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DALL’IMPERIALISMO CULTURALE DI IERI
AL NEOCOLONIALISMO ODIERNO
di Vittorio Lanternari (1979)
Ieri: il colonialismo classico
L’imperialismo culturale nella sua manifestazione più classica è una forma di
etnocentrismo politicamente operante. È precisamente un etnocentrismo
divenuto ideologia o “falsa coscienza”. E un etnocentrismo che si è armato degli
strumenti organizzativi, economici, politici, militari che lo portano ad imporsi
coercitivamente su piano mondiale. Se l’etnocentrismo esiste come attitudine
generica, comune più o meno a tutti i popoli di tutti i tempi, l’imperialismoculturale, nella sua forma classica, è il prodotto di determinate società e di
precise epoche storiche e condizioni socio-economiche. Esso è quel complesso
sovrastrutturale di principi, pregiudizi, orientamenti di valore e d’azione, che,
sopra il fondo comune e pressoché universale degli etnocentrismi attitudinali e
spontanei, si sviluppò nella società moderna europea a partire dal secolo XVI e,
attraverso successive trasformazioni, ha accompagnato la storia dei Paesi occi-dentali fino a oggi, nei loro rapporti con Paesi extra-occidentali a economia
povera e tecnologia arretrata. L’imperialismo culturale è venuto fungendo, via
via, da idea-forza e da principio giustificativo delle conquiste territoriali,
dell’oppressione coloniale, dello sfruttamento neocolonialista dei popoli “altri”.
È vero, indubbiamente, che espressioni di etnocentrismo spontaneo si ritrovano
presso i popoli più vari, anche quelli a struttura economica e politica più
semplice. Ma soltanto nelle società centralizzate, classiste, a struttura
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organizzativa complessa, con modo di produzione mercantilistico o industriale,
l’etnocentrismo si sviluppa nella forma di imperialismo culturale. In origine
esso nasce come prodotto ideologico dell’espansionismo mercantile delle
nazioni europee che dal sec. XVI si spingono alla conquista dei mercati di
schiavi in Africa e congiuntamente dei mercati di prodotti locali in America.
Esso funge, in questa prima fase, da ideologia di copertura dello schiavismo;
poi, con lo sviluppo industriale dei secoli XVIIIXIX, a sua volta frutto delle
campagne schiaviste e dei profitti ottenuti per loro tramite dai commerci
transcontinentali, diventa ideologia di copertura del colonialismo e si fonde col
razzismo. Recentemente con la cosiddetta decolonizzazione, l’imperialismoculturale assume vesti meno scoperte e forme criptiche, ma non è meno
pericoloso. Esso si fa copertura ideologica del neocolonialismo mondiale.
In tutti i casi l’imperialismo culturale è il prodotto di precisi interessi
istituzionali di carattere economico-politico, che guidano le nazioni egemoni nei
loro rapporti con le nazioni “altre”. Esso agisce in modo decisivo su tali
rapporti. L’idea base, nell’imperialismo culturale, è che i popoli “altri” o simettono à la page con la civiltà occidentale o sono indegni di essere considerati
come entità rispettabili. Ovviamente à la page significa, secondo una prospettiva
a volte paternalistica e a volte clientelistica, disporsi a entrare nel circuito di
interessi economici degli occidentali, come poli produttivi passivi e subalterni,
in funzione dei profitti degli altri (Frank 1969). Perciò è implicito l’assunto che
essi rinuncino ai caratteri essenziali della loro cultura per adeguarsi al modellooccidentale, secondo un iter unidirezionale.
L’ideologia dell’imperialismo culturale ispira, promuove, giustifica (rispetto ai
suoi promotori) iniziative pragmatiche o organizzate, interventi deculturatori
d’ogni tipo e a ogni livello, sulle popolazioni in condizione di subalternità: fino
alle imprese direttamente etnocide, passate e attuali. Si pensi al caso dello
sterminio degli indios amazzonici in Brasile, per far posto alla strada
transamazzonica (Theofilo 1977).
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D’altra parte, e questo è uno dei lati più compromettenti dei processi ideologici,
le popolazioni e le classi subalterne finiscono per essere loro stesse coinvolte
automaticamente nell’orbita dell’ideologia di dominio diffusa dai gruppi
egemoni. Infatti quest’ideologia risucchia entro il suo vortice le stesse
popolazioni, etnie e società assoggettate: dal momento che, come produttrici di
materie prime e fornitrici di forza-lavoro a basso costo, entrano nel circuito
economico indotto dalle iniziative degli occidentali, le etnie assoggettate
finiscono per autopercepirsi beneficate, “protette” e per più aspetti, “inferiori”,
rispetto alle nazioni protettrici. Si instaura così, e si sviluppa in più casi, nelle
società tradizionali, quel processo, ben noto in antropologia con il nome di<<vulnerabilità culturale>> o debolezza culturale (Lanternari 1967), che
consiste in un etnocentrismo alla rovescia, per il quale si assume come modello
di riferimento positivo la civiltà esterna occidentale e si valuta negativamente
come “inferiore” la propria originaria. Questo processo, determinato dal-
l’inserimento della società nativa entro il sistema economico globale di cui è
iniziatrice e parte predominante la nazione egemone e comunque il gruppo di potere da cui dipende il rapporto, s’interrompe solo allorquando si maturi, entro
la società nativa, un opposto processo di emancipazione ideologica, oltre che
economica e politica, con l’acquisizione di una consapevolezza critica circa il
rapporto ideologia-potere.
Visto nella sua variabile configurazione storica, l’imperialismo culturale ha
dunque carattere polivalente e investe le più diverse sfere dell’esistenzacollettiva e i più diversi aspetti della cultura, nelle società che lo subiscono.
Infatti bisogna tenere presenti le diverse situazioni — nei vari casi e in tempi
storici distinti — dei rapporti fra società egemone e società dominata (rapporto
volta a volta schiavista, colonialista, neocolonialista), così come i vari tipi di
agenzie istituzionali immesse a operare entro le società dominate, dalle nazioni
e dai gruppi dominanti. Simultaneamente, oppure in tempi distinti, possono
trovarsi ad agire, secondo programmi d’imperialismo culturale più o meno
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consapevolmente o coerentemente organizzati, agenzie istituzionali, come le
amministrazioni coloniali coi relativi apparati legislativi, giudiziari, politici,
militari, polizieschi; organismi economici e industriali, coi relativi addentellati e
influssi sul piano della cultura nella sua più ampia accezione; chiese missio-
narie, con il loro corredo di organizzazioni educative, sanitarie, culturali; scuole
e personale d’istruzione; gruppi di ricerca e di studio. Si noti bene che gli
influssi modificatori e deculturatori esercitati da ciascuna di tali agenzie e da
ciascuno di questi organismi non si limitano mai del tutto a singole sfere e a
singoli aspetti della cultura nativa, ma si ripercuotono sull’intero arco della
cultura vista globalmente, anche se l’azione immediata è diretta verso una sfera particolare, per esempio del costume etico-sociale (ordinamenti giuridici delle
amministrazioni coloniali), della tecnologia e dell’economia (organismi
commerciali, imprese industriali, interventi economici delle amministrazioni
coloniali), dell’organizzazione politica e delle strutture sociali (amministrazione
coloniale), della lingua (scuole), della religione (missioni), ecc.
