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Naviglio Piccolo 1 Circolo Famigliare di Unità Proletaria Milano Viale Monza 140 Giovedì 24 novembre 2016 - ore 21.00 Favole in musica a cura di Giuseppe Volpi Turandot di Giacomo Puccini Turandot è l’ultima opera di Giacomo Puccini. Basata su un racconto di Carlo Gozzi, rimase incompiuta per la sopravvenuta morte del compositore, che, si dice, non riuscisse a trovare l’ispirazione per il lieto fine, non consono al suo modo di sentire tragico. Famosa la prima esecuzione al Teatro alla Scala (1926) con Arturo Toscanini che depone la bacchetta e si rivolge al pubblico dicendo «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» Esploriamo tutti i risvolti di questa famosissima opera con Giuseppe Volpi, musicologo, specialista nella storia dell'interpretazione. Membro di diverse società musicologiche, fra cui la prestigiosa "Furtwängler Societé" di Parigi. Come divulgatore ha collaborato con diverse importanti istituzioni sia italiane (Radio Televisione Italiana, Opera Universitaria di Milano, Naviglio Piccolo di Milano, Mikrokosmos di Lecco) sia straniere (Bombay Opera House, Istituto Italiano di Cultura di Toronto). Quota di partecipazione € 3,00 Viale Monza 140 I Piano (M1 Gorla - Turro) Informazioni: www.navigliopiccolo.it email [email protected]

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1 Circolo Famigliare di Unità Proletaria – Milano – Viale Monza 140

Giovedì 24 novembre 2016 - ore 21.00

Favole in musica a cura di Giuseppe Volpi

Turandot di Giacomo Puccini

Turandot è l’ultima opera di Giacomo Puccini. Basata su un racconto di Carlo Gozzi, rimase incompiuta per la sopravvenuta morte del compositore, che, si dice, non riuscisse a trovare l’ispirazione per il lieto fine, non consono al suo modo di sentire tragico. Famosa la prima esecuzione al Teatro alla Scala (1926) con Arturo Toscanini che depone la bacchetta e si rivolge al pubblico dicendo «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.»

Esploriamo tutti i risvolti di questa famosissima opera con Giuseppe Volpi, musicologo, specialista nella storia dell'interpretazione. Membro di diverse società musicologiche, fra cui la prestigiosa "Furtwängler Societé" di Parigi. Come divulgatore ha collaborato con diverse importanti istituzioni sia italiane (Radio Televisione Italiana, Opera Universitaria di Milano, Naviglio Piccolo di Milano, Mikrokosmos di Lecco) sia straniere (Bombay Opera House, Istituto Italiano di Cultura di Toronto).

Quota di partecipazione € 3,00

Viale Monza 140 I Piano (M1 Gorla - Turro)

Informazioni: www.navigliopiccolo.it email [email protected]

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Giacomo Puccini

Turandot

Dramma lirico in tre atti e cinque quadri

Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni

Ultimi due quadri completati dal maestro Franco Alfano

Altro completamento a cura del maestro Luciano Berio

Note introduttive a cura di

Giuseppe Volpi

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Puccini nel periodo in cui lavorava a Turandot

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1 –Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 25 aprile 1926

Personaggi e interpreti

Principessa Turandot Soprano Rosa Raisa

Imperatore Altoum Tenore Francesco Dominici

Timur, re tartaro spodestato Basso Carlo Walter

Calaf, principe ignoto, figlio di Timur

Tenore Michele Fleta

Liù, giovane schiava Soprano Maria Zamboni

Ping Grande cancelliere Baritono Giacomo Rimini

Pang Gran provveditore Tenore Emilio Venturini

Pong Grande cuciniere Tenore Giuseppe Nessi

Mandarino Baritono Aristide Baracchi

Principe di Persia

Carnefice

Guardie Imperiali - Servi del boia – Ragazzi – Sacerdoti – Mandarini – Dignitari Otto Sapienti - Ancelle di Turandot – Soldati – Musici - Ombre dei morti – Folla.

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano

Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Arturo Toscanini

Maestro del coro: Vittore Veneziani

Direttore messa in scena: Gioacchino Forzano

Scene e bozzetti a cura di Galileo Chini

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2 -Sinossi dell’opera: Atto I A Pechino, al tempo delle favole, vive la bellissima principessa Turandot, figlia dell’Imperatore Altoum. Molti principi arrivano da ogni parte del mondo per chiedere la sua mano, ma Turandot ha il cuore di ghiaccio e non intende sposare nessuno. Ognuno dei suoi pretendenti è immancabilmente sottoposto a una terribile prova: deve risolvere tre indovinelli molto difficili; se non riesce nell’impresa, la principessa ordina che gli sia tagliata la testa. L’ultimo ad aver tentato è stato il principe di Persia, ma anch’egli ha fallito; l’opera si apre con il Mandarino che annuncia la sua imminente esecuzione. Tra la folla accorsa per assistere al patibolo c’è anche Timur, anziano re dei Tartari costretto all’esilio, e la sua fedele schiava Liù. Nel tumulto, Timur cade a terra, e a soccorrerlo arriva il principe suo figlio, anch’egli fuggitivo dal paese d’origine; deve viaggiare in incognito per non destare sospetti. Timur abbraccia con commozione il figlio che non vede da tanto tempo, e gli spiega che è stata Liù ad aiutarlo durante l’esilio; il principe chiede a Liù come mai abbia deciso di correre questo rischio, e Liù risponde (aria Perché tu un giorno mi hai sorriso). Intanto la folla aizza i servi del boia, che stanno affilando le loro lame (aria Gira la cote!), e invoca l’apparire della luna (aria Perché tarda la luna?) i ragazzi intonano Là sui monti dell’est. Quando la folla vede il principe di Persia avanzare con fermezza verso il patibolo, ne ha pietà e chiede che gli sia concessa la grazia.

