A CURA DI A. LOMBARDO E A. FABIANO - Garibaldi 3... · Psicologia Ospedaliera per realtà sanitarie...

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INDICE

CURATORI ⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯ PAGINA 3

PREFAZIONE ⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯ PAGINA 5

I PAZIENTI MEMORABILI ⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯ PAGINA 8

POST FAZIONE ⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯⋯ PAGINA 37

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CURATORI

Alessandro Lombardo

Alessandro Lombardo è psicologo del lavoro delle organizzazioni e specializzato in psicoterapia. All’attività clinica affianca da anni attività di formazione e consulenza per progetti di Storytelling, Medicina Narrativa, Psicologia Ospedaliera per realtà sanitarie in Italia. E’ Presidente dell’Ordine Psicologi del Piemonte e svolge attività formativa e consulenziali per grandi realtà italiane e multinazionali. [email protected] | www.alessandrolombardo.org

Angela Fabiano

Angela Fabiano è Psicologa clinica specializzata in psicoterapia ad indirizzo dinamico. Svolge l'attività di Psicologo Dirigente e di  Psicoterapeuta presso l'ARNAS Garibaldi dal 1992,con un'ampia attività clinico-diagnostica e psicoterapeutica nelle diverse aree ospedaliere di intervento. Si occupa del benessere degli operatori attraverso la gestione del "Punto d' ascolto Stress Lavoro correlato" della stessa azienda e della progettazione di percorsi formativi per gli operatori nell'ambito dei Progetti Sanitari Assessoriali di riabilitazione psicologica.

Alessandra Pace

Alessandra Pace è psicologo clinico, esperta in psicotraumatologia e psicologia dell'emergenza, specializzanda in Psicoterapia. Lavora presso la Rianimazione "Antonella Caruso" dell'Arnas Garibaldi di Catania, nel sostegno ai familiari di potenziali donatori di organi. Ha maturato specifiche competenze nel trattamento della sofferenza psichica di pazienti e familiari legata a condizioni mediche, attraverso il supporto psicologico nell'accettazione della patologia cronica e del lutto. Svolge attività clinica e formativa presso il centro Performat Salute Catania.

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Angela Intelisano

Angela Intelisano è uno psicologo clinico specializzando in psicoterapia. Lavora presso la Rianimazione dell’ARNAS Garibaldi Nesima di Catania, nel sostegno ai familiari dei potenziali donatori di organi. Fa parte del Centro medico Europa Medica offrendo colloqui di sostegno in un setting individuale e di gruppo.

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PREFAZIONE

Introduzione a cura di Alessandro Lombardo

L’INIZIO. Questo libro è l’esito finale del lavoro svolto nei workshop presso l’Azienda Sanitaria ARNASS Garibaldi di Catania dal titolo “Medicina Narrativa Storie di cura: un percorso di integrazione” con la dott.ssa Angela Fabiano come Responsabile Scientifica ed io, come Progettista e formatore. A questo workshop hanno partecipato medici, infermieri e fisioterapisti dei presidi sanitari Garibaldi e Nesima di Catania ed a loro, ai partecipanti, è d’obbligo un enorme ringraziamento.

Il workshop è stato pensato e disegnato come un luogo esperienziale e autobiografico dove, nel corso delle due giornate, venivano svolte una serie di attività che mettevano al centro i partecipanti. Le loro esperienze, le loro storie, le loro narrazioni, situate e contestualizzate con una cornice identitaria ben definita, la loro professione, sono state finalità e strumento operativo del workshop.

STORIE DI SÈ. Sappiamo che le professioni mediche sono professioni ad alto impatto relazionale e ad alto impatto emotivo e psicologico. Tra i costi dell’attuale medicina (si parla spesso di sostenibilità del sistema sanitario), ci si dimentica però di inserire e di valorizzare (letteralmente, dare valore) il costo umano dello stare dentro i sistemi sanitari pubblici attuali. Quanto è emotivamente sostenibile svolgere una professione medica oggi? Immergersi, come farà il lettore in queste storie, storie di pazienti memorabili, di primi pazienti, di aiutanti, non vuol dire altro che immergersi nella vita di chi, la sanità, la vive tutti i giorni: i medici, gli infermieri, i fisioterapisti, e tutto il personale sanitario. Ecco perché Storie di bella sanità.

LE RELAZIONI PERICOLOSE. Queste storie sono storie di relazioni. Relazioni di medici, infermieri, fisioterapisti, con persone che hanno incontrato nella loro più o meno lunga professione e che, inevitabilmente, non sono altro che storie di sé. Ogni storia racconta qualcosa di sé. Storie che hanno lasciato un

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segno, e che in qualche modo, per qualche motivo che non sempre – e forse è giusto così – viene esplicitato, lascia una traccia, una ferita, un segno per l’appunto, nel sé di chi racconta. E di chi ascolta.

LA LINGUA DEI SEGNI. Segni dunque. Segni che vanno letti come delle tracce di umanità, di una “disperata vitalità che, nel percorso della medicina contemporanea, nell’era della medicina della tecnica, si pensa, erroneamente, di aver lasciato da parte. Se ne accorgerà il lettore: questa “tremenda” umanità che trasuda ed emerge nelle storie di questo libro, nelle parole e nei racconti dei nostri medici, infermieri, fisioterapisti, si ritrova quello che si pensa non esserci più nella medicina attuale: umanità, emozioni, anima.

UMANIZZARE LA MEDICINA. Seguendo le storie che si leggeranno, sembra quindi chiaro che il tema della cosiddetta umanizzazione della medicina è, per certi versi, un falso problema. Anzi, appare paradossalmente come un goffo tentativo di ritrovare qualcosa di andato perso, di reinserire quel che si pensa non esserci: l’umanità per l’appunto. Ed il goffo tentativo è propriamente il principio additivo sottostante ad un’operazione di questa portata: aggiungere, in questo caso, presuppone una mancanza.

Davvero mancherebbe umanità nei reparti e nei rapporti? Davvero pensiamo che i pazienti, la vita delle persone che si affidano volenti o nolenti ai nostri medici, infermieri, incontrano così poca umanità nei nostri ospedali? O forse, ed è questa la nostra tesi, qui di umanità ne incontriamo a volontà, così tanta che si fatica a raccontarla tutta?

TRAVOLTI DALLE STORIE. Allora, vale di certo la pena di dirlo in modo chiaro e netto: di vicende umane, di amore, di vita, di speranza, di morte, di delusioni, di distacchi, di tragedie e anche di commedie verrà sommerso il lettore delle storie contenute in questo libro. Travolto, come ne sono stato travolto io nelle mie vesti di formatore del workshop, io che queste storie le ha vissute e fatte emergere, che queste storie le ha ascoltate e che, inevitabilmente, le ha fatte proprie. Queste storie, non posso che portarle con me, custodirle come fossero piccoli e grandi segreti di chi le ha volute raccontare, come segreti sussurrati a bassa voce.

DI CHI SONO LE STORIE. Viene difficile, seguendo la traccia sopracitata, rispondere così a domande come “a chi appartengono queste storie?” o “di

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cosa raccontano queste storie?”. Le storie sono di chi le ascolta verrebbe da dire, e di certo, il ruolo che la narrazione ha in queste storie è stato principalmente quello di creare un contesto di condivisione. Ora, con questo libro, compiamo l’ultimo passaggio, che è quello di raccontare ulteriormente, a chi vorrà ascoltare, leggendo queste storie, cosa significa fare il medico, l’infermiere o il fisioterapista, nella sanità di oggi. Storie di bella sanità appunto. Buona lettura.

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I PAZIENTI MEMORABILI

Difficile ricordare, in particolare un paziente con problemi cardiaci che non aveva neanche un parente e diceva sempre di curarsi da sola, purtroppo questa è una situazione comune e per molti l’Ospedale è l’unico posto dove hanno la possibilità di parlare con persone che ti ascoltano, a volte qualcuno resta ricoverato e finisce lì la sua esistenza.

Ricordo di un paziente, nonostante siano passati gli anni, che arrivò da noi, lui era giovanissimo. In un bar chiedendo di un bicchiere di acqua gli venne dato per errore della soda caustica che gli provocò delle ustioni in tutto l’esofago. Per me è un paziente memorabile perché settimane dopo nonostante si sottopose alle terapie molto dolorose, rimaneva simpatico e divertente. Ancora adesso ritorna per i controlli e con piacere si parla dei vecchi trascorsi e di quanto io con i colleghi di allora gli siamo stati vicini, cercando di rassicurarlo che tutto sarebbe andato per il meglio, così come poi è successo.

Nella mia carriera lavorativa non ho un paziente che mi susciti in particolare qualcosa che mi resta memorabili. Ne sono passati tanti e ognuno di loro ha lasciato un ricordo di più incisivo vuoi per la problematica che avevo o solo per la persona che era, ad altri che sono passati e non li ricordo più. Certe volte mi sento chiamare da qualche mio ex paziente, è passato tanto tempo…ma mi ricordo. Comunque devo dire pensandoci bene che certamente ognuno di loro mi ha trasmesso più esperienza lavorativa e la loro necessità, quindi sono tutti memorabili.

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Durante la mia storia lavorativa ho avuto modo di conoscere tantissime persone, ma una in particolare mi è rimasta nella memoria. Questa storia risale a 10 anni fa quando mi ritrovai di turno e trovai questo signore nel letto in una situazione disastrosa, io non so perché quella situazione mi ha coinvolto. Abbiamo instaurato un rapporto bellissimo sin dal primo minuto, l’ho seguito fino alla fine. Il paziente e parenti avevano in me un punto di riferimento, questo mi aveva fatto sentire importante in quel contesto. Purtroppo l’epilogo finale è stato tragico, mi è dispiaciuto molto. Ma devo dire che a distanza di tantissimi anni siamo rimasti amici con i familiari e per me è stata una delle storie memorabili della mia carriera.

In qualche momento della mia vita professionale mi è capitato di dire: bella esperienza, brutta esperienza, questo paziente mi ha dato belle soddisfazioni, questo paziente non mi ha permesso di raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato… in questo momento non riesco a trovare un paziente che ha lasciato nella mia vita un segno particolare: tutti!! Chi per la gravità della patologia, chi per la giovane età, chi per l’impossibilità di essere aiutato per le condizioni sociali, economiche e ambientali, chi per il dolore personale, chi per il dolore dei familiari… forse in qualche momento particolare, per una particolare situazione, potrebbe capitarmi di pensare ad un paziente particolare, ma in questo momento ritengo che tutti (chi più, chi meno) i pazienti hanno contribuito alla mia crescita professionale ed alla mia maturità nell’approccio con i pazienti, con il prossimo, con la famiglia, con la società. Una ragazza, 23 anni, viene portata al Pronto Soccorso, in seguito ad un incidente stradale, morta. Nell’altra sala il fidanzato che guidava il motorino, ferito. Arrivano i genitori, tutti spariscono perché nessuno vuole dare la notizia, resto da sola nell’ambulatorio, un attimo di sconforto, prendo fiato, qualcuno lo deve fare, assisto alla tragedia.