Certamente a livello di coscienza media nell’ambito delle società occidentali,sotto lo stimolo dei processi d’emancipazione socio-politica dei popoli ex-
coloniali afro-asiatici e dei fermenti attuali delle popolazioni latino-americane,
ormai va maturandosi una prospettiva nuova, ed antietnocentrica, nei rapporti
con le società del Terzo Mondo. E un processo di revisione critica e autocritica
di vecchi pregiudizi, che si sviluppa soprattutto a livello della cultura media e
scientifica, con esplicite denunce dei principi stessi dell’imperialismo culturalee delle forze economico-politiche che le sorreggono e le alimentano. Tuttavia è
pur vero che, contro questo processo di critica, e a dispetto di esso, esistono
gruppi di potere internazionali, i quali perseguono una politica di potenza che
implica una nuova edizione del vecchio imperialismo culturale, in forma di
neocolonialismo.
Per una rapida sintesi, guardiamo ora, anzitutto, alla fase del colonialismo
classico, per indicare alcuni dei modi e dei principali settori della cultura nei
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quali si esercitò l’imperialismo culturale dell’Occidente egemone sui popoli del
Terzo Mondo.
L’imperialismo culturale può toccare, secondo i casi, la sfera religiosa, quella
tecnologica, quella economica, quella sociale e politica, quella giuridica, quella
pedagogico-educativa, quella linguistica. Per venire a casi particolari, esempi
d’imperialismo religioso si evincono dalla storia delle conquiste e delle
missioni. I Conquistadores spagnoli di Hernan Cortés e di Francisco Pizarro
erano portatori di una precisa ideologia — diffusa dalla Chiesa al servizio della
monarchia regnante spagnola — per la quale il massacro delle genti azteche del
Messico e degli indios dell’impero incaico in Perù, nonché la distruzione dellevestigia della loro cultura era opera santa e voluta da Dio (Wachtel 1977).
L’apartheid, in vigore in Sudafrica e in Rhodesia, trovava nell’ideologia
calvinista dei Boeri, coloni bianchi del territorio, la sua matrice storica. La
soppressione forzosa di cerimonie religiose tradizionali e l’imposizione di pene
contro i trasgressori furono tratti correnti della politica culturale di molte
missioni, nei secoli scorsi, fra le popolazioni più varie dall’Americaall’Oceania. Furono le Chiese missionarie a chiedere, contro il movimento
kimbangista dell’allora Congo belga, che s’ispirava al cristianesimo in senso
autonomista, l’intervento del braccio secolare, la persecuzione dei seguaci del
culto e l’eliminazione del profeta fondatore (Lanternari 1974a). Come si vede,
l’imperialismo religioso spesso comporta iniziative politiche segregazioniste,
deculturatrici e perfino etnocide. L’evangelizzazione del Perù, come osservaWachtel, fu una vera e propria aggressione. Tutto ciò, ovviamente, appartiene al
passato. E in atto, nella Chiesa cattolica, specie dopo il Concilio Vaticano Il,
una crescente revisione dei criteri di evangelizzazione e un diverso
atteggiamento verso le culture native.
Casi eloquenti d’imperialismo tecnologico sono, ad esempio, quelli nei quali
amministratori coloniali o governi di Paesi di nuova indipendenza impongono ai
nativi, viventi in villaggi, di sostituire le tradizionali tende o capanne
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d’abitazione con case in cemento di tipo europeo. I nativi vengono a perdere,
con ciò, il ritmo della vita, l’abito partecipazionista e coesivo che legava fra loro
gli abitanti, anche territorialmente, nei sistemi tradizionali. Essi cadono spesso
in uno stato di disgregazione culturale e psicologica più o meno grave.
L’imposizione di attrezzature tecniche di tipo moderno in luogo di quelle
tradizionali ha anche indotto, più volte, reazioni disgregatrici fra le società
native, distruggendo importanti sistemi di collaborazione basati già sul principio
di reciprocità e di prestigio, sostituendo ad essi la tendenza all’individualismo
sulla base del profitto materiale e dell’accumulo privato. L’imperialismo
tecnico-economico ha introdotto i sistemi monetari, con il reclutamento dimanodopera per lavori alle dipendenze dei bianchi, il tutto in funzione di
interessi di sfruttamento economico, con conseguenze calamitose e distruttive
sulla cultura tradizionale. Perfino l’imposizione di abiti di tipo europeo per
nascondere la nudità è il frutto di un atteggiamento ciecamente etnocentrico, che
più volte — ad esempio fra gli indios amazzonici — ha indotto un tipo di vita
sordidamente innaturale, antigienico, con serie conseguenze per la salute fisicadella comunità (Ribeiro,1973).
L’imperialismo culturale nel campo propriamente economico ha svolto
un’azione gravemente distruttiva a carico dell’intero assetto etnico-sociale
comunitario su cui si basava la società tradizionale. Basti pensare
all’imposizione, nell’Africa a sud del Sahara, delle coltivazioni di cash-crops
(destinate all’industria) in sostituzione dei food-crops (di consumo domestico).Sotto il manto delle innovazioni apparentemente progressive si provvedeva
unicamente agli interessi commerciali degli Europei, sradicando il sistema di
proprietà terriera tradizionale, originariamente collettivo, introducendo una
morale individualistica, che comportava la disgregazione dei valori comunitari
ancestrali. Nè mutano le cose con la decolonizzazione, poiché il processo
deculturativo continua, troppo spesso senza elaborazione né sostituzione di
valori compensativi.
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Anche sul piano dell’organizzazione politica l’imperialismo culturale portò,
con il colonialismo, alla destrutturazione degli organismi politici tradizionali,
sostituiti da amministrazioni europee o, nel migliore dei casi, nelle colonie
britanniche, a un indirect rule, che, con l’esautoramento degli organismi politici
arcaici e la mercificazione dei ruoli dei rappresentanti politici indigeni,
parimenti condusse alla disgregazione dell’intero sistema di valori etico-
religiosi congiunto con l’organizzazione politica originaria. A tal punto si
evidenzia l’indissolubile nesso tra l’imperialismo culturale e l’imperialismo po-
litico, ed anche, per ciò che sì è detto poc’anzi, l’imperialismo economico.
L’imperialismo giuridico è stato il principio ispiratore della politica culturaleverso le popolazioni dominate, in regime coloniale, dalle amministrazioni
europee. Era normale l’impianto di un diritto europeo moderno sopra società e
culture fondate su sistemi di norme consuetudinarie locali, cariche di
connessioni con il sistema di valori etico-sociali. Modelli di comportamento
ratificati come leciti o addirittura imposti come doverosi dalle consuetudini
tradizionali erano penalizzati in base al nuovo diritto, con la conseguenza dicreare un vuoto o un dualismo giuridico caratterizzato da gravi scompensi, per
la conservazione clandestina di costumi paralegali o illegali. Il fondamento
ideologico dell’imperialismo giuridico risulta evidente fin dalla scuola del
“diritto naturale” e della cornmon law britannica. Tali sistemi di diritto si
basavano sul principio implicito che il diritto inglese, oppure quello francese, e
in genere quello europeo, «riflettesse la natura della ragione e pertanto avesseun valore conforme all’ordine naturale)), ossia un valore assoluto (Alliot 1950).
