da ampi riferimenti alla vita e ai costumi delle più importanti società terrestri storicamente esistite, il nostro autore procede ad indagare il significato dei sistemi legislativi, al fine di rischiarare la strada al legislatore accorto.

L’indagine del rapporto tra forme di civiltà e sistemi legislativi e, in particolare, l’osservazione degli effetti devastanti delle forme dispotiche di potere sulla vicenda delle società umane, conduce Montesquieu a centrare la sua attenzione sul problema della libertà degli uomini, e precisamente sul modo di tutelarsi dall’invadenza del potere politico. Questo è l’aspetto più importante della sua opera, almeno per i nostri fini. L’indagine storica e l’esperienza quotidiana portano il nostro autore a concludere senza esitazione che il rimedio all’invadenza del potere risiede nella divisione dei poteri, cioè nell’esistenza di poteri controbilanciantisi. Il consolidarsi della società borghese, incentrata sul ruolo del mercato, ha reso sempre più evidente la virtù della divisione dei poteri nel difendere l’uomo dagli arbitri del dominio, virtù immensamente maggiore all’atto pratico delle più dotte disquisizioni sui diritti naturali; ma ne ha anche chiarito i limiti.

Abbiamo avuto modo di vedere che già Polibio individuava la maggior virtù dell’ordinamento politico e giuridico romano nella sapiente suddivisione e nel controbilanciamento dei poteri, da cui era contraddistinto, ed è fuori di dubbio che la divisione dei poteri costituisce il miglior rimedio che l’esperienza storica ha apprestato contro il dispotismo. La linea investigativa polibiana non incontrò fortuna nell’impero romano del Principato che, nonostante la preservazione di poteri controbilancianti e la pionieristica concessione di fondamentali libertà autonomistiche a favore delle province dell’impero, seminò nel campo della dottrina giuridica molta confusione sui poteri del principe-imperatore. Né incontrò fortuna nei periodi feudale e medievale, nonostante la grande frammentazione dell’autorità politica che contraddistinse tali periodi storici. Conobbe una ripresa nell’illuminismo, ed abbiamo trovato chiari riferimenti all’importanza della divisione dei poteri in Locke e Rousseau. Ma fu il barone di Montesquieu, cui l’indagine storica aveva insegnato a diffidare del concetto di diritto naturale, a incardinare la questione dei limiti del potere politico sulla divisione di questo. Egli scrive: «Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti e le controversie dei privati»216 È talmente chiara in lui l’idea dell’importanza di questa divisione dei poteri per la salvaguardia della libertà, che più oltre aggiunge: «Vorrei ricercare, nei governi moderati che conosciamo, quale sia la distribuzione dei tre poteri, e calcolare da quella il grado di libertà di cui ciascuno di essi può godere»217.

Ai nostri giorni, le libertà costituzionali sono incardinate, nel mondo occidentale, proprio sulla distinzione fra potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale. Purtroppo però, questa basilare distinzione resta lungi dall’offrire una alternativa vera e coerente al

214 Cfr. Montesquieu, Ibidem, pag.148215 Cfr. Montesquieu, Ibidem, pag.152

216 Cfr. Montesquieu, Ibidem, pag. 3217 Cfr. Montesquieu, Ibidem, pag. 340

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fenomeno del potere-dominio. Si tratta piuttosto di un rimedio ad hoc, e lo stesso Montesquieu lo riteneva tale, dal momento che consigliava di perseguire la limitazione del potere, dove non era possibile farlo nella maniera inglese, tramite il «potere intermedio subordinato più naturale, quello della nobiltà» o, come in Spagna e Portogallo, tramite il potere del clero.«Barriera sempre buona, qualora non ve ne siano altre: perché, siccome il dispotismo cagiona mali spaventevoli alla natura umana, il male stesso che lo limita è un bene»218.

È quanto mai espressivo della scarsa consistenza propria, sul piano teorico, del metodo della divisione dei poteri il fatto che divisioni e sovrapposizioni degli stessi sono stati utilizzati dai peggiori despoti al fine di vigilare sulla fedeltà dei loro ministri e servitori. Il merito delle forme di divisione, frammentazione e bilanciamento dei poteri conosciute dalla importante linea evolutiva affermatasi in occidente a partire dalla caduta dell’impero romano consiste piuttosto nel fatto di aver condotto allo stabilirsi della «società aperta», nel cui seno è germogliata la società moderna. Infatti questa linea di sviluppo ha consentito la liberazione di potenti energie dinamiche. Tanto più che, nel corso di tale evoluzione, l’insistenza sulla divisione dei poteri politici è riemersa a tempo debito per affrancare l’occidente d’Europa dall’assolutismo degli stati nazionali ed ha rappresentato una basilare componente del pluralismo diffusosi nel mondo occidentale. È divenuta, infine, il mattone principale della costruzione giuridica che ha preso il nome di “Stato di diritto”.

Ma, come ognuno può osservare nel mondo moderno, il sistema della divisione dei poteri, pur immerso nella atmosfera ideologica e strutturale della società aperta, ad esso assai più favorevole di quel che potesse immaginare il barone di Montesquieu giacché ne costituisce il maggior presidio delle capacità evolutive, è restato lontano dall’aver attenuato la presenza del potere-dominio. La divisione e il controbilanciamento di poteri conflittuali imprimono moderazione al potere politico; ma fanno emergere anche inconsistenze e contraddizioni strutturali talora imbarazzanti, visto che le loro capacità limitanti del potere derivano anche e soprattutto dalle incoerenze che infliggono all’ordinamento istituzionale. Beninteso, una certa qual contraddittorietà strutturale è inevitabile nelle società dinamiche, per il fatto stesso del loro dinamismo; dopotutto, essa favorisce la creatività. Ma, l’intima contraddittorietà dei meccanismi basilari dell’ordinamento politico-istituzionale e il fatto di imperniare quest’ultimo sull’interagire di poteri contrapposti costituiscono di per sé fonte di arbitri. Ritorneremo più in là su queste tematiche, per dimostrare che si cela in esse la maggiore e più imbarazzante aporia dell’ordinamento liberal-capitalista, un ordinamento che, comunque lo si intenda, non è meno affetto dal fenomeno del dominio di tante altre formazioni sociali comparse nella storia.

5. L’alba del pensiero liberale e la questione della tolleranza

Passiamo ora a esaminare in che modo il pensiero e la pratica dell’occidente hanno replicato all’out out sul potere formulato da Rousseau e quali limiti incontrano le soluzioni perseguite. Tanto più che la crescente maturazione della coscienza democratica ed il conseguente moltiplicarsi dell’instabilità generata dagli inganni messi in atto per aggirare il problema della sovranità popolare pongono sempre più perentoriamente all’ordine del giorno la necessità di una revisione del problema della democrazia.

Due sono state le vie fin qui seguite dalla democrazia liberale: quella di Montesquieu, cioè della divisione dei poteri, e quella consistente nella proclamazione della centralità dell’individuo e delle sue fondamentali libertà. Entrambe le vie sono confluite

218 Cfr. Montesquieu, Ibidem, pagg. 162 e 163

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nella dottrina liberale dello Stato, incentrata sulla limitazione dei poteri pubblici (che, nella sostanza, costituisce un proseguimento della linea evolutiva inaugurata al riguardo dal mondo feudale e continuata nel periodo medievale) e sul principio romano dell’eguaglianza di fronte alla legge. È molto significativo della debolezza intrinseca in questa linea di ragionamento che gli sviluppi di questa vicenda si siano accompagnati alla affermazione di una delle più potenti (ancorché meno coriacee) forme di dominio comparse nella storia: quello capitalista. Questo paragrafo insisterà, appunto: a) sulla questione della libertà dell’individuo e i suoi nessi con la promozione dello sviluppo e della modernità; b) sulla connessa questione del potere, con lo scopo di accertare come la divisione e frantumazione dei poteri politici non garantisca affatto l’attenuazione delle forme di dominio presenti nella società e possa anzi favorirne il proliferare.

I primi annunci del pensiero politico liberale si sono affacciati all’orizzonte nella secondo metà del XVIII secolo, con l’imporsi del problema della tolleranza nella società multiconfessionale della Sette Province Unite, ricca di fermenti speculativi, religiosi e di relazioni commerciali. Uno dei marchi di autenticità delle dottrine politiche liberali è rappresentato proprio dal principio di tolleranza. Le libertà di speculazione, di conoscenza e di culto religioso furono al centro di aspre polemiche e conobbero acuti approfondimenti in quel periodo storico proiettato verso grandiose conquiste scientifiche, travagliato da tremendi conflitti religiosi e in cui straordinarie scoperte avevano infuso negli uomini una grande sete di conoscenze.

Benedetto Spinoza affermò lapidariamente: «il fine dell’organizzazione politica è la libertà»219. Egli proclamò «l’esigenza di giudicare liberamente… assolutamente indispensabile allo sviluppo delle scienze e delle arti, le quali sono coltivate con successo soltanto da uomini il cui spirito sia svincolato da impedimenti di sorta… Le leggi istituite in riferimento a questioni di carattere speculativo sono totalmente vane e nocive»220. Ed avvertiva che: «quanto più ci si impegna nel togliere agli uomini le libertà di espressione, tanto più tenacemente essi vi si oppongono»221. In sintonia con le tendenze del tempo, annoverava le suddette libertà fra i diritti naturali allorché scriveva: «quanto meno la libertà di giudicare viene consentita, tanto più ci si discosta dalla condizione di natura e di conseguenza si è portati a governare in modo dispotico»222.

Locke è l’autore che, in quel tempo, affrontò con maggiore lucidità il problema della tolleranza. Popple, nel presentarne al lettore la "Lettera sulla tolleranza", che egli tradusse in inglese enfatizzandone qua e là i contenuti, scrive: «Assoluta libertà, giusta e vera libertà, libertà uguale e imparziale; ecco ciò di cui noi abbiamo bisogno»223, a testimonianza di quanto forte fosse non solo l’anelito ma anche l’esigenza pratica della libertà di pensiero, di ricerca ed opinione, nelle società dell’occidente ben permeate dalla rivoluzione scientifica e in marcia verso la rivoluzione economica e commerciale. Per Locke le materie aventi diritto alla "tolleranza universale" sono costituite dalle.«opinioni e azioni che… non hanno alcuna diretta influenza sulla vita degli uomini in società: si tratta di tutte le opinioni speculative e degli atti di culto religioso224»

Nella Lettera sulla tolleranza, egli scrive: «nessuno può, anche se volesse, credere perché ciò gli è stato comandato da un altro…La cura delle anime non può appartenere al magistrato civile, perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima, senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da nessuna forza

219 Cfr. B. Spinoza, Etica e trattato teologico-politico, TEA, Milano, 1991, pag, 722220 Cfr. B. Spinoza, Ibidem, pagg. 725 e 731221 Cfr. B. Spinoza, Ibidem, pagg. 725-726222 Cfr. B. Spinoza, Ibidem, pag. 728223 Cfr. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 4224 Cfr. J. Locke, Saggio sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 80.

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esterna»225. E nel Saggio sulla tolleranza ribadisce: «La costrizione non può cambiare la mente degli uomini: li può soltanto costringere ad essere ipocriti»226.

C’è una grande dose di ottimismo nella insistenza dei campioni seicenteschi della tolleranza sulla impossibilità di esercitare durevolmente e persuasivamente una azione costrittiva sulle coscienze umane. Significativamente tale insistenza si incontra anche in Spinoza, il quale afferma: «nessuno può alienare a favore di altri il proprio diritto naturale, inteso qui come facoltà di pensare liberamente e di portare il proprio giudizio su qualsiasi argomento; né a tale alienazione può essere costretto»227. Questo ottimismo era ben motivato in relazione alle società dell’Occidente aperte, dinamiche e ricche di conflittualità, in cui quegli autori vivevano, ma non è valido in tutti i casi. Se fosse valido in generale, l’uomo non avrebbe molto da temere dall’intolleranza e da questa l’individuo non sarebbe stato tenuto in scacco tanto a lungo sull’intero pianeta; anzi, con fiducia avrebbe potuto attendere il trionfo ovunque della tolleranza, in quanto stampata nella sua natura di essere pensante. Ma la storia dimostra il contrario, e cioè che l’intolleranza ha a lungo oppresso gli uomini di tutti i tempi, complici forme di civiltà più o meno elaborate, e che queste sono in grado di imprimere durevolmente e in modo pervasivo il marchio dei loro contenuti nel carattere degli uomini; tale oppressione si è tranquillamente protratta fino a che è scoccata, per vicende casuali, l’ora delle moderne società.

La tolleranza non è stampata nella natura degli uomini ma deve essere promossa dalle forme di civiltà che essi si danno; ciò rende più acuta l’esigenza di predicare il principio di tolleranza, di insegnarne e pretenderne il rispetto. Con tagliente ironia, Locke scriveva: «Ma se una di queste Chiese ha il potere di perseguitare l’altra, chiedo quale delle due ha questo potere e in base a quale diritto. Si risponderà senza dubbio che la Chiesa ortodossa ha questo diritto nei confronti di quella che erra, e che è eretica. Ma questo è non dir nulla con parole grandi e appariscenti. Ogni Chiesa è ortodossa per se stessa ed erronea o eretica per gli altri: ogni Chiesa crede che sia vero tutto ciò che essa crede, e condanna come errore ciò che è difforme da quello che crede … tra le mille (vie della salvezza) che gli uomini imboccano, quale è quella giusta? Né la cura dello Stato, né il diritto di far leggi hanno svelato con maggiore certezza al magistrato la via che conduce al cielo di quanto non l’abbia svelato a un privato cittadino la propria ricerca»228. Poi, allargando l’orizzonte, aggiungeva: «Quando si tratta degli affari e dei beni familiari o della salute del corpo, ciascuno ha pieno diritto di decidere da sé che cosa gli convenga fare e gli è lecito seguire quello che a suo giudizio è il partito migliore…Nessuno può essere costretto ad essere sano ed a diventar ricco controvoglia… La verità, se non conquista l’intelligenza con la propria luce, non può farlo con l’aiuto di una forza estranea»229.

Voltaire scriveva, nel Dizionario Filosofico: «Che cos’è la tolleranza? E’ l’appannaggio dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura». E nel capitolo conclusivo del ‘Trattato sulla tolleranza’ scrive: «La natura dice a tutti gli uomini: Poiché siete deboli, aiutatevi; poiché siete ignoranti, illuminatevi e sopportatevi».230

Senza il contributo preliminare di queste acute e provocatorie analisi, non è neppure immaginabile l’avvento di dottrine politiche liberali. Tali analisi si limitano però agli aspetti più scottanti della questione della tolleranza, che dilaniavano la società del loro tempo. Ma uno svolgimento completo e approfondito del tema della tolleranza, della fecondità e necessità costitutiva di questa, può aver luogo solo traendo esplicitamente in

225 Cfr. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, opera citata, pag. 226 Cfr. J. Locke, Saggio sulla tolleranza, opera citata, pag. 72227 Cfr. B. Spinoza, opera citata, pag. 719228 Cfr. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, opera citata, pagg. 17 e 23229 Cfr. J. Locke, Ibidem, pagg. 21, 22 e 39230 Cfr. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli editore, Milano, 2002, pag. 156

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ballo i caratteri del processo conoscitivo umano, in quanto costretto dalle capacità limitate della mente umana a procedere per tentativi ed errori. Più in generale, esige l’approfondimento dei meccanismi operativi della società aperta. Come presto vedremo, solo ad un secolo e mezzo di distanza questa più ampia prospettiva riceverà acuti svolgimenti, nell’analisi di J. S. Mill.

6. B. Constant e la monarchia costituzionale

Gli arbitri, l’oppressione e la tirannia che nel corso della rivoluzione francese e nel periodo napoleonico furono perpetrati in nome della ragione, della sovranità popolare e della libertà, imposero una ulteriore e più matura riflessione sulla questione del potere e degli ordinamenti costituzionali. Benjamin Constant rappresenta, a questo riguardo, una delle voci più acute e consapevoli e un iniziatore di quella corrente liberale che, con la sua insistenza sulla democrazia formale, ha forgiato i maggiori strumenti operativi che sono stati apprestati nel corso della storia contro l’arbitrarietà del potere.

In Constant il valore della autonomia e dell’individuo occupa una posizione centrale; dobbiamo ribadire la grande importanza di questa intuizione, che enucleava il principale imperativo funzionale della moderna società dinamica malgrado il nostro autore non ne fosse consapevole. Qui verrà posto l’accento sulla parte dell’insegnamento di Constant che si concentra sulla questione dei limiti, e quindi della divisione, dei poteri, anche perché vengono colà in evidenza molto esplicitamente le difficoltà e aporie insite nel metodo della divisione dei poteri. Scrive Constant: «I tre poteri…esecutivo, legislativo e giudiziario, sono tre forze che devono cooperare, ciascuna per la sua parte, al movimento generale; ma quando queste forze disordinate si incrociano, scontrandosi e urtandosi, ne occorre una che le rimetta al loro posto. Questa forza tuttavia non può risiedere in una di quelle stesse che si scontrano, perché tenderebbe a prevaricare sulle altre; occorre invece che sia al di fuori, che sia in qualche modo neutra, affinché la sua azione si possa applicare ovunque risulti necessario, senza essere ostile, ma preservativa e riparatrice»231.

L’autore individua tale «potere neutro e intermediario tra i poteri»232 nel monarca costituzionale. A questo potere super partes ed, a suo dire, interessato al mantenimento degli equilibri, affida le seguenti prerogative: la nomina e destituzione del potere esecutivo; la sanzione indispensabile a conferire forza di legge alle deliberazioni delle assemblee rappresentative; lo scioglimento della assemblea deliberativa eletta dal popolo; la nomina dei giudici; le decisioni sulla pace e sulla guerra senza però poter pregiudicare, con clausole dei trattati di pace, le condizioni e i diritti dei cittadini del regno. Sulle orme di Montesquieu, Constant sente inoltre l’esigenza di un corpo intermedio, costituito da una nobiltà fornita di poteri e non puramente decorativa, e prevede una camera rappresentativa costituita da nobili e nominata dal re, in numero illimitato acciocché quest’ultimo possa evitare, con ulteriori nomine, il formarsi nell’ambito di essa di un partito in grado di condizionare il potere reale e di governare senza avere il consenso del paese.

Tutte queste prerogative concentrano nelle mani del re un enorme potere di disposizione, deputato a limitare quello dei tre poteri, e quindi a limitare possibilità di abusi, arbitri e prevaricazioni da parte di ognuno di essi. Tale disegno funzionerebbe se fosse garantita la presunta neutralità del potere reale. Constant afferma che questo potere ha l’interesse ad agire con neutralità, ma non lo dimostra; e peraltro la storia insegna il contrario, cioè che chi ha avuto forti poteri ne ha abusato. I comuni medievali italiani crearono la figura super partes del potestà, dotato di ampi poteri, al fine di porre rimedio alle lotte laceranti che turbavano la loro vita, e per assicurarsene la neutralità stabilirono che doveva essere reclutato all’esterno del comune, che non potesse essere rieletto, e ne

231 Cfr. B. Constant, Riflessioni sulle costituzioni e le garanzie, Ideazione Editrice, Roma 1999, pag. 48232 Cfr. B. Constant, Ibidem, pag. 50

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circondarono l’opera con altre norme cautelative. Ma, alla prova dei fatti, il potestà lavorò per il superamento delle libertà comunali e costituì l’anello di passaggio verso il potere signorile.

Solo un accorto bilanciamento dei poteri può moderarne gli abusi. Il «potere reale» di Constant non offre migliori garanzie del metodo (da lui criticato) dei cartaginesi che, nelle sue parole, «crearono i suffeti per porre limiti all’aristocrazia del Senato, il tribunale dei Cento per tenere a bada i suffeti, il tribunale dei Cinque per contenere i Cento»233. È probabile che il super potere del monarca è più pericoloso di questa catena cartaginese del potere, dal momento che nulla garantisce la neutralità di esso. Constant fu affascinato, forse più di Montesquieu, dall’esempio inglese. Ispirandosi a tale esempio, egli compì uno sforzo lucido, ingegnoso e non privo di aspetti pregevoli, teso a delineare alcuni basilari fondamenti dell’ordinamento costituzionale. Ma tale sua lucidità analitica mostra con particolare chiarezza i limiti della divisione dei poteri intesa quale presidio delle libertà costituzionali.

La «legalità», in cui Constant confida, non offre di per sé garanzia contro gli abusi del potere, può solo limitarli. In particolare, la barriera costituita dalla costituzione non risolve il problema. Ha scritto Pompeo Biondi, che di certo non difettava di simpatie per l’opera di Constant: «Ponendo come origine e limite del potere la costituzione, essa trascende e il potere e l’individuo, e dominerà solo il potere che nasce dalla costituzione, ma non già il potere che pone in essere la costituzione, che la modifica o l’annulla»234. Resta aperto cioè il problema del potere costituente, «che modifica e annulla le costituzioni». Non costituisce una soluzione di tale problema il limitare la costituzione a stabilire principi universalmente validi e incontrovertibili, e precisamente i due principi enunciati da Constant nel capitolo finale delle Reflexions.., cioè che «nessuno può essere arbitrariamente punito senza essere stato prima giudicato secondo le leggi (e che) a nessuno può essere impedito di esercitare le sue facoltà fisiche, morali, intellettuali e professionali se queste si manifestano in modo innocuo e pacifico»235. Infatti, questi principi evocano una materia costituzionale alquanto ristretta. Troppo ampia è la sfera di quel che lasciano aperto e impregiudicato.

Di fronte a queste strettoie analitiche, resta quale via d’uscita l’altro e più fecondo polo di Constant, costituito dalla centralità dell’individuo: la molla e il segreto della libertà è nella coscienza e nel ruolo di chi deve essere libero. Qui affiora però lo scoglio della sovranità popolare, cioè il corto circuito nella vicenda del potere che essa incarna. Vedremo, parlando di G. Ferrero, che tale corto circuito non può essere evitato ricorrendo al principio di legittimità, implicitamente evocato da Constant con riguardo al «potere neutro nella figura del monarca, già di per sé circondato da tradizioni e memorie, e rivestito della forza di una convinzione radicata che è il fondamento della sua forza politica»236.

Occorre che il popolo sappia come spendere la sua sovranità; precisamente, occorre una scienza della organizzazione dei sistemi sociali che insegni al popolo e all’attività legislativa i principi organizzativi che occorre rispettare nell’interesse di tutti (variabili con le condizioni generali di sviluppo). Inoltre, vedremo presto, parlando del capitalismo, che occorre proteggere la società contro forme di potere collaterali al (e spesso prevalenti sul) potere politico, che soprattutto nelle moderne società, emergono dal subsistema economico. Appare assai ingenua la posizione di Constant secondo cui, visto che «la proprietà solo pone gli uomini in grado di esercitare i diritti politici», in quanto assicura l’ozio indispensabile per l’acquisizione delle conoscenze necessarie al «retto giudizio», la

233 Cfr, B. Constant, Ibidem, pag. 51234 Cfr. P. Biondi, Studi sul potere, Facoltà di Scienze Politiche, Firenze 1964, pag. 156 235 Cfr. B. Constant, Ibidem, pag. 178 236 Cfr. B. Constant, Ibidem, pag. 48 

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classe lavoratrice non dovrebbe avere diritto di voto. L’incapacità del popolo lavoratore di vedere i propri interessi (e gli interessi generali) è dovuta a ben altro che alla assenza di tempo libero. E peraltro i proprietari (come d’altronde altre categorie sociali) useranno il tempo libero per meditare piuttosto sui propri interessi che sull'interesse generale. Constant era pessimista sul «retto giudizio» dei lavoratori e non vedeva l’eventualità di accorciamenti della giornata lavorativa. Lo scrupolo di questo studioso fa escludere la malafede. Ma i fatti hanno dimostrato che nell’affermazione di Constant secondo cui: «Se alla libertà di lavoro e d’industria che voi dovete loro (dovute cioè ai non proprietari), unite i diritti politici che voi non dovete, avrete dei diritti che, posti nelle mani di coloro che costituiscono la maggioranza, serviranno inevitabilmente (sottolineatura nostra) ad invadere la proprietà»237, quell’inevitabilmente era di troppo. Il popolo sovrano non decide contro i suoi interessi, a meno di venire ingannato al riguardo. Vedremo presto che Tocqueville, spettatore della democrazia americana, è molto più avvertito di Constant su questi argomenti.

7. J.S. Mill e la società aperta

Il saggio di J. S. Mill "Sulla Libertà" svolge una delle analisi più limpide del grande ruolo fecondante assolto dalla libertà individuale. L’intero studio è rivolto a dimostrare la validità della seguente statuizione: «Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano»238. Come è facile vedere, questa statuizione è lungi dal garantire che l’individuo di Mill, libero da interferenze che non siano quelle strettamente indispensabili a consentire un ordinato svolgimento della vita sociale, sia per ciò stesso libero dal peso di forme di dominio anche assai opprimenti. Ma in verità Mill non si propone affatto questa problematica. Infatti, egli intende dimostrare innanzitutto che la libertà di pensiero e discussione è utile allo sviluppo della conoscenza. Ed argomenta che lo è perché gli uomini sono fallibili e, come tali, condannati a procedere per tentativi ed errori; sicché, la libera discussione e il libero esercizio della creatività individuale sono strumenti obbligati per correggere gli errori, ridurne le dimensioni e acquisire nuove conoscenze. In un mondo di esseri fallibili, le «verità» stabilite sono sempre, nel migliore dei casi, verità parziali. L’obbedienza cieca ad esse è pertanto priva di senso. Di più: soffoca lo spirito critico e le capacità esplorative dell’uomo.

Il pensiero di Mill può essere agevolmente rappresentato, nella sua acuta concisione, attraverso alcune citazioni. Egli scrive: «Non possiamo mai essere certi che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe un male… (Infatti) anche se l’opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene una parte di verità… è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. (Peraltro) anche se l’opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l’intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l’accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali…il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire… e costituire un ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi

237 Cfr. B. Constant, Ibidem, pagg. 157-158238 Cfr. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1999, pag. 13

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convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall’esperienza personale»239. E’ questo un ragionamento perfetto e di grande importanza; tuttavia nulla dice (e non si interroga) sul fatto che la libertà di pensiero e discussione è lungi dal difendere l’uomo dagli artigli del dominio. Ma andiamo avanti. Mill aggiunge: «La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente… c’è sempre bisogno di gente che non solo scopra verità nuove e mostri che quelle che una volta erano delle verità non lo sono più, ma anche inizi attività nuove… È vero che non tutti sono capaci di esercitare questo ruolo benefico; rispetto al totale degli uomini, sono pochi coloro i cui esperimenti, se adottati dagli altri, potrebbero rivelarsi migliori della pratica consolidata: ma sono il sale della terra; senza di loro la vita ristagnerebbe…Il genio può respirare liberamente soltanto in una atmosfera di libertà»240.

Vediamo in questa analisi di Mill vigorosamente enunciati i principi costitutivi della società aperta e progressiva, che costituiscono basilari imperativi funzionali della moderna società dinamica; ma non vi troviamo nulla che insegni il modo di liberare l’uomo dalle forme di dominio e sfruttamento. C’è, per così dire, l’enunciazione di una forma liberale di potere-dominio e, in quanto tale, aperta al suo superamento.

8. A. de Tocqueville e la democrazia americana La linea di pensiero cui appartiene J. S. Mill trova sviluppi più ampi, completi e

puntuali, pur se talvolta meno stringenti, nell’opera di A. de Tocqueville. Questi analizza sapientemente le due cruciali questioni della limitazione del potere e del ruolo fecondante delle libertà individuali, così come gli apparivano combinate nel concreto della democrazia americana, evidenziandone le potenzialità e i limiti, e si diffonde sulle relazioni fra queste tematiche e i meccanismi istituzionali.

Tocqueville vede nella spinta verso il livellamento e la «eguaglianza delle condizioni» la caratteristica di fondo del processo storico tipico della società dei suoi tempi e si preoccupa di cercare il modo e le conoscenze teoriche per poter padroneggiare gli effetti dirompenti di questa grande rivoluzione. In particolare, lo assillano gli effetti destabilizzanti dello sfaldamento delle strutture delle società aristocratico-nobiliari, sfaldamento che pone all’ordine del giorno la necessità di sostituire una nuova forma di legittimità a quella dinastico-legittimista. Egli pone «nella volontà della maggioranza l’origine di tutti i poteri»241 e sostiene che alla sottomissione inculcata dal rispetto e devozione per i superiori e al prestigio del potere regio deve succedere la sottomissione alle leggi stimolata dagli interessi personali. L’analisi della democrazia americana gli serve per individuare forme istituzionali e di civiltà adeguate ai tempi moderni.

L’aspetto più importante, ai nostri fini, di tale esplorazione è costituito dalle modalità attraverso cui gli americani hanno cercato di assicurare la coerenza dell’organizzazione politica e amministrativa con il principio della sovranità popolare e con una forma di civiltà basata sui principi dell’eguaglianza delle opportunità, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e sulla libertà individuale. È importante riportare i capisaldi di tale analisi delle istituzioni americane, in quanto costituisce una delle migliori esemplificazioni storiche dei meccanismi di potere tipici della “società aperta”.

Tocqueville concentra la sua attenzione sul ruolo espletato dal decentramento amministrativo, nel quale individua l’anello di congiunzione e l’impalcatura di sostegno

239 Cfr. J. S. Mill, Ibidem, pagg. 21 e 60240 Cfr. J. S. Mill, Ibidem, pagg. 68, 74 e 75241 Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1955, pag. 257

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delle due questioni cruciali: la libertà individuale con il suo ruolo propulsivo e la limitazione dei poteri. Egli sottolinea che, soprattutto nella Nuova Inghilterra (lo Stato dell’Unione in cui vede meglio espressa la democrazia americana), il comune è al centro dell’attività politica e costituisce, al livello amministrativo, il pernio della sovranità popolare e del sistema delle libertà americani. Il comune agisce in piena autonomia nel perimetro dei suoi poteri e coinvolge il maggior numero possibile dei cittadini negli affari pubblici. L’amministrazione comunale cura anche l’esazione delle tasse statali. E fornisce l’ausilio dei suoi funzionari al governo centrale. Il grosso dei poteri amministrativi comunali è nelle mani di selected men, che operano sotto la loro responsabilità, vengono eletti ogni anno dall’assemblea comunale e debbono consultare quest’ultima se intendono introdurre innovazioni. Ogni cittadino è obbligato ad accettare una delle 19 funzioni principali dei comuni, che sono retribuite al fine di favorire la partecipazione dei poveri al governo. Le contee non si sovrappongono all’autorità dei comuni; esse hanno poteri limitati e ben specificati, riguardanti eminentemente l’amministrazione della giustizia.

Il nostro autore sottolinea che il principio della decentralizzazione non si limita alla pubblica amministrazione ma impronta l’intera società, in base all’idea che l’individuo è il miglior giudice dei suoi interessi e che può difettare in onestà ma non certo in scaltrezza e intelligenza. La legislazione americana fa leva sull’interesse particolare e si sforza di stimolare e utilizzare al meglio le energie e gli interessi individuali. Agisce un’ampia disseminazione del potere amministrativo. Inoltre Tocqueville sottolinea che ogni funzionario è indipendente nella sua sfera limitata di attività, ma è soggetto a sanzioni giudiziarie per irregolarità e infrazioni degli obblighi di legge, definiti in dettaglio; infatti, essendo elettivo, non può essere punito attraverso la revoca. Il cittadino ha il diritto di portare i funzionari pubblici davanti ai giudici ordinari, che li possono condannare; e siccome ci deve essere un giusto motivo per perseguire giudizialmente i funzionari, questi ultimi fanno del loro meglio per evitare l’insorgere di tale motivo. Ne discende che non sono le dipendenze gerarchiche ma i tribunali che obbligano i funzionari a rispettare le leggi. L’elettività delle funzioni e la sottoposizione delle magistrature elette ai decreti dei giudici costituisce un pilastro dell’ordinamento amministrativo americano.

