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Michele Tanno Achille Porfirio Assalto dei briganti a San Biase e dintorni

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Michele Tanno Achille Porfirio

Assalto dei brigantia San Biase e dintorni

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Gli autori ringraziano per la collaborazione:Francesco Novelli di CampobassoAntonio Romano di LimosanoNicola Romano di Limosano

Domenico Foligno di Sant’Angelo LimosanoD. Vladimiro Porfirio parroco di San Biase

D. Nico De Candia parroco di Sant’Angelo LimosanoP. Madanu Joseph Kiran parroco di Lucito.

Ringraziamo inoltre tutti i dirigenti e impiegati dell’Archivio di Stato di Campobasso per la disponibilità e cortesia

avute durante il lavoro di ricerca e consultazione degli atti e documenti vari archivistici.

In copertinaNicola Romano, Piazza Roma - San Biasechina e acquerello su tela, 50x70, 1975

FotoMichele Tanno

Proprietà letteraria riservata© 2014 Michele Tanno, Achille Porfirio

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L’Amministrazione comunale di San Biase da sempre ha sentitola necessità di costruire un filo conduttore che mettesse in rela-zione gli usi e i costumi della nostra realtà con i trascorsi storiciche hanno coinvolto le genti e il territorio. Infatti la comunità sanbiasese ha visssuto alcune vicende stori-

che che l’hanno profondamente coinvolta e plasmata fino ai giorninostri.Attraverso le pagine di questo libro si evince come il fenomeno

del brigantaggio si è sviluppato e radicato in una società pretta-mente contadina quale è la nostra.Scorrendo le righe di questo volume il lettore non solo cono-

scerà la verità storica sul fenomeno brigantaggio, con i vari ri-svolti sociali, culturali, economici e religiosi, ma rivivrà i tempi,luoghi e protagonisti del paese di appartenenza.È mio dovere ricordare che nel recente passato questa Ammi-

nistrazione ha già promosso numerose iniziative sul brigantaggiocon convegni e rappresentazioni teatrali, oltre ad aver individuatoed apposto un cippo funerario nel luogo dove per mano dei bri-ganti fu giustiziato l’ultimo barone.Con l’augurio che queste pagine possano far riscoprire nel let-

tore “un meraviglioso senso di appartenenza alla propria terra”,l’Amministrazione consegna questo libro con la convinzione e lasperanza di aver contribuito alla conoscenza delle nostre originie divenire nei secoli.Ringrazio di cuore Achille e Michele che hanno dedicato il loro

tempo alla ricerca storica e alla realizzazione del libro in formagratuita e il “Gal Molise verso il 2000” che, attraverso la misura421 “Borghi rigenerati” e l’azione 5 “Scrigni della Memoria”,ha permesso la pubblicazione di questo lavoro.

Il SindacoIsabella Di Florio

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INTRODUZIONE

Enrico IV diceva: – Io sarò contento quando potrò ottenere che l’ul-timo dei miei sudditi possa la domenica mangiare un pollo –. E noisaremo contenti quando in Italia l’ultimo degli Italiani saprà leggeree scrivere (…) l’onorevole che mi ha preceduto sostiene che l’istru-zione popolare è quasi una difesa morale della società, che l’uomoistrutto commette meno delitti. È vero; ma io aggiungerò: – Noi ab-biamo decretato la libertà in carta – Sapete, o signori, quando questalibertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effet-tivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popololibero. Chiameremo noi forse uomini liberi quei contadini ignoranti(...) tratti a reazione, ad opere crudeli di altri tempi, la cui animanon appartiene a loro? No, non sono uomini liberi costoro, la cuianima appartiene al confessore, al notaio, all’uomo di legge, al pro-prietario, a tutti quelli che hanno interesse di volgerli, d’impadro-nirsene (…)1.

Il discorso di Francesco De Sanctis riguarda la situazione poli-tica, sociale e culturale della primissima stagione del Regno d’Ita-lia (più precisamente del Regno di Sardegna), appena all’indomanidel processo plebiscitario – 11/12 marzo 1860 – che portava le po-polazioni dell’Italia centrale all’annessione al Regno di Sardegnasotto la monarchia di casa Savoia.La prolusione desanctisiana, tenuta nel corso dei lavori parla-

mentari in seno al primo Parlamento nazionale nella capitale delRegno a Torino, riguarda il mondo oppresso dei contadini da sem-pre emarginati da politiche feudali di giogo soffocante e di sogge-zione dolorosa (in particolare nel Regno delle Due Sicilie).

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1 Dal discorso di F. De Sanctis, Ministro della Pubblica Istruzione del Regnod’Italia, il 13 aprile 1860, sotto il “nuovo” governo di Cavour, in risposta ad unainterpellanza parlamentare dei deputati Alfieri e Tommasi sull’ordinamento bu-rocratico e amministrativo dell’istruzione secondaria – in R. Ceserani – L. DeFedericis, “Il materiale e l’immaginario”, vol. 7, Loescher Editore, To, Ia edi-zione, 1981, pag. 507).

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Tuttavia, ci sono degli elementi – come quelli che attengono allaformazione culturale dei giovani e all’educazione del popolo allacondivisione collettiva dei problemi – che, se fossero stati concre-tamente avviati già dalle stagioni delle riforme volute dalla dina-stia borbonica e dalle anticipazioni concettuali e ideologichedell’età illuministica napoletana2, probabilmente avrebbero age-volato le classi subalterne a predisporre e pianificare strategie chenon le avrebbero fatte sprofondare nel fossato dell’inefficace ocontroproducente ribellismo brigantesco, alla lunga dimostratosiesiziale per la stessa classe sociale popolare, anche a causa dellaestraneità della borghesia a questa lotta. Infatti, seguirono pesanti limitazioni delle libertà collettive e in-

dividuali tali da prefigurare condizioni di vita molto più disagiate,per le quali l’universo contadino ribadiva con maggiore forza larichiesta di giustizia sociale, di libertà dai bisogni, di distribuzionedelle terre signorili a quanti già le coltivavano o avevano l’inten-zione di utilizzarle per costruirsi un’esistenza veramente dignitosa. Ma la Storia non tiene conto, come è giusto che sia, dei “se” o

dei “ma”: essa si attiene alla lettura e alla interpretazione rigorosadegli avvenimenti, che debbono apparire esemplari e tali da favorirela costruzione di quei presupposti socio-politici da cui far scaturireun processo di modificazione radicale dei rapporti di classe, comepure una altrettanto grandiosa stagione di riforme con al centro lerichieste di giustizia sociale e di libertà per le classi meno abbienti. Le vicende raccontate nell’Assalto dei briganti a San Biase e

dintorni di Michele Tanno e Achille Porfirio si svolgono sia lungol’anno 1809, età nella quale l’Europa è dominata dalla Francia bo-napartista, sia negli anni appena successivi al 1860, confine storicodel processo unitario italiano, in cui il fenomeno del brigantaggioesplose in tutta la sua durezza fino alla sua penosa conclusione

2 (Pensiamo, per esempio, a Giuseppe Maria Galanti, autore della Descrizionedelle Due Sicilie dove lo studioso illuminista descrive il quadro critico più com-pleto delle sopravvivenze feudali del Regno napoletano; lui, Galanti, molto vi-cino ai contadini e profondamente convinto che il miglioramento delle loromisere condizioni di vita fosse un elemento di giustizia sociale).

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negli anni sessanta del XIX, con migliaia di morti e feriti (il capi-tolo Repressione del brigantaggio è molto significativo sotto que-sto aspetto).Grazie ai successi militari francesi degli anni 1805/1809, che si

arrestano soltanto ai confini della Russia, tutta l’Italia, con l’esclu-sione delle isole, passa sotto il dominio francese e il Napoletano,cacciati i Borboni nel 1806, viene affidato da Bonaparte al fratelloGiuseppe. I sovrani borbonici si rifugiano in Sicilia, sotto la prote-zione inglese, tentando da qui di suscitare un’insurrezione popolareantifrancese, come quella sanfedista del 1799, che sarà alimentataquasi subito da vasti sussulti di brigantaggio, che, sostenuti dagli in-glesi e dalla popolazione contadina, ha dato indubbiamente moltofilo da torcere alle truppe francesi.Un esempio di questo atteggiamento ci viene offerto fin dalle

prime pagine del saggio storico di Tanno e Porfirio, e precisamentenel capitolo Primi briganti a San Biase, dove gli autori si soffer-mano sulle imprese brigantesche della banda di Fulvio Quici con-tro i giacobini di Trivento. In effetti, si stava verificando quelloche già molti, (sia intellettuali borghesi, di cui un numero non esi-guo esprimeva condivisione con le idee giacobine, sia l’arcipelagocontadino, soffocato dalla povertà e dalle angherie dei ricchi) pa-ventavano con sgomento e cioè la sostituzione di un ceto baronalecon un altro “padronale”, filo giacobino, entrambi, anche se conmodi differenti, antagonisti e ostili alle masse popolari. In effetti, come già allora molti, intellettuali e non, supponevano

che l’alleanza dei cosiddetti “galantuomini” borghesi coi francesigiacobini era determinata dalla volontà di cambiare le cose masolo in apparenza, e questo proprio per non cambiare nulla. Ai vecchi oppressori feudali dell’ancien régime si stava sosti-

tuendo una nuova classe sociale, la borghesia pre-risorgimentalee carbonara, in gran parte ostile ai progetti sociali di modifica-zione dei rapporti di classe e alle speranze utopiche delle massepopolari. Ecco, dunque, la ragione per la quale la dinastia borbo-nica napoletana si è avvalsa delle bande brigantesche per la ripresadel controllo sociale e politico sul territorio. Ma c’è da sempre –e lo dobbiamo constatare con amarezza – anche un altro alleato

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tanto del ceto aristocratico/agrario, quanto dei briganti contro ilnuovo ordine rivoluzionario-giacobino, e cioè settori della Chiesalegata da secoli ai propri privilegi sociali, non disposta a cedereposizioni di prestigio, non propensa a rinunciare a comportamentichiaramente lesivi della dignità popolare o a non abdicare a quelleforme di prepotenza verso deboli o l’universo femminile. Sottoquesto aspetto appare esemplare la vicenda dell’arciprete di Pie-tracupa fa ammazzare un giovane, Giovanni, fratello della ragazzache il sacerdote tiene nella sua abitazione come addetta ai lavoridomestici, ma che tutti sapevano essere costretta a stare con lui incasa per ben altri scopi…Dunque, la Chiesa e il ceto feudale/notabiliare sono avversi alle

modificazioni della Storia in questa lunga stagione di sofferenze,di soprusi, di atroci delusioni sociali.È vero che i movimenti popolari del 1789/94 e lo sbocco repub-

blicano degli anni della Rivoluzione francese hanno aperto gli occhia tutti i sovrani illuminati. È altrettanto vero che le riforme nonavrebbero rafforzato le monarchie assolute; che i processi riformisticiavrebbero messo in moto meccanismi che i sovrani non sarebberostati in condizione di controllare; soprattutto l’ingresso delle massepopolari incuteva spavento al ceto dominante. Ma è altrettanto veroche le esasperazioni rivoluzionarie e le divisioni profonde fra i fau-tori del cambiamento radicale del quadro politico tradizionale hannofavorito la reazione dei ceti passatisti, causando la sconfitta parzialee temporanea del giacobinismo e la ripresa delle politiche oppressivee antipopolari.Non è un caso che il popolo minuto abbia parlato di queste vi-

cende storiche celebrandole o criticandole aspramente nelle formeessenziali della produzione culturale di quegli anni, assegnandoanche al canto e alla musica la testimonianza della propria delu-sione e della propria rabbia antiborghese e antirivoluzionaria. Infatti, canti popolari come i seguenti sono la riprova chiaris-

sima della delusione profonda delle masse popolari, la cui voce ipoeti e i cantori di “strada” hanno raccolto con tempestività e senzapersonali manomissioni ideologiche:

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A lu suono della gran casciaA lu suono della gran casciaviva sempre lo populo bascio,a lu suono de li tammurielliso risuorte li puverielle.

A lu suono de le campaneviva viva li populane,a lu suono di li viulinisempre morte a’ giacobini.

oppure la canzone sempre d’impianto sanfedista e antigiacobino:

È venuto lo papa santuÈ venuto lo papa santu,ch’ha portato li cannoncinip’ammazza li giacobini; et voilà et voilà,cauci in culu a li libbertà.

È venuto lo franceseco no mazzo de’ carte ‘mmano:liberté, égalité, fraternité,tu rubbi a me, io rubbo a te.3

A questo punto è il momento di chiederci se l’amara esperienzadel brigantaggio molisano, di cui gli autori del saggio scrivono inmodo chiaro e che attraversa i decenni fino alla conclusione dolo-rosa della sua esperienza “sovversiva”, ci comunichi oggi qualcosadi rilevante e che riflessioni ci spinga necessariamente a fare. Dobbiamo come prima cosa sottolineare e confermare che le

condizioni sociali dalle quali i briganti hanno preso le mosse perle loro amare e violente esperienze sono quelle di estrema povertà

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3 Canzoni anonime in a cura di Giuseppe Vettori, Canzoni italiane di protesta,1794/1974, dalla Rivoluzione francese alla repressione cilena”, Edizioni Pa-perbacks poeti 26, Newton Compton, Editori, Roma, marzo 1976, pp. 54-56.

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e di assenza quasi totale di educazione culturale. Se alla povertàindividuale e delle proprie famiglie si aggiungono le sofferenze diclasse, se poi sono presenti condizioni di assenza di scolarizza-zione anche primaria, allora in genere si possono verificare tuttequelle condizioni che spingono i ceti non abbienti alla pratica dellasola violenza sopraffattrice. I briganti molisani del XIX secolo – al di là delle stagioni della

loro dura protesta – sono in ogni caso accomunati dall’estrema pre-carietà delle loro esistenze, alla quale essi danno risposte che riguar-dano e coinvolgono direttamente i canali della prevaricazione, moltospesso irrazionale e non suffragata da una lettura politica delle di-versità di classe, delle sopraffazioni che i ceti dirigenti perpetrano aidanni delle classi non abbienti. Oggi la povertà, che sta coinvolgendomilioni e milioni di individui, in Europa e nel resto del mondo, acausa delle politiche di austerità che il capitale internazionale e la fi-nanza privata impongono alle comunità nazionali e ai loro organipolitici, non fa altro che acuire e aggravare sia il dislivello socialefra le classi sociali (gli estremamente poveri e gli abnormemente ric-chi e agiati), sia le tipologie di contrasto ai ceti ricchi, fautori dellaglobalizzazione, che vanno dal terrorismo internazionale alle con-trapposizioni di frange spesso molto aggressive e interne ai singolistati, dove le prevaricazioni e gli odi sono infinitamente acuiti daqueste condizioni di diseguaglianza e di ingiustizie.Quello che è stato il brigantaggio nell’età risorgimentale oggi

si può presentare in vesti differenti ma la sua ponderosa pericolo-sità e il suo significato non cambiano: ai ricchi e ai soprusi assurdidella politica istituzionale corrispondono l’odio e l’avversionedelle classi che soffrono la crisi e di cui queste non vedono la con-clusione.Come si manifesta oggi il disagio sociale? Questo si rivela at-

traverso la rivolta degli immigrati (ricordiamoci della loro atrocesofferenza e della loro penosa emarginazione, ridotti in condizionedi schiavitù e ribellatisi nella città di Rosarno), emarginati e addi-tati come estranei, che potrebbero concorrere alla distruzione deltessuto sociale nazionale. Inoltre, esso si rivela anche attraversouna aggregazione più consistentemente matura che spinge gli

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stessi italiani ad azioni di protesta energica e costante contro il po-tere, cieco e egoista nella difesa dei propri privilegi e della propriaarroganza di classe.La rabbia e la violenza – atteggiamenti contigui alla prepotenza e

alle angherie dei briganti “non politicizzati”, che sono stati percen-tualmente in numero chiaramente maggiore negli anni che hannopreceduto il 1860/1870 – possono essere regolate dalla educazioneculturale di cui le popolazioni debbono riappropriarsi per un cam-mino comune e condiviso che tralasci la rude esplosione di una purlegittima avversione.Oggi, in epoca postmoderna, con l’affermazione del neoliberi-

smo, con gli attacchi pervicaci di gruppi di speculatori finanziarialle autonomie nazionali dei paesi della UE, alle condizioni di vitadelle popolazioni europee, di cui ampi settori scivolano lentamentenella povertà, la rivoluzione consiste nel rispetto e nella quotidianaapplicazione della Costituzione, il cui impianto politico e concet-tuale raffigura e contiene quanto può servire per ridefinire i ter-mini della solidarietà, della eguaglianza di tutti i cittadini dinanzialla legge, della partecipazione responsabile alle dinamiche socialidel paese.Di qui, la magistrale lezione dei nostri Maestri torna ad arric-

chire la Storia e ad essere di stimolo per le popolazioni di ciascunpaese.

Franco Novelli

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Omnes qui gaudetis de pace, modo rectus iudicate(Sant’Agostino)

1983: Achille Porfirio e Michele Tanno sul percorso dei briganti

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SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIO

Nascita del banditismoNelle contrade di San Biase e dintorni i primi episodi di brigan-

taggio, attestati con documenti storici, risalgono agli anni antece-denti alla Rivoluzione Francese. Tuttavia, essi si possono farricondurre a semplici atti di malandrinaggio come furti di be-stiame, ruberie di oggetti o utensili agricoli, derrate o altro genere,con sporadiche azioni sanguinarie, non già a stragi o ad atti terro-ristici premeditati su persone.Con riferimento ai soli paesi del circondario, ci risulta che in-

torno al 1792, era attivo a Trivento e nei paraggi il figlio del capi-tano Landi, un certo Francesco, il quale, alla testa di un gruppo dicongiunti, combinava ogni sorta di violenza a carico delle famigliebenestanti locali che, per timore di ricatto e di scandalo, tenevanocelati tutti gli abusi subiti.Più o meno nello stesso periodo, un tale Fulvio Quici, giovane

furfante triventino cresciuto in un ambiente familiare di ladri e mal-fattori, compiva le prime sortite sulle strade e nei boschi. Nellanotte del 31 luglio del 1792, appena sedicenne, in contrada Casta-gna del luogo assaltò un Procaccia1, detto da noi Cavallaro dellaPosta – ovvero un messo pubblico a cavallo che aveva il compito

1Lunedì 31 luglio 1792, sul luogo detto La Castagna, lungo la strada regia,la banda attese il Carraggio del Procaccia, formato da 8 muli e scortato da 4gendarmi. Il convoglio fu fermato da Samuele Quici che, con l’aiuto del nipotee degli altri, fece sdraiare faccia a terra tutta la scorta e poi saccheggiò i mulicarichi di corrispondenza e valuta.Il gruppo era composto, oltre che di Fulvio Quici e dello zio Samuele, dagli

affini Vincenzo Scarano alias Marrano, Saverio Berardinelli, Policarpo Scarano.Inoltre ne facevano parte Giovanni Giribaldi, Giovanni della Vecchia, GirolamoMuccilli, Benedetto Giribaldi e Cipriano Giribaldi di Spinete e Pasquale Cen-trella di Casalciprano.Alla taverna della Cercogliola di Ripalimosani si unirono a loro altri dodici

fuorilegge detti tagliole di Campobasso.

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di consegnare a domicilio messaggi, lettere, documenti e valute –mentre da Campobasso si recava scortato in direzione di Napoli.Quici e lo zio Samuele lo attesero al varco e, mediante l’aiuto dialtri complici, con un blitz lo derubarono.Il rischio dell’assalto ai Procaccia e ai tanti mercanti e vian-

danti, che erano costretti a passare per le vie mal sicure del Con-tado di Molise, costituiva in quel tempo un freno alla circolazioneassai grave e frequente. Spesso il commercio delle merci e il traf-fico dei prodotti e degli animali erano ostacolati o, in ogni modo,condizionati da queste aggressioni. Il fenomeno del brigantaggio, in forma organizzata e diffusa,

composto di comitive al cui vertice era eletto un capo più abile espietato, nelle nostre parti nasce con la Rivoluzione Napoletanadel 1799. A spingere, almeno inizialmente, alcuni soggetti ribellia darsi alla vita clandestina era perlopiù lo spirito di rivolta controle iniquità e i tanti torti patiti. Ma non mancavano, poi, casi di de-linquenti comuni, di disertori delle guardie civiche o di semplicicontadini e pastori che, per sfuggire alla giustizia, si camuffavanoda briganti. In ogni caso, questi, una volta entrati in comitive,erano costretti a rimanerci, pena la loro soppressione fisica. Il territorio circostante, che ognuno di questi individui cono-

sceva molto bene, per la presenza di scorciatoie, guadi, anfratti,rocce, caverne, boschi fitti e siti elevati di osservazione, costituivaper le loro imprese criminose un luogo sicuro per operare e un la-birinto per quelli che dovevano inseguirli e catturarli. Oltretutto, coperti dall’omertà di buona parte della popolazione

o, addirittura, dal tacito consenso di diversi protettori, e rifornitidi notizie e di viveri dai propri familiari e parenti, essi si trovavanonelle condizioni più favorevoli per sferrare attacchi a sorpresa eritirate precipitose dopo ogni loro misfatto. La massa del popolo di ogni località, non avendo alcuna prote-

zione da parte delle forze di potere e atterrita dalle minacce deibriganti, si rinchiudeva nel silenzio e, quindi, era restia a qualsiasiforma di collaborazione con le autorità costituite. La rete di spio-naggio e d’informatori era talmente ramificata tra la gente che ogniminima segnalazione agli organi pubblici a scapito dei briganti su-

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bito giungeva all’orecchio di costoro… e la vendetta scattava ine-sorabile sul traditore!Il governo cercò d’intervenire alla meglio con leggi e pramma-

tiche a difesa della gente per proteggere la sicurezza delle strade edel commercio. Ma a dispetto di ogni costrizione su congiunti eparenti, sotto minaccia di pene, patibolo o promesse di sostanzioseofferte di taglie a chi forniva notizie o semplici indizi sul conto delricercato, i vari delegati e organi di comando non riuscirono mini-mamente a incidere sul muro della reticenza generale. Essi potevano solo avvertire chi si metteva in viaggio per affari

urgenti di munirsi di armi e di spostarsi uniti e sotto scorta. Anche alcuni preti e monaci si prestavano al manutengolismo e

molte volte offrivano asilo ai briganti nelle chiese e nei conventi. Altri, fedeli alla Corona, e in particolare al cardinale Ruffo che

si mise a capo dei realisti, si limitavano a predicare ai parrocchiani,dal pulpito delle chiese, l’odio e la vendetta contro il solo invasoregiacobino anticlericale.La plebe, immersa nella miseria, nell’ignoranza e nella super-

stizione, schiacciata altresì dal lungo dominio feudale e bistrattatadal nascente avido ceto borghese, oltre che incompresa dall’ordinesacerdotale secolare, conservatore e sottomesso al regime, vedeva

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Rudere Forno dei Briganti, Bosco Pietravalle - Salcito

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in qualche modo nella figura del brigante il vendicatore dei torti edelle angustie lungamente subiti. Essa, perciò, stava tacitamentedalla loro parte.

Primi briganti di San BiaseA San Biase le prime notizie attendibili sugli individui che si

diedero “alla macchia” o che, comunque, stabilirono stretti rap-porti di connivenza con le comitive brigantesche agenti nei paraggie aventi i covi principali nei boschi vicini di Pietravalle e di Tri-vento, rimontano anch’esse al 1799. I primi sanbiasesi coinvolti nelle azioni banditesche furono Mo-

destino Marchetta, Francesco Marchetta, Giuseppe Mattiacci, Ge-sualdo Giagnacovo, Costanzo Perrino e Giuseppe Ziccardi.Chi erano costoro e perché vollero o furono costretti a seguire

questa vita spericolata e vagabonda? I documenti d’archivio con-sultati ci attestano che Modestino Marchetta esercitava l’attivitàdi viaticale2, vale a dire di mulattiere e postiglione e, perciò, re-candosi di continuo con le sue “vetture” animali nei paesi vicini elontani per il trasporto di merce e di vari oggetti o per le amba-sciate, onde avere le spalle coperte, doveva mantenere per forzacon i briganti buone relazioni, rifornendo loro spesso viveri e no-tizie utili. Francesco Marchetta, Giuseppe Mattiacci e CostanzoPerrino erano semplici bracciali e si spostavano da una localitàall’altra, anche lontane da San Biase, per lavorare in campagna,nel bosco o per altri affari.Questi, essendo nullatenenti e non avendo quindi niente da per-

dere, erano spesso in giro in cerca di ventura e di espedienti. Durante questi movimenti senza dubbio avevano avuto modo

di conoscere, prendere contatto e fare breccia in qualche manieracon le compagnie di banditi costituite e operanti nei dintorni.Gesualdo Giagnacovo era stato fornaio e aveva svolto anche

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2 L’ultimo viaticale di San Biase è stato Antonio Di Luco, scomparso nel1966.

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l’incarico di caporale del corpo di Guardia Civica della corte ba-ronale e, pertanto, particolarmente esperto nel maneggiare le armie nell’arte militare. Per queste sue attitudini ed esperienze doveva essere assai ri-

chiesto dai gruppi eversivi organizzati in loco. Giuseppe Ziccardi era boscaiolo e vetturale e, quindi, occupato

al taglio, trasporto di legna e carbone tra le varie contrade e paesi.Anche lui, per questo mestiere, era in stretta relazione con i briganti.Costoro erano stati tra i primi a rivendicare e occupare le terre

disboscate indebitamente dal barone per metterle a coltura.Le loro azioni malavitose, da quanto si evince dagli atti giudiziari,

non erano rivolte tanto al ladrocinio puro e semplice ma ispiratepiuttosto a contrastare le recenti malversazioni degli speculatori lo-cali e a contrapporsi alle antiche e nuove usurpazioni e angherie ba-ronali. Gli ultimi avvenimenti militari e sociali avevano accentuato an-

cora di più in loro la diffidenza nei riguardi di questi opportunisti,votati ormai tutti insieme, per spudorata convenienza, ai nuovi orien-tamenti politici. Questi soggetti ribelli, infatti, durante la RivoluzioneNapoletana del 1799, erano stati a capo del movimento di reazionepopolare contro il giacobinismo più sfrenato dei Francesi.“Giacobino” dicevano a tutti “è chi tiene pane e vino”! Essi avevano avuto subito il sospetto che le Armi transalpine

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Veduta contrada Codacchio - Trivento

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fossero entrate nel Regno di Napoli per appoggiare i cosiddetti“galantuomini” e i più abbienti al fine di formare, a loro discapito,una nuova classe di dominatori. Un tale presentimento era stato confermato dal voltafaccia av-

venuto, di fatto, in alcune persone del posto più agiate, come ilmedico Nicola De Paola, il chirurgo Pasquale Giagnacovo, l’era-rio di corte Eduardo Continelli, lo speziale Modesto Marini, il

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Orrido sul Quirino - Guardiaregia

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luogotenente Michelangelo Marino e altre a queste più vicine. Questi notabili, che durante le precedenti lotte antifeudali per il

riscatto sociale e per la conquista delle terre erano stati a loro fiancoa rivendicare i comuni diritti, ora avevano tradito la loro fiducia,passando dall’altra parte della barricata e appoggiando addiritturail “partito” del barone il quale era stato il primo a convertirsi al gia-cobinismo. Quando questi esponenti più avveduti e risentiti del popolino si

resero conto fino in fondo di essere stati ingannati proprio dalle fa-miglie “dabbene”, si congiunsero a quei focolai d’insorgenti o dibande armate che, accesi da un misto di spirito di patriottismo ed’avventura o da semplici istinti di fuorilegge, sorgevano e si mol-tiplicavano in molte località protette e impervie del Contado di Mo-lise. Questa comitiva di sediziosi paesani, sfiduciata anche neiconfronti del governo borbonico che non era stato in grado di ve-nire incontro alle loro urgenti aspettative, si era mossa di propriainiziativa e unita alle altre compagini già formate del posto per farsigiustizia da sé, secondo un principio più che altro anarcoide alloranascente, mentre il resto della popolazione era rimasta leale allamonarchia borbonica.Durante i disordini della Rivoluzione essi avevano partecipato

a molte imprese criminose, assaltando e saccheggiando diversecase di possidenti dei paesi vicini. Nella pubblica accusa mossa, poi, contro di loro dal giudice Mi-

cheletti, così è trascritto:

Nel mille settecento novantanove foste gli autori di tutt’i mali diquel Paese. Dopo l’entrata delle armi Francesi, voi tutti uniti prin-cipiaste a spargere notizie allarmanti contro lo Stato, machinavatela uccisione de’ Galantuomini, ed il saccheggio delle loro case. Levostre proposizioni crebbero dopo il dì ventinove Maggio, che cifu l’attacco tra la Guardia Civica di Triventi, ed una comitiva diBriganti. Perché morirono molti della Guardia civica, voi aperta-mente sparlavate, e minacciavate, gloriandovi dell’eccidio. Avrestemandato in effetto le vostre machinazioni, se non fosse venuta atempo la truppa francese. Vi portavate ben due volte al giorno nel bosco di Triventi detto di

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Pietravalle colà confabulavate co’ briganti, e quindi ritornando alpaese spargevate delle notizie allarmanti; e tra l’altro un giorno nelritirarvi dalla campagna, diceste in pubblico, che i briganti volevanoinvadere la Terra di San Biase, ed andavate persuadendo la gente,che l’avessero ubbiditi; ed altre cose, che si ravvisano da un pro-cesso verbale formato contro di voi.

La loro partecipazione ai tumulti nel maggio 1799 contro i gia-cobini di Trivento, tra le file della banda capeggiata da Fulvio Quici,è provata da alcune testimonianze rilasciate negli atti giudiziari enelle cronache del giornale repubblicano dell’epoca, il Monitore.In seguito a questi eccessi, i patrioti triventini chiesero aiuto al

comandante delle milizie Valiante e al commissario di DipartimentoNeri. Questi incaricati, che erano in continuo movimento con leforze repubblicane per inseguire e ridurre a partito i rivoltosi di moltipaesi, insorti contro il nuovo stato delle cose, organizzarono unaspedizione armata da portarsi verso Trivento e dintorni a sedare lareazione fomentata dai realisti e dai briganti. Neri partì da Campobasso il 7 maggio di quell’anno con una

truppa di circa 200 soldati francesi e polacchi e con 20 cavalli. A Limosano, dove fecero sosta, si unirono altri 700 volontari che

accorsero da diverse parti. Il plotone che si formò fu diviso dal Neriin due corpi: uno di questi, guidato dal transalpino Perruset, si di-resse verso San Biase, e l’altro sotto il comando dello stesso Neri,prese per Civita con l’intesa che ciascun raggruppamento, nellamattina del 10, si sarebbe mosso in pari tempo per Trivento.Il corpo militare che giunse a San Biase, composto di circa 150

unità, si fermò nella vicina località di S. Leonardo dove rimase ac-campato per due giorni e tre notti. Qui i ribelli al governo franceseerano tutti scappati o uniti a quelli che infuriavano a Trivento,mentre i pochi pacati repubblicani si fecero avanti e si misero adisposizione dei nuovi arrivati.Nel tardo pomeriggio del 9 fu mandato colà, su comando del

capo della truppa, un messo, tale Germano Ciccarella, giovane diventuno anni di San Biase, con l’urgente ambasciata di far cessaresubito ogni eccesso e rimettersi all’ordine costituito.

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La stessa sera giunse a Trivento anche un altro giovane di Ac-quaviva partito da Civita con lo stesso ordine. I due sventurati, capitati proprio al culmine della reazione, non

solo non furono ascoltati ma, senza alcuna colpa, barbaramentefucilati al momento dalla cieca furia degli insorti.I miseri corpi furono buttati e ricoperti in una fossa scavata nel

luogo detto lo Piano.La mattina del 10, dopo aver atteso invano tutta la notte il ritorno

dei due poveretti, le truppe, come d’accordo, si mossero in con-temporanea per Trivento. Prima di giungere a destinazione, Nerimandò un ultimatum ai sovversivi con l’ordine immediato d’arren-dersi e deporre le armi. Questi, che già avevano condotto altri pa-trioti al Piano per l’esecuzione, tra cui tre fratelli, Francesco,Nazario e Giovanni Porfilio (il cui cognome nel 1824 fu cambiatoin Porfirio), nello scorgere l’avvicinarsi della colonna della forzaarmata francese, si diedero alla fuga giù per il dirupo della Torretta. L’intera soldatesca poté così entrare a Trivento accolta da una

processione di gente che, secondo la descrizione del Monitore

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Sajettere nella Torre dei Briganti - Contrada La Torre San Biase

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avanzava “preceduta dal Clero, col Sacramento e le statue dei suoiSanti”. Neri, che si trattenne poco sul posto per correre altrove adifendere altri assalti, con il consenso dei capi della municipalità,fece condannare lo stesso giorno alla fucilazione, previa confes-sione, due briganti che, intrappolati e accusati dalla folla furibonda,nonostante avessero volontariamente ceduto le armi, non riuscironoa salvare la pelle: tale Pietrantonio Coletta di Trivento e un certoCarmine di Michele Fiore di San Biase. Ma l’impresa più temeraria concertata da Modestino Marchetta

e compagni fu il rapimento del barone Francesco. Appena dopo la caduta della “sedicente” Repubblica Napole-

tana, nel giugno del 1799, al culmine della sollevazione e dellapresa di potere popolare, questo gruppo, in collaborazione con unabanda locale di ribelli e in una circostanza che non ci è nota, riuscìa catturare Francesco e ad arrestarlo.A riferirci dell’accaduto è il fratello del barone, Carlo De Bla-

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Morgia dei Briganti - Salcito

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siis, il quale nel “Foglio dei Lumi” compilato e presentato ai giu-dici del processo – che sarà poi svolto nel 1809 per l’uccisione diFrancesco – riportò che “il Conte di S. Biase come uomo attaccatoal Governo Francese fin dal 1799 fu perseguitato dagli Anarchistidi quel luogo, avendolo fin carcerato e condotto in Triventi in quel-l’epoca funesta delle popolari carcerazioni”. Gli “Anarchisti di quel luogo” erano proprio Modestino Mar-

chetta e compagni! Il barone, a ogni buon conto, quella volta sisalvò dalla forca, perché fu subito soccorso dal cugino Cardoneche, versando un riscatto agli aguzzini, riuscì a liberarlo e a ripor-tarlo al sicuro tra le mura del suo castello di Castelbottaccio.