Il diritto pubblico e quello privato venivano sottratti alle norme ancestrali. Così
veniva annullato il regime fondiario legato al principio della proprietà
inalienabile e collettiva della terra, con la forzosa imposizione di una prassi
estranea alle tradizioni locali che permetteva ai colonizzatori di appropriarsi di
essa. La legge dello Stato, in regime coloniale, poteva infliggere sanzioni penali
anche gravissime per comportamenti che corrispondevano alla norma stabilita
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dalla consuetudine indigena, mentre, per converso, sottraeva alle comunità di
villaggio il diritto d’infliggere sanzioni penali.
Il conflitto tra il diritto imposto e le consuetudini tradizionali determina gravi
conseguenze. Ad esempio, le norme consuetudinarie non prevedono il principio
della prescrizione, nè quello della non retroattività dei diritti giuridici, che sono
invece basilari nel diritto occidentale. Le società tradizionali sono indotte, dalle
loro norme consuetudinarie, a una perpetua rimessa in questione di situazioni
giuridiche, che, secondo la prassi e la norma occidentali, sarebbero consacrate
come acquisite dal tempo. Così nell’Africa Nera più volte i lignaggi rivendicano
diritti di cui furono spossessati, secondo gli occidentali, quattro o cinque secoliavanti (Alliot 1950). I Mau-Mau rivendicavano il possesso delle terre loro
“sottratte” un secolo innanzi, perché gli inglesi le aveano acquisite in virtù di
una prassi difforme dalle norme native (Kenyatta 1977). Altrettanto capitò ai
Maori della Nuova Zelanda, allorché si videro defraudati delle terre ancestrali
ad opera dei Pakeha (Inglesi) nel 1865. E altrettanto è occorso agli Indiani delle
praterie in America, i quali in questi ultimi anni hanno avviato rivendicazioni diterre che un secolo innanzi furono loro sottratte dalle popolazioni di origine
europea nella loro avanzata verso l’Ovest (Graugnard, Patrouilleau 1977). Tutti
questi casi, e altri infiniti d’imperialismo giuridico, urtano, come si vede, contro
altrettanti complessi culturali globali, scalzandone le radici. Ma anche altri sono
gli aspetti dell’imperialismo culturale.
L’imperialismo culturale ha i suoi significativi risvolti nel campo pedagogico-educativo. Si può parlare, a ragione, di un vero imperialismo
pedagogico-educativo, praticato nei regimi coloniali e tuttora rilevante in molti
Paesi. Per fermarci all’Africa a sud del Sahara, l’educazione tradizionale
africana si svolge nel quadro di un’economia generalmente agraria, in una
società dove i mestieri si trasmettono di padre in figlio, dove la tecnica non è
molto evoluta e la specializzazione è artigianale. L’educazione tradizionale,
dunque, si svolge in immediato rapporto con la vita e con le esperienze concre-
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tamente vissute dal bambino e dall’adolescente. L’intimo legame con la vita ne
è una essenziale caratteristica. «Infatti sempre attraverso le azioni sociali
(produzione) e i rapporti sociali (vita familiare, manifestazioni collettive
diverse) si costruiva l’educazione del bambino e dell’adolescente)) (Moumouni
1972). Il colonialismo modificava il sistema educativo, distaccandolo dalla vita
vissuta, per imprimere all’individuo una serie di conoscenze utilizzabili, in
definitiva, per una più efficace amministrazione della colonia. «Attraverso inse-
gnanti europei nelle scuole regionali e maestri indigeni nelle scuole primarie dei
villaggi, il colonialismo mirava a produrre il personale subalterno indigeno
necessario al buon funzionamento dell’apparato amministrativo: commessi einterpreti, impiegati di commercio, infermieri sanitari, maestri e istruttori,
medici ausiliari, operai (Moumouni 1972). Mentre l’Inghilterra, con spirito
pragmatico e relativamente aperto, incoraggia l’insegnamento della lingua
locale nelle colonie, aspirando ad ottenere dagli africani un’efficiente e onesta
collaborazione, la Francia, secondo i principi dell’imperialismo culturale, tende
a diffondere la propria civiltà, il proprio “spirito”, e perciò impone l’uso el’insegnamento esclusivo del francese nei territori coloniali (Paronetto-Valier
1977). Pertanto la scuola fornisce un intero corredo di conoscenze e di pensiero
orientato in senso univocamente eurocentrico. Le conseguenze di tale processo
deculturatore si ripercuotono sul piano psico-culturale, con una vera
alienazione. Scrive l’intellettuale africano K. Balihuta (1977): <<Nelle scuole
dell’epoca coloniale gli alunni dovevano fin dalla prima elementare usare ilfrancese (nelle nostre regioni). Poi, all’uscita dalla scuola, il ragazzo tornava nel
suo ambiente usuale e vi ritrovava la lingua materna. In queste condizioni il
francese imparato a scuola restava per lui una lingua “aculturale”, alla quale non
corrispondeva alcuna cultura concreta, e la sua parola non era che uno
sproloquio senza contenuto reale. Perciò l’uso incondizionato di una lingua
straniera — soprattutto imposta — nella scuola elementare conduceva a una
alienazione culturale>>.
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Tracce di un sistema d’imperialismo pedagogico-linguistico persistono con la
decolonizzazione. L’intellettuale samoano Albert Wendt (1976) deplora che
<<il sistema educativo odierno in Oceania serve a produrre gli ingranaggi più
umili della vita sociale, cioè commessi e fattorini, insieme con pochi
professionisti, tanto per tenere in piedi l’apparato amministrativo>>. Le scuole
dei Paesi in regime di decolonizzazione preparano il processo di
proletarizzazione degli indigeni. Nelle scuole primarie africane, almeno in
alcuni casi da me osservati nel Ghana, si illustrano ai bambini dei villaggi
tabelloni con figure di vita cittadina (palazzi, traffico stradale, vigili ai crocevia,
ecc.), che non corrispondono a nessuna loro esperienza reale. Nei rapporti coloniali, come si vede, gran parte dell’educazione scolastica è
legata all’insegnamento delle lingue egemoni, e un aspetto consistente
dell’imperialismo culturale assume l’aspetto specifico dell’imperialismo
linguistico. Certamente nessuno negherebbe il valore culturale complesso
assunto dall’introduzione di lingue europee operata, a proprio vantaggio, dal
colonialismo fra le società tribali più varie. Esse fornivano a queste,indirettamente, uno strumento nuovo di comunicazione, atto ad ampliare in
senso supertribale e universalistico, gli orizzonti culturali originari. Le lingue
europee, adottate dalle società native come lingue veicolari, consentivano
d’intraprendere relazioni d’ogni tipo con altri gruppi a livelli sempre più estesi.