Questo potere amministrativo assai suddiviso è, di conseguenza, poco visibile ma forte e autorevole. Modesta è l’importanza del funzionario pubblico; ma la sua opera non è impacciata da dipendenze gerarchiche e da legami burocratici. Ciò rende incisivo, sollecito e snello l’esercizio del potere; la suddivisione delle funzioni amministrative limita gli arbitri e la arroganza del potere, ma non ne implica la vanificazione. Procedendo dalla Nuova Inghilterra verso Sud, l’autore vede crescere l’importanza della contea, che diviene il grande intermediario fra autorità governanti e cittadino, a spese dei comuni, ma gli accennati principi che improntano l’amministrazione pubblica non cambiano.

Tocqueville dedica pagine illuminanti e anticipatrici a sottolineare le virtù del decentramento amministrativo nel responsabilizzare i funzionari e nello stimolarne l’attività e l’accortezza, nonché le virtù della libertà nello stimolare l’iniziativa individuale, la creatività e il benessere. Egli scrive: «Vi è dunque, in fondo alle istituzioni democratiche, una tendenza nascosta che fa spesso concorrere gli uomini alla prosperità generale, nonostante i loro vizi e i loro errori… È così che può accadere che nei governi aristocratici gli uomini pubblici facciano il male senza volerlo e nelle democrazie producano il bene senza averne il pensiero… (e poco avanti). La libertà produce mille volte più beni di quelli che distrugge…. Sotto il suo regime (della libertà democratica), non tanto è grande ciò che viene operato dalla amministrazione pubblica, ma ciò che si opera senza e al di fuori di essa. La democrazia non dà al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il governo più abile è spesso impotente a creare: diffonde nel corpo sociale una attività insonne, una forza esuberante, una energia che non può esistere senza di essa e che,

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per poco che le circostanze siano favorevoli, può fare prodigi. Questi sono i suoi vantaggi»242. Sembra di leggere un brano del Lao-tse.

Tocqueville passa poi ad evidenziare la solidità del potere politico in America: soprattutto il potere legislativo in quanto espressione della volontà della maggioranza, ma anche quello esecutivo. Un segreto di tale solidità risiede nel fatto che l’accentramento politico fa da contraltare all’elevato decentramento amministrativo. L’autore ha cura di porre subito in risalto un’ingegnosa istituzione americana che ostacola validamente gli arbitri e la forza del potere politico. Tale peculiarità istituzionale consiste nel fatto che il potere giudiziario, deputato (come in tutti i paesi) a pronunciarsi su controversie particolari dietro sollecitazione di parte, ha in America il diritto di basare le sentenze sulla costituzione, anziché sulle leggi. Precisamente, può rifiutarsi di applicare le leggi che ritiene incostituzionali. Questa possibilità conferisce ai giudici un’elevata capacità di contrastare il potere politico, dato che una norma ripetutamente non applicata per incostituzionalità viene ridotta all’impotenza. Tuttavia, tale potere dei tribunali è attenuato dal fatto che l’attacco del giudice al potere legislativo può aver luogo solo per via giudiziaria, quindi caso per caso, non con azioni frontali: la legge può soccombere solo dietro i colpi ripetuti della giurisprudenza. Se ci fosse possibilità di condurre un attacco frontale al potere politico, ciò avverrebbe in presenza di un potere politico debole, ma non nel caso di potere politico forte ed oppressivo, e pertanto non avrebbe l’effetto di contrastare l’arbitrarietà del potere politico. Al tempo stesso, il veto sospensivo, che permette al Presidente dell’Unione di bloccare le leggi e costringere il legislativo ad approvarle con i 2/3 dei votanti, tutela l’indipendenza dell’esecutivo dalla invadenza del potere legislativo.

Un altro esempio di accorta distribuzione dei poteri, tesa ad evitare straripamenti da parte di alcuni di essi, è dato dalla istituzione della Corte Suprema, i cui membri sono nominati dal Presidente dell’Unione sentito il Senato e, per tutelarne l’indipendenza, sono inamovibili ed hanno stipendio fisso. La Corte è deputata a risolvere le controversie sulla competenza nei processi dei tribunali statali o federali. La sovranità federale è ben specificata e delimitata. Tuttavia ogni qualvolta entra in conflitto con quella degli stati, è un tribunale federale (appunto la Corte Suprema) che decide sul conflitto. Ma il fatto che la forza reale risiede nei governi statali scoraggia la invadenza di questi giudici federali; così il governo federale è stato dotato di poteri sufficienti a difenderlo da usurpazioni degli stati e questi sono lasciati liberi, nella loro sfera, dalle interferenze del governo federale.

Questo intreccio di poteri, la diffusione di competenze, il decentramento amministrativo, la rapida ed efficace punizione dei funzionari indegni, stimolano l’iniziativa, l’efficienza, il senso di responsabilità e, al tempo stesso, garantiscono contro eccessi e abusi di potere.

Risalta la combinazione, in queste osservazioni di Tocqueville sulla realtà della democrazia americana, dell’insegnamento di Montesquieu sulla divisione dei poteri e di quello di Mill sul significato e ruolo della libertà individuale. Non manca neppure un pizzico di Rousseau, sia il Rousseau della sovranità popolare, sia quello che insiste sull’unitarietà del potere sovrano, che vediamo riflesso nella sottolineatura di Tocqueville del fatto che le istituzioni americane garantiscono la coesistenza di una forte sovranità politica con la limitazione del potere pubblico di disposizione sulla società.

Tocqueville è impressionato dalla crisi di legittimazione dei poteri conseguente ai cambiamenti in corso. Egli scrive: «Se in mezzo a questo universale disfacimento voi non giungete a collegare l’idea dei diritti all’interesse personale, che si offre come il solo punto immobile nel cuore umano, cosa vi resterà per governare il mondo, se non la paura?»243. Egli crede che la democrazia americana abbia saputo realizzare tale collegamento. Ma si

242 Cfr. A. de Tocqueville, Ibidem, pagg. 242, 29 2, 250243 Cfr. A. de Tocqueville, Ibidem, pag. 246

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inganna. La bassissima partecipazione degli americani alle elezioni dice che essi attribuiscono scarsa importanza al suffragio universale, questo grande strumento di «legittimazione» del potere democratico. L’ingegnoso sistema istituzionale americano, teso a garantire la centralità dell’individuo, ad affrancarlo dagli abusi di potere e che intende rendere sovrana la maggioranza attraverso il suffragio universale, si è rivelato efficacissimo nel propiziare il cammino lungo i sentieri della società aperta, e precisamente nel promuovere l’innovazione, lo sviluppo, la mobilità sociale; e, per la prima volta nella storia, ha istituzionalizzato il mezzo per rovesciare il potere politico in modo pacifico, senza dover ricorrere alla violenza. Ma è restato lungi dal garantire un reale esercizio della tanto conclamata sovranità popolare e dall’affrancare l’uomo dal potere dominio. Anzi, ha dato vita a forme di potere-dominio, di oppressione e sfruttamento fra le più acute e insinuanti comparse nella storia. Il caso americano esprime nel modo più esemplare il fallimento dello stato liberale nei confronti del fenomeno del potere-dominio e nel soddisfare le aspirazioni dell’uomo alla eguaglianza delle condizioni.

Gli sviluppi della democrazia americana hanno condotto l’uomo a conquistare le posizioni più avanzate lungo la frontiera delle libertà individuali e del benessere materiale; al tempo stesso, hanno dimostrato i limiti invalicabili delle moderne società liberal-capitaliste riguardo alla liberazione dell’uomo dall’oppressione e dall’ingiustizia. Ma su questo conviene lasciare la parola a Tocqueville che, nel capitolo dal titolo «Quale specie di dispotismo devono temere le nazioni democratiche» avanza seri dubbi sull’efficacia del suffragio popolare, pur se esagera gli effetti dell’eguaglianza (d'altronde più presupposta che reale) sull’atteggiamento delle masse. Egli scrive: l’autorità di governo «ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi…Così ogni giorno …rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso….riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore…(e aggiunge). Ho sempre creduto che questa specie di servitù…. non sia impossibile che si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo… Ciascun individuo sopporta di sentirsi legato, perché pensa che non sia un uomo o una classe, ma il popolo intero a tenere in mano la corda che lo lega.. In questo sistema il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito dopo vi rientra…. È inutile affidare a questi cittadini, così dipendenti dal potere centrale, l’incarico di scegliere di tanto in tanto i rappresentanti di questo potere, poiché questo uso così importante, ma così breve e raro del loro libero arbitrio, non li salverà dalla perdita progressiva della facoltà di pensare, sentire e agire da soli e li lascerà cadere gradatamente al di sotto del livello dell’umanità. Aggiungo che essi diverranno presto incapaci di esercitare il grande e unico privilegio (elettorale) che resta loro….non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio, possa uscire dai suffragi di un popolo di servi»244. È difficile esprimere maggior scetticismo sul principio della sovranità popolare. Ma i timori del nostro autore, per più aspetti discutibili, non rappresentano il maggior pericolo. La verità è che da tale principio le masse traggono frustrazione e senso di inganno; (come vedremo) ciò le ha trascinate, in certi casi, con un senso di illusorio protagonismo, a darsi a movimenti politici che le avrebbero ridotte sotto la buia coltre del totalitarismo.

9. G. Ferrero e la legittimazione del potere

G. Ferrero, istruito da una osservazione delle forme di potere nelle moderne società più aggiornata rispetto a Tocqueville, comprese a fondo la drammaticità del fenomeno del

244 Cfr. A. de Tocqueville, Ibidem, pagg. 733, 734 e 735

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potere; in particolare, comprese che lo stabilirsi delle forme di sovranità segue itinerari lunghi e tormentati, che improntano fortemente i processi storici. La riflessione sul potere di questo autore era a maggior ragione stimolata dal fatto che quei travagli apparivano accentuati dalla crescente mutevolezza del mondo in cui viveva e che gli aveva fatto assistere a una proliferazione di tirannie fra le più oppressive comparse nella storia. Il riferimento a questo studioso è assai importante ai nostri fini perché egli, muovendo da posizioni liberali, giunge a porre in maniera straordinariamente incisiva il problema del potere-dominio, delle cause, insidie e implicazioni di questo, e compie uno dei più intelligenti tentativi di delinearne una soluzione. Non vi riesce, chiarisce però che il problema è assai meno limpido e solare di quel che la ragione degli illuministi riteneva.

L’analisi di Ferrero sul potere muove da una premessa che ha delle somiglianze con la posizione di Hobbes sull’origine dello stato: la paura dell’anarchia e della guerra di tutti contro tutti. Scrive il nostro autore: «Il Potere, come l’arma, è in origine una difesa contro i due massimi terrori che funestano l’umanità: l’anarchia e la guerra»245. E poco più in alto: «La paura è l’anima dell’universo vivente…L’uomo è l’essere che ha e che fa più paura…L’uomo insomma vive al centro d’un sistema di terrori, in parte naturali, in parte creati da lui stesso, veri e fittizi; questi ultimi più terribili dei veri. Il Potere è la manifestazione suprema della paura che l’uomo fa a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene»246.

Diversamente da Hobbes, la logica esplicativa del potere non ha qui una base propriamente utilitaristica, né prende le mosse da un fantomatico stato di natura; inoltre, l’accento sulla paura umana è più forte e coinvolgente di quel che si legge nel Leviatano. Lo stato non nasce al fine di migliorare il benessere degli uomini bensì per effetto degli (e in risposta agli) impulsi umani verso il dominio, e la paura non riguarda solo i dominati ma attanaglia anche i dominatori. Scrive Ferrero: «i soggetti hanno sempre paura del Potere a cui sono sottoposti, il Potere ha sempre paura dei soggetti a cui comanda… Tutti i Poteri hanno saputo e sanno che la rivolta è latente anche nella soggezione più supina e può scoppiare un giorno o l’altro, sotto l’impulso di circostanze imprevedute: tutti i poteri si sono sentiti precari, e ciò precisamente in proporzione della forza con cui sono costretti ad imporsi…gli uomini hanno paura del Potere che li assoggetta; il Potere ha paura degli uomini che possono ribellarsi»247.

Più in dettaglio, il potere ha bisogno di seminar paura per dominare, tanto più per quanto maggiormente brutale e sovversiva è la conquista o usurpazione delle sue prerogative di comando; ma l’assoggettamento induce i sottoposti ad odiarlo e li stimola alla ribellione, e il timore di ciò induce i dominatori ad usare ogni mezzo per accentuare la paura dei dominati e così tenerli a freno. Come rompere questo circolo vizioso della paura? Chiaramente, il solo modo è di far sì che i sudditi accettino e gradiscano il potere. Per ottenere ciò, Ferrero individua una via che, pur assai feconda sotto il profilo dell’interpretazione storica, contiene gravi aporie e non risolve il problema; soprattutto, non lo risolve se preso nelle vesti che esso assume nelle moderne società dinamiche. Dice Ferrero: «fra tutte le ineguaglianze umane nessuna ha conseguenze tanto importanti e perciò tanto bisogno di giustificarsi, come l’ineguaglianza derivante dal potere. Salvo qualche rara eccezione, un uomo vale l’altro: perché uno deve avere il diritto di comandare e gli altri di ubbidire? I principi di legittimità (sottolineatura nostra) rispondono a questa obbiezione»248.

L’inizio della citazione è indiscutibile. Non altrettanto può dirsi per la seconda frase, in cui Ferrero riprende la tematica hobbesiana della approssimativa eguaglianza delle capacità umane. Gli uomini sono contraddistinti da capacità assai differenziate e tali

245 Cfr. G. Ferrero, Potere, Sugarco Edizioni, Milano 1981, pag. 39246 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pagg. 36 e 38247 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pagg. 36 e 38248 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pagg. 27-28

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differenze di capacità li indirizzano a svolgere funzioni diverse nella società; in particolare, indirizzano alcuni ad esercitar potere (anche se non necessariamente potere-dominio). Ma il punto centrale della teoria di Ferrero è un altro e riguarda i principi di legittimità. È proprio sulla fragilità di tale punto che occorre concentrare l’attenzione. Ma prima proseguiamo a sintetizzare la sua teoria.

Aggiunge l’autore: «Come la Divinità, anche il Potere si umanizza e si incivilisce attraverso la Storia, a mano a mano che si libera delle sue paure attive o passive; e se ne libera via via che i principi di legittimità si moltiplicano, si precisano, diventano imperativi. L’intima natura dei principi di legittimità è di esorcizzare la paura …(e ancora) I principi di legittimità hanno il compito di liberare il potere e i suoi soggetti dalle loro reciproche paure, sostituendo sempre più nei loro rapporti il consenso alla coercizione. Essi sono dunque i pilastri della civiltà e uno sforzo che l’umanità compie per liberarsi delle paure che la tormentano»249. Infine: «Se un popolo si lascia convincere (corsivo nostro) che una famiglia è stata consacrata da Dio al suo governo, che questa famiglia conosce meglio di lui stesso quale è il suo bene, e che quindi bisogna accettare con rispetto e fiducia, senza troppo criticarle, le sue volontà e i suoi atti, basta questo perché una monarchia assoluta possa considerarsi legittima»250.

Su questa teoria Ferrero imposta un’interpretazione della storia medievale e moderna acuta e suggestiva. In particolare, ha pregevoli capacità chiarificatrici la sua analisi storica dei principi di legittimità, dei loro conflitti, delle usurpazioni di potere, della paura che paralizza le rivoluzioni politiche, devia gli intenti dei loro promotori e li costringe a praticare una tirannia peggiore di quella che intesero combattere e abolire. Ma, sul piano operativo e prospettico, la proposta di Ferrero non porta lontano, anzi non porta da nessuna parte.

I principi di legittimità, una volta interiorizzati, procacciano consenso al potere, eliminando così la spirale della paura; ma non eliminano il dominio. Ferrero era convinto che potere fosse sinonimo di dominio e che pertanto il potere-dominio mai potesse essere eliminato. Non è così, e compito di questo saggio è appunto di chiarire le modalità e, nelle moderne società, la necessità di tale eliminazione. La debolezza intrinseca dei ferreriani principi di legittimità sta in quel «se un popolo si lascia convincere», con cui inizia la precedente citazione. Nel corso della storia i popoli si sono lasciati convincere di tante cose, anche delle più balzane e stravaganti, hanno accettato e interiorizzato le forme di civiltà più varie. Hanno interiorizzato la civiltà delle caste con tanta convinzione da starsene devotamente inoperosi e rassegnati ad aspettar la morte per fame, nella speranza di salire un gradino nella ruota del karma. Non esiste sistema di dominio più obbrobrioso ed inumano del sistema delle caste; nondimeno, esso incarna il più perfetto principio di legittimità inventato dall’uomo. I cosiddetti «dispotismi orientali» si sono retti su perfetti e quasi inossidabili principi di legittimità.

Il consenso dei dominati è lungi dall’essere sufficiente per debellare i mali di cui sono capaci i sistemi di potere; le forme peggiori e più longeve di schiavitù si sono giovate del consenso spesso gioioso degli oppressi, suscitato attraverso le forme più varie di acculturamento, indottrinamento e quant’altro. Ferrero preferisce la legittimità all’usurpazione, e intende la prima quale deterrente ai regimi di terrore, figli inevitabili delle grandi usurpazioni. Ma non considera che l’assolutismo di tanti usurpatori non ha impedito all’occidente di evolvere rapidamente, mentre la legittimità dei dispotismi orientali ha bloccato le capacità di sviluppo dei paesi che vi sono rimasti soggetti.

Non ha senso, con riguardo al problema del potere, svolgere argomentazioni utilitaristiche concernenti il benessere dei popoli. Infatti, chi può affermare che un popolo felice della sua miseria in quanto convinto che essa è una benedizione divina, vive peggio

249 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pagg. 43 e 55250 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 47

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di un altro popolo dedito ad ampliare la sfera delle opportunità attraverso un’applicazione indefessa e le ansie di una vita tutta protesa a «progredire»?. Ma il problema si presenta in una luce diversa se si considera che missione dell’uomo è di ampliare incessantemente le sue capacità conoscitive e la frontiera delle opportunità, di esercitare le sue capacità creative, e non di restare al palo, magari in paradisi incantati, dove possa tranquillamente sbadigliare dalla mattina al tramonto. Se è consentito parlare per una volta di essenze, non è questa l’essenza dell’uomo (né, forse, la missione assegnatagli dal Creatore) ma piuttosto quella evocata dal Grande Poeta, che cantava: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza».

Come che sia, noi viviamo nella moderna società dinamica; d’altronde il problema del potere si presentò a Ferrero con la drammaticità che egli stesso dovette subire, proprio in quanto gli incessanti mutamenti delle società contemporanee tendono a divorare i principi di legittimità, a renderli non operativi giacché non danno ad essi il tempo di entrare nel cuore e nelle abitudini della gente, e perciò di consolidarsi. Il dinamismo implica una continua messa in discussione di convinzioni, usi e costumi. Se così è, ci si deve chiedere quale principio di legittimità può addolcire i meccanismi del potere nel mondo in cui viviamo. Ferrero altro non trova che il principio democratico del suffragio universale. Purtroppo, il suffragio universale costituisce, di per sé, un imbroglio e un inganno, una mera enunciazione priva di reale sostanza in termini di sovranità popolare. Il popolo stesso diventa ogni giorno più consapevole di tale inganno visto che, nei cosiddetti regimi di «democrazia consolidata», tende sempre più a disertare le urne elettorali, talmente poco crede nell’esercizio del potere che gli attribuirebbe il diritto di voto.

Parlando del colpo di stato del 18 brumaio di Bonaparte, il nostro autore scrive: «concezione (quella della costituzione dell’anno VIII) del potere che metteva il popolo in ceppi nello stesso momento e con lo stesso atto con cui lo si proclamava sovrano» 251. Ebbene, tale inganno non è mai venuto meno da quando si è iniziato a parlare di popolo sovrano, e in forme più o meno edulcorate dura tutt’oggi. Il principio di legittimità democratica, cui fa appello Ferrero, esprime quant’altri mai il corto circuito del concetto di potere nell’epoca moderna, che proclama sovrano il popolo assoggettato e governato da ristrette élite di dominatori.

La soluzione vera del problema del potere sta nel transitare dal potere-dominio al potere-servizio; la vera sfida per l’uomo e, in particolare, per lo studioso contemporaneo di cose sociali, sta nel dimostrare la possibilità di tale transizione e nell’individuare i modi per attuarla. Il potere-servizio contiene in se stesso la sua legittimazione; è legittimo in quanto è un servizio e una funzione di cui le società umane non possono fare a meno. Condizione preliminare per poter attuare l’accennata transizione è lo studio scientifico e approfondito degli imperativi funzionali. Vedremo che la conoscenza di essi è indispensabile a rendere la sovranità popolare veramente effettiva, cioè a rendere la volontà generale rousseauiana non una vuota astrazione di sapore metafisico ma volontà basata su una precisa consapevolezza degli interessi generali. Tale conoscenza è inoltre indispensabile per legittimare la delega di rappresentanza, senza che questa vada soggetti all’obiezione secondo cui «Può il potere essere oggetto di una delega da parte di coloro che dovranno obbedire?»252. La nozione di imperativo funzionale riesce ad incastrare alle proprie responsabilità chi esercita il potere, costringendolo a esercitare un servizio o, il che è lo stesso, impedendogli di esercitare un dominio. Ma la nozione di imperativo funzionale costituisce solo un pilastro per la transizione verso il potere-servizio; vedremo che tale transizione richiede molto di più.

Ferrero ritiene fra loro equivalenti i vari principi di legittimità; egli scrive: «monarchia, repubblica e aristocrazia si equivalgono davanti al giudizio della ragione che

251 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 12252 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 188

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non può stabilire tra esse un ordine gerarchico»253. Non è così; la ragione ha qui un potere maggiore di quel che Ferrero le attribuisce, e d’altronde proprio la bella analisi storica svolta da questo autore sui principi di legittimità aristocratico-dinastico e democratico-elettivo mostra che essi variano con le condizioni generali di sviluppo, quindi non sono equivalenti. Il mutare di tali condizioni fa venire alla luce nuovi imperativi funzionali e tale vicenda influenza potentemente il corso storico. Sfortunatamente Ferrero non vede le potenzialità esplicative di tale vicenda e le opportunità direttive che essa offre per lo svolgersi del processo sociale. Egli dice: «Se nelle democrazie come nelle monarchie il potere scende dall’alto, nelle monarchie come nelle democrazie la legittimità sale dal basso, è creata solo dal consenso di quelli che devono obbedire. Il pieno sviluppo dello Stato si realizza dunque in tutti i regimi al punto di incontro di due linee- l’una che discende: il potere- l’altra che sale: la legittimità»254. Ma questo è tipico del potere-dominio, non del potere-servizio. Scrive ancora Ferrero: «Il prestigio del governo non può scaturire, in una democrazia, che dallo zelo reciproco: del popolo per il governo, del governo per il popolo»255. Purtroppo gli uomini non hanno zelo che per i propri interessi. Lo zelo pubblico non può essere materia di fair play, deve essere imposto dall’esistenza di una precisa consapevolezza in chi delega il potere e di precise responsabilità per chi espleta il potere. In altre parole, tale zelo è garantito solo dall’esercizio del potere nella forma del servizio. Conclude il nostro autore: «Se lo spirito umano riuscisse a trovare il principio di legittimità assolutamente razionale e giusto, il problema del Potere sarebbe definitivamente risolto»256. È sorprendente che stenti tanto a vedere tale principio di legittimità: esso risiede, appunto in quanto principio, nel concetto di potere-servizio, ma difficili problemi si accompagnano alla applicazione di tale concetto di potere.

. Il falso mito della sovranità popolare

Il concetto di «sovranità popolare» ha determinato una vera rivoluzione nel fenomeno del potere politico, la maggiore che quest’ultimo abbia registrato nel corso del tempo. Rousseau fu il più esplicito assertore della sovranità del popolo, contro l’idea di sovrano per volontà di Dio. A partire da quel momento, si è introdotto nei sistemi di potere politico un corto circuito, da cui il mondo non si è più riavuto.

Nei sistemi politici precedenti a tale evento, il potere era chiaramente e indubbiamente imputato: al sovrano ereditario, al despota figlio del Cielo, al sovrano per grazia di Dio, a una ristretta aristocrazia o élite di potenti. Ma da quando sovrano è diventato il popolo, il mondo ha preso ad assistere ad una ben strana sovranità, che sfugge al sovrano nominale e rende quest’ultimo oggetto del dominio dei suoi rappresentanti, nonché di altre forme di potere-dominio che talvolta fiancheggiano e talaltra sovrastano l’opera di tali rappresentanti. Questa dissociazione fra sovrano nominale e sovrano reale è fonte di confusione e arreca instabilità e delegittimazione ai moderni sistemi di potere, in modo crescente con l’aumentare della consapevolezza e della frustrazione del sovrano nominale per questa frode persistente della sua sovranità, implicita nei vigenti ordinamenti. Occorre trovare il modo di rimediare a questa clamorosa beffa. Naturalmente, non lo si può fare tornando a negare esplicitamente la sovranità del popolo ma solo apprestando istituzioni che rendano quest’ultimo realmente sovrano. E siccome il popolo non può, per definizione, esercitare il dominio su se stesso, la sua sovranità richiede

253 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 58254 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 190255 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 199256 Cfr. G. Ferrero, Ibidem, pag. 347

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l’edificazione di un sistema politico e istituzionale che concentri i suoi sforzi nella cancellazione del potere-dominio.

A ben vedere, il carattere liberatore e dirompente del concetto di sovranità popolare risiede proprio nel fatto che, se rettamente e coerentemente inteso, esso richiede e implica l’abolizione delle forme di dominio. Se tale abolizione non ha luogo, così come non ha avuto luogo finora, tale concetto diviene una declamazione ipocrita e un cruciale elemento di crescente contraddizione e instabilità dei sistemi sociali cosiddetti democratici. L’utilità del concetto di sovranità popolare, così come lo conosciamo (utilità immensa, non c’è dubbio), emerge solo nel caso di scelte decisive e, in quanto tali, ben delineate; soprattutto, risiede nel fatto che consente di rovesciare il potere politico senza spargimenti di sangue. In tali evenienze, il popolo torna ad essere realmente sovrano. Un importante scopo di questo studio è cercare la soluzione agli inganni insiti nel concetto di sovranità popolare.

CAPITOLO XPotere economico e potere politico. Idee sull’imperialismo

1. La dottrina marxista e leninista del potere e dello Stato

a) La teoria opaca ed elusiva di Marx ed Engels sullo Stato

Con la rapida espansione dell’economia e soprattutto dell’accumulazione del capitale innescata dalla prima rivoluzione industriale, la dimensione delle forme di potere (e di sfruttamento) connesse ai rapporti economici ha preso a svilupparsi a ritmi crescenti, insieme ai collegamenti e connivenze stabilitisi fra potere politico e potere economico negli ordinamenti degli stati nazionali. Ciò ha affiancato alla tematica della limitazione del potere politico una crescente esigenza di difendere la società dall’invadenza degli abusi del potere economico. Purtroppo, mentre le elaborazioni concernenti la limitazione del potere politico si sono sviluppate, nell’insieme, con coerenza e successo, verso la nozione di stato di diritto, le elaborazioni concernenti altri aspetti del problema del potere, divenuti prevalenti nelle società capitalistiche, sono state offuscate da grandi e grossolani malintesi, che hanno moltiplicato l’impotenza nei riguardi delle forme di dominio che si volevano combattere e generato così nei loro confronti, a seconda dei casi, uno stato di rancore o una rassegnata accettazione. È stata la letteratura socialista a sferrare i maggiori attacchi al dominio capitalista, di cui ha svolto una attenta analisi. Ma ha anche seminato enormi equivoci sulla questione del potere, equivoci che sono risultati tanto maggiori per quanto più forte era la veemenza di tali attacchi.

Fu facile per gli studiosi e polemisti socialisti indicare lo stato borghese quale tramite e complice del dominio e sfruttamento capitalisti, nonché ridicolizzare come ipocrite le posizioni oltranziste sul diritto di proprietà espresse da democratici e paladini della sovranità popolare della statura di Locke e Constant

Conviene svolgere una rapida analisi del paradosso costituito dall’insegnamento marxista in tema di potere che, partito da una forte istanza di liberazione dal dominio e dallo sfruttamento capitalisti, ha finito col sostituirvi, all’atto pratico, forme di dominio e sfruttamento assai più acute e, per giunta, intrinsecamente inclini alla stagnazione. I contenuti della denuncia marxiana del dominio capitalista sono ben ricapitolati dal

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passaggio del “Manifesto del partito comunista” dove si dice che gli operai: «Non soltanto sono servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma, giorno per giorno e ora per ora, vengono resi schiavi della macchina, del sorvegliante, e soprattutto del singolo fabbricante borghese. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più palesemente esso proclama come suo fine il guadagno… Riguardo alla classe operaia le differenze di sesso e d’età da un punto di vista sociale non importano più. Esistono solo strumenti di lavoro, il cui costo cambia in base a età e sesso»257. E nel primo libro del Capitale, Marx scrive: «La legge, secondo la quale una massa sempre maggiore degli elementi che costituiscono la ricchezza può, mercè il continuo svolgimento dei poteri collettivi del lavoro, essere impiegata con un impegno di forza lavoro sempre minore… legge che equilibra sempre il progresso dell’accumulazione e quello della relativa eccedenza di popolazione, incatena l’operaio al capitale più saldamente di quanto le catene di Vulcano legassero Prometeo alla sua rupe. È questa la legge che stabilisce una fatale correlazione fra l’accumulazione del capitale e l’accumulazione della miseria, di modo che accumulazione di ricchezza ad un polo significa accumulazione di povertà, di sofferenze, di abbrutimento, di schiavitù al polo opposto»258.

Nella prefazione del libro «Per la critica dell’economia politica», Marx delinea una sintesi della concezione materialistica della storia in cui si legge: «tanto i rapporti giuridici quanto le forme di Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza… l’anatomia della società è da cercare nell’economia politica»259. E, nell’ “Ideologia tedesca”, Marx ed Engels avevano scritto: «ogni classe la quale aspiri al dominio… deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale»260. Il «dominio economico e politico della classe borghese» sarebbe succeduto al dominio feudale, sotto l’incalzare dello sviluppo delle forze produttive. Lo stato borghese altro non sarebbe che uno strumento di questa forma di dominio le cui radici affondano nelle forme di produzione, cioè nel sistema economico. L’intreccio fra potere economico e potere politico nella società capitalistica risulta qui evidenziato con grande e perentoria incisività.

Veniamo ora alla via indicata per annientare questa nuova forma di dominio e liberare, infine, l’umanità da tutte le forme di dominio e di sfruttamento. Citiamo ancora Il Manifesto: «Se il proletariato, nella sua lotta contro la borghesia, si riunisce necessariamente in classe, attraverso la rivoluzione si impone come classe dominante (corsivo nostro) e, in quanto classe dominante, distrugge violentemente gli antichi rapporti di produzione, esso cancella insieme a quei rapporti anche le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cancella le classi in genere, e quindi cancella il suo proprio dominio come classe»261.