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Una giovane donna ricoverato per metastasi dopo resezione del retto. Si riopera, ha complicanze e febbre, scoraggiata, viene condotta a fare una tac di controllo, io, scendo con lei per parlare con il Radiologo, nella barella mi dice che soffre di queste temporanee inabilità, scopro che abbiamo una conoscenza in comune, io la incoraggio, raccontandole come anche io nella vita avevo avuto 4 mesi di inabilità assoluta, poi parlo con il Radiologo e vado via. L’indomani mattina mi telefona mia sorella per dirmi che la sua parrucchiera (la persona che conoscevamo in comune) era andata la sera prima a trovare la paziente, la quale aveva raccontato la sua giornata di stress, che però aveva passato serenamente perché aveva parlato con me e si era rassicurata, dopo il mio racconto. La parrucchiera mi ringraziò attraverso mia sorella.

Pomeriggio del 25 dicembre 2012: solito turno festivo in Rianimazione. Tutto vecchio normale amministrazione. C’è solo un paziente che mi dà un po’ pensiero. Il letto 8: no non può morire proprio oggi, il giorno di Natale!!! Comunque devo cercare di mantenerlo: è una emorragia cerebrale, potenziale donatore di organi, anche la famiglia potrebbe essere d’accordo conoscendo i “soggetti”.

Ecco va be sono le 19:00 abbiamo tirato avanti la baracca… ce la facciamo tra un po’ arriva il cambio!! Suona un allarme: nooooo è il letto 8.Arresto cardiaco!! Manovre RCP, non posso chiamare il giorno di Natale e dire che il papà, il marito, il fratello non c’è più. Noooo!Exitus h. 19:45. Chiamo i familiari che sono dietro la porta: “Dottoressa, ce lo aspettavamo,

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non abbia pena per noi!” (Come non si disperano, penso sono strani questi!!)“Solo le vogliamo chiedere se possiamo donare gli organi di papà” “No” gli dico subito, “non è possibile perché il cuore ha smesso di battere!” Nello stesso momento in cui lo dico penso che “si invece”, possono ancora prelevare le cornee.Chiamo il Primario: “Si B., se vuoi puoi dirglielo e se sono d’accordo ci attiviamo!”Penso a mio marito e alla bambina (1 anno allora) che mi aspettano a casa… poi mi auto convinco che glielo devo chiedere e loro “Si Dottoressa, per papà e per noi sarebbe importante”.Così alle 20:30 parte tutto il meccanismo, reperibili S.O e tant’altro… nel frattempo nella saletta dove li avevamo fatti accomodare, camminava un via vai di persone: io mi avvicino e sto quasi per rimproverarli quando mi accorgo che c’è qualcosa di “strano”, vi era una sorta di “magia” contagiosa.

Questo, penso, è lo spirito del vero Natale, una serenità e pacatezza, una pace e una rassegnazione mai vista dai parenti di un defunto.Mi defilo in silenzio, continuo e porto a termine il mio lavoro. Sono le 22:45 il paziente sta per andare in obitorio dopo il prelievo. Saluto per l’ultima volta quegli “strani” parenti e loro “Dottoressa Buon Natale, torni dalla sua famiglia e li abbracci anche per noi”. Torno a casa e il mio abbraccio per la mia piccolina è stato uno dei più bei momenti della mia vita.

A volte dopo tanto tempo, capita che i pazienti nel tempo si dimenticano per svariati motivi. Però ci sono pazienti che ricordi con piacere ed altri meno. Uno di questi che ricordo con piacere ci chiama da 7 anni circa, ogni festa: Natale, Pasqua per farci gli auguri. La cosa ci stranizza, ma ci fa un piacere immenso. Lui e la madre si fecero notare subito per la loro stranezza garbata, erano gentili e discreti. Finita la terapia, ci ringraziavano in maniera speciale. Hanno

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elogiato la nostra disponibilità e professionalità, chiedendoci se ci fosse in Radioterapia un corso di Psicologia. Lo ricordo con piacere perché fino a 4 giorni fa ci ha inoltrato gli auguri, e siamo felici perché ancora c’è, e quindi forse siamo serviti sia clinicamente che moralmente a farlo stare benino. Un’altra paziente che mi ha lasciato molto legata a lei perché buona, disponibile, e ci ascoltava qualsiasi cosa dicevamo. La stima che ho maturato in lei, la ricordo sempre ed avrei piacere di rivederla, ma non è più venuta ai controlli, perché poi seguono quelli clinici oncologici. Quella meno memorabile non ne parlo, perché altrimenti non potrei fare questo lavoro, quindi vanno tutti aiutati e capiti.

Nella mia carriera di Oncologia ho avuto molte pazienti che per un motivo o l’altro hanno lasciato un seguo nella mia vita professionale. Tra queste una la ricordo ancora per la sua storia, per la sua incoscienza davanti alla malattia. La signora nel corso degli anni “coltivo’” la crescita di un tumore che nonostante avesse scolpito tutto l’emotorace destro non chiese mai, un consulto, anzi riuscì a tenere nascosto il proprio stato al marito ed ai figli fino a quando, non si presentò un importante malessere che le impediva qualunque movimento. Al momento della consulenza si presentò serena come se non avesse nulla di patologico, anzi raccontava che “era stato il braccio ad averla fregata”.

Il paziente che più di tutti ricordo negativamente risale al periodo in cui lavoravo in Cardiochirurgia. Ricordo nitidamente il giorno che si è ricoverato in S.I., pioveva a dirotto, attraversò il corridoio sulla sedia a rotelle, accompagnato fin dentro la stanza, dal genero Medico che lavorava in T.I. nella stessa struttura. Appena entrato nella stanza mi colpii lo sguardo severo sotto la folta barba bianca.

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Nato e cresciuto a R.C. il paziente fu ricoverato per una grave insufficienza respiratoria per cui necessitava di assistenza respiratoria tramite ventilatore meccanico 24 h su 24 h. Dal primo giorno iniziò ad avere un atteggiamento aggressivo e scorbutico con tutti inclusi i familiari. Ogni giorno era sempre peggio, suonava il campanello in continuazione senza motivo, arrivando pure a staccarsi dal ventilatore solo per attirare l’attenzione. Fu ricoverato per 6 mesi. Ed è stata l’esperienza peggiore che ricordi.

Il paziente che più mi ricordo è una giovane donna di 56 anni circa. La prima volta che si ricoverò era molto impaurita, doveva fare dei controlli per un sospetto di malattia tumorale. Appena entrai nella stanza cercai di rassicurarla, le parlai un po’ per farla sentire un po’ a suo agio e provare a tranquillizzarla che tutto sarebbe andato. In effetti fu così subì solo un intervento chirurgico, ma a questo ricovero ne seguirono altri. Ogni volta che si ricoverava legammo un po’ di più, mi raccontava della sua famiglia, delle sue abitudini. Questo le giovò perché si sentiva di trovarsi in un ambiente dove avrebbe trovato non solo cure mediche, ma soprattutto conforto. Tutt’ora ci sentiamo, mi ha comunicato che è diventata pure nonna. Tutto ciò mi ha fatto capire che nel mio piccolo sono riuscita a darle quel minimo di supporto, che in un malato è molto importante. Per me è stato poco anche darle un sorriso ma a lei ho dato tanto.

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I miei ricordi risalgono al periodo che lavorava in una Clinica Privata e mi occupavo del DH di Oncologia, quei pazienti mi dimostravano tutta la loro stima e affetto, anche semplicemente con un sorriso e un saluto affettuoso. In particolare ricordo una signora che veniva a fare terapia da C.P., finiti i cicli di chemio con la riduzione del tumore è stata operata al colon, e mentre lei era sulla strada della guarigione, un giorno dopo aver fatto la chemio tornò a casa e trovò suo figlio morto di infarto. Dopo un periodo più o meno lungo fu costretta dai figli a riprendere la chemio, ma lei non era più la stessa, dal suo sguardo capii che non aveva più voglia di lottare con il suo male, e purtroppo dopo poco tempo morì. Lei aveva deciso di non volere più vivere.

Premetto che al Pronto Soccorso Chirurgico tutti i pazienti sono memorabili, sia perché arrivano in gravi condizioni, sia perché vengono “solo” per avere un referto da esibire all’assicurazione, ma tutti lasciano un segno particolare. Però, nell’excursus delle persone visitate da me, mi affiora in mente una ragazza in un turno 8-14, verso le 9 nella schermata del computer appare un codice giallo: violenza fisica. Si trattava di una ragazza accompagnata dalla madre: raccontò di aver lasciato in macchina il suo ragazzo, in tarda serata e di essersi avviata a piedi non sa dove. Raccontava di essersi ritrovata per terra, vicino casa della nonna (dall’altra parte della città). Alle prime luci dell’alba, dopo essere stata aggredita da una “figura maschile”. Da medico, dopo aver ascoltato il racconto e notato il modo e l’espressione con cui raccontava, la invito a spogliarsi e visitarla. Esame obiettivo accurato: nessun livido, nessuna escoriazione, abiti indenni. Effettuo tutti i prelievi di routine e completo con la visita ginecologica. Intanto la madre, presente sin dal primo momento preoccupata, in ansia, non trova una spiegazione (o forse non vuole comprendere) a tutto ciò.

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Mentre aspetto l’ambulanza che porterà la paziente in Ginecologia, continuo a percorrere con lei le tappe: da quando è rimasta sola, alla mattina. Molte incongruenze, molti non so, non ricordo, insomma fingo di investigare. La paziente elabora tutto ciò, forse capisce che ho capito e, quando torna dalla visita ginecologica riferisce di essersi inventata tutto perché avendo litigato con il fidanzato, voleva colpevolizzarlo di averla lasciata sola.Il fatto non è dissimile a tanti altri ma, in questo caso, quello che resta nella mia memoria è la domanda che mi pongo, spontanea e incisiva: cosa spinge una ragazza ad assumere questo atteggiamento?Soprattutto: cosa spinge una madre ad assecondare, a non capire, che in quel momento la figlia fa i capricci? Qual è l’anello mancante tra saggezza e follia? O ancora, cosa non funziona nella famiglia o nell’infanzia di questa ragazza? Ecco non è la patologia a essere memorabile, ma alcuni atteggiamenti dei pazienti che restano impressi nella tua mente.

