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Variazioni di voci Facilitare lʼitaliano L2: un percorso formativo di Alan Pona e Franca Ruolo in collaborazione con associazione El Mastaba

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Variazioni di vociFacilitare lʼitaliano L2: un percorso formativo

di Alan Pona e Franca Ruolo

in collaborazione con associazione El Mastaba

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BricioleTrimestrale del Cesvot - Centro Servizi Volontariato Toscanan. 31, Gennaio 2012Reg. Tribunale di Firenze n. 5355 del 21/07/2004

Direttore responsabileCristiana Guccinelli

RedazioneCristina Galasso

Disegni di Franca Ruolo

Prodotto realizzato nell'ambito di un sistema di gestione certificatoalle norme Iso 9001:2008 da Rina Services Spa con certificato n. 23912/04

Briciole è il nome che abbiamo dato alle pubblicazioni dedicate agli Atti dei Corsi di Formazione. I volu-mi nascono da percorsi formativi svolti per conto del Cesvot dalle associazioni di volontariato dellanostra regione i cui atti sono stati da loro stesse redatti e curati. Un modo per lasciare memoria delle migliori esperienze e per contribuire alla divulgazione delle temati-che di maggiore interesse e attualità.

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PREMESSASalah Ibrahim, presidente associazione El Mastaba

L’associazione El Mastaba nasce a Firenze nel 2003 con lo scopo di promuovere la co-noscenza e la diffusione della musica popolare egiziana. Negli anni l’associazione è cre-sciuta e ha allargato i suoi obiettivi e attività: abbiamo organizzato incontri, seminari, ini-ziative attraverso cui promuovere la conoscenza della tradizione musicale egiziana, araba e mediterranea in tutte le sue forme, ma anche laboratori di fiabe e racconti, canto e danza e poi corsi di lingua araba e di lingua italiana L2 per bambini e adulti.

Una varietà di attività tutte accumunate da un unico obiettivo: promuovere la parte-cipazione e la socialità, la crescita culturale di tutti, dei nostri soci come dell’intera comu-nità. Ma c’è di più.

L’esperienza di questi anni ci ha portato a riflettere a lungo su ‘intercultura’ e ‘integra-zione’ e sui tanti approcci ‘rassicuranti’ che vengono intrapresi da enti e istituzioni. Uno esempio fra tutti: tradurre un depliant di un qualsiasi servizio in due o tre lingue, se possibi-le con alfabeti diversi dal latino ad es. il cinese o l’arabo, e con ciò pensare “ecco, siamo una società interculturale”, quando invece quel depliant tradotto è un semplice atto dovuto che ha lo scopo di facilitare ad un cittadino non italofono l’accesso ad un servizio. Niente più di questo.

Come ci mostrano anche Alan Pona e Franca Ruolo, l’apprendimento e l’uso di una lingua L2 sono questioni assai complesse, continuamente attraversate da condizionamenti e pregiudizi. Per me e per quanti non sono italofoni, l’italiano è sì una seconda lingua ma, come dicono le leggi e l’esperienza, è la lingua che mi permette di frequentare la scuola, di lavorare, di conoscere e partecipare alla vita della città e del territorio in cui vivo.

Apprendere una lingua L2 è una questione che va ben oltre la grammatica e la sintassi perché, come ci spiegano anche gli autori di questo libro, si tratta di pratiche ‘ambigue’ che si possono trasformare in “politiche di integrazione linguistica forzata”. Altra cosa, invece, è guardare all’apprendimento e all’insegnamento della lingua L2 come alla costruzione di significati condivisi nella concretezza dello “stare insieme”, come ben sa chi opera nei servizi, nel volontariato, nell’associazionismo.

Da qui l’importanza dei facilitatori linguistici e degli insegnanti di L2, il cui lavoro è davvero efficace se tale è anche la loro formazione. Questo libro si rivolge proprio a loro: un manuale teorico e pratico che nasce sul campo e propone, capitolo dopo capitolo, un percorso multidisciplinare di formazione ma anche di consapevolezza.Fin dall’introduzione Alan Pona e Franca Ruolo ci spingono a riflettere in modo critico sul-le figure di insegnante/apprendente, sulle metodologie didattiche e sugli stereotipi che spesso ci portiamo dietro quando parliamo di lingue e culture. E ci invitano soprattutto

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Premessa

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a non dimenticare che le classi L2, come le nostre città, sono ‘pluringue’ e in quanto tali sono luoghi di incontro e scambio fra esperienze di apprendimento che vanno ben oltre le pretese del verbo insegnare. Ringrazio dunque gli autori di questo libro e tutti coloro che l’hanno reso possibile.