Fatti avvenuti di seguitoCon il ritorno al trono del re Ferdinando IV e la restaurazione

della monarchia borbonica seguì ovunque una sanguinosa repres-sione a carico dei repubblicani e in generale di quella classe di ga-lantuomini che si era messa a capo del movimento riformatore,con arresti, confische dei beni, esili e condanne alla decapitazione.Il barone di San Biase, benché avesse sobillato il popolo a in-

nalzare l’Albero della Libertà3 in piazza e costretto gli ammini-stratori comunali a riconoscere il nuovo Stato repubblicano, riuscìa scampare per puro caso ogni pena e rimase perciò indisturbatonel palazzo del cugino Cardone. Anche quei pochi notabili delluogo che si erano votati al nuovo governo, per quanto ne sap-piamo, non subirono alcuna conseguenza. I briganti di San Biase, delusi come gli altri delle località limi-

trofe per non essere stati in qualche modo ricambiati dai Borboniper l’azione di resistenza svolta a loro favore, tornarono alle propriecase. La maggioranza degli abitanti li accolse come veri paladini.Molte turbe brigantesche rimasero comunque nei paraggi a con-

tinuare, anzi, inasprire le loro azioni nefande per solo istinto bruto

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3 L’Albero della Libertà era un comune albero di quercia o di pioppo che sipiantava nella piazza principale del paese. Esso, adornato di fiori e fettucce tri-colori, denotava il potere libero del popolo.

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di predoni e violentatori piuttosto che come difensori del sovranolegittimo.Nel 1805, e precisamente la sera del 26 luglio, un disastroso ter-

remoto, avvenuto nella parte centrale del Contado, distrusse moltecase di San Biase.Ma quell’anno, oltre che per il terribile sisma, deve essere ri-

cordato anche per un grave fatto di violenza successo a San Biase.Il 18 dicembre, infatti, una banda di briganti, sicuramente con

la complicità di qualche spia del posto, uscì dai boschi vicini efece irruzione nel borgo, assaltando alcune case di possidenti delluogo tra cui quella di Michelangelo Marino, allora cancelliere earchiviario di documenti amministrativi dell’Università.L’azione aveva, presumibilmente, il solo scopo di derubare o

d’estorcere denaro ai più facoltosi come Nicola De Paola, EduardoContinelli e altri.Marino, che reagì con le armi, anche in qualità di ufficiale Luo-

gotenente della corte locale, fu freddato dai banditi con più colpidi scoppette. I briganti, com’erano soliti comportarsi con chi ardiva e ordiva

contro di loro, non appagati dall’assassinio e saccheggio compiuti,infierirono sulla povera vittima e appiccarono il fuoco alla sua abi-tazione. Le fiamme, oltre che distruggere i suppellettili e gli oggetti per-

sonali, bruciarono buona parte degli atti, registri e carte varie delledeliberazioni del parlamento, custoditi presso l’archivio di casa.Con questo attentato iniziò una nuova fase di gravi turbamenti

e oltraggi ai galantuomini che, di conseguenza, disturbò anche laquiete pubblica del posto. La perdita di una persona stimata che si era battuta contro i so-

prusi baronali e che aveva sostenuta la causa del popolo, come Mi-chelangelo Marino, lasciò buona parte della cittadinanza in unaprofonda costernazione. Nel rogo andarono in fumo tante documentazioni e decreti ri-

cevuti dal sovrano Consiglio, di capitale importanza ai fini del pro-sieguo della causa in corso con il barone. La distruzione di questi importanti carteggi comportò all’Am-

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ministrazione comunale di San Biase, oltre che maggiori oneri fi-nanziari, ulteriori ritardi per la risoluzione dei capi di gravami con-testati dalla popolazione.Nella primavera del 1807, a un anno dalla riconquista del Regno

di Napoli da parte dell’esercito di Napoleone, Francesco, forte dellanomina di “Incaricato di Polizia” appena ricevuta dalla costituendaIntendenza di Campobasso e in più con il dente avvelenato del vec-chio cane di casa ferito, accompagnato da alcuni fedeli armigeri,ritornò a San Biase. Nel suo palazzo, anche se spogliato dei benifeudali e del titolo baronale, l’ex signore del borgo mise in praticala vendetta da lungo tempo covata, facendo subito arrestare queifacinorosi anarchici locali che lo avevano preso di mira e fatto pri-gioniero nel 1799. Aveva in quei giorni predisposto, d’accordo conle autorità giudiziarie di Trivento e Campobasso, le operazioni diarresto e traduzione in galera dei singoli ribelli: l’accusa sarebbestata per ciascuno di delitti di brigantaggio e di altri reati.Una sera del mese di giugno di quell’anno, all’ora della cena,

un corpo di guardia civica composto di gendarmi di San Biase eSant’Angelo fece irruzione simultaneamente nelle abitazioni diGesualdo Giagnacovo, Francesco Marchetta e Giuseppe Ziccardi,i quali furono ammanettati e condotti direttamente nelle carceri di

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Veduta valle del Rio - San Biase - Trivento

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Campobasso. Questa retata di catture eseguita dalla forza pubblicafu subito avvertita dai cittadini come una rappresaglia orchestratadall’ex barone. Il successivo 27 luglio, nel tardo pomeriggio, Fran-cesco in persona, ormai uscito allo scoperto quale incaricato dipubblica sicurezza, con due gendarmi al fianco entrò di forza nellacasa di Costanzo Perrino facendolo imprigionare. Per una notte lotrattenne nel carcere del palazzo e il giorno dopo lo fece trasportarein quello di Trivento. Il 29 dello stesso mese, alla stessa ora e conla stessa guardia civica, s’introdusse nell’abitazione di GiuseppeMattiacci e condusse anche lui nella cella del carcere. Poi seguì lastessa sorte degli altri.Infine, nel mese di agosto, riuscì a catturare l’inafferrabile via-

ticaleModestino Marchetta. Costui sorpreso a mezzogiorno nellapropria abitazione, fu prima trattenuto nel carcere locale e succes-sivamente tradotto in quello di Campobasso. Con l’arresto del Marchetta si completò il piano di ripulitura

messo in atto da Francesco contro quegli individui tacciati dallostesso e dal ceto benestante come “cervelli torbidi” della comunità.La cattura e la prigionia di tali soggetti oppositori al regime, con-

siderati al contrario dal popolo meschino i “beniamini” del paese,provocò in seno alle famiglie e ai parenti degli stessi una forte in-dignazione e avversione contro l’ex barone, autore sfacciato dellaspietata reazione.Ma ancora più indignazione e avversione questi provarono con-

tro l’ex feudatario, quando appresero la lunga pena detentiva com-minata ai loro cari, emessa dopo un processo sommario dascontarsi ai rigori dei “ferri”.Gli incriminati furono sottoposti al truglio4 e trasferiti prima alle

galere di Lucera e poi a quelle di Foggia. Infine, dopo qualchetempo, in quelle di massima sicurezza di Trani.I detenuti si dichiararono tutti innocenti ed estranei alle accuse

formulate contro di loro.

4 Il truglio era un procedimento penale per mezzo del quale tra il tribunale eil reo confesso o presunto si pattuiva la condanna penale o pecuniaria.

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In un successivo interrogatorio fatto a Foggia il 16 dicembre del1807 dal giudice del tribunale di Puglia, Biagio Micheletti, ognunodepose che la cagione della carcerazione era derivata

solamente per l’astio che il Barone di San Biase ha coi Cittadiniper causa del terraggio5; e che aveva esso Barone cercato addossarea taluni altri che si mostravano più risentiti nel difendere il dirittodella Cittadinanza dalle calunnie di brigantaggio.

In più, a un ulteriore capo d’imputazione mosso contro France-sco Marchetta – ritenuto responsabile insieme con Francesco An-gelocola dell’omicidio di Orazio di Nunzio d’Astolfo nel marzodel 1803 in contrada Licadicilli di Trivento, mentre costui era in-tento a “pascere pecore e capre” – egli rispose:

Di questo fatto non so niente, giacché non ho fatta mai unione conFrancesco Angelocola, e mi figuro, che sia stato un abbaglio dinome, giacché nel mio paese vi esiste un altro Francesco Marchetti.

Per le famiglie colpite da questa pesante e disonorante puni-zione, l’indignazione del momento, si trasformò presto in un di-segno comune di ritorsione contro l’ex barone Francesco damettere in pratica a tempo e nei modi opportuni.

Atto di violenza e di sangue su BrigidaBrigida De Paola nel 1809 era una ragazza che si affacciava alle

soglie della vita con i suoi quindici anni e la voglia di sognare, sal-tare e cantare come una calandrella6 che si alza in volo al sorgeredel primo sole di primavera.

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5 Il terraggio è l’antenato dell’affitto che ogni colono doveva consegnare allacorte baronale. Esso consisteva di una parte, di solito un decimo – detta perciòdecima – del prodotto seminato e raccolto.

6 La calandrella è un’allodola che una volta, più di oggi, veniva a nidificarenelle nostre alture.

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Venutale a mancare la madre alcuni anni prima era rimasta solacon il padre che, nonostante le ristrettezze e le circostanze infeliciin cui viveva, aveva compiuto ogni sacrificio per farla crescere eeducarla secondo i buoni costumi dei tempi.Divenuta così giovinetta e ricolma di tutte quelle grazie che la

natura le aveva donate era stata presa di mira da un tale di nomeNicola Marchetta “giovine disutile, disturbatore della publica Pacede’ suoi paesani, iracondo, e capace di qualsivoglia iniquità, e dis-solutezza volendo forse seguire, ed imitare le orme, ed i nefandidelitti commessi dal famoso Brigante carcerato Francesco Mar-chetta di lui germano Fratello”. Costui, cresciuto nella melma della delinquenza di quegli anni, gi-

rava sempre munito di baionetta e d’altre armi, pronto a minacciaree a offendere chiunque. Oltre che cattivo d’animo era bruttod’aspetto per la testa quasi depilata, la barba a ciuffi rossicci, la facciapaonazza e per una profonda cicatrice in piena fronte.Una sera si presentò a casa della ragazza e, con modi spudorati

e minacciosi, pretese dal padre di averla presto in moglie. Crescenzo, da buon padre di famiglia, chiese tempo, almeno tre

anni – “tanto perché si sarebbe resa di età più confacente, quantoperché” – avrebbe – “avuto poi respiro di farle tra detto tempo quelcorredo necessario in casi simili, ed al suo stato, giacché alloral’avea quasi nuda, attesa la sua povertà”. Ma il furente giovane lo

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Bosco Maccavillo - San Biase

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incalzò imponendogli che – “non poteva attendere e che perciòavesse veduto come sollecitare la di lei situazione”.Il povero genitore, messo alle strette, gli diede parola che si sa-

rebbe – “industriato di agevolare l’affare colla vendita di certovino che teneva riposto e col ritratto” – avrebbe – “comprata qual-che cosa più necessaria al corredo”. E con questa promessa il pre-tendente sembrò mettersi la testa un po’ in pace. Intanto, non smise di ronzarle intorno, anzi, cercò in tutte le ma-

niere di pedinare perfidamente la candida giovane che, sebbeneavesse vagheggiato un destino diverso, alla fine accettò, malgradotutto, la sua asfissiante pretensione. E non poteva fare diversamente:la sua sorte, ormai, era segnata perché, essendole costui sempre allecostole, nessun altro si sarebbe azzardato ad avvicinarla.In ogni caso Brigida badava bene a stargli alla larga.E così quando doveva recarsi in campagna o altrove, per “non

cadere nelle di lui mani disonoratamente” era costretta a seguiresempre il padre o cercarsi qualcuna per andare insieme o unirsi aun gruppo di persone per stare più sicura. Ad accompagnarla, disolito, si prestava Saveria D’Andrea, sua amica e dirimpettaia,poco più grande di lei. Un giorno di gennaio si avventurò ad andare da sola alla sua

masseria, situata nella contrada Grotte, per portare da mangiare alpadre. In questa occasione, così ci rivela Francesco Perrino:

Camminando io innanzi di costei, intesi chiamarmi dalla medesimagridando ad alta voce acciò l’avessi aspettata, perché il sudetto Ni-cola Marchetta […] voleva batterla, per cui accorsi verso di lui, edavendolo rimproverato, se ne andiede via, e la detta Brigida prose-guì il camino in mia unione sinché giunse nel suo territorio.

Anche quando rimaneva sola in casa – il padre, contadino, eraquasi sempre nei campi – doveva rinserrarsi per non essere sor-presa dal suo focoso e infido spasimante. Alla sera, quando rien-trava il padre, secondo le consuetudini dell’epoca, Nicola sipresentava, sempre armato, a casa di lei al momento della cena e,intrattenendosi intorno alla tavola e al focolare fino a tarda ora,

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costringeva il povero Crescenzo, stanco e assonnato, a fare lunghee penose veglie. Di giorno, come riferisce il padre,

allorché io era in campagna, faceva chiamarla dalle genti del vici-nato di lui parenti [...] e quivi discorrevano tra loro; qual cosa pe-netratasi da me, avvertii detta mia figlia che più non fosse uscita dicasa, e che avesse evitata l’indole cattiva di Nicola, che poteva of-fenderla nell’onore.

Per circa un anno questa pesante situazione si trascinò avanticosì, ma in seguito il comportamento di Nicola mutò di male inpeggio; e come ebbe a dire la stessa Saveria

d’allora in poi sono stati disonesti i suoi pensieri, giacché ha avutodi continuo in mente di disonorarla, per cui detta Brigida, avendociò penetrato, è stata molto accorta nella difesa della di lei propriastima, tuttoché il Marchetta intimorita l’avesse più volte di volerlauccidere se non annuisse a’ suoi pravi disegni.

Eppure Brigida, nonostante queste intimidazioni e prepotenzesubite – “con costanza, e fermezza” – seppe resistergli.Negli ultimi tempi recapitandosi più volte alla sua masseria in

compagnia di un’altra amica, la “zitella” Domenica Leone, secondola testimonianza rilasciata da costei,

ha ardito detto Nicola uscire d’avanti in mezzo della publica stradacolla baionetta in mano, ed ha cercato quattro, o cinque volte violarlanella stima […] minacciandola di volerla uccidere se non acconsen-tiva alle sue voglie; e tanto vero, che io una volta mi feci coraggio distrappargli l’armatura, che ruppi con viva forza sul ginocchio, e buttaidentro una siepe, e l’avrebbe sicuramente disonorata se non avess’iodifeso da quando in quando la di lei stima.

La mattina del 16 aprile 1809, giorno di domenica, Brigida an-dava ben presto con altre donne verso il bosco di Pietravalle, inagro di Salcito, “a rilevare taluni fasci di spini” rimasti a terra dopoil taglio degli alberi. Nicola, che non si dava mai pace, la seguì

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come un cane da caccia. Al gruppo, come testimoniò una fanciulladi dodici anni di nome Rosanna D’Andrea, “in atto, che le altredonne camminavano più innanzi, ed essa rimasta era più indietroin unione di detta Brigida”, si avvicinò Nicola “ed intese dire dallostesso verso la medesima le seguenti parole: Oggi avemo da fare‘na bella cosa a quattr’occhi a me, e te, e se tu non la fai io ti uc-cido”. L’ingenua Brigida, non afferrando il truce disegno che egliaveva in testa, gli rispose “che s’era cosa buona l’avrebbe fatta”. Raccolti gli sterpi spinosi e caricatiseli sul capo, Brigida unita

alle altre, s’incamminò presto lungo la strada del ritorno a casa;passando vicino alla sua masseria vide il padre andarle incontroper dire di portagli una fune, che aveva dimentico a casa, prima disera perché gli occorreva per legare la legna da caricare sull’asino.Proseguirono le donne per la strada Vignale e, appena arrivate alpaese, stanche e sudate, ognuna depose il proprio gravoso e pun-gente fascio accanto al camino della propria abitazione. Brigidafece altrettanto, chiudendosi subito dietro la porta e in fretta si pre-parò per andare con le sue amiche a messa.Nel primo pomeriggio di quel giorno, dopo essersi rinfrancata con

un parco pasto e un breve riposo, Brigida chiamò dalla finestra Sa-veria e, insieme, si incamminarono alla svelta verso la masseria dellaGrotte per portare la fune sul posto. Arrivate, come riferì la compa-

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Bestie da Soma - Opera realizzata da Teofilo Patini

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gna, “ad un tiro di schioppo” dalla destinazione, nella contrada de-nominata la Vicenna “da dove non vedevasi detta Masseria per causadi una siepe, e collina, che vi si frappongono tra quella strada” spuntòfuribondo da un cespuglio a lato Nicola che, con la baionetta sfode-rata, impose, sotto minacce di morte, a Saveria di allontanarsi. Poi,come disse costei, “diede sopra senza perdita di tempo a Brigida, checoricò a terra stando lui sopra, forse per toglierli l’onore, siccomevidi, battendola nel medesimo tempo con pugni, e tenendola sospesaper i capelli attese le ricuse, che quella faceva”.“Stimai”, continua l’amica, “accorrere verso detta Masseria dove

stava detto Crescenzo, lo chiamai ad alta voce, e tutta sbigottita, acciòfosse colà venuto, e gli dissi che il detto Marchetta batteva, ed ucci-deva sua figlia”. Ai suoi richiami, dichiarò il padre, “accorsi, benchévecchio, per quanto potei, per vendicarmi i torti” con un’accetta inmano, ansimando e gridando con tutte le sue forze; ma arrivò tardi:la tragedia era già consumata! Egli poté solo assistere impotente agliestremi strapazzi e alle sevizie subite dalla figlia sotto gli ultimi colpidi baionetta che Marchetta, inferocito ancor più dalla strenua resi-stenza della giovane, infieriva sul suo misero corpo esangue. Alle imprecazioni del padre di fermarsi, Nicola, con l’arma in-

sanguinata in mano puntatagli contro, rispose per due volte: Vieniqua ca’ te voglio accidere pure a te e, abbandonando a terra lasventurata, aggiunse: Vieni a pigliartela morta a figliate. Detto questo si diede alla fuga verso il bosco di Pietravalle. “Lo percorrei d’appresso con detta accetta in mano per arrestarlo”,

dichiarò l’avvilito Crescenzo, “ma non potei raggiungerlo” e, tornatosubito sui suoi passi, si gettò sconsolato in ginocchio sul corpo stra-ziato di Brigida, macchiato di sangue e d’impudicizia, a piangere ea disperarsi ad alta voce con Saveria.Nell’udire gli acuti lamenti dei due accorsero varie persone che

lavoravano nelle campagne dintorno, ma non poterono fare altroche unirsi a loro e compiangere la povera vittima.L’assassino si precipitò a valle e, in preda alla furia sanguinaria,

si avvicinò a una giovane donna, tale Stella Leone, che si trovavain quel momento davanti alla propria masseria, in contrada Mar-raone. La stessa raccontò:

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Vidi fuggendo verso di me Nicola, con una baionetta sfoderata inmano tutta intrisa di sangue, come lo era nel volto, e nella camicia,e mi disse, che l’avessi dato un bacio; ed essendomi negata ciò fare,costui mi baciò in faccia a viva forza.

Poi scappò come un dannato che era a rifugiarsi nel bosco.Prima di sera Crescenzo, facendosi coraggio, si sollevò dal mi-

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Grotte della Morgia dei Briganti - Salcito

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sero corpo ancora caldo della figlia e si portò a San Biase per de-nunciare il fatto criminoso al sindaco De Paola Nicola. Gli altri ri-masero ad aspettare in rispettoso silenzio intorno alla defunta. Il Sindaco mandò subito quattro persone con una bara per prov-

vedere al trasporto al paese. La salma fu sistemata nella Casa comu-nale ove, per ordine del tenente Carlo de Blasiis, fratello del baroneFrancesco, fu sorvegliata dalla Guardia Civica, nell’attesa di dispo-sizioni del giudice di Pace di Trivento. Questi, avvertito nella stessasera da De Paola per mezzo di un corriere, dispose l’immediata visitadel medico fiscale. A tale scopo fu incaricato il chirurgo del Circon-dario di Trivento, Vincenzo de Lellis che si recò il giorno dopo a SanBiase e, insieme a quello locale Pasquale Giagnacovo e alla presenzadel cancelliere Antonio De Feo e dello stesso sindaco – nonché me-dico condottato – eseguì l’autopsia del cadavere.Il rapporto medico emesso riportò ben dodici pugnalate inferte,

di cui tre mortali. I funerali si svolsero con grande partecipazionee commozione della popolazione.Il giudice di Pace Nicolangelo Mastroiacovo fece chiamare su-

bito a Trivento il padre Crescenzo, il quale riferì i moventi e le cir-costanze della tragedia. Egli chiese “di querelare detto NicolaMarchetta pel delitto sudetto, e cerco, che lo stesso non ne venghi

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Morgia Pietra Fenda - Trivento

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assoluto senza mia intelligenza”. Inoltre, dichiarò al giudice i no-minativi dei testimoni tutti di San Biase che potevano esaminarsi,e cioè: Saveria D’Andrea, Domenica De Paola, Domenica Leone,Stella Leone, Rosanna D’Andrea, Rosa Marino, Francesco Perrinoe Raffaele Marino. Questi testi furono sentiti presso la sede del Giu-dicato il 20 aprile e tutti, e soprattutto Saveria, che aveva assistitoalla tragica scena, affermarono e confermarono la stessa cosa.Domenica Leone, oltre a riferire i vari tentativi di aggressione

compiuti da Nicola, così testimoniò al giudice:

Stando io nella Vigna del mio Paesano Giuseppe Continelli, nonmolto distante dalla Masseria del Crescenzo, ad oggetto di racco-gliere taluni tralci di viti, vidi venire da me tutto sbigottito, e furiosoil nominato Nicola Marchetta colla baionetta in mano, che forseavea fatta riaccomodare, o fosse altra simile, tutta intrisa di sangue,come era in volto, e nella camicia.

Alla domanda di “come stava sì intinto di sangue, mi rispose diessersi fatto male con una Suglia, che portava in atto di accomo-dare le sue scarpe”.Il giudice Mastroiacovo, per essere informato meglio sui prece-

denti di Nicola, volle sentire contestualmente anche altre testimo-nianze di San Biase “le più dabbene, che non sappiano mentire laVerità”, che il Sindaco individuò nelle persone “probe, ed oneste”del chirurgo Pasquale Giagnacovo, dell’erario di corte EduardoContinelli, dell’ufficiale provinciale delle milizie Carlo De Blasiise fratello sacerdote Michele e del parroco Gioacchino D’Andrea.Costoro asserirono unanimemente di conoscere fin troppo bene

la malvagità e la pericolosità di quel soggetto e che essi “credetterotosto ciò vero, verissimo […] perché questo va armato sempre dibajonetta, ed altri armi, è stato solito a delinquere, ed a commetterede’ molti eccessi”. Furono trasmessi gli avvisi e la filiazione delMarchetta alle sedi comunali vicine (Fossalto, Pietracupa, Bagnoli,Salcito, Castelguidone e Guardiabruna) perché i sindaci e gli Ag-giunti di pace potessero “usare tutti i mezzi onde conseguire il dilui arresto”, purtroppo senza esito favorevole.

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Mastroiacovo, appena terminata l’indagine e compilata la stesuradel processo, il 26 aprile mandò, “per l’uopo di giustizia”, i 27 fogliscritti al regio Procuratore del tribunale criminale di Molise.Questi, dopo una seduta interlocutoria del 17 maggio, il 30 dello

stesso mese dispose “di procedersi alla Istruzione regolare degliatti, e di distribuirsi gli ordini di carcerazione contro l’imputatoNicola di Costanzo Marchetta”.Ma Nicola è “uccello di bosco” e, pertanto, inafferrabile.Infatti, non ebbe difficoltà, essendo già conosciuto come valida

“spalla” del fratello recluso Francesco, a essere accolto tra le variebande dei briganti che imperversavano nella zona. Per disperderele sue tracce seguì per qualche tempo una compagnia di banditiche agiva nei paraggi di Guglionesi.Arrivata la segnalazione al giudice di Trivento questi spedì subito

al corrispondente di quel “Comune la filiazione acciò di accordoco’ Colleghi degli altri limitrofi ne procuri colla sollecitudine pos-sibile l’arresto del sudetto”. L’obiettivo, però, non fu raggiunto.Lo stesso Mastroiacovo ammise: “I mezzi da me presi per la di luisollecita cattura sono rimasti per ora con mio sensibile rincresci-mento infruttuosi”.

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Atto di morte di Brigida De Paola - Archivio parrocchiale San Biase

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Sappiamo che Nicola si unì, poi, alla comitiva che faceva capo altriventino Francesco Brindesi con il quale commise altre imprese de-littuose e rapine a danno delle famiglie più abbienti del circondario. L’ultima, però, gli fu fatale!Infatti, partecipando ad un assalto, compiuto ai principi di ago-

sto dello stesso anno 1809 all’abitazione del sacerdote benestanteMelchise d’Elisa del comune di Roccavivara, rimase intrappolatoe bruciato vivo nello stesso incendio che aveva appiccato. La notizia giunse rapida a San Biase e, dalla maggior parte degli

abitanti, fu accolta con gran sollievo, mentre da Crescenzo, comeun giusto castigo di Dio. Il giudice di Pace chiamò, poi, a testificare alcuni di quel paese

i quali dichiararono l’accaduto e così egli comunicò la nuova allacorte criminale di Campobasso. Questa sospese subito l’istruzionegiudiziaria in corso e restituì gli atti presso il regio tribunale diMolise. Il giudice del tribunale, De Cesare, appose in calce la suafirma e il caso fu così archiviato.

Ripresa del brigantaggioCon l’abolizione del feudalesimo, disposto dal nuovo regime

napoleonico del 1806, i contadini e bracciali di San Biase e di tuttele parti del regno si attendevano dal governo francese la risolu-zione di tutte le controversie ancora esistenti tra il popolo e il feu-datario. In particolare essi, dalle nuove leggi riformatrici, si aspettavano

la messa a disposizione delle terre demaniali usurpate a loro di-scapito dal barone o, comunque, l’esenzione del terraggio suicorpi fondiari ex feudali. Invece, la maggior parte di questi, so-prattutto i fondi migliori, andarono a finire in mano a quei pochiagiati del posto che, disponendo di capitali e di mezzi, avevanopotuto sottrarli ai più bisognosi, cioè a quelli che più erano nel di-ritto di usufruirli.Per giunta, poi, con lo scioglimento degli usi civici, i coloni e i

pastori persero anche questo diritto di godimento sui terreni de-maniali destinati a pascolo e alla raccolta della legna morta, delle

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ghiande e delle fronde. E così si scagliarono contro questa nascenteclasse di borghesi rurali che, sebbene fosse stata nel recente pas-sato a loro fianco per reclamare i comuni diritti, li aveva abban-donati per pensare solo a se stessa, appropriandosi delle terre piùcomode e fertili resesi disponibili con la riforma accordata dalnuovo governo. Negli animi di questi “cafoni”, ingannati e di-sprezzati, si faceva sempre più strada l’auspicio del ritorno del reFerdinando che, almeno, aveva tentato di appoggiare alcune ri-vendicazioni delle masse contadine. Tanto che molti di questi in-dividui, in particolare quelle “teste calde” che non avevano nullada perdere, quando si resero conto fino in fondo del tradimentodei “galantuomini”, scelsero l’unico modo in cui era possibile con-trastarli e farsi giustizia: si diedero cioè al brigantaggio. Fu questa la molla, dunque, che scattò nella mente ardente di

quegli individui disperati e truffati e che spinse diversi di loro adarsi “alla campagna” e molti altri ad appoggiare tacitamente leloro azioni malavitose.Ad assecondare i briganti si attivarono ancora una volta i fug-

giaschi Borboni che, mettendo da parte ogni scrupolo morale e ci-vile, si servirono di loro, fino a investirli di incarichi ufficiali, alloscopo di ribaltare la situazione politica e far restaurare la vecchiamonarchia partenopea.

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Morgia Pietra Martno - Salcito

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Ma il “galantuomo” principale, contro il quale questi reazionarisanbiasesi avevano tutte le ragioni di sfogare la loro collera, eraproprio l’ex barone Francesco. Egli, infatti, secondo loro si eraschierato apertamente con i francesi unicamente per trarne van-taggio personale e avvalersi delle loro armi per far scontare allapovera gente le conseguenze delle lotte antifeudali.I primi che si mossero e agirono di soppiatto per preparare un

piano di rappresaglia furono i familiari e, soprattutto, le consortidei sei uomini fatti rapire e condannare proprio dall’ex barone.Tra queste ultime, particolarmente risentita e battagliera, era –

come meglio si preciserà più avanti – Nicolina Angelocola, mogliedi Modestino Marchetta, referente locale dei briganti, la quale siera legata a questi mediante continui colloqui segreti e stretti rap-porti di collaborazione. A questi incontri prendeva parte spesso anche un certo Quirino

Giagnacovo, boscaiolo, fratello di Gesualdo (altro carcerato di Lu-cera), che, per il suo mestiere, era in continuo contatto con le di-verse comitive dei luoghi limitrofi.I risultati di questi convegni appartati, cominciarono a notarsi

in estate con sempre più frequenti assalti e furti fatti dai briganti adanno delle case dei possidenti di San Biase e delle loro masserie. In verità, fin dalla primavera del 1809, c’era stata qualche scor-

reria nel borgo e in campagna, seminando sgomento e angosciatra i padronali degli animali e altri massari del paese. In una delle ultime sortite, avvenuta in pubblica piazza nell’ago-

sto del 1809, una grossa compagnia intimò ai benestanti locali ilpagamento di una pesante contribuzione di denari sonanti. Noncontenti della taglia ricevuta, gli assalitori attaccarono e deruba-rono alcune famiglie più abbienti, tra cui l’erario Eduardo Conti-nelli, al quale tentarono anche d’incendiargli l’abitazione. Il barone e i fratelli, in questa circostanza, se la cavarono con

una ritirata precipitosa. Spronati dal successo di questo clamorosoe spericolato colpo si unirono a questi anche altri tre ribelli di SanBiase: Francesco Marino, Saverio Marino e Francesco Leone. Ormai l’audacia e prepotenza di queste orde di assalitori ave-

vano preso il sopravvento un po’ ovunque. Gravi fatti di rapine,

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eccidi e violenze inaudite accadevano sempre più frequentementeper le strade e per i paesi di tutta la neo Provincia di Campobasso. Sembrava che i briganti fossero padroni incontrastati delle co-

munità e del territorio circostante perché lo Stato, almeno per ilmomento, era quasi assente o, comunque, impotente.In questo clima d’incursioni, vendette e disordini civili, a San

Biase e nei luoghi circostanti, si compirono le azioni tracotantidelle bande capeggiate da Brindesi, Perazzelli, Cipriani, Mattiaccie maturarono i fermi propositi messi in atto da Nicolina.In appresso diamo un maggior ragguaglio di alcuni di questi av-

venimenti e dei principali protagonisti.

Vincenzo Cipriani: da servo a briganteNegli anni successivi al 1775, quando il secolo XVIII volgeva

ormai al termine, il nucleo abitativo di Sant’Angelo si trovava ab-barbicato ad un rilievo naturale di terra e pietrisco detto la Motta,testimoniata anche da una via urbana attuale di modeste dimen-sioni, indicata come Vico Motta. La torre principale dell’antico mastio Normanno si poneva a di-

fesa di questa superba Terra e la corte fortificata, costruita ad artecon pietra fossilifera locale, era abitata dal possessore del feudo,il barone De Attellis. Poteva, quindi, considerarsi un fortilizioposto a protezione d’attacchi e razzie. La roccaforte venne abban-donata dal suo signore nella seconda metà del XVIII secolo,quando fu terminata la costruzione di un sontuoso palazzo sortoaccanto alla chiesa matrice iniziata a fine secolo XVI. In questa Terra, nel XIII secolo, in Tempore Abbatis Petri7, mo-

strava la sua imponenza il Castrum Sancti Angeli. Altre abitazionierano situate nella contrada San Pietro, nei vichi e nelle rue sottola chiesa matrice, nota col nome di Santa Maria Assunta in Cielo. Intorno alla fortezza trovavano luogo gli abituri delle famiglie

degli umili, formate per lo più di malagiati, coloni, segatori, gar-

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7 San Pietro Celestino (1209-1294) era originario di Sant’Angelo Limosano.

