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Il lavoro come espressione fondamentale della persona nella società multietnica, in Primato
delle persone nella società multietnica, Atti del XVI Convegno Studi di Famiglia Aperta,
Vigevano 27/29 ottobre 2011, Dora Ciotta (a cura di), Del Gallo Editori, Spoleto 2012, ISBN
9788890738401, pp. 109-129.
Il lavoro come espressione fondamentale della persona
nella società multietnica di Giuseppe Limone
1. La persona tra fecondità e verità
Crediamo sia illuminante oggi affrontare il tema del lavoro e della persona
perché offre un punto di vista capace di individuare nodi cruciali nella condizione
dell’uomo contemporaneo. Si tratta di cogliere l’occasione per mettere a punto uno
sguardo nuovo sulla civiltà e sulla sua storia.
In questo orizzonte, ci interrogheremo su un lavoro, guardandolo da più punti
di vista: dal punto di vista della Costituzione italiana, dal punto di vista del mito e, in
una prospettiva certamente inattuale, dal punto di vista della verità.
La Costituzione italiana afferma nel suo primo articolo che «L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro». Si tratta di un’affermazione che non a
caso parla in termini di fondamento. Questa prospettiva appare nella sua radicalità
ancor meglio oggi nel momento in cui una crisi economica epocale scuote il pianeta
mettendo in questione i fondamenti stessi della civiltà umana e i criteri con cui sono
costruiti e giudicati i valori della crescita, della ricchezza, del potere, della
considerazione sociale, della bellezza, della verità. Di fronte ai molteplici modi con cui
è possibile costruire e giudicare la ricchezza e il potere, la Costituzione italiana adotta
due criteri semplici e radicali: il lavoro e la libertà. In questa prospettiva, la
Costituzione dichiara, anzi riconosce come antecedenti a se stessa, i diritti inviolabili
dell’uomo e i doveri inderogabili nascenti dalla solidarietà. La Costituzione italiana è,
come è noto, fondata sulla persona, ossia su ogni persona singolarmente considerata e
solidalmente relazionata, lungo una linea costitutiva che ha per matrice di fondo la
libertà: la libertà di ognuno, non separabile dalla libertà di ogni altro secondo un
principio universale di solidarietà.
Tutto ciò implica il rovesciamento di qualunque costruzione che pretenda
muovere dalla ricchezza e dal potere per arrivare alla persona. Si tratta invece di
partire dalla libertà e dal lavoro di ogni persona per arrivare alla considerazione
valutativa di qualsiasi ricchezza e di qualsiasi potere. Potrebbe in questa luce dirsi,
come nel modello evangelico, che è la struttura a esser fatta per la persona e non la
persona per la struttura. In questo senso, il baricentro dell’umano è posto nel lavoro e
nella libertà, là dove la libertà si specifica in quel diritto fondamentale e in quel
compito solidale che è il lavoro.
Oggi viviamo in un’epoca in cui la prospettiva della centralità del lavoro è
clamorosamente ribaltata. Se è vero che è il lavoro umano a produrre la ricchezza e
tutte le sue forme rappresentative, oggi viviamo economicamente e socialmente la
condizione di un edificio a più piani, in cui la ricchezza è rappresentata da titoli, che
vengono a loro volta rappresentati da altri titoli, e questi da altri titoli ancora, in una
progressione indefinita di rappresentazioni sempre più astratte, complesse e precarie.
Siamo cioè nella modellistica tutta moderna e post-moderna di una costruzione in cui
una cosa si riduce alla sua rappresentazione, mentre la sua rappresentazione
progressivamente si astrae in una sua separata autonomia che si pretende alla fine
astratta autosufficienza. In questo percorso, rappresentazione, separazione, astrazione
e ipostatizzazione si rivelano tappe progressive di un processo logico e scientifico in cui
la complessità ha perso il senso dei fondamenti. Abitiamo in un edificio a cento piani in
cui i titoli finanziari sovrastanti hanno completamente “dimenticato”, in una sedicente
legittima astrazione, i fondamenti su cui sono poggiati. A ben vedere, il significato della
crisi economica planetaria del 2007-2008 è tutta qui.
Come ricordava in un famoso apologo Norbert Elias, coloro che sono al piano
più alto dimenticano facilmente il fondamento da cui hanno tratto l’essenziale
nutrimento. Chi è al piano più alto è portato a credere che i piani precedenti siano
superati e datati. Occorrerebbe invece essere sempre consapevoli che il fondamento di
un edificio accompagna il suo sviluppo in tutti i suoi piani, in quanto è presente in
modo invisibile in ogni articolazione degli stessi. L’esplodere di una crisi, in realtà, non
è altro che l’improvviso apparire di quanto si era fin lì dimenticato. La catastrofe ne è
l’ultimo sigillo.