L’espansione di tali lingue ha avuto pertanto dei risvolti inevitabilmente
positivi, in una prospettiva storica di lungo termine. Ciò nulla toglie ai danniculturali, etico-sociali e psicologici prodotti dall’imperialismo linguistico, che
comporta una metodica opera di sradicamento violento del patrimonio
linguistico originario, mediante l’imposizione delle lingue egemoni in totale
sostituzione delle lingue vernacolari materne, fin dai primi anni di educazione
scolastica dei bambini. <<Dati i molteplici legami fra lingua e cultura>>, scrive
l’africano Balihuta, <<è normale che la scuola, almeno nei primi stadi di
formazione generale, usi le lingue native vernacolari, in modo che il bambino
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sia iniziato, attraverso la sua lingua, alla sua cultura>>, e venga rispettata
l’autenticità e l’identità culturale del gruppo nativo. Infatti nessun tratto della
cultura quanto la lingua materna raccoglie in sé il senso d’identità culturale di
un popolo. Spazzar via la lingua materna dalle scuole primarie significa fare
violenza non solo culturale, ma morale e perfino fisica alla società nativa.
Possediamo studi di antropologi, psicologi e medici che hanno preso in esame le
conseguenze di un imperialismo linguistico di tal sorta presso alcune comunità
locali in regime di subalternità. Un caso è quello degli abitanti della
Groenlandia, di lingua e cultura eschimese, che subiscono gli effetti di una
coercitiva imposizione della lingua danese da parte delle autorità governative escolastiche. Queste agiscono in conformità degli interessi dei gruppi economici
danesi, che nelle popolazioni groenlandesi riconoscono solo un’occasione di
sfruttamento per l’incentivazione dei propri affari. La norma imposta dal
governo danese in Groenlandia vuole che ai bambini eschimesi sia insegnata a
scuola, fin dai primi anni, la lingua danese, da parte di maestri che generalmente
ignorano la lingua locale e perciò sottraggono totalmente i bambini all’abitudinelinguistica da loro praticata in famiglia. Ciò viene fatto in nome della
“modernizzazione” e della salvaguardia di un “futuro rispettabile” alle comunità
native. La signora Elizabeth Cass, che ha condotto studi medici fra i bambini
che subiscono questo trattamento, ha osservato fra loro non solo un
disorientamento psichico, ma sofferenze fisiche, malattie agli occhi, come
effetti della disarticolazione del loro mondo morale e culturale più intimo legatoalla lingua materna (Lanternari 1977).
Più in generale, con riferimento ai rapporti tra lingue dominanti e lingue
indigene nei paesi ex-coloniali, bisogna rilevare che anche dopo
l’emancipazione politica e con l’avvio alla cosiddetta decolonizzazione —
penso ai Paesi dell’Africa Nera — ampi strascichi restano oggi del vecchio
colonialismo linguistico. Si può parlare in proposito di vero neocolonialismo
linguistico. Oggi l’incontro-scontro tra lingue dominanti e lingue dominate non
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investe più solamente problemi di politica educativo-scolastica a livello di
scuole primarie, ma assume un significato più generale di diversificazione e, al
limite, di opposizione di classi sociali all’interno delle società africane. Le
lingue dominanti europee, nei Paesi francofoni e anglofoni, rischiano di
diventare <<lingue esclusive>>, nel senso che esse, «per svilupparsi al di fuori
del proprio luogo d’origine, hanno bisogno di fare sotto di sé il vuoto di tutte le
lingue precedenti)) (Calvet 1977, p. 170). Ciò permette di parlare di un vero e
proprio processo di <<glottofagia)>>. In effetti è vero che <<nelle pseudo
indipendenze attuate nel quadro del neocolonialismo, il mantenimento delle
lingue dominanti diventa una necessità, dati i molteplici interessi a continuareuna dominazione economica e culturale>>. Ma la lingua dominante ormai
s’identifica sempre più con certe classi sociali che se ne sono appropriate per
loro uso, come mediatrici economiche e culturali (e in alcuni casi come
complici) dell’egemonia neocolonialista occidentale. C’è effettivamente un
«uso classista della lingua)> in Africa oggi, nel senso che «la maggioranza degli
intellettuali, a causa del colonialismo e d’una educazione da privilegiati, sivengono a trovare di fronte alla lingua dominante, alla lingua del colonizzatore,
in un rapporto di utilizzazione/profitto che rende vana ogni idea di
cambiamento)> (ivi, p. 173). Del resto tutte le élites africane «sono dalla parte
della lingua dominante, (poiché) dal punto di vista sociale la lingua è uno
strumento-chiave, conferisce poteri esorbitanti, e quanti ne traggono profitto
non hanno, ovviamente, alcuna voglia di rinunciarvi)>. E significativo in proposito che nelle ex-colonie francesi, per esempio, si accentua sempre più la
divisione di classe tra francofoni e nonfrancofoni.
Infatti le classi superiori native che avevano acquisito anche la lingua
dominante nel periodo colonialista (bilinguismo) tendono ora ad abbandonare la
lingua materna, passando a un nuovo monolinguismo neocoloniale, mentre le
classi inferiori delle città, che parlavano solo la lingua dominata materna
(monolinguismo nativo), tendono ad acquisire anche la lingua dominante
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(bilinguismo) e la popolazione rurale rimane ancorata al monolinguismo nativo
(Calvet). Non sembra un caso che in queste condizioni e nel quadro dei
movimenti di recupero dell’identità africana, alcuni gruppi comincino a
prendere coscienza che << l’ alfabetizzatone delle popolazioni è possibile e
fruttuosa solo se fatta nelle lingue africane>>. Lo riconobbe l’Unione degli
Studenti di Dakar, in un documento del 1968. Ora, quando il sociolinguista
tunisino Calvet indica nella «liberazione linguistica>> la condizione preliminare
di una vera decolonizzazione non solo in Africa, ma anche tra le minoranze
d’Europa, egli indubbiamente coglie un problema fondamentale del destino
culturale dei popoli. Egli denuncia una contraddizione stridente della politica dicerti partiti comunisti, francese e sovietico, a proposito del diritto alla libertà
linguistica delle popolazioni ex-coloniali e delle minoranze euroasiatiche.