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zoni, massari, pastori, guardiani e qualche artiere, cioè quelli chein epoca moderna sono stati definiti e vilipesi col termine spregia-tivo di cafoni. I più agiati e possidenti, invece, abitavano lungo lastrada tra la chiesa dell’Assunta e quella di San Pietro Celestino8(trasformata in granaio dal cardinale Orsini nel 1695, poiché nonrestaurata secondo le sue direttive), a ridosso dell’attuale munici-pio. Non c’era ancora alcun segno di quel complesso architettonicodenominato La Rampa, la cui costruzione in muratura è avvenutamolto più tardi, tra il 1906 e il 1912. Nei dintorni del vecchio castello e precisamente nella via detta

La Portellamuove i primi passi Vincenzo Cipriani, nato il 14 feb-braio 1780 da Domenico e Maria Di Iacovo, genitori dediti ai la-vori dei campi. Essi gli verranno a mancare entrambi nel 1791 adistanza di due mesi, il padre in settembre, la madre in novembre. Poco o niente sappiamo dell’infanzia di Vincenzo, ma sicura-

mente, come tutti i ragazzi del tempo, nella buona stagione aiutavai genitori in campagna, mentre d’inverno e nei momenti liberi siesercitava nel suo paese in combriccole con i suoi pari coi qualicombinava già qualche malaffare.Egli, pur acuto d’ingegno, era però analfabeta perché in quel-

l’epoca non esisteva ancora la scuola primaria pubblica.All’età di circa venti anni, quando il secolo XIX era alle porte,

come apprendiamo dal sindaco dell’epoca Michelangelo Marrone,

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8 Attualmente Via Municipio.

Atto di battesimo di Vincenzo Cipriani - Arch. parrocchiale di Sant’Angelo L.

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Vincenzo lasciò la sua “Padria di Sant’Angelo e si portò nella vi-cina Università di Limosani, distante dalla sua abitazione due mi-glia”. Qui trovò lavoro come inserviente da una signora del luogo,tale Michelina D’Amico, presso la quale rimase per diverso tempo. Nel 1808 il “Reggente civile e Luogotenente” di Limosano, Teo-

dosio Poce, lo accusò di aver rubato in casa della padrona, variecose e a nulla valsero le giustificazioni addotte a sua discolpa. Egli,infatti, depose che al Poce gli svelai i Rei, ma questo rivoltò la co-lata sopra di me come forestiero, ed i veri Rei lo pose per testi-moni, apponendomi ancora altri delitti, che al mondo nemmenoho sognato di farli9.Dal medesimo Luogotenente, Cipriani fu arrestato e trasportato

al carcere di Montagano, dove rimase diverso tempo, accusando imorsi della fame e i rigori dell’inverno, poiché in tale epoca il de-tenuto doveva provvedere al proprio sostentamento e vestiario. Non avendo alcuna possibilità di soccorso per la sua miserabile

condizione umana, un giorno, con mezzi di fortuna, appiccò ilfuoco alla porta della cella e si allontanò furtivamente dal carcere,dandosi poi a precipitosa fuga. A causa di tal fatto, per alcuni giorni fu inseguito e ricercato.

Fuggiasco per i territori di Lucito, riuscì tuttavia ad avere asilo elavoro, ma poi scoperto, scappò raggiungendo i dintorni di Gu-glionesi, dove riuscì a trovare un’occupazione nella campagna diDon Luigi Marchetti, proprietario di una grande tenuta. Marchetti lo mise a lavorare nella propria vigna e negli altri pos-

sedimenti terrieri di Petacciato. La vita però gli doveva riservare ancora sorprese. Nei boschi di quel luogo si era nascosta la “massa” brigantesca

di Passarelli, il quale, con modi intimidatori costrinse Cipriani edaltri braccianti a seguirlo. E così Vincenzo con altri lavoranti, pertimore di essere passati per le armi, lasciarono immediatamente iltenimento, unendosi alla banda di Passarelli. Gli venne dato in

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9 Il 7 giugno 1809 Vincenzo Cipriani depone le armi nelle mani del sindacodi Limosano e nel verbale vengono trascritte le sue deposizioni.

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consegna uno schioppo e una patroncina piena di cartucce e inquesto modo, appena otto giorni dopo, fu messo a sentinella.Fu in questa occasione che Cipriani, una sera, abbandonò il posto

di guardia e, così armato, si diresse alla contrada di Cascapere,dove arrivò mercoledì 29 marzo della Settimana Santa del 1809. Il 2 aprile successivo, giorno di Pasqua, Cipriani vide arrivare in

quella boscaglia Clemente Durante e Pasquale Pingue di Limosano,i quali andavano a caccia. Pingue chiese a Vincenzo se a Petacciatostazionasse qualche truppa armata e questi gli ripose che il paeseera pieno di briganti. Cipriani non volle unirsi a loro, aggirandositra gli ”sterpari” del posto, fino a sabato 27 maggio, giorno dedicatoa Sant’Agostino, in cui fece ritorno Pasquale Pingue, questa voltacon Francesco Minicucci, alias Ominicchio. Anche quest’ultimo glichiese se a Petacciato vi fosse soldataglia. Vincenzo gli rispose chemancava da quella zona da molti giorni, cioè da prima di Pasqua,ma, se avesse voluto notizie fresche, avrebbe potute chiederle al di-sertore Giuseppe Matteo, che era tornato da quelle parti due giornifa, proprio per guidare Pasquale Pingue e compagni nelle boscagliedi Petacciato e aggregarli alla compagnia di Passarelli e Antonelli,originari di Fossaceca in Provincia di Chieti. Il giorno appresso, domenica 28 maggio, Pingue e Minicucci

tornarono e chiesero a Cipriani di guidare tutta la compagnia nelleterre di Petacciato, ma lui si rifiutò perché non era in condizionedi partire a causa di un “oscuro morbo” che lo aveva colpito.La stessa sera, Pingue fece ritorno a Cascapera con Alessandro

Gravina e Palmerino Fatturino i quali poi rientrarono tutti a Limo-

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Veduta Bosco Maccavillo - San Biase

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sano per cambiarsi i panni. A questi si aggiunsero subito DomenicoFracassi e Luigi Frosolone e, poco dopo, Luigi Ricciuto e tantialtri provenienti da strade diverse. Pasquale Pingue, rivolgendosi alla banda, chiese chi volesse se-

guirlo fino al territorio di Petacciato, a patto di un preciso impegno,ma la banda, indecisa, temporeggiò vagabondando per due o tregiorni nel territorio di Limosano in attesa di unirsi ad altri compa-gni. Questi però non sopraggiunsero, ignorandosi il vero motivo.Allora Pingue, che rimase con i compagni, scrisse un biglietto adun certo Domenico Pietrunti, chiedendogli munizioni e altro, maCipriani, essendo analfabeta, non poté sapere mai cos’era riportatorealmente in quel foglio.Il gruppo brigantesco, che si aggirava nella località di Casca-

pera nel maggio 1809, era composto, oltre che di Vincenzo Ci-priani, Pasquale Pingue, Vincenzo Matteo e suo fratello Giuseppe,di Luigi Frosolone, Domenico Fracassi di Tomasino, Giacomo Sa-betta, Giovanni Ricciuto, Francesco Minicucci, Pasquale Lattan-zio, Cosimo Giancola e Giorgio Formicone.Il 31 maggio caporal Cipriani, dal bosco Defenza di Sant’An-

gelo, inviò un “viglietto” minaccioso ai possidenti Clemente DiPaolo e Michele Ciccone ai quali chiedeva “amichevolmente” 100ducati per l’obbligazione della brigata, una chitarra per il diverti-mento della compagnia e due schioppi funzionanti poiché gli man-cavano, sottolineando, inoltre che, se avessero richiestol’intervento dei legionari egli sarebbe stato costretto ad alzare lavoce e l’obbligazione. Il foglio terminava con la postilla “Servo vostro e servo tutti!”10.Il lettore, senz’altro attento, ha ben compreso che Cipriani, es-

sendo illetterato, fu costretto ad avvalersi della competenza delbrigante Pingue per compilare il foglietto. Pasquale Pingue, figlio di Eligio e Teresa Di Blasio, nativo di

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10 Saluti che il Cipriani rivolge a Clemente Di Paolo e Michele Ciccone nelbiglietto inviatoli dal bosco di Sant’Angelo.Archivio di Stato di Campobasso (d’ora in poi ASC) - b. 30, f. 30/8 pag. 8 -

Processi Politici - 31 maggio 1809.

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Guardia di Cerreto Sanframonti di Terra di Lavoro, di professionecasaro, ma in realtà scansafatiche e giramondo, era dedito alle armie ad ogni sorta di vizio. Egli, sposatosi a Limosano, sapeva leggeree scrivere, delle quali capacità, allora assai rare, abbiamo notizie si-cure dalle fonti che siamo riusciti a confrontare.Il pezzo di carta, anziché essere consegnato ai due interessati,

fu affidato al sindaco Michelangelo Marrone, capo del Decurio-nato del Comune di Sant’Angelo.Marrone, tergiversò alla richiesta, e intanto il 6 giugno 1809 inviò

una missiva all’Intendente di Molise, Biase Zurlo, nella sede diCampobasso, con la quale gli comunicò ciò che già in precedenzaaveva fatto al Giudice di Pace del circondario di Ripalimosani, se-gnalandogli anche che il gruppo banditesco era composto di undiciindividui limosanesi al comando di Vincenzo Cipriani, oriundo diSant’Angelo ma residente da circa otto anni a Limosano11. Nello stesso tempo trasmise all’Intendente il biglietto originale

fattogli pervenire dai briganti, sottolineando che a quelle richiestenon si era data alcuna attenzione e tantomeno una risposta. Inoltre, informò l’Intendente che quei banditi il 31 maggio erano

stati respinti dalla Guardia Civica del luogo e poi, inseguiti finoalla contrada della Montagna, furono assaliti dal Corpo delle guar-die. Infine, gli fece sapere che la Guardia Civica e il popolo tuttovigilavano sempre per difendersi dalle numerose scorribande cheincutevano forti inquietudini e tensioni in quel periodo. Nell’estate del 1809, esattamente il 24 agosto, tempo in cui le

scorrerie dei briganti sgomentavano Sant’Angelo e dintorni, il sin-daco Marrone si recò personalmente a Campobasso, chiedendo vi-vamente all’Intendente Zurlo la presenza e l’intervento sul postodelle milizie. Dopo queste pressanti richieste Zurlo inviò sul luogo un gruppo

di venti militari per sbaragliare le diverse comitive che infestavanoil territorio e quelli del circondario. Tale assalto produsse senz’al-

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11 Lettera del sindaco di Sant’Angelo Michelangelo Marrone al sovrintendentedi Molise. ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 7 - Processi Politici - 6 giugno 1809.

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tro uno scompiglio nelle bande dei paraggi. E ciò lo rileviamo dalmessaggio mandato da Cipriani al sindaco di Limosano, GiuseppeFracassi, di tutt’altro tenore rispetto a quello fatto recapitare qual-che giorno prima al sindaco di Sant’Angelo:

Vingenzo Cipriani dalla Terra di S. Angelo [avendo] inteso che voivolete gli omini che si presentono a voi senza timore di cosa alcunalui si contenta di presentarsi con dieci omini se pur che voi pigliatetutti il giuramento e fede di voler bene a tutti e dieci e vogliono fareloro la guardia nel paese e vogliono la patente dal Intendente e vo-gliono la paga dieci persone, le armi noi l’abbiamo. Vogliamo starebene armato e voi non dubitate di cosa alcuna che noi saremo tuttifedele a voi onde che facci la risposta di quel che risolvete altri-menti noi abbiamo risoluto di venire omini trecento bene armati sevoi ci abbracciate e bene [...] altrimenti noi faremo come si fece aCasacalenda perche lui se ci volete, vuole rimandare tutta la suacompagnia ogni uno nel loro paese altrimenti noi al 13 giugno civedremo, fateci subito la risposta12 Vostro Servo Cipriani.

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Tipica masseria del Molise

12 Lettera inviata nel giugno 1809 al sindaco di Limosano dal bosco di San-t’Angelo. ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 6 - Processi Politici.

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Lo stesso giorno il sindaco Fracassi scrisse all’Intendente diCampobasso:

Eccellenza Mi affretto, come questa mane ad ore sedici mi è pervenuta una let-tera di un Capo di Comitiva, come dalla qui annessa copia, che damolti giorni si rattrovano scorrendo il Bosco Fiorano, questi scom-pigliati mostrano il vero pentimento, e desiderano restituirsi alleloro famiglie, cercando sicurtà di non essere molestati da chicche-sia, forza ordine di Guardia Civica di più ho rilevato dalle spie chela comitiva che girava il Bosco Fiorano di più di trenta individui èridotta a dodeci, che sono questi che cercano il perdono13.

All’indomani della ricezione della lettera, alla quale Fracassi nondiede alcun seguito, transitava per Limosano il Maggior GeneraleHenry Compère14 con la truppa composta di soldati corsi e francesi. Il Generale, nell’incontro avuto con il Sindaco, lo raccomandò

di usare ogni mezzo in suo potere, perché i banditi avessero depo-sitate le armi assicurando loro il condono dei reati. Dietro tali promesse e indicazioni operative si affissero nel

paese avvisi con la massima sollecitudine.A seguito di questi annunci il sindaco Fracassi poté trasmettere

all’Intendente il seguente comunicato:

Oggi che sono li sette di giugno dell’anno milleottocento e nove inLimosani in mani del sindaco della stessa, incaricato dal generaleCompère per la presentazione di briganti di detta comune, sonocomparsi nella nostra presenza Pasquale Pingue della Guardia diCerreti casato in Limosani di anni ventotto circa, Vincenzo Ciprianidi Santangelo di anni ventotto circa, Domenico Fracassi di Limo-sani casato di anni ventuno, Giovanni Ricciuto di anni trentadue

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13 Il sindaco di Limosano invia all’Intendente copia della lettera di Ciprianiricevuta dal bosco di Sant’Angelo Limosano. ASC - b. 30, f. 30/8, pag. 5 - Processi Politici.14 Fursy Louis Henry Compère, nato a Peronne il 16 gennaio 1768, era nel

1807 Generale di Divisione e, per qualche tempo, Governatore di Napoli.

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casato, Pasquale Lattanzio giovine di ventidue anni, quali han primapresentato le loro armi consistente in due schioppi, una carabina, eun pistone, e quindi poi han fatto le loro deposizioni uno separata-mente dall’altro, in presenza di Saverio Colavecchia, e Saverio DiGregorio di Limosani15.

Sugli avvenimenti successi in quei giorni, riferiti in particolarealle imprese banditesche di Vincenzo Cipriani nel territorio di Ca-scapera, si riporta integralmente il processo verbale a carico diPasquale Pingue reso davanti al sindaco Fracassi il 7 giugno 1809.

Signore, essendomi stato detto essersi preso informazione dal Giu-dice di Pace per un ricorso fattomi di esser andato a caccia, e feniscedi essere arrestato alli 28 del p.p. maggio cercai di allontanarmi daquesta comune, e mi seguirono Vincenzo Matteo, Luigi Frosolone,Francesco Minicucci, Pasquale Lattanzio, Giovanni Ricciuto, Gia-como Sabetta, Domenico Fracassi di Tomasino, Giorgio Formi-cone, Donato Luciano di Cristofaro, Cosmo Giancola e LuigiRicciuto che diverse strade ci portammo a Cascapere dove ritro-vammo Vincenzo Cipriano di Santangelo, e Giuseppe Matteo di-sertore di questa comune. Ivi dovevano altre persone seguireancora, facendo la nota che vi ho presentato in presenza di due te-stimoni, e facendo la nota fatta dallo studente Domenico Petruntidi Campobasso, oggi in Limosani. Della nota del Petrunti fra glialtri vi erano Nicolangelo Gabriele, Domenico di Saverio D’Amico,ed altri; ma questi allora si sarebbero mossi, quante volte ci arrivaun certo Pasquale Varone di Campobasso con trecento Campobas-sani, il quale ci avrebbe portato la paga e monizione, che da tre anniindietro l’aveva preparato per quegli istessi. Il corriere che ci ser-vivamo pel carteggio da qui a Campobasso era Bonaventura D’Ad-dario, che spesso si recava dal detto Varone, portando e riportandonotizie sul noto affare; il medesimo Bonaventura era uno dell’as-semblea. Di noi soli se eravamo armati, ma nel dì di Corpus Domini

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15 Il 7 giugno 1809 Vincenzo Cipriani, Domenico Fracassi, Giovanni Ricciuto,Pasquale Lattanzio, Saverio Colavecchia, Saverio Gregorio e Pasquale Pinguedeposero le armi negli uffici del sindaco di Limosano Giuseppe Fracassi. ASC. - b. 30, f. 30/8 pag. 11 - Processi Politici.

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essendo stati inseguiti dalla Guardia ci posimo a fuggire ed uno cherestò indietro per timore di esser preso, gettò dentro un campo digrano la sua carabina, e si pose a fuggire per salvarsi la vita, qualefu ritrovato da Daston di Lucito, gli altri poi stavano disarmati, allepoche non ancora se l’avevano procorati. Le nostre armi consiste-vano in tre schioppi, due carabine, e un pistone compresovi la ca-rabina perduta nel fuggire. La munizione consisteva in tre Patrone,una di sedeci cartucci, un’altra di otto, e l’altra con uno, portandosiper intimorire che per far fronte; gli altri avevano gli schioppi so-lamente carichi; e vedendo il pericolo in cui eravamo pentiti delfatto commesso ci siamo venuti a presentare oggi predetto in virtùdelle insinuazioni ricevute da voi, secondo a voce vi parlò il Gene-rale Compère16.

Dopo la consegna delle armi e la concessione del perdono, ilgruppo di briganti, capeggiato da Cipriani, si concesse una brevis-sima pausa di riflessione. Ai primi di giugno di quell’anno il caldo non era ancora cocente,

ma intorno alla metà del mese, il sole faceva sentire i suoi effettinelle campagne e da San Biase, Sant’Angelo, Limosano e altri luo-ghi elevati vicini, per le mulattiere, carraie e viottoli fino al trat-turo, squadre di braccianti animati da buoni propositi e armatisoltanto di falci, cannelle, maniconi e mandere, indispensabili at-trezzi del mestiere, si avviavano verso le terre arse della Puglia afalciare le messi già mature nella speranza di “vedere qualche lira”.La moneta era necessaria per l’acquisto di panni e altre cose utili,specialmente del porco, alla fiera di Santa Pia, il 12 settembre17 edi altre della zona, senza le quali provviste la loro vita sarebbestata ancora più grama nelle fredde terre montane. Mentre i giovani bracciali erano ricurvi a mietere i desolati

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16 Deposizione di Pasquale Pingue. ASC - b. n. 30, f, 30/8 pag. - Processi Politici.17 La fiera di Santa Pia fu istituita dal Barone Prosdocimo de Blasiis dopo il

1751 per il comodo della popolazione, ricadente il 12 e 13 Settembre. Solo inseguito fu ridotta al solo giorno del 12 dello stesso mese.M. Tanno - San Biase - Il barone e i contadini - Ed. Enne, Campobasso 2005.

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campi della Capitanata, i briganti, all’interno dei boschi di Fiorano,Pietravalle e Trivento18, località fresche e riparate, ripresero le loroattività malavitose, stringendo accordi di amicizia con altre bandee accrescendo così la loro famiglia in attesa del rientro di quei gio-vani bracciali per “arruolarli e coccardarli” di rosso19. Voci molto informate riferivano che Cipriani, in libertà vigilata,

pur avendo apparentemente una condotta corretta e rispettosa digiorno, di notte era celatamente in contatto con la banda di Fran-cesco Brindesi di Trivento. Questa relazione gli fu fatale perché lo spinse di nuovo a darsi,

come vedremo, “alla campagna”.

Comitiva di BrindesiFrancesco Brindesi era uno dei numerosi figli di Emanuele e

Vincenza Serricchio di Trivento. Il padre insieme ad alcuni figlipartecipò alle vicende insurrezionali del 1799 nel suo paese, ce-dendo poi alle tentazioni di razzie e alle promesse fatte dai seguacidel re fuggiasco Ferdinando IV di Borbone. I germani Brindesi,Francesco, Carlo e Pietro, militavano nella “formazione dellamassa” di Michelangelo e Amadio Lozzi (quest’ultimo fu pro-mosso tenente per i suoi servigi resi al re) insieme ai fratelli Fran-cesco e Michelangelo Porfilio nonché al malfamato PaolantonioVasile20 cognato di Lozzi. Costoro si comportavano da malfattoriper difendere e accrescere la loro posizione di dominio conquistatacon soprusi e violenze. Alla dissociazione della banda, avvenuta dopo l’arresto di vari

briganti, Francesco, detto Ciccio, e Carlo Brindesi nel 1809 costi-

18 Il bosco di Fiorano si trova nel territorio di Limosano; quello di Pietravallenel tenimento di Salcito.

19 La coccarda rossa posta sulla sommità del cappello era il simbolo di appar-tenenza allo Stato Borbonico.

20 Paolantonio Vasile, figlio di Pietro e Anna Iocca, nacque a Trivento nel1768. Sposò Colomba Lozzi la quale morì il 9 gennaio 1811, alle ore 8, nel car-cere di Campobasso dove era detenuta.

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tuirono un nuovo gruppo banditesco che faceva irruzioni nellecampagne e nei paesi di San Biase, Sant’Angelo Limosano, Li-mosano, Lucito e altre località limitrofe. Di questa accozzaglia di scalmanati facevano parte Anselmo

Mattiacci di Pasquale, nato nel 1786; Saverio Marino di Pietro,classe 1787; Giuseppe Braia di Costanzo, classe 1787; FrancescoMarino di Andrea, classe 1787 e Francesco Saverio Leone di Ber-nardo, classe 1788, tutti di San Biase. A questo gruppo si era unito anche Nicola Perazzelli di Lucito. Costui nacque in questo luogo l’11 novembre 1782 da Aniello

e Vincenza Marrone. Egli aveva altri otto fratelli, cinque maschi etre femmine, tutti piegati al duro lavoro della campagna. Per designare e qualificare Nicola Perrazzelli, personaggio

chiave della banda Brindesi, riportiamo una citazione contenutain un atto notarile.Il padre, prima di morire, volle lasciare i pochi beni che posse-

deva ai suoi figlioli e alla seconda moglie Dorotea Ventresca. Nel suo testamento, compilato nel febbraio 1808, si legge tra

l’altro: “Aniello tiene un altro figlio chiamato Nicola, oggi carce-rato in Lucera per delitti infamanti. Lo stesso, ebbe due anni dietro (1806), la temerità di mettere le

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Fasci di legna accatastati nel bosco

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sue empie mani sulla persona di esso padre, e batterlo a segno, chefu in procinto di morire, talché la processura [processo] fu fattadall’allora governatore Don Crescenzo Maria Casilli di Campo-lieto, fu carcerato, e gli riuscì a fuggire, non cessando di sempreminacciarlo, e prendendogli anche animali dalla masseria, com’èpubblico, e notorio. Per questi attentati intende diseredarlo edescluderlo da ogni benché menoma successione e niente possa pre-tendere dall’eredità di esso padre21.Alla fine di luglio, allorché i falciatori, rientrati dalle terre in-

fuocate della Puglia, ripresero la mietitura del grano nelle loro fre-sche colline, i briganti percorrevano le campagne in sella allecavalcature. Essi continuarono a saccheggiare i comuni alla sini-stra del fiume Biferno, mentre Vincenzo Cipriani, che qualchemese prima aveva consegnato le armi, rimase fermo e appartatofino al 23 agosto, quando unitamente a Francesco Brindesi, An-selmo Mattiacci, Nicola Perazzelli e alla già ricostituita compagniadi briganti si recò a far visita all’amico arciprete di Pietracupa, donGiuseppe Nicola Carnevale, detto Don Peppo.Di costui, soggetto truce e di animo nero come il colore della

sua zimarra, si riporta una citazione tratta dal fascicolo “Brigan-taggio” dell’Archivo di Stato di Campobasso:

Chi accorda favore, e protezione ai perturbatori dell’ordine pub-blico; chi col mezzo di quelli sfoga la propria vendetta, facendospogliare i pacifici cittadini delle lor sostanze; chi col braccio diquegl’istessi ha attentato, ed eseguito un barbaro omicidio: Eglinon è altri che questo arciprete Carnevale22.

Don Peppo appurando che nel mese di agosto si era riunita nelbosco di Pietravalle la comitiva di Brindesi, notizia ventilata dainaturali di Pietracupa che si portavano spesso a raccogliere sterpi

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21 ASC - Prococolli notarili -Atto n. 13 rogato il 2 febbraio 1808 dal notaioRocco Oliviero di Lucito.

22 ASC- Lumi per l’arciprete Carnevale di Pietracupa, b. 23, f. 23/c e d, Pro-cessi Politici.

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e legna in quella selva, colse di sobbalzo l’occasione per metterein atto i suoi pravi disegni. Presto incaricò alcuni suoi seguaci acontattare i capi per invitarli da lui.La comitiva accettò, raggiungendo Pietracupa il giorno 23 ago-

sto, guidata da un garzone del prete, suo parzenaule, di nome Gre-gorio Santillo. Giunta al paese, la banda di scellerati si diresse allacasa dell’arciprete che l’accolse come fratelli, complimentandosiper le loro malfatte. Nel corso dell’incontro il “buon pastore” invitò il gruppo ad in-

traprendere altre azioni punitive nei confronti di alcuni cittadini; poi,rivoltosi a Nicola Perazzelli, che aveva un ceffo orrendo e alterato,e con il quale in particolare aveva concordato il misfatto, gli disse:Nicola, ti raccomando l’affare, che sai; ti sia a cuore. Il brigante glirispose: Parroco, lasciati servire; è a carico mio, non occorre altro. Questa azione criminosa, caldeggiata anche dalle pressioni in-

calzanti del garzone, s’intentò presto.Uscita dall’abitazione dell’arciprete, la comitiva assalì la casa

dell’esattore fondiario, il quale fu derubato e spogliato di tutto. La masnada, appena giunta fuori del paese, fu raggiunta dal gar-

zone dell’arciprete, il quale, dopo aver parlato sottovoce con NicolaPerazzelli e Francesco Brindesi, li condusse alla casa di DomenicoSimone23. Qui, con le armi impugnate, bussarono alla sua porta. Il padrone di casa appena aprì fu legato e minacciato di conse-

gnare prontamente mille ducati che teneva ben conservati – di cuiin paese si sapeva dell’esistenza – altrimenti sarebbe stato fucilato. Alle insistenti richieste lo sventurato consegnò ducati 220, i soli

che teneva da parte, ma ebbe salva la vita allontanandosi subitodopo.Il parroco, quando seppe di questa incursione, non rimase del

tutto soddisfatto perché avrebbe voluto l’eliminazione fisica di Si-mone. Per perseguire questo ed altri suoi intenti riprese la corri-

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23 Domenico Simone, cittadino di Pietracupa, fu calunniato dall’arciprete Car-nevale insieme a Giuseppe D’Alessandro per delitti commessi contro il governodell’epoca.

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spondenza con i briganti che nel frattempo si erano rifugiati nelbosco vicino di Pietravalle. Concordato poi l’assassinio di Simonenella notte del 28 agosto, una dozzina di briganti assaltò la casa diDomenico che, colto di sorpresa e pur cercando di resistere, allafine cedé ai rapinatori. Questi, lasciando due di loro per piantonidietro la porta, subito entrarono mettendo a soqquadro ogni cosa erubando oro, argento, panni e biancheria. Non soddisfatti del bot-tino corsero poi a saccheggiare altre case di benestanti locali.A conclusione della scellerata impresa, i malviventi si portarono

appresso Simone con il fermo proposito di fucilarlo nel loro covodi Pietravalle. Alla fine, però, i capi, per un motivo che ignoriamoo, forse, mossi a pietà dalle suppliche dell’ostaggio, si ravvidero elo spargimento di sangue voluto da Don Peppo non ci fu. E cosìl’incredulo Domenico, lasciato libero, fece subito ritorno a casa.Il 26 agosto del 1809 giunse a Lucito una ventina di gendarmi

ausiliari per arrestare alcuni disertori, tra cui tre militi appartenential corpo scelto dei Veliti, tali Nicola De Blasiis, Ottavio Minicuccie Luigi De Rubertis. I primi due furono presi e incarcerati, invecel’ultimo, avvertito in tempo dell’incombente retata, si allontanòvelocemente dalla casa dello zio Michele De Rubertis, dove avevatrovato ricovero, prendendo la direzione del bosco di Trivento incerca della comitiva di Fulvio Quici24.

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24 Fulvio Quici, noto esponente del brigantaggio molisano, nacque a Triventonel 1776 da Saverio e Feliciana di Lazzaro. Sua moglie era Maria Scarano.

Veduta territorio San Biase e Sant’Angelo Limosano

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Il mattino appresso, di buonora, Quici avanzò puntuale versoLucito con la sua brigata, composta di 40 briganti e si fece indi-care l’alloggio degli agenti. Questi erano rimasti solo in quattroperché gli altri erano stati inviati a Campobasso a scortare altridue militi catturati. Una parte dei componenti della banda circondò subito la casa,

altri, circa la metà, si disposero fuori dell’abitato a presidiare levarie uscite, mentre alcuni attesero che Michele De Rubertis si re-casse al convento dei Padri Missionari di S. Antonio, per indurreil parroco a suonare la messa “mattutina” prima del solito in mododa radunare la gente nella chiesa del convento (quella matrice,posta al centro dell’abitato, era inagibile perché lesionata dal ter-remoto del 1805) e spopolare così il paese. Riuniti che furono tutti in chiesa, e approfittando della distrazione

dei fedeli assorti nel canto della messa festiva, il gruppo poté concalma assaltare l’alloggio dei militi, i quali, obbligati a depositarele armi, vennero legati dietro le cavalcature con funi e trascinati albosco di Triventi. Qui, senza indugio, furono fucilati e poi fatti apezzi con le baionette. Due delle loro teste si appesero agli alberiquasi come orrido trofeo per monito alle forze dell’ordine. I briganti, tornati al paese dopo la cruda esecuzione, andarono

in casa del fratello di Michele, don Domenico De Rubertis, il qualeregalò al capobanda Quici un cannocchiale in segno di ricono-scenza e per rinsaldare la loro amicizia. Ad un altro bandito, untale Francesco Sforza di Pietrabbondante detto Rossignolo, invece,offrì un occhialone. Il sindaco Giuseppe De Leo fu poi costretto a fornire vettovaglie

a tutti, trasportate e servite sul posto da tre inservienti di Lucito,perché Quici aveva dato ordine di voler mangiare fuori dell’abitato.Questo massacro fu istigato da un certo Giovanbatista D’Astolfodi Civitacampomarano, delinquente anche lui, che preparò tuttol’agguato. Nel gruppo di quegli individui armati furono riconosciutiCarlo Brindesi di Trivento e Nicola Perazzelli di Lucito. Qualche ora dopo, il popolo, sgomento per l’eccidio, scese in

piazza, facendo capannello e commentando l’accaduto. Alle numerose persone raccolte, Ermenegildo Scarano di Tri-

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vento, che si trovava a Lucito ad apprendere l’arte di armaiolo,raccontò di avere scorto la madre dei briganti Carlo, Francesco ePietro Brindesi, una certa Vincenza Serricchio, che, eludendo l’ar-resto a Trivento, aveva chiesto ospitalità a Lucito ai genitori delbrigante Perazzelli, Aniello e Vincenza Marrone. Lo stesso Sca-rano riferì ancora che, nel 1807, un altro capo della comitiva, PaoloVasile, volendosi rifugiare per un po’ di tempo in questo comune,appena arrivato trovò ad attenderlo Michele De Rubertis, princi-pale benestante del posto, che gli si parò avanti in mezzo allapiazza scambiando con lui cordiali pacche di amicizia sulle spalle.Il 27 agosto, giorno di domenica, la stessa banda capeggiata da

Quici e appoggiata da Vasile e Sforza25 assaltò il comune di Li-mosano. In tale occasione, i briganti che avevano goduto del prov-vedimento di clemenza del generale Compère, si unirono a questa.E così si rivide Vincenzo Cipriani che, ripresa ormai la strada delbrigantaggio, dal covo del bosco di Fiorano si affrettò a richiedereal sindaco Fracassi quelle armi deposte nelle sue mani quando gliera stato concesso il condono alle sue malefatte. Il biglietto gli fu recapitato il 28 agosto 1809, di sera, per mano

di un certo Nicola Amorosi dello stesso paese.Il testo, nella sua forma integrale, è questo:

Al Sig. sindacoCaporal Vingenzo Cipriani di S. Angelo dell’Immosani, che mi rim-mannasse la mia armature, e con altri due fucili bene guarniti, e infaccia al sig. Don Donato, che mi mantasse docati cinquanta, e rotolatre di munizione, altrimenti io vi pianterò sacco anche le masserie emi metterò alla posta per ammazzarti. Direte al sig. med. Elio, chemi mantasse docati cento per tutto mercoledì di tempo. Il sig. Igino,che mantasse altri rotola tre di munizione, con altri docati quarantaed il sig. Igino se nò mi mandate quanto vi ho cercato, io vi ins…[illeggibile]26.