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INTRODUZIONE*1

Due anni di lavoro di formazione, di incontri e scontri con insegnanti e di apprendimen-ti reciproci, costituiscono il terreno su cui si basa questo lavoro. La pubblicazione di questo materiale, vissuto e mutevole, fluidamente aperto – ci è sembrato – alle contestazioni e agli apporti di tutti i partecipanti, vuole essere a sua volta una visione critica della glotto-didattica delle università, per turbarne e complicarne le certezze esibite.

La glottodidattica, quella dei manuali divulgativi e più consultati, è lontana dagli ap-prendenti, persino da quegli apprendenti europei e universitari cui dichiaratamente (e, di-remmo, con selezione classista) si rivolge. In questa sede, la convinzione che l’apprendente di italiano L2 debba apprendere la lingua e la cultura italiana, idea su cui si plasma una percentuale molto alta di materiali didattici per studenti stranieri, viene respinta perché chi studia la lingua è ridotto a mera/o rappresentante di tradizioni e folklori, immagina-ti da chi domanda e propone attività didattiche con la convinzione che siano intercul-turali. L’emergere di una terminologia relativa alla “cultura”, quella delle cose tipiche che recintano le persone, immaginandone come geograficamente connotati persino gli stili di apprendimento, è una modalità che fa assurgere a rango di scienza la chiacchiera da bar. Un’operazione pericolosa per la sua portata discriminatoria, che slitta costantemente verso lo stereotipo, e lascia ben poco spazio all’apprendente, costringendolo a percorrere strade programmate da chi si ritiene facilitatore di lingua. Questo modello di insegnante regista, maestro delle tecniche glottodidattiche, esperto di lingua e abile intuitore dei bi-sogni dell’apprendente, che prende le distanze da quell’insegnante della tradizione scola-stica, autoritario e trasmissivo, si rivela perfettamente coincidente con il vecchio modello che critica. La sua abilità consisterebbe anche nel saper usare varie tecniche glottodidatti-che, una sorta di espediente creativo tramite cui il facilitatore riuscirebbe ad alleggerire il “peso” del fare grammatica, a sviluppare le abilità dell’apprendente e a farle/gli acquisire regole, motivandola/lo e facendola/lo sentire soggetto del proprio apprendere.

Percorsi del libroOgni libro, forse sfuggendo anche alla volontà degli autori, possiede una fisicità ben

strutturata, che obbliga spesso il lettore a cominciare da una testa, l’indice, accompagnan-do il suo sguardo fino ai piedi, le conclusioni e la bibliografia di quel testo. Ci piacerebbe che a chiunque capiti tra le mani il nostro libro fosse lasciata libertà di scegliere da dove iniziare la lettura, se da pagina 1 o da pagina 100, se dalla prima o dalla seconda parte, come fosse un ipertesto soggetto agli umori e alle curiosità di chi legge. Durante questi percorsi,

* Dedichiamo questo volume ai nostri studenti, che sempre ci spiegano come va il mondo.

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Introduzione

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il lettore sarà dunque tentato probabilmente di spaziare qua e là nel testo. Lo faccia. Lo abbiamo fatto anche noi, che in fase di scrittura, pur trattando ciascuno la propria sezione, ci siamo ritrovati più volte a intrecciare discorsi e parole.

L’argomento che trattiamo, l’apprendimento dell’italiano L2 nella classe plurilingue, si coniuga in modo proficuo all’osservazione sul campo, dove l’osservatore e l’osservato mu-tano reciprocamente il loro sguardo, secondo ottiche pluriprospettiche. Ecco perché, nella prima parte del testo, la presenza di schemi, frutto della ricerca di linguistica applicata, deve essere solo uno strumento guida che non cerchi mai di ridurre la particolarità dell’ap-prendente alle generalizzazioni da laboratorio. Ed ecco anche perché, nella seconda parte, risulta inevitabile una critica alla glottodidattica, che estrapolando da discipline scientifi-che, spesso, a nostro avviso, ha edificato discorsi sulla lingua, sulle relazioni e sulla cultu-ra, evidentemente pseudo-scientifici. Ci riferiamo, ad esempio, ad affermazioni smentite dalla linguistica, dall’antropologia, dalla pedagogia, discipline alle quali attingiamo diret-tamente e che presentiamo nel testo, corroborate dall’esperienza umana e professionale. In altre parole, come dice Leonardo Piasere, “l’esperienza per immersione ‘ti salva’ dagli accessi delle ipotesi deduttive, per lasciare ampio spazio di manovra all’empiria induttiva del quotidiano”.