Crediamo, d’altra parte, che la concezione del lavoro oggi debba andar oltre
quella, troppo angusta, che si riduce all’idea di un’attività economica che produce beni
e servizi. Il lavoro umano è riconducibile a un’idea ben più pregnante e complessa. Per
capirla, occorre trarre suggestioni importanti dal mito. Si pensi al mito di Prometeo,
che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. Questo fuoco è la matrice dell’attività
tecnica, attraverso la quale l’uomo trasforma il suo ambiente e se stesso. Si badi: è
appunto l’evento del trasformare il connotato più proprio del lavoro.
Se guardiamo all’idea del fuoco attraverso i primi riferimenti della tradizione
filosofica, troviamo in Eraclito l’intuizione fondamentale del fuoco come essenza della
realtà. La realtà risiede nel suo trasformarsi, e rimane una nel suo trasformarsi. In
questo contesto, l’uomo, nell’evento universale della trasformazione, è
contemporaneamente un momento di questa trasformazione e un agente della stessa
nel suo svolgersi. L’uomo, in quanto lavora, è il motore che fa entrare nel mondo
l’energia che lo precede e lo sottende, mostrandosi in lui come portatore intelligente
della sua forza.
In questo orizzonte, tutto il vivere dell’uomo è lavoro, in quanto, ne sia egli
consapevole o no, si realizza per la trasformazione e nella trasformazione. Esiste solo
un’altra attività che si sottrae all’essere lavoro. Si tratta del gioco, inteso come
quell’attività che si svolge senza un fine programmato, al puro scopo di esercitarsi nella
propria fluida libertà. Sia il lavoro in quanto attività programmata sia il gioco in quanto
attività creativa, sono eventi della libertà. Di tutto ciò, a ben vedere, esiste una precisa
eco nella Costituzione italiana, là dove essa dice che «l’arte e la scienza sono libere».
Guardando l’attività umana nella duplice forma del lavoro e del gioco, possiamo infatti
dire che la scienza è la forma programmata e l’arte è la forma creativa della libertà. In
questo senso, il lavoro come il gioco è linguaggio, ossia messa in forma di un’energia
che, esprimendosi, in un’opera viene a compimento.
Una tale visione del lavoro non sorprenda, perché essa appare meglio oggi,
nell’epoca della cosiddetta “società scientificizzata”, ossia nell’epoca in cui la
conoscenza è diventata un fattore direttamente produttivo. In questo contesto, non
c’è solo il lavoro come attività produttiva di beni e di servizi ma, alle sue spalle, il
lavoro come attività produttiva di conoscenze e di tecniche e, alle sue spalle, il lavoro
come attività di formazione degli operatori della conoscenza e, alle sue spalle ancora, il
lavoro come attività di formazione in una società in cui la stessa tecnoscienza deve
essere ricollocata in un mondo che sappia andare oltre la frattura in specializzazioni e
oltre la fallace frattura tra fatti e valori. In questo orizzonte, il lavoro si coglie come una
realtà piramidale a più strati che costituisce il modo stesso in cui secondo una visione
complessiva, il mondo degli uomini realizza la crescita qualitativa e quantitativa della
vita nel vivere comune.
Una tale visione del lavoro, mentre ne coglie la centralità nel mondo
contemporaneo, va oltre la stessa classica distinzione fra attività poietiche (consistenti
nella produzione di una cosa) e attività pratiche (consistenti nell’elaborazione di
un’attività che non si traduce nella produzione di una cosa). Nella prospettiva da cui ci
poniamo, infatti, tra un lavorare poietico e un lavorare pratico la differenza è
inessenziale. Né in questa prospettiva è rilevante la differenza tra lavoro remunerato e
lavoro non remunerato, tra lavoro visibile e lavoro non visibile, tra lavoro domestico e
lavoro sociale. In questa luce, ogni attività umana, in quanto realizzante un fine
programmato, è lavoro. Essa sarà lavoro socialmente rilevante nella misura in cui si
traduca in un’opera che ha valore per la vita. Lavoro è attività trasformatrice di una
cosa, ma è anche lavorare sulla propria personalità, collaborazione con altri,
elaborazione di un lutto, attività capace di trasformare le differenze interlinguistiche in
possibilità di comunicazione interumana. Lavoro è atto della vita che fa crescere
qualitativamente e quantitativamente se stessa, facendo entrare l’energia nel mondo.
Energia, infatti, è en-érgheia, là dove l’ergon è, appunto, lavoro.