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25 Francesco Sforza, benestante, nativo del comune di Pietrabbondante e so-prannominato Ruscigniuolo per il colore rossiccio della pelle e dei capelli, ap-parteneva alla banda di Fulvio Quici.

26 Biglietto fatto recapitare da Cipriani al sindaco Fracassi di Limosano.

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Il 1° di settembre Cipriani si trovava a Limosano con un gruppodi trenta briganti. Il pomeriggio dello stesso giorno si spostò a SanBiase, con Francesco Brindesi, Nicola Perazzelli, Anselmo Mat-tiacci e altri della banda. Da qui, dopo aver assassinato il baroneFrancesco De Blasiis, come di dirà meglio più avanti27, fece ritornocon tutto il seguito a Limosano. Il giorno seguente Cipriani arruolò altri limosanesi e forestieri

nella sua compagnia.Il 3 settembre, giorno di domenica, a Limosano si respirava aria

di festa per la ricorrenza del ventitreesimo anno dell’arrivo da Na-poli delle spoglie di San Cristiano Martire. Ma se il popolo in giubilo e col vestito cerimoniale inneggiava

con preghiere al santo, il sindaco, malandato e preoccupato per lapresenza minacciosa dei briganti in piazza, quel giorno si rinchiusein casa per scrivere all’Intendente della Provincia Biase Zurlo que-sta lettera:

Signore, Domenica di giorno, essendo tornato malato da cotesta capitale,trovai nella comune i briganti, quali si erano portati a cagione dellafesta di San Cristiano. Essi si portaro nella vicina comune di San-t’Angelo a prendere più centinai di botte e ordinarono di non so-narsi vespro se non al loro ritorno. Nuovamente emanarono i bandi,che niuno ardisse esigere, ne pagare fondiaria sotto pena della vita.Io cercai di persuadere à medesimi di non far emanare il bando,come negl’altri paesi a noccardarsi rossi e mi riuscì colle buonepersuasioni. Han disarmati tutta la gente sana, per cui si teme lavita di molti. Fra nuovi arrollati vi è Ippolito Di Gregorio Legiona-rio, Francesco Minicucci Legionario e Luigi Iammarino, entrambicasari e artieri, ed altri pochi che non so chi siano. In punto che scrivo, son giunti ma di passaggio, per S. Angelo sison diretti; han detto doversi domani portare in Petrella, Montaganoe Ripalimosani; di Montagano ve n’erano tre, di Ripa sette, che

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ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 48 – Processi Politici. 27 ASC - Assassinio del Conte di San Biase Francesco de Blasiis - b. 31, f. 1

e 2 - Processi Politici.

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nuovamente si son partiti per la loro padria, ed arrollava altri indi-vidui, che di giorno in giorno da tutti i paesi corrono ad unirsi.Signore, questa è quella congiura che tante volte ho riferito al pas-sato signor Intendente sapendosene allora un semplice indizio, maora si è fatta palese, per cui dovete essere tutt’occhio per non farloscoppiare in cotesta capitale secondo il sospetto d’allora. Cercheròdi seguitare la carica, prendendoli sempre con quella prudenza ne-cessaria, quantunque i malevoli dicono tutt’altro, ma se vedrò mi-nacciata la vita cercherò scampo altrove. Qui non si è tenutoopportuno far resistenza, temendo dell’incendio, che han minac-ciato, avendone l’esempio di più luoghi, per cui ho cercato di quie-tarlo col buono dandogli tutto ciò che l’occorreva. Signore col far continui rapporti, corre in pericolo la mia vita, mame lo riserbo in qualche occasione più urgente. Si vuole essersiuniti più individui di Sant’Angelo Limosani28.

Misfatti commessi dalla bandaPerché abbiamo fatto riferimento a San Cristiano? Perché da

questo giorno ebbe inizio una tremenda scorrazzata nei paesi li-mitrofi con ricatti, furti e assassinio di un giovane a Pietracupa.Dopo che la comitiva fu ricomposta e accresciuta di numero e

di audacia con gli ultimi arruolamenti, il gruppo partì proprio ilgiorno di San Cristiano, 3 settembre 1809, per S. Angelo Limo-sano. I capi Vincenzo Cipriani, Francesco Brindesi, Anselmo Mat-tiacci e Nicola Perazzelli entrarono nell’abitato, mentre il restodella compagnia rimase, per ordine dei medesimi, fuori. Il sindaco di colà fu costretto a rifornire a tutti prosciutto, for-

maggio, pane e vino e, dopo saziati, alle ore 21 (ore 15 attuali),essi partirono alla volta di Torella. Qui giunti intorno alle ore 24(18 circa), si recarono sul momento in casa dell’ex erario baronale,Antonio Ciamarro, che fu obbligato a procacciare subito vitto pertutti, orzo per i cavalli e a sborsare danaro ai capi. Ciamarro consegnò loro un voluminoso involucro di carta con-

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28 Lettera del sindaco di Limosano all’Intendente di Molise Biase Zurlo. ASC- b. 30, f. 30/8 pag. 49 - Processi Politici.

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tenente numerosi pezzi di moneta di carlini d’argento. Al termine dell’incasso, il gruppo passò alla casa dell’arciprete

don Nicola Ciamarro ed anche lì fece incetta di diversa biancheria,cappotti, posate d’argento, un orologio e due fucili che furonoposti sulla groppa delle cavalcature per il trasporto. I capi brigantisi presero inoltre tre cavalli che, in fretta e furia, fecero sellare edimbrigliare. Due di questi appartenevano all’erario ex baronale eil terzo invece era di proprietà dell’arciprete. I tre stalloni furonodati in dotazione ad altrettanti briganti di Limosano. A conclusione dell’incursione misero a sacco la casa dell’Ag-

giunto di Pace, Domenico Iannacone, cioè del rappresentante dellagiustizia locale, quasi a voler ridicolizzare e screditare il difensoredella Legge dello Stato da loro non riconosciuto.Dopo queste ruberie e aggressioni la masnada si diresse la stessa

notte al comune di Molise distante circa due miglia, ove giunse,dopo una breve sosta di riposo in un capanno, all’alba della mattinaseguente. Sorprendendo l’esattore nel sonno lo fecero condurre ailoro piedi e Brindesi gli ordinò di consegnare due pelli, una di lupoe l’altra di pecora moscia e poi una buona somma di danaro. A giorno fatto i masnadieri si spostarono alla casa di un bene-

stante, nella cui stalla erano tenuti due cavalli. Perazzelli e Mat-tiacci li presero e li montarono cedendo quelli che avevano fino

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Valle del Rio e feudo Vastofalcone

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ad allora cavalcato ad altri compagni che erano rimasti appiedati. Quella stessa mattina si recarono nel vicino comune di Civitavec-

chia (attuale Duronia) ove, appena giunti, disposero di far portaredavanti a loro l’esattore fondiario. Dopo avergli legate le mani conuna cordella, gli ingiunsero di consegnare il danaro della cassa, macostui in ginocchio e in lacrime giurava di averlo già rimesso alla te-soreria di Campobasso. Alle minacce di morte intervenne don Pa-squale Marsella, gentiluomo del posto, che si offrì in sua vececonsegnando ai briganti trenta ducati. E così quel povero malcapitatograzie anche ai pianti e preghiere della moglie, fu salvo e poi liberato. Dopo di ciò i briganti ordinarono al Sindaco viveri e bevande

per tutta la compagnia e orzo per i cavalli con la massima celerità.Ristorati, partirono tutti alla volta di Pietracupa dove FrancescoBrindesi si vantava di avere una stretta amicizia coll’arciprete delluogo, il predetto don Giuseppe Nicola Carnevale. Egli, infatti,spesso diceva agli altri compagni: “Andiamo a trovare il mio caroamico arciprete”. A questa affermazione replicava Anselmo Mat-tiacci con un pizzico d’orgoglio, affermando che il parroco gli erain certo qual modo parente, siccome la sorella della madre dellostesso aveva sposato un suo zio. Quando i briganti giunsero a ridosso della contrada Il Casale,

distante circa due miglia da Pietracupa, si presentò un giovane di-sarmato che, dicendo di chiamarsi Giovanni Guglielmi di Pietra-cupa, chiese di unirsi a loro per levarsi un “capriccio” propriocoll’arciprete Carnevale.Nessuno gli rispose, ma Ciccio Brindesi gli fece segno di se-

guirlo fino al paese. Arrivati quel pomeriggio davanti alla casa del-l’arciprete, questi corse a riceverli, rivolgendosi a Brindesi consommo piacere e accompagnandolo al piano superiore nel qualefece anche accomodare il resto della banda. Don Giuseppe, che evidentemente era stato avvisato del loro ar-

rivo, fece imbandire subito una sontuosa tavola su cui dispose unafragrante porchetta appena rosolata allo spiedo e contornata di cacio,prosciutto e buon vino. La porchetta, però, fu mangiata dai soli capidella compagnia, mentre agli altri fu offerto il resto della tavolata. Durante il banchetto l’arciprete rivolse alcuni brindisi ai capi

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briganti, alcuni in rima (tra i quali, siamo sicuri, non poté mancarequello che, per assonanza, gli veniva meglio: “Un brindisi al Brin-desi”), altri indecenti e indicibili, altri ancora in segno d’augurioai loro prossimi successi.Due o tre briganti di Limosano, scendendo nel sottano di casa,

il cui ingresso era al piano del portone, ebbero modo di rivedereGiovanni che li aveva seguiti, il quale si era appostato vicino aduna catasta di legna con la baionetta alla cintola. L’arciprete, calandosi nel cortile, notò che il giovane si era ca-

gionata una ferita al dito da cui scorreva sangue e, avvicinandosi,cercò di medicargliela con del tabacco, ma Giovanni si ritrasse.Nello stesso momento apparve in alto della scala, al piano supe-riore della stessa casa, una giovane donna che, avendo visto tutto,scendeva con alcune pezzuole in mano per fasciargli il taglio. Il giovane, appena la vide, s’innervosì ancora di più e con uno

sguardo truce rivolto al prete fece un gesto come a voler sfilare labaionetta. Don Peppo, accortosi di questa mala parata, risalì in fretta tiran-

dosi appresso la donna. Brindesi, dal pianerottolo, avvedutosi dellascena, e dopo che il sacerdote gli sussurrò all’orecchio qualche pa-rola, si precipitò ad afferrare e legare Giovanni, il quale venne subitobastonato dagli altri e costretto a riprendere la strada del ritorno. Non soddisfatto, l’arciprete tutto infuriato con gesti impulsivi e

“parole specificamente indecenti”, diceva ai capi Cipriani, Peraz-zelli e Mattiacci rimasti a gozzovigliare intorno al tavolo: “Andate,levatelo quel birbone”. I briganti gli corsero dietro ad acciuffarlo,mentre Don Peppo, affacciato al balcone, con voce grossa infie-riva: “Ammazzatelo, uccidete stù birbone”. Mattiacci, accorrendo anche lui, fu il primo ad avventarsi sul

povero giovane – sicuramente un individuo onesto ma accecatodall’odio verso il prete per la scandalosa convivenza che avevacostui con la sorella – tirandogli col calcio del fucile un forte colposulla tempia che gli deformò il viso e gli fece uscire anche l’occhiofuori dall’orbita. Tramortito, lo trascinarono dinanzi la casa delprete e proprio lì, Brindesi, Perazzelli e Cipriani con tre colpi dischioppo lo freddarono, seviziandolo anche dopo morto.

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Poi Cipriani gli strappò il cappello, lo squadrò, se lo mise intesta per spavalderia e subito, gettattandolo a terra, lo calpestò condisprezzo e disse: “È morta st’anima fottuta”29.La ragazza, Maria Giuseppa Guglielmi, inorridita e trattenuta

con forza dal parroco, non riuscì neppure a vedere il fratello rima-sto straziato a terra. Nella piazza e in vari angoli del paese, dove si andavano for-

mando crocchi di persone, corse subito la voce che il giovane fossestato ucciso perché l’arciprete si era vendicato di lui che, per il di-sonore e la derisione sopportati dalla famiglia a causa dell’unionevergognosa con sua sorella, tenuta segregata in casa come concu-bina, aveva più volte tentato di aggredirlo. Il corpo di Giovanni fu lasciato avanti alla stalla dell’arciprete

e i briganti rientrarono in casa. Il prete, tutto contento, ringraziò icapi per la punizione eseguita e, nel licenziarli, volle accompa-gnarli fino al cortile. Dopo che tutti montarono a cavallo, proferì:”Caporà Ciccio vi aspetto senza meno co’ lì figliuoli nella pros-sima festa di San Gregorio, perché volimmo fare ‘na bella parata,mentre io farò trovare apparecchiato un buon pranzo”. I briganti, grati per l’invito e l’ospitalità ricevuti, si avviarono

verso Fossaceca (attuale Fossalto), ma prima, passando davantialla casa del sindaco di Pietracupa, gl’imposero di far seppellire ilcorpo del giovane con l’avvertimento che, se non avesse provve-duto subito, sarebbero tornati a devastargli ed incendiargli la casa. Verso le prime ore pomeridiane giunsero a Fossaceca. Qui, Brin-

desi, avendo avuto notizia che la compagnia di Fulvio Quici sta-zionava nel vicino bosco di Pietravalle, disse a tutti di andare colàper unirsi a quella.Molti lo seguirono, altri, invece, tra cui Ippolito Di Gregorio,

Luigi Iammarino, Domenico Fracassi, Vincenzo Cipriani e un san-biasese di cui ignoriamo il nome, si opposero per tornare nelle vi-cinanze di Limosano.

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29 Testimonianza del brigante Ippolito di Gregorio di Raimondo di anni 21.di Pietracupa. ASC- b. 23, f.3 e 4 - Processi Politici.

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Costoro, partiti verso quel paese, si fermarono alla masseria diPasquale Carrelli di Fossaceca, dove sette briganti di Ripalimo-sani, tenendo in ostaggio taluni garzoni, avevano mandato a ri-chiedere armi e munizioni al padrone, minacciando in caso dirifiuto di uccidere tutti gli animali. I nuovi arrivati cercarono di distogliere i ripesi dal commettere

tale rappresaglia, spingendoli piuttosto a far ritorno tutti insiemeal loro paese, ma questi si mossero verso il molino di Montaganopresso il quale si unirono alla squadra guidata dai capi Intoscia eNicola Paolillo, anche loro di Ripalimosani, con i quali avrebbero“battuto la campagna” intorno. Il briganti, che si erano separati da Brindesi, una volta arrivati nei

pressi di Limosano, si divisero ancora: alcuni rimasero lì, altri, tracui Cipriani, raggiunsero Sant’Angelo in cui si trattennero tutta lanotte. La mattina seguente, 5 settembre, di buonora, si avviaronoper la strada detta Degli Schiavoni verso il vicino comune di SanBiase. Qui vennero a sapere che le comitive di Brindesi e Quici du-rante la notte si erano battute contro la Guardia Civica di Trivento. La mattina dopo la banda di Brindesi si diresse a San Biase,

mentre quella del Quici al bosco di Trivento. A San Biase, Brindesi, entrò con alcuni briganti del posto nel

palazzo baronale, ormai deserto e spoglio, ove comunque, come

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Crocchi in Piazza - Opera murale - Museo a cielo aperto di Casalciprano

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si dirà in seguito, fece incendiare le carte rimaste nell’archivio escassare le porte del fondaco, invitando i coloni e indigenti localia ripulire tutto il grano e salame riposti così come aveva fatto ilgiorno prima nel magazzino di Leopoldo di Trivento. Avviata questa operazione, Brindesi ordinò ai compagni di sel-

lare le cavalcature e tornare a Sant’Angelo per rifornirsi di pane ecompanatico oltreché foraggio per i cavalli. Mentre erano seduti a ristorarsi, furono avvertiti che il corriere

di Gabinetto transitava per Limosano e così presto rimontarono insella per dirigersi colà, giungendovi però quando il messo avevagià lasciato il paese. Allora, Brindesi, per rabbia e ripicca, si rivoltòcontro il paese, con l’intenzione d’incendiarlo totalmente, ma l’or-dine non fu eseguito per la mediazione dei briganti locali, le cuifamiglie risiedevano tutte lì. Verso sera sopraggiunse la comitiva di Fulvio Quici per riscuo-

tere, com’egli pretese, duecento ducati promessigli in precedenzae mai consegnatigli. A tarda sera, poi, le due comitive tornarono aSant’Angelo per dividersi ancora: il gruppo di Brindesi prese perSan Biase, mentre molti limosanesi con Nicola Perazzelli e Vin-cenzo Cipriani si unirono a quella di Quici per recarsi la mattinaseguente, 6 settembre, al bosco di Trivento. Riunita poi qui l’intera compagnia, che contava circa centocin-

quanta individui, si diresse a Lucito dove si aggregò un altro com-ponente. Era costui Domenico Colozza, originario di Busso30 ma accasato

e ritirato in questo luogo, nei cui paraggi viveva fuggiasco per sot-trarsi alla cattura dei gendarmi a causa dell’assassinio di un cu-stode di pecore commesso nei pressi di Campobasso. A Lucito il drappello restò poche ore, il tempo cioè per riordi-

narsi e predisporre una spedizione a Castelbottaccio. Raggiuntoquesto paese. Quici, per prima cosa, costrinse il Sindaco a prov-

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30 Domenico Colozza uccise il pastore Giacomantonio Catiello. A Lucito cam-biò nome facendosi chiamare Vincenzo e si sposò il 23 ottobre 1806 con Angiolade Sanctis figlia di Matteo e Caterina Ianniruberto. ASC - b.35, f. 35/1 - Processi Politici.

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vedere il vitto per sé, per i compagni e per le vetture. Mentre, però,erano radunati a rifocillarsi, qualcuno li avvisò che il comandanteprovinciale si dirigeva in quella zona con forze imponenti, avendounito la sua truppa a quella dei militi di Gaetano Pece31, per cuiQuici in tutta fretta avvertì l’intera compagnia di montare in sellae tirare dritto per Civitacampomarano. La comitiva, percorrendo le campagne del tenimento e scorgendo

quella di Brindesi che incendiava alcune masserie, si congiunse aquesta per assalire il paese. Ma l’intento non riuscì perché i brigantivennero sorpresi dal “Gran Maggiore” comandante della Provincia,Floristano Pepe e dalla truppa ausiliaria di Gaetano Pece che, dopoun violento fuoco di schioppi, nel quale rimase ferito al braccio ilcompagno più fedele di Quici, Paolantonio Vasile, furono costrettia fuggire e a rintanarsi nel bosco di Trivento. Prima dello scontro, il nuovo aggiunto Colozza, non possedendo

munizioni, fu posto come sentinella su un’altura dalla quale potéseguire ed essere spettatore dell’avvenimento. Egli poi dichiaròche in quell’assalto il gruppo di Nicola Perazzelli si mischiò aquello di Quici, tanto che lui non riuscì a distinguere le due comi-tive in combattimento. Da questa testimonianza abbiamo così la certezza che la banda

di Brindesi in questa circostanza era ancora unita, mentre le com-pagnie dei capi briganti Antonelli, Passarelli e Pronio di Vasto32

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31 Gaetano Pece, di 34 anni, era sergente del gruppo degli Ausiliari di Ripa-limosani. Morì a Campobasso il 15 marzo 1810.

32 La banda Passarelli scorreva lungo la costa adriatica insieme a quella diAntonelli. Questi, originario di Fossaceca, occupava tutto il territorio di Chieti.Il re Giuseppe Bonaparte aveva dovuto scendere a patti con Passarelli invian-dogli due plenipotenziari, il generale francese Merlin e il barone abruzzese Nolliil quale divenne poi Ministro delle Finanze.Giuseppe Pronio nato ad introdacqua, era abate e fu tra i primi a rispondere

all’appello di Ferdinando. Il 18 dicembre 1798 si recò a Sulmona per offrire isuoi servigi al generale de Gambs, che allora combatteva per il brigantaggio.Nel 1808 gli venne meno il suo unico figlio perché ucciso, per ironia della sorte,proprio dai successori di quei briganti che egli aveva arruolato 10 anni prima. Pronio ricevette dal generale duecento fucili e due barili di cartucce, che fece

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sostavano in quel bosco in attesa di far breccia comune. Ricomposto e inquadrato l’intero corpo brigantesco, formato di

circa quattrocentocinquanta individui, quasi tutti a cavallo, Quicidispose di ritornare a Civitacampomarano per battersi tutti uniti ecompatti. Dopo un breve riposo raggiunsero quell’abitato, ove, però,trovarono la truppa dei Regolari schierata in difesa del paese e ap-postata sui parapetti delle case, cioè in una posizione tale che potevaoffendere senza essere offesa. E così, rinunciando all’assalto, i capidecisero di tornare un’altra volta al bosco di Trivento incendiandosulla via, per dispregio, una masseria non distante dal luogo. Quando si ritirarono al sicuro i capi mandarono una ventina di

uomini armati, che si erano rifugiati nel bosco, con un biglietto in-dirizzato al sindaco di Roccavivara al quale s’intimava di recapi-tare subito viveri per il sostentamento dell’intera brigata e deglianimali. Il Sindaco senza indugio fu costretto a consegnare loro trentasei

capre prese dal gregge dell’arciprete di Roccavivara, don Fran-cesco Grimaldi, le quali povere bestie furono uccise e mangiateda tutta la comitiva. Dopo l’abbondante pasto ripartirono e, raggiunto Salcito, alcuni

andarono da un maniscalco a ferrare i cavalli, altri dal Sindaco aprovvedersi di vitto. Nel frattempo un confidente corse ad avvertire la truppa che la

forza militare dei Corsi stava sopraggiungendo per sorprenderli. Al-lora rimontarono presto a cavallo e si diressero al covo di Pietra-valle, ma lungo la strada furono raggiunti dagli stessi militari con iquali si scontrarono duramente e molti briganti ci rimisero la pelle.

Sbandamento, riordino e disgregazione della comitivaLa truppa dei Corsi, non si fermò a quell’attacco ma inseguì i

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pervenire ad Introdacqua, ove armò i suoi concittadini. Il 25 dicembre 1798aveva già ai suoi ordini settecento uomini e marciava alla volta di Roccacasale.Manhès Mc Farlan - Brigantaggio. Un’avventura dalle origini ai tempi mo-

derni. Cap. 4°, pag. 83 - Ed. Capone.

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briganti fino al bosco di Pietravalle, decimandoli e costringendo isuperstiti ad un rovinoso sbaraglio. Dopo questo violento conflitto più di qualcuno, in cuor proprio,

cominciò a pensare di ritirarsi da questa vita così spericolata e tor-mentata. Uno dei primi fu Francesco Minicucci di Limosano che,dal bosco, prese la decisione di allontanarsi. Non confidandosi neanche con i suoi paesani, con una scusa lasciò

i compagni, ritirandosi nottetempo al suo paese in cui rimase nasco-sto per qualche giorno. Per timore di essere scoperto e carcerato poisi trasferì a Guglionesi, nascondendosi in casa di un suo parente. In seguito, anche Iammarino e Di Gregorio, compaesani di Li-

mosano, si ritirarono e consegnarono le armi alle autorità del loropaese, ottenendo in cambio salva la vita. Altri furono arrestaticome Luigi Frosolone, Michelangelo Chiocchio, Giuseppe e Vin-cenzo Matteo. Minicucci dal suo rifugio di Guglionesi prese poi contatto con

il sindaco di Limosano, Francesco Fracassi, a cui riferì di volersirendere utile alla causa pubblica locale e contribuire ai servizi delgoverno francese. Intendendo dargli un segno tangibile del suopentimento, segnalò e fece arrestare Cosmo Del Gobbo e SaverioRicapito, amici briganti limosanesi. Il Sindaco per ricompensa gliconcesse pertanto l’agognato condono.

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Morgia Pietra Lumanna - Trivento

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Francesco Brindesi, scampato al massacro del bosco di Pietra-valle, tese la mano all’amico arciprete di Pietracupa, che lo tennenascosto in una masseria della sua vigna, fornendogli viveri ed ar-mandolo di fucile e munizionamento, poiché dopo la disfatta il ca-porale n’era rimasto spoglio avendo perduto tutto sul campo dibattaglia.Ma la vicenda non finisce qui perché Don Peppo, non del tutto

appagato, con bieca cupidigia si servì ancora di lui e degli altri. Alcuni giorni dopo, appunto, mandò un suo galoppino ad appo-

starsi sulla vetta di un colle di Pietracupa per scrutare e scoprire ilpassaggio dell’altro capo brigante Nicola Perazzelli, rimasto apiede libero e ancora in forza ad una comitiva di alcuni veterani,perché aveva intenzione di depredare il casale di Civitavecchia(oggi Duronia). Perazzelli, infatti, dopo la disfatta di Pietravalle, si era unito al

resto della banda di Fulvio Quici per continuare a battersi perlopiùnei territorio del basso Molise33.L’otto settembre 1809 la banda di Quici, che si era nel frattempo

associata all’altra guidata da Tomeo Basso, alias Bassariello, sco-razzante lungo il litorale adriatico, fece un’incursione nel retro-terra, saccheggiando anche Sant’Angelo Limosano.Il 5 ottobre 1809, alcuni briganti di Ripalimosani varcarono il

fiume Biferno e s’inoltrarono nel territorio di Limosano mettendoa ferro e fuoco alcune masserie, in una delle quali rubarono ancheil fucile di un legionario. Continuando l’avanzata, s’imbatterono inuna tenuta agricola in cui si teneva al pascolo una particolare razzaautoctona di giumenti allo stato brado. Non riuscendo ad imbrigliarlie catturarli, proseguirono lungo il tratturo per Castropignano. Durante il percorso rapirono e presero in ostaggio la moglie e

quattro figlie nubili di un facoltoso di Sant’Angelo Limosano, Vin-cenzo Giuliani, che insieme facevano ritorno al paese, costrin-gendo costui a prelevare il danaro che aveva in cassa.

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33 Testimonianza di Francesco Minicucci Brigante di Limosano.ASC - b. 30, f. 30/8 - Processi Politici.

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La sera dell’8 ottobre, ricongiungendosi agli sbandati al seguitodi Brindesi e Cipriani, decisero di recarsi a Limosano. L’intentoera che qui, il mattino seguente, avrebbero dovuto ricompattarsie riprendere insieme le scorrerie, ma sul posto trovarono in ag-guato il Maggiore Pepe con un gran numero di militi. Un brigante di Montagano fu preso e fucilato sul posto, gli altri

fecero appena in tempo a darsi alla fuga. Pur inseguiti, però, lo stesso giorno riuscirono a raggiungere la

comitiva di Quici sulla strada di Civitacampomarano con la qualeaffrontarono i Gendarmi Reali e un distaccamento del reggimentoReale Corso, ma non avendo alcuna possibilità di resistere a questeforze, si divisero in diversi gruppi ognuno dei quali prese riparonei vari covi del bosco di Trivento. Il Giudice di Pace di questo Circondario fece poi un ragguaglio

sull’accaduto mettendo in risalto il successo delle milizie gover-native sulle torme brigantesche che avevano minacciato la quietepubblica dell’intera provincia e sottolineando anche che molte diloro rubavano “finanche nella pubblica strada”. Verso la fine di settembre, quasi tutte le bande, a questo punto

sbandate e incalzate da ogni dove dalle forze dell’ordine pubblico,si spostarono in Capitanata.Nel Molise, sotto la spinta e le taglie della polizia francese, sor-

sero un po’ dappertutto delatori e traditori che contribuirono a sgo-minare le varie bande rimaste in vita.I rastrellamenti e gli arresti erano diventati tali che le carceri

traboccavano di colpevoli e innocenti. Le commissioni militari,incaricate dai giudici, eseguivano sommariamente condanne allaforca, senza processi e senza sosta. Molti detenuti sopravvissuti alle fucilazioni e alle epidemie, cer-

cavano scampo alla disperata. La gente, almeno quella più agiata, che nei primi tempi aveva

sperato e incoraggiato una tale repressione, ora cominciava a te-mere che quella spirale di odio e di terrore della morte si sarebbepotuta ritorcersi anche contro di loro.Il rigore con cui Giuseppe Buonaparte affrontò il brigantaggio

fu, con l’arrivo di Gioacchino Murat, un po’ mitigato con vari

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provvedimenti di clemenza a favore dei disertori, con permessi dirientri in patria agli esiliati e con l’indulto ai condannati e inquisiti.Ma ciò non bastò ad attenuare il brigantaggio, anzi peggiorò la si-tuazione. Allora Murat, cambiò strategia ed emanò pene più severee oppressive, con cui obbligò “l’infame e vile brigante” alle piùatroci condanne. Si formarono liste di briganti e di proscritti, detteFuorgiudicati, che si affissero in tutti i Comuni, dando il permessoa ognuno di ucciderli o consegnarli alle commissioni militari peressere sottoposti alla tortura e alla gogna oltre che alla confiscadei loro beni a beneficio dello Stato.In seguito a queste rigorose disposizioni, molti parenti e fami-

glie, per semplice sospetto di connivenza con i briganti, furonoperquisiti e reclusi. Si videro così donne, bambini, vecchi, garzoni,preti, eremiti, pezzenti e storpi trascinare nelle orride prigioni diCampobasso, Lucera e Foggia nelle quali, senza mantenimento esenza pietà, morivano di fame e di malattie.Ciò nonostante nel Molise e nel resto del Regno di Napoli varie

comitive brigantesche, tra le quali quelle dei Vardarelli di CelenzaValfortore, dei Quici-Vasile di Trivento, e quelle di Vasto Aimone,continuarono a imperversare contro il governo francese.

Brigante Anselmo MattiacciAnselmo Mattiacci, penultimo di nove figli, era nato a San Biase

il 23 giugno 1786 da Pasquale e Maddalena Fagnano, la cui fami-glia della madre era originaria di Trivento. Anselmo, cresciuto come “uomo di campagna”, si era poi ad-

destrato molto bene agli armamenti e temprato agli assalti. Permaestro di maneggio alle armi e di manovre al brigantaggio avevaavuto il cugino Giuseppe che, come sappiamo, era stato arrestatodal barone il 27 di giugno del 1807. Egli, quindi, fin dal 1799, quando il cugino era in forza nella com-

pagnia brigantesca del circondario, aveva tenuto frequenti contatticon questa e poi, dal 1807, era entrato in più stretta corrispondenzacon i capi banditi triventini Fulvio Quici e Paolo Vasile. Dopo lanotizia della morte di Giuseppe si arruolò nella comitiva di France-

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sco Brindesi, che si era nel frattempo staccata da quella di Quici eVasile, avendo dimora propria, di solito nei boschi di Trivento, Pie-travalle e altri limitrofi. A indurlo fu, come testimoniò il sacerdote Gioacchino D’Andrea

al processo giudiziario contro gli autori dell’uccisione del barone diSan Biase, il tarlo della vendetta che gli rodeva in corpo per aver“perduto un suo fratello [cugino] a causa del Conte istesso de Blasiis,il quale l’aveva tenuto diversi anni carcerato in Lucera ed in Napoli”. Secondo quanto ci conferma Carlo De Blasiis, fratello del ba-

rone Francesco,

nel mese di Agosto di quest’anno mille ottocento e nove, si diedein Campagna Anselmo Mattiaccio, nativo, e domiciliato nel sud-detto Comune di Sambiase mia patria. Egli si unì alle Comitive diBriganti, e propriamente a quella di Francesco Brindesi di Triventi,che faceva da Capo.

Egli, sposatosi il 10 febbraio 1809 con Benedetta De Rensis, siera inserito molto bene nella comitiva partecipando in modo tra-cotante alla testa di varie azioni criminose. Anselmo, nel frattempo, come in precedenza detto, prese parte

insieme a Brindesi, Perazzelli e Cipriani all’assalto e furto del sin-daco di Pietracupa e ad altre imprese criminose nei paesi della zona.Per questi meriti sul campo gli era stato concesso di indossare

la giacca blu e il cappello con la coccarda rossa, divisa che dovevaportare specialmente in occasione di imprese punitive di partico-lare importanza, come simbolo distintivo dell’arruolamento tra icomponenti di spicco nel corpo di combattimento borbonico.In base a una rivelazione fatta dal sacerdote di San Biase, Biase

Leone, che nel 1809 risiedeva a Castelguidone ove prestava ufficiodi “Economo Curato in quella Chiesa Madre”, ci risulta che Anselmopartecipò a un assalto in quel paese. Don Biase così informa:

Nel giorno quattordici del mese di Settembre, verso la mattina siportarono in detto Comune di Castelguidone circa quattordici bri-ganti a me ignoti, a riserba di due che io conobbi essere Anselmo

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Mattiacci, oggi estinto – ovvero in data 10 gennaio 1810 – ed Anto-nio di Pietro Ciavatta miei noti paesani, i quali per appreso aver sac-cheggiato il Sig.r Contempo Lucente di detto Luogo, essi Mattiaccie Ciavatta si millantavano dicendo, com’io intesi, che erano stati inS. Biase ed avevano ucciso il Conte D. Francesco de Blasiis.