E’ da 12 anni che lavoro in Chirurgia Oncologica e di pazienti ne sono passati tanti, anzi tantissimi. Ci sono quelli che sono passati inosservati, mentre ci sono altri che hanno lasciato qualcosa nei miei ricordi. In particolare una paziente entrata per eseguire un intervento al pancreas che si pensava fosse rischioso, ma del tutto risolutivo. Infatti dopo l’intervento, il post operatorio è andato bene, tanto che la paziente dopo una settimana circa venne dimessa. Però dopo un po’ di tempo la paziente rientra in reparto per iperpiressia causata da raccolte che la costringono ad un trasferimento in Rianimazione e Setticemia. La paziente riesce a superare il problema, però da allora non è più tornata a casa perché ogni volta che sembrava che le cose stessero migliorando subentrava una nuova complicanza.

Rimasta in reparto per più mesi, ci siamo affezionati a lei e al marito che l’assisteva incessantemente giorno e notte. Purtroppo nonostante il lungo

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ricovero la situazione non si è risolta, ma anzi si è aggravata sempre più e alla fine la paziente è morta. Di lei mi è rimasta una coroncina della Madonna di Medjugorje a cui lei era molto devota, e che mi aveva regalato durante il suo ricovero.

Come paziente memorabile ricordo una signora molto giovane e bella, dolcissima che purtroppo aveva una patologia tumorale grave. Ricordo che anche nella sofferenza non di arrabbiava mai, era sempre gentile e non si lamentava mai. Il marito, altresì era una persona splendida che l’ha assisteva con devozione ed amore fino alla fine e che mi ha pure regalato un rosario di legno (della Madonna di Medjugorje) che io tengo appeso nella spalliera del mio letto ed a volte, la sera lo guardo e penso a lei. Due persone davvero educate e perbene che raramente si incontrano in ospedale. Fortunatamente quando la signora è morta ero in ferie perché non ho avuto questo dispiacere di vederla andare via.

Penso che, chi per un motivo, chi per un altro, i pazienti dovrebbero essere tutti memorabili. Mi fa rabbia quando incontro dopo vari anni qualcuno, che è stato mio paziente, che mi saluta con tanto affetto e magari lì per lì non ricordo bene di lui.

Se proprio devo descrivere un paziente memorabile che ogni tanto menziono, posso parlare del periodo che ho lavorato al DH di Oncologia Medica al V.E., nel 2004. Avevo come pazienti due, che mi hanno descritto come facenti parte di due famiglie mafiose.

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Penso che la donna nutrisse per me quasi odio, spesso mi diceva che qualche volta fuori mi avrebbero fatto la “festa”. Con l’uomo invece un bel rapporto di rispetto reciproco, mi cercava spesso, anche, perché ero uno dei pochi che riusciva a “prendergli” la vena. Lo cito spesso perché una volta, con mio grande stupore, per quello che rappresenta, mi portò una cassetta di limoni del suo orto.

Sono di turno in Rianimazione sono circa le sei del mattino dell’Immacolata di tanti anni fa. Squilla il telefono, mi verrebbe da dire, la solita chiamata del P.S. per codice rosso. Trovo nella sala il Medico di turno e gli Infermieri e una giovane coppia, lei distesa sulla barella sembrava che dormisse.

Il marito riferisce che qualche ora prima, la moglie si era svegliata lamentando un forte mal di testa (ma essendo gravida da circa 4 mesi, aveva preferito non prendere alcun farmaco). Dopo un po’ il marito aveva cercato di svegliarla ma lei non rispondeva. La paziente era in stato di coma grava, procedo nelle manovre rianimatorie. Si eseguono vari esami, tra cui una tac encefalo che evidenzia una emorragia cerebrale importante. Viene ricoverata in Rianimazione e cerchiamo in tutti i modi di curare sia la madre che la bambina che portava in grembo. Dopo vari mesi, la paziente rimane in uno stato di coma vegetativo. Al settimo mese circa viene eseguito il parto cesareo e nasce una bellissima bambina. Antonella purtroppo rimane sempre in coma vegetativo e viene successivamente trasferita in un centro di riabilitazione in A. Muore dopo qualche tempo per complicazione. La Rianimazione dove lavoro porta il suo nome, Antonella Caruso. Un Infermiere del mio reparto ha eseguito un ritratto di questa bella ragazza che è esposto in Direzione. Questa storia ha colpito non solo me, ma tutto il personale.

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Ogni anno per Natale viene celebrata una messa in Rianimazione, per il personale, i pazienti e i parenti. Il marito e la bambina, ormai diventata una bellissima ragazza partecipano alla Messa. Questo mi ricorda sempre quella mattina di tanti anni fa, lo stato d’animo di allora, è ancora oggi presente.

Durante il mio percorso professionale due storie mi sono rimaste impresse nella mia memoria principalmente per il coinvolgimento emotivo che hanno determinato. La prima storia ha una fine tragica e si conclude con il decesso del paziente e con relativa aggressione agli operatori sanitari presenti al momento. Rabbia, impotenza, delusione, paura, sono tutti sentimenti che per mesi mi hanno tormentata nel lavoro e nella vita privata. Dopo poco tempo però da questo evento tragico, un altro episodio, questa volta, a lieto fine mi ha risollevata da quell’angoscia.

Durante un turno di notte vengo chiamata in emergenza in Sala Operatoria per un distacco intempestivo di placenta. “Presto collega, preparati perché non sento il battito”.La paura era indescrivibile ma la fermezza e la prontezza nella gestione di quella urgenza mi hanno sorpresa. Potrebbe sembrare presuntuoso ma penso che quel bambino sia vivo anche grazie a me. Il rivederlo solo a distanza di un anno e senza esiti neurologici mi ha reso felice, mi ha dato tanta forza e mi ha reso più sicura.

Voglio descrivere due casi, in particolare per me memorabili. Uno positivo e un altro negativo. Quello positivo riguardo il rapporto fantastico instaurato

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con un paziente che poi purtroppo per la gravità di malattia è deceduta. Ricordo di quando, pur essendo grave, mi chiedeva dello stato di salute di mio padre ricoverato, in contemporanea nello stesso reparto, dispiaciuta più che per se stessa per le condizioni di salute del mio papà, un perfetto estraneo per lui. Donna di eccezionale sensibilità.

Quello negativo riguarda più che il paziente, il parente di questo, nello specifico la moglie. Descrivo il racconto. Venne la signora in postazione infermieristica chiedendomi un tranquillante per il marito. A mio avviso era lei ad averne bisogno, non trovando questo farmaco mando un Ausiliario a procurarlo. Intorno alle ore 20:50 arrivano i colleghi notturni e raccomandiamo di recuperare questo farmaco. La signora si presenta vicino all’ascensore, mentre stavo andando via, urlando che eravamo degli assassini, le urla erano talmente forti che i pazienti che erano nella possibilità di muoversi, si sono affacciati dalle lor stanze meravigliati di quanto stava accadendo. Incredibili, ma vero. ASSASSINA è come sono stata definita, non aggiungo altro.

A me personalmente non c’è un paziente memorabile, ma più pazienti. Nel corso della mia carriera lavorativa ho incontrato diverse persone che mi sono rimaste impresse nella mia testa. Ricordo un paziente (ragazzo), in particolare ricoverato in Rianimazione in condizioni critiche, quasi in fin di vita, in seguito ad un incidente automobilistico, dovuto ad inseguimento con la polizia, in seguito ad una rapina che aveva fatto ad un distributore di benzina. Fortunatamente dopo tanto tempo, si è ripreso, ma il momento più brutto è stato il momento della visita dei parenti che ingiuriavano la mamma offendendola con delle parolacce. E per ultimo il ricordo pessimo è legato alla triste notizia che il ragazzo ha continuato a fare quello che faceva prima, cioè il rapinatore.

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Molti pazienti mi hanno insegnato qualcosa dall’umiltà alla sensibilità, al coraggio nell’affrontare la malattia. Devo dire che lavorando in corsia in un reparto uomini e donne, quasi tutti anziani, mi sono resa conto che noi donne siamo le più terribili ed insopportabili. Mi ricordo una principalmente così arrogante, così strana, una di quelle donne ancora giovani sulla sessantina che non si aiutava da sola per niente, era un tutt’uno con il letto, voleva essere lavata, quasi imboccata anche se poi quando noi eravamo in altre stanze e casualmente entravamo in stanza la trovavamo seduto o alzata che tornava dal bagno. Uno di quei ricoveri impropri come capitano spesso. Ricordo che le dicevo di darsi aiuto che ancora era giovane, non si poteva lasciare andare così. Poi un pomeriggio all’orario di ingresso dei parenti, ho visto arrivare il marito ed il figlio, era tutto chiaro, la signora era arrabbiata con il mondo, perché il ragazzo di 18 anni era down, figlio unico. Per una mamma accettarlo non è facile. Ecco perché la scontrosità, la freddezza negli occhi della paziente.

Una paziente che mi torna in mente, ultimamente, è una ragazza, che entrando in ambulatorio alle 3 del pomeriggio, con una rabbia quasi indescrivibile, dice di tutto contro l’ospedale, il Medico e anche nei miei confronti. “Forza” mi dice: “Tu fammi ECG, muoviti!!!”. Io ho cercato di mantenere la calma, ma lei continuava. Non vi nascondo che dentro di me ero veramente stufa, infastidita, veramente scocciata dalla situazione, purtroppo ogni giorno si ripete. Nel momento in cui rilevo la PA vedo era alta. Allora dico: “Stai serena, sei troppo agitata!!!”. Lei mi risponde: “Signora!!! Come dovrei essere? Con la notizia che mi hanno dato questa mattina????.... Tumore alla lingua e non potrò più parlare!!!”. Mi ha sconvolta! Tutte le volte che mi trovo un paziente arrabbiato, nervoso e quasi fuori di testa….penso a quella ragazza…

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Pazienti memorabili ne posso elencare un’infinità, perché i pazienti che passano da me sono tutti memorabili, ma c’è sempre quello che ti rimane impresso anche per un piccolo, ma grande gesto.Ad esempio una mattina mentre apro la porta del mio ufficio sento da lontano chiamare il mio nome, mi volto e vedo uno dei pazienti che seguo, con una busta enorme e pesante. Lo faccio accomodare, perché era molto affaticato e pallido. Era venuto in ospedale perché doveva sottoporsi a chemioterapia, ma prima di andare a farla è passato dal mio ufficio, perché alle 5:30 scendendo nel suo giardino ha pensato di raccogliere i suoi migliori “bastarduni” freschi per le sue Infermiere. Mi sono commossa, perché con quel gesto ho capito quanto è importante il lavoro che svolgo e come rimango impressa nella mente e nel cuore dei pazienti.