«Rifiutare di porre la questione della sovrastruttura [la lingua]>>, scrive Calvet,
<<nel cuore stesso delle lotte di decolonizzazione equivaleva, ed equivale, a
escludere di fatto le masse popolari dalla futura società: infatti esse non
avrebbero potuto svolgere alcun ruolo, se non nella misura in cui la lingua diqueste società fosse stata la loro. La tradizionale e stantia risposta marxista,
secondo cui la lotta di classe deve avere la preminenza su tutto, non è qui...
soddisfacente. Da tempo sappiamo che in Russia una rivoluzione che si vuole
socialista non ha minimamente messo fine allo sciovinismo grande-russo,
all’oppressione morale e intellettuale, al razzismo antisemita>>. Siamo
d’accordo con questo autore, dunque, che «la priorità è alla lotta di liberazione,sulla base dell’identità culturale e in particolare linguistica», che «la liberazione
non è reale se non è totale>> e che «la lotta di liberazione nazionale deve
necessariamente integrare la lotta a livello linguistico>>. Non possiamo disco-
noscere, d’accordo anche in questo con Calvet, che la lingua da sola non può
costituire la posta in gioco di una lotta di liberazione, senza dar luogo alla
liberazione insieme economica, sociale, culturale in senso lato. Ma,
diversamente da lui, riteniamo che il problema dell’emancipazione linguistica
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non possa esser posto, senza scadere in un velleitarismo neoidealista e pur esso
sciovinista, in termini di un meccanicistico recupero delle lingue vernacolari
(“dominate”) e della loro surrogazione alle lingue dominanti, che oggi
funzionano come lingue veicolari nello sviluppo delle comunicazioni in senso
planetario. Esso anzi va posto in termini d’integrazione linguistica, favorendo
un bilinguismo fondato sull’alfabetizzazione primaria in lingua nativa e sul
successivo apprendimento della lingua veicolare dominante in ciascun Paese.
In conclusione, se si guarda alle manifestazioni del colonialismo classico
con gli strascichi d’esso in epoca contemporanea, risulta che violenza ai popoli
è stata fatta non solo con il genocidio diretto, perpetrato, come è accaduto eaccade con gli amazzonici, spargendo veleno nelle acque fluviali o mitragliando
dal cielo, con aerei, i villaggi indigeni. V’è una violenza apparentemente più
morbida, ma che ugualmente minaccia di portare alla distruzione delle culture e
dei popoli; ed è la violenza perpetrata dall’imperialismo culturale:
ossia portata dalle conseguenze culturali delle coercizioni sul piano tecnologico,
economico, giuridico, religioso, pedagogico, linguistico. Con questa violenza siattenta all’identità culturale del gruppo umano in quanto tale. La deculturazione
forzosa praticata sulle minoranze etniche e linguistiche o sulle popolazioni ex-
coloniali nel nome di motivi apparentemente filantropici, progressisti,
disinteressati, in realtà corrisponde a moventi di espansione e sfruttamento
economico da parte di gruppi economicamente e politicamente egemoni. Al di
là dei processi di trasformazione socioculturale spontaneamente avviati daqueste minoranze e popolazioni, la deculturazione coercltiva reca in sé effetti
disumanizzanti, con la distruzione dei valori etnici, culturali, sociali che ciascun
popolo e ciascuna cultura ha elaborato con la propria storia plurisecolare
(Cerulli 1977). La deculturazione forzosa condanna tali gruppi e popoli alla
perdita della propria identità (Jaulin 1972), fintantoché essi non maturino, come
in alcuni casi s’avviano a fare (si pensi ai Paesi arabi), un’autoconsapevolezza
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critica, capace di contrapporli drasticamente alle forze finora dominatrici del
neocolonialismo.
Il nostro discorso s’è fin qui riferito a situazioni di massima riguardanti il
passato d’epoca coloniale o addirittura schiavista. Ma oggi l’imperialismo
culturale trova, con il neocolonialismo, forme rinnovate e insidiose. Esso è
messo in atto, nei modi più seducenti e accattivanti, dalle multinazionali del
consumismo. E riguarda insieme il Terzo Mondo e la stessa nostra società
occidentale nelle sue stratificazioni più varie. Strumentalizzando il Terzo
Mondo come produttore di materie prime e fornitore di manodopera a basso
costo, le compagnie multinazionali impongono a quei Paesi i propri prodotti inottemperanza a una politica economica che, in ragione dei propri profitti,
introduce modifiche importanti delle culture tradizionali, perpetuando su di loro
l’antico rapporto colonialistico. In ciò esse sono agevolate dalla cooperazione,
cosciente o inconsapevole, dei regimi locali e delle locali borghesie e
burocrazie, operanti troppo sovente in funzione di profitti privati e volte
all’acquisto di un prestigio” malaccortamente identificato con i simboli delconsumismo.
Oggi: il neocolonialismo
Parlando d’imperialismo culturale oggi, mi riferisco a quel sistema di
comportamenti organizzati, da parte di nazioni capitaliste a industria avanzata,
che opera attraverso piani economico-politici di egemonia e sfruttamento nei
confronti di società economicamente più deboli e Paesi sottosviluppati.
L’egemonia s’attua attraverso due criteri complementari e congiunti:
strumentalizzando le forze produttive indigene, come fornitrici di materia prima
e forza lavoro a costi bassi controllati da fuori, come già avviene nel
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colonialismo classico, e utilizzando e incentivando le possibilità di consumo
della società nativa, che cosi trascina nel circuito del processo consumistico un
utile sbocco d’assorbimento di prodotti industriali: il tutto in funzione di un
incremento produttivo, assunto e proclamato come obiettivo e valore supremo
della civiltà industriale borghese. Il programma d’egemonia economico-politica
s’avvale d’una mobilitazione totale dei mezzi d’intervento culturale, diretti e
indiretti — norme legislative, scuole, mass-media, pubblicità, missioni, modelli
culturali viventi, forniti dalla borghesia locale, ecc. — con l’obiettivo di orien-
tare e conquistare via via ai modelli di cultura occidentale, e quindi al gusto, ai
sistemi di vita e ai prodotti connessi, la società nativa dagli strati urbanizzati aquelli rurali, dalla borghesia al proletariato fino al sottoproletariato.
Porre in luce la faccia culturale dell’imperialismo pare tanto più opportuno,
se si considera che, pur essendo essa strettamente legata alla faccia economico-
politica, non riscuote usualmente altrettanta attenzione o è addirittura giudicata
di secondaria importanza. Viceversa tra le forme d’imperialismo più note e
studiate (cioèeconomico-politiche) e quelle culturali, meno note, v’è una solidale
interpenetrazione come fra due momenti dialetticamente congiunti. L’uno d’essi
investe primariamente le “strutture”, ossia i fondamenti economico-politici della
società subalterna, l’altro la “cultura”, qui intesa come un insieme degli stili di
vita, di gusti, bisogni, valori d’una data società. Ma, come la “cultura”, nel
senso indicato, è inestricabilmente congiunta, in un’unità integrata, con la“struttura”, così l’imperialismo culturale è dissolubilmente legato a quello
economico e politico.
In effetti l’idea di un imperialismo che agisce univocamente per coercizione
politica e imposizione economica ha una sua validità storica ben delimitata.
Questo tipo d’imperialismo contraddistingue la fase del colonialismo classico,
che, come s’è detto, attraverso le amministrazioni coloniali, eventualmente
(Gran Bretagna) con il sistema dell’indirect rule, imponeva leggi e divieti,
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esigeva lavori e tributi. Ma in fase di neocolonialismo, cioè dal secondo
dopoguerra e sempre più metodicamente a partire dagli anni ‘60 con la
cosiddetta “decolonizzazione” dei Paesi afroasiatici, l’imperialismo s’avvale di
metodi di penetrazione, strumentalizzazione ed egemonia più sofisticati e sottili.