Sempre secondo quanto riferisce Carlo De Blasiis

verso la fine dello stesso mese di Agosto si portò la prima volta inSambiase il suddetto Brigante Anselmo Mattiaccio di unita con altricompagni Triventini; fecero un furto nella casa di Eduardo Continelli;vi attaccarono il fuoco, ma non arrivò ad ardere e, commessi altri ec-cessi, si ritirarono nel bosco di Triventi, che era il loro asilo. Ciò micosta per fama pubblica perché al loro arrivo io, ed i miei fratelli ger-mani Conte fu Francesco e’l Prete D. Michele, ci salvammo colla fuga.

In ogni modo gli assalti non finirono qui perché, come continuaCarlo,

dietro un tal successo, essendosi uniti alla suddetta Comitiva glialtri Sambiasesi, Francesco di Andrea Marino, Saverio di PietroMarino e Francesco di Bernardo Leone, tutti miei conoscenti,spesso spesso venivano tal Comitiva nel Comune di S. Biase, com-metteva de’ furti, metteva in contribuzione le Famiglie, faceva ognisorta di male e depredava le campagne d’intorno.

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Atto di matrimonio tra Anselmo Mattiacci e Benedetta De Rensis - Archivio par-rocchile San Biase

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Tuttavia il colpo più grosso messo a segno da lui con la com-plicità di una tale Nicolina e di altri paesani – che riportiamo inappresso – doveva ancora venire.

Panettiera Nicolina AngelocolaNicolina Angelocola, energica e intraprendente donna di tren-

tatre anni, nata a San Biase intorno al 1765 da Crescenzo e Ange-lica Leone, si era sposata con Modestino Marchetta di cui abbiamoaccennato prima.Dalla loro unione nacquero tre figli, di cui due femmine morte

in tenera età, e un maschio, di nome Federico, che all’epoca deifatti esposti aveva appena compiuto due anni. I coniugi abitavano “nella strada Colle della Porta [volgarmente

detta Calla Porte] dirimpetto e distante pochi passi dal fabbricatodi Pasquale Giagnacovo” il quale possedeva anche un negozio an-nesso di Generi & Diversi posto nei locali, oggi siti sotto il log-giato di Piazza Roma, degli eredi di Tommaso Giagnacovo e diquelli di Biase D’Alessandro. Da questa citazione desumiamo chela casa di Nicolina fosse situata all’angolo tra l’attuale Vico Inforzie Piazza Roma. Là viveva insieme al figlio, i suoceri Pietro Mar-chetta e Gaetana Barone e senza marito perché arrestato due anniprima dal barone e rinchiuso nel carcere di Lucera.A lato dell’abitazione teneva un forno che doveva gestire da

pochi anni – essendo questo ius bannale esclusivo del barone finoall’eversione del feudalesimo del 1806 – per la vendita al pubblicodi pane e sale e un’attigua stanza in cui serviva da mangiare e bereai forestieri.La suocera Gaetana, come si evince da un atto notarile34, ven-

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34 Pietro Marchetta, in un atto notarile, dichiara che sin dalli quattordici delcorrente Agosto di questo corrente anno 1789 a circa le ore sedici, avendo espostaquerela criminale di adulterio in questa Corte locale, contro Eduardo Continelli,e Gaetana Barone moglie di esso Costituto per la pratica tenuta in Sua, secondol’era stato riferito, ed insinuato dalle persone sfacendate di questa predetta Terra.E perché appena tanto riferitoli, subito, e senza riflettere al dappiù, ed a primo

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deva presso lo stesso locale, almeno dal 1789, oltre il sale, anchetabacco e salnitro al minuto, ma non poteva cucinare ai forestieriperché anche questo diritto era riservato al barone. Nonostante l’esercizio di tale rivendita le condizioni di sussi-

stenza di Nicolina e della famiglia dei suoceri, così come dichia-rarono i vari paesani chiamati a testimoniare al suo dibattimentoprocessuale, erano molto modeste. “Il loro sostentamento” a detta di tutti “nasce solo dalla indu-

stria, e fatica delle loro braccia”. Lo smercio del pane, se esclu-diamo quello alle persone di passaggio, doveva essere alquantoscarso e comunque limitato ai soli artigiani, boscaioli, pinciari35 e

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moto, vi espose la querela sudetta. Indi poi fattane matura riflessione, e mag-giormente a pieno informato dalla gente più sana di detta Terra, ritrovò esso Co-stituto, che quanto l’era stato detto, ed insinuato, era tutto falso, e lontano dalvero. E sebbene detto Eduardo Continelli continuato avesse la casa di detto Co-stituto, non per altro che per puro interesse passa tra il sudetto Costituto, e’ldetto Eduardo qual è appunto di ritrarre il denaro, che quotidianamente se nericava dalla vendita del Sale a minuto, che si faceva, e si fa dalla detta Gaetanamoglie di esso Costituto, per indi farne le dovute rimesse al Regio affittatore de’Sali, presso di cui l’Eduardo sudetto si ritrova obligato; oltre di altro interesse,che da tre in quattro anni è passato tra’l sopradetto Costituito Marchetta, e’lcennato Eduardo, come dai Conti, e dalle Scritture si possono rilevare.Stante ciò a circa le ore ventuno di detto giorno, detto Costituto personal-

mente si portò nella casa della Corte di detta Terra, ed avanti del Sig.r Gover-natore di detta Terra, per riclamare, e rimettere l’enunciata querela, come infatti voce tanto fece, e dichiarò. Ma perché detto Sig.r Governatore ad un talatto non volle prestar udienza, la mattina susseguente esso Costituto Marchettane formò istanza in scriptis, colla quale non solo dichiarò di rimettere la querelasudetta, perché formata su d’una falsa rappresentanza, ut supra fattoli, maanche quarenus stato vi fosse cosa di contrario tra’l detto Eduardo, e la dettaGaetana; pure volendola fare da vero Cristiano, ed esser osservante de’ Diviniprecetti, pur tutta volta l’escolpò, e li perdonò sì l’uno, che l’altra. Che perciòdella detta querela non se ne avesse avuto, né se ne avesse più conto, né in dettaCorte Locale, né in qualunque altro Tribunale, ma che la querela sudetta si ren-desse nulla, invalsa, e cassa con non fosse stata fatta.A.S.C - Protocolli norarili - notaio Di Iorio di Fossalto, 16 agosto 1789.35 Il mestiere di pinciaro consisteva nel formare coppi e mattoni di terra cotta

utilizzati per la copertura dei tetti e per i pavimenti di casa. Quest’attività finoai primi anni ’50 del ‘900 era molto praticata da noi. L’ultimo pinciaro di San

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a qualche pastore del posto, in quanto il resto degli abitanti, so-prattutto i pochi possidenti, aveva ottenuto il beneficio del fornoin casa, mentre quasi tutti i miseri coloni si adattavano a cuocerela pizza azzima di grano o di granone per il loro fabbisogno quo-tidiano sotto la coppa dei propri focolari. Inoltre, i mercanti e agenti pubblici vari che venivano a cavallo o

i forestieri che si recavano a piedi in occasione delle fiere per la com-pravendita di bestiame o di altre mercanzie, secondo un antico pri-vilegio riservato al barone, erano obbligati ad alloggiare e a ristorarsipresso la sua taverna locale, pagando il dovuto alla corte feudale.Anche per la vendita di vino al pubblico, così come per altre derrate,ogni produttore era costretto a sottostare allo “ius proibitivo” del ba-rone, secondo il quale egli, come “Primo Cittadino” del paese, avevail diritto di precedenza assoluta sulle vendite e sugli acquisti di questi

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Biase è stato Michele Ciccone, morto a Lucito nel 1985.

Atto di matrimonio tra Nicolina Angelocola e Modestino Marchetta

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generi venali rispetto a qualunque abitante. Pertanto il povero sud-dito, per poter commercializzare quel poco di frutto che ricavavadalle proprie fatiche, oltre a pagare il nizzo e i tanti altri obblighi feu-dali alla corte, doveva attendere anche che l’Illustrissimo signore delluogo avesse esaurito le scorte alimentari nel proprio fondaco.L’esercizio di fatto di questa prelazione costituiva per tutti, e so-

prattutto per la nostra fornaia, contrariamente a ogni logica com-merciale, in teoria valida anche a quei tempi ma in effetti pocoapplicata, una concorrenza sleale, perché si traduceva in una fortepenalizzazione alla libertà del mercato.La coraggiosa e determinata donna, per questa e per tante altre

iniquità patite a colpa del barone che, ricordiamo, le aveva strap-pato anche il marito, cominciò a pensare a una risoluzione rapidae definitiva che potesse liberarla da quest’oppressa situazione eaffrancare una volta per sempre anche il paese da remoti e nuovigravami e soprusi. A questo proposito aveva iniziato a tessere una trama con le

mogli degli altri arrestati per mettere in trappola il barone.La sua panetteria era diventata, quindi, il luogo d’incontro se-

greto, quasi un circolo cospirativo in cui si ritrovavano le donnepiù risentite e i parenti più stretti dei detenuti, tra i quali PietroMarino, Quirino Giagnacovo ed altri. La via più logica e praticabile da seguire per mettere in atto il

progetto che aveva in mente Nicolina non poteva essere se nonquella di coinvolgere i briganti locali, di cui già conosceva i capiBrindesi, Cipriani e Perazzelli. A trascinarli nell’impresa ci avrebbe pensato lei con vari contatti

ed espedienti. E così con il pretesto di andare a rifornirsi di legna peril forno, cominciò a recarsi nei boschi vicini di Pietravalle e di Tri-vento con la sua vettura da soma per incontrare di nascosto costoroe riferire notizie fresche sulle reazioni dei notabili del paese e sullemosse dei gendarmi del luogo oltre che per portare loro da mangiaree bere. A farci sapere di questi traffici è Michelangelo Jurese, pin-ciaro che operava nel bosco di Maccavillo e di Trivento il quale eraa conoscenza dei vari movimenti di Nicolina. Egli così riferisce:

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Colla occasione di portarmi in ogni tre o quattro giorni nella mia pa-tria di S. Biase, sono stato solito di provvedermi di pane dalla panet-tiera Nicolina, la quale mi somministrava il pane a credenza; indiverse volte che andiedi di buon mattino […] vidi che la stessa ca-ricava sopra il suo mulo il pane e il vino, e lo trasportava ai briganti.

Costei aveva persino pensato di trovare una donna ai capibanda.Infatti, un giorno chiamò in casa una giovane e povera donna di S.Biase, Maria Bracone, che prestava servizio di cameriera al baronedi Sant’Angelo, Federico De Attellis, e le disse:

Maria mò è tiempe d’arricchirti, tu non devi stare sempre a padrone.Tiengo ‘na ‘mbasciata da farti, compà Ciccio Brindesi, e VicienzeCipriani avrebbero piacere di conoscerti, e vonno spendere qualun-que denaro.

A questo tentativo d’adescamento Maria le rispose “di esser con-tenta di quel pane che le somministrava il suo padrone” e, per ti-more di “ricevere un affronto da’ Capi della Comitiva”, stimò diallontanarsi facendosi accompagnare a Campobasso da due personefidate, Giuseppe Continelli e Pasquale Giagnacovo.Ormai Nicolina teneva in pugno i briganti trattandoli con ri-

guardo e dimestichezza, ospitandoli altresì nella propria casaquando erano di passaggio o venivano apposta in paese per qual-che scopo o per rapinare i benestanti del posto. Stefano Frenza, altro pinciare che aveva le fornaci nei predetti

boschi, così testimonia:

Ho veduto di continuo Nicolina trattare e discorrere segretamentecon Nicola Perazziello, Antonio di Claudio e Francesco Brindesinoti briganti, i qual’individui diverse volte l’ho veduti pure nellacasa di detta Nicolina Angelicola, e mangiare colla medesima nelritorno che io ho fatto la sera nella mia patria di S. Biase.

In altre circostanze i briganti si fermavano presso di lei anchein pieno giorno. Michele Giagnacovo, pinciare anche lui, così dicea questo proposito:

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In una mattina di Agosto, nel passar che feci per avanti della casadi Nicolina, vidi che la stessa stava mangiando con i briganti; e per-ché mi trattenni qualche minuto a guardarli, Teresa Caputo, che eraanche con essi mangiando [...] mi rimproverò, dicendomi: Che tieniin mente?

Attraverso questi banchetti e appuntamenti segreti e palesi coni capibanda, Nicolina riuscì a convincerli a eseguire il sequestroe la condanna a morte dell’ex barone. Con tutta probabilità la no-stra abile panettiera, per meglio mettere in pratica questo suo di-segno, arrivò pure a persuadere Anselmo Mattiacci, poi Francescoe Saverio Marino e Francesco Leone ad entrare e agire di conse-guenza nella banda di Brindesi e compagni. A questo punto dellavicenda sia Anselmo sia Nicolina, che riteniamo il braccio e lamente dell’operazione “Assalto al palazzo baronale”, si appresta-rono alla manovra della cattura e uccisione di Francesco.La mattina del giorno stabilito per il rapimento, quand’era

messo tutto a posto, Nicolina corse al bosco ad avvertire i brigantiche l’ex barone si trovava tranquillo e beato e senza guardie nellasua residenza di San Biase.

Fucilazione del baroneEra il primo settembre 1809, tardo pomeriggio di venerdì,

quando si vide apparire al Guade capizze, passo situato all’uscitadel bosco Maccavillo, una pattuglia di briganti che si muovevalungo la strada mulattiera principale che conduceva a San Biase. Alla testa della banda, formata da una trentina d’individui, si

distinguevano a cavallo, armati fino ai denti, con giubbe scure mu-nite all’occhiello di una coccarda borbonica e con cappellacci ap-puntiti fasciati di un nastro rosso, tre condottieri che avevano tuttal’aria di accingersi a un assalto importante. Gli altri della comitiva, pure armati e “coccardati”, li seguivano,

con qualche fatica, a piedi. I capi briganti al comando erano Francesco Brindesi, Vincenzo

Cipriani e Nicola Perazzelli. Facevano parte del resto della squa-

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dra, tra i componenti riconosciuti, Antonio di Claudio, Eustacchioe Saverio Del Castello di Trivento; Domenico Fracassi, VincenzoMatteo e Luigi Frosolone di Limosano e molti ribelli dei paesi vi-cini. Inoltre, a far parte del gruppo, in prima linea, c’era AnselmoMattiacci seguito dagli altri sanbiasesi Francesco Leone, Saverioe Francesco Marino, i quali come disse il pinciare MichelangeloJurese, presente al momento nel bosco Maccavillo, spronavano glialtri rimasti indietro con queste parole: “Figliù, camminate cheavemmo accidere le Conte!”.Giunti a ridosso del borgo di San Biase irruppero spavaldamente

nella piazza antistante la chiesa.

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Anfratto bosco Maccavillo - San Biase

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Quelle poche persone presenti – giacché la maggior parte si tro-vava in quel momento a lavorare nei campi o sulla via del ritorno alpaese e le donne occupate a preparare nelle case il pasto della sera –temendo un ulteriore saccheggio o un’estorsione di denaro a dannodella popolazione, al grido “i briganti! i briganti!” si rinchiuserosbigottite nelle abitazioni o fuggirono per nascondersi nei paraggi. Qualche curioso, più temerario che coraggioso, in ogni modo

restò, e restarono soprattutto le spie e i favoreggiatori che, oppor-tunamente appostati, funsero da “palo” all’azione che si stava percompiere. Brindesi, incitato da Nicolina e dalla suocera di questa,Gaetana, con segni eloquenti e frasi blasfeme diretti al signore delpalazzo, con un balzo felino scese da cavallo. Poi, dietro a Mat-tiacci, che conosceva bene il posto, corse anche lui verso l’ingressoprincipale del castello baronale seguiti da una parte del gruppo. Altri, nel contempo, secondo quanto previsto, andarono spediti a

cingere il palazzo e a presidiare le diverse porte di uscita del paese. Nel cortile davanti al portone passeggiavano e discutevano tra

loro, all’oscuro di tutto, due fratelli del barone, il dirigente pro-vinciale delle milizie Carlo e il sacerdote Michele. Questi, sorpresi e bloccati dagli assalitori, non poterono fare altro

che prestarsi ai loro ordini. Anselmo, ben noto ai due maggiorenti,

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Cattura barone Francesco De Blasiis (Foto dal web)

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pretese di sapere subito da loro dov’era il barone Francesco e, avutoper risposta che si trovava in una stanza al piano superiore, insiemea Brindesi, costrinsero i fratelli, sotto minaccia delle armi, a salireprecipitosamente avanti a loro onde arrivare per tempo a fermare eagguantare il padrone di casa. Raggiunto d’un fiato costui e inti-matogli di consegnare le armi, lo presero e gli legarono le mani conuna corda, così come fecero al fratello Carlo. L’altro, il prete, fu risparmiato. I due malcapitati, uniti e tirati per un capo della fune giù per le

scale e sospinti, con l’aiuto di altri che attendevano all’uscita, finoalla pubblica piazza, furono qui lasciati davanti alla bottega di Pa-squale Giagnacovo, nelle mani possenti e sotto i fucili spianati deifidi compagni. Intorno a costoro si radunò subito il resto della comitiva e taluni

indiscreti del posto, parenti o conniventi dei briganti paesani che,con modi e gesti scurrili, si facevano beffa delle implorazioni edei lamenti dei due prigionieri. Tra questi ultimi spiccava la figuradel padre del bandito Saverio, Pietro Marino che, con astuzia e de-strezza, sovrintendeva alle operazioni in corso. Costui, altro refe-rente locale della brigata brigantesca, che, con Quirino e pochialtri aveva coadiuvato con Nicolina per mettere a puntiglio la ma-novra del rapimento, era assai temuto dalla popolazione, non soloper la protezione di cui allora, ovviamente godeva, ma per il tem-peramento prepotente e vendicativo con il quale aveva sempre te-nuto in soggezione gli altri. A questo punto i capibanda, stanchi e affamati, avendo portato

a buon fine l’impresa e messo al sicuro la “preda cacciata”, volleroacquietare, per così dire, lo stomaco e lo spirito, entrambi bollenti,con un abbondante pasto e molti boccali di vino. E così entrarono nello spaccio del Giagnacovo.A provvedere all’occorrenza si prestarono, con gran premura,

Nicolina e sua suocera. Qualcuno fu mandato di corsa da Mattiaccia prendere un carrafone36 di vino a casa del possidente “dottor fi-

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36 Era un bottiglione di vetro della capacità variabile, di solito da 12 a 16 litri.

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sico” Nicola De Paola, Sindaco del paese. Altri, in giro per le casea bussare alle porte, sotto l’occhio vigile di Marino, avevano pre-teso e ottenuto dell’altro. Gaetana, intanto, si affrettò a portare un grosso cesto colmo di

pane, appositamente preparato e appena sfornato, mentre Nicolinatornò presto con un pirette37 pieno di vino. Poi tutte e due, come vere e solerti padrone di casa, dispensa-

rono l’intera provvista e ogni altra cosa ai capi e primi attori, ac-comodati intorno a un tavolo, e poi agli altri che, richiamati nelmentre dal profumo della tavola, erano entrati nella bottega e sierano accalcati attorno ai primi per accaparrarsi qualche bocconeda metter sotto i denti famelici. Per il resto, e soprattutto per il companatico, il negozio alimen-

tare che avevano occupato di proposito si porgeva con dovizia atutte le bocche!Fuori, nel frattempo, un certo Saverio Continelli, la cui famiglia

era molto vicina al barone, e non solo di casa, commosso dallesuppliche e dalle lacrime dei sequestrati, si fece avanti e chiese aBrindesi, il quale di tanto in tanto si affacciava per controllare cheall’esterno fosse tutto a posto, di voler riscattare la libertà dei dueper cui era disposto a offrire cinquanta ducati. Dietro un primo diniego Saverio raddoppiò l’offerta e il brigante

accettò di sciogliere solo Carlo, mentre il barone, come secca-mente rispose, “ancorché la somma fosse di mille” non poteva es-sere svincolato perché doveva essere condannato a ogni costo alpatibolo.Carlo, per ordine dello stesso brigante, fu subito accompagnato

in casa di Continelli.Pasquale Giagnacovo, mosso pure lui a compassione e dandosi

poca cura di quello che stava succedendo alla propria bottega, s’im-pegnò a trattare con i briganti per cercare di salvare il salvabile.Pochi istanti dopo, mandato a chiamare per Saverio, Giagna-

covo raggiunse lesto Carlo da cui ebbe “efficaci premure” di in-

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37 Era un recipiente di latta o di vetro a forma di pera del volume di circa 15 litri.

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tercedere presso gli altri capi assicurando loro somme ben più so-stanziose da parte della famiglia De Blasiis per l’affrancamentodel barone. Riferita l’ambasciata a Cipriani si sentì da questi ne-gare con sdegno e minacce la proposta e ogni ulteriore possibilitàd’ingerenza.Dopo qualche momento i capi briganti, satolli e rinfrancati ancor

più degli altri, uscirono e diedero ordine immediato agli estraneidi sparire. Allora Cipriani prese la corda che teneva stretto Fran-cesco e la legò a un anello della sella, poi con un balzo vi montòe spronò con i talloni il cavallo che, anch’esso rinfrancato con unabuona razione d’orzo misto a grandinie, fece un salto in avanti tra-scinandosi dietro l’affranto ostaggio. Gli altri due, Brindesi e Perazzelli, fecero altrettanto. I tre in testa si diressero subito, l’uno dietro l’altro e seguiti dai

soli compagni di ventura, lungo la strada principale di uscita dalpaese (odierna via Principe di Napoli), allora costeggiata da ungruppo di case detto Borgo Sant’Angelo, per nulla toccati dai piantie dalle invocazioni del povero Francesco. Anzi, ai suoi lamenti,Cipriani rintuzzava duro: Hai pure coraggio di parlà, mentre tienisei colonne di Santa Chiesa a marcire in carcere a Lucera e mo’chiagni, sta vota stu fuosse ne le zumbe.

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Veduta Borgo Croce e morgia Martino - San Biase

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A questa e ad altre accuse il barone rispondeva sempre più de-bole e accorato: ”Non sono stato io, ma la giustizia”.Transitarono dinanzi all’abitazione del sindaco, forse lì rintanato

o, piuttosto, fuggiasco, e proseguirono verso la Croce di S. Piaposta all’uscita del paese (detta ancora oggi la Crocetta). Passando, anzi, quasi strisciando davanti a questa il barone, non

potendosi fare il segno della croce e ormai rassegnato ad andareincontro a un’inesorabile e imminente condanna, forse riuscì solo,con un fugace e supplice sguardo, a raccomandarsi l’anima allaCompatrona, il cui Corpo Santo era stato voluto dal padre e fattogiungere con tanta solennità da Roma poco più di mezzo secoloprima e che lui, da bambino, aveva potuto ammirare al suo arrivo.Arrivati poco più in là, seguendo sempre la strada mulattiera

che conduceva a Sant’Angelo Limosano – che per Francesco siera trasformata, tra una caduta e l’altra, in una sorta di Via Crucis –prima della biforcazione che portava al bosco Defensa, si ferma-rono in un largo e scelsero con accortezza l’albero al quale dovevaaffidarsi l’ostaggio. Dopo avergli legato ben strette le braccia e le gambe intorno al

tronco presero le giuste misure e precauzioni per il tiro.Era ormai sul calare del sole, quando giunse l’ora fatale del-

l’esecuzione: Cipriani, Brindesi, Perazzelli e Mattiacci si schiera-rono a pochi passi e fecero fuoco con gli schioppi tra il tripudiodel gruppo.I colpi raggiunsero la gola e il fianco destro di Francesco, che

tosto si accasciò agonizzante.Quando furono sicuri della sua morte, lo sciolsero e lo lascia-

rono stramazzato a terra, indi partirono trionfanti alla volta delbosco di Limosano.Nella quiete della sera gli echi degli spari risuonarono come

acuti rintocchi funebri di campane in ogni angolo del paese eognuno rinchiuso nelle proprie mura o altrove intese e capì chequelli erano stati diretti sicuramente al barone. La maggior partedelle persone, in cuor proprio, gioì, poche si rattristarono, mentrele altre restarono tra l’incredulità e l’indifferenza.La notte calò di lì a poco sul corpo di quel disgraziato e su ogni

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altra cosa, e ciascuno, in uno stato d’animo diverso e con lo stomacopiù o meno riempito, si mise a letto o su un giaciglio a riposare.

Avvenimenti dei giorni successiviIl mattino seguente, di buonora, si sentirono sfilare i catenacci

e le barre dietro le porte e gli uomini, l’uno dietro l’altro, quasi fa-cendosi più coraggio, misero piede fuori, chi per semplice curiositàchi per stretta necessità, dovendo andare in campagna o in altraparte del paese ad accudire al bestiame… e con la segreta speranzain cuore di trovare ogni cosa a posto! Diversi, tra i più intriganti oincreduli, si spinsero fuori del paese per accertarsi dell’accaduto.Alcuni, come Pasquale Giagnacovo, dovendo recarsi a Sant’An-gelo per affari, o altri che andavano da quella parte per lavoro, fu-rono costretti a passare proprio sul luogo dell’assassinio. Tanti,quindi, poterono riconoscere il corpo sfigurato di Francesco chegiaceva a terra, in una chiazza di sangue, con la camicia biancabruciacchiata e insanguinata, esposto al pubblico vituperio dei piùo alla penosa considerazione di alcuni.Giagnacovo, ripassando dopo alcune ore e constatando che nes-

suno aveva avuto la bontà (o il coraggio?) di rimuovere la salmaper trasportarla in luogo più degno, si adoperò con urgenza diprovvedere al bisogno. Con l’aiuto di tre volenterosi, andò a prendere la bara dal fale-

gname Ruggiero Marino, al quale Modesto Marini, in nome delDecurionato38 comunale di cui faceva parte e, in assenza del Sin-daco, la stessa mattina aveva dato disposizione di “costruire subito,e nella miglior maniera, una cassa per far tumulare il Conte” e vifece collocare il cadavere. Le quattro persone, Nicola Giagnacovo,Costanzo d’Andrea, Nazario Leone e lo stesso Pasquale, si cari-carono sulle spalle la cassa e la trasportarono verso la chiesa madrecon l’intenzione di dare al defunto una decorosa sepoltura nella

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38 Il Decurionato, istituito dalle leggi napoleoniche, corrispondeva all’attualeConsiglio comunale.

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tomba gentilizia di famiglia. Ma appena giunti sul sagrato si pre-sentò puntuale Pietro Marino che, con modi intimidatori proibìloro di entravi sostenendo di aver ricevuto raccomandazioni severedai briganti di impedire ogni esequia e tumulazione.La cassa fu lasciata così nell’atrio della chiesa in penosa attesa.Più di qualcuno, però, nel vederla, sogghignava e con dispregio

sotto cappa se la godeva! In particolare “Nicolina Angelicola e Te-resa Caputo” come disse Maria Bracone che era pure lei con lorosotto l’Arco della Loggia, luogo che dà sulla piazza e in cui soli-tamente anche a quella epoca ci si intratteneva a sbirciare e a spet-tegolare, “nel vedere della bara, incominciarono a ridere tra loro,compiacendosi della morte del Conte”. Anche il giorno dopo le stesse se la ridevano e schernivano nella

panetteria. A Maria, che si era recata al forno quella mattina perprendere il pane e che inevitabilmente si era accorta della loro pa-lese contentezza, Nicolina così rispose: “Stiamo allegre perché siè levato il lupo del paese, la mano mia ci voleva, altrimenti non sene faceva niente”. E aggiunse: Mo, che ci avemmo levato la mosca,avemmo la speranza ca ritornano le carcerati nuosti, e nel con-tempo si voltò al suo bambino, dicendogli: Federico di Mamma

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Rappresentazione rapimento barone - San Biase 1986

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seja statte allegramente ca compà Ciccio Brindesi, e Vicienze Ci-priani t’anne da mettere la dragona – un modo di dire del tempoper augurare al figlioletto un futuro da cavaliere. Nel frattempo, verso sera, il sacerdote Gioacchino D’Andrea,

mosso da spirito cristiano e umano, insieme al curato VincenzoDe Paola e con l’aiuto di una donna presente in piazza, tale AlbinaCasalfiore, tentarono d’introdurre la bara nella chiesa con l’intentodi dare una rapida benedizione e sepoltura al morto, cosa che nonfu neanche allora possibile per i minacciosi avvertimenti del solitoMarino.La mattina dopo, 3 settembre, giorno di domenica, secondo una

nota scritta, poi, dallo stesso Carlo e rilasciata al giudice, “PietroMarino ritrovando il Cadavere del Conte entro la Chiesa Madre[…] mosse un allarme sul momento, ed obbligò il popolo adestrarlo da quel luogo”.Allora Nazario Leone, con l’aiuto della moglie e di Nicola Gia-

gnacovo, tra quelli che si erano prestati al commiserevole trasportodella bara in piazza il giorno prima, la ripresero e la portarono nellacappella di San Biase, fuori le mura, ove fu sotterrata alla meglioin una fossa attigua.

Rappresentazione rapimento barone - San Biase 1986

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Dopo alcuni giorni, e precisamente il 5 settembre, la stessa co-mitiva di briganti, ancora più accresciuta di seguaci e in tracotanza,fece ritorno a San Biase e assalì il palazzo baronale, ormai abban-donato, mettendolo a sacco e fuoco. Poi, prima di ritirarsi, fece man-dare un bando per il paese affinché ogni colono potesse riprendersila quota del terraggio consegnata presso i depositi della camera ba-ronale; ma i briganti paesani, rimasti per partecipare alla spartizionedel bottino, e per accaparrarsi il meglio, forzarono presto le ported’accesso al fondaco e fecero man bassa del grano e delle altre der-rate ivi conservati. Costoro, come si può facilmente immaginare,oltre che provvedere a se stessi, pensarono ad approvvigionare i pro-pri parenti, amici e complici. Anche Nicolina, come ammise leistessa davanti al giudice, “si andò a ripigliare tre mezzetti di granoappunto quanto ne aveva recati al Conte di terraggio”.In questo modo tutte le famiglie a loro strettamente legate e

quelle dei carcerati reclusi ebbero non soltanto la quantità corri-sposta ma, approfittando di tanta grazia, molto di più della lorospettanza a scapito di tante altre che, altrettanto bisognose e in di-ritto di rifarsi del grano versato, essendo tenute alla larga dai piùprepotenti, trovarono il magazzino vuoto. E così, come succede spesso tuttora, gli umili – che sono anche,

di solito, i più onesti e disagiati – rimasero ancora una volta benserviti e gabbati!Una settimana dopo, ovvero il 12 settembre, proprio nel giorno

della fiera, la comitiva brigantesca ben presto si ripresentò a SanBiase a presidiare il paese e impedire che la fiera e la festa di S.Pia si svolgessero regolarmente in piazza. La fiera e la festa, invece, si fecero a casa di Nicolina!Nella sua panetteria, infatti, furono accolti e ospitati tutti i bri-

ganti per un banchetto di celebrazione per la liberazione “del lupodel paese”. A confermarci tutto è Gaetano Marino, il quale rivelòche “la comitiva de’ briganti al numero di circa venti nel giorno de’12 Settembre” si è “trattenuta per tutta quella giornata in S. Biase[…]”. L’atmosfera di giubilo e di cordialità in quel giorno era taleche, continua Gaetano, “uno de’ briganti chiamato Nicola Peraz-zelli di Lucito teneva nelle braccia il figlio di Nicolina, ragazzo di

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circa ventiquattro mesi, divertendosi per la piazza, mentre gli altribriganti trattavano anche con confidenza” la padrona di casa. Questo comportamento gioviale e quasi familiare, che in parti-

colare Perazzelli teneva con la donna e il suo bambino, fu giudi-cato da alcuni maliziosi del paese come un segno di più profondaintimità tra i due. Ad avvalorare questa indiscrezione ci sono lereciproche accuse di malafede e i palesi e sonori insulti che Mariae Nicolina si scambiarono durante l’acceso dibattimento avvenutopoi nel tribunale penale. Quest’ultima disse all’altra, tacciandoladi “pubblica meretrice”, che “aveva avuto fortuna coll’essersi por-tata in Campobasso, dapoiché i Capi Briganti Cipriani, e Brindesi

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Cippo sul luogo della fucilazione del barone - San Biase

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[non nominando, si badi bene, Perazzelli] – volevano svergo-gnarla, e quindi ucciderla”.Maria non negò questa sua debolezza, ma le rispose in ogni

modo di “non averlo fatto co’ briganti” alludendo così che Nico-lina lo avesse già fatto con uno di loro.Appena il giorno dopo, proprio quello in cui si sarebbe dovuta

svolgere la celebrazione di Santa Pia, arrivò a San Biase un eser-cito di gendarmi napoleonici e il clima di festa e di euforia per Ni-colina e compagni finì. Anzi, costei cominciò a preoccuparsi perla sua sorte.In tale occasione, come ci riferisce il figlio studente del sindaco

di San Biase, Luigi De Paola, “essendo arrivati da circa trecentoFrancesi in San Biase del Regimento cento e uno sei Ufficiali, sta-rono in questo giorno nella casa di esso il quale essendosi portatoin questo giorno a provvedersi di minestra bianca39 […] da Nico-lina, ivi trovò la sua paesana […] la quale sapendo che nella [sua]casa vi erano alloggiati gli Ufficiali sudetti, la detta Nicolina siraccomandò [a lui] a non farla molestare, dapoiché ella li sarebbestata grata, e riconoscente”. Oramai la caccia spietata ai briganti da parte delle truppe go-

vernative era cominciata e per Nicolina come per tutti gli altricomplici, che iniziavano anche loro a temere per la propria sicu-rezza, si annunciavano tempi duri da sopportare.