Era il 1984, io lavoravo in “Malattie Infettive” lì ho conosciuto tanti pazienti quasi tutti “tossici”, cioè spacciatori e consumatori di droga. Un giorno durante la visita dei partenti, mi ricordo di un ragazzo che aspettava con ansia la fidanzata che ritardava, io l’ho osservato. L’ansia di questo paziente, ma lì erano tutti un po’ strani: c’era il ladro, la prostituta, chi aveva HIV, chi l’epatite, ecc… ma tornando al ragazzo di prima, vidi che finalmente arrivò la tanto attesa fidanzata, lui l’accolse con tanto affetto, poi io mi allontanai per praticare la terapia ad un paziente. Quando tornai un’Infermiera mi disse che era già ora di terminare la visita parenti, allorché io e il mio collega di turno chiudendo l’ingresso e nel controllare i pazienti notammo che mancava il ragazzo che aspettava la fidanzata. Quando mancava un paziente scattava l’allerta ai Medici, dopo circa 20 minuti controllando i bagni di ogni stanza, il bagno della stanza del ragazzo, trovammo i due ragazzi (fidanzatini), a terra stracolmi di roba, si erano drogati nel bagno e lì si erano addormentati, o erano svenuti, non ricordo bene, so che li prendemmo e li mettemmo a letto, fino a che non si ripresero e ripristinati i sensi. Per me questa storia (era all’inizio della mia

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carriera), mi ha fatto capire, che quel ragazzo e la sua ragazza erano persone che avevano bisogno di tanto affetto e che sostituivano con la droga, così imparai ad essere oltre ad Infermiera anche “amica di tutti i pazienti, con le dovute distanze”.

Tutti i casi rimarranno nella mia memoria, perché ogni caso è unico ed irripetibile, perché unico e irripetibile è l’essere umano. Ma tra i tanti quello che non potrà più scordare è il più recente. Ricordo ancora è una bellissima bambina bionda con dei riccioli d’oro e bellissimi occhi blu, molto vivace ed intelligente, all’età di 8 mesi riusciva a seguire il tablet e i filmati con grande interesse; arrivata alla nostra osservazione un (caso) invaginazione intestinale, spesso facilmente risolvibile, ma il suo è risultato difficile 1-2-3-4-5-6 invaginazioni, sembrava che non avesse mai fine. Sotto ci doveva senz’altro essere qualcosa di diverso, è arrivata sul tavolo operatorio per una laparoscopia esplorativa forse troppo tardi, perché l’intervento è riuscito ma ha presentato un arresto cardiaco refrattario ed ora purtroppo versa in gravi condizioni in Rianimazione. Tutti noi siamo stati coinvolti emotivamente, perché sembrava un caso “banale”, ed invece si è talmente complicato, tanto che oggi dipende solo da un miracolo: la sua vita è attaccata ad un filo. Questa è una storia che mi ha colpito per il suo tragico epilogo e perché una piccola vita così gioiosa forse si spezzerà, per cause ancora da chiarire. Questo caso, almeno forse, avrebbe potuto risolversi diversamente se tutte l’equipe coinvolte, avessero fatto gruppo. Io mi sono sentita oltremisura sola.

Ricordo il caso di una donna che aveva appena dato alla vita la propria creatura dopo parecchi tentativi andati male. Mi colpii la determinazione e anche il modo di manifestare la propria gioia di fronte alle difficoltà. Aveva

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bisogno di parlare e ringraziava continuamente per le attenzioni e le cure che riceveva dal personale sanitario.

Ragazza giovanissima, sottoposta a chemioterapia, dopo diverse terapie ha iniziato a perdere i capelli, lei molto intimidita inizia a parlare, e mi raccontava di vergognarsi ad uscire, e non solo si imbarazzava a farsi vedere dai nuovi colleghi di lavoro con la parrucca e non solo questa, avendo subito un intervento chirurgico ginecologico non poteva avere più figli, “non diventerò più mamma, era un mio desiderio da piccola quello di avere figli!!”. Oggi la sua fortuna dopo aver fatto molte terapie guarì definitivamente. La mamma, poveretta anziana, la rividi dopo 10 anni e mi aveva detto che la figlia era andata a vivere all’estero, suo marito era morto, e lei, povera era rimasta sola. Ho provato una sensazione indescrivibile, mi è rimasta in mente, la figlia che parlava e mi aveva confessato, se guarisco da questa malattia, partiva e andava via lontano da dove lei aveva brutti ricordi. Oggi questa ragazza vive all’estero, e io FELICE!

Giugno 2016: A. 2 anni: è arrivato con il barcone della Libia, insieme alla mamma: 3 giorni in mare tutti stretti senza mangiare, quasi senza bere. Arrivato da noi in coma con una disfunzione multiorgano: insufficiente renali, anossia, ipoglicemia ipertransaminasemia, anemia. DIAGNOSI: rabdomiolisi traumatica; è una sindrome di schiacciamento che porta alla sofferenza di molti organi: reni cuore polmoni muscoli ecc…

In quella settimana abbiamo visto la sua graduale remissione: arrivò il coma, poi cominciò a guardarci, poi a sorriderci, poi a ridere, poi correre.

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La sua mamma non diceva una parola, poi cominciò a dire qualcosa in francese, poi parlò in italiano. Aveva imparato in fretta. Le altre mamme l'avevano vestita. Se ne sono andati un giorno con la CRI diretti a M. dove era stato rintracciato anche il padre.

Devo dire che sono piuttosto scettico nel credere alle storie che si raccontano o per l'enfasi o per l'abitudine di ognuno di noi di abbellire o ingigantire tutto ciò che ci capita. Ma a questa storia devo credere ciecamente perché è capitata a me personalmente. Ho trattato per alcuni mesi un ragazzo che a seguito di un incidente frontale aveva avuto lo sfondamento dell'acetabolo e di buona parte del bacino. Ho iniziato il trattamento subito dopo l'intervento chirurgico, riuscito perfettamente. Devo dire che il ragazzo collaborava per quanto poteva, e metteva tutta la volontà e la speranza di tornare alla normalità di cui disponeva. Ma questo entusiasmo si l'ha portato ad una guarigione precoce, abbandonando il letto prima dei termini stabiliti, ma di contro lo ha spinto verso la sua passione, era un ballerino di balli sudamericani, prematuramente pregiudicando il buon esito del percorso riabilitativo. Camminava, ma era un cammino fortemente claudicante ed incerto ma quando danzava non pregiudicava la sua performance anche se si appoggiava alla sua compagna. In otto anni è stato visitato da numerosi medici specialisti, ma anche dal primo operatore che non gli dava nessuna speranza e il suo cammino peggiorava sempre più e anche il suo umore e il suo carattere. Ma ormai anche nel più grande sconforto, conosce un ortopedico del nord, che lo visita e dopo quattro mesi lo opera, un intervento di tre quarti d'ora studiato e costruito su di lui, una convalescenza breve e una rinascita alla vita che sa di miracoloso.

Quando l'ho rivisto dopo anni che non lo vedevo, non potevo credere ai miei occhi, la mia prima esclamazione è stata “Giulio non ti è mai successo niente!”

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Voglio parlare in particolare del mio paziente memorabile. Una signora di 70anni che aveva perso la memoria a breve termine in una grave invalidante di epilessia. Fu eseguita una resezione bilaterale della parte del lobo temporale mobile e parte della corteccia associativa temporale e parte della corteccia associativa multimodale. In seguito all'intervento chirurgico si ebbe un moderato miglioramento delle sue condizioni cliniche. Io sono andato a trovarla dopo 5 giorni in Rianimazione, la paziente mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto in Sala Operatoria e del conforto che gli avevo dato. Questo mi riempì il cuore.

Un paziente memorabile fu quello che si presentò con la mamma in un freddo mese invernale con febbre e bronchite. Nulla di che dal punto di vista diagnostico, ma ciò che saltava agli occhi era la mamma di questo bambino di circa 7/8 mesi che era tranquilla, ma distratta, da cosa non era comprensibile, ma sembrava che avesse portato il piccolo tra un elemosina e l'altra, proprio per risolvere il problema e ricominciare. Non sostengo che era impropria nel suo ruolo, ma c'era qualcos'altro che rappresentava, forse, una priorità!! Ne ebbi conferma quando non volendo rimanere in osservazione le diedi lo stesso la terapia, con dosaggi che avevo nel mio armadietto, stante che, quale immigrati irregolari non avrebbero mai potuto acquistarlo in farmacia, e raccomandando cautela per il piccolo febbricitante, mi rispose dicendomi che doveva “lavorare” e non aveva alcuno a cui lasciarlo. La lascia andare con il piccolo e le medicine, mentre echeggiava nell'ambulatorio il rimprovero del mio collega che censurava il mio comportamento “troppo disponibile” con l'elargizione della terapia, perché

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tale precedente avrebbe creato possibile riverbero nella comunità. Mi vergognai di lui!!!

Circa 6 anni fa diagnosticai a un giovane paziente un linfoma in fase avanzata. Iniziò il trattamento chemioterapico intensivo e, nonostante la criticità del quadro clinico grazie alle cure andò in remissione dalla malattie. Visse altri 5 anni, divenne padre per la terza volta sempre eseguendo controlli periodici, nel complesso abbastanza serenamente anche grazie alla mia costante presenza. In me riconosceva un referente importante. Purtroppo dopo 5 anni la malattia si ripresentò e nonostante le cure non la superò. Questa fase fu certamente molto dura per il paziente che ha dovuto sopportare molto. Il percorso è stato faticoso, ma nel suo viso sofferente non è mai stato perso il sorriso e la serenità, grazie a tutte le persone che lo hanno circondato. Il suo ricordo è sempre frequente in me, anche perché trattasi di una persona a me cara (mio cognato) che avevo conosciuto da bambino. Non è stato facile vivere questa storia triste.

Oggi parlo di una mia missione, ricordo come fosse ieri, un caldo secco 52 gradi, in Ospedale arriva un bambino di circa 10 anni, ustionato circa il 70% della superficie corporea. Il suo nome è A. Passano i giorni e alla fine i medici decidono di amputare l'avambraccio. Mi sono sentita attraversare da un brivido e considerato il caldo il camice e il camice monouso con tre paia di guanti, cuffia visiera ecc… avevo un senso di vuoto.

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Un bambino che non c'entrava nulla, colpito ustionato, un bambino che era cresciuto senza un gioco privato della sua infanzia in Ospedale per colpa degli altri, come tanti bambini che non c'entrano con la guerra.

Iniziavo a seguire A. e controllavo tutte le volte il suo arto superiore finché un giorno chiedi si seguirmi in Sala Operatoria l'unico posto silenzioso. Tolgo le bende e con i bisturi iniziai a fare delle incisioni (descarotomia descomplessia) sull'avambraccio. Fino a quando i medici iracheni decisero di non amputare l'arto ma trattarlo. Un momento buono condiviso con un gruppo. Felici ma pieni di emozioni in un territorio di guerra. Momenti che non si dimenticano mai.