È per noi illuminante tener conto di alcune suggestioni che percorrono sotto
traccia un importante scritto di Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo», guardato
qui sotto altra luce. In questo scritto Heidegger mette in discussione il concetto della
verità come corrispondenza, in nome di un’altra idea della verità, intesa come l’essere
che da sempre ci precede e dentro di noi perennemente accade. A ben guardare,
opera nello scritto heideggeriano come metafora radicale una segreta immagine:
quella della terra. Di una terra guardata come luogo profondo a partire da cui qualcosa
nasce alla luce e viene portato a compimento.
Crediamo che il tempo presente sia capace di gettare una luce nuova sulla
condizione ontologica dell’uomo e della conoscenza. Si tratta di capire che la
situazione di crisi planetaria che oggi viviamo apre una nuova prospettiva sul rapporto
tra conoscenza e verità. Siamo infatti oggi in grado di capire meglio come l’epoca
moderna e post-moderna sia cresciuta intorno a tre criteri fondamentali, assunti come
insuperabili: l’arbitrio, l’artificio e la relatività. Ogni conoscenza è stata vissuta come
connessa a un punto di vista arbitrario e relativo. La crisi radicale che oggi attraversa il
mondo mostra come la verità sia da guardare innanzitutto non come ciò di cui può
parlarsi ma come il fondamento a partire dal quale si parla. Un punto di vista, quale
che sia, è necessariamente condizionato dalla soglia che sta a suo fondamento,
superata la quale accade la catastrofe. In questo orizzonte, la catastrofe è l’altra faccia
del valore di verità, perché dice i limiti di soglia invalicabile all’interno del quale
qualunque punto di vista valoriale necessariamente deve stare. In questo senso, il
fondamento è la condizione di possibilità e di senso di ogni punto di vista, perché
qualsiasi punto di vista che conduca, nel suo durare, alla catastrofe mostra in negativo
il fondamento da cui si è arbitrariamente distaccato. Il mondo dei valori non è ciò di cui
parliamo, ma ciò che ci consente di parlare.
Occorre fare qui una premessa. Esistono tre piani della verità. Sia che si guardi
al pensiero sia che si guardi all’azione. Per quanto concerne il pensiero, esiste il piano
della verità di cui io parlo, il piano della verità che, nel mio parlare, di me parla e il
piano della verità che nel mio parlare parla: il primo piano riguarda l’enunciazione, il
secondo piano riguarda l’espressione del vissuto dell’enunciante e il terzo piano
riguarda ciò che nel parlare del parlante si rivela di lui, indipendentemente da lui e a
sua insaputa. Analogo discorso è da compiere per il lavoro: esiste il piano di verità del
lavoro in quanto dà alla luce un’opera, il piano di verità che in colui che lavora si
esprime e il piano di verità che riguarda l’energia ontologica che in quel lavorare si
rivela. Sia nel pensiero sia nell’azione accade quindi il piano del mettere in opera
qualcosa, il piano dell’esprimersi in una messa in opera e il piano di quanto si rivela
nell’espressione del proprio vissuto. Sia il pensare sia il lavorare sono un “agĕre”, un
agire, che è nella prospettiva heideggeriana non un realizzare un utile ma un “portare
a compimento”. In questo orizzonte, appare meglio nella sua forza la metafora radicale
della terra di cui dicevamo. Nella terra lavorata si hanno tre forme essenziali del “fero”
del “portare”, che sono anche tre forme essenziali della sua verità: nella realtà
profonda della terra, nell’essere della terra c’è il suo “referre” il suo esser capace di
portare alla luce un’energia di cui è semplicemente destinataria e che dal suo fondo si
dà; in quella stessa terra c’è il suo “ferre ”, in quanto “feracità” espressa dal lavoro che
di quella terra elabora l’energia intrinseca, ponendosi in ascolto; da quella terra, infine,
si mette in opera un “ob-ferre” un “offrire” alla visibilità e alla portata degli altri ciò che
il suo agire è stato capace di portare a compimento. Nel “referre” nel “ferre” e nell’
“obferre” della terra si danno tre forme di verità: quella dell’energia che si rivela,
quella della feracità che si esprime e quella dell’offerta dei beni che ha portato alla
luce.
Il lavoro, in quanto lavoro umano, non è riducibile a una pura attività di
produzione dell’utile. Ridurlo a una tale essenza significherebbe mutilarne il significato.