Allora appare la principessa Turandot che, con un gesto inequivocabile, ordina gli sia tagliata la testa. Il principe, non appena la vede, l’ama. A nulla servono le suppliche del padre, ormai ha deciso: anche lui chiederà la mano dell’algida Turandot. I tre ministri Ping, Pong e Pang le provano tutte per distoglierlo dal suo proposito, ma è tutto inutile. Liù cerca disperatamente un’ultima volta di convincerlo (aria Signore, ascolta) il principe è commosso, ma rimane fermo nella sua decisione e le raccomanda di prendersi cura del padre ( aria Non piangere Liú). Atto II Ping, Pong e Pang si chiedono se il principe straniero riuscirà a rispondere agli indovinelli di Turandot (aria Olà Pang! Olà Pong.) Sconsolati, contano quanti pretendenti siano morti negli anni passati, e costatano con amarezza che ormai sono i ministri del boia. Poi con nostalgia pensano alle loro case, dove non possono tornare; sperano che non sia troppo lontano il giorno in cui anche Turandot si arrenderà all’amore. Intanto la reggia si desta e si prepara alla cerimonia degli indovinelli. Il principe si presenta davanti al vecchio imperatore e alla principessa Turandot, pronto a risolvere gli enigmi. Turandot rievoca alcuni fatti accaduti nella reggia molti anni prima (aria In questa reggia): una sua antenata fu uccisa da un principe straniero; perciò adesso lei, Turandot, si vendica sui principi che vengono a chiedere la sua mano, e afferma con decisione che nessuno la avrà mai. Dopodiché Turandot recita i tre enigmi che il principe dovrà risolvere (aria Straniero, ascolta); con sua grande sorpresa e costernazione, egli riesce a risolverli tutti: il primo enigma ha come soluzione la speranza, il secondo il sangue, e il terzo Turandot stessa. Turandot supplica il padre di non darla in sposa allo straniero; il principe, da parte sua, non vuole obbligarla a un’unione che chiaramente la rende infelice, perciò le offre una scappatoia: le propone di risolvere a sua volta un enigma; prima dell’alba dovrà indovinare quale sia il suo nome; se ci riuscirà, allora potrà mandarlo a morte.

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Atto III La principessa Turandot ordina che in quella notte nessuno dorma a Pechino, ella fa bussare ad ogni porta per chiedere a tutti il nome del principe straniero. Il principe aspetta con trepidazione che arrivi l’alba, fiducioso che alla fine il suo amore vincerà (aria Nessun dorma). Ping, Pong e Pang cercano di convincerlo ad andarsene via perché hanno paura della vendetta di Turandot se non riusciranno a scoprire il suo nome. Gli offrono donne, ricchezze, gloria: ma il principe li respinge, vuole solo Turandot. Intanto le guardie hanno catturato Timur e Liù e li portano a cospetto della principessa. Liù si sacrifica dichiarando di essere la sola a conoscere il nome del principe. Turandot la fa torturare, ma la piccola schiava non cede. Meravigliata, la principessa le chiede dove trovi tutta quella forza, Liù le risponde che le viene dall’amore (aria Tanto amore, segreto e inconfessato), e che presto anche lei arderà della stessa fiamma (aria Tu, che di gel sei cinta); poi si trafigge con un pugnale e muore. La morte di Liù scuote profondamente Timur e tutta la folla; un corteo conduce via il suo piccolo corpo, mentre Turandot e il principe rimangono soli. Il principe la affronta con fermezza (aria Principessa di morte) ma anche con tutta la forza del suo amore; Turandot lo respinge, ma non riesce a evitare il suo bacio. Arriva l’alba, Turandot è vinta, l’amore scioglie finalmente il suo cuore di ghiaccio. Il principe le svela il suo nome: si chiama Calaf; ora, se lo desidera, può ancora mandarlo a morte. Davanti all’imperatore suo padre e a tutto il suo popolo, Turandot dichiara di conoscere il nome dello straniero: (aria Il suo nome è Amore). La folla acclama festosa, mentre Turandot e il principe si abbracciano.