Ogni paziente è memorabile. Ognuno di loro ti rende complice dei suoi momenti tristi, di solitudine e di gioia. La scelta di scegliere il paziente memorabile è molto difficile perché ogni paziente è la propria storia. Quindi diventano tutti memorabili. Legati da un unico filo, la malattia.

Memorabile una paziente che assistevo a casa. Una paziente oncologica. Memorabile per la dignità che ha conservato durante il suo percorso di cura. Si rammaricava della mancanza di empatia del personale sanitario che la assisteva nei giorni in cui era costretta alle cure chemioterapiche. La spaventava il grigiore della strutture ospedale e dal grigiore dell'animo dei sanitari. Mi raccontava del suo dramma, ovvero la malattia e dell'assenza di comunicazione con le istituzioni.

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Puntava il dito contro l'assenza di calore umano. Adesso L. non è più con noi l'umanizzazione della terapia inizia con il rispetto dell'altro. Una storia triste specchio di una sanità egocentrica e irrispettosa degli esseri viventi. Applicare la filosofia olistica deve essere l'imperativo di ogni uomo di buona volontà. Lo dobbiamo a L., anzi a tutte le L. del mondo. Devo ancora la mia integrità fisica e principalmente anche psichica al grande dono che ho ricevuto: “l'amnesia”. Per me è invece il comportamento di tanti miei colleghi nell'interagire con il paziente (chiaramente in senso negativo).

La persona di cui vi sto per parlare si chiama S. Ci siamo conosciuti in un momento molto difficile, la sua vita aveva improvvisamente cambiato colore. Conoscenze comuni ci fecero incontrare, la prima volta che lo vidi era con la moglie, erano veramente impauriti, ma volevano affrontare e sconfiggere insieme “ il mostro”. L'ho accompagnato durante tutto il suo doloroso percorso: chirurgico, medico, riabilitativo e affettivo. Hanno affrontato il periodo di malattia con molta dignità, non sono mai stati invadenti anzi ricordo che molte volte bastava guardarci o stringerci la mano per capire! Purtroppo lui non è più tra noi, io continuo a sapere di alcuni comportamenti della famiglia e a ricordarlo insieme con immenso affetto.

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Nei miei anni lavorativi due sono stati i pazienti che sono rimasti e rimarranno nella mia memoria: i miei genitori, che oltre ad essere i miei genitori sono stati i miei pazienti entrambi affetti da tumore. È stato dura seguirli da un ospedale all'altro, assisterli durante i cicli di chemioterapia vederli star male per l'effetto della chemio. Quanta rabbia vederli morire giorno dopo giorno senza poterli aiutare o almeno alleviare i loro dolori poiché alla fine anche la morfina era acqua fresca. L'unica cosa che ero riuscita a fare tutti i giorni era pregare Dio affinché se li portasse con se per mettere fine alle loro sofferenze.

Il mio paziente memorabile è una ragazza di 34 anni M.G. che incontrai nel 2007, quando svolgevano la mia attività presso l'U.O. di Anestesia e Rianimazione dell'Ospedale F. Una mattina del mese di maggio in reparto, alle consegne del mattino mi colpì il caso di questa giovane donna che il giorno prima era stata operata di colecisti, perché in lista trapianto e la sera in seguito ad un episodio di arresto cardiaco è stata messa in ECMO e richiesto in modalità preventiva sul territorio nazionale ed europeo un cuore da trapiantarle. Passano 5 lunghi giorni, fatti di richieste pressanti dei genitori sull'esito della nostra richiesta. Giorni e anche conflittuali, conclusi dalle mie consolazioni che “doveva mor i re un a l t ro ragazzo che avrebbero p ianto a l t r i familiari” (traduzione per calmarli gli dissi che per avere un altro cuore avremmo dovuto aspettare la morte di un'altra persona donatrice di organi quale dolore avrebbero provato i familiari di quest'ultima).Comunque il trapianto fu espletato e fu anche gravato da una crisi di rigetto iniziale seguita da una tracheostomia per una ventilazione prolungata, da un tentativo di suicidio da parte della ragazza con un tempo di degenza in Terapia Intensiva fino ad agosto. La mia notte di ferragosto, passato in turno in ospedale, insieme con il collega di guardia, scoprimmo che la paziente aveva una necrosi asettica della parete

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muscolare della pregressa ferita della colecistectomia; in breve dopo aver risolto anche questa complicanza la paziente uscì dalla Terapia Intensiva alla fine della settimana. Ripensando a quei quattro mesi mi rendo conto che avevo impegnato 10 anni della mia vita, questa considerazione la comunicai anche a lei quando la incontrai in un corridoi dell'ospedale dove ringraziava tutti per quello che avevamo fatto.

A mia memoria ci sono stati diversi pazienti memorabili, uno per la sua dolcezza un altro per la sua sensibilità un altro per la sua generosità un altro ancora per la sua semplicità. Ma adesso voglio ricordare una paziente per la sua simpatia. L'episodio è accaduto qualche mese a dietro. La paziente si chiama B.M. ed era ricoverata nel reparto di Oncologia Medica, affetta da tumore alla mammella con prognosi infausta nel breve- lungo termine. Lei non era a conoscenza delle sue condizioni, ma aveva capito qualcosa a livello intuitivo ed emotivamente reagiva in maniera naturale e spontanea. Ricordo infatti la prima volta in cui insieme ad una collega siamo andate a visitarla. Le abbiamo chiesto di scoprirsi l'addome e lei ha riposto: “ ma perché sono incinta?” successivamente le abbiamo detto che doveva sottoporsi ad un esame più approfondito (la biopsia) per poter avere una diagnosi e lei ha risposto “ no non mi fate niente che prima voglio pranzare poi mi recherò in ginecologia...” Oltre alle risposte semplici e naturali che forniva, mi ha colpito il suo modo simpatico di esprimersi senza curarsi del ruolo delle Infermiere che ci ascoltavano e poteva sembrare inappropriata. Trovo che questo modo di accettare la realtà con naturalezza e semplicità sia il modo migliore di affrontare i problemi dai più piccoli ai più difficili.

Ne ho tanti, e di loro ricordo le espressioni il volto il decorso della malattia i momenti di forza e di debolezza. Ma di uno in particolare voglio parlare. Del

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Signor B.M. un paziente nato e vissuto a B., da noi operato 15 anni fa per un tumore al polmone durante il decorso postoperatorio da una complicazione rara che ci costringe a praticare la così detta “open Windows” una vera e propria finestra toracica che ci consentiva di medicare il cavo pleurico preda all’infezione. Da quel momento e per 15 anni lo abbiamo seguito più volte alla settimana istruito, medicato. Negli ultimi tempi era quasi diventato autonomo. Dal umore mite e fatalista, sereno anche se schiaffeggiato dalla vita in modo pesante.

La perdita di una figlia, la malattia della moglie, la solitudine di fronte ad un evento invalidante sempre vissuto con una dignità semplice. Ricordo le frasi che scriveva in dialetto, le portava e pretendeva che le leggessi ed eventualmente le correggessi, che esprimessi il mio parere. Le conservo tutte gelosamente è stato un uomo che ho profondamente rispettato e quasi ammirato, per come ha affrontato la lunga malattia che poi purtroppo lo ha portato alla morte. Mi sento un po’ in colpa per non essergli stato vicino fino alla fine, ma stavolta non ne ho avuto il coraggio,

È successo circa 5 anni fa, ho conosciuto una famiglia meravigliosa. Una giovane coppia aveva messo al mondo un bimbo con una malformazione addominale grave e rara. Lì abbiamo seguiti durante il lungo percorso fatto di diversi interventi chirurgici dolorosi. Loro hanno affidato le cure del loro bimbo a noi senza nessun dubbio, hanno riposto fiducia. Soprattutto non scorderanno mai che oltre le cure mediche, li abbiamo ascoltati seguiti in tutte le tappe che man mano si presentavano, abbiamo ascoltato le loro paure angosce e sentimenti per chi non conosceva questa malattia di chi gli diceva che era meglio abortire perché incompatibile con la vita. Alla fine tutto si è risolto il bambino è guarito ora ha 5 anni è vivace

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ci vengono a trovare sempre, ci sentiamo al telefono, siamo diventati grandi amici.

Sono tanti i pazienti memorabili nella mia lunga storia lavorativa, in questo momento il mio ricordo va al periodo in cui lavoravo al servizio tossicodipendenti. Tra tutti i ragazzi che ho conosciuto, pazienti del suddetto servizio in quanto si presentavano tutti i giorni a prelevare la loro dose di metadone, ne ricordo uno in particolare figlio di una facoltosa famiglia molto educato, gentile mi faceva tanta tenerezza quando mi raccontava la sua storia e quindi dopo 10 mesi diventai, come diceva lui, la sua seconda mamma, lo seguivo nei colloqui negli accertamenti ecc…Poi, tutto a un tratto, svanì.

Per molto tempo i miei colleghi ed il mio Primario, riconoscendo il mio stato di ansia, cercavano di consolarmi pur sapendo la verità. Il mio Primario Psichiatra aveva l’abitudine di conservare le cronache del quotidiano, rovistammo nel suo tavolo e mi accorsi di un vecchio giornale che riportava la notizia della morte di questo ragazzo per overdose: la mia angoscia fu tremenda, lui, fra l’altro, era morto per una dose tagliata male, che doveva prendere la sua ragazza, per proteggerla. Fu l’occasione per farmi trasferire da quel servizio. Ancora oggi penso spesso a M.

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Il paziente che oggi a distanza di 19 anni ricordo con afferro è E., un ragazzino di 8 anni affetto da leucemia. La sua infanzia l’ha trascorsa entrando e uscendo dall’Ospedale, momenti di regressione della malattia e ricadute. E. era un ragazzo intelligente, amava il disegno e la sua squadra del cuore era il B. Un giorno, insieme alla caposala, gli abbiamo fatto una sorpresa, abbiamo invitato la squadro in ospedale in un momento in cui E. stava bene. Ricordo ancora oggi la gioia sul suo viso. E. purtroppo non c’è l’ha fatta a superare il cancro, la malattia ha avuto il sopravvento e un giorno ci ha lasciato. A volte, quando ricordo i suoi disegni, se chiudo gli occhi vedo il suo viso sereno: il Signore ha deciso di portarlo in Paradiso, lasciando dentro di noi un vuoto e anche un po’ di rabbia perché nonostante la sua sofferenza non è riuscito a sconfiggere il cancro.