Esiste un lavorare economico, un lavorare etico, un lavorare educativo, un lavorare
politico, un lavorare istituzionale, un lavorare scientifico, un lavorare terapeutico, un
lavorare artistico e tante altre forme, non esauribili in classificazioni. Elaborare un
dolore è lavoro; elaborare passaggi di età è lavoro; elaborare conflitti è lavoro;
elaborare rapporti tra le culture è lavoro. Si tratta di tante forme di lavoro che non
esauriscono lo spettro delle sue possibilità e che sempre in forma nuova nella storia
degli uomini si dànno. L’attività lavorativa è attività la cui natura è la fecondità:
l’attività del mettere in opera, del portare alla luce. Si tratta nel caso del lavoro, di una
fecondità programmata. Accanto a questa forma esiste quella che chiamiamo, in senso
alto e forte, “gioco”. Intendiamo il gioco come attività creativa, là dove la fecondità è
libera da fini programmati e continuamente riscrive, nell’espressione della sua
emozionalità intelligente, il suo fine nella sua libera fluidità. In questo senso, lavoro e
gioco, attività programmata e attività creativa, sono pressoché coestensive all’intera
esistenza umana: modi diversi complementari e intrecciati con cui l’essere fa emergere
la sua energia nel mondo attraverso eventi di trasformazione. Potremmo dire, in
questa prospettiva, che la stessa attività di preghiera è lavoro e gioco, nella misura in
cui è una presa di contatto col sé profondo e, al tempo stesso, il suo libero ascolto. Il
detto benedettino “ora et labora” è una felicissima formula simbolica di ciò.
Che cosa può restare fuori dell’attività lavorativa e del gioco? Può restare fuori
quella massa di tempo e di vita che la persona spreca, lasciandola degradare in una
situazione di inettitudine alla trasformazione: è quello che, in termini umani,
potremmo chiamare (impiegando qui un’intuizione di Carla Xodo) la sua entropia, in
quanto tale, inetta alla fecondità perché incapace di trasformazione. In questo
orizzonte assorbente, in cui il lavoro, insieme col gioco, copre l’intero arco dell’attività
umana, va considerato che esistono forme di lavoro perniciose e insane, che
distruggono lavoro e che rovinano vite. In questo contesto di pensiero,
paradossalmente, anche l’attività della malavita è lavoro, così come è stata attività
umana quella che, traducendosi nei cosiddetti “derivati finanziari”, ha costruito nel
mondo d’oggi autentiche armi di sterminio di massa, in termini di distruzione di lavoro
umano e di vite. Potremmo dire, in questo senso, che l’esistenza della possibilità del
lavoro è, nella struttura di una società, il rivelatore di ossigeno. Fuori dall’architettura
di un lavoro sano è tradita la sua funzione di verità, che è tale a condizione di
catastrofe. La catastrofe è, come dicevamo, l’altra faccia della verità.
Hannah Arendt, osservando il tempo moderno, affermava che in esso il lavoro
tende a corrodere sempre di più i tempi della vita. Nella prospettiva in cui qui ci
poniamo, si tratta non di guardare al lavoro come semplice realizzazione dell’utile, ma
a quel lavoro espressivo in cui la vita degli uomini è chiamata a poter dire, insieme col
gioco, la sua verità liberatrice. In questo senso è necessario guardare al lavoro vero
non in quanto corrode la vita, ma in quanto può essere virtuosamente eversivo
rispetto ai modelli attuali secondo cui è organizzata la vita.
2. Il lavoro e la scienza
Nel mondo contemporaneo la scienza, anzi la tecnoscienza, ha assunto sempre
più una posizione centrale. Ma non va dimenticato che la stessa attività scientifica è
lavoro. Diremmo che è oggi una delle forme più importanti tra le forme lavorative.
Essa infatti è attività che, trasformando l’energia della vita in conoscenza, trasforma il
mondo e lo stesso conoscente in quanto appartenente a quel mondo. Ma la scienza,
soprattutto la scienza moderna, è attività lavorativa che si è data sue coordinate
epistemologiche su cui è necessario indagare. Essa infatti, muovendo dalla metodica
dell’incrociare l’esperienza con la misura, ha cercato di profilarsi attraverso uno
sguardo su eventi ripetibili, separabili e calcolabili. Ma, dandosi questo tipo di sguardo,
la scienza si è ricondotta a pura osservazione, per quanto misurata. La scienza, nella
quasi totalità delle sue forme, potremmo dire che ha assunto, per dirla in un modo
quasi hegeliano, il punto di vista del cameriere. Si tratta di quel punto di vista per cui,
guardandosi tutto dall’esterno, si prescinde completamente dalla dimensione del
vissuto. Nella bella relazione di Carla Xodo si traeva leva analogica dai due principi
della termodinamica e dal rapporto fra empatia e entropia. In quell’analisi, l’attività
educativa, pur muovendo dall’empatia, può degradarsi in entropia, toccando quel
livello della termodinamica per cui l’energia, nel trasformarsi, degrada almeno in parte
in quella forma a partire da cui non può ulteriormente trasformarsi. Diremmo qui che
quell’analisi va completata osservando che la scienza moderna e contemporanea si è
costruita, nella quasi totalità delle sue forme, come scienza apatica. La scienza ritiene
di poter essere scienza soltanto a condizione di essere apatica, cioè capace di
prescindere dai vissuti. Empatia, entropia, apatia: qual è il modo corretto di impostare
il problema?
