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IRPINIAMIA Associazione Culturale a cura di: Mestieri e Maestri di Mariangela Cioria

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IRPINIAMIA Associazione Culturale

a cura di:

Mestieri e Maestridi Mariangela Cioria

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Nella Foto di copertina: La banda di Trevico detta “la banda r’ pacca r’ cul’” composta da 54 persone più il mae-stro Vitalone. I componenti della banda erano tutti Trevicani - artigiani. Si spostavano nelle occasioni festive per tutta l’Irpinia con un camion, nel cassone sistemati due sgabelli ai laterali dove si sedevano e al centro gli attrezzi musicali. La foto è stata scattata nel 1924 in occasione della festa della Madonna della Libera e donata da “Paulin’ Pacca r’ Cul’” Saporito Paolo all’Associazione IRPINIAMIA lo scorso anno.

Valentini Guiducci, Michele Perlingieri e La Salvia Giuseppe nati a Trevico hanno riconosciuto queste persone:

Capo banda Giuseppe Paglia di anni 19 commerciante / Solista Rullo Euplio quando si sfasciò la banda a Trevico entrò nella banda Papalina a Roma / Il più anziano Picari Francesco detto” Cicc’ll’ r’ Fox” calzolaio, prefetto dell’ordine / Rocco Chiavuzzo “Rocco la guardia” guardia comunale ,suonava il trombone da canto / Di Spirito Alessandro Falegname, suonava il bombardino / Saporito Luigi, “Luig’ Pacca r’ Cul’” calzolaio sagrestano suonava il Tamburo / Salerno Angelo, la grancassa e il fratello Alberto suonava la tromba” r’ scang-innom’ nzomma” contadini / La Ferrara Giuseppe, il Flicorno” Pepp’ lu varrilar’ o Firrand’” Barilaio / “Felic’ r’ Micalang’l’” Postino suonava i piatti “ r’ piattin’” / Picari Alfonzo, “mast’ Alfonz’” falegname suonava l’Ottavino era il più piccolo / Picari Rocco, “ Barbt’” / Cardinale Giuseppe,”Giusepp’ Cucculon’” contadino suonava il Clarino, “ lu Casinist’” / Giannetta Vincenzo, “ Vicinz’ r’ Luca’ camp’santar’” becchino / Scavina Nicola, “Nicola Scavin’” commerciante suonava il trombone basso “ Bracon’” Salerno Luigi Antonio, “ R’Gilistrin’ o la Zecca” sarto suonava il clarinetto / Di Marco Generoso, “Voriasecca” contadino / Paglia Rocco “Rocc’ Pistacch’” sarto suonava la tromba di accompagnamento “ / Palermo Rocco “ mast’ Rocc’Cularon” calzolaio / Visco Giuseppe,” Sett’cul’” calzolaio / Giovanni Salerno “Giuvann’ lu ngigniriell’” commerciante / Michel’ Antonio Fucon’” pa-store clarinetto / Luigi La Ferrara “Luiggin’ r’ Cella” barbiere,” frabbicator’” muratore / Giacumin’ Belsess’” pastore contadino / La casa dove si esercitavano e facevano scuola era” r’ Risariell’”.

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Dedicato ai giovani desiderosi di apprendere un mestiere.

C’era una volta un paesello di montagna dove un tempo non molto lontano, il termine “disoccupazione” non era molto conosciuto nonostante le condizioni disagiate. Durante il periodo della Seconda guerra Mondiale la popolazione superava i 6000 abitanti comprese le frazioni di Scampitella e Vallesaccarda, ognuno grazie al proprio spirito di adattamento riusciva a dare sostentamento alla propria famiglia e un contributo alla comunità. A Trevico fioriva l’artigianato. Fino agli anni sessanta erano presenti 22 calzolai, 20 falegnami, 10 cestai, 1 barilaio ecc. Gli artigiani avevano un ruolo di dignità e privilegio, occupavano il secondo posto come numero dopo i notabili e i campieri. Di essi avevano bisogno tutte le altre categorie sociali. I notabili facevano precedere al loro nome di battesimo l’appellativo “Don” richiesto e preteso da tutti. Quello degli artigiani era preceduto da “Mast’” che voleva dire mastro o maestro.

Fabbri, calzolai, falegnami, erano tutti sistemati nei piccoli laboratori con una parete attrezzata. Sull’uscio di casa invece lavoravano le donne, le ricamatrici, le magliaie e i cestai. L’artigiano un tempo produceva utensili per le necessità della vita quotidiana. I cestai si dovevano procurare il legno da intreccio come rami di ulivo, canne e vimini soltanto durante le potature: nei mesi di primavera e di autunno. Le produzioni e i modi di lavorare diventavano cosi’ la viva testimonianza del tempo e delle stagioni.