Non serve intrattenersi con maggiori dettagli su questa parte dell’insegnamento degli autori del Manifesto. Si vuole solo richiamare l’attenzione su due aspetti cruciali di tale insegnamento, che sempre vengono ribaditi e via via maggiormente enfatizzati nelle loro opere successive, e cioè: 1°) Che la rivoluzione proletaria sostituirà, al dominio borghese, il dominio della classe lavoratrice. Dunque, il dominio viene combattuto è vinto dal dominio, cambia il titolare del potere ma non cambia la sostanza di questo, sempre dominio è. 2°) Ma questo nuovo dominio avrebbe una straordinaria virtù: quella di condurre, attraverso la cancellazione delle classi, alla sua stessa cancellazione, e quindi alla definitiva estinzione del fenomeno del dominio. Questa conclusione contrasta con il forte radicamento del metodo marxiano nell’osservazione storica. Infatti, non v’è traccia

257 Cfr. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Newton Compton Italiana, Roma 1974, pag. 60258 Cfr. K. Marx, Il capitale, libro primo, UTET, Torino 1963, pagg. 600 e 601259 Cfr. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, pag. 260 Cfr. K. Marx e F. Engels, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1966, pag. 54261 Cfr. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, opera citata, pag. 83

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nella storia umana di tale «evaporazione del dominio». Ma sorprendentemente questa elementare constatazione non ha minimamente incitato gli autori ad investigare a fondo sulla loro idea di estinzione del dominio.

È sorprendente la leggerezza con cui la dottrina marxista, tutta protesa a scoprire la strada della liberazione dell’uomo dal dominio e dallo sfruttamento, ha trattato la questione del potere e, di conseguenza, il problema dello sfruttamento. Infatti, alla base della fiducia nell’accennata palingenetica estinzione del dominio c’è un duplice assunto, ingenuo e frettoloso, di cui Engels ha fornito nell’Antidüring una chiara formulazione sintetizzabile con due proposizioni: a) lo stato nasce dalla lotta di classe quale mezzo di assoggettamento alla classe dominante della popolazione dominata; b) il dominio del proletariato cancellerà, insieme alle classi, gli antagonismi di classe e quindi lo stato in quanto espressione di essi.

Abbiamo visto nella nostra analisi del potere statale che l’avvento dello stato è il risultato di una fenomenologia di cui gli antagonismi di classe sono solo una delle componenti, peraltro non necessaria. Il dispotismo orientale e la società delle caste costituiscono formidabili e inossidabili sistemi di dominio basati proprio sulla semplificazione estrema degli antagonismi di classe e, nelle caste, la totale eliminazione di questi. Si aggiunga che gli antagonismi sociali non sono eliminabili in una società dinamica, dato che il dinamismo e l’esercitarsi della creatività generano, per loro natura, squilibri e conflitti. Ad ogni modo, qualsiasi forma di dominio, anche quella proletaria, implica di per sé almeno una distinzione di classe, quella fra dominatori e dominati, visto che mai potrà accadere che l’intero popolo gestisca i meccanismi del vigente (o instaurato) sistema di potere (dominio).

Queste posizioni sul potere sono state mantenute da Marx ed Engels in tutto l’arco della loro produzione teorica. Nella Critica al programma di Gotha, del 1875, Marx scriveva: «Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato»262, quindi il trionfo di una dura forma di dominio. Quel che accadrà dopo il periodo di transizione Marx non dice, lo affida alla fantasia della storia. È suo proposito di dedicare «il resto della vita… come tutti i miei sforzi del passato, al trionfo delle idee sociali che un giorno – siatene certi! – condurranno al dominio (corsivo nostro) mondiale del proletariato»263. Emerge tuttavia uno spiraglio ad addolcire la brutalità e opacità di tale dominio proletario, laddove Marx scrive: «la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa»264. Purtroppo questa affermazione è priva di senso. Il potere-dominio dello stato può essere «limitato» attraverso la divisione dei poteri e altre forme istituzionali su cui si è ampiamente intrattenuta la letteratura liberale; oppure (come noi dimostriamo) può essere spinto a transitare verso il potere-servizio; ma non si vede il modo come uno Stato possa essere subordinato alla società. Peraltro, abbiamo mostrato nel capitolo IV che nelle formazioni sociali primitive il potere della società implica forme di dominio dure e implacabili, più pesanti di quelle statali, e che i dispotismi orientale e teocratico, che pur riducono ai minimi termini gli antagonismi di classe, costituiscono la più diretta filiazione del dominio della società.

Engels non è da meno di Marx nel preservare questo focolaio di gravi e decisivi equivoci sul potere. Nella "Questione delle abitazioni", egli scriveva verso la fine del XIX secolo: «ogni partito politico si propone di conquistare il dominio dello Stato, ne deriva

262 Cfr. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1976, pag. 44263 Cfr. K. Marx, Ibidem, pag. 78264 Cfr. K. Marx, Ibidem, pag. 42

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che il partito socialdemocratico tedesco persegue necessariamente il proprio dominio politico, il dominio politico della classe operaia, e quindi un dominio di classe»265.

La dottrina marxista ha approfondito con genialità i caratteri del dominio capitalista, nonostante l’infondatezza della sua analisi dello sfruttamento in quanto basata sulla dottrina erronea del valore-lavoro. Ma non ha approfondito il problema del potere in generale e, ancor meno, la possibilità e le modalità di costruire forme di organizzazione della società e di potere alternative al dominio. In questa materia, Marx ed Engels mantengono persistentemente un atteggiamento fumoso ed evasivo, che ha dato spazio a varie interpretazioni; esso va dal gradualismo socialdemocratico della seconda internazionale, che attendeva il germogliare del socialismo dal pieno sviluppo della società borghese, all’estremismo giacobino dei bolscevichi, che intendevano affrettare l’avvento del socialismo attraverso l’azione di avanguardie rivoluzionarie.

L’insegnamento di Hegel e l’esempio di Darwin hanno avuto un ruolo decisivo nel tenere incatenato il marxismo a tanta fumosità sulla decisiva questione del potere. Precisamente, l’identificazione hegeliana di reale e razionale, di realtà e necessità da un lato, e dall’altro il grande successo del metodo dell’osservazione nello studio dei fenomeni naturali, persuasero Marx ed Engels che una analisi scientifica dei fenomeni sociali deve tener fisso lo sguardo sulla realtà dei processi storici e disdegnare il problema della edificazione istituzionale. Al cospetto della schiacciante e ininterrotta presenza nel corso della storia del fenomeno del dominio, cui Marx ed Engels nulla potevano obiettare in concreto, ed essendosi essi legate le mani sulla possibilità di indagare il problema della transizione dal dominio alla libertà, questi grandi fautori della liberazione dell’uomo si cavarono d’impaccio attraverso il mito di una futura età dell’oro allietata dall’estinzione delle forme di dominio. Per salvarsi l’anima, il ferreo realismo del «socialismo scientifico» ha dovuto rifugiarsi nell’utopia!

b) La teoria dello Stato di Lenin: la brutalità del dominio addolcita dal miraggio di una fantomatica utopia

Le capacità paralizzanti dell’accennato malinteso sono state talmente grandi che neppure un rivoluzionario e costruttore per eccellenza di nuove forme istituzionali quale fu Lenin seppe sottrarsi ad esse. Sarà utile una rapida analisi del libro «Stato e rivoluzione», che Lenin scrisse alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, quando si profilava la possibilità della conquista bolscevica del potere che avrebbe posto questo autore nella necessità di confrontarsi con i problemi dell’organizzazione statale. Lenin ricalca le posizioni di Marx ed Engels; ma svolge in maniera più diretta e stringente la questione del potere statale, avendo cura di polemizzare con l’attendismo «filisteo» di socialdemocratici e quant’altri, in nome della rivoluzione levatrice della storia. Come era da attendersi, egli inizia con l’affermazione che «lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi»266. Abbiamo più sopra sottolineato l’infondatezza di questa affermazione. Lenin ribadisce come «lo Stato sia l’organo di dominio di una classe determinata che non può essere conciliata col suo antipode (la classe che è al polo opposto)… ne deduce che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante»267. Con questo viene marcato il distacco dall’altro corno del marxismo e cioè dall’attendismo evoluzionistico e riformistico dei socialdemocratici e di quanti erano propensi a venire a patti con lo stato borghese, in attesa che maturassero le condizioni per il passaggio al socialismo.

265 Cfr. F. Engels, La questione delle abitazioni, Editori Riuniti, Roma 1971, pag. 2266 Cfr. V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere scelte, Edizioni Progress, Mosca pag. 271267 Cfr. V.I.Lenin, Ibidem, pag. 272

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Il saggio di Lenin prosegue poi con una serie di citazioni di Marx ed Engels, nell’intento di convalidare la sua analisi attraverso l’autorità di questi padri fondatori. Questo uso disinvolto del metodo dell’ipse dixit ha tuttavia il pregio di fornire un buon compendio della dottrina marxista dello stato. Egli scrive: Lo «stato proletario comincerà ad estinguersi subito dopo la sua vittoria, poiché lo stato è inutile ed impossibile in una società senza antagonismi di classe»268. Lenin ci tiene a sottolineare che: «La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta, cioè la soppressione di ogni Stato, non è possibile che per via di “estinzione”»269. Ma G. Ferrero ha insegnato e dimostrato con stringente documentazione storica che ogni rivoluzione, rompendo schemi consolidati di legittimazione del potere, moltiplica la paura che attanaglia i nuovi dominatori di essere rovesciati dai dominati, e quindi la violenza della oppressione e della repressione, volte a scongiurare tale pericolo. Questo insegnamento, di cui si è discusso in precedenza, autorizza a nutrire forti dubbi sul fatto che lo stato rivoluzionario saturo di oppressione possa avviare la «estinzione» del dominio.

Andando avanti nella lettura del saggio, troviamo maggiori illuminazioni sulla strana e contraddittoria aspettativa marxista della liberazione dal dominio. Lenin si interroga su che cosa dovrebbe essere lo stato della dittatura del proletariato, che la situazione russa gli metteva a portata di mano. La risposta viene desunta dall’esperienza della Comune di Parigi e da ciò che Marx scrisse al riguardo. Citiamo Lenin: «la distruzione della macchina burocratica e militare dello Stato (esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura) è “la condizione preliminare per ogni reale rivoluzione popolare” …(Vi andrebbero sostituiti) il “popolo armato”, l’eleggibilità e revocabilità di tutti i funzionari; “la soppressione di tutte le indennità di rappresentanza, la soppressione dei privilegi pecuniari dei funzionari, la riduzione degli stipendi assegnati a tutti i funzionari dello Stato al livello di “salari da operai”»270. Quanto sopra configura una sorta di potere statale evanescente, concepibile solo in condizioni di assoluta concordia, uniformità ideale ecc. della società considerata. Ciò potrebbe aver luogo, al più, nello stato stazionario, ma è inconcepibile in riferimento ad una società dinamica in cui lo sviluppo crea antagonismi, squilibri e si nutre di slanci creativi che trovano implacabili oppositori nei beneficiari dell’ordine costituito.

L’estinzione dello stato sarebbe propiziata, secondo Lenin, dal fatto che: «gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato»271. Ma cos’è mai tutto ciò se non l’evocazione dello stato stazionario? Una società assai semplice, abitudinaria e vegetativa. E neppure ciò è sufficiente per l’estinzione del potere. Infatti, abbiamo visto nel capitolo IV che le società primitive, per evitare la necessità del potere di comando e statale, hanno bisogno di assoggettarsi al potere oppressivo della società.

E che ne sarà dell’organizzazione economica? Risposta: «Tutta l’economia nazionale organizzata come la posta; i tecnici, i sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello Stato, retribuiti con uno stipendio non superiore al “salario operaio”, sotto il controllo e la direzione del proletariato armato: ecco il nostro fine immediato. Ecco lo Stato, ecco la base economica dello stato di cui abbiamo bisogno»272. Non si poteva inventare nulla di più inadeguato a gestire una economia dinamica; e nulla è più ridicolo della direzione delle imprese da parte del proletariato armato, in sostituzione dell’imprenditore. Sono qui

268 Cfr. V.I.Lenin, Ibidem, pag. 288269 Cfr. V.I.Lenin, Ibidem, pag. 283270 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag 299 271 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag 334272 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pagg. 304-305

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enucleati gli strumenti di un dominio totale condito di incompetenza, che inclina ad una piatta e soffocante stagnazione.

Ma procediamo oltre: «Registrazione e controllo: ecco l’essenziale, ciò che è necessario per lo “avviamento” e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli operai e impiegati di un solo “cartello di tutto il popolo, dello Stato… Quando la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati allora in impiegati) e dei signori intellettuali che avranno conservato ancora abitudini capitaliste, questo controllo diventerà veramente universale, generale, nazionale e nessuno potrà in alcun modo sottrarvisi, “non saprà dove cacciarsi “ per sfuggirvi»273. Evocazione di un tremendo e soffocante dominio, purtroppo inveratosi e dalle cui piaghe il mondo stenta a riaversi. Epilogo mostruoso della mitica rivoluzione proletaria. La fine analisi di Marx, purtroppo minata da enormi equivoci nel campo del metodo e da irresponsabili fumosità sulla questione del potere, è approdata, ad opera di questo figlio dell’oriente e della steppa, all’antico centralismo delle autocrazie orientali. Lenin aggiunge: «Si spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla prima fase alla fase superiore della società comunista e, quindi, alla completa estinzione dello Stato»274. Un tipico e soffocante ordinamento da società stazionaria condurrebbe al regno della libertà e dell’abbondanza, alle beatitudini della società comunista, la cui ricchezza, moltiplicandosi in modo meccanico, permetterebbe finalmente di scrivere sulle sue bandiere: «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». Quanti e quali equivoci su un fenomeno al centro dei rapporti sociali quale è il potere! Data questa situazione, sarebbe imperdonabile lassismo sottrarsi a un approfondimento serio ed attento sul potere.

2. L’idea di potere nell’età dell’imperialismo

La forte intensificazione delle conquiste coloniali verificatasi negli ultimi due decenni del XIX secolo e il parallelo aumento spettacolare della concentrazione industriale costituiscono forse il maggior esempio di connessione fra potere economico e potere politico e offrono una delle più vivide testimonianze dell’acutezza con cui il fenomeno del dominio può presentarsi nel capitalismo. Tale vicenda va sotto il nome di «imperialismo»; ma, in verità, costituisce solo una delle tante forme di imperialismo comparse nel corso della storia. Molto è stato scritto su di essa da studiosi di vario indirizzo, in specie di scuola marxista. Qui ci si limiterà a considerare i contributi più significativi.

a) La pionieristica analisi di J. A. Hobson e le conclusioni assurde di R. Luxenburg

Il saggio di J.A. Hobson sull’imperialismo si impone all’attenzione sia perché costituì il primo della serie, sia per la lucidità e lungimiranza con cui trattò l’argomento. Questo autore capì con estrema chiarezza le radici economiche dell’impetuosa espansione imperialistica dei suoi tempi e, soprattutto, la dipendenza di tale espansione coloniale dalla carenza della domanda effettiva. Egli ebbe cura di sottolineare, in primo luogo, la non redditività della corsa alle colonie, se valutata in termini di profitti commerciali. Scrisse al riguardo: «Qualsiasi calcolo noi facciamo per stimare i profitti di questo commercio (con i possedimenti coloniali), esso costituisce una parte totalmente insignificante del nostro reddito nazionale; mentre le spese connesse direttamente o indirettamente con l’acquisizione, l’amministrazione e la difesa di questi possedimenti ci assorbe una somma

273 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pagg. 344-345274 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag. 344

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immensamente più elevata»275. Ma allora perché tanto baccano intorno a una così magra preda? La sua risposta è che non l’interesse generale ma alcuni potenti interessi particolari fornirebbero la spinta al, e muoverebbero le trame del, fenomeno imperialistico.

I dati sui redditi degli investimenti in titoli esteri di cittadini inglesi dal 1884 al 1903 inducono l’autore ad affermare che gli «investimenti esteri sono il fattore economico più importante dell’imperialismo (ed aggiunge)…Non è esagerato dire che la politica estera moderna della Gran Bretagna si è concretizzata soprattutto in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento. Un anno dopo l’altro la Gran Bretagna è diventata sempre più una nazione che vive sui tributi dall’estero, e le classi che ricevono questi tributi hanno avuto un incentivo continuamente crescente a utilizzare la politica dello stato, il tesoro pubblico e la forza pubblica per estendere il campo dei loro investimenti privati e per salvaguardare e migliorare gli investimenti già compiuti»276.

Il modo migliore per presentare la teoria lucida e stringente di questo grande studioso e rendere giustizia alla sua eccezionale capacità di precorrere i tempi della teoria economica, è di riportare integralmente ampi brani del suo libro, coscienziosamente selezionati e saldati insieme. Scrive Hobson: «L’imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso valore al produttore e al commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero…Solo quando vi aggiungiamo (ai profitti sul commercio estero stimati in 18 milioni di sterline per il 1899) qualcosa come 90.000.000 o 0.000.000 di sterline, che rappresentano i puri profitti ottenuti sugli investimenti, capiamo da dove viene l’impulso economico all’imperialismo… la classe degli investitori e degli speculatori in generale desidera che la Gran Bretagna prenda altre terre straniere sotto la sua bandiera in modo da assicurarsi nuove aree per investimenti e speculazioni profittevoli»277.

Hobson indica nei finanzieri i maggiori interessati all’imperialismo. «Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro (dei finanzieri) profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo…ogni aumento della spesa pubblica, ogni oscillazione del credito pubblico, ogni impresa rischiosa, in cui risorse nazionali possano diventare la garanzia di speculazioni private, è vantaggiosa per chi presta grandi quantità di denaro e per lo speculatore»278. Ed incalza: «Qualcuno pensa davvero che uno stato europeo potrebbe iniziare una grande guerra, o che un cospicuo finanziamento statale potrebbe venir sottoscritto se la casa Rotschild e le sue consociate vi si opponessero… L’entusiasmo avventuroso del presidente Theodore Roosvelt e il suo “partito del destino” e della “missione civilizzatrice” non ci devono ingannare. Furono i Rockefeller, i Pierpont Morgan e i loro associati che ebbero bisogno dell’imperialismo e che lo imposero saldamente sulle spalle di questa grande repubblica occidentale»279. E poco prima «l’influenza diretta esercitata dalle grandi aziende finanziarie sulla “alta politica” è sostenuta dal controllo che esse esercitano sul corpo dell’opinione pubblica attraverso la stampa, che in ogni paese “civile” sta diventando sempre di più un loro obbediente strumento… il fatto che la stampa dipenda interamente per i suoi profitti dalle colonne di pubblicità, ha creato una riluttanza peculiare a opporsi ai gruppi finanziari organizzati che hanno il controllo di una parte molto grande di essa»280.

275 Cfr. J. A. Hobson, L’imperialismo, ISEDI, Milano 1974, pag. 38276 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, pagg. 48 e 49277 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, pagg. 50 e 51278 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, pagg. 52 e 53279 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, pagg. 52 e 69280 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, pagg. 54 e 55

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Emergono nitidamente in queste pagine gli stretti legami fra potere economico, potere politico e giornalistico nel dar vita ad una delle più acute forme di dominio sviluppatesi a scala internazionale nel corso della storia. Bisogna dire che già da tempo l’economia esercitava un grande ruolo nel determinare le politiche degli stati nazionali; ma piuttosto al servizio del potere statale che imponendo a questo i suoi interessi. I sovrani assoluti dei principali stati nazionali europei presto capirono che la prosperità economica dei loro regni era propedeutica a una politica di potenza, che richiedeva grandi entrate erariali. In questi casi, però, era il sovrano a tirare le fila; i suoi interessi improntavano le decisioni politiche e all’affarista altro non restava che inserirsi nel gioco, per trarre vantaggio dal fatto che la potenza nazionale dipendeva dalla prosperità economica.

In ogni imperialismo è possibile rintracciare connessioni con problemi economici. Ha scritto G. Ferrero, a questo riguardo: «L’anima della guerra è la cupidigia dei beni altrui. Tutti i grandi imperi militari, dall’assiro al napoleonico, sono nati dallo sforzo di piccole oligarchie, che volevano… possedere e consumare oltre la propria capacità di produrre»281. Ma il moderno imperialismo differisce da tutte le antiche forme di questo fenomeno: non solo e non tanto a causa dell’assenza di spirito universalistico, ma soprattutto perché l’economia ne costituisce il principale filo conduttore. Questo è potuto verificarsi a causa del ruolo centrale nella società conquistato dall’economia in quanto fonte di ricchezza e quindi di potere-dominio.

La grandezza del contributo di Hobson rifulge soprattutto allorché egli analizza le radici economiche dell’imperialismo. Conviene citare alcuni ulteriori brani del suo libro, anche con l’intento di rendere giustizia a questo grande precursore della «economia keynesiana». Egli scrive: le industrie «conseguirono, sotto la direzione di abili imprenditori fondatori di grandi cartelli industriali, una capacità produttiva maggiore di quella che fosse mai stata raggiunta nei paesi industriali più avanzati d’Europa.

Un periodo di concorrenza sfrenata, seguito da un rapido processo di fusioni, gettò un’enorme quantità di ricchezza nelle mani di un piccolo numero di capitani d’industria. Ma, per quanto lussuosa fosse la loro vita, ciò non poteva essere sufficiente a controbilanciare l’aumento del loro reddito; si verificò così un processo di automatico aumento dei risparmi in una misura che non ha precedenti… La capacità produttiva è cresciuta quindi di gran lunga più del consumo attuale e, contrariamente a quanto sosteneva la vecchia teoria economica, ciò non è stato in grado di promuovere un aumento corrispondente dei consumi tramite la diminuzione dei prezzi… Ai nostri fini è sufficiente notare che la capacità produttiva di un paese come gli Stati Uniti può crescere così in fretta da eccedere la domanda del suo mercato interno… L’imperialismo americano è stato così il prodotto naturale di una pressione economica causata da un rapido balzo avanti del capitalismo USA che non poteva più trovare in patria un impiego adeguato per i propri prodotti e per i propri investimenti e perciò aveva bisogno di mercati esteri. Questi stessi bisogni esistevano anche nei paesi europei e, come è noto, portarono i governi lungo lo stesso cammino… Ogni miglioramento dei metodi di produzione, ogni concentrazione di proprietà e di controllo, sembra accentuare questa tendenza. Via via che una nazione dopo l’altra entra nell’economia delle macchine e adotta metodi industriali avanzati, diventa più difficile per i suoi produttori, mercanti e finanzieri disporre con profitto delle loro risorse economiche; essi sono sempre più tentati di utilizzare i loro governi in modo da assicurare al loro uso particolare, per mezzo di annessioni e di protettorati, qualche lontano paese arretrato… Ovunque appaiono eccessiva capacità di produzione ed eccessivi capitali in cerca di investimento. È ammesso da tutti gli uomini d’affari che la crescita della capacità produttiva nei loro paesi eccede l’aumento dei consumi, che si possano produrre più beni di quanti possano essere venduti ad un prezzo profittevole, che esiste più capitale di

281 Cfr. G. Ferrero, Militarismo, Fratelli Treves, Milano 1898, pag. 411

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quanto può trovare un investimento remunerativo. È questa situazione che rappresenta la radice economica dell’imperialismo»282.

La terapia che viene proposta è non meno anticipatrice e illuminante della predetta analisi del male. Scrive Hobson: «Se i consumatori del nostro paese aumentassero il loro livello di consumo in modo tale da mantenere il passo con l’aumento della nostra capacità produttiva, non vi sarebbe un eccesso di merci o di capitali così rilevante da farci usare l’imperialismo per trovare mercati “di sbocco”: il commercio estero, naturalmente, esisterebbe lo stesso; ma non vi sarebbe difficoltà a scambiare un piccolo sovrappiù dei nostri manufatti con il cibo e le materie prime di cui abbiamo annualmente bisogno e tutti i nostri risparmi, se lo desiderassimo, potrebbero venir investiti in Gran Bretagna… L’imperialismo rappresenta lo sforzo dei grandi controllori dell’industria di allargare il canale per far affluire la loro ricchezza eccedente alla ricerca di mercati e di occasioni d’investimento all’estero che possano assorbire merci e capitali che essi non sono in condizione di vendere e di usare in patria… Se ogni nuova ondata delle forze economico-politiche sottraesse a questi proprietari il loro reddito in eccesso e lo facesse fluire verso gli operai sotto forma di più alti salari, o verso la comunità sotto forma di tasse, in modo da venir speso anziché risparmiato, e in modo da servire in entrambi i casi a rafforzare lo sviluppo dei consumi, allora non ci sarebbe più bisogno di combattere per impossessarsi di mercati stranieri o di aree d’investimento estere… Se, tramite una certa riorganizzazione economica, i prodotti che provengono dai risparmi in sovrappiù dei ricchi e vanno ad ingrossare il canale “in eccesso” potessero essere indirizzati in modo da aumentare i redditi e lo standard di consumo di questo quarto della popolazione, non ci sarebbe alcun bisogno dell’imperialismo aggressivo e la causa delle riforme sociali avrebbe conquistato la sua vittoria più importante»283.

In conclusione: «La lotta per i mercati, il fatto che il desiderio di vendere dei produttori sia più grande di quello di comprare da parte degli acquirenti, è la prova evidente della situazione falsa che esiste nella distribuzione del reddito. L’imperialismo è frutto di questa situazione; le “riforme sociali” sono il rimedio… i mercati interni sono in grado di assicurare una espansione senza fine»284.

Il lettore voglia perdonarci per queste lunghe citazioni, che intendono rendere giustizia a questo studioso i cui meriti sono stati riconosciuti tardivamente e, sembra, molto parzialmente. In queste pagine c’è l’anticipazione di tutto il keynesismo, cioè il principio della deficienza della domanda effettiva e le sue implicazioni in tema di distribuzione del reddito, riforme sociali e stato del benessere, commercio internazionale. L’unico vistoso assente è la teoria del tasso di interesse.

Questa teoria dell’imperialismo è rilevante, ai fini del presente saggio, non solo per quel che concerne il problema delle forme di dominio ma anche perché evidenzia le potenzialità, in termini di sviluppo e trasformazione delle condizioni umane di cui, a differenza di precedenti imperialismi, il dominio capitalista è portatore in quanto società aperta: al punto da essere indotto all’imperialismo proprio dalla sua eccezionale capacità di produrre. Hobson sottolinea con analisi incontrovertibile che il fenomeno della deficienza della domanda effettiva è la conseguenza: della forte accelerazione impressa ai ritmi di produttività dalla ricerca imprenditoriale di profitto, che stimola l’introduzione di innovazioni, e, parallelamente, della iniqua distribuzione del reddito connessa al modo di produzione capitalistico. Chiarisce bene il nostro autore che i mercati di vendita della elevata produzione possono essere apprestati all’interno, attraverso politiche di redistribuzione del reddito e altre appropriate riforme sociali, anziché attraverso la follia del dominio imperialista. In effetti, è accaduto (e non poteva non accadere, prima o poi)

282 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, Pagg. 67, 68, 71 e 72283 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, Pagg. 72, 73, 76 e 77284 Cfr. J. A. Hobson, Ibidem, Pagg. 78 e 79

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che la produttività del capitalismo ha aperto spazi crescenti all’azione sindacale e al socialismo riformista, consentendo per tal via un grande ampliamento del benessere economico e sociale nel mondo occidentale.

La teoria marxista, assai agguerrita nel mettere a nudo il dominio capitalista, non fu in grado di percepire queste potenzialità di autoriforma del capitalismo, come appare in tutta evidenza dall’analisi di R. Luxenburg sull’imperialismo. Questa studiosa militante rivoluzionaria ha apprestato una spiegazione dell’imperialismo del tutto simile a quella di Hobson, in quanto incentrata sulla crisi di realizzazione della produzione nel capitalismo. Ma l’opera luxemburghiana si colloca in un quadro teorico di riferimento completamente diverso da quello di Hobson, ed è costituito dallo schema marxiano della riproduzione allargata. In tale ambito, ella cerca di dimostrare, in verità con varie incoerenze e in un modo alquanto prolisso, l’impossibilità per i capitalisti di realizzare il plusvalore accumulato nell’ambito di un sistema di capitalismo puro; donde la necessità di sottomettere mercati non capitalisti, principalmente attraverso l’espansione coloniale.

Tale crisi di realizzazione era sotto gli occhi di tutti e, come abbiamo appena visto, già Hobson ne aveva fatto il pernio della sua analisi. Sul piano dei fatti, avevano dunque torto coloro che, con in testa Bucharin, si sbracciavano a dimostrare che lo schema di riproduzione di Marx non implicava l’impossibilità di realizzazione del plusvalore; ma da un punto di vista teorico generale essi avevano ragione. La Luxemburg fu trascinata dal suo fervore rivoluzionario molto al di là dei fatti. A lei stava a cuore di dimostrare l’ineluttabilità del crollo capitalista causato dall’incapacità ineliminabile del capitalismo di realizzare il plusvalore nel suo ambito; crollo che sarebbe sopravvenuto automaticamente nel momento in cui tutte le aree non capitaliste fossero sparite; in realtà, sarebbe sopravvenuto molto prima, a causa delle crescenti difficoltà (e di rivoluzioni) innescate dall’avvicinamento a tale limite. Da brava rivoluzionaria, ella escludeva la possibilità, per il capitalismo, di superare al suo interno le difficoltà di realizzazione, possibilità che invece il riformista radicale Hobson vedeva lucidamente e che è poi stata dimostrata dai fatti.

Ha veramente dell’incredibile l’incapacità delle correnti marxiste di comprendere che un sistema in grado di promuovere, per la sua natura di società aperta, eccezionali aumenti della produzione e una grande presa di coscienza delle classi subalterne, non possa costituire, per ciò stesso, un grande strumento di propulsione del benessere materiale. Il buon senso del più umile analfabeta non tarderebbe a comprendere che la ricchezza è difficile da produrre ma assai meno da distribuire e ridistribuire, come il keynesismo avrebbe ampiamente dimostrato. In effetti, la grande differenza del dominio capitalista rispetto alle tante altre forme di dominio comparse nella storia risiede nel suo carattere di società aperta e fortemente progressiva. La grande difficoltà che i nemici del potere-dominio debbono superare è di trovare i modi per sconfiggere il fenomeno del dominio, mantenendo però in vita la società aperta e progressiva.

b) Lenin e l’imperialismo Una delle maggiori carenze dell’analisi di Hobson è costituita dallo spazio assai

ridotto che questa dedica al fenomeno della concentrazione industriale. A tale carenza rimedia Lenin, che pone il suddetto fenomeno al centro del suo studio sull’imperialismo. Tale studio inizia proprio con l’esposizione di alcuni dati sul processo di concentrazione e monopolizzazione della produzione industriale relativi alla Germania e agli USA, i due paesi in cui tale processo si era spinto più innanzi e aveva manifestato una forte accelerazione nell’ultimo ventennio del secolo. Lenin sottolinea inoltre che questa concentrazione della produzione in poche mani agevola la cartellizzazione, la stipula di

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accordi fra grandi monopoli. In queste condizioni, la celebrata libertà di scambio diventa un ricordo del passato anche in Inghilterra, la patria del libero scambio.

Ogni crisi economica determinerebbe l’accelerazione di questo processo di concentrazione delle unità produttive, sia eliminando dalla scena i produttori piccoli e indifesi, spesso incorporati dai grandi, sia facilitando e consigliando accordi fra i grandi monopolisti padroni della scena. Lenin commenta questo incalzante processo di concentrazione nel modo seguente: «Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capi capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa. Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone… l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile»285. Dopo aver brevemente elencato alcune tecniche attraverso cui i monopoli estendono la loro influenza, costringono alla sottomissione e alla resa i produttori non trustificati, e fanno man bassa dei profitti consentiti dagli sviluppi tecnologici, l’autore aggiunge: «Il rapporto di padronanza e la violenza ad esso collegata: ecco ciò che costituisce la caratteristica tipica della “recentissima fase di evoluzione del capitalismo”, ciò che doveva inevitabilmente scaturire, ed infatti è scaturito, dalla formazione degli onnipotenti monopoli economici»286.