Lotta armata al brigantaggioIntanto, tornando alle conseguenze dell’assalto al palazzo di

quella sera, i familiari di casa De Blasiis e i pochi notabili delposto, in preda al terrore, si erano rifugiati nottetempo presso amicie conoscenti di Campobasso e dei paesi vicini, provvedendo subitoa comunicare all’Intendenza di Molise l’efferato crimine.

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39 La “minestra in bianco” doveva essere le sagne a recapate – dette poi sagnea la ze Flemene – conciate con cipolla, peperoncino, guanciale e lardo sfritti.Quella condita in rosso con il pomodoro, prima fresco e poi in conserva, era al-lora appena in uso.

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La macchina della giustizia, però, si mise in moto assai a rilento,nonostante la pressione esercitata dai familiari sul tribunale diCampobasso e l’implorazione “umiliata” da un fratello della vit-tima al cospetto del re.Il giudice di Pace di Trivento, “attesa la posizione infelice per

essere infestate le contrade da orde di briganti” solo su pressanti ereiterate richieste della Corte criminale della nuova Provincia diMolise, avviò i preliminari del procedimento penale. Come prima disposizione il giudice spiccò un mandato di cat-

tura e di traduzione in carcere alle mogli dei ribelli reclusi, tra lequali Nicolina. Il processo giudiziario conclusivo, uno dei primisvoltisi presso il neo tribunale di Campobasso, chiamò in causabuona parte degli abitanti di San Biase e alcuni testimoni di Li-mosano.Le varie deposizioni dei testi esaminati riconobbero e sosten-

nero concordemente che l’esecuzione del misfatto era avvenutaper opera di una banda di briganti guidata da Mattiacci e che eranoaltresì implicati nel delitto Nicolina, sua suocera e taluni altri com-plici del posto. Dopo la pubblica accusa e il dibattimento nell’aulagiudiziaria dei testimoni a carico e a discarico degli imputati, laCorte emise la sentenza: Nicolina fu condannata alla pena delladetenzione “durante la sua vita” per delitto “d’istigazione all’omi-cidio” che scontò nelle prigioni de L’Aquila40, sua suocera Gaetana

40 Nicolina in effetti scontò una dura pena di 28 anni in buona parte nel carcerede L’Aquila presso il Forte Spagnolo. Nel 1837 fu messa in libertà andando ad abitare a casa del fratello nel Borgo

Croce di San Biase dove morì il 23 marzo 1845, senza discendenti diretti, all’etàdi 70 anni. Il bambino Federico dovette morire in cella nei primi anni della suaprigionia.Per l’anagrafe comunale Nicolina fu dichiarata morta per due volte! Cfr. p. 138.Il sindaco Modesto Marini e il cancelliere Domenicangelo Giagnacovo, forse

a causa delle notizie caotiche e dell’esecuzione di massa dei reclusi del periodo,il 26 luglio 1810, in qualità di funzionari degli atti dello Stato Civile di SanBiase, sottoscrissero le testimonianze congiunte di Domenico Marino e CostanzoLeone, conoscenti della defunta, i quali dichiararono la morte di Nicolina An-gelicola avvenuta nel giorno 31 marzo 1810 in Campobasso, di anni 35 domi-

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Barone a sei anni di reclusione per “cospirazione all’omicidio”,ma morta anzitempo nel carcere di Campobasso il 22 aprile 1810,mentre Pietro Marino fu sottoposto alla vigilanza domiciliare “percomplicità subalterna”.Di Quirino Giagnacovo sappiamo che fu condannato a pochi

anni di reclusione e, secondo una nota emessa dal cancelliere dellaCorte criminale, il 17 maggio del 1810 ”fu destinato con altri Car-cerati al Servizio Militare in forza de’ Reali Ordini”.Tutti i briganti identificati dalla popolazione, sebbene latitanti,

furono condannati al massimo grado di pena. Tuttavia molti, a se-guito di provvedimenti di clemenza emanati dal governo di Murat,da “uccelli di bosco” si consegnarono alla Gendarmeria militare,ove deposero le armi e usufruirono sconti di pena. Altri vennerotradotti in vari reparti o rimessi presso la “Grande Armata” di Na-poli, dalla quale furono destinati ai fronti di combattimenti se nonfucilati durante i vari tragitti.Ai briganti paesani Anselmo Mattiacci, Francesco Leone, Fran-

cesco e Saverio Marino, che si presentarono spontaneamente altribunale di Campobasso per ricevere la munificenza concessa dalgoverno e a quelli tenuti a Lucera o Trani, cosa successe? Poco sappiamo.Di Anselmo sappiamo solo che, come rispose Crescenzo Con-

tinelli ai Gendarmi Reali recatisi presso la sua casa per arrestarlo,“si presentò a Campobasso il 29 di settembre per beneficiare del-l’indulto”. Egli, quale maggiore responsabile del rapimento e uc-cisione del barone, nonostante le promesse riduzioni dellesanzioni, fu ristretto nello stesso carcere in attesa di una dura penaa ferri. Sappiamo anche che, per l’enorme affollamento delle car-ceri di quei tempi in tutto il Regno, durante i mesi precedenti, siverificarono tra i reclusi molti casi di tifo petecchiale ed esante-matico seguiti da numerosi decessi.

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ciliante in questa Comune strada Colle della Porta, nata nella medesima, mogliedel fu Modestino Marchetta, figlia del fu Crescenzo Angelicola, agricoltore, edella fu Angelica Leone.

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Vittime di queste gravi malattie furono, con tutta probabilità Mo-destino Marchetta e altri paesani, mentre Anselmo Mattiacci e Fran-cesco Leone, anche per ridurre il sovraffollamento delle celle,furono condannati alla forca le cui esecuzioni ebbero luogo il 29ottobre 1809 nella piazzetta del mercato di Campobasso. A seguito di queste epidemie il Ministro degli Interni, con regio

decreto del 30 aprile 1810, ordinò alle Intendenze alcune misurepreventive. Con un altro dispaccio inviato alla Corte criminale diCampobasso, al fine di “porre freno ai progressi di questi mali”, fudisposto poi di formarsi una commissione “ad oggetto di classifi-care i Detenuti, di rinviare subito al loro destino coloro, che nondebbono più rimanere nelle prigioni, […] e di spedire tutti i carce-rati al Deposito generale di Napoli”. Ad avvalersi di questa dispo-sizione fu Giuseppe Ziccardi, condannato “ai ferri” di Lucera, ilquale, insieme all’arciprete Don Peppo Carnevale di Pietracupa, fumandato il 14 luglio dello stesso anno al “Servizio Militare”.Essere deportati per questo “Servizio” o per la “Grande Armata”

non voleva dire, di certo, passare a una condizione di vita migliore:quasi tutti i detenuti si destinarono ai fronti di combattimento o ailavori forzati o furono fucilati durante i vari trambusti, come suc-cesse ad Antonio Ciavatta e Costanzo Braia. E gli altri briganti che presero parte all’assalto e all’esecuzione

di Francesco, che fine fecero? Ci è nota solo la sorte di Vincenzo Cipriani di Sant’Angelo Li-

mosano e di Saverio Del Castello di Trivento: il primo, secondouna testimonianza del Sindaco di Limosano, fu fucilato dallabanda di Fulvio Quici nel bosco della Castagna e il secondo, comeriferì il padre Adamantonio, si trovò morto, per un colpo di schiop-pettata, nella campagna di Trivento.

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Atto di morte di Anselmo Mattiacci - Archivio parrocchiale San Biase

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Nel 1810 il re Gioacchino Murat concesse il mandato di repres-sione a un giovane ufficiale francese, Antonio Manhès che già nel-l’autunno dello stesso anno, aspettando che i boschi si spogliasserodelle foglie in modo da offrire una maggiore visibilità, mise in attoun grande spiegamento di forze di polizia e di militari ausiliari percircoscrivere e combattere il brigantaggio.Ma, nonostante le misure coercitive adottate, insufficienti e tar-

divi furono i risultati conseguiti. Buona parte dei briganti, dei disertori e dei loro protettori, a

causa della mancanza di coordinamento tra le forze competenti incampo (Intendenza, colonne mobili e guardie civiche), sfuggì alrastrellamento e alla disciplina del servizio militare.Nel 1813 iniziò un’imponente operazione di perquisizione, co-

mandata dal generale Compére, che abbracciava un vasto territo-rio, dal Fortore al Biferno, interessando così buona parte delle areeinterne del Molise, comprese quelle di Trivento e San Biase.A quest’azione militare parteciparono molte squadriglie, for-

mate da giovani reclutati sul posto sotto il comando di esperti gra-duati. Queste unità, in collaborazione con le autorità e le forzecomunali, dovevano impegnarsi a ricercare e a scovare i fuorileggeo perlomeno a impedirne la fuoriuscita dalla provincia di Molise. I renitenti o traditori erano subito deportati nei campi di puni-

zione.Lungo la linea del Biferno, da Guardialfiera a Ripalimosani, fu-

rono schierati 450 uomini, mentre una colonna mobile di 250 sol-dati circondava il bosco di Trivento, covo principale delle bandenemiche. Sul territorio di San Biase furono dislocate trenta unità di forze

che avevano formato un posto di blocco sul tratturo – allora pas-saggio obbligato di uomini e di animali – presso il Piano Molino,proprio a ridosso del molino ex baronale. Nonostante un tale di-spiegamento di uomini e di mezzi, i capi banda Fulvio Quici ePaolo Vasile non furono nemmeno avvistati.Il 27 agosto 1813 Quici, con una scorta di 14 individui a cavallo

e 10 a piedi, fu segnalato nel bosco di Collemeluccio, nei pressi diPescolanciano ove si recò immediatamente il generale Ortigoni.

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E benché costui avesse esplorato tutta la zona e ordinato ai pa-stori e ai carbonai del posto di radunare e vigilare il bestiame alpascolo, per impedire il rifornimento di viveri ai briganti, questinon furono scovati. La banda Quici, burlando tutti, era riuscitaanche allora a dileguarsi. E per giunta proprio in quel giorno incui la truppa di Ortigoni era impegnata nella sua ricerca, quella diQuici assaltava un Procaccia in un’altra parte del bosco per sot-trargli due sacchi di monete d’argento e uno di rame. Quantunque fossero eseguite altre ricerche o tesi abboccamenti

e taglie o accordate munificenze dal governo Murat, Quici e Vasilenon furono catturati né si presentarono spontaneamente a conse-gnare le armi per godere l’indulto. A seguito della caduta del regime napoleonico e del ritorno del

re borbonico Ferdinando IV nel 1815, il brigantaggio, o perlomenoquello che di esso era rimasto, si spense da solo. Con la restaurazione della monarchia borbonica sul trono di Na-

poli, Fulvio Quici ricevé, per i servigi resi alla stessa, un salva-condotto e una pensione a vita, e Paolo Vasile fu nominato Capodella Guardia Civica.

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Percorso e anfratti del Matese - Roccamandolfi

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Il primo morì il 1° aprile del 1839, all’età di 63 anni, il secondonel 1848, alla bella età di 80 anni!

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Briganti sorpresi e trucidati dall’esercito Francese

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BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIA

Rinascita del brigantaggioIl Molise, dopo l’unificazione e la formazione dello Stato ita-

liano del 1861, si trovava in una situazione economica e socialeimprontata ancora a una totale ruralità, con limitato e circostan-ziato dinamismo commerciale e scarsa viabilità.Permanevano fino ad allora problemi insoluti come la mancata

o parziale divisione e concessione delle terre demaniali ai conta-dini. Anzi, queste, per la maggior parte, erano state sottratte daquella avida classe di nuovi dominatori locali, i cosiddetti borghesiche, a colpi di mano e di potere, avevano raggirato ancora unavolta il ceto inferiore. Questo, tenuto sotto le loro grinfie, senzamezzi e capitali e senza terra, era costretto a inchinarsi ai nuovisignori proprietari per avere qualche campo da coltivare a coloniaparziaria o a mezzadria, detta in gergo locale a parzinaule.A San Biase poche famiglie possidenti, che avevano approfittato

della vendita all’asta dei beni stabili allodiali baronali sequestratie della ripartizione e quotizzazione dei migliori corpi fondiari exfeudali, tenevano in sottomissione tutto il resto del popolo.Le nuove leggi nazionali tendevano ancora di più ad accrescere

e tutelare la proprietà e rendita capitalistica a danno dei piccoli ediseredati contadini.In molte parti del Molise, soprattutto a Isernia, Larino, S. Croce

di Magliano e Casacalenda i coloni insorsero e occuparono le terredemaniali. Il malcontento si diffuse in seguito un po’ dappertutto ela protesta sfociò presto in un conflitto di bande armate nelle cam-pagne che andò sotto il nome di Grande Brigantaggio. Esso costi-tuiva, secondo Citrufelli, “la prima forma di organizzazioneautonoma e autogestita della lotta di classe”.Dotata di mezzi, armi e capacità di spostamento, questa reclu-

tava un numero sempre più crescente di soggetti insoddisfatti delnuovo ordine costituito. Appena dopo l’Unità d’Italia, con l’arrivodei piemontesi, questa guerra di classe tra galantuomini e cafoni

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diventò anche lotta politica per contrastare i nuovi invasori.A soffiare sul fuoco rovente di rivolta e di sovversione ci si mi-

sero ancora una volta i fuggiaschi Borboni che, all’indomani del-l’occupazione garibaldina del Sud, avevano sollevato i bassi edepressi strati sociali e la Chiesa, incitandoli alla ribellione e allariconquista dell’antico potere regio.L’insurrezione della massa contadina e bracciantile, rimasta

tutto sommato fedele alla vecchia monarchia, si fece più violentae radicata nel Matese e nelle Mainarde, dove la presenza di folti evasti boschi, offriva ai comuni ribelli, renitenti, soldati e sottouf-ficiali del disciolto esercito borbonico rifugi e mobilità di azionein ambiti più sicuri per le loro incursioni e per i vari ripiegamenti.A San Biase e nel circondario, come in tutta la provincia di Mo-

lise, appena dopo la formazione dello Stato unitario, si muovevanodiverse comitive brigantesche provenienti da tutte le parti, ma so-prattutto da Celenza Valfortore e dalla provincia di Capitanata edi quella di Chieti. Il Prefetto del Molise, G. Belli, per mantenere in allerta i Sin-

daci, con vari dispacci li esortò a che le “forze cittadine […] di

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Veduta Valle del Rio - Trivento

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concerto colle altre Guardie de’ Comuni vicini tenessero sempreperlustrato il proprio tenimento”.Il 18 aprile 1862 lo stesso Prefetto poi li avvertì che

una banda di briganti, battuti ed inseguiti da tutti i punti nella Ca-pitanata, si è ora menata in questa Provincia, parte nel bosco di Ca-stelluccio [Castelmauro], e parte nel tenimento tra Salcito,Caccavone [Poggio Sannita], Trivento, e bosco Pietravalle.

La banda, anche con il concorso di tutte le guardie civiche locali,venne rintuzzata, ma altre si apprestarono a infiltrarsi.Tra il 1862 e il 1864 il brigantaggio infuriava da ogni dove e il

delegato di Pubblica Sicurezza di Trivento, con il falso intento di“provvedere al loro collocamento per migliorarne morale edogn’altra condizione”, ma in realtà, per colpire sul nascere ognistirpe di fuorilegge, ordinò a tutti i Sindaci del posto, compresoquello di San Biase, di formare e comunicare “un’elenco di tuttigl’individui sospetti di oziosità, vagabondità, mendicità, grassa-zione, furti, camorra, truffe, ricettazioni, ed altro accompagnatoda propri speciali caratteri”.Il sindaco Florindo Marini, con qualche difficoltà e notevole ri-

tardo, come egli stesso si espresse, “dopo essersi prese le più ac-curate indagini […] con esattezza e verità”, il 18 marzo 1871trasmise lo “Stato delle persone sospette per furti di campagna,per oziosità, per pascolo abusivo e altro” qui riportato.

Cognome e Nome Condizione Qualità personali

1° Bracone Salvatore Contadino Ladro di campagna nel più avan-zato modo esercitando tale me-stiere più nella notte che la menain continui furti di qualunque natura.

2° Bracone Angelo “ Lo stesso come sopra

3° Ciccarella Giuseppe “ Ozioso, vagabondo. Ladro di campagna. Fa parte con i paesi

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limitrofi della setta dei grassatori.È capace di qualunque furto, e proclive in omicidio. Gli scorre nelle vene un sangue feroce, le di cui vendette sono state comin-ciate dal… che cessò di vivere nelRegno di Brindisi per omicidio. È perniciosisimo, convivendo col padrigno Ciavatta Federico chel’istruiva.

4° Ciccarella Federico “ Lo stessissimo come sopra e per-fettamente conforme.

5° Ciccarella Pietro “ Ladro di campagna in tempo di notte.

6° Ciccarella Nicola “ È conforme come sopra.

7° Continelli Fernando “ Ozioso, vagabondo e rissoso.

8° Ciavatta Federico “ Ladro di campagna. Ruinoso di albori fruttiferi. Incendiatore di ridotti di campagna. Falso testi-mone. Ricettatore di ladri ed esi-mio concertatore di furti.

9° Giagnacovo Federico “ Rissoso. Di perfida indole. Fa parte dei grassatori. Il suo abi-turo addetto al ritiro dei ladri ed al concento del furto. A’ relazione con i vicini paesi, particolar-mente in Limosani ove à dei fra-telli. La condotta è prava in tutto.Meriterebbe il ritiro delle Armi.

10° Leone Raffaele “ Notturno ladro di campagna.

11° Di Luca Saverio “ Come sopra.

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12° Marino Luigi “ Notturno ladro di campagna.

13° Di Oto Nicola “ Lo stesso come sopra.

14° De Paola Federico “ Notturno ladro di campagna. Fa parte della setta dei grassatori e dei più orribili furti. Falso testi-mone. Perniciosissimo in tutto. Vagabondo.

15° Ciccarella Giuseppe “ Celebre ladro notturno e percampagna. Rissoso e feritore per eccellenza. Dedito a commettereomicidi. D’indole perfida e mali-gna. Ha un cuore brutale, ed esi-mio traditore capace di qualun-que misfatto e delitto.

Banda CaprannunzioDa un rapporto scritto dal giudice istruttore del tribunale di

Campobasso, si riscontra che

nell’Aprile 1862 formavasi a poco a poco una comitiva di malfattoricomposta da prima dai disertori Pasquale de Felice, Lorenzo diIorio, ai quali si unì Antonio Carile, e dopo Basilio Panunto e Leo-nardo Maddalena, e quindi altri fino a 12, e poi altri ancora. Nel lu-glio dell’anno istesso cominciò Lorenzo Traverselli ad aver contattocol proprio nipote Pasquale de Felice; codesto in sospetto all’Au-torità siccome fornirono di viveri e molti alla comunità, dipoi in la-titanza onde non farsi arrestare, e più tardi si arrolò nella comitiva.

All’inizio di ottobre 1862 questa comitiva si componeva di ottobriganti, cioè Antonio Carile di Macchiagodena, che faceva da capo,Nicola Martella di Cantalupo, Lorenzo di Iorio di Oratino, GiuseppeSardella di Pietracupa, Pasquale di Felice, Leonardo Maddalena, Ba-silio Panunto e Lorenzo Traverselli di Castropignano. Essa agiva neiterritori del Molise centrale, tra l’alta valle del Biferno e quella del

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medio Trigno. Il 1° ottobre, come si rileva dallo stesso rapporto,

pervenuta la comitiva ne’ poderi di Casalciprano fu sovvenuta di vi-veri e vino da Pasquale Picciani e da Gaetano Pollicielli di colà, iquali indi uniti ad Antonio Mastracchio si arrolarono nel tristo soda-lizio. Che il brigante Martella fece a se venire Michele Castelli di Ca-stropignano, e dopo averci amichevolmente discorso dandogli delCompare, gli complimentò sei o sette ducati, ed alcuni segnacolid’oro; di che il Castelli mostrò la sua gratitudine regalandogli delpesce, che fu preparato nel molino di Busso, e mangiato con dei mac-cheroni da tutta la comitiva. Attaccata poscia la comitiva dalla forzapubblica nel Mandamento di Trivento, ne furono catturati il Martella,Pollicielli, Panunto, Mastracchio e Sardella. Di questi i due primi fu-rono colpiti dall’estremo supplizio del militare, gli altri due sono incarcere; Sardella fu inviato a servire alle bandiere nazionali. Pocodopo Pasquale Picciani si presentò volontariamente al Sindaco di Ca-salciprani. Altrettanto fece Leonardo Maddalena presentandosi al Sin-daco di Castropignano.

Dopo la parziale riduzione dei seguaci si unirono al resto dellacompagnia il famoso brigante Nunzio di Paola di Macchiagodena,detto Caprannunzio, suo fratello Domenico, Rocco e AlessandroPaoliello, Domenico Barile e Filippo Prioriello di Boiano.La rinnovata banda, capitanata da Nunzio, il 6 ottobre era per-

tanto composta di tredici individui.Proprio nel tardo pomeriggio di quel giorno costoro, calandosi

dalle Macchie di Salcito, pervennero nel territorio di San Biaseper dirigersi verso la Puglia.Passando per la contrada Piano le Vetiche scorsero in un pa-

gliaio in mezzo alla vigna un giovane di San Biase, Vincenzo Mar-chetta che, come si usava a quei tempi prima della vendemmia,guardava l’uva di giorno e di notte per tenere lontani ladruncoli ebestiame di passaggio. Secondo quanto espose il giudice Fagnani di Trivento, che

aveva ascoltato la testimonianza del giovane, i briganti “fermaronotal Vincenzo Marchetti di Ascanio, naturale di detto Comune, e loastrinsero a seguirli”. Secondo, invece, la versione fornita dagli

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stessi briganti, Vincenzo si unì a loro volontariamente. E poichéera sprovvisto di fucile, indicò alla compagnia il posto dove si po-teva trovarlo. E così tutti si diressero verso la masseria di France-sco Braia in località Cisterna. Giunti nei pressi, Vincenzo riconobbe il figlio di questi, Pio

Antonio, il quale, verso il tramonto, finito di accudire al bestiame,si era appena avviato per tornare alla propria casa di San Biase.

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Rudere Torre dei Briganti - Contrada La Torre - San Biase

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Ma lasciamo la parola allo stesso Pio Antonio che, come deposeal giudice Fagnani, riferì:

Nell’annottare del giorno sei ottobre ultimo quasi verso le ore 23 emezzo [le 5 e 1/2 di pomeriggio] lasciai le cure di campagna e mene ritornava in patria. Distante dalla masseria di mio padre in con-trada Cisterna, circa un tiro di fucile, osservai una comitiva di dodiciin tredici briganti, fra quali tal Vincenzo Marchetti di Ascanio mioconterraneo; questi nell’additare me a quei malviventi disse: eccolo,adesso se ne va il padrone della masseria che tiene il fucile; fu allorache tre di quei malviventi mi furono addosso, e mi obbligarono afar ritorno nella masseria per consegnar loro il desiderato fucile; eperché in su le prime fui renitente ad obedirli mi diedero tre schiaffi,ed un urtone col calcio del fucile, obbligandomi ad eseguire i loroordini, pena la morte, così mi convenne avvicinarmi alla masseriaper vedere soddisfatte le loro voglie; ma o perché la confusione miavea fatto perdere la reminiscenza, o perché realmente avessi potutodisperdere la chiave di detta casa rurale, non potei aprirla. Stantecosì le cose quei mal viventi a colpi di accetta scassinarono la porta,e mi forzarono ad entrarvi per rinvenire il fucile, del quale n’erasprovvisto. Eseguito in tal rincontro da essi medesimi un’accurataricerca, ed essendo stata frustranea [a vuoto], il Marchetti insinuòloro di minacciarmi di vita, e d’incendio se non avessi voluto con-segnare il fucile. Tra la mia ostinata negativa i briganti poscia chemi ebbero coverto di paglia, appiccarono il fuoco all’edificio, e sor-tirono fuora. Ad evitare il certo pericolo di vita mi sbrigai da quel-l’involto, e dato un salto ne uscii dalla finestra, che guardava il latoopposto a quello ove potevano trovarsi i briganti. Ma questi avve-dutosi della mia liberazione mi furono sopra, e nella colluttazioneuno di essi spianò il fucile per ammazzarmi, gli altri si allontanaronoda me per timore di qualche scambio del colpo.

Ma il moschetto s’inceppò e il colpo, per sua fortuna, non partì.“Così rimasto solo”, continuò Pio Antonio per due volte miraco-lato, “mi diedi a precipitosa fuga, dopo che venne mancata laesplosione dello schioppo a quello che mi dirigeva il colpo”.Alla domanda del giudice intesa a sapere cosa essi indossavano,

egli rispose:

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I briganti vestivano alla Borghesa, ed uno fra questi avea manturada Capitano, era di statura alta, e di complessione robusto, se tor-nassi a rivederlo potrei riconoscerlo. Non così gli altri di costuicompagni. Tutti poi erano armati di schioppi e pistole. E quei chevestivano alla Borghesa indossavano un cappello piuttosto basso,con fettuccia intorno, che nel punto di congiunzione sfioccata scen-deva su gli omeri, e con coccarda color rossa.

Tornato a casa, Pio Antonio andò subito a denunciare al Sindacol’aggressione subita e l’incendio appiccato alla sua masseria. Il danno avuto fu denunciato dal padre, il quale dichiarò al giu-

dice di aver perso

una quantità di fieno, paglia, ed altro strame per gli animali del va-lore di docati quindici. Due canne di tavole di quercia del valore dicarlini trentasei. Una rete per uso di mandria del valore di carlinitredici. Un pajo di barili del costo di carlini dieci. Un cappotto dilana di panno di casa del valore di carlini trentasei. E due cuoi dipecora del costo di carlini sei; quali oggetti tutti si bruciarono conla masseria.

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Greto vallone Rio - San Biase

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Erano i semplici ma essenziali attrezzi, scorte e materiali agri-coli di un ricovero rurale necessari a un povero pastore di pecore,qual era Francesco Braia.

Altre malefatte commesse nella notteDopo una simile azione scellerata la banda si diresse subito

verso la località Codacchio di Trivento. Giunta presso l’abituro dicampagna di un certo Costanzo Gianserra, come lo stesso testimo-niò davanti al giudice Tedeschi del Mandamento di Trivento,

a circa le ore sei di una notte [intorno a mezzanotte] mentre io collamia famiglia stava dormendo nella mia masseria alla contrada Co-dacchi intesi picchiarne la porta e fattomi alla finestra vidi unaquantità di persone armate che con modi minacciosi mi obbligaronoad aprire. Compreso da timore, e privo di mezzi come far loro re-sistenza, mi prestai ai loro ordini, e poscia che quella gente fu en-trata nella masseria, vidi ch’erano nel numero di dodici, tutti armatidi schioppi, padroncine, pistole, bajonette e stili, e vestivano quasitutti calzoni corti, gilè e giacche alla contadina, cappelli alla cala-brese ornati di fettucce con coccarde rosse e scarpe grosse alla con-tadina. Dopo che mi ebbero obbligato ad accendere il fuocochiesero da mangiare; ma io manifestai loro di non potere offrirecosa alcuna perché era un poverello. Allora essi cominciarono a mi-nacciarmi di vita, ed io stretto dal timore, mostrai loro il luogo doveteneva gli animali pecorini e fu così ch’essi stessi presero due diquegli animali, li scannarono, li cucinarono fuori della masseria, edopo che li ebbero mangiato, continuarono il loro cammino sul trat-tojo, dicendo che si dirigevano alle Puglie.

A un’altra domanda dello stesso giudice, egli rispose:

Siccome quei malviventi mi minacciarono di vita e d’incendio in casoche io avessi parlato di quel fatto e siccome d’altronde io abito inaperta campagna dove aveva a temere positivamente delle loro mi-nacce così non ho curato dar parte alla giustizia di quello avverti-mento, e né ho fatto di conquistarmene con alcuno.

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In una successiva deposizione rilasciata al giudice, Gianserra am-mise, riferendosi alle pecore rubate, che “una però di esse si appar-tiene ad Emidio Stinziani”. Inoltre precisò che

riconoscendo meglio le fattezze de’ ladri, feci al caso di dire che am-mezzo ai ladri vi era, per come riconobbi, Vincenzo Marchetti diAscanio di S. Biase, il quale armato di mazza, s’intratteneva tra queimalviventi. Vero è che il medesimo confidenzialmente mi disse es-sere stato preso a forza, nell’atto stava in una vasca nella contradaPietravalle, e precisamente nel Piano delle Vetiche. I briganti, nel-l’allontanarsi m’ingiunsero di nulla rivelare, e mi dissero le seguentiparole: Se tu ci rivelerai, t’incendiamo, come abbiamo incendiatola masseria di Francesco Braja.

L’altro derubato, Emidio Stinziani, dichiarò che la stessa notte,gli stessi briganti, gli sottrassero un agnello nella propria masseriasita vicino al cugino Costanzo Gianserra. Egli però non si accorsedel furto, né del pasto e del frastuono avvenuti nella notte; soloalla mattina, informato da Gianserra, poté rendersi conto del la-drocinio avvenuto anche a suo danno. I briganti, satolli e soddisfatti, si mossero nell’oscurità della

notte verso il bosco di Trivento, portandosi sempre al seguitol’ostaggio Vincenzo Marchetta. Arrivati in un luogo “e propriamente in una parte sopra la co-

siddetta Cusella” la comitiva, stanca e assonnata, bivaccò su ungiaciglio di foglie per riposare. Prima di prendere sonno, però,

poiché il Marchetti vestiva calzone lungo colore bigio lo divesti-rono del medesimo surrogandone altro corto di panno, e togliendo-gli il cappello che aveva fu rimpiazzato da altro con arredamenti difettucce, trena di vari colori con coccarda rossa […] perché si erafatto sapere che dovea seguirli per sempre.

Poi lo fecero coricare in mezzo a due di loro per essere più sicuriche dormisse e non potesse darsi alla fuga.Ma Vincenzo, che fingeva di avere gli occhi chiusi, era in allerta

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ad aspettare che gli altri fossero caduti nel sonno più profondo perapprofittare di scappare soppiatto. Provò a un certo momento a ca-larsi le brache e muoversi per fare credere di andare al bagno, masubito fu avvertito e redarguito da quello accanto che gli disse:“Che fai, non dormi?”.Verso l’alba, quando si accertò che tutti russavano, si abbassò

ancora i pantaloni e, scorrendo lentamente in basso, si staccò daidue. Poi, in punta di piedi, si spostò dietro un cespuglio… e via sidiede alla fuga verso casa. “Pria di fare giorno si restituì in patria alle ore dodici” – cioè

alle sei di mattino – e si rinchiuse in casa per la paura.

Seguito della vicendaVincenzo si presentò la stessa mattina ancora scosso e trafelato

alle autorità municipali di San Biase in quel modo come era vestitoper riferire ciò che gli era successo. Il sindaco Errico De Paola – cui consegnò il cappello bandite-

sco1 – nel vederlo con la divisa da brigante addosso, non prestòfede alla sua attestazione di “essere stato rapito a viva forza” efece subito un duro rapporto sull’accaduto che inviò espressamentetramite un corriere al giudice del Mandamento di Trivento.Il giorno dopo Marchetta, scortato da due guardie civiche del

Comune di San Biase, fu condotto a Trivento e, dopo un rapidointerrogatorio, fu rimesso in libertà vigilata.

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1 Il cappello per essere esaminato fu mandato dal sindaco di San Biase al de-legato di Pubblica Sicurezza il quale per mezzo del suo inserviente lo consegnòal giudice del Mandamento di Trivento.Il giudice, fattolo analizzare da due esperti giurati, prima di suggellarlo, ri-

portò di “essere tale cappello di lana color nero, di forma bassa piuttosto vecchio,e guarnito di una fettuccia di cotone ad uso di tirante nelle falde con avanzarnequasi un palmo i due capi nel punto di congiunzione, di un altra simile fettuccianel giro, e più di un altra fettuccia di seta di color rosa pallida con avanzo deidue capi nel punto di ricongiunzione. Fermata poi con cucitura esiste su tali fet-tucce una coccarda di panno scarlatto spezzellata intorno del diametro di unaoncia e mezzo, e di figura circolare”.