Sono andata dagli artigiani ancora in vita, per ascoltare le loro testimonianze, mi hanno racontato della propria vita e del proprio passato con gioia ed entusiasmo nonostante difficoltà e sofferenze.

...questo opuscolo rappresenta un piccolo estratto del nuovo progetto IRPINIAMIA che si concretizzerà in un libro/ricerca sui mestieri e le produzioni artigianali.

Mariangela Cioria

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Il pastorenella foto la “parocc’la r’ spin’”

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Michele Crincoli, detto ”Michel’ Tafanella”nato il 29/10/1926 a Vallata.

Ho frequentato la scuola fino alla seconda elementare. Ho fatto le scuole serali in una masseria, al buio, por-tavo anche il braciere con il fuoco una volta da casa mia e una volta dalla casa dei vicini, altrimenti portavi la legna alla proprietaria della casa dove andavi a scuola e faceva lei il braciere. Ho sempre lavorato facendo diversi mestieri, ho fatto il manuale, il muratore ma soprattutto il pastore. Sono vedovo da 40 anni e sono stato in Germania per 6 anni.

Quando facevo il pastore avevo la secchia per mungere il latte, avevamo le pecore, le capre e le mucche. Questo contenitore aveva un’unica capienza, se lo volevi più grande dovevi ordinarlo ai mastri di secchie o comperarlo alle fiere. Per misurare il latte si utilizzava la “catarina”, una stecca di legno con delle tacche che indicavano le varie misure: un terzo corrispondeva a mezzo litro, due terzi a un litro detto “la ‘ndacca”, “una scudella” corrispondeva a 2 litri. La ”catarina” poteva misurare fino a 6 “scudell’”, cioè 12 litri. La “catarina” aveva una cordicella di vacchetta per poter essere appesa al muro. Si realizzava con il legno di “orra mascula” che appar-tiene alla famiglia dei salici, oppure si utilizzava l’olmo. La”orra” maschio, crescendo diventa un albero mentre la femmina-salice resta sottile e non si può utilizzare per fare la catarina. E’ un legno resistente e leggero, si pulisce facilmente in modo da non trasferire batteri al latte. La “taglia” era un pezzo di legno che serviva per ricordare, con le solite tacche, il latte prestato e che andava restituito. Era costituito da due pezzi, la “capa e la coda”, una per il fornitore e l’altra per chi riceveva il latte. Dopo ogni munta, su entrambe si segnavano le tacche in modo da non poter litigare. La “taglia r’ lacertula”, era realizzata con il sambuco.

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Il fabbronella foto la “mosch’la r lu fus’”

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Vito Ragazzonato a Trevico il 28/04/1934

Mi sono sposato il 23/02/1958 ed ho tre figli, due maschi e una femmina. Ho frequentato la quarta elemen-tare con il maestro “Vit’ la Ditta” e poi ho preso la quinta elementare e la prima media durante il militare. Ho iniziato a pascolare le pecore fin da bambino e già da allora tenevo sempre le mani impegnate: mi piaceva realizzare strumenti musicali con le canne e con l’argilla impastavo i personaggi del presepe. Con il passare degli anni mi sono dedicato all’agricoltura ed ho iniziato a realizzare “r’ canneddr’”, canne per proteggere le dita dalla falce durante la mietitura, e oggetti in legno per la cucina. Gli anziani mi dicevano che gli oggetti erano già nel pezzo di legno ed io dovevo solo tirarli fuori.

A 15 anni ho iniziato il praticantato da fabbro presso Lo Russo Euplio, a Vallesaccarda, dove mi recavo a piedi o con un bicicletta sgangherata. Mio padre lo pagava con un quintale di grano all’anno, per quattro anni. Solo il quinto anno il mastro mi dava cento lire al giorno. Nel 1955 ho aperto la mia bottega facendomi prestare diec-imila lire da mia sorella in cambio di un aratro. Inizialmente ferravo i cavalli e realizzando sia i ferri che i chiodi. In seguito mi sono dedicato alla realizzazione di attrezzi agricoli. La “mosch’la a lu fus’”, il gancio al fuso della lana si realizzava battendo e modellando sull’incudine un chiodo per i ferri di cavallo. “Lu iatatur’”, il soffietto per il fuoco, era un semplice tubo di ferro che inizialmente si realizzava con il sambuco svuotandolo della parte molle interna. “R’ castagnol’”, le nacchere, si usavano per ballare accompagnate da ”lu rucanett’”, l’organetto. Ho realizzato perfino un aratro in miniatura. Quando si batteva il ferro infuocato saltavano le scintille che an-davano a finire sulle mani scottandoti o sui pantaloni che si bucavano. Spesso mi ha aiutato anche mia moglie a battere il ferro infuocato, soprattutto quando si realizzava la zappa perché al ferro dovevi aggiungere l’acciaio che permetteva alla zappa di infilarsi meglio nel terreno. I metalli dovevano essere roventi per poterli lavorare altrimenti si batteva a vuoto.