Destinatari del volumeL’obiettivo di questo volume è quello di fornire uno strumento di riflessività a inse-

gnanti, facilitatori linguistici e operatori sociali (di cooperative sociali e associazioni di volontariato) sui discorsi che ruotano intorno alle cosiddette “politiche di accoglienza”. L’insegnamento dell’italiano L2 ha rappresentato e rappresenta, infatti, uno spazio di prati-ca ambigua, in cui poco ci si interroga sul pericolo che le retoriche dei discorsi sulle diffe-renze culturali si trasformino, come afferma Antonio Buttitta, in “politiche di integrazione linguistica forzata” e in pratiche marginalizzanti. A nostro avviso, la classe e il gruppo di italiano L2, è principalmente luogo in cui l’insegnante e gli apprendenti possono diventare co-costruttori di significati condivisi e contrapporre all’immaginario socialmente e politi-camente costruito la concretezza dello “stare insieme”. Si tratta, per l’operatore volonta-rio, come per l’insegnante, non solo di possedere competenze su come si acquisisce una lingua seconda e di adottare un approccio etnografico per muoversi nella complessità del cosiddetto incontro interculturale; ma più in generale di sperimentare che la classe può essere un luogo privilegiato per l’insegnante per riflettere sul fatto che, come sostiene Paul Ricœr, “la scoperta della plurità delle culture non è mai un esercizio inoffensivo”. Speriamo pertanto, con questo nostro lavoro, insieme a tutti i colleghi cui il volume si rivolge e grazie ai nostri e ai loro apprendenti, di poter contribuire a creare una pratica dei contro-discorsi, come progetto connesso ad una pratica etica e politica.

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PARTE PRIMA

L’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua secondaRicadute didattiche nella classe plurilingue

di Alan Pona

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CAPITOLO ITerminologia introduttiva

1. Laboratorio

Qual è il significato delle seguenti parole ed espressioni? Perché si trovano in opposizione?

Imparare/acquisire

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Facilitatore linguistico/insegnante, docente, ecc.

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Capitolo I -Terminologia introduttiva

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Facilitatore linguistico/mediatore linguistico-culturale

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Apprendente/studente

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Lingua materna (L1)/Lingua seconda (L2)/Lingua straniera (Ls)

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Approccio deduttivo/induttivo nella didattica delle lingue

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Capitolo I -Terminologia introduttiva

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Ecco una breve definizione dei termini che useremo nel nostro percorso labo-ratoriale: imparare ed acquisire, lingua seconda (L2) e lingua straniera (Ls). Daremo, inoltre, una definizione anche dei termini insegnante/facilitatore linguistico ed ap-prendente1, confrontandoli con i più noti insegnante e studente.

La prima coppia di termini fa riferimento al primo “postulato” krasheniano2 (le-arning vs. acquisition3), che specifica la differenza sostanziale tra i due processi: il primo è un processo consapevole che mette in gioco memorie dichiarative4 e co-noscenze esplicite; il secondo è un processo subconscio che mette in gioco so-prattutto memorie non dichiarative (tra queste, memorie di tipo procedurale5) e conoscenze implicite a lungo termine6. Risulta interessante, a questo proposito, la definizione di Stefano Rastelli dei diversi “domini” che caratterizzano il processo di apprendimento/acquisizione della seconda lingua7:

gli esiti del processo di acquisizione della seconda lingua sono ascrivibili a tre domini nettamente separati: quello del “sapere”, del “saper fare”, e infine del “conoscere” la seconda lingua. Dal punto di vista del cervello che apprende, esistono – e fino ad un certo punto hanno una vita anche indipendente – una competenza (rappresentazioni grammaticali e stati-stiche), una capacità (processing) e infine anche una conoscenza (metalin-guistica) della seconda lingua. (Nuzzo-Rastelli 2011: 43)