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Seguì il processo nel tribunale circondariale di Campobasso consentenza finale emessa il 31 luglio 1863, nella quale si dichiaròl’imputato colpevole di “associazione di malfattori ad oggetto didelinquere contro persone e le proprietà, incendio ed altri reati”. Alle ore 8 di mattina del 23 agosto 1863 i brigadieri della sta-

zione dei carabinieri di Castropignano, muniti di mandato di cat-tura, si recarono a San Biase presso il domicilio di Marchetta e loammanettarono per condurlo nelle carceri dello stesso Manda-mento “per poscia tradurlo in quelle centrali di Campobasso”.A pesare sul giudizio della Corte fu, oltre che il rapporto del

Sindaco De Paola, certamente la testimonianza rilasciata da Fran-cesco Braia, proprietario della masseria bruciata, il quale dichiarò:

Nella notte della scorsa Domenica [21 dicembre 1862] pervenneronel molino di Giuseppe Caputo sito in tenimento di S. Biase ottobriganti, i quali annunziandosi residuo di quella banda che nelloscorso Ottobre incendiò la mia masseria, dopo che dettero ragguaglisulla sorte dei mancanti che dissero essere stati fucilati […] disseroche Vincenzo Marchetta mio conterraneo volontariamente si asso-ciò loro: ch’egli li guidò alla mia masseria per far disarmare mio

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Valle del Rivolo

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figlio, ed a sua istigazione incendiarono la masseria in parola; co-sicché se ne mostrarono dispiaciuti, e si mostrarono pure corrivicontro del Marchetta, perché dopo di aver ottenuto il suo intento,ebbe a lasciarli.

Vincenzo, come ci conferma una sua nipote che vive a S. Biase,Maria Marchetta, scontò in tutto qualche mese di carcere e poi fuliberato e riconsegnato alla sua residenza.Solo il 9 dicembre 1864, però, egli fu dichiarato definitivamente

“assoluto […] per verdetto negativo dei Giurati” dalla Corte di As-sise. Nella nota indirizzata al Sindaco era riportata, tra l’altro, laseguente raccomandazione del delegato di Pubblica Sicurezza diTrivento: “E siccome dalla processura risulta che il medesimo nonsia lasciato inosservato, così La interesso di sottoporlo a rigorosasorveglianza e di riferirmi sul di lui conto nelle occorrenze”.E così Vincenzo fu relegato nel suo ambito domiciliare nelle

condizioni di un osservato speciale.A questo punto della vicenda ci domandiamo: chi era, in effetti,

Vincenzo Marchetta? Si associò alla banda di propria volontà o fucostretto?Egli, figlio di Ascanio e Teresa D’Andrea, era nato a San Biase

il 5 maggio 1838 e, quindi, all’epoca dei fatti aveva 24 anni. Dalsuo stato civile si rileva che era “contadino, non militare, non saleggere né scrivere”. Vincenzo abitava con i suoi in Via Monte Calvario. A riguardo delle sue condizioni economiche il Sindaco di San

Biase dell’epoca, Errico De Paola, attestò: “Sebbene non abbiabeni particolari perché figlio di famiglia comune, ma pure appar-tiene a genitori di qualche agiatezza e comodità”. Quanto alla sua posizione militare, lo stesso Sindaco certificò

che Vincenzo “non trovandosi ai principi di ottobre scorso tra co-loro che dovevano formare il contingente delle Guardie mobili diquesto Comune” non poté far parte della “compagnia della Guar-dia Nazionale”. I suoi connotati al momento dell’arresto, corri-spondevano a: “Statura giusta; fronte spaziosa; occhi castagno;naso grande; bocca giusta; mento lungo; capelli castagni; soprac-

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ciglia simili; barba presente; viso ovale; colore naturale; segni par-ticolari: piccole cicatrici sulla nuca”.Nei registri giudiziari della cancelleria di Trivento, sul conto

della sua fede penale, era riportata una contravvenzione relativaalla “recisione di un arboscello di cerro del valore di ducati 1: 80,avvenuta nel dì 29 Agosto 1858 in pregiudizio del Comune di SanBiase”. In più risultava a suo discredito un altro reato consistentenella “recisione di sette arboscelli di cerro del valore di ducatinove, avvenuta nel dì 27 Agosto 1858”. Per tali trasgressioni fu condannato il 13 dicembre dello stesso

anno “alla pena di mesi quattro di prigionia, al rinfranco del dannoin pregiudizio del Comune di S. Biase, all’ammenda a pro del realTesoro ed alle spese del giudizio”.La giunta municipale di San Biase, in risposta alla richiesta del

tribunale di Campobasso, attestò, forse con un occhio di riguardo,che “Vincenzo Marchetta è di buona morale e le tendenze ed abi-tudini dello stesso sono quelle di un individuo che bada alle par-ticolari cure di famiglia”. Con questa favorevole attestazione egli ricorse alla Corte d’Ap-

pello e non scontò l’intera pena. Secondo la testimonianza di Francesco Braia, invece, egli era

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Paesaggio molisano con pecore

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un attaccabrighe perché litigava spesso con la gente “per questionedi confini di terre e per dammaje di bestiame”.Nella deposizione di Nicolina Miccio, moglie del suddetto Fran-

cesco, a questo proposito leggiamo che

fra la fine di Settembre, ed i primi giorni di Ottobre ultimi [1862]un mio nipote a nome Giovanni Braia di Vincenzo pascolava le pe-

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Sbocco vallone Porcino - San Biase

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core appo il terreno di Ascanio Marchetta, messo in questo teni-mento nella contrada Fontana poco lungi dal paese. Sopraggiunse il di costui figlio Vincenzo, e sgridando detto mio ni-pote, lo inseguì fino la porta della mia casa. Nacque allora un di-verbio tra me, ed il sudetto Marchetta. Questi con modi villani, eminacce m’insultò mentre io dal mio canto gli ripeteva che quantevolte le pecore di mio nipote avessero danneggiato il suo fondo,era pronto a rinfrancarne il danno. In frattanto venne colà mio ma-rito, e dopo essersi collo stesso altercato il Marchetti, ambo s’av-viarono nel fondo per verificare il danno, ove giunti, nonavendovelo trovato, mio marito si raccolse le pecore, e se ne andòvia, menandole al pascolo in altro luogo.

Inoltre, aggiunse che “tra detto mio marito, e Vincenzo Mar-chetta di Ascanio vi erano delle continue questioni per ragione diconfine di fondi”.A dispetto di questo suo carattere un po’ rissoso e sdegnoso, non

crediamo che Vincenzo Marchetta avesse uno scopo particolareper associarsi alla vita di brigante.Il motivo stesso che lo spinse a scappare subito da quella com-

pagnia prova che Marchetta non avesse alcuna intenzione di farneparte. Inoltre, se vogliamo dare credito a quanto dichiarò “sempre e

fino a che lo stesso è stato rinserrato nelle prigioni”, al giudice diTrivento di essere stato “preso e ligato e dopo poco tempo sciolto”,pensiamo che Vincenzo fosse stato in ogni modo costretto o, co-munque, indotto a seguirli. Egli, d’altro canto, non poteva di punto in bianco abbandonare

la custodia della sua vigna in un momento così delicato e prossimoal raccolto! La ragione per la quale indicò il posto dove recuperare un fucile

e istigò i briganti a dar fuoco alla masseria di Francesco Braia, puòessere spiegata con l’astio che nutriva verso costui e la propria fa-miglia. Anche i giudici dovettero, tutto sommato, prestare fede a questa

interpretazione della vicenda, tanto che la condanna inflittagli fumolto lieve.

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Altri misfatti eseguitiLa compagnia dei briganti o, meglio, la parte di essa che era ri-

masta, sempre capeggiata da Nunzio De Paola, presto si fece rive-dere dalle nostre parti. Infatti, come si legge dal rapporto giudiziario:

Non andò guari, e questa istessa comitiva alla sera dal 21 a 22 Di-cembre sudetto anno, decimata com’era de’ vari componenti, penetrònel Molino di Antonio Scarcasale, che se ne resta nell’agro di S.Biase alla contrada Rio, in modo irruente, e minaccioso. Obbligaronoquel mugnaio a sfarinare del grano per dar loro da che mangiare. Eposciacché ebbero depennati alcuni polli che tenevano, cucinati chel’ebbero, sedettero al desco, e gozzovigliarono.

“In quel mentre” continua il rapporto “cominciarono a raccontareche lo incendio della masseria del Braja – di cui si è detto sopra –era avvenuto per opera loro, ma per insinuazione di Vincenzo Mar-chetta”. Inoltre, dissero “che costui si era associato volontariamentead essi per seguirli in tutte le loro infami imprese. E poiché erasprovvisto di moschetto, rivelò loro che potevasi trovare nella mas-seria del Braja”. Il molino di cui si fa menzione era situato in contrada Piano

Molino, allo sbocco del torrente Porcino sul Rio. Esso funzionavaad acqua corrente e perciò solo nella stagione autunno-invernalee aveva due macine, una per il grano e una per il granone.Era detto molino di Scarcasale perché in passato veniva gestito

da questa famiglia per conto degli eredi del barone De Blasiis, an-tichi possessori feudali, ma intorno al 1860 ne risultava titolareEnrico Caputo di San Biase. Questi, soprattutto nel periodo di ma-cinatura, abitava sul posto in una casa annessa e, oltre agli animalida cortile, possedeva una vigna, un orto e alcuni appezzamenti diterreno per uso di casa.Quando irruppero i briganti in quella notte del 22 dicembre

1862, quasi alla vigilia di Natale, si trovavano sul posto AntonioMarino, Raffaele Ciccone e Antonio Giagnacovo di S. Biase e untale Michelangelo alias Camiscione di Salcito, i quali erano lì nellaattesa di macinare le proprie partite di cereali.

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Per di più, come inserviente, c’era un ragazzo di nome FedericoCaputo, nipote del titolare Enrico, al quale i briganti ordinaronodi preparare “del pane azimo”, ossia una pizza sciscia da cuoceresotto la coppa. I briganti erano

armati di fucili e pistole a revolver e tenevano a capo uno di Mac-chiagodena e nel corso della notte – ebbri di vino e di fumo – par-lando fecero sapere che avevano fatto nella montagna di Frosoloneun ricatto pel quale ottennero docati 500 per ciascuno.Durante la notte istessa del 21 a 22 finiente, fuori del molino piaz-zarono due sentinelle per impedire l’uscita di coloro ch’erano andatia molire onde non si fossero qui recati per darne partecipazione, eper essere in osservazione, ed alle ore dodici e mezza italiane chericeverono di un oriolo che indossavano se ne partirono facendo lastrada che recava al bosco di Triventi dopo avere dato una pietra alsudetto Caputo per la consumata farina, un ducato ad Antonio Ma-rino di Nicola, grana settanta ad Antonio Giagnacovo fu Pietro, egrana quaranta a Raffaele Ciccone di Antonio che si trovarono.

In questa occasione tutto finì bene. Non andò così purtroppo, in un’altra triste circostanza, a Raf-

faele Marino e Costanzo D’Andrea. Raffaele, giovane di ventinove anni, coniugato con Pia Mar-

chetta, doveva essere un erede di quel Michelangelo Marino rapi-nato e ucciso dai briganti nel 1805, di cui abbiamo parlato inprecedenza e che, all’epoca dell’evento che stiamo per riferire, eraAssessore e Comandante della guardia di San Biase. Egli, comeci dice Franca Giagnacovo – sua attuale discendente – avendo su-bito varie rapine e, forse, per vendicare l’antenato, predispose l’at-tacco alla banda brigantesca che, secondo le informazionipervenutegli, sarebbe passata per il bosco Maccavillo e diretta aquello di Pietravalle.E così, il pomeriggio del 20 maggio 1864, armatosi con alcuni

altri compagni, tra cui il suddetto Costanzo, e scortati da due dellaGuardia Civica comunale, avanzarono fino al luogo in cui era sitala Torre nella quale si appostarono per sorprendere i malviventi.

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Questi, infatti, usciti dal bosco di Trivento, si diressero lungo lamulattiera che conduceva al bosco Maccavillo. Raffaele e compa-gni, vistisi i briganti a ridosso, cominciarono a sparare. La truppa banditesca, capeggiata forse dal temibile e abile Nun-

zio di Macchiagodena, rispose subito ai colpi e sbaragliò gli av-ventati assalitori, i quali si diedero alla fuga verso il paese.Raffaele e Costanzo non riuscendo a raggiungere in tempo l’abi-

tato, il primo per la pesante mole corporea e il secondo perché an-ziano, si nascosero in un cespuglio nei pressi della localitàPantaniello: qui, scovati dai briganti, furono uccisi. A tradirli fu, contutta probabilità, il vistoso cappello a “bombetta” portato da Marinoche attirò l’attenzione degli individui rimasti in coda al gruppo.Prima di fucilarli, come raccontò un pastorello rifugiatosi nei

pressi e che poté così scorgere l’orripilante scena, subirono le se-vizie dei fumatori, i quali si presero il macabro divertimento dispegnere sulle mani e sui volti dei due malcapitati mozziconi disigarette accesi. Li spogliarono, poi, delle armi e munizioni, dellegiacche e scarpe2, che presero e tennero con loro; indi prosegui-

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Atto di morte Raffaele Marino - Archivio parrocchiale San Biase

2 Le scarpe, che un brigante portava spavaldamente sulle spalle, ben in vistacome un trofeo, quando il gruppo ripassò per S. Biase per tornare al bosco di

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rono indisturbati per la carriera che conduceva alla località S. Leo-nardo e, attraversate le contrade Vignale, Vicenda e Grotte, si por-tarono al bosco di Pietravalle e poi si rifugiarono nella Morgiaomonima.

Banda PomponioNello stesso periodo si aggirava nei nostri paraggi la cosiddetta

banda Pomponio, originaria della provincia di Chieti.Questa, rimasta in buona parte decimata per diversi attacchi su-

biti dalle forze governative e dalle guardie civiche comunali, resi-steva ancora con un manipolo d’individui, tra cui si distinguevaGeremia Rosa e un tale Pitucco. A guidarla strenuamente era un certo capobanda Fontana.Il comandante della Guardia Nazionale mandamentale, Ales-

sandro Scarano di Trivento, il 29 aprile 1864, avvertì il Sindacodi San Biase così:Ieri verso le ore due della notte da un mio amministrato ebbi notizie,

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Atto di morte Costanzo D’Andrea - Archivio parrocchiale San Biase

Trivento, furono riconosciute dalla madre di Raffaele che poté così individuareil presunto assassino del figlio.

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che quattro Briganti armati di tutto punto, rattrovansi in questobosco Comunale, e propriamente nella Contrada detta Colle dellaCalcaja. Che perciò in vista della presente la prego disporre, cheun competente numero di Guardia Nazionale di sua dipendenza,che meglio potrà essere possibile far riunire, dirigerli in detto bosco,affinché eseguissero una esatta perlustrazione.

Scarano, nel frattempo, aveva predisposto anche il concorso dialtre forze delle quali lo informò “che per colà muoveranno militidi questo Comune [cioè di Trivento], quello di Lucito, i Reali Ca-rabinieri, non che un distaccamento di Linea, che facilmente verràda Fossalto, oppure da Campobasso”. Veramente un dispiegamento militare esagerato per “quattro

Briganti” sui quali, alla fin fine, non giunsero neanche a metterele mani addosso! I briganti, dovettero ripiegare per l’Abruzzo attraverso i boschi

di Guardiabruna e Torrebruna.In un successivo allarme, lo stesso Scarano, scrisse al Sindaco

di San Biase in questi termini:

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Resti molino di Vastofalcone - San Biase

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Mi trovo di unito a due altri miei dipendenti nelle vicinanze di que-sto bosco Comunale: ivi ho da varie persone inteso che 14 brigantisieno già penetrati nel bosco sudetto; ho partecipato ciò anche alMaresciallo dei Carabinieri, e Guardia Nazionale di Trivento affin-ché si recassero nel bosco ridetto con molta forza. Lo stesso dico aLei, e venire alla Casetta per cordonare il bosco.

Inoltre, “trovandomi lontano dal paese” lo pregò di “partecipareciò al Sindaco di Lucito, e Civita […] e occorrendo, comunicareil presente a Santangelo, Limosano […] per fare anche dalla lorovolta ciò che conviene”. Anche stavolta, però, da quanto ci risulta, i 14 “masdanieri” ben-

ché “stanchi e trapelati” e nonostante le taglie promesse ai cittadiniin compenso di utili indizi, riuscirono a farla franca dirigendosiverso il bosco di Sprondasino di Pietrabbondante.Dietro tale disguido e, quale ammonimento alle forze schierate

in campo, il Prefetto di Molise mandò il seguente messaggioscritto ai Sindaci locali:

Avviene bene spesso che nella persecuzione del brigantaggio, i Sin-daci, i Capitani della Guardia Nazionale, l’Arma dei Carabinieri, ele altre forze destinate a quel Servizio, non procedano di accordo.Ciò profitta ai briganti che sapendo di essere pedinati cangiano im-mediatamente di luogo.Un fatto di tal genere avveniva il giorno 8 in tenimento di Triventodove essendo comparsa una comitiva di briganti, mentre i Carabi-nieri accorrevano da una parte, la Guardia Nazionale di Montefal-cone, senza prima avvertire la forza di Trivento, e quelle di altriComuni vicini, accorreva per vie tutte opposte. Si ha ragione a cre-dere che se si fosse proceduto di accordo, quei malfattori sarebberocaduti nelle mani della forza.

Il Gabinetto della Prefettura, allo scopo di rimediare a tale man-cato coordinamento, con una “urgentissima” del 9 giugno 1869comunicò ai Sindaci di S. Biase, Pietracupa, Fossalto, Torella, Mo-lise e Trivento la decisione di mobilitare e concertare meglio leGuardie Nazionali. E intanto fece il seguente comunicato:

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Da pochi giorni la banda Pomponio forte di quattro malfattori pro-veniente dal Chietino, rifiutando l’estremo limbo di confine del Cir-condario di Isernia, si è gittata in questa Provincia, perpetrandorappresaglie e grassazioni. Inseguita alacremente dalla truppa, lamedesima fu vista jeri l’altro aggirarsi per codeste contrade e pro-priamente nel bosco Pietravalle in tenimento di Salcito […].

Per una migliore e più incisiva azione di controllo e di apposta-mento la stessa Prefettura di Campobasso, distaccò il “Delegatodi Pubblica Sicurezza” Giovanni de Candia a Salcito. Da qui il de-legato ordinò al Sindaco di San Biase, come agli altri, di “disporre,usando tutta la sua energia, e solerzia, che codesta Guardia Nazio-nale esca in giornaliera perlustrazione nel proprio territorio, guar-dando sempre gli sbocchi dalla parte del Circondario di Larino”.Vincenzo Tanno, in qualità di Sindaco, assolse con gran dinami-

smo al suo compito, sorvegliando e tenendo continuamente in pat-tugliamento il corpo di Guardia Civica nei punti critici di passaggiodelle bande, in particolar modo presso il Piano Molino, Torre eContrada Vasto. Inoltre, egli coadiuvò con le altre truppe operantinella zona e, nello stesso tempo, secondo le istruzioni ricevute dalDelegato, si adoperò anche a “trovare persone che mercé un lautocompenso, seconda del fatto compiuto, si cooperà, per la presa oanche presentazione della banda Pomponio”.Di questa sua attiva collaborazione il Prefetto Cammarota prese

atto e, con una specifica, lo ringraziò “distintamente per la sommaintelligenza e buon volere che ha dimostrato nella persecuzionedella banda Pomponio”.Ma nonostante la diligenza e la premura del Sindaco, la banda

di malfattori non venne catturata. Tuttavia, essa fu scacciata dal territorio. È lo stesso Delegato a

comunicarlo ai vari Sindaci dei comuni del circondario con unanota datata 17 giugno 1869, nella quale riferì che “per notizie Uf-ficiali avute stasera la banda brigantesca Pomponio, perseguitataed incalzata […] è giunta ai confini della Capitanata”.In ogni modo lo stesso ordinò ai vari reparti di non mollare la

guardia perché “potrebb’essere che di là riconosciuta volesse ritor-

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nare in questi luoghi. Una vigile ed accurata perlustrazione, osser-vando luoghi sospetti e raccogliendo analoghe notizie potrebbe ciòimpedire”.La compagnia, in ogni caso, non si fece più rivedere e de Candia

fu richiamato alla sua sede operativa centrale di Campobasso.Prima di lasciare il territorio, egli mandò un appunto di ricono-

scenza al Sindaco di San Biase. “Non saprei dipartirmi da Salcito”,egli ammise, “senza ringraziare la S.V. della grata accoglienza fattaalle mie preghiere per il servizio del brigantaggio in questi luoghi”e nel contempo aggiunse:

Facendomi poi interprete dei nobili desideri dell’Ill.mo Signor Pre-fetto della Provincia, il quale vorrebbe vedere liberi del tutto, e persempre questi luoghi dall’orrenda piaga del brigantaggio, pregiamirivolgere alla S.V. un’ultima preghiera, interessandola, unitamentea cotesta Milizia Cittadina a voler mantenere sempre desto lo zeloe l’attività rispettiva, acciò qualora i quattro schifosi ladroni dellabanda Pomponio, o altri simili, ricomparissero in questi luoghi, fos-sero tosto perseguitati e distrutti. Di tanto pienamente fiducioso con sentimenti la stimo. Partirò domani.

San Biase visto dalle Macchie di Salcito

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Repressione del brigantaggioDal 1862 il brigantaggio in generale, venendo anche meno l’ap-

poggio borbonico, mutò in parte strategia e divenne di caratterepiù sociale e meno politico. Per le carestie e la conseguente crisi alimentare di quegli anni,

l’azione brigantesca, ormai diventata endemica, tendeva a colpirepiù che le istituzioni, i benestanti con saccheggi, furti, incendi erazzie varie alle loro case, fondi, depositi di derrate e a tutti i beniindebitamente sottratti alla povera gente.Il nuovo regime governativo, per contrastare il fenomeno, come

abbiamo già riferito, mobilitò l’intero esercito e la Guardia Nazio-nale. Fu una vera e propria guerra civile a scatenarsi tra le partiche provocò numerosi morti e dispersi sull’uno e sull’altro fronte. Vittime della sanguinosa rappresaglia militare furono, però,

contadini e pastori, ritenuti il più delle volte a torto i protettoridei briganti, i quali, sottoposti a processi sommari o senza alcunprocedimento, scontarono con la morte la reazione feroce e ciecadei piemontesi.Una disposizione dello Stato, per sorvegliare le persone so-

spette, nel 1865 istituì in tutti i Comuni un registro che teneva ag-giornato le denunce dei “pessimi soggetti” alla Pretura.Quello formato a San Biase dal sindaco D’Andrea è riportato

in appendice.Tra il 1861 e il 1863, dunque, la maggior parte del Meridione

d’Italia fu interessata da una grande sollevazione popolare. La re-pressione, che mobilitò 120.000 uomini, fu condotta con molta fe-rocia. Per fare terra bruciata attorno ai ribelli che ricevevanol’appoggio della popolazione locale, lo Stato agì secondo la logicadel terrore fucilando sul posto i briganti catturati, esponendone icadaveri nelle piazze come monito o, meglio, come trofei, ricat-tando e incarcerando le famiglie dei sospettati. Gli stessi contadini,che avevano in gran parte appoggiato inizialmente l’intervento ga-ribaldino riversando sul progetto unitario aspettative concrete diriforma, dovettero poi rapidamente ricredersi, rimanendo profon-damente delusi e depressi. È da questa frustrazione e dalla consa-pevolezza che i rapporti di potere non erano stati modificati che

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nacque l’insurrezione di massa nel Sud Italia. L’assenza di unaconduzione politica cosciente e organizzata determinò il prevaleredella direzione reazionaria dei moti e, in ultimo, fu la causa dellaloro sconfitta. Nel 1865 questa guerriglia condotta dalle bandecontadine era di fatto domata con 7000 morti in combattimento,2000 fucilati e 20.000 prigionieri.I cronici problemi del Mezzogiorno che avevano originato la ri-

volta, imperniati in gran parte sulla discriminazione di classe, nonfurono mai affrontati in modo organico, generando un drammaticoalternarsi di insurrezioni contadine e repressioni. E così verso la finedel tremendo decennio, il brigantaggio, decimato e circoscritto,andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le ultimebande rimaste si diedero, ancora di più, ad atti di malavita, spinteanche dalla condizione di estrema povertà nella quale il Molise e leregioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, chetoglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.Da quel momento la repressione piemontese prese il sopravvento:il brigantaggio fu debellato alla radice e i sanbiasesi, come tutti imolisani e la gente del Sud, andarono a cercare una nuova vita ol-treoceano, nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto scono-sciuto fino allora nel Regno delle Due Sicilie: l’emigrazione.

Museo dell’Emigrazione - Vinchiaturo

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APPENDICE DOCUMENTARIA

Michele De Rubertis, un protettore dei briganti*Giuseppe De Leo, quale Sindaco di Lucito, il 15 settembre 1809 fu invi-

tato a conferirsi innanzi all’Intendente di Molise, Matteo Galdi, per essereascoltato sui fatti dell’assassinio dei quattro militi. Nella sua deposizione attestò che il 26 agosto, venti gendarmi ausiliari si

portarono nel suo comune per arrestare tre Veliti1 che avevano disertato ilreggimento della Guardia del re, e cioè Nicola De Blasiis, Ottavio Minicuccie Luigi De Rubertis. I primi due furono arrestati, il terzo invece, de Rubertis,venuto a conoscenza della sorte toccata agli ex commilitoni riuscì a fuggireverso il bosco di Triventi ed unirsi alla banda di Fulvio Quici. Attesa la notte,molti briganti si recarono in paese circondando la residenza del Comune,nelle cui stanze avevano trovato alloggio i restanti quattro militi, perché glialtri furono impiegati di scorta ai due arrestati diretti a Campobasso. I gen-darmi rimasti in Lucito, attendevano l’arrivo in paese del Regio Procaccio2ed il suo convoglio proveniente dalla città del Vasto, per unirsi al carriaggioe scortarlo fino al capoluogo. Alle prime luci dell’alba, Michele de Rubertis,manutengolo dei masnadieri del Quici, si portò al convento dei missionari afar suonare mattutino prima delle ore canoniche, affinché il popolo assorbitodalla liturgia eucaristica non si avvedesse di quanto stava per accadere. Men-tre in quella chiesa di S. Antonio i frati cantavano l’exsultet, i briganti assal-tarono la casa del Comune e posero le mani sui gendarmi. I militi, costretti agettare le armi dalla finestra, furono immobilizzati e trascinati nella boscaglia,ed in quella macchia spietatamente uccisi. Le loro teste infilzate su picche,furono trovate tra i rami degli alberi. Tornando poi in paese per pregiarsidell’opera, chiesero al Sindaco già rientrato dal capoluogo, i viveri per il loro

*ASC - Un protettore dei briganti Michele de Ruberti.- Processi Politici, b. 33, f. 33/1.1 Nel 1805 fu creata un’unità di forze armate terrestri. Un Reggimento di fanteria chiamato

“Veliti Cacciatori” e un corpo di cavalleria detto “Veliti a Cavallo”. Detta unità formò la Guardiaspeciale del Re. Coloro che ne fecero parte, furono estratti a sorte, i loro nomi inseriti in unbussolotto, identico a quello che si usa per l’estrazione del lotto. ASC - Formazione dei Veliti.2 Il Regio Procaccio, più che un funzionario statale, a quei tempi era un affittuario del ser-

vizio postale, a favore dei privati, e qualche volta dei municipi. Da Vasto passando per Civi-tampomarano, Lucito e Campobasso univa il Molise a Napoli, trasportando spesso pacchi,danaro e cesti di roba.U. D’Andrea, Spirito pubblico brigantaggio ed operazioni militari in Provincia di Aquila e

nel Contado di Molise durante il periodo 1791-1806, Stampato nell’Abazia di Casamari, pag. 227.

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sostentamento, pasteggiando lautamente fuori dell’abitato. Nazario Molinaro,testimoniò, invece, di essere stato sequestrato dalla banda del Quici il 22 lu-glio 1809, ed il giorno dell’eccidio fu costretto a seguire il gruppo di brigantinell’impresa. Dichiarò altresì che l’assalto fu istigato dal brigante d’Astolfodi Civitacampomarano e nel gruppo di tagliagole era attivissimo Nicola Pe-razzelli di Lucito. Al duca di Nevano, Francesco Capecelatro, ex feudatariodi Lucito, fu chiesto invece perché il paese non aveva opposto nessuna resi-stenza agli aggressori. Egli asserì che nel Comune non c’era la Guardia Civicae nessuno possedeva armi e munizionamento e, soprattutto, perché l’assaltoavvenne di notte. Il 16 settembre, giorno dopo dell’udienza di Campobasso, il Maggiore

Pepe, Comandante militare della Provincia, transitò per Lucito con un re-parto di Milizia Reale, quale inviato sul territorio alla repressione del bri-gantaggio. Qui giunto, fu invitato a pranzo unitamente ad i suoi ufficiali nella casa

di Michele de Rubertis, invito distinto per l’occasione anche all’amico difamiglia, il medico chirurgo Alfonso Palombo. Dopo un frugale pasto dettatodall’urgenza di riprendere il viaggio, il comandante scese nella piazza incompagnia dei suoi ospiti e fece trarre in arresto alcuni maggiorenti delpaese, dandone immediata notizia all’Intendente Galdi in previsione dellaloro carcerazione.Don Vincenzo e don Francesco Lombardi, don Pasquale Caroscia, don

Gennaro prete secolare e don Giuseppe de Rubertis (dei quali fu ospite)3,don Beniamino Minicucci, Michele de Rubertis (padre di Giuseppe e Gen-naro), il chirurgo Alfonso Palombo e il calzolaio Michele de Rubertis; furonosospettati di aver dato asilo e assicurato viveri ai briganti, comunque ritenutecolpevoli di indifferenza, per non aver impedito il massacro dei quattro gen-darmi. Questi galantuomini furono ristretti nelle carceri di Campobasso. L’esposizione dettagliata dei fatti, ci informa che il chirurgo Alfonso Pa-

lombo, figlio di un notaio di Castellino, fu arrestato per le cure prestate albrigante Paolo Vasile, ferito nello scontro a fuoco con i gendarmi nell’assaltodi Civitacampomarano del giorno 7 settembre. Michele de Rubertis, invece,dopo 36 giorni in carcere, fece pervenire una supplica al Ministro della Po-lizia, ottenendo il suo rilascio dietro versamento di una cauzione di milleducati.Egli fu quindi posto in libertà vigilata con l’obbligo di risiedere nella città

3 Al tempo della Repubblica il Legale Giuseppe de Rubertis figlio di Michele, in qualità diComandante della Guardia Civica espose la bandiera Repubblicana sul loggiato del suo palazzo.Testimonianza del chirurgo Domenicangelo Lombardi di Lucito; Busta 33 fascicolo 33/1 deiprocessi politici. Archivio di Stato di Campobasso.

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capoluogo. Tutti i lucitesi imprigionati, furono poi posti in libertà provvisoriail 17 gennaio 1810, in attesa del processo che si protrasse fino al 30 novem-bre 1814, quando la Corte Speciale di Molise, visti gli atti di imputazionedi complicità nell’incesso armato per la campagna dei briganti FulvioQuici, Paolo Vasile e compagni, ed altro deliberò la cancellazione del pro-cesso a carico di tutti gli imputati. Reato caduto in prescrizione?Prima di trarre conclusioni affrettate, ci sentiamo in dovere di far cono-

scere al lettore l’esito delle indagini predisposte dal Presidente della Com-missione Militare, sul personaggio de Rubertis, per inquadrarlo nella suagiusta dimensione. Il Presidente nell’attenta analisi, annotò che Michele DeRubertis, figlio di Nicola, trent’anni addietro non possedeva che pochi benidi fortuna. La sua professione era quella di laido bottegaio e rivendigliuolocon cui si occupava tra l’altro di terre e riparazione di armi da fuoco. Vistala sua scarsa liquidità di danaro, unitamente al fratello sacerdote don Do-menico, pensò bene di impinguare le tasche volgendo gli occhi sulla Pub-blica Amministrazione, mentre il reverendo posava le mani sui luoghi Pii,divenendo in breve tempo due pratici curatori. Non ci fu Governatore o pub-blico ufficiale che non fosse stato incluso nella loro rubrica, o non fosse di-peso dai loro voleri. Di contro, non ricoprirono mai cariche pubbliche,evitando così di rispondere delle loro azioni e naturalmente darne conto. Ilprete, in qualità di Procuratore, gestì la florida amministrazione della Chiesaper oltre 40 anni, senza risponderne al Comune e tanto meno alla Curia Ar-civescovile a cui doveva obbedienza. Il grano ed il grano d’India dovuti alComune, per il pagamento della fondiaria, il cui ammontare rasentava milletomoli, venne ammassato nei magazzini da Michele, che lo acquistava alprezzo di sette-otto carlini, rivendendolo poi ai cittadini bisognosi, a tre oquattro ducati il tomolo. Anche le tasse civiche, ascesero a circa due o tre-mila ducati l’anno e finirono immancabilmente nelle sue capaci tasche. Di-verse somme di danaro invece, donate dal popolo devoto alle cappelle delSantissimo Rosario e dell’Ospedale, furono distorte dal sacerdote e date inprestito con interessi esosi ai cittadini meno abbienti, vessandoli poi convarie richieste, sequestri di beni e sottoscrizioni di scritture di addebito. Allostesso modo si dissolsero i floridi Monti Frumentari4. Inoltre, avendo in cantiere l’edificazione di una nuova casa, i fratelli,

oltre ad appropriarsi di laterizi di proprietà comunale, acquisirono un ingentequantitativo di legname da costruzione facendo abbattere alberi ad alto fusto

4I Monti Frumentari (detti anche granatici o di soccorso) erano un’istituzione benefica nataalla fine del XV secolo per prestare ai contadini più poveri il grano per la semina, che poi re-stituivano aumentato di un tanto per l’interesse, al momento del raccolto.