La principale novità consiste appunto nel praticare un imperialismo che
direttamente aggredisce la sfera della cultura — e non più soltanto quella
economica — introducendo nella società indigena stimoli per cambiamenti (in
realtà a vantaggio della società proponente) accortamente resi desiderabili per la
società ricevente. Se tale è il carattere dell’imperialismo in fase neocolonialista,
— esso a ben vedere non è che uno sviluppo, perfezionato e adattato alle nuoveesigenze di emancipazione politica espresse dai Paesi sottosviluppati, dello
stesso imperialismo affermatosi fin dalla fase coloniali-sta. Già in quella fase un
rapporto ben stretto esisteva tra l’azione politico-economica svolta sulla società
colonizzata e i riflessi di quell’azione nella sfera della cultura. Crisi e
disgregazione delle tradizioni, dei sistemi di vita, della logica comunitaria, in
breve della cultura già propria della società nativa, erano — come s’è visto — gli effetti più rilevanti. L’analisi dell’imperialismo culturale nelle sue differenti
manifestazioni, dunque, è non solo opportuna, ma indispensabile per intendere i
modi nei quali l’imperialismo economico e politico ha potuto e può esercitare
una propria efficacia, gli effetti da esso prodotti, i danni e i falsi vantaggi
arrecati direttamente e indirettamente da esso.
A un esame d’assieme risulta che con l’imperialismo culturale si mettono inazione simultaneamente, nella società assoggettata, due processi correlati e
interagenti. Uno parte dalla “struttura” e incide sulla cultura, l’altro, al contrario,
muove dalla “cultura” e incide sulla struttura. Con il primo s’introducono
modifiche nell’economia, tali da indurre automaticamente, in tempi più o meno
lunghi, effetti disgreganti sulla cultura tradizionale e la tendenza a innovazioni
dei bisogni, dei gusti, dei costumi, degli orientamenti di valore. Tali
innovazioni, presentate come vantaggiose alla società subalterna, in realtà
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porteranno vantaggi vistosi alla società dominante, creando, a quella nativa,
assai più scompensi e danni che utilità.
Con il secondo dei due processi, provocando modifiche alla cultura,
s’introducono trasformazioni all’interno del sistema economico. Il primo
processo consiste nel far apparire, alla società nativa, la prospettiva di vantaggi
economici come “stare meglio”, “vivere con più agi”, ecc., ottenendo
l’abbandono di tradizionali orientamenti di costumi, di vita, bisogni e valori con
l’assunzione di nuovi parametri di valore e nuovi gusti e bisogni. Con il secondo
processo la società dominante attrae e seduce la società dipendente con la
prospettiva di vantaggi squisitamente culturali non meno efficaci, come l’idea di“progredire”, “modernizzarsi”, “aggiornarsi”, “guadagnare dignità” di fronte ai
dominanti e quindi a se stessi. E la via che inocula nelle masse indigene il
desiderio di prodotti e di modi di vita che portano a scegliere nuovi sistemi
economici, la cui utilità finisce per ridondare sempre a favore dei dominanti. Il
doppio procedimento dunque consta d’un moto che va dall’economico al
culturale e d’un moto complementare che va dal culturale all’economico. Da unlato, con interventi diretti, il gruppo o la società imperialista introduce sistemi
nuovi di produzione: in agricoltura le monocolture di destinazione commerciale
per esportazione, negli ambienti urbani i commerci, la terziarizzazione e le
industrie con manodopera nativa. Ma tali innovazioni economiche portano
modificazioni a catena nella cultura tradizionale, nel sistema di bisogni, gusti,
valori. E poi a loro volta queste modificazioni culturali, secondo un processo a“spirale crescente”, inducono più estese trasformazioni nella sfera socioecono-
mica. D’altronde l’azione combinata della pubblicità, della propaganda, del
marketing, dei mass-media, della scuola, oltre all’esempio vivente della
borghesia urbana già convertita ai modelli occidentali, costituiscono altrettanti
strumenti culturali destinati a produrre progressive alterazioni nelle strutture
economiche. Per un processo continuo a spirale, dunque, il rapporto di
strumentalizzazione economica, impiantato dall’imperialismo culturale, si va
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consolidando, interamente e univocamente a vantaggio dei gruppi di potere ege-
moni.
Ora la contestualità dei due momenti dell’azione imperialista, quello diretto
alla struttura e l’altro diretto alla cultura, nonché la continuità dialettica e il
nesso di reciproca interdipendenza fra i due, trovano la propria intelligibilità in
quello che può definirsi il paradosso dell’imperialismo culturale: ossia il fatto
che i modelli culturali, gli orientamenti di gusto, i bisogni e i valori
propagandati dalla politica delle potenze egemoni occidentali sono interiorizzati
dalle società dipendenti del Terzo Mondo. Fatto sta che tali modelli agiscono
con la forza delle ideologie dominanti, nei rapporti fra gruppi egemoni e gruppidipendenti. L’ideologia borghese capitalista dei dominatori travolge così i
subordinati e li risucchia nel proprio vortice. Ciò avviene per effetto dell’alone
di superiorità con cui all’origine vengono circondati i modelli occidentali dai
loro estensori e che le stesse società indigene riconoscono, facendo propria
l’ideologia dominante, in ragione della loro forza di penetrazione, della loro
efficacia aggressiva, della sottile opera di manipolazione inconsciamente subita.Tutto ciò induce infine la società indigena, fino agli strati più emarginati e più
poveri, ad appropriarsi di quei modelli come parametri di riferimento ideali.
Così, in virtù dell’apparato ideologico che con la pubblicità e i mass-media
accompagna ogni prodotto e modello occidentale, le società native finiscono per
condividere l’ideologia di “progresso”, “modernità”, “ miglioramento” e
“felicità”, che insidiosamente cela la falsa coscienza di organismi protesi allastrumentalizzazione capitalistica dei gruppi e delle società più deboli e meglio
disposte a subire le seduzioni e i miraggi affacciati al loro orizzonte. Esse fanno
propria l’ideologia tecnologica, come ideologia messianica, salvifica, con cui
ogni miseria potrà superarsi e annullarsi. Come se dalla tecnologia occidentale
venisse non solo o non tanto una serie di strumenti utili, ma la possibilità
d’uscire una volta per sempre dalla condizione d’inveterato pauperismo. In tal
modo, per dirla con Ernesto Balducci, «la disperazione dei ceti (e dei popoli)
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oppressi si trasforma in speranza. Prima o poi — si fa strada l’idea — al
banchetto dell’opulenza ci sarebbe posto per tutti. E di fatto gli emarginati si
trasformano in consumatori» (Balducci 1979, p. 480). L’inganno del
neocolonialismo consumista strumentalizza la sete messianica dei popoli
emarginati e dei ceti più umili. E questa, contraddittoriamente, nella sua
alienazione, alimenta il sistema di simbiosi parassitaria instaurato dalle
multinazionali dominatrici.