Il quadro di questo processo di concentrazione produttiva, di espropriazione e di controllo accentrato dell’intera economia è completato dal ruolo che svolge il sistema bancario. Qui l’attenzione di Lenin è attratta da una tipicità del sistema bancario tedesco, le banche di investimento, mobilitate nel sostenere finanziariamente le intense trasformazioni capitalistiche di quel paese e pertanto contraddistinte da formidabili intrecci con le industrie da esse finanziate. Come evidenzierà A. Gerschenkron, questa tipicità rappresentò un surrogato dei "prerequisiti" per il decollo industriale, di cui si servirono la Germania (e in minor misura l’Italia) per promuovere l’industrializzazione287. Lenin attribuisce però al fenomeno un’indebita generalità.

Ma non v’è dubbio che rappresenta un fenomeno generale il grande e crescente peso di poche banche e di grandi concentrazioni bancarie riscontrabile anche a scala internazionale nel processo di intermediazione finanziaria che, come egli sottolinea, da intermediarie vengono trasformate in «un pugno di monopolisti». Lenin annota: «In luogo dei capitalisti separati sorge un unico capitalista collettivo… La Germania è amministrata da non più di trecento magnati del capitale, il cui numero si restringe sempre di più» 288. Essi governano le risorse del paese e realizzano una sorta di contabilità generale dell’economia, preannunciata da Marx, ed esercitano un ferreo controllo sulla base produttiva. Infatti: «non appena la tenuta del conto corrente di un dato imprenditore mette la banca in grado di conoscere, sempre più esattamente e completamente, la situazione economica del suo cliente –e questo appunto si va verificando- allora ne risulta una sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca»289.

Vi è dell’esagerazione in questo quadro che non tiene conto del fatto che la banca di investimento era una peculiarità del sistema bancario tedesco. Molti anni dopo, due collaudati marxisti, P. A. Baran e P. M. Sweezy, nel loro studio sul capitalismo monopolistico americano, avrebbero sottolineato che la società per azioni gigante «è in grado di sottrarsi a quel tipo di dipendenza dal controllo finanziario (anche se aggiungono,

285 Cfr. V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Newton Compton Italiana, Roma 1972, pagg. 49 e 50286 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag. 52287 Cfr. A. Gerschenkron, Il fenomeno storico dell’arretratezza economica, Einaudi, Torino 1965288 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pagg. 59 e 61289 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag. 66

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per deferenza nei riguardi dei capistipite del marxismo) che era tanto comune nel mondo della grande impresa cinquant’anni fa»290.

Tuttavia, non si può non dare atto a Lenin di aver ben affrescato l’impressionante sviluppo di un forte potere di disposizione e di dominio da parte di pochi complessi economici, con cui il potere politico è tenuto a fare i conti, e capace di condizionare profondamente quest’ultimo in vari modi. L’analisi di questo autore offre una visione realistica e pregnante del grande e potente intreccio fra potere politico ed economico, intreccio che costituisce il nerbo del moderno sistema di potere-dominio. Tanto più che il suo dipinto non si arresta a questa sommaria descrizione. Sulla scorta dell’insegnamento di R. Hilferding, Lenin non si stanca di insistere sulla penetrazione del capitale bancario nel sistema industriale. Questo aspetto non ha gran rilievo sul piano generale in quanto rappresenta, come già detto, una peculiarità tedesca; di conseguenza, neppure ha rilievo la sottolineatura sulla tendenza di tale fenomeno a fagocitare il ruolo della borsa. Assume invece grandissimo rilievo, specie ai fini dell’analisi delle forme di dominio capitalista, la parallela insistenza sugli intrecci azionari e compartecipativi, che rendono possibile il controllo di interi rami di attività con capitali che rappresentano una frazione assai modesta di quelli impiegati in quei rami, nonché attraverso scorporazioni, incorporazioni, costituzione di società figlie e madri, che rendono indecifrabili i bilanci aziendali. Lenin scrive: «La “democratizzazione” del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti “pseudosocialdemocratici” si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la “democratizzazione del capitale”, l’aumento d’importanza e di funzione della piccola produzione ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria»291.

A parte i toni propagandistici, è innegabile che gli incroci azionari e i mercati borsistici costituiscono la sede di disinvolte manovre speculative, nonché i gangli di un concentrato sistema di potere e di disposizione, che meritano la massima attenzione. L’oligarchia finanziaria è un fenomeno reale, non un’invenzione, e caratterizza ampiamente il modo di essere del moderno capitalismo, specie nel mondo globale in cui viviamo. Dovremo tornare ad occuparcene attentamente. Questo potere enorme e fortemente concentrato, che agisce nel mondo dell’economia e di lì aggredisce il resto del sistema sociale, rende, oggi più che in passato, vera l’affermazione tratta da Lenin dalla rivista Die Bank, secondo cui: «neppure la più ampia libertà politica può salvarci dal diventare un popolo di uomini non liberi»292.

Su questa impalcatura, viene innestata la spiegazione dell’imperialismo. Si legge nel libro: «scorgiamo all’evidenza, come, nell’età del capitale finanziario, i monopoli statali e privati si intreccino gli uni con gli altri e tanto gli uni quanto gli altri siano semplicemente singoli anelli della catena della lotta imperialistica tra i monopolisti più cospicui per la spartizione del mondo… (e continua più in là)… Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo»293.

Non è rilevante, per i fini di questo studio, il prosieguo dell’analisi di Lenin, che peraltro spesso non differisce nella sostanza da quella di Hobson e, per il resto, costituisce un’acre polemica contro suoi nemici politici e si azzarda in infondate previsioni sui destini del capitalismo. Il libro incorre in evidenti esagerazioni sulla tendenza alla monopolizzazione in atto, tuttavia utili a enfatizzare le concentrazioni di potere-dominio causate dall’evolvere delle forze produttive e i formidabili intrecci di potere economico e politico, nella fase storica in cui l’economia è sempre più al centro del processo sociale. In

290 Cfr. P. A. Baran e P. M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, pag. 16291 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag. 74292 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pag. 84293 Cfr. V. I. Lenin, Ibidem, pagg. 98 e 114

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complesso, si tratta di una analisi incisiva sul piano della elencazione e della connessione dei fatti. Ma, sul piano teorico, appare frettolosa e non approfondita. In particolare, manca in essa un anello fondamentale, che sarà in seguito sviluppato da post-keynesiani e neomarxisti, e che era stato parzialmente anticipato dall’analisi di Hobson: il legame tra monopolizzazione e deficienza della domanda effettiva

c) L’illusorio disegno di W. Rathenau La fine del secolo XIX assistette, dietro la spinta della seconda rivoluzione

industriale, ad una fortissima concentrazione delle unità produttive in alcune cruciali branche di attività: energia elettrica, industria del carbone, del ferro e dell’acciaio, industria chimica, trasporti, cemento e altre industrie estrattive. Giganteschi complessi industriali conquistarono il monopolio a scala mondiale dei predetti settori. Nel mondo, due colossi, uno tedesco e uno americano, si dividevano il controllo del settore elettrico. La metà della produzione carbonifera tedesca era nelle mani del complesso Renania-Vestfalia, la produzione tedesca dell’acciaio era accentrata quasi per intero nelle mani della Stahlwerkverband, il grosso delle ferrovie apparteneva alla Särrebruck. L’espansione delle grandi banche non era da meno. Negli USA iniziò l’epoca del big business.

Questi aumenti della scala di attività, principalmente stimolati da ragioni tecnologiche, e i processi di conglomerazione e di razionalizzazione sviluppati dall’impresa gigante, sono proseguiti per lungo tempo, al punto da indurre molti economisti nella convinzione che essi costituissero una tendenza inarrestabile. Varie teorizzazioni incentrate sul ruolo e il modus operandi dell’impresa manageriale si sono spinte ad intravedere la convergenza del capitalismo verso una economia pianificata, sull’onda dell’organizzazione manageriale. Anche se molto si è esagerato a questo riguardo, bisogna convenire che la presenza di grandi concentrazioni di potere economico costituisce una caratteristica permanente e di grande importanza delle moderne economie.

Riservandoci di tornare più in là su questo tema cruciale per la questione del potere, qui ci limiteremo a ricordare le conclusioni tratte dalle predette evidenze, nei primi decenni del XX secolo, da un grande esponente del gigantismo industriale, il tedesco Walter Rathenau, presidente del colosso multinazionale tedesco dell’elettricità AEG. Quel colosso dominava, attraverso incroci di partecipazioni finanziarie, all’incirca 200 imprese operanti nei settori bancario, automobilistico, aeronautico, dei materiali elettrici e ferroviari ed altro, e rappresentata all’estero da numerose filiali. Questo personaggio di notevole cultura, che operava nei consigli di amministrazione di numerose grandi società per azioni estere, aveva una visione di ampio raggio e una profonda conoscenza diretta del capitalismo monopolistico, delle sue modalità organizzative e potenzialità di sviluppo. All’inizio della prima guerra mondiale, egli caldeggiò l’istituzione di un organismo deputato a controllare e pianificare la produzione bellica, in particolare l’approvvigionamento delle materie prime, e diresse la KRA (ufficio delle materie prime).

Rathenau conosceva a fondo le potenzialità di sviluppo tecnologico, dell’efficienza produttiva e quindi della produttività del lavoro, che erano in grado di sprigionare i grandi colossi industriali. Le possibilità di trasformazione e razionalizzazione programmata della produzione esperimentate nella sua attività professionale e la sua cultura umanistica di ampio raggio lo spinsero ad accarezzare l’idea di orientare l’inevitabile ristrutturazione postbellica dell’economia e delle società industriali verso una socializzazione e pianificazione generalizzata dei meccanismi produttivi che, potenziando il tradizionale connubio tra stato e capitale tipico dell’economia tedesca, avrebbe permesso rapidi aumenti della produttività del lavoro, propiziando l’elevamento delle qualità individuali e la liberazione dell’uomo. Questo progetto costituisce uno degli aspetti più significativi di quel ponderoso e tormentato dibattito culturale sulla società e sulle scienze umane di inizio

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secolo che, nonostante qualche salutare illuminazione, avrebbe seminato gran confusione. Precisamnte, avrebbe propiziato l’ingresso del mondo politico in disastrosi esperimenti e vicoli ciechi e, in definitiva, nelle forme più esasperate e barbariche di potere-dominio conosciute dall’uomo.

Scrive Rathenau nel suo libro sulla «Economia nuova»: «dell’economia viene accettato senza discussione come cosa sicura che essa non possa sussistere altrimenti che senza freni, sul terreno della libera concorrenza e della lotta civile. Che anch’essa sia suscettibile di un ordinamento razionale, di un’organizzazione cosciente, di una penetrazione scientifica e di una responsabilità solidale; che essa sotto queste forze e queste leggi organizzatrici possa rendere mille volte di più di quello che oggi si ottiene con la lotta di tutti contro tutti; che libera da contese e da conflitti velenosi, senza più speculare sopra istinti sciocchi, e senza premiare la discordia, impari a concentrarsi su ciò che è importante e necessario; che essa possa offrire ai ceti più bassi non la guerra eterna, ma la libera collaborazione; tutto ciò sarà dimostrato dall’esame della nuova opera di ricostruzione»294. E aggiungeva: «Si possono immaginare delle officine, organizzate in forma così completamente meccanica, che sia sufficiente la facile sorveglianza di un uomo per dirigere nella sua totalità l’ingranaggio della produzione; vi sono delle fabbriche, soprattutto nell’industria chimica ed elettrica, che si avvicinano rapidamente a questa situazione… non vi è mai stata una teoria più sciocca di quella della macchina che toglie il pane dell’operaio»295.

Possiamo definire questa visione "teoria dell’albero della cuccagna”. Rathenau non è sfiorato neanche lontanamente dall’idea che questa razionalizzazione dei processi produttivi con effetti miracolosi sulla produttività del lavoro può concernere solo alcune produzioni e settori dell’apparato produttivo, quelli di cui egli aveva esperienza, ed a condizione che essi siano pressati dagli stimoli e dai condizionamenti diretti o indiretti del mercato. Egli non vede: che la produzione del grandissimo numero di tipi di merci richiesto in un’economia avanzata esige l’opera del mercato, la guida e lo stimolo dei prezzi da questo determinati (come vide lucidamente ma vanamente L. von Mises all’inizio degli anni venti) e la sanzione del grado di successo imprenditoriale espressa dal saggio di profitto. Non vede che l’innovazione tende a ristagnare negli organismi burocratici ed in assenza degli stimoli, segnali e sanzioni che scaturiscono dal mercato.

Traspare nei brani di Rathenau sopra riportati la favola trita dell’anarchia della produzione capitalistica (come meglio emergerà in ulteriori citazioni del suo pensiero) e sugli squilibri e contraddizioni che affliggerebbero il capitalismo di mercato, cara agli alfieri della pianificazione e alla letteratura socialista. In verità, il mercato, nella sua qualità di formidabile meccanismo di coordinamento, non è poi così anarchico come sembra; peraltro un’economia efficiente e razionale non può fare a meno dei prezzi di mercato. Da parte loro, gli squilibri, antagonismi e contraddizioni sono un correlato ineliminabile di una economia che innova e si sviluppa. Infine, l’esercizio della creatività umana richiede la libera iniziativa e questa ha bisogno del mercato. Una società aperta necessita del mercato; essa non teme squilibri e contraddizioni, ma vive e prospera sul loro manifestarsi. Non è indice di vitalità, bensì di vegetatività, l’armonico fluire delle cose umane.

La storia avrebbe dimostrato che la razionalizzazione e le riforme dell’economia centrata sulla pianificazione e ispirata alle prestazioni dei grandi complessi manageriali e al controllo statale, con la sua capacità di concentrare grandi energie disponibili in ristretti settori, avrebbe fatto le glorie dell’economia di guerra e delle tirannie hitleriana e staliniana. Il dirigismo avrebbe propiziato le peggiori concentrazioni di potere-dominio; ma, incapace di promuovere la diversificazione produttiva, l’innovazione dei prodotti e

294 Cfr. W. Rathenau, L’economia nuova, Einaudi, Torino 1976, pag. 22295 Cfr. W. Rathenau, Ibidem, pag. 27

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l’efficienza, avrebbe infine condotto alla stagnazione produttiva e alla miseria di massa i totalitarismi sopravvissuti all’apocalisse dell’ultima grande guerra. Assai meglio sarebbe stato se i manager dei grandi gruppi industriali si fossero limitati al loro mestiere, anziché fornire allettanti insegnamenti ai Lenin, Hitler e Stalin.

Rathenau non sospetta niente di tutto questo, né si pone realmente il problema spaventoso della grande concentrazione di potere-dominio che avrebbe implicato la «ristrutturazione» da lui vagheggiata. Constata che «la società industriale per azioni oggi predominante rappresenta già una formazione intermedia fra il sistema dell’impresa privata e l’amministrazione pubblica»296e procede a delineare il suo progetto di un «socialismo del capitale», esprimente la poderosa «volontà unica di una produzione organizzata e razionale (e aggiunge)… Se questa volontà centrale di un organismo diventato cosciente subentrerà al posto dell’azione di una pluralità, che finora ha determinato il movimento economico, fondandosi sopra un equilibrio casuale, ne deriverà alla sua volta un rinvigorimento della forza produttiva e del grado di rendimento, la quale, assieme ai fattori di cui si è trattato precedentemente, sarà aumentata in proporzioni quattro volte maggiori»297.

Non sembra avvedersi: che la limitatezza delle capacità umane costringe l’uomo a procedere, in tutti i campi, per tentativi ed errori; che, pertanto, il coordinamento e controllo sociale non può essere così penetrante come appare nella pianificazione delle industrie giganti; e che, nel contesto di questo fisiologico procedere a tentoni, il mercato costituisce il più efficace meccanismo di coordinamento, e il pluralismo dei centri di potere e decisione rappresenta il maggior propulsore della innovazione e una fondamentale garanzia di libertà. Né si avvede che l’élite dirigente e pianificatrice del grande organismo (e impresa collettiva) cui mira il suo progetto si approprierà di «privilegi, abitudini e usurpazioni di classe» che egli intende abolire in nome della «iniziativa e responsabilità individuale». In effetti, nulla vi è nel suo disegno che garantisca la permanenza «in vita di ogni individualità del pensiero e della responsabilità»298 e legittimi la sua generosa aspirazione alla libertà, alla responsabilità e al miglioramento dello spirito.

Impressiona la quasi totale assenza di riflessione, in questa analisi, sulla questione cruciale del potere-dominio, sulle istituzioni indispensabili a sottrarre la società alla nera ombra di tale potere, riflessione indispensabile in questo progetto imperniato sull’attuazione di forti concentrazioni di potere. Una incomprensibile leggerezza sui meccanismi del potere offusca non solo l’analisi di Rathenau ma di tutti i grandi riformisti e rivoluzionari dell’epoca. Tale noncurante leggerezza ha generato disastrose conseguenze sul piano sia culturale che operativo; essa ha fornito un contributo decisivo alle imminenti degenerazioni totalitarie che avrebbero angosciato e straziato l’esistenza di enormi masse umane nel secolo XX.

Nel periodo successivo, hanno insistito sul fenomeno dell’imperialismo soprattutto gli studiosi marxisti, incitati dallo scontro polemico fra i due blocchi di potenze che ha caratterizzato la storia del XX secolo. Si tratta di contributi per lo più minati da servilismo di sistema e quindi di scarso rilievo teorico, se si prescinde dalla linea di pensiero incarnata principalmente da P. Baran e P. M. Sweezy. Questa è incentrata sulla dimostrazione dei meccanismi che fanno del capitalismo monopolistico un sistema incline a produrre elevati profitti (sovrappiù). Tali meccanismi vengono indicati: da un lato nelle forti capacità e inclinazioni dell’impresa gigante a ridurre i costi attraverso innovazione e razionalizzazione dei processi, e dall’altro lato nella capacità di tale tipo di impresa di controllare il meccanismo di formazione dei prezzi in modo da impedire la caduta di questi

296 Cfr. W. Rathenau, Ibidem, pag. 25297 Cfr. W. Rathenau, Ibidem, pag. 44298 Cfr. W. Rathenau, Ibidem, pagg. 67 e 68

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ed evitare così rovinose guerre di prezzi fra oligopoli. Le necessità e modalità di realizzazione di tale sovrappiù (politiche delle vendite, sprechi, militarismo e imperialismo) segnerebbero la vita del capitalismo.

Poi la polemica sull’imperialismo si è spenta, dacché note vicende internazionali hanno dimostrato il fatto banale che anche il «socialismo reale», in quanto sistema di dominio, non sfuggiva ad inclinazioni imperialistiche; anzi, a causa del suo sistema di dominio assai concentrato, tali inclinazioni emergevano con particolare opacità e crudezza.

d) H. Arendt e l’imperialismo dello stato nazionale

In tanta mediocrità teorica, merita rilievo l’analisi di H. Arendt sull’imperialismo. Analisi che non brilla per coerenza, ma che ha il merito di porre in evidenza due aspetti di grande rilievo su cui sorvolano gli altri autori: il ruolo espletato dallo stato nazionale nel caratterizzare e motivare l’imperialismo moderno; il legame fra imperialismo e totalitarismo.

Lo stato nazionale, succeduto in Europa alla catastrofe dell’universalismo consumatasi nel corso delle aspre lotte fra Chiesa e Impero, era per sua natura particolaristico ed esclusivista, quindi incapace di integrare i popoli assoggettati su un piano di pari dignità e sotto leggi comuni; era espressione di omogeneità etnica e, in quanto tale, incapace di accettare un assetto plurietnico. Fu questa forma di stato il grande attore della frenetica espansione imperialistica che prese avvio negli ultimi decenni del XIX secolo. Scrive la Arendt: «Poiché (tale imperialismo) non implicava né il temporaneo saccheggio del territorio conquistato né la definitiva assimilazione dei suoi abitanti, era un concetto assolutamente morto nella storia (ed aggiunge)… Di tutte le forme di ordinamento statale, quella nazionale è la meno adatta all’estensione perché il consenso che ne è alla base viene difficilmente ottenuto dai popoli sottomessi»299, in quanto basato sul principio esclusivistico di nazionalità.

Lo stesso imperialismo inglese, che pure ha dato prova di grande apertura attraverso il sistema dei mandati, l’idea del Commonwealth, il rispetto per le culture, le istituzioni e le autonomie locali, non possedette mai le capacità assimilative dei grandi imperi universali; utilizzò tale apertura solo per addolcire la discrasia fra l’ordinamento e lo spirito nazionali del sistema britannico da un lato, e gli immensi possedimenti imperiali dall’altro. Sottolinea la Arendt: «L’esempio irlandese dimostrò quanto poco adatto fosse il Regno Unito a costituire una struttura imperiale in cui i vari popoli potessero convivere soddisfatti. La grandezza della nazione britannica si manifestò, non nella creazione di un impero di tipo romano, ma in una colonizzazione che si accostava al modello greco»300.

Il concetto di stato nazionale era di per sé avverso alla fondazione di imperi universali; lungi dall’assimilare, tendeva piuttosto a risvegliare la coscienza nazionale, e quindi l’ostilità dei sottoposti. Napoleone dovette constatare a sue spese l’impossibilità di unificare l’Europa delle nazioni attraverso gli eserciti della nazione francese. L’imperialismo degli stati nazionali doveva rivelarsi, alla prova dei fatti, un focolaio di nazionalismi, suscitare profonde divisioni, attizzare risentimenti e repliche non meno esclusivistiche da parte dei popoli conquistati. «Quanto più inadatta era la nazione a incorporare popoli stranieri, tanto maggiore era la tentazione di opprimerli»301. In definitiva, l’espansione imperiale voluta e diretta da potenti stati nazionali doveva alimentare acuti conflitti fra i conquistatori in lizza e concludersi nei grandi conflitti mondiali che hanno insanguinato il secolo XX.

299 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pagg. 175 e 176.300 Cfr. H. Arendt, Ibidem, pag. 178301 Cfr. H. Arendt, Ibidem, pag. 213

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V’è tuttavia un intermezzo dell’analisi della Arendt sull’imperialismo che non può essere condiviso, ed è il tipo di legame che ella stabilisce fra imperialismo e interessi della borghesia. La nostra autrice vede questa classe come attrice di «una accumulazione di beni senza fine (che) deve basarsi su un’accumulazione di potere senza fine (e ne deriva che)…L’infinito processo di accumulazione di capitale ha bisogno della struttura politica di un “Potere illimitato” che protegga la crescente proprietà diventando sempre più forte»302. La filosofia del potere di Hobbes sarebbe l’ideologia di una borghesia matura.

Questa proposizione è priva di fondamento e appare contraddetta dall’evidenza storica. La borghesia ha bisogno di Locke assai più che di Hobbes; ha bisogno dello stato liberale, della divisione e bilanciamento dei poteri, del pluralismo, della difesa della coscienza, del ruolo e della creatività dell’individuo, tutti fondamentali attributi della «società aperta», della quale è stata la principale artefice. Un potere politico forte e concentrato soffoca lo spirito borghese e le sue capacità espansive. Il concetto di borghesia come mera accumulatrice di potere è privo di senso e di riscontri nella realtà. Ancora; gli agenti dell’imperialismo europeo non furono delle figure propriamente burocratiche, come le definisce la Arendt. Sappiamo che la trama della storia universale è piena della necessità del potere e degli abusi di potere. In tale tetro scenario, bisogna tuttavia riconoscere che la borghesia costituisce forse, fra le classi dominanti comparse nella storia, quella che ha mostrato maggior ostilità agli abusi di potere.

Lo stato nazionale non è necessariamente lo stato della borghesia. Quest’ultima tende piuttosto ad avere interesse per uno stato sopranazionale e per il trionfo dello spirito universalistico, soprattutto nella attuale fase di intenso sviluppo a scala planetaria dei suoi affari.

Invece, è illuminante l’analisi della Arendt che individua nel risveglio delle nazionalità e nell’imperialismo capitalista dei battistrada del totalitarismo. Il razzismo fu un diretto discendente del crollo tardo medievale dello spirito universalistico e della sostituzione degli stati nazionali a tale universalismo, e crebbe nel fertile terreno dell’espansione imperialistica di questi. Dall’idea di razza al totalitarismo il passo sarebbe stato breve. L’analisi dell’autrice sugli effetti della distruzione dell’impero absburgico, che portò alla formazione di stati nazionali con minoranze nell’insieme numericamente superiori alla popolazione «statale», i suoi rilievi sulla formazione di masse umane disperatamente in cerca di un’impossibile identità nazionale, sulla frustrazione e l’oppressione di masse di apolidi, ci mostrano con una drammatica chiarezza il fallimento dello stato nazionale e le responsabilità di questo grande agente del mito imperialista nel favorire il trionfo del totalitarismo, sull’onda di esacerbati movimenti politici.

e) J. A. Schumpeter e l’imperialismo dei sentimenti atavici

Un assai ampio respiro caratterizza, sotto il profilo storico, l’analisi di Schumpeter sull’imperialismo. Questa ampiezza di prospettiva ben si presta a predisporre il terreno idoneo a fare il punto su tale controverso fenomeno. Schumpeter intende dimostrare che il fenomeno dell’imperialismo attraversa l’intera storia universale e che esso trae origine da svariati fattori: condizioni ambientali, strutture organizzative della società, istinti ereditari, fattori individuali, e che il capitalismo, per sua essenza, non è imperialistico. Conviene iniziare dalla definizione che Schumpeter dà di imperialismo, dalla quale dipendono lo svolgimento, i contenuti e le conclusioni della sua analisi. Egli scrive: «E in realtà la storia ci presenta popoli e classi –quasi tutti i popoli ne offrono l’esempio, in questa o quell’epoca- che vogliono l’espansione per l’espansione, la lotta per la lotta, la vittoria per la vittoria, la supremazia per la supremazia… È vero che anche l’espansione come fine in sé è un “oggetto”; ma non ha nessun oggetto adeguato al di là di se stesso… Definiamo

302 Cfr. H. Arendt, Ibidem, pag. 199

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perciò l’imperialismo come la disposizione priva di oggetto da parte di uno Stato all’espansione violenta e intollerante (e più oltre aggiungerà illimitata) di confini»303. Questa definizione è infondata. Innanzitutto perché l’imperialismo non è disposizione «priva di oggetto» all’espansione; vedremo fra breve, infatti, che, in tutti i casi, tale disposizione ha un oggetto generale e assai stringente, la tendenza ad acquisire e accumulare capacità di dominio ed il fatto che il dominio chiama dominio non solo per ragioni psicologiche ma pure strettamente oggettive. Inoltre, vedremo fra breve che l’imperialismo non richiede necessariamente l’azione dello stato.

Schumpeter svolge un’ampia rassegna degli imperialismi che hanno agito nel corso della storia, per concludere che: «L’imperialismo è una forma di atavismo. Esso rientra nel vasto gruppo di quelle sopravvivenze di epoche remote, che hanno una parte così importante in ogni situazione sociale concreta; di quegli elementi di ogni situazione sociale concreta che si spiegano con le condizioni di vita non già del presente, ma del passato, e quindi, dal punto di vista della interpretazione economistica della storia, con modi di produzione non attuali ma trascorsi (e aggiunge)… Poiché le esigenze vitali che l’hanno generato si sono per sempre esaurite, anch’esso deve a poco a poco scomparire, benché ogni complicazione bellica, sia pure di carattere non imperialistico, tenda a ravvivarlo»304. Questa conclusione è priva di fondamento o meglio, lo trova nella inaccettabile definizione schumpeteriana di imperialismo richiamata all’inizio. Non v’è chi non veda, infatti, che atteggiamenti, interessi e tendenze imperialistici saranno sempre pronti a rifiorire fintanto che durerà il fenomeno del potere-dominio e saranno tanto più forti per quanto più questo diventerà esacerbato.

Venendo, infine, all’imperialismo capitalistico, il nostro autore prosegue affermando, dopo ampia analisi delle caratteristiche del libero scambio: «Si può ritenere indiscusso che, in regime di libero scambio, nessuna classe in quanto tale è interessata a un’espansione violenta»305. Il capitalismo, per sua essenza, non sarebbe imperialistico. E conclude: «l’imperialismo moderno è un retaggio delle monarchie assolute, degli elementi della loro struttura, delle loro forme di organizzazione, dei loro schieramenti di interessi e di attitudine»306.

Ciò sarà pur vero in qualche misura, ma non può farci ignorare che il capitalismo, in quanto sistema di dominio, non può per ciò stesso ritenersi immune da inclinazioni imperialistiche. Infatti non ha molto fondamento neppure la tesi che il capitalismo concorrenziale tenda a stemperare interessi e inclinazioni imperialistici. Il lungo periodo di trionfo del libero scambio passato alla storia con la denominazione di pax Britannica vide all’opera un vero e proprio imperialismo inglese basato sui vantaggi competitivi arrecati all’Inghilterra dalla rivoluzione industriale specie nell’industria cotoniera, di cui non fu solo l’India a fare le spese. Si aggiunga che il capitalismo non è solo libero scambio. I grandi processi di concentrazione industriale, di monopolizzazione, e di espansione del dominio capitalista costituirono il principale motore dell’imperialismo di fine secolo. Tali processi non si sono estinti; il big business non è morto e niente ne fa presagire la scomparsa. Ha piuttosto andamento altalenante; per un verso è stimolato dall’espansione dei mercati internazionali, per altri versi è sospinto e raffrenato dagli sviluppi tecnologici. Lo stesso Schumpeter, molti anni più tardi, sbarcato in America, sarebbe stato fortemente ed esageratamente impressionato dalle dimensioni del capitalismo trustificato in quel paese, al punto da convincersi dell’euthanasia della funzione imprenditoriale, che sarebbe stata provocata dalle grandi concentrazioni produttive con i loro metodi di direzione pianificata. Incredibile a dirsi: quel che Rathenau voleva realizzare attraverso una riforma

303 Cfr. J. A. Schumpeter, Sociologia dell’imperialismo,, Laterza, Bari 1972, pagg. 5 e 6304 Cfr. J. A. Schumpeter, Ibidem, pag. 70305 Cfr. J. A. Schumpeter, Ibidem, pag. 82306 Cfr. J. A. Schumpeter, Ibidem, pag. 5

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dei meccanismi produttivi, questo grande alfiere dell’imprenditorialità lo vede come una conseguenza di andamenti spontanei in atto. Dunque, Schumpeter vede il capitalismo votato alla trustificazione pochi decenni dopo aver affermato che l’imperialismo è incompatibile con il capitalismo in quanto l’anima di quest’ultimo è il libero scambio.

L’aspettativa schumpeteriana di una estinzione delle inclinazioni imperialistiche causata dalla competizione, razionalità ed efficienza capitalistiche è priva di senso anche per un’altra basilare ragione, che va al di là della contraddittoria ammissione di cui sopra da parte di Schumpeter. Tale ragione consiste nel fatto che la suddetta estinzione richiede la preliminare o collaterale estinzione del fenomeno del dominio, impossibile nel capitalismo in quanto quest’ultimo è inerentemente un sistema di dominio. Non è un caso se uno specialista di teoria della politica intesa come regno del potere-dominio del calibro di Schmitt ha obbiettato alla teoria schumpeteriana dell’imperialismo: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizione dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera e così via. Esso considererà come “violenza extraeconomica” il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi all’effetto di questi metodi “pacifici”. Esso impiegherà mezzi di coercizione ancora più duri»307.