Diremmo che oggi è urgente ricollocare al centro del problema del lavoro e
della scienza il problema della loro verità, e pertanto il problema della persona, a
partire da cui bisogna cogliere il vissuto e la sua verità.
Urge una precisazione. Quando parliamo del “vissuto”, non intendiamo parlare
dei singoli vissuti, più o meno specificati: parliamo di quella dimensione “interiore” che
in ogni momento riguarda il corpo vivente di ogni persona a partire da quel “dentro”
che dall’interno illumina ogni persona e di cui ogni persona è unica testimone, pur
percependo nell’altra, per risonanza, un vissuto corrispondente. D’altra parte, dicendo
“vissuto” non intendiamo affatto dire ciò che riguarda semplicemente il ripiegamento
su di sé: anche il semplice sguardo sul mondo si riconduce al vissuto di questo sguardo.
Né con “vissuto” intendiamo un “interiore” contrapposto all’“esteriore”, perché
questo “vissuto” è null’altro che la “faccia interna” dell’esteriore, ossia quella vita
corposamente interiore che all’esteriore dà luce. Un atteggiamento puramente
geometrico che guardi allo spazio individuerà tre parametri di fondo, considerati come
esaustivi: il rapporto alto/basso, il rapporto destra/sinistra e il rapporto dietro/avanti.
Dov’è, in questa configurazione sedicente esaustiva, lo spazio vissuto? Si tratta di una
dimensione che né l’osservazione né la geometria riescono a identificare. Si tratta di
quella dimensione bussando alla quale aspettiamo che una voce dall’interno risponda.
Si tratta di un punto di vista su cui ha ben gettato lo sguardo Minkowski. È, nella nostra
prospettiva, la voce della persona.
Diceva Kant che, nel configurare qualsiasi nostra azione, dobbiamo
rappresentarcela assumendola come preceduta sempre dalla proposizione “io penso
che”. Si tratta, a nostro avviso, di compiere un passo indietro rispetto a questa stessa
riflessione kantiana. Bisogna far precedere sempre allo stesso “io penso” la
consapevolezza profonda del mio vissuto che vive quel pensiero. Ciò che
perennemente sottostà a ogni azione e a ogni pensiero di quell’azione è il vissuto di
quell’azione e di quel pensiero.
Mettere al centro del discorso la dimensione del vissuto di ogni persona non
significa assumere né un punto di vista intimistico, né un punto di vista narcisistico, né
un punto di vista angelistico, ossia di spiritualismo disincarnato, che prescinda dalla
corporeità e dall’esteriorità: significa assumere la consapevolezza profonda che è il
vissuto a qualificare decisivamente qualsiasi atteggiamento e comportamento umano.
Il vissuto non è, in questa luce, negare la corporeità in cui è incarnato, ma è assumerla
rivendicando a sé la dignità di qualificarla in modo forte, sia nella prospettiva della
propria persona sia nella prospettiva delle altre su cui si regola lo sguardo. Tutto ciò
significa che il punto di vista del vissuto deve accompagnare ogni conoscenza umana,
che, in quanto conoscenza vissuta, deve sempre operare tenendo conto del vissuto
altrui.
La persona è un vissuto in un corpo, ed è appunto questo vissuto ciò che deve
poter qualificare l’essere persona. È proprio il vissuto, in quanto unico e personale, a
qualificare l’unicità di ogni persona. Qui si dà uno straordinario paradosso, perché la
scienza, nel suo sforzo di essere conoscenza, per le stesse caratteristiche del suo
apparato epistemologico, non riesce a cogliere proprio il vissuto, il suo essere persona.