Di questo paziente ho un ricordo marcato nella mia memoria, risale agli anni 90 quando ho iniziato a lavorare in un Reparto Oncologico dove tutti più o meno avevano la stessa patologia (un tumore). Ebbene questo paziente giovane padre di famiglia con due bambini piccoli che si ritrova improvvisamente in Ospedale con una prognosi ad alto rischio per la sua vita. Il ricordo di lui, che pur conoscendo quale era sua situazione e a quello a cui doveva andare incontro, il suo pensiero era quello che lui era più forte del male di cui era affetto e tutto ciò in funzione dei suoi figli e dalla sua famiglia; con noi tutti si era instaurato un bel rapporto, quasi di amicizia, si sentiva di essere amato e coccolato da tutti, con me era gentile e riconoscente per tutto quello che facevo. Ebbene, sarà stata la sua forza di volontà e positività, le cure funzionarono, con gioia questo per me è uscito bene e per molto tempo ci sentimmo per telefono, oggi ci siamo persi di vista. “Una persona da ricordare”.

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Arrivò in ospedale per una febbre alta da alcuni giorni in uno stato di prostrazione generale aveva 8 anni. Fin dai primi giorni si creò un rapporto empatico profondo con lui. I genitori erano giovani e la mamma dopo qualche mese avrebbe avuto una seconda gravidanza. A. rimase 20 giorni in reparto dove fu sottoposto anche a prelievo epidurale.Il suo sistema immunitario, era in quel momento compromesso, i genitori mi chiesero se fossi stato disponibile ad essere il padrino di A. per la sua cresima, ed io fui onorato di questa richiesta. Purtroppo il tempo non fu alleato con A.: fu trasferito dalla Pediatria fino alla Oncoematologia Pediatrica.A. morì dopo tre mesi da quel nostro incontro. Porto, come vedete, con me la sua forza nella mia vita e spero sempre che, anche la sua breve esperienza di vita, sia stata fondamentale per le persone che lo hanno incontrato. NB. La mia presenza era per lui una occasione di serenità riuscendo a fare concentrare la sua attenzione su di me sembrava che il suo dolere si allontanasse.

Circa 3 anni fa ho conosciuto una coppia di persone venute nell’ambulatorio dove lavoravo per i problemi oncologici del marito. Dal loro modo di porgersi e dal mio, è nato tra di noi un feeling a tal punto di scambiarci i numeri di telefono per sentirci, a darci del tu in maniera confidenziale, come se fossimo amici da sempre ed, a condividere tanti pensieri nonostante lo stato di salute di lui non fosse buono. Tutti noi sapevamo che la prognosi per lui sarebbe stata infausta e, speravamo per lui il più tardi possibile. Io vedevo in lui una grande voglia di andare avanti di non arrendersi stimolando anche la moglie a non cedere, anzi ad essere sempre più propositiva. Questa situazione è continuata per circa quattro mesi: venivano da noi due volte a settimana ed era un piacere reciproco incontrarsi anche se

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in un luogo molto poco adatto… A Pasqua ci hanno regalato dei prodotti artigianali di pasticceria e, a me, è rimasto il ricordo di quel grosso uovo di Pasqua che ho ricevuto. Erano tutti contenti di questo regalo. Dopo una settimana sono ritornati e lui ci ha comunicato di avere preso una decisione: sarebbe andato in un centro al Nord per sottoporsi ad una operazione di cui conosceva anche i rischi. Sapeva che poteva non riuscire, però voleva provarci per se stesso e soprattutto per la moglie e il figlio. Questa sua decisione ci ha lasciato di stucco, ma dovevamo accettarla, perché era una sua volontà ed era giusto che avesse ancora una speranza. Ci ha salutato dicendoci "forse è l'ultima volta che ci vediamo". Eravamo tutti in lacrime. Sabato pomeriggio della stessa settimana ricevo una telefonata: "Signora volevo farle sapere che mio padre non ce l'ha fatta, è mancato durante l'intervento." Stavo guidando e mi sono dovuta fermare, non sono riuscita a trattenere le lacrime. Quanta tristezza e quanti ricordi. Penso sempre a questa coppia e penso sempre e ammiro il coraggio che entrambi hanno avuto nell'affrontare questa situazione.

Giovane uomo appena 30 anni, politrauma con frattura del femore che rifiutò, in piena lucidità, firmando più volte il diniego al trattamento urgente. In un tempo di circa 24/48 ore le condizioni cliniche peggiorarono rapidamente, rendendo necessario il trasferimento con l'elisoccorso verso un altro ospedale predisposto per quel tipo di emergenza. Il paziente morì poco dopo. La sua caparbia volontà fu senza scampo era l'unica luce in una anima ferita.

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La mia esperienza lavorativa, mi ha portato, anche se Medico, a percorrere linee di attività diverse da quelle cliniche. Ho da sempre dovuto affrontare problematiche relative a riconciliazioni di momenti di difficoltà di interlocuzione tra colleghi. Quindi la persone che mi è rimasta impressa è individuata in un Direttore di Struttura. Parlo di una personalità estremamente forte e spigolosa e di un professionista completo, competente riconosciuto tra i migliori nel proprio campo. Ricordo la sua forte presenza, quando lo conobbi, mi incuteva un grande rispetto ma anche una certa soggezione, legata al suo modo sarcastico di trattarci soprattutto quelli “delle Direzioni Sanitarie” così come ad uso indicare i dirigenti della D.M.P. Nel tempo, quel senso di spaesamento che mi prendeva, ha lasciato il posto ad una sorte di “affascinamento”, non saprei definirlo diversamente, che mi ha dato la possibilità di “scalfire” le corazze di quel Direttore. Ho potuto così collaborare in varie occasioni con lui (ovviamente su tematiche che mi sono proprie), ricevendo anche espressioni di stima da parte sua.

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POSTFAZIONE

Psicologia e Medicina narrativa in ospedale. Di Angela Fabiano

Alcuni anni fa, sono stata individuata, in qualità di psicologa e psicoterapeuta della Azienda Ospedaliera Garibaldi, referente progettuale aziendale per il raggiungimento dell’Obiettivo di Piano Sanitario Nazionale “La Riabilitazione Psicologica nei reparti critici” che, partito nel 2010, si è prolungato fino all’anno in corso.

Le indicazioni suggerite dal Progetto Obiettivo hanno promosso ed esteso l’attività psicologica in direzione del miglioramento della relazione di cura nei confronti degli utenti e dei familiari e del benessere degli operatori:

“(…) emerge con chiarezza come l’obiettivo principale dell’intervento psicologico in Ospedale sia di migliorare la qualità globale del processo di cura e di assistenza, scegliendo di lavorare sulle risonanze emotive e sulle rappresentazioni che malati, familiari e operatori sviluppano di fronte alla malattia o al trauma, risonanza e rappresentazioni che l’Ospedale in parte contiene e in parte amplifica.”

“(…) l’obiettivo prioritario è quello di dare continuità e senso alla cura del paziente, coniugando “cura” e “care” nel progetto terapeutico”

(Progetto Obiettivo di Piano Sanitario Nazionale Intesa Stato Regioni del 20/04/2011)

“(…)va considerato, al riguardo ,come la diffusione delle condizioni di fragilità nella popolazione e, con esse, della complessità dei bisogni, richieda inevitabilmente un efficientamento delle risorse, anche professionali, attraverso la revisione dei modelli organizzativi che rispondano a principi di innovazione culturale, flessibilità, interdisciplinarietà, continuità assistenziale, sviluppo delle relazioni e più in generale ,delle cosiddette “clinical humanities”, quali presupposti irrinunciabili per il raggiungimento di un soddisfacente livello di umanizzazione e personalizzazione delle cure.(…)”

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(“Attività di supporto psicologico e sociale nei Servizi Sanitari” Direttiva Assessore alla Salute-Palermo 26 marzo 2013)

L’Obiettivo prevedeva dunque la promozione di processi di umanizzazione attraverso l’impiego di pratiche e contenuti psicologici. Si prospettava però, una questione di metodo: come fare a trasferire parti di competenze psicologiche spingendo a partecipare e coinvolgendo un numeroso gruppo di operatori, medici e infermieri, provenienti dai reparti con la più alta incidenza di criticità, ma soprattutto provenienti da una cultura e da una formazione scientifica e tecnica, così diversa da quella psicologica?

Operatori capaci e competenti abituati però ad un linguaggio molto complesso e specialistico, quello della medicina delle evidenze, poco abituati a sentire parlare di emozioni, vissuti, difese psichiche e modelli della mente. Come trattare argomenti come il riconoscimento dei bisogni del paziente, l’ascolto attivo ed empatico, la gestione dell’emotività e della relazione terapeutica, le capacità comunicative, coinvolgendo gli operatori in prima persona per ampliarne la consapevolezza ed introdurli ai principali temi della Psicologia Ospedaliera’?

La narrazione è il metodo principale della Psicologia, quale che sia il paradigma culturale di riferimento dello psicologo e costituisce lo strumento di cura per eccellenza. Consapevole che tutti noi abbiamo bisogno di “certezze”, di rimanere ancorati al già noto, alle nostre teorie di riferimento, ai nostri pensieri già pensati anche se ripetitivi, perché il già conosciuto svolge la funzione di rassicurarci e sostenerci , mi rendevo contro tuttavia che il contatto con la pratica e il pensiero psicologico poteva acquisire una valenza trasformativa e creativa ( forse anche un po' ”sovversiva”), a patto però di non destabilizzare le esperienze e le identità professionali, già consolidate, dei destinatari della formazione.

Ho scelto la Medicina Narrativa come metodo formativo, perché capace di darci una forma di conoscenza del mondo del paziente che dà senso alla loro e alla nostra storia. Siamo partiti nel 2013 con una formazione in piccoli gruppi di operatori suddivisi, in base alla loro diversa appartenenza, in quattro macro-aree critiche: area dell’Emergenza, area Riabilitativa, area Materno Infantile e area Oncologica.

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L’eterogeneità dei gruppi, la possibilità di incontrarsi tra operatori di reparti diversi, è stata subito valutata, dagli stessi partecipanti, come una “forza” perché permetteva il superamento di dinamiche relazionali negative e spesso “cronicizzate” all’interno dei reparti di appartenenza.

Inizialmente sono stati proposti quattro incontri con l’utilizzo della metodologia del” focus group” che hanno stimolato l’interazione tra i partecipanti, attraverso spunti di discussione e di interviste semi-strutturate scelti ad hoc: lo sviluppo della propria identità professionale; la valutazione e la descrizione dei diversi contesti di cura nei loro spunti di criticità e nei loro punti di forza; l’elaborazione delle principali tematiche stress lavoro correlato come il malessere e la resilienza individuali, la reazione agli “ altri “ (pazienti, familiari, colleghi ), la valutazione dell’efficacia del proprio lavoro, il clima relazionale all’interno dei reparti e verso l’esterno.