3 – Premesse letterarie Turandot nasce da una favola di Carlo Gozzi (1720 - 1806) nobile veneziano che desiderava preservare la commedia dell’arte, in opposizione al rinnovamento del teatro italiano propugnato da Carlo Goldoni e Pietro Chiari. Turandot (1761) è considerata il capolavoro di Gozzi. Nel 1801 scrivendo la prefazione dell’edizione completa delle fiabe l’autore così spiegava: - Volli che tre enigmi di cotesta principessa della China posti in una artifiziosa e tragica circostanza, mi dessero materia per due atti della rappresentazione, e che la difficoltà d’indovinarli mi dessero tema a tre per formare un’opera seria e faceta in cinque atti. - Non ci sono dubbi sull’origine persiana di Turandot che deriva dal persiano Turandokht o Tourandocte. Conosciamo anche la fonte da cui Gozzi attinse ispirazione, si tratta di François Pétis de la Croix (1653 - 1713), scrittore, storico e diplomatico. In tale qualità fu spesso mandato in missione in Medio Oriente. Fra il 1710 e il 1712 pubblicò la sua traduzione francese dei racconti orali di origine persiana dal titolo “I mille e uno giorni” che, a loro volta, traevano origine da miti e racconti indiani risalenti al 600 - 500 a.c. da Pétis ascoltati nel corso dei suoi viaggi. Nella traduzione di Pétis si trova la “Storia del principe Calaf e della principessa della Cina“. La storia narra le vicende della principessa Tourandocte figlia dell’imperatore Altoum e del principe Calaf, figlio del detronizzato re dei tartari Timurtasch. Dopo lunghe peregrinazioni padre e figlio si trovano a Camabalec (Pechino). Nella vicenda s’inserisce una fanciulla schiava di nome Adelmuc che si uccide alla presenza di Tourandocte. La derivazione di Gozzi è di tutta evidenza così come la sostanziale aderenza del libretto predisposto da Adami e Simoni.

4 - Genesi dell’opera Turandot, capolavoro incompiuto di Puccini, è indissolubilmente legata alle vicende biografiche degli ultimi anni di vita del maestro lucchese che qui cercherò di riassumere per sommi capi.

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Intanto perché Turandot? Dopo il crudo cinico realismo completamente risolto entro le mura di casa o del convento del Trittico Puccini cercava qualcosa di completamente nuovo e diverso che stimolasse la sua fantasia, per questo aveva messo sotto pressione i suoi collaboratori abituali Adami e Fraccaroli, cui si era aggiunto da poco Renato Simoni, critico teatrale del Corriere della Sera, nel campo della storia del teatro una vera autorità. Si era nell’estate del 1920 e sembra che l’idea di guardare a Gozzi fosse partita proprio da Simoni, Puccini probabilmente conosceva Turandotte che in una versione preparata per i teatri tedeschi aveva riportato notevole successo grazie alla brillante regia di Max Reinhardt e le musiche di scena di Busoni, da cui lo stesso autore trasse la sua Turandot, dramma in due atti rappresentata a Zurigo nel 1917. Forse Puccini riandò col pensiero a uno dei suoi più amati maestri, il Bazzini che a sua volta aveva composto l’opera Turanda, libretto di Gazzoletti su analogo soggetto. Opera però caduta alla Scala nel 1867. Presa dunque la decisione di procedere con quel soggetto (*) Puccini cominciò a tempestare di richieste i librettisti mentre cercava di familiarizzarsi col nuovo argomento consultando testi su testi riguardanti gli antichi strumenti cinesi. Dalle esortazioni continue e incessanti a far presto sembra quasi emergere un presentimento di un’imminente fine, così come appare chiaro l’alternarsi di fasi molto creative con momenti di cupa disperazione.(**) Dall’epistolario ricchissimo in questa fase apprendiamo che nel mese di gennaio del 1921 i versi del primo atto furono completati con soddisfazione di Puccini che aveva materiale su cui lavorare.(***). In agosto il primo atto era completamente strumentato. Il secondo atto, che è assai complesso per la coesistenza di elementi buffi (quadro delle tre maschere) e di elementi drammatici (scena degli enigmi), richiese a Puccini uno sforzo creativo semplicemente enorme, inoltre in quel periodo gli si era insinuata nella mente l’idea di uno schema in due grandi atti anziché tre, forse pensando al lavoro di Busoni che è, per l’appunto, strutturato in due atti. Fra mille crisi e ripensamenti si tornò allo schema di partenza e gli atti tornarono a essere tre. Nel febbraio del 1924 il secondo atto era terminato e completamente orchestrato, ma dal Giugno precedente i librettisti avevano completato una prima stesura provvisoria del terzo atto con ampiamente abbozzato il grande duetto d’amore che avrebbe dovuto costituire l’apoteosi finale e sul quale Puccini tanto si accanì senza trovare una soluzione musicale che lo soddisfacesse. Su questo cruciale punto tornerò più avanti. Nel mese di Novembre del 1923 la scena della morte di Liù era terminata, senza però i versi definitivi. Puccini insomma era andato più in fretta dei librettisti come altre volte era capitato quando una situazione gli accendeva la fantasia. Per dare un’idea ad Adami della metrica buttò giù due quartine che alla fine furono utilizzate così come erano salvo due modifiche di poco conto. Quindi una delle arie più belle, ispirate e famose del teatro lirico pucciniano è completamente (parole e musica) frutto della fantasia creativa del maestro di Lucca. Restava il duetto finale Calaf-Turandot: quattro diverse versioni furono rigettate dall’incontentabile maestro. Verso la fine del 1923 Puccini cominciò a lamentare dolori insistenti alla gola; poiché era un accanito fumatore il sintomo fu collegato al vizio del fumo, né le visite di due specialisti rivelarono