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Il falegname

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Palermo Nicola, detto ”Nicola cirzuddr’”nato nel 1941 a Trevico.

Dopo le scuole elementari, a 11 anni sono andato a fare l’apprendista per 8 anni. Ho imparato l’arte del falegname da ”mast’ Michel”, La Ferrara Michele, uno dei migliori di Trevico. Con lui sono stato per 4 anni e poi per altri 4 anni ho lavorato con “Funziniell’”, Picari Alfonso. I mastri non ci pagavano, figuriamo poi se ci versavano i contributi. “Mast’” Michele faceva infissi e porte e lavorava in maniera più grezza mentre “Funziniell’” era più artistico.

Ogni mastro di Trevico mi ha lasciato un ricordo della sua falegnameria, infatti, la sega a mano e a nastro è stato un regalo “Mast’” Alfonso, Alfonso Picari, mentre la sega di Gratticchij ha oltre sessant’anni ed è anco-ra in ottimo stato. Molti all’estero non facevano il mestiere che avevano imparato nel loro paese, soprattutto per problemi con la lingua. A stento riuscivamo a scrivere in italiano figuriamoci le difficoltà con una nuova lingua come il tedesco, molto difficile. Comunque, mi sono integrato bene, ho appreso tanto e dato tanto per il mio mestiere. Ho imparato la lingua e sono diventato capace di leggere i progetti dei lavori che dovevamo eseguire. Non mi sono mai arreso alle difficoltà e così, per 16 anni ho lavorato sempre con la stessa ditta a Stoccarda. Sono rimasto all’estero 24 anni.

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Il cestaio

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Giuseppe Grieco nato il 30/03/1943 a Sturno

Da bambino facevo il pastore, poi il contadino, il fornaio ed il manovale. Sono emigrato in Germania ed in Svizzera dove lavoravo come stagionale. Ora, durante la vecchiaia, sono diventato cestaio. Ho imparato questo lavoro d’intreccio d’inverno, vicino al fuoco, nel sottano con mio padre, oppure, d’estate davanti al porticato. Già mio nonno realizzava oggetti per l’uso quotidiano.

“ I salici si tagliano dal secondo anno di vita e nel periodo opportuno, altrimenti vengono attaccati dalle tarme. I salici, ripuliti della corteccia, si mettono ad essiccare all’ombra, in un luogo arieggiato. Per pulirli utilizzo “la furcina p’ scurcià” una forcina di salice o di altro legno che si infila nel terreno e si fa passare nel salice. Le diverse varietà di salice si riconoscono dalla corteccia: gialla, rossa, nera, la ”salacuncella”, la “orra a offa” salice a cespuglio più pregiato e facile da pulire, la “orra” a albero che è quella maschio i cui virgulti non sono pregiati. Per l’intreccio utilizzo anche le canne e i ramoscelli sottili di olmo e ulivo che vanno divisi in due, quattro, sei o massimo otto gruppi. Come attrezzi mi servo di coltelli, forbici e falcetti. Sia le canne che i salici li raccolgo “a la iumara r’ Sturn’”, lungo il fiume Ufita nei pressi di Sturno. Una volta li usavamo anche per attaccare le viti ai tralci. I cesti da lavoro che usavamo in campagna erano grossi e resistenti”.

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Il cestaio / cutugnan

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“Lu cutugnan’” è un antico mestiere di intreccio di lamelle di castagno.

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Michele Santangelonato a Contrada nel 1929.

Mio padre mi ha insegnato questo mestiere. Noi veniamo da generazioni di cestai. Avevo solo sette anni, frequentavo la scuola elementare e, una volta rientrati a casa, mio padre (Nicola Santangelo nato il 05/06/1894 ad Agropoli di Isernia) ci teneva sequestrati nel laboratorio dove ad ognuno assegnava un compito per insegnargli il mestiere. A Contrada eravamo in cinque ad esercitare questo mestiere, ora sono rimasto solo.