Eppur vero che la scienza fenomenologica cerca di farlo, ma quasi sempre poi ricade in
una forma entropica che riduce il vissuto a un trascendentale logico. Lo sguardo
scientifico quindi, salvo alcune rilevanti eccezioni, ha per suo oggetto solo gli
osservabili, perché solo gli osservabili sono considerati fonti di certezza. Ma il vissuto è
inosservabile, e sarà sempre inosservabile. Eppure non c’è nulla per l’uomo che sia più
certo del vissuto. Potremmo dire, per un illuminante paradosso, che il vissuto è un
fatto inosservabile, ed è il fatto più certo, addirittura più certo degli osservabili. Di
questa certezza la scienza non si occupa e non riesce ad occuparsi. Si tratta di chiedere
alla scienza di prendere scientifica consapevolezza di questo proprio limite. Si badi:
non si nega affatto qui che la scienza possa avere necessità scientifica, in certi limiti, di
essere apatica, ma si sta affermando che una qualsiasi sua struttura apatica deve
sempre tener conto, in ultima istanza, del vissuto umano cui si riferisce.
Il vissuto umano, in quanto unico, potrebbe passare inosservato nella sua
unicità, ma in esso si dà un evento che di quella unicità si rivela il segnalatore decisivo.
Questo evento è il dolore. Ogni vissuto, in quanto vissuto di una persona, è unico, ma è
nel dolore che questa unicità appare in modo dirompente. Di qualsiasi evento interiore
ed esteriore posso dire che “credo di averlo”, ma non posso dire del dolore che credo
di avere dolore. Quando Cartesio enuncia la fondamentale affermazione per la quale
«penso, dunque sono», egli intende mostrare con essa la prima e massima certezza,
ma a nostro avviso si sbaglia. Si sbaglia perché, nel mio pensare si mostra non che io
sono, ma solo che qualcosa è: non è però certo ancora che questo qualcosa sia “io”.
Questa “cosa” del mio pensare potrebbe essere soltanto il terminale, il “qui e ora” in
cui qualcosa pensa al mio posto. È solo nell’evento del dolore che ho la certezza
irrefutabile di essere io a soffrire e nessun altro al mio posto. Questo momento è il
segnalatore della mia unicità e dell’unicità di tutto il mio vissuto. È il momento
irrefutabile in cui appare la certezza di me.
Nel Novecento si dà, a nostro avviso, una partita filosofica decisiva tra la visione
di Martin Heidegger e quella di Jean Paul Sartre (si guardi, per un esempio, alla Lettera
sull’«umanismo» del primo e a L’essere e il nulla del secondo). Heidegger sostiene,
contro la concezione dell’umanismo, che nell’uomo non si dà il soggetto, ma si dà
l’essere, che lo precede, lo sottende e l’attraversa, dislocandosi nel suo pensiero e nel
suo linguaggio. Sartre invece sostiene che nell’uomo si dà la sua esistenza, che non è
un’essenza, perché la sua esistenza non può giammai ridursi a un’essenza. A nostro
avviso all’uno e all’altro pensatore manca la stessa cosa. Manca la persona. Nella
riflessione di Heidegger, che ruota intorno all’essere, manca quel nesso nevralgico che
tiene insieme l’essere e quell’unicità della persona in cui l’essere si dà; nella riflessione
di Sartre, che ruota intorno all’esistenza, manca quel nesso nevralgico che tiene
insieme l’esistenza del singolo e quell’essenza d’essere che in quel singolo si dà. Non a
caso, a nostro avviso, in tutti e due i pensatori manca una riflessione adeguata
sull’evento del dolore. Il dolore infatti segnala all’essere di Heidegger il momento
apicale in cui l’essere accade nella mia unicità; e, d’altra parte, il dolore segnala
all’uomo singolo di Sartre il momento apicale in cui nella mia unicità sento il vibrare
irresistibile di un “perché”, che mi richiama all’essere, e di una “ricerca di volto”, che
mi richiama all’altro da me. All’essere di Heidegger e al singolo di Sartre sembra
mancare un segmento intermedio, quasi una “sezione aurea”, ma in realtà è proprio
questo segmento intermedio a costituire il segnalatore fondamentale degli altri due
termini della catena: questo segmento è la persona.
3. La persona tra l’essere e la singolarità: tre livelli della verità
Il lavoro, visto nella sua radicalità, è, insieme con la libera attività creativa,
espressione del vissuto e della persona. Nel lavoro si dà la persona in quanto pro-duce,
mette in opera; si dà la persona in quanto si esprime; si dà la persona in quanto rivela.
Nel lavoro cioè si dà la persona nelle sue tre fondamentali coordinate: la relazione, in
cui si mette in opera un’offerta; l’unicità, in cui si esprime il sé; la profondità, in cui si
rivela quanto ontologicamente ci precede e in noi si mette in luce.