alcunché. Poiché il dolore cresceva, fu consultato un luminare a Firenze che scoprì invece un papilloma di natura maligna. Solo i raggi X, tecnologia agli inizi, potevano dare qualche risultato, specialisti di questo tipo di trattamento erano all’epoca una clinica a Berlino e una a Bruxelles. Fu scelta Bruxelles, il 7 novembre 1924 Puccini entra nella clinica del professor Ledoux portando con sé 36 fogli di musica, pensando di poter lavorare ancora. Non sa del terribile male che il figlio Tonio, che lo accompagna, gli ha taciuto. Non sa di essere condannato e che l’operazione è un tentativo estremo. Il 24 novembre entra in sala operatoria, l’operazione d’inserimento di sette aghi di radio dura 3 ore e 40 minuti. Il professor Ledoux è tranquillo, afferma che tutto è andato bene, qualche progresso si nota nei giorni immediatamente successivi a sostegno della prognosi dei medici. Il 28 novembre una crisi di cuore getta tutti nel timore del peggio, vennero tolti gli aghi, alle 4

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del mattino del giorno dopo Puccini chiuderà per sempre la sua parabola terrena, lasciando Turandot incompiuta. Arnaldo Fraccaroli, giornalista, sceneggiatore, amico d’infanzia e primo biografo di Puccini ricostruisce e ricorda con toni commossi gli ultimi giorni di vita dell’amico in un bell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 29/11/1949. Ho ritenuto di proporlo nella sua integrità allegandolo al presente saggio introduttivo. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ (*) Quanto più ci penso e più mi sembra un soggetto come ci vuole oggi e che a me vada a pennello (lettera ad Adami) (**) Penso che Turandot non verrà mai a fine. Così non si lavora. Quando la febbre diminuisce, finisce per cessare e senza febbre non c’è produzione, perché l’arte è una specie di malattia, stato d’animo d’eccezione, sovreccitazione di ogni fibra e d’ogni atomo (lettera a Adami) (***)Finalmente ho un primo atto bello, Turandot vien bene, sarà un libretto originale e d’emozione. Si lavora per il compimento, siamo veramente sulla strada buona (lettera a Seligman) ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

5 – Drammaturgia e musica

Qualche osservazione sul libretto, che, bisogna dirlo chiaramente, è opera di Puccini tanto quanto dei suoi librettisti: non si contano le indicazioni e le modifiche metriche che Puccini inserì per trovare la miglior rispondenza all’idea musicale che via via prendeva piede. Il risultato è una struttura drammatica davvero impeccabile. Merito dovuto per una certa parte alle didascalie, queste quasi interamente di pugno di Puccini che immaginava e vedeva l’azione teatrale nella sua complessità. Le didascalie pucciniane sono estremamente elaborate, più di quelle di Verdi. Dalla Tosca in poi lo diventano, se possibile, ancora di più. Se le esaminiamo con attenzione, ci accorgiamo che esse non solo prescrivono movimenti scenici, ma si estendono agli scenari, ai colori dei costumi, alle luci e perfino agli stati d’animo dei personaggi. Difficile immaginare una visione più organica e compiuta. Amore e odio, eros e thanatos, sono sentimenti primordiali che trovano in Turandot una sorte di esplosione come non era mai avvenuto in nessuna delle precedenti opere. Difficile e ardito tentare di accostare e narrare la trasformazione da principessa crudele fino al sadismo che diviene donna innamorata e sottomessa. C’è poi Liù, personaggio inventato da Puccini, le cui tracce iniziano nel 1920 quando il libretto era ancora allo stato di abbozzo. Puccini aveva bisogno di un elemento femminile e commuovente che gli accendesse la fantasia tragica, da qui questa sorte di doppio femminile e opposto di carattere rispetto a Turandot. E che Puccini desse grande importanza a questo personaggio è testimoniato dal fatto che per Liù scrisse tre arie dedicate una più intensa e commossa dell’altra: Signore ascolta (atto I), Tanto amore segreto e inconfessato (atto III), Tu che di gel sei cinta (atto III), quest’ultima una delle più alte e commosse uscite dall’inesauribile fantasia di Puccini. Da ultimo qualche osservazione riguardo alle tre maschere. Ruolo e peso sono assai diversi nel testo di Gozzi, lì restano sullo sfondo commentando ironicamente gli accadimenti. In Turandot diventano figure un po’ sinistre e un po’ grottesche che