La seduzione operata dall’ideologia tecnologica sulle società povere
ricorrendo ai più sofisticati mass-media, produce i suoi effetti. La società nativa,
sedotta e attratta, viene a trovarsi inserita, anzi irretita, nelle maglie del sistemaconsumista, nel ruolo univocamente passivo e strumentale di consumatrice. Si
sviluppa il consumo di beni via via meno coerenti con le persistenti strutture
arcaiche della società tradizionale. I nuovi beni creano nuovi bisogni a catena e
inducono un transfert del gusto verso articoli di “lusso” sempre più ricercati.
L’incoerenza e il distacco rispetto alle condizioni socio-economiche e culturali
effettive si aggrava e provoca sperperi immani a livello individuale, familiare enazionale. I danni economici e fisici, le incongruenze e le lacerazioni sul piano
etico-sociale s’accumulano. Nascono e crescono, come corollario del
commercio esterno, piccoli mercati locali di beni di consumo occidentali, con
un inconsapevole ruolo di complici della politica d’ideologizzazione promossa
dalle industrie straniere. Sono infatti sempre queste ultime, con i loro articoli
più sofisticati, con i massicci investimenti per la pubblicità, a spostare il gustoverso articoli di “prestigio” o addirittura di “lusso”, sollecitando lo sperpero con
i conseguenti squilibri.
Un esempio eloquente può essere dato dal caso — d’ampia risonanza per il
processo che seguì1 — del latte in polvere e dei biberon, propagandati da
industrie svizzere e inglesi nell’Africa Nera e in genere nel Terzo Mondo. Vale
la pena di soffermarvisi, per il significato paradigmatico ch’esso sottende. E
noto che le madri africane, secondo il costume tradizionale, praticano
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l’allattamento naturale dei bimbi per un lungo periodo, fino a due anni d’età e
anche oltre. Nelle condizioni generali di esistenza nei villaggi, e ancor più in
ambiente urbano, solo l’allattamento naturale consente una nutrizione rispettosa
delle più elementari regole igieniche e alimentari. Infatti le condizioni di vita nei
villaggi non consentono di attenersi a quei modelli igienici di tipo occidentale,
dai quali dipende la possibilità d’un corretto allattamento artificiale. Tali
condizioni sono ancora peggiori nelle città, ove soprattutto opera la pubblicità
del latte in polvere da parte delle grandi industrie multinazionali.
(NOTA) Nel 1974 la Nestié intentava un processo per diffamazione contro il gruppo dilavoro svizzero denominato <<Terzo Mondo>> per aver pubblicato la traduzione tedescadell’opuscolo Baby Killer. La Nestlé dovette ammettere la fondatezza delle accuse, rivoltelenella pubblicazione, di <<attentare ai principi dell’etica e della morale attraverso le sue attività
pubblicitarie>> e di <<utilizzare abusivamente personale infermieristico per la promozionedella vendita dei prodotti Nestlé>>. Il titolo della pubblicazione “Uccisore di bambini” fucontestato, ma si ammise tuttavia che i prodotti Nestlé provocavano effetti dannosi e ancheletali (Perrot 1979).
La Nestlé ha lanciato in Africa Nera i suoi prodotti di latte in polvere da
assumersi con biberon, corredandoli con l’istruzione di lavarsi le mani con cura,
utilizzando il sapone, a ogni preparazione del pasto. L’opuscolo Raby Killer,
redatto dall’organizzazione inglese War on Want sulla base di specifiche
ricerche scientifiche, riferisce quale sia l’ambiente medio nel quale la Nestlé
intende introdurre i suoi prodotti, facendo l’esempio del Malawi. «Il 66% delle
casalinghe della capitale non hanno acqua corrente. Il 60% non hanno cucina
all’interno dell’abitazione. E tra queste popolazioni la Nestlé vende il latte per
bambini» (p. 19). Ed ecco che cosa la ditta inglese Cow and Gate stampa
nell’opuscolo illustrativo annesso ai suoi barattoli di latte in polvere: «Mettere il
biberon e il succhiotto in una pentola con abbastanza acqua per coprirli. Portare
a ebollizione e fare bollire per 10 minuti». Baby Killer annota a tal punto:
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La grande maggioranza delle madri nell’Africa occidentale (dove operala Cow and Gate) cucinano su tre sassi che sostengono una pentolascaldata sul fuoco di legna. La pentola, che dovrebbe sterilizzare il biberon, serve per cucinare il pasto della famiglia. Sterilizzazione e
acqua bollente praticamente vengono dimenticate. Tuttavia bambini chevivono in tali condizioni saranno nutriti con latte Cow and Gate.
Del resto l’utilità delle istruzioni stampate è largamente compromessa dal
fatto che la maggior parte delle madri africane e, più in generale, del Terzo
Mondo sono analfabete. Inoltre, come osserva Dominique Perrot, pur di
impiegare il biberon, ritenuto “buono”, perché raccomandato dai bianchi, le
madri lo riempiono d’acqua tinta, non potendosi permettere l’acquisto diquantità adeguate di latte in polvere. L’impiego da parte della Nestlé di
manifesti illustrati, affissi nei dispensari sanitari, vorrebbe supplire
all’inefficacia della scrittura. La presenza di manifesti figurati nei dispensari
sortisce certamente l’effetto di una pubblicità indiretta~, quasi di una garanzia
ufficiale della bontà del prodotto, che pare raccomandato dai medici e dagli
infermieri europei. Ma una somma di fattori controproducenti fa sì chel’allattamento artificiale, nella grande maggioranza dei casi, si risolva in un
dramma. Mancanza di denaro, igiene deplorevole, assenza di utensili
indispensabili all’uso, congiurano a fare del biberon una vera arma che uccide i
bambini, apportando germi letali, epidemie e un più alto tasso di mortalità
infantile.
Tutto ciò è il frutto d’una malinterpretata ideologia di “sviluppo e progresso”annessa all’oggetto raccomandato dai bianchi. Questi nella pubblicità
aggiungono anche il richiamo astuto e ingannevole a un modernismo estetico
(<iNon sciupare il seno!»), volto a donne che procreano una media di 8-12 figli.