Dopo un iniziale timore per la privacy e gli inevitabili riferimenti alla conflittualità nei confronti dell’organizzazione e della parte burocratica del proprio lavoro, visti come causa della perdita della passione e della motivazione al lavoro stesso, la funzione narrativa ha preso corpo e i partecipanti con il loro personale stile comunicativo hanno orientato gli psicologi a non “saturare” a “non aggiungere” ma, al contrario, ad aiutarli a scaricare vissuti problematici e tensioni. Quindi poca teoria e molto confronto, così ricordo la prima fase di proposta del metodo narrativo. “De-saturare per curare” era l’indicazione che proveniva dai partecipanti, de-saturare dall’accumulo di sensazioni, emozioni e pensieri difficili da metabolizzare. La funzione narrativa è di scarico ed è depuratrice. Narrare è trasformare. La narrazione ci permette di elaborare e pensare pensieri “nuovi”, di uscire dalla condizione di automatismo e ripetitività, di attaccamento alle tecniche precostituite e difensive. Narrare è trasformare e le trasformazioni narrative sono anche trasformazioni affettive: le nostre capacità narrative ci cambiano trasformando i nostri vissuti.

Per poter narrare ci dobbiamo impegnare in un ascolto attento ed empatico del racconto del paziente, che è necessariamente disordinato, denso di metafore, a volte ambiguo nei significati. Dobbiamo de-costruirlo per poi, dopo averlo fatto nostro, ricostruirlo. Se addirittura dobbiamo “scriverlo” per

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come lo abbiamo vissuto, allora la comprensione e l’interpretazione che ne derivano ci porteranno fuori dalle condizioni emotive più penose e sofferte che appesantiscono la nostra condizione di operatori.

L’uscita dal concreto dei fatti della pratica clinica, fatti troppo spesso sconvolgenti e crudi, ci permette di generare pensieri sostenibili e tollerabili, capaci di rivitalizzare la nostra pratica professionale. I focus group sono serviti soprattutto a disegnare la fisionomia dei contesti operativi e a permettere a noi psicologi di elaborare un’analisi dei bisogni e dei vissuti collettivi degli operatori.

Durante i due Corsi di formazione successivi ai focus, riunioni come si usa dire “in Plenaria”, è stato possibile ampliare l’esperienza della narrazione con la “scrittura“ dei primi casi clinici ed è stato possibile a noi psicologi ”narrare” a nostra volta, restituendo ai gruppi di lavoro le analisi delle dinamiche delle realtà organizzative di ciascuna delle Aree critiche e le rappresentazioni di queste emerse nei lavori in piccolo gruppo. La natura della narrazione è infatti mutidimensionale e multifunzionale: fatti e storie possono essere descritti a più livelli e più ampiamente arrivando ad esplicitare vissuti e rappresentazioni collettive e condivise.

Personalmente ne ho riportato un ricordo vivido, capace di suggermi ancora contenuti importanti per il mio lavoro, anche a distanza di anni.

Ricordo le note depressive dell’area oncologica, dove prevale il contatto con la morte e dove gli operatori “non si raccontano” e “non raccontano” perché in quell’area si vede ciò che è “brutto “, “impensabile”, “inimmaginabile” ma ai quali il percorso narrativo è servito per potersi “connettere” con gli altri, uscire da un profondo senso di solitudine e dare “senso al proprio quotidiano”.

Ricordo le note di stress dell’Area dell’Emergenza dove non c’è tempo per riflettere e ripensare al proprio lavoro c’è bisogno invece di agire, in modo efficace,” drammatizzando o sdrammatizzando”, ”come nelle tragedie greche”, ricorrendo a “buone difese” per sopravvivere, perché l’eccesso di coinvolgimento emotivo è davvero la realtà quotidiana degli operatori dell’Area dell’Emergenza!

E ancora i vissuti degli operatori dell’Area Riabilitativa alla ricerca di uno spazio-tempo diverso da quello pubblico e burocratizzato, uno spazio

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nostalgicamente evocato per la sua assenza, ”un bar” per gli operatori, dove incontrarsi con tutti gli altri colleghi, per discutere creativamente, allusione ad uno spazio-tempo , cioè un luogo della mente, libero da conflitti, dove “giocare” con le informazioni, i dati clinici, alla ricerca di soluzioni creative e di buona pratica clinica.

E infine un breve cenno alle 4 edizioni dell’esperienza formativa di quest’anno, svolta tra Marzo e Aprile in collaborazione con il Dott. Alessandro Lombardo, Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Psicoterapeuta, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Piemonte, già impegnato con noi durante le fasi formative precedentemente descritte e delle due Psicologhe borsiste Dott.ssa A. Pace e Dott.ssa A. Intellisano.

Sempre in risposta al Progetto Obiettivo “La Riabilitazione Psicologica nei reparti critici”, quest’anno abbiamo volutamente posto l’accento sulla necessità e possibilità di integrare la “Medicina delle Evidenze” con la “Medicina Narrativa”, per dare vita ad un metodo di lavoro clinico-assistenziale che renda il percorso delle cure più completo ed efficace.

Ancora una volta è stata messa al centro la pratica clinica della relazione d’aiuto nelle equipe sanitarie e gli stimoli formativi sono stati diretti verso il miglioramento delle capacità di elaborare e costruire storie di cura.

Il risultato è sorprendente. Scorrere le storie dei pazienti memorabili trasmette emozioni profonde, elementi di sorpresa, scoperta di grandi sensibilità e soprattutto “fame” di buone relazioni, una “fame “che sembra crescere con il crescere della responsabilità e dell’esperienza di ciascuno di noi.

Raccontare di sé, ascoltare altri sé. Di Anna Colombo

Ho partecipato per la prima volta ad un Corso di Medicina Narrativa nel 2010 e seppur già non facessi più la pediatra, ma già il Risk Manager, l’argomento desto’ decisamente già da allora la mia curiosità.

Da quel momento ogni volta che mi si presenta l’opportunità di partecipare ad iniziative in materia, partecipo e arricchisco sempre più le competenze e gli strumenti del quotidiano.

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L’esperienza di questo Corso è stata per me molto positiva per diversi motivi: clima d’aula molto accogliente con possibilità di confronto e di ascolto da parte del personale docente; ottima organizzazione per l’articolazione del corso e per la possibilità di avere un interlocutore sempre disponibile ai chiarimenti e alle integrazioni; opportunità di incontro con altre figure professionali, che hanno frequentato spontaneamente con me questa esperienza, quindi motivate, con cui si è potuto instaurare una conoscenza, un dialogo, un confronto decisamente costruttivi, che hanno permesso una conoscenza di ciascuno che andava al di là nei routinari rapporti interprofessionali lavorativi.

E’ stato ribadito nei contenuti del Corso che la narrazione, rappresenta un elemento fondamentale nei processi di cura, che si aggiunge e si integra ai dati quantitativi raccolti dalle Evidence Based Medicine, al fine di garantire un approccio clinico-terapeutico-assistenziale olistico e realmente orientato all’umanizzazione delle cure, diventando utile, oltre che per addetti all’assistenza, anche per figure come direttori sanitari, risk manager, responsabili qualità, responsabili reclami e gestione sinistri, quale opportunità per modificare processi e procedure di presa in carico dei pazienti, migliorandoli, ottimizzando le risorse disponibili, sia umane che economiche, ed anche per migliorare la comunicazione interna tra professionisti, accompagnare cambiamenti organizzativi e, perché no, ridurre lo stress lavoro – correlato.

Aggiungo che come Risk Manager la tematica si correla perfettamente al fenomeno della medicina difensiva, ricostruendo, ove applicata, quella alleanza terapeutica medico-paziente oggi in crisi, riducendo possibilmente le richieste risarcitorie per presunta malpractice medica (come la non adesione da parte dei pazienti alle indicazioni, prescrizioni e ai consigli dei medici in genere ovvero in casi di “non-compliance”).

Vi sono vari studi in materia con relativi riferimenti bibliografici, in diverse realtà sanitarie, in merito ai numerosi contenziosi relativi a un discorso di mancanza di empatia e di colloquio col paziente: sono convinta che l’introduzione spazi temporali dedicati e di colloqui sistematici coi pazienti potrebbe riverberarsi in un riduzione marcata dei contenziosi e dei reclami aziendali.

La gestione del rischio clinico non è cosa a sé dall’umanizzazione delle cure e dal porre il paziente al centro di ogni agire clinico; tutt’altro! né è parte

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costituente e la medicina narrativa è uno straordinario strumento di analisi e prevenzione.

Nel Corso sono state applicate varie tecniche didattiche: si è iniziato con un approccio frontale del docente a cui sono seguiti momenti seminariali interattivi, aperti contemporaneamente a tutti i profili professionali, in cui si sono sviluppate interessanti discussioni sulla Medicina Narrativa, sui concetti di comunicazione, narrazione, ascolto, fino a lavori a piccoli gruppi interdisciplinari e interprofessionali in cui sono stati sperimentati da ciascuno alcuni strumenti narrativi, osservazione, ascolto, lettura attenta, scrittura riflessiva, condivisione di pensieri, emozioni ed esperienze supportati anche da specifiche metodologie creative, utili a sviluppare resilienza.

Il docente ha metodologicamente indirizzato l’aula all’ottimizzazione delle capacità di ascolto: il fatto di stare ad ascoltare, di interagire in senso positivo, di cercare di capire anche i risvolti, dei mio interlocutore che prima non consideravo, riesce a cambiare in maniera sensibile il mio approccio verso chi mi sta di fronte Paziente od operatore che sia), non facendo l’errore di pensare di aver inteso troppo velocemente quello che l’altro vuol dire, quindi non sovrapponendo la mia idea di come stanno le cose rispetto a quella di chi ho di fronte.

Il clima d’aula è sempre stato distensivo e armonico tra partecipanti e docente e tra partecipanti e partecipanti, anche perché è stato chiaro sin dall’inizio che il bersaglio della medicina narrativa non è il medico, l’infermiere o l’operatore sanitario in genere, ma è piuttosto il modo in cui si comunica e si pratica la medicina secondo gli schemi e i paradigmi che ciascuno ha ricevuto dalla EBM.

Il “core” della formazione è stato quello di innescare attorno alla lettura e alla scrittura esercizi virtuosi di considerazione, di analisi e di ascolto reale: l’ascolto come atto terapeutico e come strumento per ampliare la propria mappa orientativa, allenandosi all’osservazione ed alla conoscenza del linguaggio del corpo altrui.

Questa iniziativa mi ha sinceramente dato tanto, grazie a persone appassionate e competenti che hanno saputo coinvolgermi e radicalizzare le mie preesistenti convinzioni in merito a questa modalità di approccio per migliorare la qualità della propria professione a servizio degli altri, dove il tempo impiegato a parlare con “l’altro” sia tempo ben investito, sia per rendere più empatico il rapporto, sia perché l’attenzione al vissuto,

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all’ambiente familiare e sociale della persona, garantisce la personalizzazione del percorso assistenziale (medico-paziente) e relazionale (operatore-operatore) e trasforma i professionisti della salute anche in “sussidio della resilienza”.