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partecipano direttamente all’azione scenica; sono, infatti, presenti in tutti e tre gli atti con scene anche molto lunghe: il primo quadro del secondo atto è tutto loro e dura circa un quarto d’ora in una alternanza di ghigni e sospiri fino all’emergere di sentimenti , questa volta autentici, di smarrimento e di dolore, per la morte di Liù. Molto poi si è scritto a proposito dell’incompiuto duetto finale, a me pare che possiamo fissare alcuni elementi per capire bene come mai non vide mai l’atteso compimento. Da una lettera ad Adami dell’ottobre 1921 (attenzione alla data) si accenna al bacio appassionato che dovrebbe sgelare Turandot in un’atmosfera di pathos generale, ma il libretto di questo quadro conclusivo non era mai giudicato soddisfacente, fu rigettato più volte da Puccini, abbiamo traccia certa di almeno quattro rifacimenti, così come sappiamo che ne parlò diffusamente con Toscanini in occasione del loro incontro, anche questo certo, avvenuto il 7 settembre 1924 a Viareggio. Di certo, forse presi da altri impegni o scoraggiati dagli altalenanti umori di Puccini ritenuto non senza qualche buona ragione incontentabile, i librettisti fornirono lentamente il testo definitivo dell’ultimo atto che arrivò a Puccini solo nell’ottobre 1924, giusto un mese prima di partire per Bruxelles. Faccio mia l’illuminante osservazione di Ashbrook e Power (Turandot, Fine della grande tradizione, edizioni Ricordi) che così recita - L’interruzione al momento del bacio è una toccante testimonianza del cul-de-sac artistico in cui Puccini si trovava in quel punto, dove doveva risolvere con mezzi puramente musicali un’impossibilità drammatica da lui stesso voluta e creata - ( op. citata pag 204). Musicalmente Turandot fin dalle prime battute si apre come una tragedia di cupa grandezza. Nel primo atto assistiamo a una progressione drammatica davvero impressionante: dalla lettura del disumano editto, alla folla inferocita che invoca il boia, la comparsa di Pu Tin Pao che arrota la scure, l’esecuzione del principe di Persia, solo un breve duetto Liù - Calaf (Signore ascolta – Non piangere Liù) sembra spezzare questa generale atmosfera di “cupio dissolvi”. Puccini utilizza melodie cinesi autentiche o inventate con incisi ritmici davvero barbarici. Tre colpi di gong di Calaf, il maestoso tema di Turandot è solennemente intonato nella forza luminosa del re maggiore dopo tanto cupo mi bemolle minore. La tensione drammatica raggiunge uno dei suoi punti massimi, neanche Verdi della maturità aveva costruito qualcosa di simile. Turandot è satura di esotismo dalla prima all’ultima pagina, ma non in modo continuo. Questo avviene nelle situazioni altamente drammatiche o cerimoniali. Quando le situazioni si fanno più liriche Puccini torna ad un linguaggio più “occidentale”. In modo più continuo e variato rispetto alle opere precedenti, Puccini ricorre a selvaggi ritmi percussivi, di solito abbastanza semplici in 2/4 e 3/4 nonché a ostinati che soprattutto nei cori del primo atto generano una sorta di eccitamento psicologico tipico di certa musica orientale. Sono frequenti inoltre episodi di dissonanze che verranno evidenziati durante l’ascolto, ciò che fa di Turandot il lavoro armonicamente più avanzato di Puccini. Si sono voluti cercare connessioni e influenze con Debussy e con Wagner, ma, a mio parere, è verso lo Strauss di Elettra che stava evolvendo il magistero pucciniano; questa è però tutt’altra storia. Per reggere un apparato scenico di tale imponenza e complessità Puccini impiega in realtà due orchestre, la seconda delle quali fuori scena. Quella principale comprende archi, legni a tre, quattro corni, tre trombe, quattro tromboni, arpa, celesta, timpani oltre a uno sterminato numero di percussioni aggiunte tra cui: diverse specie di tamburi, piatti, triangolo, glockenspiel, xilofono, xilofono basso, gong cinesi, campane tubolari etc.

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L’orchestra di scena comprende ottoni, due sassofoni, percussioni e organo, essa suona prevalentemente nelle scene di corte del secondo e terzo atto ma ha anche una piccola parte nel primo atto, il misterioso coro dei fanciulli è infatti raddoppiato dai sassofoni in lontano. L’orchestra dunque non solo crea l’atmosfera nella quale i cantanti si muovono, ma sostiene altresì i momenti drammatici o quelli psicologicamente più complessi, cioè quelli che implicano interiori passaggi di stati d’animo. Infine il coro. L’impiego del coro rappresenta uno dei tratti più interessanti di Turandot: Puccini è un maestro anche delle scene corali, il coro è una specie di personaggio collettivo che prende parte all’azione principalmente nel primo atto: il tema del popolo assetato di morte (coro :muoia, muoia, vogliamo il carnefice) è molto simile a quello di Pu Tin Pao; in generale il modo e il ruolo dei cori fanno pensare alle drammatiche scene di folla del Boris Godunov. Mai prima d’ora Puccini aveva raggiunto in una scena corale un effetto tanto ossessionante come in quella del terzo atto che segue la morte di Liù, nella quale i bassi discendono al mi e al mi bemolle sotto le righe. In conclusione ciò che rende così unico e vario il suo capolavoro maggiore è il livello altissimo nel quale si realizza la fusione fra i quattro diversi elementi del suo stile: quello lirico – sentimentale (Liù), quello grandioso - eroico( Calaf e Turandot) quello comico – grottesco (tre maschere), quello esotico (cori e voci bianche). Il canto del cigno di Puccini rappresenta così il completamento della sua intera carriera creativa.