I castagni si tagliavano da ottobre a marzo. A maggio non si possono toccare perché assorbono acqua dal terreno per prepararsi per la crescita che avviene da giugno ad agosto. Le lamelle si chiamano ”le cutagn’”, serve la raspa per dargli lo spessore, ti regoli solo con l’esperienza e poi dipende dalla grandezza della cesta che si deve realizzare. Il colore è dato dalla natura: più scuro o chiaro. Mi siedo su uno “scann’l” e con il ginocchio tengo il legno fermo in una morsa. Quando si lavora un cestino si batte con una punta di coltello per far stringere i listelli. I cesti a punta di varie misure erano dei contenitori più resistenti, si appendevano al muro e vi si mettevano dentro le posate, oppure i peperoni secchi, le cipolle e l’aglio. Per realizzarli si usava una tecnica diversa, un intreccio più fitto. Per piegare i legnetti si mettevano nell’acqua bollente, si toglieva la buccia e si dava la forma. Una volta realizzato l’oggetto si metteva nel forno per farlo asciugare altrimenti si spaccava o si ammuffiva. “La fescina”, altro oggetto a imbuto, serviva per raccogliere le ciliegie. Adesso se li fanno fare per usarli come soprammobili. Intrecciando i listelli si possono realizzare cesti di varie forme e dimensioni e anche culle per i bambini.

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IL CALZOLAIOIl cappellaionella foto la “Sticc’ a r’ copp’l’”

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Giovanni Cerrato nato a Mirabella Eclano nel 15/10/1933.

Provengo da una famiglia di sarti, cappellai e commercianti che fa questo mestiere da sette generazioni. Tutti i fratelli di mio padre, infatti, erano sarti e commercianti, sia con posto fisso che da ambulanti. Nella mia famiglia eravamo sei figli, tre donne e tre uomini e tutti abbiamo ereditato questo mestiere. Dopo il matrimonio, nel 1967, sono emigrato in America, a Boston.

Per fare le coppole ci vogliono le forme di legno e per stirarle ci vuole il cavalletto. La stoffa si divide in sei spicchi o in tre, i pezzi si mettono sopra alle forme di cartone poi si ritagliano secondo la misura della testa: da 55, 56, 58 e 60. Per le teste di misura maggiore si misura prima la testa e poi si cuciono i vari spicchi che occorrono. Si fodera l’interno con stoffa: cotone per l’estate, panno per l’inverno. Poi si aggiunge la trina come rifinitura. Infine si ritaglia la visiera che può avere forme e dimensioni diverse. Per la stiratura si utilizza un cavalletto di legno con la punta imbottita di stoffa. Le forbici che si utilizzavano una volta erano di ferro e molto pesanti, bisognava avere mani grosse per poterle maneggiare. Io ne ho una lasciatami in eredità da mio zio. La forma per allargare “copp’l e cappiell’” è tutta di legno e viene detta “Sticc’ a r’ copp’l’” che io ho modificato per farle senza “lu pizzil’ ‘ngoppa”. C’era anche chi usava il feltro per realizzare cappelli con le falde larghe, mentre per realizzare cilindri e bombette si usava acqua e fuoco. Con le forme di legno dette cupole, i cappelli diventavano opere d’arte. La “furnacella” era un piccolo forno per asciugare i cappelli mentre per bagnare i feltri in modo da renderli modellabili si utilizzavano le “callare r’ ram’”. Ago, filo, ditale e maestria nell’appiattire, foderare e stirare ed ecco realizzato un cappello.

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Il calzolaio

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Giovanni Lo Russonato a Trevico 05/01/1932

Giovanni Lo Russo, nato a Trevico 05/01/1932, residente a Scampitella, Via S. Pietro, Rione Serra delle Nespole. Sono vedovo da 14 anni, e ho 5 figli, uno a Lecco, uno a Milano, due a Scampitella e una a Trevi-co. Ho frequentato la scuola fino alla quinta elementare nel comune di S. Agata, nella masseria Fiorgianti dove lavorava mio padre come fattore. Dopo la scuola andavo a pascolare le mucche e i cavalli. Mia madre mi aveva cucito la cartella di stoffa a forma di sacchetto. A 13 anni sono andato dal calzolaio Di Stefano Francesco che abitava nella frazione Ciccarella e, per 4 anni, ho fatto l’apprendista. Così, a 17 anni ho ap-erto il mio laboratorio a Scampitella dove esercitavano altri 27 calzolai.