I personalisti sottolineano sempre, nella persona, le dimensioni della
relazionalità e dell’unicità, ma dimenticano la dimensione della profondità. Su ognuna
di queste tre coordinate vorremmo svolgere un brevissimo commento. Quando si parla
dell’unicità, non si intende affatto una caratteristica laudativa della persona, ma
sempre e soltanto la dimensione della sua non fungibilità, non omologabilità, non
ripetibilità. Ogni unicità è nient’altro che l’unicità del proprio intero vissuto, esteso
all’intera propria vita, che accade per un’unica volta. Quando si parla della
relazionalità, non si intende affatto la dimensione “buonista” per cui ogni persona
sarebbe in relazione armonica con un’altra, ma si tratta di quella dimensione per cui
ogni persona è sempre e necessariamente “pars”, parte, in quanto in ogni persona
accade una difettività, un mancare e un mobilitarsi per questa mancanza, mentre
accade, contemporaneamente, un vivere dal proprio punto di vista tutto ciò che nel
mondo le si prospetta: in questo senso, la persona si mostra relazionata anche nelle
forme dell’aggressività, in quanto anche in queste forme si rivela, da un lato, l’istanza
forte di una relazione, seppur espressa in guisa negativa, e, dall’altro lato, l’istanza che
in forma catastrofica appare della sua sottesa verità. Infine, quando si parla della
profondità, si intende alludere non a un aspetto mistico della persona, ma sempre e
necessariamente a quanto dai mondi possibili dell’essere energeticamente in una
persona appare.
Nel vangelo di Matteo, al capitolo quarto, sono raccontate le tre tentazioni di
Gesù nel deserto. In queste tre tentazioni sono presentate tre proposte fondamentali
che riguardano ogni uomo. Nella prima tentazione, a Gesù che digiuna viene offerto il
pane; nella seconda viene offerto il potere; nella terza, viene offerta la gloria. Nella
prima tentazione, l’uomo viene ridotto alla sua dimensione biologica; nella seconda
tentazione, viene ridotto alla sua dimensione di potere; nella terza tentazione, viene
ridotto alla dimensione della considerazione sociale. Fra le tre tentazioni corre un
nesso non detto, ma profondo, perché, se nella prima tentazione appare la
considerazione di quella quantità di beni esteriori che è la ricchezza, nella seconda
tentazione appare la considerazione di quel potere che è fonte di ricchezza e nella
terza tentazione appare il profilo di quella potenza carismatica di gloria che è la fonte
del potere. Potremmo domandarci qui, alla stregua delle domande che ci siamo poste
sulla verità, quale sia la verità di senso che soggiace alle tre forme tentatrici.
Domandarsi sulla verità significa, come dicevamo, domandarsi su quel fondamento che
costituisce, a pena di catastrofe, la condizione di possibilità e di senso di ciò su cui ci
interroghiamo. Qual è la verità della ricchezza? La verità della ricchezza, senza la quale
nessuna ricchezza è tale, è il lavoro. Si noti. Anche nello stesso episodio evangelico si
allude a un lavoro: a quella esigenza spirituale che in quel momento è ascesi e
preghiera. Qual è la verità del potere? La verità del potere, senza la quale il potere non
può esser tale, è la giustizia. Come già sapevano Aristotele e San’Agostino, anche in
una banda di ladroni opera l’esigenza fondamentale di un minimo di giustizia che
consente alla banda di conservarsi come tale. Qual è la verità della gloria, intesa come
quella potenza carismatica a cui è connessa ogni potente considerazione sociale?
Diremmo qui che la verità di questa gloria non può essere altro che l’amore ospitale.