L’analisi di Schumpeter sull’imperialismo riveste interesse non per le sue affermazioni e presunte dimostrazioni ma per l’ampia prospettiva storica in cui inquadra l’imperialismo, con le sue atrocità e inauditi misfatti. Ma uno studio realistico dell’imperialismo è obbligato a percorrere sentieri analitici assai differenti da quelli schumpeteriani.

f) L’imperialismo quale espressione di potere-dominio

Sempre, nel corso della storia, il potere politico ha dovuto convivere con altre forme di potere che lo hanno condizionato e influenzato in varia misura: potere religioso, potere di aristocrazie nobiliari e di organismi militari. Con la progressiva conquista, nei sistemi sociali dell’occidente, di una posizione di centralità da parte del subsistema economico, si sono sempre più estesi i condizionamenti esercitati dall’economia sul potere politico. Essi hanno operato dapprima in forma subordinata, sia nel mondo medievale sia e, ancor più vistosamente, negli stati nazionali, ben consapevoli dell’importanza della base economica per la loro politica di potenza. Ma a partire dalla rivoluzione industriale la preponderanza del potere economico ha preso a svilupparsi progressivamente nel contesto dei sistemi più importanti di potere-dominio, ed ha conquistato prepotentemente la scena con l’avvento del capitalismo monopolistico e imperialistico. L’efficacia dell’interpretazione marxiana della storia, nello spiegare l’evoluzione del mondo occidentale dei secoli recenti deriva soprattutto dall’essere incentrata sul ruolo dell’economia che, per l’appunto, è divenuta il subsistema sociale dominante nell’improntare e alimentare tale evoluzione. Purtroppo e come già visto, il marxismo ha propinato un pessimo insegnamento sulla questione del potere. Per maggior disgrazia, le carenze al riguardo che affliggono gli altri indirizzi teorici non sono da meno.

Gli imperialismi di tutte le epoche e tarature, di cui la storia universale ci offre ampia testimonianza, esprimono sempre l’agire, in forme più o meno aggressive, del potere-dominio a scala internazionale. Una definizione e interpretazione generale dell’imperialismo deve intendere quest’ultimo come espressione dell’agire del potere-dominio a scala internazionale e delle diverse tonalità di questo, variabili con le forme di civiltà e i condizionamenti ambientali. Una siffatta definizione ha il pregio di essere assai flessibile, inclusiva, articolata e penetrante. Precisamente. essa consente di abbracciare,

307 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, pag. 164

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accanto ai fattori economici, il vasto spettro degli altri fattori, politici, religiosi ecc., che hanno alimentato l’imperialismo nel corso della storia. La fecondità di una definizione dell’imperialismo incentrata sul fenomeno del potere-dominio emerge con maggiore evidenza se si considera la possibilità di debellare il potere dominio attraverso l’edificazione di sistemi di potere-servizio; essa non è stata intravista a causa del fatto che il potere viene generalmente inteso quale sinonimo di dominio. Dunque, l’imperialismo non è che una espressione del fenomeno del potere e, in quanto tale, un episodio della complessa fenomenologia oggetto di questo studio.

Come abbiamo visto nel capitolo IV, nei rapporti internazionali intrattenuti dalle varie formazioni sociali si incontrano, nel corso della storia, tre tipi di atteggiamenti:

a) Il particolarismo aggressivo ed esclusivistico delle città stato: polis greche, repubblica romana, comuni medievali (ma in questi ultimi il particolarismo risentì della moderazione indottavi dallo spirito universalistico della chiesa e dell’impero); b) L’universalismo degli imperi ecumenici. c) Il tracotante particolarismo dei moderni stati nazionali.

A questi diversi atteggiamenti hanno corrisposto forme assai diverse di imperialismo. Tale varietà è poi accentuata dalla presenza di casi intermedi, di cui il più importante sembra essere costituito dall’imperialismo arabo, imbevuto di spirito universalistico epperò dilaniato da un grande particolarismo politico.

Infine, occorre sottolineare che l’azione dello stato non costituisce una componente indispensabile dei fenomeni imperialistici. L’imperialismo di Atene fu una conseguenza della struttura sociale di quella città ed ebbe quali agenti principali gli interessi commerciali, che trascinarono lo stato ad opprimere e sfruttare gli alleati della lega di Delo. L’imperialismo delle moderne multinazionali va oltre il potere statale, che sente come un impaccio, e tende a fagocitarlo, a spogliarlo di capacità di incidere e, come vedremo, avverte sempre più l’esigenza di avvalersi di uno spirito universalistico, di un impero universale e di forme di potere politico sopranazionali.

Non è mai sufficiente ripetere che, per uscire dai limiti e dalle parzialità delle tradizionali analisi dell’imperialismo, occorre porre al centro della questione i meccanismi del potere-dominio e il problema delle istituzioni idonee a soppiantarli.

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Capitolo XI

Positivismo giuridico, irrazionalismo e più recenti teorie sul potere

1. L’idea di potere nel positivismo giuridico: l’analisi di H. Kelsen

La teoria del diritto che va sotto il nome di positivismo giuridico riveste grande importanza per la nostra analisi del potere in quanto in essa confluiscono tre capitali errori del pensiero sociale fra loro strettamente connessi, causati dall’estremizzazione di tre posizioni di per sé ragionevoli, e cioè: a) l’estremizzazione hobbesiana che, muovendo dalla necessità, per la pace sociale, di un potere coercitivo, procede a giustificare e anzi a dichiarare indispensabile il dominio totale del Leviatano; b) l’estremizzazione hegeliana dell’attenzione per la realtà, espressa dal postulato realtà=necessità=razionalità, che implica l’accettazione acritica della realtà di fatto; c) l’estremizzazione del fenomeno del relativismo storico-sociale, consistente nell’asserzione dell’impossibilità, nel campo del pensiero sociale, di formulare proposizioni e acquisire risultati teorici di carattere oggettivo. L’ultima estremizzazione è la più importante, anche perché da essa dipendono, in maggiore o minor misura, anche le altre due.

Il predetto impianto relativistico del positivismo giuridico evidenzia in maniera immediata che tale corrente di pensiero differisce nettamente dal positivismo naturalistico giacché non accetta la nozione di legge di natura ma considera la realtà sociale come un frutto arbitrario dell’attività umana. Qui ci limiteremo a considerare l’analisi di Kelsen, che forse costituisce la più sofisticata espressione della dottrina del positivismo giuridico.

Sarà bene chiarire subito che riveste importanza secondaria muovere obiezioni alla definizione kelseniana di diritto positivo in quanto riferita a tutta la normativa di carattere coercitivo, cioè all’intero ordinamento giuridico308. Basterà dire, al riguardo, che è da ritenere esagerata la recisa negazione, da parte di Kelsen, della positività del diritto naturale basata alla considerazione che: a) «la norma del diritto naturale si realizza per così dire “da sé”309,» in quanto di evidenza immediata, sicché il giusnaturalismo non avrebbe bisogno dello stato e sarebbe sostanzialmente anarchico; b) ma siccome tale autooperatività del diritto è nella pratica impossibile, il giusnaturalismo sarebbe un’utopia; nella realtà esisterebbe dunque solo il diritto positivo. Ora però, contrapponendo definizione a definizione, nulla vieta di chiamare giusnaturalistico un ipotetico

308 Scrive Kelsen: «La dottrina per la quale la coercizione è una caratteristica essenziale del diritto è una dottrina positivistica, che si riferisce soltanto al diritto positivo». Cfr. H. Kelsen, Dottrina dello Stato, ESI, Napoli 1994, pag. 125309 Cfr. H. Kelsen, Dottrina dello Stato, opera citata, pag. 125

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ordinamento costituito da norme di diritto naturale (ove esistessero) dotate di coercitività, cioè di positività. Ma non è questo il punto.

Assai più rilevante e coinvolgente è l’attacco di Kelsen alla dottrina del diritto naturale, in quanto attacco di tipo sostanzialistico e non semplicemente basato su una mera definizione, e le lucide considerazioni metodologiche che lo precedono. L’autore lamenta «la svolta della teoria sociale dalla problematica normativa ad un’altra posta in termini di leggi causali»310, svolta determinata dai grandi successi conseguiti dalle scienze della natura durante il secolo diciannovesimo e il secolo ventesimo. Lamentela giusta e sacrosanta, ma che cade in un opposto e non meno grave errore. Egli scrive: «Per ordine “naturale” si intende quello che non riposa sulla volontà umana, quello che non è stato creato “arbitrariamente”, ma che nasce per così dire “da se”, da un qualunque fatto in qualche modo effettivamente dato, cioè però indipendentemente dalla volontà soggettiva dell’uomo e pur tuttavia già in qualche modo accessibile all’essere umano e dall’essere umano riconoscibile… Questo fatto oggettivo, questo principio fondamentale è la “natura”, ossia, nella sua espressione religioso-personificativa, “Dio”»311.

Le suddette affermazioni sono incontestabili in riferimento ai fenomeni naturali. Purtroppo Kelsen indica, per contrappunto, i rapporti sociali come un costrutto “arbitrario” dell’uomo. Egli incalza: «Questo (il diritto positivo) è nella sua essenza un ordine coercitivo, e tale non può non essere appunto in contrapposizione al diritto naturale, perché le sue norme derivano dall’arbitrio (sottolineatura nostra) di una autorità umana e pertanto, data la differenza sostanziale del fondamento, non possono avere la qualità dell’evidenza immediata»312.

Questa insistenza sull’arbitrarietà delle norme del diritto positivo implica una indebita negazione dell’elemento della «necessità» nella organizzazione dei sistemi sociali. Infatti, la costruzione sociale dell’uomo non costituisce, o meglio, costituisce solo in parte, un fatto arbitrario. Kelsen non coglie la basilare distinzione fra necessità e scelta possibilità nella costruzione della realtà sociale o, per essere più espliciti, la distinzione fra civiltà e imperativi funzionali. Egli prosegue così: «Come all’idea del diritto naturale corrisponde la validità assoluta delle sue norme, così all’idea del diritto positivo corrisponde la validità meramente ipotetico-relativa; in altri termini: che le norme del diritto positivo valgono su un presupposto, sull’ipotesi di una norma fondamentale che insedia la suprema autorità giuridica, una norma fondamentale la cui validità, all’interno stesso della sfera del diritto positivo, resta senza fondamento e senza la possibilità di un fondamento… Positivismo e relativismo (gnoseologico) vanno insieme tanto quanto dottrina del diritto naturale e assolutismo (metafisico)»313.

Questo impianto ipotetico-deduttivo ed iper relativista è oltremodo fuorviante. Esso ignora il fatto che la costruzione degli ordinamenti sociali è fortemente influenzata dalle condizioni generali di sviluppo, che generano precisi imperativi funzionali, e insomma da una quantità di elementi oggettivi, e che le possibilità di scelta sono vincolate e limitate da tali elementi. Il relativismo storico-sociale, se vuole essere fecondo e credibile, è obbligato a dare a tali elementi oggettivi il debito peso, ad accettare limiti e costrizioni.

Kelsen sottolinea con ragione che le norme giuridiche concernono il dover essere. Ma questa constatazione non implica il carattere formale della teoria giuridica. Infatti, tali norme del dover essere nascono per misurarsi con la realtà obbiettiva che ha indotto a formularle. Scrive l’autore: «Qualsiasi tentativo di spingersi al di là delle fondazioni relativo-ipotetiche del diritto positivo… significa l’invadenza della teoria giusnaturalistica nel trattamento scientifico del diritto positivo, e, se è lecita un’analogia con le scienze

310 Cfr. H. Kelsen, Ibidem, pag. 119311Cfr. H. Kelsen, Ibidem, pag. 121. Kelsen sottolinea che il Dio dei giusnaturalisti è inteso come ragione divina (non però come divina volontà arbitraria che, in quanto tale, ha assonanza con il diritto positivo). 312 Cfr. H. Kelsen, Ibidem, pag. 123313 Cfr. H. Kelsen, Ibidem, pagg. 129 e 130

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naturali, un’intrusione della metafisica nel mondo della scienza»314. Non è così; l’alternativa al formalismo ipotetico-relativista non è necessariamente il giusnaturalismo e non implica di necessità «intrusioni della metafisica nel mondo della scienza». Requisito basilare del metodo delle scienze sociali è di basare le indagini su premesse realistiche e non formal-nominalistiche. È piuttosto il metodo di Kelsen che nega scientificità alla ricerca sociale; esso si addice alle scienze logico-formali. Il ruolo della razionalità viene ad assumere, nella costruzione di Kelsen, un carattere meramente formalistico, di mera deduzione logica da premesse arbitrarie. Nonostante il rigore logico-deduttivistico kelseniano, questa negazione dell’oggettività del sapere sociale impedisce di tener testa ad esplosioni di irrazionalismo, del tipo di quella che contraddistinse i primi decenni del secolo XX. E conduce Kelsen alla sua ben nota critica al processo di Norimberga. Vediamo meglio.

È facile vedere che l’impianto analitico del positivismo giuridico conduce ad accettare come legittimo qualsiasi ordinamento normativo che esista nella realtà, cioè che sia riuscito ad imporsi; infatti, non ha armi per entrare nel merito dei contenuti normativi, eccezion fatta per la coerenza formale. Esso proclama che la realtà va accettata, non giudicata. La distanza di questa posizione dal postulato di Hegel realtà=necessità è insignificante.

Né tale impostazione ha armi contro il Leviatano; tutt’altro. Kelsen è molto esplicito al riguardo allorché scrive: «In questo senso relativo –l’unico che può raggiungere l’essere umano, non partecipe dell’assoluto- giusto è allora ciò che corrisponde alla norma posta, ingiusto, ciò che la contraddice»315. È esattamente la posizione di Hobbes sul giusto e l’ingiusto (è giusto ciò che è conforme alla legge, ingiusto e male ciò che ne è difforme, non importa quale sia il contenuto della legge). E siccome c’è poco da discutere sulla norma posta, in quanto questa costituirebbe un fatto arbitrario, essa può essere anche la norma del Leviatano. Kelsen non vede che ci sono norme etiche che costituiscono imperativi funzionali e, in quanto tali, assumono rilevanza oggettiva (a prescindere dal fatto che l’essere umano sia o meno partecipe dell’assoluto), norme che pertanto il legislatore deve rispettare.

Vediamo in questi capitali errori del positivismo giuridico ben rappresentato il lievito delle grandi degenerazioni politiche e nelle forme di potere che hanno ampiamente afflitto il secolo XX.

Queste posizioni permangono invariate nel secondo Kelsen, quello influenzato dall’esperienza americana. Ad esempio, egli scrive ne “La Democrazia” che: «è un errore logico dedurre da ciò che è ciò che deve o non deve essere»316.

L’essere e il dover essere non sono fra loro in contrapposizione relativamente alla realtà sociale, ma si compenetrano e condizionano vicendevolmente. Sembra del tutto evidente e quasi banale che ogni assetto normativo scaturisce dalla realtà cui inerisce. L’errore logico di cui parla Kelsen non esiste; l’essere può venire estromesso solo nel contesto di una metodologia prettamente formalistica, che però non si addice allo studio della realtà sociale.

È giusta e sacrosanta la serrata critica kelseniana alle esagerazioni giusnaturalistiche. Il punto è che Kelsen cade in esagerazioni opposte e non meno dannose. La sua negazione dell’esistenza di basi etiche oggettive porta diritto, specie in campo internazionale, a fenomeni di "imperialismo giuridico", e perciò a legittimare quel che, con ben altri intenti, lamentava C. Schmitt discutendo della sua categoria politica chiave di amico-nemico. Scriveva infatti questo autore: «Invece, il senso di tutte queste preoccupazioni riguardo alla definizione dell’ "aggressore" e alla precisazione della fattispecie dell’ "aggressione"

314 Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Edizioni di Comunità, Milano 1963, pag. 403315 Cfr. H. Kelsen, Dottrina dello Stato, opera citata, pag. 150316 Cfr. H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna 1984, pag. 286

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consiste nel costruire un nemico e nell’attribuire in tal modo un significato a una guerra altrimenti priva di senso»317, attraverso la criminalizzazione del nemico.

2. L’irrazionalismo del XX secolo, padrino di brutali forme di potere

a) Una prima rottura: la teoria della classe eletta di G. Mosca Le numerose ambiguità, manchevolezze e ingenuità che, come abbiamo visto,

affliggevano le concezioni del potere politico trovarono, alla fine del secolo XIX, un punto di condensazione ed un deciso giustiziere nella dottrina di G. Mosca sulla «classe eletta di governo». Con semplicità, schiettezza e fondandosi su osservazioni storiche incontrovertibili, questa dottrina portò in superficie un aspetto sostanziale e, a dire del nostro autore, ineludibile delle relazioni di potere in quanto rapporti di dominio. È quanto mai espressivo della estrema labilità del pensiero sociale il fatto che, a dispetto del lucido positivismo di Mosca, la sua dottrina segnò, assai più che un avanzamento della conoscenza, uno dei punti di forza di quel vivace movimento intellettuale esploso all’inizio del nuovo secolo e che fu animato da crescenti inclinazioni irrazionalistiche.

Scrive Mosca: «Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell’organismo politico sono necessari»318.

Questa formulazione costituisce una delle più grandi scoperte della teoria politica ed è meritevole di attenzione non tanto per i suoi risvolti scientifici positivi, quanto per i suoi risvolti negativi, dovuti, come vedremo, al fatto che sono mancati i ripensamenti e revisioni teoriche sul fenomeno del potere che essa poneva implicitamente sul tappeto. La dottrina della classe politica inflisse un duro colpo all’ottimismo illuminista sulla liberazione dell’uomo che aveva attraversato tutto il secolo XIX, come lo stesso Mosca riconosce allorché scrive: «E bisogna aggiungere che alla divulgazione dell’idea accennata ha proceduto parallela la lenta erosione di quella concezione ottimistica della natura umana che, nata nel secolo decimottavo, occupò un posto preponderante nella mentalità europea durante quasi tutto il secolo decimonono»319.

L’aspetto più dirompente del contributo teorico di Mosca consiste nel fatto che esso porta chiaramente in superficie il corto circuito in cui nelle società moderne è incappato il fenomeno del potere. Nell’analizzare i motivi che avrebbero ostacolato la diffusione della teoria della classe eletta di governo, l’autore mostra di percepire chiaramente l’imbroglio implicito nel concetto moderno di potere, allorché scrive: «Questo omaggio ufficiale, che gli stessi naturali avversari della democrazia devono tributarle, impedisce ad essi di professarsi pubblicamente come seguaci di una teoria (della classe eletta) la quale esplicitamente nega la possibilità di un regime democratico»320.

317 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, pag. 194318 Cfr. G. Mosca, La classe politica, Biblioteca Universale Laterza, Roma Bari 1994, pag. 50319 Cfr. G. Mosca, Ibidem, pag. 136320 Cfr. G. Mosca, Ibidem, pag. 138

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In effetti, la constatazione che il potere politico è e sempre è stato esercitato in forma di dominio da una ristretta classe dirigente contraddice il concetto di sovranità popolare. Ora, siccome in questo concetto risiede la legittimazione del potere politico nelle moderne società, su tale contraddizione fra realtà del potere politico e concetto di sovranità popolare non si può sorvolare giacché a causa sua il pensiero politico viene ad essere imperniato su un vero e proprio inganno. Pertanto, o si dimostra che la predetta teoria della classe eletta di governo ha qualche tratto da cui può essere emendata, in modo da eliminare la sua contraddittorietà con il postulato della sovranità popolare, oppure bisogna apertamente dichiarare che tale postulato costituisce un falso e un imbroglio da respingere. In tal caso, resta comunque aperto il problema di difendere i governati dagli arbitri dei governanti.

Mosca preferisce piegarsi all’imbroglio e ciò farà della sua teoria un cavallo di battaglia di conturbanti forme di imbarbarimento del dominio politico, che si profilavano all’orizzonte. Ma facciamo parlare la penna del nostro autore su questi aspetti cruciali. Discutendo della cosiddetta «formola politica», Mosca riconosce l’importanza dei principi di legittimazione del potere politico. Egli scrive: «questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governato non sulla sola base della forza materiale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza… la formola politica deve essere fondata sulle speciali credenze e sui sentimenti più forti del gruppo sociale nel quale è in vigore, o almeno della frazione di questo gruppo, che ha la preminenza politica»321. Orbene, fino a quando la «formola politica» giustifica il potere delle classe eletta di governo con il diritto divino oppure con il principio dell’ereditarietà o della conquista, essa non pecca di incoerenza e potrà tranquillamente esplicarsi finché incontrerà l’accettazione dei sudditi dovuta non importa se ad abitudine, credulità o altro. Invece, non vi è nulla di più insensato e destabilizzante che dichiarare sovrani i dominati, cioè pretendere di fondare la legittimazione del dominio politico della classe eletta su una dichiarazione di principio che incita il popolo a reclamare un potere concessogli a parole ma che gli è negato nei fatti. Come abbiamo visto, Mosca è consapevole di tale imbroglio, ma preferisce sorvolare su di esso. La cosa sorprendente è che una simile leggerezza non riguarda solo il nostro autore ma troneggia tuttora impudente e impenitente al centro del pensiero politico; il quale non ha trovato nulla di meglio che mitigare l’imbroglio tramite la via traversa della divisione e bilanciamento dei poteri.

L’equivoco metodologico osservazionista, cioè la pretesa di applicare alla spiegazione dei fenomeni sociali il metodo delle scienze naturali, spiegano questa impotenza del pensiero sociale. Infatti, vediamo sprizzare tale impotenza proprio dal ferreo e lucido positivismo che ispira l’opera di Mosca. Scrive questo autore: «Qualunque possa essere nell’avvenire l’efficacia pratica della scienza politica è indiscutibile che i progressi di questa disciplina sono tutti fondati sullo studio dei fatti sociali e che questi fatti non si possono cavare che dalla storia delle diverse nazioni. In altre parole, se la scienza politica deve essere fondata sullo studio e l’osservazione dei fatti politici, è all’antico metodo storico che bisogna tornare»322. L’autore attribuisce i modesti o discutibili progressi della teoria sociale alla imprecisione e alla limitatezza delle osservazioni dei fatti sociali e, dopo aver sottolineato i grandi progressi realizzati al riguardo nei tempi recenti, conclude: «Indiscutibilmente se lo studioso di scienze sociali poteva prima intuire, ora soltanto ha i mezzi per osservare in grande e gli strumenti ed i materiali per provare»323. Orbene, è trascorso ormai un secolo da quando Mosca scriveva queste cose, un lungo secolo nel corso del quale le osservazioni dei fatti sociali si sono moltiplicate e raffinate attraverso l’elaborazione di sofisticati metodi econometrici. Ma la

321 Cfr. G. Mosca, Ibidem, pagg. 70 e 71322 Cfr. G. Mosca, Ibidem, pag. 41323 Cfr. G. Mosca, Ibidem, pag. 42

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scientificità del pensiero sociale non è migliorata, come dimostra proprio quel ramo del sapere sociale che è più permeato e rigorosamente dominato dalle osservazioni quantitative: la teoria economica.

Il senso storico, in cui Mosca eccelle anche se con tratti discutibili, è indispensabile allo studioso sociale, ma non sufficiente; anzi, se lasciato a se stesso, può condurre in gravi fraintendimenti. Il mondo cambia e, con esso, cambiano le forme di organizzazione dei sistemi sociali. Nulla autorizza a presumere che quel che è sempre stato debba continuare ad essere: ad esempio, l’esercizio di potere-dominio da parte di una ristretta classe di governo. I mutamenti, nel corso del tempo, dei principi di legittimazione del potere sono fra gli aspetti più significativi dell’evolvere delle società umane. Non è un caso se, nella recente fase di evoluzione storica, tale legittimazione ci appare sempre più costretta ad appellarsi al principio di sovranità popolare, cioè un principio che in altri tempi è comparso solo occasionalmente nell’ambito di particolari forme di civiltà. Ma tale principio è incompatibile con il potere-dominio e questa incompatibilità esprime forse il più importante salto qualitativo compiuto dalle società umane nel corso della storia. Ne segue la necessità di ripensare l’organizzazione dei sistemi sociali in modi che la emendino da tale forma di potere. Chiaramente questa prospettiva, che possiamo dire costruttivistica o meglio, organizzativistica, è incompatibile con il metodo d’indagine basato sulla stretta osservazione; al tempo stesso, però, essa deve aver cura di tenersi ben incardinata sull’osservazione attenta e rigorosa della realtà di riferimento, se vuol servire ad amministrare la realtà e non restar vittima di libere e risibili farneticazioni. Di fronte a questo scoglio metodologico tuttora insuperato, non stupisce la marcia trionfale intrapresa dalle posizioni irrazionalistiche all’inizio del secolo XX, che è stata più in là frenata solo dai grandi disastri cui essa ha condotto; ma senza che l’uomo abbia ancora trovato la via d’uscita dai malintesi da cui essa trasse vita.

b) V. Pareto, O. Spengler, M. Weber e il trionfo dell’irrazionalismo nella teoria sociale

Nell’opera di W. Pareto fanno chiaramente capolino, dalla «doppiezza» metodologica della sua analisi, l’incipiente ventata irrazionalistica e le sue origini. Nel ‘Trattato di sociologia’, egli dimentica la sua adesione al super razionalismo astratto e inconcludente che andava impossessandosi del pensiero economico e concentra la sua attenzione sulle «azioni non logiche», che hanno «parte grande nel fenomeno sociale»324. In questo contesto, sostituisce, ai postulati e ragionamenti deduttivi tipici del procedimento scientifico, rispettivamente: i cosiddetti residui, «che corrispondono a certi istinti degli uomini e perciò difettano per il solito di precisione, di limitazione rigorosa…(e perciò) non possono essere premesse di ragionamenti rigorosi»325; e le derivazioni, cioè deduzioni tratte dal mondo dei sentimenti espressi dal concetto di residui. Scrive Pareto: «Il bisogno di ragionare che prova l’uomo… si soddisfa anche… con ragionamenti pseudo-sperimentali, con parole che muovono i sentimenti, con discorsi vani, inconcludenti, e nascono così le derivazioni»326. L’imprigionamento del metodo di indagine del sapere sociale nel fatto storico e la spinta irrazionalistica che tale prigionia ha saputo imprimere al pensiero sociale si manifestano in tutta evidenza in questo pesante contagio che ha esercitato l’osservazionismo sull’opera di uno dei più grandi maestri del metodo logico-deduttivo. Tale contagio è quanto basta a rinchiudere lo studioso nel regno incontrastato, oscuro e incontestabile del potere-dominio e ad oscurare l’indagine sulla possibilità di forme organizzative tese ad affrancare l’uomo da tale forma di potere.

324 Cfr. W. Pareto, Compendio di sociologia, Einaudi, Torino 1978, pag. 27325 Cfr. W. Pareto, Ibidem, pag. 153326 Cfr. W. Pareto, Ibidem, pag. 209

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Muovendo da queste posizioni analitiche incentrate sulla mera e cruda osservazione del fatto storico, Pareto non poteva non assegnare un ruolo centrale, nella sua interpretazione del processo sociale, alla presenza incontestabile, nel corso della storia, dell’irrazionale e, in particolare, del dominio esercitato da «classi elette». La spiegazione paretiana del processo storico e del ciclo sociale si basa infatti sul dominio della classe eletta e sulla circolazione, nell’ambito di questa, dei vari tipi di residui o forze istintuali.

Presto il dualismo metodologico paretiano sarà seguito dal trionfo del più schietto irrazionalismo. Dopo un cinquantennio di incubazione, la teoria di De Gobineau, che attribuiva la decadenza delle civiltà alla degenerazione delle razze dovuta a mescolanze di sangue, prese ad esercitare un crescente richiamo all’inizio del nuovo secolo.

O. Spengler pubblicò una assai più dotta e sofisticata teoria dei processi storici incentrata sull’avvicendarsi delle civiltà intese come unità organiche che, al pari di una pianta o di un fiore, nascono, si sviluppano e muoiono e che segnano, con le loro peculiarità e questo moto parabolico, il divenire storico. Egli scrive: «ogni civiltà ha necessariamente una propria idea del destino, verità, questa, già implicita nel sentimento che ogni grande civiltà altro non sia se non la realizzazione e la figura di una data, specifica anima»327. Questa insistenza sulla civiltà quale componente di primo piano dell’interpretazione storica costituisce un contributo importante e affascinante di Spengler alla comprensione dei processi storico-sociali. Purtroppo, il nostro autore pretese di erigere le forme di civiltà a principio esclusivo dell’interpretazione storica.

È del tutto assente dagli orizzonti di Spengler il tema della costruzione di una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali, in grado di affrontare razionalmente il problema del potere e di aiutare l’interpretazione storica. Nella sua analisi, i riferimenti al destino e ai moti dell’anima, il ruolo dell’intuizione e dell’immaginazione dominano la scena. Egli scrive: «La storia vera è satura di destino…l’elemento morfologico costituito dal causale è un principio, mentre quello corrispondente al destino è un’idea che non si lascia “conoscere, descrivere, definire, che si può soltanto sentire e vivere interiormente, che non è mai compresa o è compresa in una assoluta certezza: come appunto la comprese l’uomo dei tempi primi e, successivamente, ogni uomo davvero superiore, il credente, l’amante, l’artista, il poeta»328.

È facile intuire le implicazioni in tema di potere di questa forma di pensiero. Infatti possiamo leggere: «L’ideale astratto della giustizia ricorre nelle menti e negli scritti di tutti coloro il cui spirito è nobile e forte ma il sangue è debole, in tutte le religioni e in tutte le filosofie; ma il mondo dei fatti storici conosce soltanto il successo attraverso il quale il diritto del più forte diviene il diritto riconosciuto da tutti (e poco oltre)…il “diritto al diritto” è la preda che la parte vittoriosa si assicura».329 Vediamo qui brutalmente affermato che il potere altro non è se non dominio.

Noi sosteniamo che è compito della ragione interrogarsi sulle possibilità del mondo di emendarsi dal potere-dominio, e la presente indagine è volta a trovare il modo per farlo. Ma Spengler non concede spazio alla ragione. L’analisi dei fatti storici lo autorizza a farsi beffa del mito della sovranità popolare. Egli dice: «costituzionalmente o di fatto, è sempre stato un singolo strato sociale a governare. È sempre una decisa minoranza a rappresentare la tendenza di un dato Stato nella storia mondiale, ed entro tale minoranza se ne differenzia una ancor più esclusiva che…ha effettivamente nelle sue mani le funzioni direttive, molto spesso in contrasto con lo spirito della costituzione»330. Constatazione

327 Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano, 1957, pag. 203328 Cfr. O. Spengler, Ibidem, pagg. 186 e 190, 191329 Cfr. O. Spengler, Ibidem, pagg. 1190 e 1193330 Cfr. O. Spengler, Ibidem, pag. 1199

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incontestabile e che tuttavia, se intesa come fatto inevitabile, non può sperare di sfuggire ai peggiori abusi del potere-dominio consacrato dalla tradizione. 331

Da una diversa visuale, M. Weber estremizzò il relativismo e soggettivismo dei valori, e conferì a tale estremizzazione nobiltà e centralità metodologica insistendo sul fatto che le scelte di valore non possono essere oggetto di indagine scientifica. Il pensiero sociale stenta ancora a riaversi da questo grave errore metodologico che, nonostante lo sforzo di Weber teso a precisare la "oggettività conoscitiva delle scienze sociali" e le procedure che questa richiederebbe, ha fecondato nella realtà il terreno dell’irrazionalismo come poche altre dottrine.

Questa posizione sulla questione dei valori, il fatto che le scelte in proposito hanno luogo soprattutto nella sfera politica, attraverso accaniti conflitti, la constatazione che i rapporti di potere costituiscono rapporti di dominio che amplificano tale violenza, hanno ampiamente informato le idee del nostro autore sul potere politico, in forme che hanno generato non poche ambiguità. Egli sente la necessità, in tale contesto, di leader politici forti e rispettati. Donde la sua insistenza sulla füherdemokratie, il ruolo del leader carismatico, la "democrazia plebiscitaria". La posizione weberiana al riguardo ed il suo potenziale di ambiguità emergono chiaramente dalle frasi seguenti: «si deve chiarire, secondo quanto già detto, che la direzione dei partiti da parte dei capi plebiscitari determina la "espropriazione dell’anima" dei seguaci o, si potrebbe dire, la loro proletarizzazione spirituale. Per essere utili al capo in quanto apparato, essi debbono obbedire ciecamente, essere macchina nel senso americano, senza lasciarsi turbare dall’ambizione di notabili e dalle pretese delle proprie opinioni… Ma l’unica scelta possibile è tra la democrazia che si avvale di capi e si serve della "macchina" (dello stato) e la democrazia senza capi, cioè il dominio del "politico di professione" senza vocazione, senza le intime qualità carismatiche che appunto fanno un capo»332. Queste posizioni e ambiguità avrebbero agevolato, nella pratica, l’accettazione del fühererprinzip e l’avvento del potere politico hitleriano.