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nel bosco di Triventi e, con l’ausilio dei fratelli Scarano, ebbero la scellera-tezza di espellere con violenza circa 20 famiglie dalle loro abitazioni, arro-gandosi il diritto di proprietà col pretesto di antichi debiti contratti dai loroantenati, diventando così titolari di masserie, terreni e macchie boschive. Prescindendo ora dalle notizie già conosciute intorno al truce assassinio

dei quattro gendarmi, proponiamo al lettore una storiella pittoresca accadutain paese e riportata nel documento d’indagine del Presidente.Cinque o più sere prima dell’eccidio dei militi, il gruppo di briganti ca-

peggiato da Fulvio Quici, si improvvisò macellaio, ponendosi a sezionareun vitello sottratto dalla stalla di Michele Fiore alias Panzone, la cui casa sitrovava al limite del bosco di Triventi5. Mentre si intrattenevano all’arrosti-tura dell’animale, verso le tre della notte udirono le voci e i passi frusciaresull’erba secca dei tre velitiMinicucci, de Blasiis e de Rubertis, che si reca-vano in campagna presso la masseria di un contadino per passare la notte.La situazione divenne critica quando, creduti spie, i briganti si disposeroarmi in pugno pronti a far fuoco sui malcapitati appena giunti a tiro. Pan-zone,6 che conosceva bene gli ex militi, si precipitò sul gruppo placando glianimi ed invitando gli ultimi arrivati ad assaggiare il bove rosolato al puntogiusto. Il mattino seguente, nella cantina di Michele de Rubertis, il Panzonedispensò molte porzioni di carne arrostita a Pasquale Matteo, Rocco Ianni-ruberto alias Pidocchio e Gennaro Ianniruberto di Natale, questi ultimi par-zenaule del de Rubertis, Giuseppe Perazzelli cognato del Panzone ed anchead un tal Modestino di Castellino, sottolineando che carne di quel saporenon avrebbero potuto giammai gustare.

5 In casa di Michele Fiore aveva trovato ricetto Vincenza Serricchio, madre dei fratelli Carlo,Francesco e Pietro Brindesi briganti di Triventi. Si allontanò dal suo domicilio per evitare l’ar-resto. Testimonianza di Ermenegildo Scarano di Triventi,che si trovava a Lucito per imparareil mestiere di fucilaio. Busta 33 fascicolo 33/1 dei processi politici. Archivio di Stato di Cam-pobasso.

6 Il 15 dicembre 1809, il Presidente della Commissione Militare Salvadori scrivendo al Pro-curatore della Corte Criminale, gli riscontrò che insieme ai carcerati Lucitesi si trovavano re-clusi un certo Panzone e la di lui moglie.ASC - Processi Politici b. 33, f. 33/1.

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Registrodelle denunzie fatte alla Pretura di ladri di campagna,

e di persone sospette di pascolo abusivoArt. della Legge 20 marzo 1865 sulla Pubblica Sicurezza

Nome, cognome e figliazione Professione

1° Angelocola Antoniofiglio del fu Alberico e della fu Saveria Galuppo Contadino

2° Angelocola Angelofiglio di Dionisio e di Domenico Perrino “

3° Bracone Salvatore figlio del fu Antonio e della fu Angelica Continelli “

4° Ciavatta Federicofiglio del fu Pietro e della fu Stella Leone “

5° Ciccarella Nicolafiglio del fu Luigi e della fu Cristina Frena “

6° Continelli Federicofiglio del fu Francesco e della fu Giulia Giagnacovo “

7° Continelli Angelantoniofiglio di Errico e della fu Anastasia Bozza “

8° Continelli Giuseppe Nicolafiglio di Errico e della fu Anastasia Bozza “

9° Continelli Giuseppe Nicolafiglio del fu Francesco e della fu Giulia Giagnacovo “

10° D’Alessandro Vincenzofiglio di Antonio e di Giacinta Giagnacovo “

11° D’Andrea Luigifiglio di Giuseppe e di Domenica Leone “

12° D’Andrea Raffaelefiglio di Domenico e di Giuseppa Leone “

13° Giagnacovo Emiddiofiglio del fu Querino e della fu Pia Caputo “

14° Federico Giagnacovo Federicofiglio del fu Francesco e della fu Domenica Leone “

15° Giagnacovo Lorenzofiglio del fu Luca e della fu Maria Ciavatta “

16° Giagnacovo Nicolafiglio del fu Giuseppe e Teresa Giagnacovo “

17° Giagnacovo Pioantoniofiglio di Giovanni e di Irene Tanno “

18° Leone Erricofiglio di Domenico e della fu Felicia Ciccarella “

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19° Leone Raffaelefiglio del fu Francesco e della fu Desiderata Marino “

20° Leone Vincenzofiglio del fu Saverio e di Maria Angelocola “

21° Marchetta Federicofiglio di Carmine e di Teresa Caputo “

22° Scarcasale Biasefiglio di Nicola e di Rosa Portone “

23° Venditti Raffaelefiglio di Antonio e di Cristina Marino “

Anno 1877 - Nominativi trasmessi copia consimile, esclusi gl’individui al 12° 3 e 5al Sig. Comandante i Reali Carabinieri in Trivento oggi 7 maggio 1877 - Il SindacoContinelli.I nominativi, denunciati il 27 aprile 1877, si riferiscono tutti contadini e residenti aSan Biase.

Nome, Cognome e Figliazione Indizi Se siano sospetti

1° Angelocola Antonio Per notorietà Furti campestrifu Alberico e pascolo abusivo

2° Angelocola Ferdinando “ “di Antonio

3° Ciccarella Nicola Per notorietà Ladro in generefu Luigi e reati commessi

4° Continelli Ciro Per notorietà Boscaiuolofu Pasquale

5° Continelli Ferdinando “ Oziosofu Francesco

6° D’Alessandro Vincenzo “ Ladro in generedi Antonio

7° Angelocola Biase “ Furti campestrifu Vincenzo

8° Giagnacovo Lorenzo “ “fu Luca

9° Angelocola Angelo “ Ladro in generedi Dionisio

10° D’Andrea Raffaele “ Furti campestridi Domenico

11° Leone Nicolamaria “ “fu Raffaele

12° Leone Vincenzo “ “fu Saverio

13° D’Andrea Antonio “ “

1

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fu Egidio14° Leone Antonio “ Ladro in genere

fu Giuseppe alis Laroia15° Marino Carmine Per notorietà e

di Saverio per condanne sofferte Ladro in genere16° Di Marzio Giuseppenicola “ “

fu Antonio

Nota di Melchise Corvinelli di LimosanoSi nota, come alli 17 aprile 1807, alle ore quattro della notte, giorno di

venerdì fù assalito da diversi briganti in cavallo della Brigante Committivadi Sardelli di S. Elia, e di Giovanni Furia di Montagano per […] odio, emanovre de nemici paesani. E doppo cassazione del portone a colpi di ac-cetta, non appena entrati fùi a colpo di bainetta con pericolo di vita feritonell’occhio destro, e con puntonate di schioppo in diverse pareti della per-sona; al pari seguì in persona di mio figlio arciprete Emiliano. Contempo-raneamente da’ medesimi fù saccheggiata non solo questa casa, che quelladi mia cognata Arcangela Bonadie, e di mio fratello D. Amedeo, spoglian-dovi in del contante da sopra docati cinquecento, dell’oro, ed argento lavo-rato, del prezioso tutto, di tutti gli abiti, biancheria, e delle doti di due miefiglie nubili, Marta, e Caterina, delle biancherie di tavola, di due spade conimpugnatura d’argento, e limi oro, di cinque gran fucili, di cartucce in circacento, di sella, briglia, stivali, bottiglie di stagno, e bottiglie di cristallo diTosolj; di quattro nuovi cappelli finissimi, castorini, di scarpe, di calzettedi seta, e ventinelle finissime, e di quanto mai vi trovarono in casa. Qualsaccheggio durò dalle ore quattro, sino alle ore otto passate, ascendentealla summa de sopra 3300 docati, non altro lasciandovi, che le sole mura,e la camisa addosso. Non consumandosi gli prosciutti, casciocavalli, cascio,e pane; per cui si ringrazia il Sommo Signore, che non ci tolsero la vita. Ciòsi nota per futura memoria. E Iddio sempre ci liberi, e salvi da altri assalti.

ASC, Protocolli Notarili, notaio Melchise Corvinelli, Limosano, 1807.

Memoria scritta dal sindaco di Limosano e trasmessa all’Intendente diMoliseSi sa benissimo, che le attuali illuminate leggi non danno luogo a memo-

rie, e a ricorsi anonimi. Ma chi scrive la presente lo fa solo, a ciò nell’in-formazione, e nell’esame de’ testimoni contro de’ briganti Limosanesi, enegl’interrogatori di questi si sviluppino tutti i lumi necessari, per scoprir

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fin dall’ingresso delle armi francesi, all’infuori di pochi, niun Limosanese,si è mostrato non attaccato, ma almeno rispettoso delle leggi urgenti, e delgoverno, perché da tutti si teneva per certa, che poco avrebbe durato, e sa-rebbe traballato al primo soffio di vento. Per la sudetta ragione si è conser-vato sempre da quei cittadini un sordo allarme. I pesi fiscali si son semprepagati con la forza, e a stenti non per mancanza di contante, e per bisogno,ma assolutamente per opinione contraria. L’esattore fondiario può addurnetanti fatti, e ne può dire la verità. Essendo così in quella comune le leggimal osservate, e obbliate, si è sempre permesso di parlare pubblicamentecontro del governo, e fare delle riunioni, e complotti sediziosi. È cosa risa-putissima, che un tal maestro funaro Salvio Minicucci, ed altri suoi parti-giani de Limosani sono andati predicando una vicina rivolta, e un breveritorno di Re Ferdinando, fino a sentirsi arrivato già in Calabria, in Puglia.Se i principali individui del luogo avessero conservato un’ombra di buonsenso per l’attuale governo Minicucci, e i suoi satelliti aderenti non avreb-bero così operato, e detto. Il Decurione Zingarelli non avrebbe altrimentirimproverato con maniera villana al garzone di Luigi Marrone, ed altri cam-pagnoli di San Angelo le procedure di quella comune, cui era ben merite-vole, di tutti i mali che i briganti Limosanesi le minacciavano, e dovevanonecessariamente farle per non esser del loro partito. Al primo di giugnoprossimo passato non si sarebbero opposti alla persecuzione del capo co-mitiva Limosanese Vincenzo Cipriani. Allora se non giungeva in provinciail Generale Compère, quel popolo era quasi vicino a rivoltarsi tutto, comelo dimostrò una lettera di quel sindaco, fatta al comandante civico di San-tangelo, che gli richiedeva la forza per l’esterminio della comitiva sudetta. Il predetto Minicucci e di lui figlio sono stati già ultimamente, sulle mosse

di uscire in campagna con circa duecento uomini. Tutto ciò è risaputissimoda tutti; e i 24 individui già sortiti, tra quali il proprio nipote Francesco,sono stati animati, ingannati, e sedotti dal Minicucci, ed altri capi a operarecon quel furore, e barbarie, che dopo han dimostrato col fatto. Da ciò sivede benissimo che lo stendardo della rivolta è stato vicino ad alzarsi nellacomune di Limosani, e se non l’hanno eseguito finora, è stato forse il timoredella dubbia riuscita. Seguito però a dire quel popolo malintenzionato, cheall’esempio della Spagna ne daranno il segnale della sommossa nel giornodella soppressione, e uscita de’ monaci da quel monistero. Il sindaco, e fratello Don Luigi Fracassi lo hanno pure rapportato all’in-

tendente, e comandante della provincia per le opportune provvidenze. Nellediverse gite de’ briganti in quella comune, Limosanese, si è veduto fuggireper il timore, anzi tutti si sono preggiati andarli incontro, proteggerli, e fa-vorirli nelle loro voglie. Ognuno sa la maniera festosa, onde a 26 agostofurono specialmente ricevuti Rossignuolo, e Quici, come se fossero stati i

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loro liberatori. Minacce di morte, e persecuzione a quell’esattore banni, chenon più si pagasse la fondiaria. Niuna obbedienza alle leggi. Uccisioni, ra-pine, vendette, incendi, saccheggi, ecco in breve il loro piano e la loro idea.Lo scopo principale fu quello di mettere a blocco S. Angelo, la di cui difesae salvezza deve ripetersi fortunatamente da due colpi di fucile tirati a dettecomitive, che vice versa scagliarono contro di quella Civica un diluvio dipalle senza offesa di alcuno. In seguito si è veduto con scandalo universale,che il grano, farina, prosciutti, ed altre robe saccheggiate da quei briganti,e loro famiglie in S. Angelo, San Biase, Pietracupa ed altrove si sono pub-blicamente portate in Limosani e se n’è fatto specialmente il trasporto dalbrigante Battilana, ed intanto ciò vi operava, tutti quei magnati vi beffavanoe ridevano delle disgrazie altrui.Si è avverato e vi vede ancora, che un tal Francesco Greco di colà aggi-

sce a man salva, spia tutto, corrisponde con briganti, e forse ne detta le ope-razioni. A 2 settembre da quel popolo indegno finanche celebrate feste diallegrezza in mezzo de’ briganti, e non giova qui il dire, che la forza li ob-bligava a tanto, poiché poteva benissimo quel clero fuggirsene la notte, sevoleva, dalla comune, e se si era celebrato il primo vespro non si sarebbesolennizzata la festa con tanto sparo, fatto da’ briganti, di polvere, e batterie,presi da essi dall’arciprete di S. Angelo. Se detti assassini han commessopoi de’ ricatti, e saccheggi in Limosani medesimo, ciò deve ripetersi da ven-dette private e dal non essersi ai traviati briganti attesa finora la parolanell’esecuzione del piano ordito contro dello stato, e della pubblica tran-quillità. Eppure tanti scelerati vivono ancora, e meditano sedizioni controdel governo, che oggi ne perseguita con vigore i perturbatori. I capi autori,ed eccitatori di sommosse popolari, per riacquistarsi la pace, è necessario,che siano esterminati con tutte le loro famiglie, ed averi, acciò serva diesempio agli altri malintenzionati. Altrimenti il Governo de’ Napoleoni saràsempre agitato, le leggi mal adempite, e la vita de’ buoni niente si cura. La commissione militare de’ Molise può molto bene punirne i malvaggi

con farne per mezzo del di lei Relatore verificarne il tutto, e quindi procederealla dovuta condanna de’ Rei. Oltre de’ documenti, e testimoni detti di sopra, potranno esaminarsi

l’Esattore Fondiario Attanasio Perrocco, Clemente Durante, signor QuirinoFracassi, Luigi Maria Sebbastiani, Vincenzo Tata, Giuseppe Lucito, DonVincenzo Bussi, tutti uomini onesti, ed altri individui di Limosani istesso.Nonché interrogarsene di tutto i briganti che sono nelle forze detenuti.

ASC - Processi Politici, b. 30, f. 30/8 pag. 39.

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Interrogatorio fatto dall’Intendente della Provincia di Molise al sin-daco di Lucito Giovanni De Leo. 15 settembre 1809Domandato sull’assassinio commessovi da’ briganti in persona di quattro

gendarmi ausiliari nella notte de’ 26 agosto prossimo scaduto; ha depostonel seguente modo.Signore il giorno 26 agosto prossimo scorso vennero a Lucito circa 20

gendarmi ausiliari per arrestare tre militi disertori, Nicola De Blasiis, Ot-tavio Minicucci, e Luigi De Rubertis. I due primi furono carcerati, ma il terzo De Rubertis avendo saputo la

sorte de’ compagni, fuggì dalla casa di suo zio Michele De Rubertis dovestava ricoverato, e prese la direzione del bosco di Trivento per trovare lacomitiva di Quici, Vasile e Rossignuolo, e condurli in seguito in Lucito permassacrare i suddetti gendarmi ausiliari – Infatti verso le sei ore e mezzad’Italia della stessa notte vennero 22 briganti, domandarono a GiuseppeDe Letis la casa dell’Unità dove i gendarmi alloggiavano al numero nonpiù di quattro, perché gli altri erano venuti a Campobasso per accompa-gnare i due militi presi, e circondarono la casa sudetta, attesero che il signorMichele De Rubertis, già nominato di sopra andasse al convento de’ mis-sionari, facesse sonare matutino a più buon ora del solito, e riunita la gentein chiesa ad ascoltare la messa, come giorno festivo, avessero potuto conpiù agio assaltare la casa sudetta ed ammazzare, i gendarmi, che vi eranorinchiusi. – Questo fu puntualmente eseguito. – I gendarmi furono obbligatia depositare le armi, poi da’ briganti condotti al bosco di Triventi e fucilati.– Tornarono al paese, aggiunge che don Domenico De Rubertis fratello deldetto don Michele richiesto, regalò al brigante Quici un cannocchiale cheaveva, per complimentarli; e dopo reciproche cerimonie, fatte tra il De Ru-bertis, ed il Vasile, questi disse, che avessero scusato, che egli non potevaandare in casa di nessuno: allora il brigante Lusignuolo si portò in casadel De Rubertis, ove si prese un occhialone. Finalmente il sindaco signorGiuseppe De Leo, fece fornire ai briganti tra quali vi era il detto Vasile, de’viveri, che egli medesimo gli mandò per un tal Lacessullo, Leo Di Ninno, eRocco Pizzuto, tutti di Lucito perché, i briganti sudetti vollero mangiarefuori dell’abitato. Io Nazario di Costanzo Molinaro depongo che essendostato arrestato nel giorno ventidue luglio da Fulvio Quici, Paolo Vasile, edaltri briganti di questa comune, e dai medesimi costodito per circa un mese,con questa occasione, mi trovai colla comitiva sudetta nel bosco di questacomune, in quel giorno che la medesima si portò ad arrestare i quattro gen-darmi ausiliari, che erano in Lucito. Questa operazione fu fatta ad istiga-zione di un tal Giovanbattista di Astolfo di Civitacampomarano, briganteistesso fu quello che condusse i briganti in Lucito, da dove riforniti con igendarmi nel bosco, due di questi furono massacrati in mia presenza.

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Della comitiva facevano parte Nicola Di Pinto di Triventi; Rossignuolodi Pietrabbondante, Cajatano di Terra di Lavoro, Carlo Masiotti di SchiaviProvincia di Chieti, Carlo Brindesi anche di Triventi, e Nicola Perrazziellodi Lucito.

Fine della banda CiprianiSulla storia di Vincenzo Cipriani, di cui abbiamo esposto non una bio-

grafia ma una semplice raccolta di documenti che siamo riusciti a rinvenire,occorre aggiungere qualche considerazione. Pensiamo che la sua ribellione non fosse dovuta solo a un mero idealismo

o fanatismo politico, ma a una necessità, non voluta da alcuno e tuttaviacreata e imposta da uno Stato inesistente per la classe misera e votato soloal ceto più abbiente e asservito. Questo, di conseguenza, si frapponeva come un nemico e ostacolo ad ogni

diritto umano e civile, come quello di possedere una casa e un pezzo di terra,che per ognuno costituiva una legge naturale e sacrosanta al di fuori di ogniregola. Questi diritti, invece, venivano negati alla gente misera perché sot-tratti dagli speculatori locali che non erano altro che veri usurpatori del benepubblico e privato. Il governo francese, che sventagliava l’Albero della libertà, dell’ugua-

glianza e fratellanza dei popoli, in pratica non era riuscito a sradicare gli an-tichi privilegi e soprusi, anzi, appoggiando la nascente borghesia, li avevaaccentuati. Il povero bracciale Cipriani, deluso come tanti da queste promesse non

mantenute, diede allora sfogo al suo odio, sempre represso nel passato, con-tro i feudatari e le classi privilegiate, con atti atroci di delinquenza e di ven-detta personale. E quest’odio si accrebbe ancora di più in lui allorché fudisposta la coscrizione obbligatoria. Per sfuggire a questa leva servile in favore dell’occupatore straniero, una

schiera di giovani si rifugiò sulle montagne e nei boschi, venendo così menoanche tante braccia di lavoro nei campi. I disertori catturati venivano incatenati e convogliati nei posti di smista-

mento per essere destinati al fronte di combattimento.Vincenzo non accettò di servire questo Stato e questa borghesia, ma si

diede “alla campagna” per combatterli.Le vicende banditesche di Cipriani lumeggiano assai bene il momento

storico perché ci riportano al pensiero rivoluzionario, all’opposizione sde-gnosa nei confronti di coloro che con più favore avevano accolto le novitàimportate dalla dominazione francese. Egli sentì la necessità di adoperare le armi in difesa soltanto delle sue ra-

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gioni. In questo stato di cose il brigantaggio, come atto di ribellione, costi-tuiva la sola e unica forma di rivalsa per quanti denunciavano il carattere in-tollerabile e oppressivo di una condizione di subalternità, che si avvicinavaalla schiavitù. Per questa ragione il brigantaggio non è stato solo un’espe-rienza di semplice delinquenza o di atteggiamenti provocatori ex lege, maanche una violenta contrapposizione alle nuove frontiere politiche (il Regnod’Italia) che, comunque, stavano perpetrando le stesse condizioni di infelicemiseria per le classi sociali subalterne.

La banda di caporal Vincenzo Cipriani, che aveva formato e trascinatoper combattere l’invasore francese, era composta da Vincenzo Matteo e suofratello Giuseppe (disertore); Luigi Frosolone; Ippolito Di Gregorio; LuigiIammarino; Domenico di Tomasino Fracassi; Giacomo Sabetta; GiovanniRicciuto; Pasquale Pingue; Francesco Minicucci (alias Ominicchio); Pa-squale Lattanzio, Cosimo Giancola e Giorgio Formicone. A questi si devono aggiungere Anselmo Mattiacci, Francesco Marino, Sa-

verio Marino, Pietro Ciavatta, Francesco Leone di San Biase, FrancescoBrindesi di Trivento e Nicola Perazzelli di Lucito.Molti furono arrestati e tradotti nelle carceri di San Francesco a Campo-

basso. che si trovava nei pressi della attuale Via Ziccardi, fuori le mura Mu-rattiane. Via mercato potrebbe essere l’attuale via Cannavina che immettevanella Piazza Mercato, oggi Piazza Gabriele Pepe.

Sul destino di questi briganti abbiamo ricavato le seguenti notizie:Giuseppe Matteo (disertore), fratello di Vincenzo, di anni 24, bracciale

di Limosano fu “afforcato” a Campobasso in via Mercato il 26 settembre1809 alle ore 22 e mezzo.Luigi Frosolone, di anni 21, Michelangelo Chiocchia, di 23 anni, e Vin-

cenzo Matteo di 30 anni, tutti bracciali di Limosano, vengono afforcati aCampobasso in via Mercato il 1° ottobre 1809.Domenico di Tomasino Fracassi, di anni 22, muore il 28 luglio 1810 nel

carcere di Campobasso dove era detenuto.Pasquale Pingue, di anni 30, viene arrestato dalla Guardia Civica di Li-

mosani il 5 ottobre 1809. Recluso nelle carceri di Campobasso qui muore il7 febbraio 1810.Anzelmo Mattiacci fu giustiziato il 29 ottobre 1809 insieme al compagno

Francesco Leone di San Biase.Su Francesco Marino sappiano solo che il 20 dicembre 1809 un mare-

sciallo con due della Gendarmeria Reale di Trivento fecero irruzione nel do-micilio di San Biase per arrestarlo, ma non lo trovarono. La sorella Primitivariferì ai gendarmi che Francesco “era assente dal mese di settembre anno

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1809 e che il 29 settembre […] si presentò in Campobasso per godere dellaReale Munificenza, e da quell’epoca non se ne ha avuto notizia”.Su Saverio Marino conosciamo anche che il 20 dicembre 1809 la stessa

Gendarmeria si presentò al suo domicilio trovando solo la moglie RosaLeone. Questa disse che Saverio era assente dal mese di settembre e che “il29 settembre si presentò in Campobasso per godere della Reale Munificenza.Da quel giorno non si sono avute più sue notizie”.Su Pietro Ciavatta abbiamo notizia che la stessa Gendarmeria il 13 marzo

1810 si portò nella casa del fratello Antonio per avere informazioni di lui. Ilfratello rispose che Pietro era assente dal 1° di ottobre 1809, epoca in cui sipresentò a Campobasso a godere dell’indulto e da allora non si era più visto.Saverio Battilana, morì nel carcere di Campobasso per ”febbre epidemica

di Tifo Putrido” il 26 marzo 1810. Secondo gli accertamenti eseguiti dai me-dici l’epidemia fu causata da mucchi di letame e da altre sporcizie accumu-late nei cortili del carcere.Domenico Venere, di anni 30, morì il l7 febbraio 1810.Saverio Tata, di 37 anni, morì il 16 dicembre 1810.Di Francesco Brindesi, non conosciamo la sorte. La sera del 19 dicembre 1809 si presentarono al suo domicilio un mare-

sciallo e due gendarmi di Trivento per eseguire il suo mandato di arresto. Aimiliti fu risposto che mancava da Trivento dal luglio 1809 e non si sapevanulla di lui. Sappiamo però che, dopo l’uccisione del fratello da parte di Ful-vio Quici, Francesco visse nel terrore che il capo brigante potesse riservarglila stessa fine.Di Nicola Perazzelli abbiamo poche notizie. Sappiamo che la sera del 19

dicembre 1809 un maresciallo e due agenti della Gendarmeria di Triventosi portarono al suo domicilio di Lucito per arrestarlo. La matrigna DoroteaVentresca asserì che Nicola era assente dal settembre 1809 e da quell’epocanon si sapeva nulla di lui. Si sapeva però che era stato ucciso dai suoi compagni. Ippolito Di Gregorio, Luigi Iammarino e Francesco Minicucci dopo il

loro tradimento, accolti nella loro patria ebbero il beneficio dell’amnistia.Giuseppe Sforza, alias Rosignuolo, di 34 anni, possidente di Pietrabbon-

dante, fu preso e “afforcato” a fine gennaio 1810. Domenico Colozza di Busso ma domiciliato a Lucito, morì anche lui “af-

forcato” in via Mercato il 14 dicembre 1810.Fulvio Quici di Saverio si spense cristianamente nel suo letto alle ore 5 della

notte del 1° aprile 1839 e fu sepolto nella chiesa di Santa Croce di Trivento.Paolantonio Vasile morì anche lui confortato dell’Estrema Unzione il 30

luglio 1848. Don Giuseppe Nicola Carnevale, alias Don Peppo arciprete diPietracupa, fu processato per cospirazione “tendente a rovesciare l’ordine

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pubblico colle forze interne dello Stato” quale “mandante dell’omicidiocommesso con violenza pubblica, provisione e sopraffazione in persona diGiovanni Guglielmi nonché volontaria somministrazione di viveri, e di asilodato ai briganti”. Per questi capi d’accusa il 16 marzo1810 fu condannato alla pena dei ferri

“per lo spazio di anni venti”. Domenico Cipriani, di 36 anni, aggregato alla banda di Vincenzo Cipria-

nina fine di agosto 1809 morì il 28 gennaio 1809 nelle carceri di S. Francescodi Campobasso dove si trovava detenuto. Fu accusato, arrestato e tradottoin prigione a causa di vari delitti di brigantaggio.Di Vincenzo Cipriani si sa che il 5 dicembre 1809 il brigadiere e alcuni

gendarmi di Castropignano andarono a cercarlo, ma invano, a Limosano. IlSindaco, cui comunicarono il mandato di cattura, disse che “Cipriani era as-sente dal paese dal mese di agosto e non se ne aveva notizia, ma si dicevaessere stato ammazzato dalla stessa compagnia di Fulvio Quici nel boscodella Castagna in Triventi”. E più di qualcuno ebbe a dire che sulla sua ombra passeggiasse l’impren-

dibile Quici, vecchio re dei boschi!

Testo della Bolla emessa a Napoli il 4 ottobre 1788Si noti a perpetua memoria, come essendo trasportata dalla città di Napoli

il Corpo di San Cristiano fino nella città di Benevento, e da colà giunse inquesta terra di Limusani nel dì 6 del mese di giugno 1786, e situatili in questaven.le Chiesa Arcipretale di Santa Maria Maggiore, ove attualmente si ri-trova, per odio, ma la volontà ed invidia di alcuni Preti di detta Chiesa, ed’alcuni altri di quella di Santo Stefano, e de’ Capi religiosi di questo Con-vento di San Francesco fecero fare un scelerato ricorso dalli Governanti diquel tempo, Michele di Nicola Fracasso, Saverio di Nicola Fioruccio, e com-pagni, e rappresentarono a sua Maestà nostro Sig.re, che detto Corpo di SanCristiano non sta bene in detta Chiesa Arcipretale situato, perché angusta, enel giorno della sua festività poteva detta chiesa sfondarsi e che in dettogiorno per il gran concorso di Forastieri e Cittadini erano morti per la folladelle genti molte Persone, aggiungendo di vantaggio che molte donne gra-vide, con l’entrare ed uscire dalle porte di detta chiesa erano sgravidate conl’abbortimento; Ma che dissero, e supplicano di vantaggio alla detta Maestà,che in questa terra vi erano altre due chiese magnifiche, grande, e capace dipotersi mettere e situare detto Corpo di S. Cristiano: cioè le chiese di S. Ste-fano, e quella di detto Convento, chiesa magnifica, e che ivi si fosse fatto tra-sportare il detto Corpo di Santo Cristiano. Il Re, dopo aver fatto indagare suquesti fatti, fece trasmettere il seguente dispaccio:

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In vista di quanto ci ha rappresentato su le domande del Procuratore dicodesta Università circa il potersi trasferire in altra più comoda Chiesa ilCorpo di San Cristiano Martire, Sua Maestà mi ha comandato [...], che èrimasto inteso e vuole che niente s’innovi per il particolare.

ASC - Protocolli notarili - Atto notaio Corvinelli di Limosano. La nota è stata tratta dal documento “Arrivo del Corpo di San Cristiano a Limosano”gentilmente concessoci dall’avvocato Antonio Romano di Limosano.

Morte presunta di Nicolina Angelocola. Portale degli Antenati a cura della Direzione Ge-nerale degli Archivi di Stato. Registro degli Atti di Morte del Comune di San Biase

Morte di Nicolina Angelocola. Archivio parrocchiale di S. Maria dell’Acquabona di San Biase

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BIBLIOGRAFIA

Fonti archivisticheArchivio di Stato di Campobasso.Archivio parrocchia Santa Maria dell’Assunta di Sant’Angelo Limo-sano.

Archivio parrocchia San Nicola di Lucito.Archivio parrocchia Santa Maria dell’Acquabona di San Biase.Archivio vescovile di Trivento.

Fonti bibliograficheArtese Giovanni, La valle del Trigno e la Cooperativa Euro-ortofrut-ticola del Trigno, Rocca S. Giovanni (Ch), Litografia Botolini,2007.

Conte Carmen e Wanda, Frammenti di passato di comunità molisane,Campobasso, Edizioni Enne, 1999.

Bucci Sergio, Feudi, classi sociali, lotte contadine nel Molise in etàmoderna e contemporanea, Campobasso 2007, Palladino Editore.

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Mc Farlan Manhès, Brigantaggio. Un’avventura dalle origini aitempi moderni, Ed. Capone.

Perrella Alfonso, L’anno 1799 nella Provincia di Campobasso, Ca-serta, Tipografia Vincenzo Magone1900.

Piedimonte Gennaro, Storia di Lucito, ristampa anastatica, Campo-basso, Tipolitografia Foto Lampo, 1998.

Scarano Nicola, La storia del brigantaggio di Trivento nel periodomurattiano, Matrice, Tipolitografico La Rapida Grafedit, 1977.

Tanno Michele, San Biase. Il barone e i contadini, Ferrazzano, Edi-zioni Enne, 2005.

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INTRODUZIONEFranco Novelli

SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIONascita del banditismoPrimi briganti di San BiaseFatti avvenuti di seguitoAtto di violenza e di sangue su BrigidaRipresa del brigantaggioVincenzo Cipriani: da servo a briganteComitiva di BrindesiMisfatti commessi dalla bandaSbandamento, riordino e disgregazione della comitivaBrigante Anselmo MattiacciPanettiera Nicolina AngelocolaFucilazione del baroneAvvenimenti dei giorni successiviLotta armata al brigantaggio

BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIARinascita del brigantaggioBanda CaprannunzioAltre malefatte commesse nella notteSeguito della vicendaAltri misfatti eseguitiBanda PomponioRepressione del brigantaggio

APPENDICE DOCUMENTARIAMichele De Rubertis, un protettore dei briganti

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INDICE

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Registro delle denunzie fatte dalla Pretura...Nota di Melchise Corvinelli di LimosanoMemoria scritta dal sindaco di Limosano...Interrogatorio fatto dall’Intendente di Molise...Fine della Banda CiprianiTesto della Bolla emessa a Napoli il 4 ottobre 1788

BIBLIOGRAFIA

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Finito di stampare nel mese di aprile 2015presso la TIPOLITOGRAFIA FOTOLAMPO srl - Campobasso

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