6 – La prima La prima di Turandot rischiò di andare a picco per un grosso scandalo politico. Il partito fascista celebrava a Milano una ricorrenza con la presenza di tutti i più importanti gerarchi Mussolini compreso. Qualcuno dell’entourage del partito fece filtrare il messaggio alla direzione del teatro che Mussolini si aspettava di essere invitato alla serata. E’ noto che il duce non era per nulla sensibile alla musica, né era interessato a Puccini, ma alla passerella mondiale sì, poiché si sapeva che tutto il mondo della musica e dell’arte il giorno dopo avrebbe diffusamente parlato della Scala, dell’opera italiana ecc. Quale migliore occasione per lanciarsi in un rombante discorso che avrebbe trovato eco addirittura mondiale? In più, in forza di un decreto dell’anno precedente era fatto obbligo a tutti i teatri italiani l’esecuzione di Giovinezza prima di ogni rappresentazione. Tutto ciò venne rapidamente alle orecchie di Toscanini che detestava contraccambiato il duce. Toscanini si precipitò dal sovrintendente ponendogli un secco ultimatum: niente duce, niente concioni, niente Giovinezza oppure si trovasse un altro direttore. L’ebbe vinta. I giornali pubblicarono una versione propagandistica del fatto secondo la quale il duce, pur invitato, con squisita sensibilità aveva spontaneamente rinunciato per non disturbare con la sua presenza gli omaggi dovuti per intero al maestro lucchese scomparso. Vedere l’allegato tratto dal quotidiano Secolo d’Italia con la cronaca della serata. Naturalmente tutti, ma proprio tutti, sapevano com’erano andate in realtà le cose. Ricordo che Toscanini diresse solo la prima, le riprese furono lasciate al fido maestro Panizza. Toscanini non diresse mai più Turandot per tutto il resto della sua carriera, mentre riprese abbastanza spesso altre opere del maestro, soprattutto Bohème e Manon, si cui restano testimonianze discografiche.

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La sera della prima Toscanini fermò l’orchestra alla morte di Liù cioè esattamente dove Puccini era arrivato, posò la bacchetta e fece il suo primo e unico discorso pubblico della sua carriera. Critici e commentatori hanno riportato in modo sempre diverso le parole di Toscanini. Enrico Minetti, indimenticabile primo violino dell’orchestra della Scala, nel suo volume Ricordi Scaligeri dedica una bella pagina a quell’indimenticabile serata, pagina che merita di essere integralmente riportata: “ …dopo l’ultimo flebile acuto dell’ottavino, il maestro lasciò cadere la bacchetta e volgendosi parzialmente al pubblico. Io mi trovavo nel primo leggio dei violini primi, vicinissimo a lui, in posizione molto favorevole per udire e nell’età migliore per ricordare. Posso dunque affermare con assoluta certezza che quelle parole, delle quali se mi concentro, sento ancora il tristissimo tono, furono queste: - Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta per la morte del maestro - Così disse, poi scese dal podio mentre le lacrime gli rigavano il volto … (op. citata pag. 79). Un’ultima osservazione riguardo al cast della prima. Abbiamo testimonianza del fatto che Puccini man mano che procedeva con la composizione si poneva il problema degli interpreti, pensando alle specifiche doti dei cantanti soprattutto quelli che maggiormente apprezzava. Per la prima, sappiamo che per Turandot aveva pensato a Maria Jeritza, ammiratissima Tosca dal temperamento drammatico, per Calaf a Giacomo Lauri Volpi in sottordine Beniamino Gigli, per Liù Toti Dal Monte, prima interprete europea di Angelica e Lauretta, affettuosamente ribattezzata Gildina. Toscanini aveva però criteri tutti suoi per la scelta dei cantanti, da un lato quelli che erano disposti a sottomettersi a interminabili e pesantissime prove, dall’altro quelli che quel metodo non lo approvavano o comunque non intendevano soggiacere. Fu così che nessuna delle indicazioni di Puccini fu rispettata. Anche in questo caso l’ultima parola era sempre quella di Toscanini. I cantanti indicati da Puccini divennero però, nel seguito del tempo, interpreti che fecero la storia di Turandot nel mondo, a riprova del fatto che Puccini aveva, ancora una volta, visto giusto e lontano.