L’insistenza di M. Weber sull’impossibilità di indagare scientificamente le grandi opzioni ideologico-valutative, che definiscono le civiltà, coniugata alla tesi spengleriana che i processi storici sono saturi di destino e sono segnati dalla parabola delle civiltà, implica la negazione della possibilità di applicare il pensiero razionale all’analisi della realtà sociale. Reazione disastrosa, questa, alle ingenuità illuministiche e positivistiche, che avrebbe spianato la strada a grandi degenerazioni dei sistemi di potere politico.

Abbiamo visto che il positivismo giuridico aveva apprestato, con le sue formalizzazioni razionalistiche della dottrina dello stato, una nobile piattaforma tuttavia in grado di ospitare e dare giustificazione a inaudite esplosioni di potere-dominio. Le implicazioni delle posizioni paretiana, spengleriana e weberiana poterono essere agevolmente ospitate da tale piattaforma e sposarsi così con il più rigoroso deduttivismo giuridico. L’apparente rigore metodologico weberiano e il rigoroso formalismo kelseniano erano, malgrado tutto, idonei a nobilitare il peggiore irrazionalismo.

c) Il decisionismo di C Schmitt

L’insegnamento di questo autore è principalmente noto per la sua definizione di politica basata sulla contrapposizione amico-nemico. Ma, a ben vedere, questo è un

331 Abbiamo trattato qui molto succintamente questi maggiori esponenti della svolta irrazionalistica imboccata dal pensiero sociale all’inizio del secolo XX. Una trattazione meno circoscritta è in A. Fusari, Problemi di analisi e interpretazione dei processi economici, storici, sociali, Edizioni CREF, Roma, 1985, e in A. Fusari, “Sviluppo e organizzazione dei sitemi sociali. Una teoria interpretativa dei processi storici”, in Sociologia, Anno XXX n° 1, 1996, nonché nel nostro ‘Methodological Misconceptions in the Social Sciences’, Springer 2014332 Cfr. M. Weber, La politica come professione, Armando Editore, Roma 1997, pagg. 90-91

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aspetto consequenziale e quasi secondario della sua riflessione. Per capire il motivo dominante che sembra aver stimolato quest’ultima e il filo conduttore di essa, occorre soffermarsi sulla trattazione schmittiana del problema della sovranità, dove emerge tutto l’imbarazzo del pensiero giuridico di fronte al susseguirsi sempre più serrato di mutamenti sociali, che il giurista è costretto a catalogare nella categoria grigia degli «stati d’eccezione».

È molto utile e significativo il collegamento, da parte di Schmitt, del concetto di sovranità all’emergere dello «stato d’eccezione». Scrive Schmitt: «Ciò che è decisivo nelle affermazioni di Bodin (sulla sovranità) è che egli riduce la discussione delle relazioni fra principe e ceti ad una semplice alternativa, e che rimanda precisamente al caso d’emergenza. Questo è il lato propriamente decisivo della sua definizione che intendeva la sovranità come unità irriducibile e decideva in modo definitivo la questione del potere nello Stato. La sua validità scientifica e la ragione del suo successo consistono dunque nel fatto che egli ha introdotto la decisione nel concetto di sovranità… Anche negli autori del diritto naturale del XVII secolo il problema della sovranità veniva inteso come problema della decisione sul caso d’eccezione»333(cioè su chi decide in tale caso). Dunque, la questione della sovranità si risolverebbe nella risposta al problema del «chi decide intorno alle competenze non regolate dalla costituzione, cioè chi sia competente allorché l’ordinamento giuridico non dà alcuna risposta alla questione della competenza. (Infatti) nel caso d’eccezione, lo stato sospende il diritto in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione»334. L’espressione della sovranità risiederebbe in questa estrema capacità decisoria, giacché «L’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine, riposa su una decisione e non su una norma»335.

Questo concetto di sovranità dispone di una indubbia capacità chiarificatrice. Muovendo da esso, Schmitt sferra un duro attacco alle teorie dello stato di diritto, in particolare alla dottrina kelseniana, che identifica lo stato con l’ordinamento giuridico, e «risolve il concetto di sovranità semplicemente negandolo», e alle «dottrine della sovranità del diritto». Egli scrive: «Con la solo parola di Stato di diritto non si risolve niente per il nostro problema. Istituzioni del tutto eterogenee e contraddittorie possono essere pretese con riferimento allo Stato di diritto»336.

Schmitt non si stanca di sottolineare che il diritto non è pura astrazione ma che ha a che fare con la realtà, e che l’aspetto più conturbante e decisivo di una realtà in continuo mutamento è lo stato d’eccezione, è il problema di chi ha, in tal caso, competenza decisoria. Egli afferma recisamente: «Se i singoli Stati (i Länder tedeschi) … non hanno più nessuna competenza autonoma di proclamare lo stato d’eccezione, essi non sono più Stati»337.

Questa impostazione riveste grande interesse in quanto mette a fuoco il problema dei problemi delle moderne società, cioè il fatto che queste, nell’edificare i loro ordinamenti e governare i popoli, non possono giovarsi della forza della tradizione e neppure possono far ricorso alla beata favola dei «diritti naturali» ma sono costrette dai ritmi crescenti di mutamento sociale a governare (e quindi a decidere su) un susseguirsi di stati d’eccezione. Di fronte a questa realtà, Schmitt ha buon gioco sia nel ridicolizzare il normativismo astratto di Kelsen, che tende ad eludere lo stato d’eccezione e i problemi di decisione che quest’ultimo solleva, e ad elidere la questione della «sovranità», sia ad irridere l’identificazione kelseniana dello stato con l’ordinamento giuridico e la nozione di sovranità del diritto. Purtroppo, l’armamentario analitico di Schmitt non offre altra scelta che contrapporre a Kelsen l’agire di una sovranità occhiuta e pervasiva, che il susseguirsi

333 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, pag. 36334 Cfr. C. Schmitt, Ibidem, pag. 39335 Cfr. C. Schmitt, Ibidem, pag. 37336 Cfr. C. Schmitt, Il custode della costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1981, pag. 42337 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, opera citata, pag. 38

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di stati d’eccezione generati dal mutamento sociale tiene sempre all’opera nell’esercitare il suo potere illimitato e arbitrario (non esclusa la tirannide più estrema). Queste posizioni portano Schmitt a simpatizzare con De Maistre e Donoso Cortés, che avevano insistito sull’identità stato-decisione, sulla insindacabilità, assolutezza e inappellabilità della decisione sovrana, sul fatto che l’autorità fosse comunque buona, in un mondo di sciocchi e dissennati. Gli pare fondata l’irrisione di Donoso della borghesia quale «clasa discutidora», classe che molto discute e poco decide. E significativamente troverà ben accetto lo stato dittatoriale, «l’opposto della discussione».

Sviluppi stimolanti e provocatori, che pongono perentoriamente l’interrogativo se c’è rimedio a questa tremenda prospettiva schmittiana. La dottrina di Kelsen non offre il rimedio (come abbiamo visto parlando di questo autore), giacché il suo sistema normativo positivo non riposa su necessità oggettive, cioè sull’enunciazione di esigenze ineludibili (e obbiettivamente identificabili) della società di riferimento ma costituisce un sistema di astratte deduzioni razionalistiche; dunque, sistema non esplicativo e non esente dal fattore arbitrio; esso anzi si fonda, per esplicita ammissione, proprio sull’arbitrarietà della legge costituzionale. Sicché, come osserva Schmitt ne “Il custode della costituzione”, «istituzioni del tutto eterogenee e contraddittorie possono essere pretese con riferimento allo Stato di diritto».

Ma nonostante questo fallimento di Kelsen e del pensiero giuridico, il problema di ridurre ai minimi termini il ruolo e l’incidenza del potere sovrano illimitato e insindacabile resta l’esigenza di fondo dei moderni ordinamenti giuridici statali e sopranazionali; la grande presenza degli stati d’eccezione tende ad esaltare tale esigenza. Fortunatamente la soluzione di questo problema terribile e vitale esiste, e risiede nella edificazione di una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali, che insegni a governare scientificamente un mondo in mutamento.

La questione della sovranità assunse forme acute con l’apparire delle moderne società dinamiche, che non dispongono dell’ancoraggio alla tradizione e alla ripetitività dei processi. E portò alla nascita dello stato assoluto. Ma ha assistito impotente al progressivo incupimento di questo; infatti, non ha saputo contrapporvi nulla di meglio che la soluzione parziale e contraddittoria della divisione e contrapposizione dei poteri. Si può fare di più. Scrive Schmitt: «Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico»338. Orbene, è proprio questo il compito della scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali, in particolare, delle nozioni di «imperativo funzionale», «esigenze funzionali» ecc. variabili rispettivamente con le condizioni generali di sviluppo e con le forme di civiltà. Schmitt non vede questa possibilità e, di conseguenza, non vede la possibilità di erigere finalmente il potere-servizio sulle ceneri del potere-dominio; al contrario, vede ed evoca con schietta sincerità la tirannia di un potere-dominio ineludibile, quale alternativa obbligata al caos dell’indecisione.

Tutto il resto della riflessione schmittiana è conseguenziale rispetto a queste linee direttive, ed incita il pensiero e l’azione verso l’oscuro approdo nel quale l’irrazionalismo dominante nei primi decenni del secolo XX avrebbe sospinto il mondo: senza che il deduttivismo astratto alla Kelsen abbia avuto alcun potere di agire da deterrente.

È una conseguenza di questa visione esacerbata del ruolo del potere-dominio l’idea di identificare l’azione politica attraverso le categorie di amico-nemico, che costituisce l’aspetto forse più noto dell’opera schmittiana. Conseguenza che svela, con la sua provocatoria assurdità definitoria, i limiti dell’acuta analisi di questo studioso. Egli scrive: «non si può comunque ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla contrapposizione di amico e nemico e che quest’ultima ancor oggi sussiste realmente come possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica… La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto

338 Cfr. C. Schmitt, Ibidem, pag. 39

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più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico (e aggiunge)… un mondo nel quale sia stata definitivamente accantonata e distrutta la possibilità di una lotta di questo genere, un globo terrestre definitivamente pacificato, sarebbe un mondo senza più la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica… Il mondo politico è un pluriverso, non un universo… L’unità politica non può essere, per sua essenza, universale nel senso di un’unità comprendente l’intera umanità e l’intera terra»339.

Questa definizione di politica, unilaterale come tutte le definizioni, merita attenzione per due motivi: perché ben esprime la profonda distorsione cui conduce l’assolutizzazione del fenomeno del dominio, e per la sua paralizzante limitatezza. In Schmitt il fenomeno dominio politico è indissolubilmente associato al fenomeno bellico. L’autore non vede: che la politica può sposarsi con la tolleranza e quindi con la coesistenza di una molteplicità di culture, di morali, di civiltà; che anche un mondo politicamente unificato e pacificato avrebbe bisogno dell’opera, delle mediazioni e delle decisioni politiche. Il campo della politica, propriamente inteso, non è condannato a conoscere esclusivamente la contrapposizione amico-nemico, e peraltro l’estinzione di tale contrapposizione non richiede l’estinzione dei conflitti. Il fatto che, nel corso della storia, il fenomeno politico è sempre stato pervaso dalla contrapposizione amico-nemico ed ha sempre avuto la guerra sullo sfondo, con tutti gli annessi e connessi, non dice che debba essere sempre così. Un mondo pacificato e unificato non vedrebbe l’estinzione del potere politico e delle relazioni politiche; al contrario, per poter essere costruito e amministrato, avrebbe più che mai bisogno della politica e della sua opera mediatrice dei conflitti.

d) L’epilogo totalitario

Approdo cruento di questa nobilitazione dei concetti di forza, intolleranza e dominio da parte del pensiero sociale sono stati i moderni totalitarismi, che hanno incarnato la forma più esacerbata ed esecrabile di potere-dominio comparsa nella storia. Il dispotismo dei grandi imperi autocratici era, quanto meno, condizionato e mitigato dalla tradizione e dal fatto di incarnarsi in consolidate strutture amministrative. Le capacità di arbitrio di capricciosi e crudeli despoti orientali erano limitate dalla labilità delle strutture organizzative e dalle ridotte risorse tecnologiche di cui essi potevano giovarsi. Al contrario, il potere hitleriano e staliniano, che rifiutò sempre di identificarsi con un potere statale saldo e consolidato che ne avrebbe condizionato le capacità di arbitrio, poté giovarsi di una formidabile macchina organizzativa. L’esistenza dei sistemi di dominio totale incarnati dal totalitarismo esigeva la possibilità di colpire a piacimento nemici veri o presunti, e la tecnologia a disposizione forniva loro illimitate capacità di mistificazione e annientamento dello spirito critico. Con l’avvento di quei sistemi di potere, i sopravvissuti organi dell’ordinamento statale restarono subordinati all’azione di organizzazioni di massa i cui aderenti, fanaticamente ideologizzati e che trovavano nel movimento l’unico canale di azione sociale e di identificazione, professavano una fedeltà e obbedienza incondizionate ai comandi del regime. A dispetto delle idee sul popolo dei democratici illuministi, la prima vera mobilitazione delle masse nel corso della storia non dovuta a motivi religiosi ma alla convinzione di essere finalmente protagoniste dei destini umani e dell’edificazione di un nuovo ordine mondiale, avveniva al servizio di sistemi di dominio totale impegnati in una forsennata opera di distruzione.

Il metodo della "colpa per associazione", che trasformava gli amici e perfino i congiunti di chi fosse caduto in disgrazia nei suoi più accaniti accusatori, nella corsa ad acquisire meriti che li salvassero da ritorsioni, e la sconvolgente disposizione di accusati anche del più alto rango e di grande statura intellettuale a confessare per il bene del

339 Cfr. C. Schmitt, Ibidem, pagg. 111, 112, 118 e 138

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movimento colpe inesistenti, danno l’idea della grande capacità di questi moderni sistemi di oppressione e asservimento di annientare l’individuo, pure nell’ambito di forme di civiltà caratterizzate per l’innanzi dalla centralità dell’individuo. Spionaggio e delazione divennero strumenti basilari e compagni inseparabili dell’azione di governo. Ha scritto H. Arendt: «I movimenti totalitari sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e “fedeltà” incondizionata e illimitata… individui isolati, che sentono di avere un posto nel mondo esclusivamente mercè l’appartenenza al movimento… (e aggiunge) il terrore è la vera essenza del regime totalitario»340.

Il terrore di massa mai era giunto a incupire e tormentare così sinistramente la vita dei popoli e costituì un principale pilastro di quei sistemi di governo. L’utilizzazione spregiudicata e capillare di grandi mezzi di propaganda e di indottrinamento consentì di pervertire a piacimento i sentimenti e il pensiero di grandi masse umane, e di travisare la realtà dipingendola nelle forme volute. Queste forme di dominio, terrore e spionaggio totali ebbero anche costi enormi in termini di inefficienza. Scrive la Arendt a proposito dell’organizzazione nazista: «Una gerarchia fluttuante, con continue aggiunte di nuovi strati e continui spostamenti di autorità, è caratteristica delle polizie segrete e dei servizi di spionaggio, cioè di organismi in cui occorrono nuovi controlli per controllare i controllori (e più in là)…Tanto la tecnica dell’ “allineamento” (alle strutture del movimento) fu ingegnosa e irresistibile, quanto il deterioramento del livello professionale rapido e completo»341.

Le esigenze del dominio totale e l’arroganza dei dominatori non conoscono limiti e trovano forse la maggiore espressione nel disprezzo folle dei condizionamenti della realtà da parte dei capi di movimenti totalitari, nella convinzione di poterla soggiogare, manipolare e pervertire a piacimento. Si pretese di assoggettare perfino la scienza e i suoi esponenti alle farneticazioni di quei capi. La sconfitta del nazismo fu il risultato di questa cecità, che seminò a piene mani inefficienze e irrazionalità nel corso del conflitto. Sul fronte avverso, le grandi purghe staliniane, la cieca distruzione dell’agricoltura russa, la pretesa di promuovere lo sviluppo economico attraverso il terrore, lasciarono un’eredità di prostrazione e annichilimento che ha accelerato il crollo del sistema sovietico.

Il totalitarismo ha rappresentato un fenomeno qualitativamente diverso, assai più esacerbato e traviato, delle tradizionali forme di dispotismo. Ha scritto la Arendt che il regime totalitario «non mira infatti a un governo dispotico sugli uomini, bensì appunto a un sistema che li renda superflui. Il potere totale può essere ottenuto e salvaguardato soltanto in un mondo di riflessi condizionati, di marionette senza la minima traccia di spontaneità»342. Tale potere ha bisogno di estinguere la autonomia e creatività dell’uomo, per poterlo dominare totalmente; ma, così facendo, soffoca e distrugge i fattori di base dell’evoluzione umana.

I totalitarismi del XX secolo hanno fatto conoscere al mondo quali enormi capacità degenerative e distruttive si annidano nel fenomeno del potere-dominio. Hanno dimostrato quali grandi inclinazioni ad (e necessità di) autoalimentarsi attanagliano i sistemi di dominio e quali formidabili strumenti offra loro la scienza per soddisfare tale inclinazione. Il dominio genera una fame crescente e insaziabile di dominio. Se riesce a travolgere anche i sistemi di contenimento di ultima istanza del suo degenerare, sfocia nel dominio totale e, di lì, in una smodata capacità e smania distruttive. Il potere per il potere, senza vincoli né freni, si alimenta e consuma nel terrore ed è destinato a sfociare nella tragedia. La Cina del Primo Imperatore conobbe, forse per la prima volta nella storia, le capacità e inclinazioni autodistruttive delle forme di potere totale e ne derivò una grande saggezza

340 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, opera citata, pagg. 448 e 475341 Cfr. H. Arendt, Ibidem, pagg. 509 e 513342 Cfr. H. Arendt, Ibidem, pag. 624

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amministrativa. A più di due millenni di distanza, il mondo è tornato ad esperimentare, in forme ancor più esasperate, quale tremenda bestia sia il fenomeno del potere-dominio, ha visto incarnarsi l’immagine terrifica del mostro biblico che Hobbes elevò alla dignità di grande custode dell’ordine e della pace. È sorprendente che i moderni assoggettamenti al potere totale non abbiano sollecitato negli studiosi una riflessione approfondita e serrata sul concetto di potere-dominio, lasciandoli soddisfatti del palliativo apprestato dal vecchio e venerando costituzionalismo: la divisione dei poteri.

3) Le posizioni più avanzate del dibattito sul potere: F. A. Hayek e L. Pellicani

Le indagini più chiarificatrici, acute e costruttive che sono state fino ad oggi svolte sulla questione del potere hanno insistito: a) sull’arbitrio e gli abusi che contraddistinguono l’esercizio del potere, le implicazioni di essi e le modalità per ostacolarli; b) sull’approfondimento dei contenuti e del ruolo storico delle forme di potere nello svolgersi dell’itinerario dalla società chiusa alla società aperta.

In quest’opera chiarificatrice si distinguono l’insegnamento di Hayek, che ha prevalentemente trattato il primo aspetto, e quello di Pellicani che si è concentrato soprattutto sul secondo aspetto.

a) F. A. Hayek sui limiti del potere

Caratteristica dominante dell’indagine di Hayek, sia sul piano propositivo che degli ammonimenti, è l’acuta consapevolezza dell’importanza dei "limiti del potere". Il nostro autore ha profondamente interiorizzato il trauma inflitto al mondo occidentale dalle degenerazioni e mostruosità dei totalitarismi del XX secolo, nati con l’irrompere delle masse nell’agone politico ed ampiamente sostenuti dal consenso di queste. Ma Hayek va oltre i contenuti di tali fenomeni, ormai condannati dalla storia. Egli insiste sul fatto che l’esperienza delle "democrazie parlamentari" mostra il fallimento della pretesa di risolvere la questione del potere attraverso il concetto di controllo "democratico". Hayek non si stanca di denunciare la superficialità di tale pretesa ed i pericoli per la libertà che essa nasconde. Non giunge a denunciare esplicitamente l’inganno insito nel concetto di sovranità popolare, ma vi si approssima molto allorché sottolinea l’inganno implicito nel metodo del suffragio universale e le degenerazioni cui si presta l’"ideale democratico". Egli ha cura di evidenziare che il "metodo democratico", per sé, si presta a gravi abusi e soprusi, anzi li stimola. Ma facciamo parlare l’autore. Scrive Hayek: «Ciò che oggi viene definito governo democratico serve, come risultato della sua struttura, non l’opinione della maggioranza ma i vari interessi di un conglomerato di gruppi di pressione (corsivo nostro), il cui appoggio deve essere comprato dal governo mediante la concessione di benefici speciali, per il semplice fatto che non potrebbe conservare i propri sostenitori se rifiutasse di concedere quanto è in suo potere dare loro»343. E aggiunge: «Una maggioranza dei rappresentanti del popolo basata sul mercanteggiamento delle richieste dei gruppi non può mai rappresentare l’opinione della maggioranza del popolo. Tale "libertà del Parlamento" significa l’oppressione del popolo. Essa è totalmente in conflitto con la concezione di una limitazione costituzionale del potere del governo, ed è inconciliabile con l’ideale di una società di uomini liberi… Finché persisterà la forma attuale di democrazia, non potrà esistere un governo onesto, persino se i politici fossero angeli, o profondamente convinti del valore supremo della libertà personale»344. E prosegue: «Oggi i cosiddetti legislatori sono gli unici detentori di un potere non controllato da nessuna

343 Cfr. F. A. Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il saggiatore, Milano, 1989, pag. 502344 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pag. 507

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legge vincolante, e sono nel contempo spinti dalle necessità politiche di una macchina che si autoalimenta. Ma questa forma di democrazia prevalente è in ultima analisi autodistruttiva, perché impone ai governi compiti su cui non esiste e non può esistere un’opinione concorde della maggioranza. È quindi necessario limitare questi poteri al fine di proteggere la democrazia contro se stessa… Il vero valore della democrazia è di servire come una precauzione sanitaria atta a proteggerci contro qualsiasi abuso di potere»345.

Hayek vede lucidamente che il funzionamento e la stessa esistenza della ‘società aperta’ richiedono la centralità e indipendenza dell’individuo e ricerca appassionatamente i modi per garantire tale centralità e indipendenza attraverso la limitazione del potere. Scaturisce da qui la sua idea fissa concernente la limitazione dell’abuso e dell’arbitrio nell’esercizio della democrazia parlamentare. Scrive Hayek: «La libertà personale richiede che qualsiasi autorità sia limitata da principi durevoli, sostenuti da una approvazione generale… Il problema più importante dell’ordine sociale è l’efficace limitazione del potere»346. L’autore vede che «L’aumento progressivo della coercizione discriminante che ne risulta (attraverso l’azione dei gruppi di pressione) minaccia oggi di strangolare lo sviluppo di una civiltà che si basa sulla libertà individuale (e ne deduce che) …In realtà il governo democratico necessita di limitazioni ancora più severe, nei suoi poteri discrezionali, di quelle necessarie in altre forme di governo, perché è molto più soggetto alla efficace pressione dei gruppi di interesse, anche piccoli, da cui dipende la sua maggioranza»347.

Il punto importante e peculiare dell’analisi di Hayek sul potere è che essa non si ferma alla questione della separazione, contrapposizione e controbilanciamento dei poteri, quale ricetta per limitare l’inclinazione di questi all’arbitrio e all’abuso. Il nostro autore comprende che la divisione dei poteri è impotente contro una delle peggiori degenerazioni del potere pubblico nelle democrazie parlamentari, e cioè la tendenza ad emanare norme prive dell’attributo della generalità, riguardanti interessi particolari, che pongono la forza coattiva della legge al servizio dell’arbitrio e del sopruso. Egli scrive: «Un parlamento sovrano e onnipotente, non limitato a emanare norme generali, significa un governo arbitrario, o peggio un governo che non può, anche se lo vuole, obbedire a nessun principio, ma deve mantenersi col distribuire favori speciali a gruppi particolari; deve acquistare la propria autorità con la discriminazione… Ne risulta… che un Parlamento onnipotente significa la morte della libertà individuale»348. Passa quindi all’esposizione del suo "modello costituzionale ideale", che si sforza di impedire tali degenerazioni attraverso la distinzione fra una Assemblea Legislativa, che emana "norme universali, applicabili a un numero indefinito di casi futuri su cui non avrà potere per quanto concerne la applicazione", e una Assemblea Governativa, svolgente funzioni simili a quelle "degli organi parlamentari esistenti", con la differenza capitale di essere "vincolata, in tutte le sue decisioni, dalle norme di condotta emanate dalla Assemblea Legislativa"

Il perseguimento di scopi particolari e concreti rientrerebbe nei compiti dell’autorità di governo, non dell’Assemblea Legislativa. La coercizione normativa dovrebbe riguardare invece solo le leggi universali. La divisione partitica non dovrebbe concernere l’Assemblea Legislativa, dato che le conferirebbe un carattere partigiano, ma solo quella Governativa. Hayek sottolinea che le Dichiarazioni dei Diritti, volte a tutelare le libertà fondamentali dell’individuo, non sono sufficienti a garantire quest’ultimo dagli arbitri del potere. Occorre estendere la tutela in una forma più generale, quale è espressa dal requisito di universalità delle norme coercitive.

345 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pagg 525 e 511346 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pagg. 477 e 501347 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pagg. 501-502348 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pag. 476

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Non serve, in questa sede, soffermarsi sulle salvaguardie consigliate dall’autore per assicurare l’indipendenza dei membri dell’Assemblea Legislativa dalla pressione degli interessi particolari, o sulle sue considerazioni sui poteri d’emergenza e altri aspetti specifici. Occorre invece rimarcare l’estremizzazione Hayekiana secondo cui una autorità suprema non può emanare ordini, che ci sembra priva di senso. Egli scrive: «La coercizione può aiutare gli uomini liberi nel perseguimento dei propri scopi soltanto facendo applicare un quadro di riferimento di norme universali che non li dirigono verso scopi particolari, ma permettono loro di creare per se stessi una sfera protetta contro perturbazioni imprevedibili causate da altri uomini –inclusi agenti di governo-, che a loro volta perseguono i propri scopi. Se il bisogno fondamentale è la sicurezza contro la violazione di tale sfera protetta da parte di altri, compreso il governo, la fondamentale autorità necessaria è quella che è soltanto in grado di dire "no" agli altri, ma che non ha lei stessa poteri positivi… Ci si dovrà riconciliare con lo strano fatto che, in una società di uomini liberi, la massima autorità, in tempi normali, non deve avere alcun potere di comando positivo. Il suo unico potere dovrebbe essere di proibire secondo una norma generale»349. Qui l’attenzione puntigliosa che questo grande nemico dell’abuso di potere riserva alla ricerca di meccanismi di salvaguardia dell’indipendenza dell’individuo scivola nell’esagerazione. Per avvedersene occorre tener presente che la totale avversione di Hayek all’interferenza, nelle azioni e decisioni degli individui, delle autorità di governo o di altri organismi politici non discende semplicemente dalla necessità di salvaguardare il ruolo centrale spettante all’individuo nelle società aperte, ma implica qualcosa di più: discende dalla convinzione dell’autore che il funzionamento dell’ordinamento sociale debba essere rimesso al libero interagire e incrociarsi delle decisioni individuali, in un processo di tentativi ed errori dal quale scaturirebbe l’ordine spontaneo; ogni intervento in tale processo non farebbe che provocar danni. In altre parole, alla base dell’avversione Hayekiana per i poteri positivi c’è l’idea dell’ordine autogenerantesi, che fa dire al nostro autore: «Eccetto quando, come risultato di forze esterne umane o naturali, l’ordine autogenerantesi è disturbato e sono necessarie misure d’emergenza per restaurare le condizioni necessarie al suo funzionamento, non c’è bisogno di tali poteri "positivi" dell’autorità suprema»350. Chiaramente, queste posizioni stanno in piedi o cadono a seconda che la teoria dell’ordine spontaneo autogenerantesi e autoregolantesi abbia o meno fondamento. Ora, il fatto è che tale teoria è valida solo in parte. È incontestabile che le limitate capacità intellettive degli uomini assegnano un ruolo rilevante al meccanismo dei tentativi ed errori negli umani processi conoscitivi, oltreché nello svolgersi della vita sociale; in verità, è proprio tale limitazione delle capacità conoscitive che impone la valorizzazione del contributo di tutti gli individui e l’affidamento dell’avanzamento delle società umane al sommarsi di tali contributi. Ora però, i processi di tentativi ed errori possono assumere, specie in relazione ai grandi mutamenti, una asprezza estrema e oltremodo dolorosa e possono condurre all’imprigionamento in determinati sentieri di sviluppo, se non sono accompagnati da adeguate capacità direttive e di intervento regolativo, insomma se essi sono condannati a procedere alla cieca e confidando solo nelle capacità del crivello della competizione di far emergere le soluzioni più convenienti e opportune. Certo, in assenza di una scienza dell’organizzazione dei sistemi sociali in grado di suggerire linee di intervento, può essere opportuno non intervenire affatto e affidarsi ai processi spontanei, visto che un volontarismo sbagliato peggiora il corso degli eventi. Ma il problema risiede proprio nell’apprestare tale scienza. L’estremismo spontaneistico di Hayek, basato su un radicale pessimismo sul possibile grado di scientificità del pensiero sociale e sulla possibilità di indirizzare il processo sociale seguendo le illuminazioni della scienza, (ad esempio gli imperativi funzionali) non può essere condiviso.

349 cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pagg. 504 e 503350 Cfr. F. H. Hayek, Ibidem, pag. 504

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Hayek è talmente convinto che nei processi sociali tutto deve essere rimesso alla libera spontaneità delle azioni individuali, ed è al tempo stesso così ossessionato dall’eventualità di interferenze delle autorità governative generatrici di abusi, che si spinge a teorizzare l’eliminazione della unicità della moneta, cioè la sostituzione del monopolio statale delle emissioni monetarie con una moneta "offerta in concorrenza da imprese private", fra cui il cittadino possa scegliere liberamente. Ma è manifestamente assurdo eliminare così disinvoltamente il ruolo della politica economica. Senza dire che, nei paesi in via di sviluppo, c’è un estremo bisogno di interventi positivi dell’autorità suprema, finalizzati ad imporre rotture indispensabili ad avviare il "decollo" dello sviluppo sostenuto e cumulativo.

L’impotenza del sovrano di Hayek supera quella del sovrano di Kant che, a detta dei mercanti, doveva limitarsi a fornire buone strade e buona moneta. Ma, se è accettabile (come sappiamo) una sovranità priva di poteri illimitati e perfino frazionata, in opposizione all’idea di sovranità nata con l’avvento degli stati nazionali, sembra però privo di senso negare in principio ogni forma di intervento positivo. La salvaguardia dell’indipendenza dell’individuo, la promozione del suo ruolo, delle sue potenzialità e centralità, cara ad Hayek, richiedono profonde capacità di intervento sulla distribuzione della ricchezza materiale, ben al di là del tradizionale welfarismo. Il perseguimento della giustizia distributiva costituisce un imperativo funzionale delle moderne società dinamiche, nonché un imperativo ontologico.