È il risultato di un’artificiosa propaganda portata dai potentati economici
occidentali tra i diseredati del Terzo Mondo. E una propaganda basata sulla
falsa ideologia del “prestigio”: d’un prestigio che si delinea, alla prova dei fatti,
come un deludente e fittizio compenso psicologico a una condizione di povertà
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e subalternità. L’operazione si basa nel dare in pasto come prodotto
«prestigioso, scientifico, moderno» un prodotto non accompagnato dalle
condizioni necessarie, ma irrealizzabili, per un suo impiego corretto. Eccezion
fatta per i rari casi di madri che non possono allattare, si viene a creare una
dipendenza da bisogni superflui e inappagabili, con conseguente sciupio, danno,
rovina. Anziché fungere da oggetto d’uso per soddisfare uno spontaneo bisogno,
il biberon è assunto a simbolo inerte di un benessere mitico, di una fittizia
partecipazione a un mondo di sviluppo e potenza la cui immagine vien fatta
apparire a portata di mano, nel medesimo istante in cui il contenuto
corrispondente e reale viene sottratto.I nativi africani «si trovano ad essere consumatori d’immagini e di promesse
proiettate dagli oggetti, ben più che consumatori degli oggetti in se
stessi» (Perrot 1979). Ma le multinazionali sopra questo consumo di
“immagini” costruiscono la propria prosperità economica, ossia incrementano la
produzione di oggetti, che come lanterne magiche, proiettano ancora nuove
immagini affascinanti e accendono sempre nuove promesse. La spirale procedee cresce il consumo di prodotti-feticcio: dalla cioccolata Cadbury al Lactogen,
dalla Coca Cola alle Mercedes. Rinasce e cresce, in termini enfatici, il processo
di feticizzazione delle merci, già affermatosi nella società occidentale a partire
dall’era industriale. Ancora una volta il valore d’uso dell’oggetto è scavalcato
dal suo valore di feticcio, simbolo di status. Ma nella condizione delle società
del Terzo Mondo l’aggravante, rispetto alla società borghese occidentale delsecolo scorso e di oggi, sta nell’abisso culturale, attualmente incolmabile,
esistente tra il livello della società autoctona tradizionale e quello della società a
industria avanzata esportatrice degli oggetti-feticcio. In queste condizioni lo
stesso processo di feticizzazione si attua sotto il controllo dei potentati
dell’industria occidentale, con l’effetto d’una doppia rapina. L’obiettivo è infatti
«che i Paesi non industrializzati intraprendano la via del progresso economico
attraverso l’industrializzazione: ma senza sorpassare la misura che crei e
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favorisca il sovrasviluppo dei paesi a industria avanzata» (Perrot). È dunque
favorita, dall’alto e da fuori, una crescita economica dei Paesi più deboli, entro i
limiti di un semisviluppo funzionale al supersviluppo di chi gestisce il potere.
Alla spogliazione di beni autoctoni del colonialismo classico, l’imperialismo
culturale neocolonialista aggiunge oggi l’invasione di oggetti stranieri. Così la
semplice rapina del colonialismo diventa, nel neocolonialismo, una doppia
rapina.
Come s’è visto, l’imperialismo culturale di oggi si lega storicamente e
morfologicamente a quello di ieri. È uno sviluppo di quello, connesso con la
crescita economica della società occidentale a livello neocapitalista e con losviluppo di compagnie multinazionali. Tuttavia l’imperialismo culturale
dell’epoca odierna è caratterizzato da alcuni tratti che lo contraddistinguono da
quello di ieri. Ne indi-chiamo qui alcuni che appaiono tra i più decisivi
nell’orientare i destini culturali del Terzo Mondo. Anzitutto la intermediazione
e l’azione insidiosamente peggiorativa delle borghesie indigene. Queste ultime,
eredi delle borghesie nazionali inizialmente autrici dell’emancipazione politica,hanno subito il più delle volte, e largamente, il processo involutivo che le porta
a svolgere un aperto o velato ruolo di complicità con le potenze neocolonialiste.
Il disuguale rapporto di forze con le potenze occidentali ha una parte saliente nel
determinare gli orientamenti politici e culturali di queste borghesie native. Esse
si rifanno ai modelli culturali occidentali, li assumono e interiorizzano come
loro propri e ne diventano portatrici e propagandiste presso i ceti inferiori deiloro Paesi.
Connesso con l’azione delle borghesie indigene è anche l’accettazione non
più soltanto dei modelli culturali (costumi, stili di vita, simboli, bisogni, valori)
dell’Occidente, bensì addirittura dei suoi modelli di sviluppo, orientati verso il
feticismo tecnologico. La logica del consumismo, dell’incremento produttivo,
del profitto e dell’accumulazione capitalistica viene pertanto a debellare e
sostituire la vecchia logica comunitaria delle società tradizionali africane. Con
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la mediazione delle élites dirigenti locali viene diffuso in strati sempre più vasti
lo specchietto ottimista dell’ideologia tecnologica, che accende speranze,
promuove un processo di urbanizzazione crescente e pauroso, e non fa che
ribadire, in forma consapevole o inconsapevole, la sostanziale, spietata
dominazione di chi gestisce da fuori l’intero processo di cambiamento (Strahm
1978).
L’appropriazione del modello di sviluppo occidentale comporta infatti la
crescente espansione dei centri urbani, con i corollari della disgregazione
socioculturale, dell’emarginazione, della corruzione, della criminalità. A sua
volta la crescita urbana incontrollata induce ulteriore sviluppo della borghesia parassitaria, e quindi, come in un circolo chiuso, la sempre più diffusa tendenza
ad appropriarsi del modello occidentale.
La risultanza di questi processi economico-sociali e culturali è data
dall’accrescimento a forbice delle distanze tra Paesi ricchi industrializzati e
Paesi poveri cosiddetti “in via di sviluppo”. L’aumento del prodotto nazionale
lordo, attraverso la produzione di beni esportabili a basso costo, non dàricchezze fruibili dalla società nativa sul posto: anzi costituisce la base di
scambi antieconomici, contro l’introduzione di beni che provocano emorragie di
valuta e di potenzialità produttive, immiserimento pubblico e privato.
Concorrono pesantemente a tale emorragie e immiserimento le élites borghesi
locali con massicce operazioni finanziarie di deposito di capitali “al sicuro”, in
Europa (Strahm 1978).E evidente che il modello alternativo, sul piano socio-economico e culturale,
da opporre al modello occidentale dominante nella maggior parte dei Paesi retti
da borghesie politiche o militari occidentalizzate, non può che richiamarsi
all’esigenza di originalità e al rispetto dei bisogni di società contadine. Una
limitazione all’introduzione di beni superflui, riservati soprattutto alle borghesie
occidentalizzate, un nuovo modello di sviluppo autocentrato, con una nuova
divisione del lavoro a livello mondiale (Amin 1977-78); un freno alla politica di
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sviluppo accelerato ad ogni costo; un blocco all’espansione dei centri urbani che
sono la fabbrica della borghesia parassitaria e del sottoproletariato emarginato;
l’utilizzazione delle fonti energetiche locali con imbrigliamento delle acque dei
fiumi; una politica fondata sul recupero della realtà contadina comunitaria e
della relativa cultura; una rivalutazione dei villaggi in forme socialmente
creative e innovative (si pensi all’esempio delle aldejas comunais del
Mozambico e ai villaggi ujamaa della Tanzania): tali sembrano essere le linee
lungo le quali dovrebbe volgersi la politica economica, sociale e culturale di
Paesi, nei quali peraltro il peso della dominazione occidentale ha fin qui inibito
ogni autentica possibilità di decollo (Gambino 1977).Ma condizione primaria e determinante, per tale avvio, è di sfuggire al processo
di ideologizzazione promosso dagli imperialismi economico-politici, per
orientare e condizionare la cultura, il mondo d’idee, le scelte, la mentalità dei
nativi attraverso l’intermediazione e la cooperazione della borghesia indigena
neocolonizzata e auto colonialista. La premessa dunque è di non abdicare, da
parte nativa, dalla volontà di fondare una via alternativa, ma originale.
Da: “Terzo Mondo”, XII, 37-38, 1979.
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