Il Corso è stato la conferma che quanto sin qui detto può essere insegnato, grazie ad esperti che con specifiche competenze comunicative e tecniche validate possono supportare la figura del medico o dell’infermiere che, come professionista con un bagaglio di nozioni ma anche di storie di vita personali, è capace di prendersi cura in maniera globale dei propri pazienti, sia dal punto di vista clinico che relazionale.

Oltre il camice: dalla narrazione del paziente alla narrazione di sé. Di Alessandra Pace

La Medicina Narrativa rappresenta uno strumento che permette di “curare” e di “prendersi cura” del paziente. Questa sottile differenza linguistica, apre all’operatore una prospettiva globale di approccio al malato, caratterizzato da un atteggiamento aperto e presente ad accogliere i bisogni legati alla sua malattia così come quelli emotivi, affettivi e sociali. Tale prospettiva si è ben evidenziata nei racconti degli operatori delle giornate formative di “Medicina Narrativa. Storie di cura: un percorso di integrazione”. L'attività formativa, così come è stata configurata, ha avuto l'obiettivo di superare la passivizzazione dello strumento formativo, ma è divenuta luogo di valorizzazione e riconoscimento del proprio ruolo personale e professionale, ovvero del proprio vissuto, promuovendo uno spazio di ascolto reciproco privo di giudizio. Le storie di infermieri, fisioterapisti, medici si sono intrecciate tra di loro in racconti che parlavano non solo dell’approccio con il paziente, ma anche di parti di sé. Durante l'iniziale accoglienza del gruppo, il Docente ha stimolato i partecipanti a presentarsi al di là del proprio ruolo, evidenziando l'importanza di tutte le proprie sfaccettature dell'essere persona con i propri hobby, interessi, passioni. Tale esperienza ha permesso, dunque, ai partecipanti di poter essere e di poter mostrare “altro”, ovvero la propria interezza del sé, rispetto a quello che manifestano abitualmente nel contesto professionale.

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Questo ha favorito lo sviluppo di una dinamica di riconoscimento maturo reciproco del loro essere persona: “Sono al di là dell'essere medico, infermiere, fisioterapista di essere esperto di quello o di quell'altro organo” ... Così gli iniziali meccanismi di difesa di razionalizzazione, intellettualizzazione e spostamento, man mano che il gruppo si costituiva in quanto tale, venivano sostituiti da condivisioni autentiche.

L'Approccio Analitico Transazionale evidenzia come la narrazione di Sé, rappresenti la narrazione del proprio copione di vita. Il copione è la traccia teatrale, ovvero lo schema mentale che “ogni essere umano si costruisce già dall'infanzia in funzione delle influenze genitoriali, del condizionamento genetico e delle proprie esperienze relazionali” (Tangolo, 2010). Tale schema funge da “lente” di interpretazione degli eventi e delle proprie scelte. La Medicina Narrativa mette in luce, il copione che l'operatore ha messo in atto nel proprio ambito lavorativo, che rappresenta solo una sfaccettatura alla complessa integrazione identitaria. Dunque, la scelta del racconto e della scrittura di quel primo paziente, del paziente memorabile o ancora della persona o situazione che l’hanno aiutato ad essere quel professionista che si è, rappresentano il racconto a Sé e agli altri, di decisioni copionali. Infatti la predilezione di quella determinata storia, evidenzia l'impatto emotivo che questa ha avuto nella propria vita, partendo dalla propria “lente” personale, che il copione rappresenta. Peculiarità del copione è la coazione a ripetere, “un concetto psicoanalitico che postula che l ' indiv iduo ha la tendenza a r ipetere gl i avveniment i infel ic i dell'infanzia” (Steiner, C.M., 1999), ovvero nei suoi diversi ambienti di vita, riporta i propri tratti copionali caratteristici.

Nel racconto si possono, inoltre, individuare i ruoli che ogni operatore vive nelle dinamiche professionale, ma anche personale, ovvero i ruoli del cosiddetto “Triangolo Drammatico” (Karpman, 1968). Il Triangolo Drammatico è una rappresentazione schematizzata dei tre ruoli vissuti nell'interazione con gli altri, ovvero all'interno dei giochi psicologici.E' possibile assumere il ruolo di • Vittima: colui che è debole e per questo viene perseguitato ed è martire di

qualcuno o di qualcosa; • Persecutore: colui che esercita pressione e coercizione con ostacoli, critiche,

attacchi, svalutazioni nei confronti della Vittima; • Salvatore: colui che fa di tutto per aiutare la vittima, anche se non gli è stato

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richiesto. La dinamicità di questo strumento, sta nel fatto che ognuno non assume un ruolo standard, ma che ad un certo punto avviene lo “Scarto Drammatico”, in cui la Vittima volendo uscire dal proprio ruolo di inferiorità, diviene Persecutore del Salvatore, che a quel punto, misconosciuto dal proprio ruolo di Salvatore universale, diviene vittima di colui che aveva immaginato di salvare. Tali dinamiche si evidenziano all'interno dei racconti, quando nella quotidianità della propria professione, si vuole essere Salvatori di quel dato paziente, o di quel collega, o ancora ci si sente Vittime delle dinamiche di Equipe o di aggressività da parte dell'utenza, o si diviene Persecutori di perfezionismi e rigidità poco realistiche e funzionali nel lavoro di reparto. La motivazione lavorativa si fossilizza su tali ruoli ed anche in aula lo scambio, ripropone tali meccanismi: ci si sente Vittima delle scelte del Capo sala, del Primario o ancora della Direzione Sanitaria o del Sistema Sanitario Regionale o Nazionale, divenendo Persecutore di chi ha ruoli di potere, con il fine di evidenziare il proprio essere Salvatore dell’utenza.

Gli stessi ruoli rappresentano dei meccanismi di difesa, a cui ci si è adattati sin dall'infanzia: si può dunque evidenziare una sorta di passivizzazione che non permette di verificare e vivere la propria responsabilità negli avvenimenti, ovvero il peso che si ha nello svilupparsi di determinate dinamiche piuttosto che delle altre. La narrazione di Sé agli altri, permette di confrontarsi con tali vissuti e tali ripetitività, promuovendo la consapevolezza, ovvero l'insight delle proprie azioni e scelte. Ogni individuo ha, infatti, un proprio copione sin dall'infanzia, ma ha anche il grande potere di riscriverlo, ovvero di decidere di cambiare il proprio finale, il proprio vissuto, il modo di approcciarsi al proprio ruolo professionale, nonché al proprio vissuto personale.

Ogni operatore ha la sua storia, le sue esperienze, scelte e sofferenze: oltre il camice c’è tutto questo colorato bagaglio, e l’ascolto di tali racconti permette di  “vedere”  con i loro occhi la bellezza autentica dell’“umana”  sanità che, nonostante guerre interne personali, sa donare parti di sé nel prendersi cura dell’altro.

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Diario di bordo. Di Angela Intelisano

Nel corso delle giornate formative ho avuto la possibilità di osservare come la psicologia narrativa abbia dato la possibilità ai partecipanti di poter provare l’esperienza del raccontare se stessi.

Il metodo narrativo tende a privilegiare più che la rilevazione e l’analisi dei fatti, il senso che questi producono per i soggetti e che esprimono attraverso le proprie narrazioni.

Tra i metodi narrativi possiamo identificare le biografie, interviste narrative, racconti di vita, quest’ultimi usati durante le giornate formative dal relatore, Alessandro Lombardo, e offrono all’individuo la possibilità di assegnare un senso ed un significato a specifiche azioni compiute, ad eventi ed esperienze.

Il lavoro narrativo genera la condizione che viene definita “meta-cognizione”, ovvero la possibilità di ristrutturare le proprie conoscenze, aggiungendo ed eliminando eventi, strutture, concetti e favorendo quindi al soggetto la conoscenza delle sue attività cognitive.

Dunque accettare di parlare, recuperare, analizzare, le esperienze significa riconoscerne il valore che esse hanno, che dalle esperienze apprendiamo.

La psicologia narrativa è uno strumento definito dallo psicologo statunitense che ha contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva Jerome Seymour Bruner, indispensabile per la creazione dell’identità dell’uomo, in quanto narrando la propria esperienza viene data forma e organizzazione alle nostre conoscenze ed esperienze.

Secondo l’autore, la narrazione risponde al bisogno di ricostruire la realtà dandogli un significato specifico a livello temporale o culturale. Ogni individuo, sente il bisogno di definirsi come soggettività dotata di scopi e intenzionalità e ricostruisce gli avvenimenti della propria vita in modo tale che siano in linea con questa idea di Sé.

Principio che simbolizza il significato della narrazione è che ogni essere umano sa di essere un sé narrabile immerso nella propria realtà, in cui ciò

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che viene descritto non è una verità assoluta, bensì come ognuno di noi vive quel determinato episodio, che genera sentimenti ed emozioni personali.

Per tale motivo ogni nostra narrazione è unica in quanto rappresenta la nostra identità.

In altri termini, la psicologia narrativa sottolinea come l’individuo sia l’unico detentore della sua verità, poiché è solo l’individuo a conoscere sé stesso.

In relazione a questo potrei definire lo sviluppo della personalità attraverso i contatti con l’ambiente in cui l’individuo è immerso, incorporando nella propria immagine di sé e i significati derivati da questa interazione.

Premesso che, partecipavano al corso diversi operatori sanitari con altrettante diverse responsabilità, che in un primo momento manifestavano un senso di disorientamento dovuto al fatto che il protagonista della giornata formativa non era il relatore, bensì i loro racconti, i loro vissuti il contatto con i pazienti ed i parenti di quest’ultimi.

Durante le diverse esercitazioni di gruppo, mi ha colpito la facilità con la quale tra i partecipanti si sia creata una relazione di fiducia, che ha consentito di mettere in secondo piano l’importanza del loro ruolo istituzionale (al corso partecipano medici infermieri e fisioterapisti).

Mi accorgevo che questa relazione di fiducia è stata agevolata da due condizioni che il metodo narrativo ha realizzato, ovvero, la sicurezza di ognuno dei partecipanti al corso di potere raccontare la propria esperienza senza essere giudicati ne dagli altri discenti, ne dal relatore, a prova di ciò, nel momento in cui è comparso il giudizio è fallita la possibilità narrativa.

Questo episodio durante il quale un elemento del gruppo ha esposto un giudizio, mi ha dato lo spunto a riflettere sulla scarsa attitudine al lavoro di gruppo, e in questo caso specifico, come il giudicate abbia preferito far risaltare il proprio valore a scapito del lavoro in aula.

La seconda condizione è stata la capacità empatica del relatore, che ha consentito ai discenti di avere la percezione di essere compresi nel loro vissuto e tale dinamica ha permesso l’abbassamento delle proprie difese emotive a favore di una narrazione autentica.

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