Oggi siamo rimasti solo io e mio fratello che è stato il mio primo apprendista. Dopo di lui ne sono seguiti altri 9 e, in questi ultimi anni, per nove mesi sono venuti altri due ragazzi: Antonio di Scampitella, che ha aperto bottega a Grottaminarda, e Michelangelo che ha aperto a Pescopagano. Ho insegnato loro il mestiere gratis, senza chiedere nulla in cambio, mentre, quando ho fatto io l’apprendistato mio padre ha dovuto pagare con 4 quintali di grano che allora valevano 3.600 lire. All’epoca si andava a lavorare nelle masserie e per fare un paio di scarpe ci volevano 11 ore. Ricordo che i miei allievi avevano difficoltà a fare lo spago per cucire le scarpe, bisognava bagnare le dita con la saliva e poi arrotolare lo spago (”drif’lar’ lu spagh’”). Quello più sottile serviva per le cuciture superiori, mentre quello più grosso serviva per le cuciture inferiori. Si metteva la pece e infine la setola di maiale e si cuciva la scarpa.Noi calzolai facevamo anche “lu vrazzal’ e lu cappud-dr’” oggetti in vacchetta per la protezione all’indice e al braccio sinistro per la mietitura del grano, li mettevo appesi alla finestra fuori e chi passava li comprava prima di andare in Puglia a mietere.

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“Esistono parole, paroloni, parolette, parole belle che sono diventate brutte, perché imbrattate per l’uso che se n’è fatto. Non vorrei che uscisse dall’uso quotidiano la parola ‘quaderno’, una parola né bella né brutta che deriva dal latino quadernus, raccolta di 4 fogli.

Tempo fa ho ritrovato un quaderno in un vecchio cassettone, un quaderno stretto e sottile che era apparte-nuto a mio nonno. C’era scritto: conti scola del 1936. Tra la spese di luglio c’era scritto: scarpe Ettore. Ogni estate mi portavano a Trevico, al paese dei miei nonni, dove io ero nato. Quell’anno mi ricordo che mio non-no mi fece fare un paio di scarponcini su misura.

Venne a casa Rocco il calzolaio, con il suo dischetto e con due rotoli di cuoio sotto il braccio. Mi fece togliere i sandali e mi mise ritto sul cuoio mentre con la matita disegnò i contorni dei miei piedi. Si mise a lavoro e io, seduto accanto a lui, sono stato a guardarlo per 5 ore mentre tagliava, cuciva, inchiodava, ribatteva. Duran-te la pausa pranzo mia nonna portò un piatto di maccheroni anche per me perché aveva capito che non mi sarei mosso da lì come assistente ciabattino. Dopo 5 ore erano pronte le scarpe gialle, fiammanti, croccanti, odorose di cuoio, le scarpe più belle che abbia mai avuto. Fui testimone di un miracolo di concentrazione e amore per il proprio lavoro. Con il miracolo del lavoro Rocco aveva fatto nascere qualcosa che prima non c’era. Ecco il miracolo a cui bisogna credere, quello fatto dall’uomo.”

Nella trasmissione “Quello che (non) ho”, trasmessa il 15 maggio 2012 da La7, il maestro Ettore Scola parla dei suoi ricordi e del calzolaio Rocco.

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Nel 2008, è stata costituita l’Associazione IRPINIAMIA, come ente avente scopo culturale, che persegue es-clusivamente finalità di utilità sociale, senza fini di lucro. L’associazione ha per oggetto lo svolgimento di attività nei seguenti settori: (1) la valorizzazione e la promozione della cultura, della storia e delle tradizioni locali, riferite in specie al territorio del Comune di Trevico e, più in generale della Baronia e dell’Irpinia; (2) la valorizzazione e la promozione delle peculiarità socio-culturali e gastronomiche locali; (3) la promozione dell’istruzione, con riferimento alle attività di cui innanzi; (4) la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse storico, artistico e culturale, con particolare - ma non esclusivo - riferimento al territorio di Trevico; (5) la tutela e la valorizzazione della natura e dell’ambiente; (6) la rievocazione delle tradizioni del passato appartenenti alla comunità della Baronia per offrire anche alle nuove generazioni la conoscenza degli usi e delle consuetudini di allora, ancora vive nella memoria degli anziani e si avvale principalmente dell’op-era personale, volontaria, spontanea, libera e gratuita dei propri associati.

soci fondatori: Mariangela Cioria (Presidente) Patrizia Pizzulo (Vice-Presidente)

collaborano al progetto IRPINIAMIA: Walter Giovanniello / Federico Archidiacono / Marilena Cipriano / Tere-sa Lavanga / Gerardo Lo Russo / Ania Pasanen / Euplio Archidiaccono / Monica Giovanniello / Noemi Perling-ieri / Anna Fusco / Maria Paglia / Mariella Calabrese.

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