Ogni amore è, in quanto tale, ospitale. In esso una persona ospita l’altra sentendola
persona. L’amore ospitale è quell’atteggiamento della persona che, nell’amare l’altra
come se stessa, non semplicemente bilancia l’amore dell’altro con l’amore di sé, ma
attraverso l’altro ama sé e attraverso sé ama l’altro. Nella relazione ospitale un hospes
si relaziona con un hospes, un ospitante con un ospitato, all’interno di un mondo
simbolico in cui l’atto di ospitarsi è reciproco. Quando sul campo di battaglia omerico
Glauco e Diomede si incontrano come avversari e riconoscendosi ospiti, si scambiano
le armi, essi ricordano a se stessi e agli altri il vincolo sacro che lega gli uomini oltre
ogni condizione contingente di belligeranza. Nella relazione ospitale accade un evento
in cui si incrociano il pudore e la pietà, là dove la pietà dice l’urgenza del soccorrere
l’altro nella consapevolezza del comune legame e il pudore dice di non varcare quel
limite oltre il quale l’azione diventerebbe invadenza e la pura passività disonore. Anche
nella relazione ospitale si celebra, nel nome di un vincolo inviolabile, un’attività di
reciproca fecondazione, che è un far essere e un lasciar essere. Si accede così a un
livello nuovo di conoscenza, in cui non si ha da fare con un soggetto e con un oggetto,
con un possedente e con un posseduto, ma si vive l’evento profondo di una co-nascita,
di una nascita comune che realizza un fragile riconoscersi nella diversità. Nella
relazione ospitale c’è, almeno a prima vista, un ospitante e un ospitato, in un evento
che vive nell’aspettazione sacra di una possibile, perenne inversione di parti. Ma nella
relazione fra ospitante e ospitato, mentre l’ospitante appare (come ha ben osservato
Gianni Francesetti) il più radicato, l’ospitato è colui che si trova nella condizione
disagiata di un debole radicamento. Il punto di vista del debole, in quanto più vicino
alla catastrofe, è più vicino alla verità. L’esempio antico del coro nelle tragedie greche
dice quanto sia più ricca di verità la condizione di chi vive e vede a partire dalla
catastrofe comune. In questa situazione insorge, come una forza indomabile, ancora e
sempre, la pietas, ossia la percezione di quel legame incancellabile che la catastrofe
non distrugge ma resuscita. In questo senso, nel luogo umano della realizzata entropia,
in cui nulla più della vita sembra potersi trasformare ancora in vita, appare l’evento
sorprendente di una nuova energia trasformatrice. Prolungando qui la bella metafora
di Carla Xodo sul rapporto fra empatia ed entropia, possiamo dire che nel luogo umano
della massima entropia la pietas è l’evento radicale che mette in atto una possibilità
nuova di trasformazione. Gianni Francesetti osservava che nella relazione ospitale
occorre che l’ospitante si senta radicato in uno sfondo sicuro: osserveremmo qui che,
paradossalmente, forse è necessario un minimo scuotimento di questo sfondo perché
possa insorgere negli uomini quel timore virtuoso che fa zampillare il senso del
legame, la pietà. La catastrofe diventa così il luogo in cui la pietas, vincendo l’entropia,
trasforma l’apatia in empatia.
In questo orizzonte di discorso, il significato della relazione ospitale, mentre
riguarda tutti (indipendentemente dal luogo di appartenenza), mostra ancor più oggi la
sua necessità e la sua forza nel tempo che oggi chiamiamo delle “società
multietniche”. Noi diremmo che bisognerà chiamarle non “multietniche” ma
“interetniche”, perché debbono realizzarsi non per addizioni di macchie sociali
separate, ma per interazioni di mondi alla scala personale. In questo senso, possiamo
oggi dire che l’intero itinerario di Famiglia Aperta, in quanto centrato sul rapporto
educativo e interpersonale io-tu, è stato sempre radicalmente dedicato, in tutte le sue
fasi, a un modo “interetnico” di pensare e di agire.
Se dal rapporto contrastivo fra la prospettiva heideggeriana dell’essere e la
prospettiva sartriana del singolo ricaviamo l’emergere di quel “non detto” che è la
persona, possiamo ora diversamente apprezzare la stessa metafora della terra che
nella Lettera sull’«umanismo» di Heidegger viene alla luce. Come l’essere attraverso il
pensare viene al linguaggio, così l’energia del mondo attraverso l’agire fecondo
dell’uomo viene a quel linguaggio che è il lavoro e il gioco, là dove l’energia della vita si
mette in forma e viene a compimento come opera, per gli altri e per sé.
Martin Heidegger, parlando della condizione dell’uomo nella cultura
contemporanea, conclude così la sua Lettera sull’«umanismo»: «Il linguaggio è (…)il
linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. (…) il pensiero traccia
nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che, a passi
lenti, traccia nel campo il contadino»1.
Nell’attività feconda della persona si danno tre forme di verità: quella della
fecondità che produce, quella della fecondità che esprime e quella della fecondità che
rivela. Passando attraverso la metafora heideggeriana della terra seminata e attraverso
la metafora kantiana della legge morale, possiamo scoprire nel lavoro e nel gioco,
nell’attività programmata e in quella creativa, la complessa verità della persona, che
balena a tre strati: la verità dell’opera che emerge alla luce per entrare in rete con gli
altri, la verità dell’espressione di sé per essere in dialogo con la propria unicità e la
verità dello stare in ascolto del proprio cielo stellato che, dal profondo,
incessantemente si fa largo dentro di sé.
1 Martin Heidegger, Lettera sull’ «umanismo», Adelphi Edizioni S.P.A., MILANO 1995, pp. 103-104.