Bisogna però concedere, ad onore della grande e meritoria attenzione che Hayek dedica alla definizione di regole e procedure astratte di carattere generale atte ad impedire abusi ed arbitri nell’esercizio del potere, che la giustizia distributiva può essere perseguita, in larga parte, attraverso la definizione di automatismi e regole generali e oggettive di funzionamento del sistema economico, come chiarisce il nostro libro su ‘A new economics for mdern dynamic economies’. Purtroppo, Hayek limita la sua riflessione su tali regole generali al potere politico. Invece, per quel che concerne il potere economico, egli nutre una totale e spropositata fiducia nel gioco catallattico. Questo aspetto esige qualche maggior dettaglio. Hayek è un fautore della società borghese, il cui avvento è caratterizzato dalla conquista, da parte del sub sistema economico, di una posizione di centralità. Ma questa centralità significa che, in tale società, i meccanismi e la forza del potere tendono in prevalenza a concentrarsi nel settore dell’economia e di lì si diffondono al resto del sistema sociale. Un’indagine sui meccanismi (e gli abusi) del potere nella società borghese che ignori il potere economico, così come fa Hayek, assomiglia ad uno studio sulla circolazione del sangue che si limiti alle arterie, ignorando il ruolo e persino l’esistenza della valvola cardiaca. Il potere economico, le sue conseguenze sulla distribuzione del reddito, gli abusi e soprusi che possono derivare dalle conseguenti concentrazioni di ricchezza e le degenerazioni che vi si associano richiedono la massima attenzione. Ma tutto ciò non turba Hayek, abbagliato dall’oggettività del gioco catallattico e delle regole del mercato. Egli scrive: «Ciò che la gente, e temo anche molti famosi economisti, non capisce è che i compensi offerti in un tale processo (economico) non servono tanto da remunerazioni alle diverse persone per ciò che hanno fatto, ma piuttosto da segnali che indicano loro ciò che esse dovrebbero fare nell’interesse proprio e generale»351. Benissimo, ma che dire della possibilità di una scissione del processo di distribuzione del reddito da quei segnali? Hayek non è neppure sfiorato dall’idea di poter definire forme istituzionali e regole generali idonee a realizzare tale scissione, così da tenere in vita i meccanismi di mercato, emendati però dai loro effetti perversi (sulla libertà e indipendenza degli individui e sullo stesso senso morale) derivanti dalla corsa alla ricchezza materiale e da iperboliche concentrazioni di questa. Il totale affidamento alle regole del mercato (cioè al di là del mercato inteso come sopra, ossia quale mero

351 Cfr. F. A. Hayek, Ibidem, pag. 516

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meccanismo di imputazione e di efficienza), propugnato da Hayek, sarebbe accettabile, sotto il profilo delle forme di potere, solo in una società di piccoli proprietari, diretti produttori.

Bisogna dire che la nostra epoca, caratterizzata da estesi processi di privatizzazione delle imprese pubbliche anzitutto negli antichi paesi del "socialismo reale", ha dato ampia soddisfazione agli auspici di Hayek. Ma i grandi abusi e i furti di beni della collettività, e le arroganti concentrazioni di ricchezza nelle mani di spregiudicati affaristi, che vi si associano, sono sotto gli occhi di tutti. Di fronte a tali e tanti abusi, all’immenso potere di disposizione delle grandi multinazionali, alla capacità di pochi magnati di influenzare la sorte di intere nazioni e continenti con scelte economiche e finanziarie e comandi speculativi che si diffondono sull’intero pianeta in tempo reale, lo scrupolo con cui Hayek tratta gli abusi del potere politico, mentre ignora tutto questo, assomiglia allo scrupolo del meteorologo che, di fronte all’impeto travolgente dell’uragano, si limita a discettare sulla direzione delle brezze.

b) Il problema del potere nell’analisi di L. Pellicani

L’indagine di L. Pellicani individua nelle forme di potere il basilare fattore esplicativo del processo storico-sociale. Tale collocazione del potere al centro della vicenda delle società umane non nasce tuttavia da una speciale attenzione per il fatto del potere in sé o in quanto architrave dei rapporti sociali. È bensì determinata dalla ricerca dei fattori che spiegano la dinamica o, il che è lo stesso, la stagnazione delle società storicamente esistite; questo proposito orienta e condiziona i contenuti dell’indagine. Qui seguiremo (e citeremo) un recente saggio di questo autore, che ne sintetizza in maniera magistrale il pensiero.

Pellicani chiarisce preliminarmente che il mutamento evolutivo non costituisce una caratteristica immanente delle società umane, risultante da processi dialettici che costringono tali società a trascendersi incessantemente. Egli sottolinea che il potere ha assai spesso agito nel senso di soffocare e appianare le contraddizioni interne, che dovrebbero dar vita a quel supposto movimento dialettico. Ciò significa che i contenuti assunti, nei vari casi, dalla "violenza organizzata" nella veste del potere occupano un ruolo di primo piano nel condizionare, e assai spesso reprimere, le inclinazioni evolutive delle società umane.

Dato che il principale organizzatore e attore della violenza dei rapporti di comando è impersonato dallo Stato, è sull’avvento e sulle forme del potere statale che si concentra l’attenzione di Pellicani. Egli vede che la grande rottura rappresentata dalla nascita dell’organizzazione statale, a ridosso di preesistenti società tribali tutte dedite a preservare attraverso ingegnosi meccanismi la loro assoluta stazionarietà, in genere non innescò un processo evolutivo in senso proprio. Assai spesso ripropose una stagnazione di più alto livello, cioè situata in una più avanzata fase di sviluppo, ma non meno tenace di quella tipica delle società primitive. Tale esito è attestato distintamente da numerose grandi civiltà comparse nella storia. L’analisi di queste civiltà permette di chiarire che la causa principale della loro stagnazione, dei tanti grandiosi vicoli ciechi in cui sono approdate le più elaborate civiltà, risiede nel carattere delle forme statuali venute in essere. Precisamente, tale causa è rappresentata, nelle parole di Pellicani, dal costituirsi di «una gigantesca piramide, al cui vertice si trovava il despota divinizzato, padrone assoluto della vita e dei beni dei suoi sudditi… Così gli esseri umani furono trasformati in automi viventi, che, inseriti nella mastodontica "macchina di lavoro", produssero quelle ciclopiche costruzioni –le Piramidi, la Grande Muraglia, ecc.-, che ancora oggi suscitano ammirazione e stupore. Le quali, peraltro, testimoniano, con la loro muta eloquenza, che la "macchina da guerra" e la "macchina da lavoro", saldandosi, crearono quel sistema di

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schiavitù generale di Stato che i greci chiamavano dispotismo. Un sistema nel quale, lavorando per gli Dei e per i templi, la massa dei sudditi in realtà lavorava per la classe dominante alle condizioni imperativamente fissate da quest’ultima e legittimate dai gestori professionali del sacro»352. Ora il punto è che: «lo Stato dispotico tende ad estirpare tutte le forze che possano alterare l’ordine che esso ha creato con i suoi formidabili apparati coercitivi. Breve: il dispotismo, compiuta la sua rivoluzione, opera come un agente di immobilizzazione della società. Questa, a partire dal trionfo della logica dispotica, risulta "ingabbiata" dentro le strutture dello Stato burocratico-manageriale e condannata a muoversi entro il recinto della Tradizione»353.

Non ci intratteniamo sull’abbondante analisi che Pellicani dedica ai meccanismi artefici e custodi della stagnazione di queste civiltà chiuse, cresciute su se stesse, che costringono tuttora molti popoli della terra nell’indigenza, imponendo loro di lottare duramente per uscire dai vicoli ciechi in cui li hanno sospinti e che testimoniano con perentoria eloquenza quanto pervasivamente le forme di potere condizionano i destini storici delle società umane. Dobbiamo invece soffermarci sull’analisi che il nostro autore dedica ai fattori che hanno reso possibile, in alcuni casi, la rottura della gabbia burocratico-manageriale, autocratica o teocratica e, insomma, il passaggio dalla società chiusa alla società aperta, cioè a una formazione sociale costitutivamente in grado di attuare sviluppi illimitati delle conoscenze, della produzione e, più in generale, attrezzata per (e incline a) esplorare lo sterminato campo dei possibili. L’importanza, per i nostri fini, dell’analisi di questo aspetto risiede nel fatto che essa, in congiunzione con le considerazioni svolte poc’anzi sui contributi di Hayek, costituisce il punto più avanzato fin qui raggiunto dal dibattito, dalle indagini e dalle concezioni sul fenomeno del potere.

La tendenziale pervasività delle forme di potere è riuscita per lunghi anni a soffocare gli annunci della società aperta che hanno fatto capolino fin dall’antichità in varie aree del pianeta, in primo luogo nel bacino del Mediterraneo. Ma, fra il grigiore dei regimi a carattere autocratico, burocratico e teocratico che operarono tale soffocamento, un’alba nuova si affacciò all’orizzonte, sulle immani macerie lasciate dal crollo dell’impero romano d’occidente: un mondo caratterizzato da forme di potere labili, precarie e confuse e perciò potenzialmente in grado di far rivivere gli annunci della società aperta apparsi nelle antiche civiltà mediterranee. Sul quel terreno riuscì faticosamente e fortunosamente ad enuclearsi, attraverso un lungo e travagliato processo di tentativi ed errori, quella strana e sorprendente creatura che avrebbe preso il nome di "società aperta". Ma seguiamo l’analisi di Pellicani sui caratteri e il perché di quell’evento, il più importante di quanti la storia universale ne ha conosciuti.

Scrive il nostro autore: «Quando gettiamo lo sguardo sull’Europa del Basso Medioevo, ci appare un paesaggio politico caratterizzato dall’assenza di un centro di potere in grado di controllare i movimenti spontanei della società e dalla presenza di una miriade di città autocefale»354. In questo ambiente, poterono tornare a fiorire le spinte autonomistiche, le tradizioni commerciali e le inclinazioni esplorative che erano pullulate nell’antico mondo mediterraneo, per giunta nel contesto di una civiltà che, soprattutto attraverso l’eredità ebraico-cristiana, postulava una forte apertura al movimento evolutivo. Ma fu l’attivismo economico, progressivamente spintosi a conquistare un ruolo centrale nella società medievale europea, il grande artefice del miracolo. Scrive Pellicani: «Il mercato non solo è, ex definitione, una struttura aperta; è anche una struttura costitutivamente dinamica… il mercato, con la sua formidabile opera di "distruzione creatrice", è stato il potente motore del processo di modernizzazione e secolarizzazione; e lo è stato a livello planetario poiché esso ha palesato una irresistibile vocazione

352 Cfr. L. Pellicani, "Dalla società chiusa alla società aperta", Sociologia, n° 2, 2000, pagg. 11 e 12353 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pag. 12354 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pag. 30

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"ecumenica"»355. Dopo di che, Pellicani procede a connettere, sulla scorta dell’osservazione storica, il mercato alla forma capitalistica di potere. Egli scrive: «La crescita della ricchezza delle nazioni –quindi il passaggio da una economia statica a un’economia dinamica- è strettamente dipendente da un particolare regime politico, e precisamente da quella forma di dominio che offre ai sudditi la possibilità di industriarsi come a loro meglio conviene per arricchirsi e lo fa nel quadro di leggi poste a presidio della proprietà privata, della libertà contrattuale e della iniziativa privata»356. E continua: «perché la logica catallattica sia in grado di mettere in moto la macchina dello sviluppo, è di decisiva importanza una cornice politico-giuridica nella quale e grazie alla quale sia garantito ciò di cui il capitalismo ha un bisogno vitale: la proprietà privata, la libertà contrattuale, il diritto razionale, una regolare amministrazione della giustizia e, last but not least, un sistema fiscale che non strozzi quella che Bucharin era solito chiamare la "gallina dalle uova d’oro": la libera iniziativa. Tutte cose che il dominio dispotico non poteva ex definitione, tollerare e che, di fatto, non tollerò mai»357. Invece, tali cose il mondo occidentale le è andate gradualmente apprestando. Aggiunge il nostro autore: «È accaduto che, a partire dalla rivoluzione comunale –che segna l’inizio non solo del capitalismo, ma anche del processo di modernizzazione- la storia dell’Europa è stata, fondamentalmente, la storia della lotta della società civile contro le pretese autonomistiche dello Stato: una lotta tesa a perimetrare la giurisdizione potestativa del Principe attraverso due operazioni strettamente connesse l’una all’altra: a) la "separazione della proprietà dalla sovranità", della ricchezza privata dalla ricchezza collettiva", e b) l’istituzionalizzazione del governo della legge. Grazie alla prima, l’Europa Occidentale è fuoriuscita dalla logica del patrimonialismo, basata sulla pretesa del Principe di avere un diritto personale assoluto sui beni dei sudditi; grazie alla seconda, essa è riuscita a fissare i limiti della sfera di intervento del potere pubblico e regole al suo modus operandi. Non solo. A partire dal momento in cui si è affermato il rule of law, lo Stato è stato costretto a riconoscere che esistono diritti soggettivi –vale a dire poteri che appartengono a ciascuna persona e che costituiscono una "sfera nella quale la volontà di questa regna"- che esso è tenuto a rispettare»358. È nata così una "civiltà dei diritti e delle libertà", risultato del combinarsi di fattori casuali in un lungo processo di tentativi ed errori.

Vediamo così l’analisi di Pellicani e quella di Hayek combinarsi nella evidenziazione della genesi, delle potenzialità e dei limiti delle forme di potere tipiche della società aperta. La logica catallattica, cioè delle relazioni di mercato, appresta un insieme di preziosi automatismi che consentono di combinare (e quindi di sommare) e selezionare i contributi della molteplicità di individui, tutti dotati di limitate capacità intellettive, e di apprestare (soprattutto attraverso i segnali rappresentati dai prezzi) le conoscenze indispensabili per poter agire in una realtà variegata, incerta e mutevole: un meccanismo di coordinamento che cancella la necessità del potere regolatore centrale e onnipotente, tipico delle società chiuse. Al tempo stesso, la collocazione dell’individuo, con le sue capacità creative, al centro del processo, implicata dall’organizzazione sopra configurata, fornisce il basilare impulso dinamico al sistema sociale. Il mercato, che combina le azioni e decisioni dei singoli in un sistema di coerenze, costituisce anche uno strumento oggettivo e inflessibile di assegnazione delle responsabilità per l’azione svolta, determinando, per ciò stesso, forti limitazioni all’arbitrio e all’abuso.

Così la società aperta, nella veste che conosciamo, cioè con al centro i meccanismi di mercato, l’iniziativa individuale e quindi una inerente frammentazione dei centri decisionali, viene a configurarsi come una forma di potere feconda di occasioni

355 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pagg. 18 e 19356 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pag. 26357 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pag. 32358 Cfr. L. Pellicani, Ibidem, pagg. 32-33

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partecipative e ricca di meccanismi limitanti le possibilità di arbitrio e di abuso dei centri decisionali, come mai ne è apparsa nella storia universale. Tanto più laddove queste virtù sono state potenziate dai ben noti arnesi forgiati dalle analisi liberali del potere politico: la divisione dei poteri, il primato e sovranità del diritto e la soggezione del governo alla legge, le normative procedurali.

Questa è la concezione del potere che troviamo magistralmente delineata nelle pagine di Hayek e Pellicani, ed essa rappresenta il punto più avanzato della investigazione sul potere cui è pervenuta, a conoscenza dello scrivente, la teoria sociale. Essa appare tuttavia insufficiente a soddisfare le esigenze di sviluppo e di approfondimento di una tematica, quella del potere, che, come insegna Pellicani, è decisiva più di ogni altra per il divenire delle società umane. In verità, l’ottica di Pellicani, rivolta all’interpretazione del processo storico-sociale configuratosi nel corso del tempo e alla spiegazione dei meccanismi del mutamento, non poteva condurre più in là di questo approdo. Invece, maggiori dubbi solleva l’analisi di Hayek, più specificamente rivolta ad investigare le forme organizzative della Grande società o società aperta, intesa non propriamente quale fatto storico ma quale migliore realtà organizzativa delle relazioni sociali che possa essere configurata. Come che sia, la questione basilare dei limiti del potere non appare sviluppata a fondo da queste analisi e, di conseguenza, vi appare svolto insoddisfacentemente anche il problema della definizione di forme di potere che consentano di rimuovere i gravi limiti e contraddizioni che affliggono la società aperta storicamente inveratasi e consentano la massima espansione delle sue potenzialità.

Il difetto principale di queste impostazioni sul potere risiede nel fatto che esse trascurano la questione del potere economico, lasciandolo alla mercè dei meccanismi del mercato capitalista; più in generale, risiede nel fatto di identificare, puramente e semplicemente, il capitalismo con la società aperta, mentre in realtà quest’ultimo costituisce una particolare forma di società aperta, caratterizzata da suoi propri meccanismi di potere e, più in generale, da una precisa forma di civiltà.

A chi si pone il problema dell’abuso e degli arbitri del potere (caro ad Hayek) appare inaccettabile limitare l’analisi agli arbitri e favoritismi a vantaggio dei gruppi di pressione (cui le democrazie parlamentari sarebbero trascinate da ragioni elettoralistiche ecc.), secondo le linee che abbiamo in precedenza riferito parlando di Hayek. Abbiamo visto che l’avvento della società aperta (nella sua forma capitalistica) è stato determinato dal collocarsi dell’economia in una posizione egemone, al centro del sistema sociale. Ciò ha fatto del potere economico il principale e più forte dei poteri che, come lucidamente vide Marx, influenza fortemente anche il potere politico e giunge in vari modi ad asservirlo. Abbiamo visto in precedenti scritti sull’economia e la società che, nel mondo attuale della globalizzazione, la concentrazione dei poteri nel settore economico-finanziario ha toccato livelli impressionanti, giungendo ad oscurare anche il potere degli stati nazionali. Insistere sui limiti del potere politico ignorando questa estrema concentrazione dei poteri economici di disposizione, costituisce una evidente contraddizione.

Il respiro storico dell’indagine di Pellicani ha il pregio di far ben percepire la questione delle forme evolutive del potere e delle loro implicazioni. Sfortunatamente questo autore, tutto concentrato sulla questione del passaggio dalla società chiusa alla società aperta e sulla interpretazione storica dei meccanismi del cambiamento sociale, non indaga su possibili forme intermedie e alternative di potere compatibili con la società aperta. Ma è evidente che l’approdo alla società capitalista non rappresenta lo sviluppo definitivo delle forme di potere; queste ultime, chiave principale del divenire della società, sono destinate a conoscere una ulteriore e profonda evoluzione. Un importante problema consiste nell’analizzare come il potere è spinto ad evolvere, e quali sue configurazioni frenano tuttora le inclinazioni e capacità evolutive dell’uomo.

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L’affermarsi della forma capitalista di potere è stato imposto e sanzionato dalla grande superiorità di questa formazione sociale nel campo della produzione, rispetto a tutte le altre formazioni sociali sin qui conosciute. Ma non bisogna dimenticare che, sotto molti altri aspetti, il capitalismo ha incontrato (e incontra) forti ostilità in quanto viola importanti aspirazioni dell’animo umano. I sudditi dell’impero autocratico di Bisanzio, società chiusa e dispotica, detestavano la rapacità dei cavalieri feudali europei, che faceva dire ad Anna Comnena: «La nazione latina, come in addietro si narrava, ha questo suo peculiare carattere: cupidissima di ogni maniera di guadagno, allorché trattasi di porre a ruba doviziose regioni, non havvi modo e periglio che possa tenerla a freno»359. Alla prova dei fatti, i bizantini preferirono il dominio dell’impero ottomano a quello dell’Occidente, e non solo perché preferivano il turbante alla tiara papale. Dovunque ha messo piede, il capitalismo ha gettato nello sconcerto e talora nella disperazione popoli abituati ad antiche tradizioni di solidarietà.

La decentralizzazione dei processi decisionali rappresenta un principio di inestimabile importanza; ma occorre accompagnarla con meccanismi che favoriscano il coordinamento. In particolare, occorre che il potere, politico, economico, religioso o qualunque altra sia la sua veste, perda la sua antica pelle di potere-dominio e transiti verso forme di potere-servizio. Questa è la grande sfida che l’uomo moderno ha di fronte: apprestare meccanismi istituzionali che consentano lo stabilirsi del potre-servizio nell’ambito della società aperta, quale strumento per liberare l’uomo dalle maggiori e più fastidiose catene che ne avviluppano ancora le potenzialità evolutive e quale via obbligata per l’avvento di una nuova e più promettente fase di sviluppo la quale, diversamente dal capitalismo (che ha costruito le sue fortune sulla mobilitazione di alcune virtù della specie umana e sulla esaltazione di numerosi vizi di questa), si impegni a promuovere le virtù il più estesamente possibile. Ma, questo è il punto, occorre sforzarsi di derivare scientificamente tali superiori forme organizzative, invece che attenderne l’avvento attraverso processi di tentativi ed errori, che potrebbero avere esiti catastrofici.

4. Considerazioni conclusive. Il potere-dominio quale principale nemico della pace e degli equilibri ecologici

Il potere-dominio è una grande causa di conflitti tra popoli e, in particolare, la causa principale delle guerre che, con forza e capacità distruttiva crescenti, hanno devastato la Terra nel corso dei secoli, La nostra indagine sul potere ha visto una continua intensificazione delle relazioni di dominio, parallelamente all’avanzare dei processi di sviluppo, e l’accettazione da parte degli studiosi sociali delle relazioni di dominio in quanto fenomeno inevitabile secondo le loro teorie e in quanto aspetto basilare delle medesime. Tutto ciò è culminato nel trionfo nel corso della storia di vari imperialismi e nell’avvento dei peggiori totalitarismi. Al tempo stesso, la sistematica ed immorale aggressività ispirata dalle esistenti forme di dominio e l’accettazione di tale forma di potere come inevitabile hanno determinato aggressioni sul mondo naturale, considerato quale dominio dell’uomo esploratore e perciò oggetto di suoi interventi trionfali e privi di scrupoli. Orbene, le crescenti capacità di intervento sulla natura da parte dell’uomo, inteso quale dominatore della Terra, vanno causando crisi e disastri ecologici operanti a scala mondiale. Abbiamo visto che il decisionismo e il ruolo dei leader carismatici nonché varie forme di irrazionalismo hanno caratterizzato ampiamente il lavoro degli studiosi sociali nel passaggio dal XIX al XX secolo, e che gli insegnamenti di questi sono stati

359 Cfr. A. Comnena, L’alessiade, Stamperia Paolo Andrea Molina, Milano 1849, vol. II, pag. 189

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significativamente anticipati dalla diffusione della nozione secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Abbiamo visto anche che i recenti insegnamenti su abusi di potere, la società aperta, il ruolo dell’individuo e il movimento evolutivo, si sono limitati all’analisi e all’accettazione delle forme di dominio capitalista senza curarsi del devastante fenomeno del potere-dominio e perciò senza indicare rimedi ad esso. Naturalmente, le classi sociali dominanti, in quanto interessate al libero esplicarsi delle forme di dominio, hanno facilitato e legittimato, soprattutto attraverso la loro influenza mediatica, la convinzione che il potere ha, per sua natura, la sostanza del dominio. Gli insegnamenti Francescani sulla pace, la fratellanza e il rispetto per il mondo naturale si sono rivelati impotenti di fronte a tale diffusa accettazione del fatto che il potere è per sua natura sinonimo di dominio. Questa situazione ci ha convinti della necessità di una ampia analisi sul ‘problema del potere’ e sui modi e possibilità di liberare il Mondo dalla grande e intollerabile disgrazia rappresentata dall’idea corrente che il potere implica necessariamente dominio, un’idea che è divenuta egemone nella dottrina e nella pratica. Per poter dimostrare l’erroneità di tale convinzione è necessaria la definizione organica di una fattibile forma di potere alternativa al dominio. La moderna sensibilità e radicamento anche in politica dell’esigenza della pace universale e della salvaguardia degli equilibri ecologici forse implicheranno una profonda revisione delle forme di potere acciocché tali esigenze possano divenire effettive. La nostra nozione di potere-servizio e la nostra ricerca sulle forme ideologiche ed organizzative esprimenti ‘necessità’ dei moderni sistemi sociali si propongono di dare una risposta scientifica alle suddette esigenze. Una definizione e pratica della necessità organizzativa del potere-servizio non esiste nel pensiero e nell’esperienza umani, ad eccezione di alcuni insegnamenti Francescani ed evangelici al riguardo, e ad eccezione della visione organizzativa della Chiesa Medioevale. Purtroppo tali insegnamenti e visione hanno operato quali mere esortazioni essendo privi di basi teoriche e analitiche in grado di dimostrarne scientificamente la fattibilità. A conclusione di questo paragrafo, ci si lasci insistere sul fatto che il potere-dominio incontrerà, nella presente età della globalizzazione, grandi opposizioni ed obbiezioni, nonostante la sua forza crescente. Ciò causerà profondi squilibri, contraddizioni e paralisi funzionale, il che sospingerà le società umane a costruire forme organizzative non più turbate dall’angoscia del dominio. L’avvento, anche nel pensiero sociale, del metodo scientifico (al quale noi abbiamo dedicato grande attenzione) guiderà alla costruzione di un nuovo genere di potere privo dell’arroganza e degli abusi del potere-dominio, cioè un potere che operi quale servizio. Nel capitolo finale che seguirà daremo alcune specificazioni sul potere-servizio, in aggiunta a ciò che fin qui abbiamo detto su tale forma di potere, specificazioni scientificamente consentite dalla reintroduzione della visione organizzativa nel metodo del pensiero sociale, in luogo della indebita e generale accettazione del metodo osservativo-sperimentale adatto alle scienze naturali.

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Capitolo XIITre principi fondamentali sull’organizzazione dei sistemi sociali, che

sono offuscati dai metodi osservativo-sperimentale e/o della razionalità astratta

Può essere opportuno, a conclusione di questo studio, tracciare una sintesi su alcune principali illuminazioni che scaturiscono dall’approccio metodologico incentrato sull’organizzazione della realtà sociale, in alternativa alla corrente pretesa di ricavare le leggi di movimento di tale realtà attraverso osservazioni e sperimentazioni condotte su di essa: osservazioni e sperimentazioni destituite in verità di fondamento dalla non ripetitività dei fenomeni sociali. Infatti, l’affidabilità interpretativa dell’osservazione dei fatti esige la ripetitività di essi, così come accade, più o meno, nel mondo naturale e nelle sperimentazioni concernenti il funzionamento di questo e/o concernenti tecnologie che lo riguardano. Sappiamo che, in assenza di tale ripetitività, non resta che basare l’interpretazione dei processi storico-sociali sul carattere delle condizioni generali di sviluppo in atto, per dedurne principi e forme organizzative imposti da ragioni di razionalità ed efficienza organizzativa e previa attenzione sull’operatività o meno di principi ontologici che stimolino (o la cui assenza freni) i mutamenti della realtà sociale e quindi delle condizioni generali (cioè i processi) di sviluppo. Occorrerà anche affiancare all’operatività di tali principi specifiche scelte sulle forme organizzative, ivi incluse le grandi scelte di civiltà.

Tale metodologia conduce diritto a tre indicazioni sul carattere dell’organizzazione sociale che ci paiono della massima importanza per poter guidare ed intendere il divenire delle società umane. Si tratta di tre insegnamenti su aspetti cui l’analisi dello sviluppo storico-sociale e il governo delle società umane non possono (prima o poi) sfuggire nel caso di società caratterizzate da elevati ritmi di mutamento, se vogliamo sottrarci alla crescente confusione altrimenti generata dagli intensi processi di cambiamento sociale. Le tre indicazioni sulle forme organizzative possono essere così sintetizzate:

a) Ispirazione della costruzione sociale al concetto di potere-servizio, in alternativa alle forme di potere-dominio che sempre, seppur con varie modalità e variabile astuzia e intensità, hanno improntato i rapporti fra gli uomini nonché il governo delle società umane.

b) Principio di ‘separazione fra produzione e distribuzione’ del reddito e della ricchezza prodotti. Il rispetto di tale principio costituisce una via obbligata per il conseguimento dell’efficienza produttiva, della giustizia sociale e della piena occupazione e per la stessa operatività del principio sub a sul potere-servizio.

c) Carattere oggettivo, anziché soggettivo, di fondamentali principi etici in alternativa all’odierno dominio incontrastato del cosiddetto relativismo culturale, fonte di violenti e insolubili contrasti che angustiano i rapporti fra gli uomini e fra i popoli.

Abbiamo chiarito nel capitolo I i fondamenti del concetto di potere-servizio, l’indispensabilità di esso nelle moderne società dinamiche e i modi di garantirne l’operatività. Inoltre ci siamo a lungo intrattenuti sul principio sub b nei nostri studi

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sull’economia, cui fondamentalmente inerisce,360 dove abbiamo chiarito come deve essere organizzato un sistema economico che sia rispettoso del suddetto ‘principio di separazione’. Abbiamo visto anche che a tale principio non ci si può sottrarre nelle moderne società dinamiche in quanto contraddistinte da elevata consapevolezza e presa di coscienza delle masse popolari e quindi bisognose di coniugare efficienza produttiva ed equità distributiva così da garantire sia la migliore utilizzazione delle capacità creative umane, disperse casualmente fra la molteplicità degli individui, sia il consenso sociale. Qui può essere opportuna la seguente rappresentazione sintetica del principio di separazione.

Le imprese versano in un fondo comune di ricchezza i prezzi delle risorse utilizzate, quali discendono dalle condizioni di domanda-offerta delle medesime. Non debbono esistere monopoli istituzionali, però le imprese beneficiano dei gradi di monopolio temporanei generati dalla introduzioni di innovazioni di successo. Il saggio di interesse in termini reali dovrà essere azzerato. Il saggio di profitto conseguito in tali condizioni esprime la misura del grado di successo arriso nell’espletamento dell’attività imprenditoriale. Nel caso delle grandi imprese, che debbono essere sottratte alla proprietà privata al fine di evitare le conseguenti forme di dominio, i profitti confluiscono nel bilancio pubblico. La permanenza in carica dei manager di tali imprese deve dipendere dal grado di successo conseguito, espresso dal saggio di profitto. Il fondo comune di ricchezza verrà in parte destinato ad investimenti e per il resto sarà distribuito, attraverso lo svolgersi del confronto e conflitto distributivo, fra i cittadini che svolgono attività lavorative, oltreché fra gli inabili al lavoro. Il controllo della domanda, del processo accumulativo e degli orari lavorativi dovrà mirare a garantire la piena occupazione.

Una società sapientemente organizzata deve utilizzare l’ingegno dell’uomo di genio e dei grandi organizzatori, e dare possibilità partecipative, di sopravvivenza e di elevamento a tutto il resto della popolazione. La coniugazione di efficienza produttiva e giustizia sociale richiede che la distribuzione della ricchezza non avvenga nell’ambito dell’impresa bensì al di fuori del processo produttivo.

Esiste uno stretto legame, nelle moderne società dinamiche, del principio sub b di separazione con il principio sub a concernente il potere espresso nella forma del servizio. Qui ci limitiamo a intrattenerci sulla questione dell’impresa la quale ultima è giunta a costituire, nel moderno capitalismo, uno dei maggiori veicoli del potere-dominio. Il sistema produttivo ha bisogno dell’impresa, dell’imprenditore, di lavoratori di maggiore o più modesto rango. Ma per poter sottrarre il sistema al dominio di chi organizza le forme di produzione e, in particolare, all’egemonia del capitale, occorre che sia operante il principio di separazione. L’impresa è un meccanismo volto a produrre beni in modo efficiente, non ad esercitare dominio sul resto della società; la distribuzione e produzione della ricchezza non debbono essere condizionate e pregiudicate da conflitti esacerbati fra capitale e lavoro.

Un riferimento alla questione dell’impresa pubblica agevolerà il chiarimento di quanto sopra.