7 – I finali Si converrà che un’opera lasciata incompiuta dall’autore ma di cui esistono e circolano tre finali è cosa quanto meno insolita. Facciamo dunque un po’ d’ordine su quest’aspetto sul quale sono state dette e scritte tante inesattezze. Puccini aveva lasciato alla sua morte molti appunti riguardanti l’ultimo duetto e alla conclusione dell’opera, conscio di aver costruito una situazione teatrale dalla conclusione quasi impossibile. Molti appunti contenevano testo orchestrato altri erano schizzi più frammentari, in tutto ben 36 fogli di abbozzi. Com’è noto la mano di Puccini si fermò alla morte di Liù, le ultime note sono affidate all’ottavino mentre Liù viene trasportata morta fuori scena. Si tratta dell’apice drammatico dell’opera in cui Liù si pone al centro della scena assumendo il ruolo della protagonista. La pagina è ispiratissima, una delle più alte dell’intera produzione pucciniana, proseguire oltre sarebbe compito davvero arduo al limite del possibile per chiunque. Per il completamento Casa Ricordi si rivolse prima a Zandonai, noto per il buon successo attenuto con Francesca da Rimini (1916) su libretto niente meno che di Gabriele D’Annunzio. Per sensibilità e magistero non si poteva pensare a scelta più appropriata. Zandonai però rifiutò l’incarico adducendo come motivazione l’immensa responsabilità che gravava su chi avesse messo mano all’ enigmatico e complesso capolavoro pucciniano. Il

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che aveva una sua inattaccabile sostanza, ma il sospetto è che la vera ragione fosse la chiara consapevolezza che chiunque avesse accettato l’incarico, avrebbe dovuto passare sotto l’approvazione di Toscanini, che era il maestro designato per la prima, in più aveva incontrato almeno due volte Puccini per discutere del finale dell’opera e dell’organizzazione della prima alla Scala. In seguito al suggerimento di Toscanini fu contattato il più mite e arrendevole Alfano, all’epoca direttore del Conservatorio di Napoli, che accettò. Nel giro di qualche mese Alfano aveva completato il suo lavoro, che chiameremo Alfano 1,lo presentò a Toscanini che:…. lo bocciò sonoramente dicendo che si distaccava troppo dagli appunti e dalle indicazioni che Puccini aveva lasciato. Alfano si rimise al lavoro perché la data della prima era stata nel frattempo fissata e annunciata pubblicamente. La revisione che chiameremo Alfano 2, più breve di circa 100 misure rispetto alla Alfano 1, fu alla fine approvata e fu quella eseguita a partire dalla seconda replica e continuativamente in tutti i teatri del mondo. Ricordi, però, aveva stampato la versione per canto e pianoforte ovviamente dell’opera completa utilizzando la versione disponibile al momento della stampa, l’Alfano 1, che quindi ebbe una sua autonoma e parallela circolazione, creando qualche confusione soprattutto postuma laddove si ascoltino registrazioni sonore di quel lontano passato non correttamente datate. E’ importante osservare che alcuni grandi interpreti di Turandot già negli anni 1927 e 1928 incisero alcune arie diventate immediatamente popolari, mi riferisco alle incisioni di G. Thill (primo Calaf francese), A. Roselle(prima Turandot tedesca) e L. Lehmann, e tutte fanno riferimento alla Alfano 1 che sembra avesse trovato particolare accoglienza presso i teatri di lingua tedesca. Verso la fine degli anni 90 il Festival della Gran Canaria commissionò a Luciano Berio la revisione degli appunti di Puccini con lo scopo di scrivere un nuovo finale il più possibile aderente agli schizzi e alle indicazioni lasciate nell’estremo e disperato tentativo di terminare l’opera. Il lavoro fu completato e presentato pubblicamente nel 2002. La rilettura di Berio del materiale lasciato da Puccini, ancorché non filologica, è tuttavia assai rispettosa delle intenzioni del maestro lucchese, Berio utilizza quasi tutti gli schizzi disponibili: 24 su una trentina(+), sacrificando qua e la qualcosa del libretto in quest’ultima parte di non eccelsa qualità, alleggerendo il peso retorico di un finale , in entrambe le versioni di Alfano, un po’ tronfio e posticcio. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ (+) I frammenti lasciati da Puccini sono trenta di dimensioni assai diseguali . otto sono completi del testo vocale e sono strumentati, tutti gli altri sono strumentati ma privi del testo vocale , cinque o sei rappresentano piccole varianti di altri preesistenti. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Merito di Berio è di avere spostato il baricentro musicale del finale sul tormento interiore e sulla trasformazione della principessa, fulcro del duetto finale, com’è dimostrato dal bell’intermezzo orchestrale che anticipa e prepara l’aria di Calaf “Principessa di morte, principessa di gelo”. Il taglio delle espressioni di possesso “sei mia, sei mia” va esattamente nella direzione antiretorica che pare più coerente con l’idea che aveva Puccini riguardo il tormentato finale. Nel settembre del 1924 Puccini incontrò Toscanini alla Scala per discutere con lui della prima, sappiamo che gli spiegò come pensava il finale accennandolo al pianoforte. Toscanini rimase impressionato dallo stato di Puccini che tradiva dall’aspetto il male da cui