Le imprese pubbliche esprimono forme importanti degli esistenti sistemi di dominio, e quindi possibilità e modi di attuare il superamento di questi. La realizzazione di tali possibilità deve misurarsi con il ruolo dell’imprenditorialità pubblica nelle vigenti forme di produzione. Come è noto, alla base del capitalismo è il ruolo del mercato, battistrada della società aperta e delle moderne economie dinamiche.

Nelle economie di mercato, i processi produttivi sono attivati dalla funzione imprenditoriale, che promuove l’innovazione al fine di beneficiare dei gradi provvisori di monopolio generati dall’introduzione di innovazioni di successo, che si confronta con

360 Cfr. A. Fusari. A new economics for modern dynamic economies, Routledge 2017, ed A. Fusari Understanding the course of social reality, Springer 2016, capitolo VIII

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l’incertezza radicale, cerca le migliori opportunità di vendita, ecc.; il tutto con l’intento di guadagnar profitti. Il perseguimento del profitto garantisce l’efficienza produttiva in assenza di monopoli istituzionali.

Attraverso il ruolo imprenditoriale, il mondo è riuscito a sottrarsi, nel corso delle rivoluzioni industriali, alla stagnazione endemica di precedenti sistemi sociali,. Ma, con l’ultima rivoluzione industriale, il fecondo ruolo imprenditoriale è stato sostituito, specie al livello globale, da un dominio capitalista in cui la produzione è serva del capitale e non viceversa.

E’ importante che il meccanismo imprenditoriale e di mercato, generatore di efficienza produttiva e di sviluppo, operi nelle imprese pubbliche non meno che in quelle private. Affinché ciò possa accadere, è necessario che anche l’imprenditore pubblico sia costretto a competere per il profitto. Il saggio di profitto costituisce l’unico affidabile indicatore del grado di successo arriso all’azione e decisioni imprenditoriali e quindi l’unico metro di giudizio sull’opera dell’imprenditorialità pubblica. Altra cosa è la destinazione dei profitti conseguiti, che nel caso delle imprese pubbliche potranno andare a beneficio della pubblica amministrazione anziché degli imprenditori manager, i quali verranno stipendiati con retribuzioni non importa di quale ammontare). Occorre sottolineare che la permanenza in carica di tali manager dovrà dipendere dal grado di successo nell’espletamento della loro funzione imprenditoriale, quale è espresso dai profitti conseguiti (al netto degli interessi sui capitali impiegati, in quanto tali interessi costituiscono dei costi). Naturalmente, occorrerà curare la definizione di criteri capaci di impedire agli imprenditori pubblici di dichiarare il falso al fine di nascondere perdite e conservare l’incarico nonostante il verificarsi di queste.361

Il saggio di profitto conseguito costituisce l’unico affidabile criterio di responsabilità per il potere-servizio espletato dall’imprenditorialità pubblica. Tale criterio di responsabilità, se applicato con inflessibilità, costringe l’impresa pubblica a operare con un’efficienza non minore (probabilmente maggiore) delle imprese private. L’assenza di tale criterio di responsabilità dà luogo, come presto vedremo, al determinarsi nella sfera pubblica di forme fra le più degenerate e pericolose di potere dominio.

Forse basterebbe limitare l’opera dell’imprenditorialità pubblica alle imprese di grandi dimensioni, così da evitare grandi concentrazioni di ricchezza e di potere incontrollato in mani private e l’opera, sempre più destabilizzante nelle moderne società globali, di grandi monopoli finanziari dediti a speculare più che a produrre.

Bisogna prendere atto che l’imprenditorialità pubblica costituisce una delle forme più degenerate di potere dominio nelle moderne economie di mercato. Tale imprenditorialità viola sempre più disinvoltamente regole di efficienza produttiva e di razionalità organizzativa. I grandi manager sono nominati e tenuti in carica dai governanti e dai partiti politici a prescindere dalle loro qualità imprenditoriali e dai risultati conseguiti; in compenso, quei manager assicurano a partiti e leader politici risorse spendibili e altri favoritismi. La copertura delle conseguenti perdite di impresa verrà garantita attraverso fondi di dotazione finanziati dallo stato. Ne deriva un intreccio di potere-dominio e di abusi sempre più gravi. Siamo al cospetto di sistemi di dominio arroganti epperò fragilissimi in quanto afflitti da enormi contraddizioni interne; essi generano situazioni di crisi che non si è in grado di controllare e neppure di comprendere.

Più complessa è la questione dell’efficienza dei servizi pubblici che non (o molto limitatamente) operano sul mercato e che pertanto non può essere controllata attraverso il saggio di profitto. Ma anche in questo caso possono essere definiti indicatori tesi a calcolare il grado di efficienza dei servizi espletati.

361Ciò è stato trattato, insieme al modo di definire indicatori di efficienza per i servizi non (o molto limitatamente) operanti sul mercato, nel nostro libro su ‘Understanding the course of social reality’, Springer 2016, capitolo 9.

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L’efficienza dei servizi e delle imprese pubblici consentirà di reperire i fondi da destinare ad azioni meramente redistributive senza sottostare a deficit pubblici crescenti e/o all’appesantimento della tassazione.

Le condizioni di dissesto del settore pubblico nelle società contemporanee sono state stimolate da alcuni sviluppi del pensiero economico, in primo luogo dal grande successo dell’insegnamento Keynesiano. Bisogna riconoscere la grande importanza della dimostrazione che, in condizioni di deficienza della domanda effettiva, lo spreco pubblico è utile a stimolare la produzione. Tale dimostrazione è stata accolta con grande piacere dalle classi di governo in quanto offre la giustificazione scientifica dello spreco pubblico e dei connessi deficit di bilancio. Ma gli sprechi che ha favorito generano, all’opposto, un eccesso della domanda effettiva che ostacola la produzione attraverso inflazione da costi, necessità di politiche restrittive ecc.

Accade così che le grandi politiche redistributive e il meritorio riformismo dello stato del benessere promossi soprattutto dai partiti socialdemocratici e incoraggiati dal successo del paradigma keynesiano incontrano difficoltà crescenti. E’ urgente smascherare la forma subdola e disastrosa di dominio che si è andata affermando attraverso una fede cieca nel miracolo keynesiano, agevolata dal fallimento dei sistemi di socialismo reale.

La nostra analisi sul potere servizio e, in particolare, il principio di separazione, intendono reagire a tale disastro, dimostrando la possibilità di incisive politiche redistributive senza, questo è il punto, che esse pregiudichino l’efficienza produttiva.

Particolarmente nelle moderne economie dinamiche, occorre rimpiazzare le consuete forme di potere-dominio, che ostruiscono l’operatività del ‘principio di separazione’, con forme di potere-servizio. Ad esempio, occorre privare l’imprenditore, il grande finanziere o altre benemerite intelligenze, di capacità di dominio ed assoggettarli ad esercitare le loro eccezionali capacità nella forma del servizio. Occorre abituare l’uomo ad apprezzare il potere-servizio e a detestare il potere-dominio, dopo aver specificato le funzioni di cui l’operare delle società umane ha bisogno, i criteri di valutazione del grado di successo (o insuccesso) conseguito nello svolgimento delle funzioni espletate e le correlative responsabilità, meriti e demeriti. E’ tutto ciò possibile?

Le società umane hanno bisogno dell’opera di grandi e piccole menti e di tutelare abili ed inabili, con i secondi che additano all’uomo i suoi limiti ed i primi che sottolineano la casuale fioritura delle umane potenzialità fra la massa dei viventi. L’individuo non è necessariamente destinato a vivere preda del desiderio di ricchezza materiale e della frustrazione causata dalla assenza di questa. Ci sono altre e più nobili motivazioni delle azioni umane e delle umane aspirazioni. I processi di sviluppo spontaneo hanno condotto la ricchezza privata ad esercitare grande attrazione, a costituire il grande propellente dello sviluppo e la fonte principale di potere-dominio. Ma il riconoscimento e apprezzamento da parte della società dei meriti e la condanna dei demeriti possono esercitarsi in ben altre direzioni e costituire oggetto di varie forme di gratificazione. Grandi menti hanno accettato di soffrire in silenzio in nome del perseguimento del bene comune. Dopotutto, il maggiore oggetto della ambizione è ciò che genera riconoscimento. Orbene, varie possibili forme di riconoscimento possono riconnettersi all’onorevole espletamento di servizi necessari all’efficiente funzionamento degli aggregati sociali, senza bisogno di lasciare quasi tutto preda della cupidigia. E non bisogna mai dimenticare il ruolo delle grandi masse nel fornire sostanza ed energie recondite al moto evolutivo della società, soprattutto attraverso la casuale comparsa, nel loro ambito, degli uomini di grande ingegno.

La congiunzione del principio di separazione (fra produzione e uso della ricchezza materiale) con il concetto di potere-servizio in quanto principio direttivo e propulsivo delle funzioni espletate contiene potenzialità immense per il miglioramento delle umane condizioni di vita e di sviluppo. Tale congiunzione, al cospetto delle miserie sempre più

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destabilizzanti che si riconnettono alla corsa verso l’arricchimento personale e verso altre modalità di acquisizione di potere-dominio, costituisce una prospettiva che sarà reclamata con forza crescente dalla necessità di sottrarci agli effetti distruttivi cui espone sempre più vistosamente la corsa dell’uomo verso la ricchezza materiale e altre modalità di acquisizione di potere-dominio.

Insomma, nelle moderne società dinamiche in quanto animate principalmente dal ruolo propulsivo dell’economia, il trionfo della nozione di potere-servizio ha bisogno dell’operatività del ‘principio di separazione’ giacché questo consente di configurare l’esercizio dell’attività economica, maggiore propellente dello sviluppo delle moderne società dinamiche, nella forma del servizio.

Per rendere più stringente il discorso sul divenire delle società umane, qui abbozzato, occorre inserire i due principi sopra discussi nel contesto più generale della questione etica, il punto sub c. In particolare, è indispensabile rintuzzare alla radice l’invadenza del cosiddetto ‘relativismo culturale’, che libera le mani dell’umana cupidigia su questioni fondamentali per la vita e convivenza sociali. La liberazione da vincoli e prescrizioni etici espressa dal relativismo culturale costituisce una delle statuizioni più deleterie del pensiero sociale. Questa aberrazione relativista è frutto e implicazione inevitabile del metodo osservativo-sperimentale. Infatti, di fronte allo spettacolo di una confusa molteplicità e rumorosa operatività di principi etici nel corso della storia umana, l’osservazione non può svolgere alcun ruolo legittimante di alcunché di specifico al riguardo ma è costretta ad arrendersi a tale confusa evidenza, dichiarando la sua totale impotenza esplicativa.

Orbene, un grande insegnamento della metodologia fondata sulla visione organizzativistica è di farci conoscere che esistono principi etici dotati di oggettività, cioè che sono spiegabili scientificamente; insomma, ci fa comprendere che, accanto alla possibilità di specifiche ‘scelte’ etiche e di civiltà, su cui insiste il relativismo culturale, esistono basilari aspetti etici costituenti ‘necessità funzionali’, cioè che sono imposti da problemi di razionalità ed efficienza nell’amministrazione e governo delle società umane, necessità organizzative che l’uomo non può ignorare senza esporsi ad autoflagellazione. Questo ‘oggettivismo culturale’ costituisce l’altro grande protagonista evocato dall’analisi di impronta organizzativistica dei sistemi sociali. Abbiamo in animo di dedicare al tema un apposito saggio. Qui ci si consenta di ribadire che, affinché l’uomo moderno possa giovarsi, nella sua avventura esaltante e sempre più difficile, della grande triade interpretativa evocata in questo capitolo finale, occorre analizzare i sistemi sociali secondo un’ottica centrata sul momento organizzativo dei medesimi, anziché ispirandosi all’osservazione dell’esistente. Il concetto di potere-servizio, il ‘principio di separazione’ e l’esistenza di principi etici di carattere oggettivo costituiscono tre pilastri del sapere sociale compatibili solo con la metodologia organizzativistica, in alternativa a quella basata sull’osservazione e sperimentazione che la crescente non ripetitività dei fenomeni sociali destituisce di fondamento. La mera osservazione esalta e convalida il fenomeno del potere-dominio, in quanto ininterrottamente all’opera nelle relazioni sociali dagli albori della storia, ed ha indotto molti importanti studiosi delle società umane ad accettare come inevitabile tale fenomeno, ammantandolo con espedienti tesi a giustificarne e talora nobilitane i contenuti. La questione del potere deve fare i conti con la contrapposizione fra dominio e servizio. Ma per far emergere i termini di tale contrapposizione e percepire la possibilità-necessità del potere-servizio, occorre una metodologia del tutto diversa da quella su cui si fonda il sapere sperimentale e da quella centrata sul momento logico-formale362.

362 Al riguardo, si veda il nostro libro su ‘Methodological misconceptions in the social sciences’, Springer 2014 e l’assai più breve e concentrato saggio dal titolo ’Methodological misunderstandings and clarifications on the social sciences’, Cfr. A. Fusari in International Journal of Creative Research and Studies’ Vol. 2 N° 9, September 2018

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Conclusione della terza parte

Questa parte ha dipinto il vigoroso sviluppo e l’intersecarsi di una quantità di formulazioni teoriche sul potere. Dapprima il dipinto si è giovato dell’assistenza di dottrine giusnaturalistiche e parallelamente o subito dopo di approcci giustificativi delle persistenti forme di potere-dominio, ancorché queste fossero rese sempre più acute dalla necessità di governare un mondo agitato da crescenti ritmi evolutivi. Vari espedienti analitici, quali l’idea di contratto sociale e quella di divisione dei poteri riesumata più di 1500 anni dopo il naufragio della promettente esperienza sul potere espresso dall’ordinamento imperiale romano del Principato, hanno cercato di giustificare l’intensificarsi, con il procedere della società aperta e progressiva, delle forme di dominio. Ma i richiami alla tolleranza e alla democrazia sono serviti piuttosto a stimolare le capacità evolutive dei vigenti ordinamenti, non a moderare le forme di dominio in atto. Al contrario, queste ultime hanno conosciuto intensificazioni attraverso il combinarsi del potere economico e del potere politico. Forme crescenti di strapotere economico e di imperialismo hanno accentuato l’acutezza e pervasività delle vigenti forme di dominio. In parallelo, gli studi sul fenomeno del potere hanno preso ad accettare sempre più esplicitamente l’infamia dei rapporti di dominio, avviandosi verso forme di diffuso irrazionalismo della teoria sociale che avrebbero aperto le porte alla brutale logica di potenza dei totalitarismi. Infine, dietro l’ammonimento di tiranniche esperienze, le più recenti teorizzazioni sono tornate ad insistere sulla questione dei limiti del potere, ma senza avere la forza e la capacità di uscire dal mondo teorico ed operativo del potere-dominio. Il metodo di analisi del pensiero sociale, in quanto improntato dall’osservazionismo, non consente di andare oltre e approdare alla nozione di potere-servizio. Ma questa è la via obbligata per uscire dai tanti travagli inflitti all’uomo dal potere-dominio; essa si annuncia come una necessità organizzativa e un esito inevitabile della vicenda del potere, onde sottrarre il mondo a forme confuse e intollerabili di conflittualità altrimenti incontrollabili.

L’attenzione a tre basilari fondamenti di cui abbisogna l’organizzazione e interpretazione dei moderni sistemi sociali, cioè ‘potere-servizio’, ‘principio di separazione’ e ‘oggettivismo etico-valutativo’, chiude questo saggio sulle forme e teorie del potere conosciute e teso ad illuminare su quelle verso cui i processi sociali sospingono l’uomo contemporaneo.

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APPENDICE: Una grande opportunità e un grandissimo pericolo per la Chiesa di Roma

La questione del potere si pone oggi in forme assai pressanti. La dimostrazione scientifica della ‘necessità’ del potere-servizio nelle moderne società dinamiche dà vita ad una prospettiva molto attraente per la Chiesa di Roma di vedere trasformata in realtà una delle più importanti prescrizioni evangeliche. Finora il concetto di potere-servizio è stato inteso negli ambienti della Chiesa come un dovere e un’entità spirituale. E’ stato spesso usato per “predicar bene”, ma utilizzando parallelamente il potere-dominio per “razzolar male”. C’è stata per lungo tempo molta ipocrisia sul tema. E ci sono forti inclinazioni e interessi, anche nella Chiesa, a perpetuare questo stato  di cose. Questo genera sordità nei confronti del potere-servizio, una sordità che il mondo dei grandi mutamenti e delle grandi concentrazioni di potere non è più in grado di sopportare. Credo che occorra un notevole impegno, specie da parte di studiosi di prestigio, per far penetrare nella Chiesa cognizione della ‘necessità’ del potere-servizio: un’occasione che la Chiesa non dovrebbe farsi sfuggire di mano ma dovrebbe predicare e praticare usando anche il linguaggio della ragione e gli insegnamenti della scienza.

L’esperienza storica vissuta dalla Chiesa rinascimentale dovrebbe agire da insegnamento. L’intenso processo evolutivo nell’economia e nel campo del sapere e dei valori, verificatosi nel periodo a cavallo fra Medioevo e Rinascimento, pose il pensiero cristiano di fronte alla necessità di misurarsi con quelle grandi trasformazioni. La Chiesa di Roma preferì sottrarsi a tale necessità. In particolare, osteggiò: il metodo osservativo-sperimentale galileiano nel campo delle scienze naturali (salvo poi a subirlo); l’imprenditorialità; il ruolo del profitto (per lo meno nella sua veste di indispensabile misuratore del grado di successo arriso all’azione imprenditoriale); il principio di responsabilità individuale, nonostante la grande considerazione per l’individuo ‘figlio di Dio’. Tale cecità nei confronti del corso dei tempi e di grandi esigenze funzionali della nuova età favorì il trionfo dei movimenti e delle scissioni protestanti.

Un’insidia di proporzioni maggiori si cela dietro la questione del potere nel mondo attuale della globalizzazione, della grande finanza e della competizione a colpi di innovazioni. Il problema è assai serio e merita grandissima attenzione. E’ importante, individuare gli ambienti più sensibili nei confronti di esso ed usare il contributo della scienza per superare le resistenze di chi si attarda, anche nella Chiesa, a trarre giovamento dalle forme di potere-dominio. Più in generale, oggi costituisce un grande rischio per la Chiesa ignorare le tre necessità organizzative e interpretative sottolineate nel capitolo finale, cioè: il potere-servizio; il principio di separazione fra produzione e distribuzione del reddito; il riconoscimento del carattere scientifico-oggettivo di fondamentali principi etici. Per meglio chiarire queste cose, affiancherò a questo mio libro su potere-dominio e potere-servizio, un libro che sto completando su ‘Etica, Ragione. Religione’. Mi si consenta di ripetere che la Chiesa di Roma deve essere ben consapevole dei rischi accennati. In particolare, c’è bisogno della consapevolezza che non è sufficiente

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intendere (e predicare) il potere-servizio come un dovere etico e spirituale. Occorre chiarire la possibilità, i modi e la necessità di realizzare ordinamenti istituzionali che esprimano il potere nella forma del servizio. Altrimenti altre entità si incaricheranno, prima o poi, di farlo a detrimento del prestigio e del ruolo della Chiesa di Roma e del significato di essere cristiano. E la Chiesa odierna conoscerà difficoltà e sconfitte forse maggiori di quelle conosciute dalla Chiesa rinascimentale, giacché i cambiamenti vissuti dal mondo moderno sono assai più rapidi e intensi di quelli verificatisi tra Medioevo e Rinascimento.

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Bologna

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Indice dei nomi

Abramo (Bibbia) 77, 88Achemenidi (dinastia imperiale persiana) 36Adriano imperatore 46, 75, 94, 98Alarico re 87Agostino di Ippona 87, 105Al Farabi 88Aguilers, R. 18Al Mawardi 88Alfonso X di Castiglia 99Ambrogio vescovo 87, 93Antioco IV 81Antonini imperatori 46, 85Aquino T. 100Arendt H. 118, 139, 160-1, 175-6Aristotele 68-9, 70-1, 100-1, 103, 107Arminio 29Ashanti 32Ashkaga 32Atenagora 85Attila 33Attone di Vercelli 95Augusto Ottaviano 10, 45, 73-4-5, 93, 98Averroe 88Avicenna 88

Baran, P. A. 155. 159Bartolo di Sassoferrato 98Bernardo di Chiaravalle 96Biondi, P. 134Bodin, J. 24, 104, 113-4-5, 126, 172Bucharin, N. I. 154, 183

Caillé, A. 40Carlo IV di Boemia 99Carlomagno imperatore 93-4-5Carneiro, R. L. 28, 36Chien Lung imperatore 66Clasres, P. 20, 22, 24-5Claudio imperatore 74Clodoveo 94

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Confucio 64-5-6-7Cola di Rienzo 98Comnena, A. 185Constant, C. 133-4-5, 145Costantino il Grande 85, 95Crisostomo (padre della Chiesa) 84, 105

Dante Alighieri 41Darwin, C. 8, 147De Gobineau, J. A. 170De Maistre, J. 175Diocleziano imperatore 46Dominato (impero del) 17, 37, 46, 52-3, 74, 76, 85Domiziano imperatore 17, 74-5Donoso Cortes, J. 173Durkheim, E 22, 38

Erodoto 68Esdra 81Eusebio di Cesarea teologo 86

Federico Barbarossa 98Federico II di Svevia 98Ferrarotti, F. 11 Ferrero, G. 132-33, 140-1-2-3-4, 148, 151

Galba imperatore 75Galilei, 153Gedeone 21Gelasio papa 93Gemisto Pletone 86Gengiz Khan 28, 33Geremia 79Gerschenkron, A. 155Geronimo 21, 29Giacobbe 77Giona d’Orleans vescovo 95Giorgio III 66Giosué 82Giovanni di Salisbury 100Giuda Maccabeo 81Giustiniano imperatore 17, 76, 98Graziano 96Greene, R. 6Gregorio Magno papa 93Gregorio VII papa 96

Hafiz-i Abru 18Hayek, F. A. 177-8-9, 180-1, 183-4Hegel, G. W. F. 147, 167Hilferding, R. 153

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Hitler, A. 158Hobbes, T. 106, 109, 113, 115-6-7-8-9, 120, 122-3, 126-7-8, 140-1, 160, 167, 176Hobson, J. A. 150-1-2-3-4Hume, D. 112

Ibn Jama 89 Ibn Khaldun 89, 90Ibn Taimyyah 89Incas 37Incmaro di Reims vescovo 95Innocenzo III papa 97-8Innocenzo IV papa 97Isacco 77Isaia 79Ivan il Terribile 18, 19n, 112

Janneo Alessandro 81Juwaini 18Jefte 21

Kamakura 32Kant, E. 15, 180Kanto (cavalieri del) 32Kautilya 6Kelsen, H. 165-6-7, 173-4Kurbskij, H. 18

Lao-tse (libro del pensiero politico taoista) 67, 138Leone II papa 94Lenin, V. 148-9, 150, 154-5-6, 158Locke, J. 122-3-4-5-6, 132-3, 145, 160Lutero, M. 105Luxenburg, R. 150, 153

Machiavelli, N. 4, 6, 9, 13, 110, 111, 113Mahmud (sovrano afgano) 92Maometto profeta 28, 34, 88, 90Marco Aurelio (imperatore) 85Marsilio da Padova 102-3-4-5-6, 108, 127Marx, K. 27, 51, 145-6-7Melito vescovo 85 Mencio 66Menelao (pontefice massimo) 81Mill, J. S. 133Moghul (dinastia imperiale) 33, 36, 40Montesquieu, C. L. de Secondat 118, 129, 130-1, 134, 139Mosca, G. 13, 110, 148n, 168-9 Mo-tse 67Myrdal, G. 39, 40n

Napoleone 160

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Nerone imperatore 17, 45, 73Nicola I papa 95Nizan al Mulk (Hasan di Tus) 91Noè 77

Occam, G. 10, 106-7-8-9Onia III 81Origene 84-5, 105Osea profeta 79Osmanli (dinastia imperiale) 37

Paolino d’Aquileia 94Paolo di Tarso apostolo 10, 83-4, 104, 112, 185nPareto, V. 170Pellicani, L. 35, 177, 181-2-3-4Pericle 44, 68Pietro apostolo 10, 85, 94, 97, 104, 107Pilato 83-4, 105Pipino re 93-4Platone 68-9, 70-1, 88Polanyi, K. 46, 50Polibio 71-2-3, 75, 130Pompeo Magno 81

Rathenau, W. 156-7-8-9Rockefeller 151Romero, J. L. 49Roosvelt, T. 151Rousseau, J. J. 15, 126-7-8, 130-1, 139, 144Roux, J. P. 18Runciman S. 18

Sahlins M. D. 20, 21nSalomone re 79, 80, 93Salzman, M. D. 21Samuele, 21, 94Saul, 21Schacht, J. 90, 91nSchmitt, C. 162, 163n, 167, 173-4-5Schramm, P. M. 94-5Shotoku 32Schumpeter J. A. 161-2-3Seneca 45Severi dinastia imperiale 76Shang Yang, 63Smaragd di Saint Michel 93Socrate 68Spengler, O. 170-1Spinoza, B. 80, 132 Stalin, I. 112, 158Sweezy, P. M. 155, 159

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Tacito 29Tamerlano 18, 33Tang 32Teodorico re 30Teodosio I imperatore 93Tertulliano 85Teutonico G. 98Tiberio imperatore 74Tocqueville, A. 135, 137-8-9, 140Traiano imperatore 74Tucidide 17, 68Uguccione da Pisa 96, 98Ulpiano 76, 98, 105, 113Umako 32Umberto di Silvacandida 95

Valentiniano II imperatore 87Veda (libri sacri indiani) 39Vespasiano imperatore 45, 73-4-5, 98Voltaire 133

Weber, M. 36, 78, 80, 172nWittfogel, W. A. 27

Yatitomo Minamoto 32

Zaccaria papa 93

Indice generale

Introduzione 3

PARTE IPotere-servizio e principali forme di dominio comparse nella storia

Premessa 5

Capitolo 1Potere-dominio e potere servizio 61. Contenuti, conseguenze e radici di un grande malinteso 72. Dal potere- dominio al potere-servizio 103. Qualche esempio chiarificatore 14Conclusione 16

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Capitolo 2Una digressione storica su misfatti del potere-dominio 17

Capitolo 3Il potere nelle società quasi-stazionarie 201. Il potere nelle società primitive 202. Condizioni e fattori che facilitano l’avvento del potere di comando 233. Verso il potere-dominio 254. Il potere nelle prime società di comando 29

a) Verso il potere feudale 29b) Il potere nelle società nomadiche 32c) Il potere nei grandi imperi autocratici e burocratico-centralizzati 34d) Il potere teocratico 38

Capitolo 4Forme di potere gradatamente più evolute 421. Il potere nelle società mercantili dell’antico Mediterraneo e nella repubblica di Roma 422. Uno straordinario intermezzo: il potere nell’impero romano del Principato 453. Il potere nelle società mercantili dell’Occidente 474. Il potere nel capitalismo 495. A proposito del militarismo 526. Conclusione della prima parte 53

PARTE IIPrincipali concezioni e teorie del potere dall’antichità agli inizi

dell’età moderna; loro incontestata accettazione del fenomeno del dominio

Premessa 55

Capitolo 5Teorie e forme di potere nel mondo antico 561. Concezioni del potere in alcune principali società orientali 56

a) India vedica e post-vedica 56b) Legalismo e confucianesimo nell’antica Cina 62

2. Il potere politico nel pensiero greco 67a) Il potere secondo Platone 68b) Il pensiero di Aristotele sul potere 693. Sviluppi dell’idea e delle forme di potere nell’impero romano 71

a) Polibio e la divisione dei poteri 71b) Il concetto di potere politico e di sovranità propri del Principato

Augusteo 72c) Evoluzione verso il dispotismo dell’ordinamento

burocratico-centralizzato nel tardo impero romano 76

Capitolo 6Concezioni pre secolari del potere nel mondo monoteista1. Il potere nel pensiero ebraico, cristiano e musulmano 77

a) Ebraismo e potere. Tendenze dinamico-evolutive, concezioni

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antiteocratiche, attivismo e profetismo ebraici 77b) Il potere secondo il cristianesimo orientale e occidentale 83c) Una nuova teocrazia: l’idea islamica di potere 882. Evoluzione delle teorie e delle forme del potere nell’Europa feudale e medievale 92

Capitolo 7Teorie del potere dal periodo medievale all’inizio dell’età moderna 1. Tre teste di ponte delle moderne teorie del potere 100

a) Tommaso d’Aquino 100b) Marsilio da Padova 102c) Guglielmo Occam: potere-dominio e potere-servizio 106

Capitolo 8 Il salto di qualità nella concezione del potere all’inizio dell’età moderna 1011. N. Machiavelli e la virtù del dominatore 1102. Un punto di avvio delle successive linee speculative: J. Bodin e il concetto di sovranità 1133. La lucidità estremistica di Hobbes 115 la dottrina e i suoi limiti 115 principali obbiezioni alla luce di alcune nostre categorie metodologiche 117

Conclusione della seconda parte 120

PARTE III

Teorie del potere nell’età moderna

Premessa 121

Capitolo 9Ambiguità del contrattualismo giusnaturalista. Verso la dottrina liberale del

potere 1221. Le assurdità giusnaturalistiche dell’analisi di Locke 1222. J. J. Rousseau: volontà generale e contratto sociale 1263. Alcune conclusioni e illuminazioni tratte dalle impostazioni qui considerate 1284. Un caso a sé: Montesquieu e la divisione dei poteri 1295. L’alba del potere liberale e la questione della tolleranza 1316. B. Constant e la monarchia costituzionale 133 7. J. S. Mill e la società aperta 1368. A. de Tocqueville e la democrazia americana 1379. G. Ferrero e la legittimazione del potere 140 Il falso mito della sovranità popolare 144

Capitolo 10Potere economico e potere politico. Idee sull’imperialismo 1. La dottrina marxista e leninista del potere e dello Stato 145

a) La teoria opaca ed elusiva di Marx e Engels sullo Stato 145b) La teoria dello Stato di Lenin: la brutalità del dominio addolcita dal miraggio di una fantomatica utopia 1482. L’idea del potere nell’età dell’imperialismo 150

a) La pionieristica analisi di J. Hobson e le conclusioni

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assurde di R. Luxenburg 150b) Lenin e l’imperialismo 154c) L’illusorio disegno di W. Rathenau 156d) H. Arendt e l’imperialismo dello stato nazionale 159e) J. A. Schumpeter e l’imperialismo dei sentimenti atavici 161f) L’imperialismo quale espressione di potere-dominio 162

Capitolo 11Positivismo giuridico, irrazionalismo e più recenti teorie del potere1. L’idea di potere del positivismo giuridico: l’analisi di H. Kelsen 1652. L’irrazionalismo del XX secolo, padrino di brutali forme di potere 167

a) Una prima rottura: la teoria della classe eletta di G. Mosca 167b) V. Pareto, O. Spengler, M. Weber e il trionfo dell’irrazionalismo nella teoria sociale 170c) Il decisionismo di C. Schmitt 172d) L’epilogo totalitario 175

3. Le posizioni più avanzate del dibattito sul potere: Hayek e Pellicani 177a) F. A Hayek sui limiti del potere 177 b) Il problema del potere nell’analisi di L. Pellicani 181

4. Considerazioni conclusive. Il potere-dominio quale principale nemico della pace e degli equilibri ecologici 185

Capitolo 12Tre principi fondamentali sull’organizzazione dei sistemi sociali che sono offuscati dai metodi osservativo-sperimentale e/o della razionalità astratta 187

Conclusione della terza parte 192

Appendice: Una grande opportunità e un grandissimo pericolo per laChiesa di Roma

Bibliografia degli autori citati 194

Indice dei nomi 197

Indice generale 201

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