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era afflitto, ricordando che il finale doveva essere in morendo. Pinzauti riporta poi un’altra testimonianza diretta di un amico di casa Puccini, tale Salvatore Orlando avviato agli studi musicali. Attorno al 1923 il giovane Salvatore andò a fare visita a Puccini nella sua casa di Viareggio, e fu qui che il maestro gli suonò al pianoforte il finale di Turandot. ”Salvatorino, disse, ti faccio ascoltare l’ultima scena, è un finale come quello di Tristano…” Orlando ricordava che le ultime battute erano in pianissimo. L’analisi dei rapporti Wagner - Puccini e Tristano - Turandot esula dalla presente introduzione, ma non vi è dubbio alcuno che il finale rutilante congeniato da Alfano è quanto di più lontano si possa immaginare dalle indicazioni che Puccini ha lasciato. Berio dunque muovendosi nella direzione opposta a quella di Alfano propone un finale avvolto in una sorta di aurea dissolvenza, non c’è una conclusione evidente, l’ultima parola di Calaf: - amore -: resta come sospesa e si perde in uno smaterializzarsi del suono che lascia libertà all’immaginazione dello spettatore. Era questo che era nella mente di Puccini? Davvero non lo sappiamo e credo non lo sapremo mai, ma il lavoro fatto pare a me eseguito con estrema serietà, rigore e degno perciò di attenzione e rispetto.

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8 – Versione video utilizzata per gli ascolti: locandina e brevi commenti all’interpretazione. La versione video da cui saranno tratti i brani proposti all’ascolto risale al settembre del 1998, fu realizzata in Cina dentro la Città Proibita di Pechino, in un antico palazzo della dinastia dei Ming. Le maestranze artistiche erano quelle del Maggio Musicale Fiorentino, regia, scene e costumi realizzati in loco per la speciale occasione. Il regista Zhang Yimou si adoperò perché fossero predisposti 1500 costumi di foggia fedele a quanto si usava sotto la dinastia Ming. Per l’inizio dell’opera sono usati tamburi cinesi antichi autentici, il sipario fu realizzato da enormi pannelli dipinti a mano coperti di foglia oro e rosso (i colori imperiali). Locandina degli interpreti:

Principessa Turandot Giovanna Casolla

Imperatore Altoum Aldo Bottion

Timur Carlo Colombara

Calaf Sergei Larin

Liù Barbara Frittoli

Ping José Fardilha

Pang Francesco Piccoli

Pong Carlo Alemanno

Mandarino Vittorio Vitelli

Prima ancella Ottavia Vegini

Seconda ancella Laura Lensi

Orchestra, coro, coro di voci bianche del Maggio Musicale Fiorentino

Accademia di danza di Pechino

Direttore d’orchestra: Zubin Metha

Maestro del coro: Josè Luis Basso

Regia: Zhang Yimou

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A me pare che Zubin Metha abbia letto Turandot avendo gettato un ponte con la sua straordinaria lettura della Salome di Richard Strauss; la sua Pechino è immersa in un duro luccichio quasi espressionista. Preziosità ritmiche e timbriche si susseguono come un’infilata di gioielli uno più prezioso dell’altro, si ascolti com’è resa davvero tagliente l’aria Gira la cote, sembra quasi di avvertirla sulla pelle. Drammaticissima, una vera corsa verso l’abisso, la chiusa del primo atto. Ottimi cori e orchestra del Maggio Musicale in tutte le sezioni. Voto nove Sergei Larin è l’unico cantante non italiano nel cast, la pronuncia italiana è però più che buona. Ebbe negli anni 80 e 90 un quarto d’ora di celebrità. Personalmente lo ricordo in qualche passaggio anche alla Scala (Dama di Picche), salvo poi scomparire definitivamente. Diciamo che non è un fenomeno vocale ma si disimpegna con onore. Nel duetto con Turandot all’inizio del secondo quadro prima degli enigmi, duetto che ha una difficile chiusa all’unisono, regge bene senza calare, mentre il famoso Nessun dorma, è eseguito solo correttamente, manca di quello squillo che renda l’allucinata follia della situazione in cui il principe Calaf si è cacciato. Qua e là in alto si ascoltano suoni un po’ sbiancati forse dovuti al fatto che trattasi di una rappresentazione dal vivo e all’aperto dove è facile la tentazione di forzare in alto per “bucare” il muro di suono creato dal ribollire di una ricchissima orchestra. Voto sette. Giovanna Casolla. La voce non ha il sensazionale metallo delle interpreti che hanno fatto, specie negli anni 60 e 70, la storia dell’interpretazione di Turandot, penso a Birgit Nilsson e Inge Borkh, non a caso eccellenti interpreti straussiane. La storia delle influenze Puccini - Strauss non è stata ancora scritta per bene, questa è un’altra storia ancora…La prestazione della Casolla è, a mio parere, di tutto rilievo. Il registro centrale è solidissimo ben saldato con quello superiore, quindi i vari si naturali e do sovracuto sono raggiunti senza apparente sforzo e pazienza se non sono proprio squillantissimi. Abbiamo insomma una Turandot affascinante e misteriosa. Voto otto e mezzo. Barbara Frittoli. Buona la prestazione della Frittoli che a me pare però più un’attrice - cantante che una cantante – attrice, almeno in quest’occasione. Bello il timbro, accenti sfumati ma retti con ammirevole controllo dei fiati. Ne esce un personaggio rassegnato con l’ombra del suicidio che pare aleggiare fin dall’inizio. Un po’ più di emozione a fior di pelle soprattutto nella scena del suicidio non avrebbe guastato. Voto otto. Un filo troppo macchiettistiche e granguignolesche le tre maschere.

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