Questa distinzione terminologica riprende la dicotomia chomskyana tra know e cognize, tra conoscenza linguistica implicita ed esplicita. Lo stesso Krashen definisce i due processi anche “conscious and subconscious language development” (Dulay-

1 Si veda Masciello (2009 [2006]) per una definizione dei termini in questione. 2 Si rimanda al capitolo 3 sull’acquisizione delle lingue seconde per una puntuale trattazione della proposta di

Stephen Krashen.3 In Italia, si è tradotto learning con ‘apprendimento’. Noi preferiamo, per chiarezza e per risolvere alcune

ambiguità derivanti dall’uso del termine apprendente, tradurre in questa sede learning con ‘imparare’. Per un approfondimento dei motivi della nostra scelta, rimandiamo alla nota 15, più avanti.

4 L’espressione memoria dichiarativa rimanda alla possibilità di recupero verbale consapevole dei contenuti della memoria stessa.

5 Le memorie di tipo procedurale corrispondono a quelle conoscenze acquisite in modo inconsapevole e che permettono di eseguire procedure in modo automatico.

6 Per un approfondimento del rapporto tra memorie e linguaggio si vedano, tra gli altri, Aglioti-Fabbro (2006), Fabbro (2004) e Marini (2008).

7 Per quanto riguarda il ruolo delle memorie nell’acquisizione della L1, riportiamo, qui di seguito, quanto scritto da Marini (2008), che, rifacendosi agli studi di Franco Fabbro, sostiene: “si ritiene che nel corso del suo sviluppo cognitivo […] il bambino acquisisca le competenze morfosintattiche e sintattiche in modo inconsapevole grazie al sistema della memoria procedurale, e le competenze semantico-lessicali in modo consapevole facendo ricorso alla propria memoria dichiarativa” (Marini 2008: 99).

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Burt-Krashen 1982: 11). Per Krashen la differenza tra i due processi è così netta che non ci sarebbe collegamento tra i due né passaggio dal livello di conoscenza conscia a quello di conoscenza inconscia.

Veniamo adesso alle altre coppie terminologiche dell’attività laboratoriale di cui sopra. L’attenzione che poniamo alle nozioni di apprendimento (inteso come il pro-cesso dell’imparare) e di acquisizione ci permette di rivedere i termini insegnante e studente e di scegliere, all’interno del nostro lavoro, i termini insegnante/facilita-tore linguistico ed apprendente, convinti come siamo che debba essere rivisto ogni tipo di approccio/metodo glottodidattico che si incentri sulla figura dell’insegnan-te come protagonista indiscusso di un processo di insegnamento/apprendimento inteso come trasmissione di conoscenza. Come sostiene Anna Ciliberti,

in approcci che si focalizzano sulla comunicazione e che adottano una pe-dagogia non direttiva, compito dell’insegnante non è tanto quello di “inse-gnare” quanto quello di rendere l’apprendimento possibile. La sua funzione di guida e di consulente prevede che gli allievi assumano un ruolo attivo, siano responsabili ad autonomi, partecipi, capaci di programmazione e di au-tovalutazione. L’insegnamento diviene così di tipo dialogico e bidirezionale; l’insegnante diviene un animatore, un catalizzatore, un facilitatore dell’ap-prendimento e organizzatore delle risorse, e diviene egli stesso un discente. (Ciliberti 1994: 200)

Per quanto concerne la distinzione tra lingua seconda (L2) e lingua straniera (Ls), riprendiamo le definizioni in Faso-Pona (2011):

si parla di L2 quando l’apprendimento della lingua non materna avviene in un contesto situazionale nel quale essa venga utilizzata come lingua di comuni-cazione quotidiana (per esempio l’italiano appreso in Italia attraverso i nor-mali scambi comunicativi quotidiani); si parla, invece, di LS (lingua straniera) quando l’apprendimento avviene in un contesto situazionale nel quale essa non sia presente se non in contesti di apprendimento guidato (per esempio l’italiano appreso all’estero in una scuola di lingua, o l’inglese appreso nelle scuole in Italia).

Nel presente volume useremo entrambe le accezioni di lingua seconda: spesso, però, ci avvarremo del termine generico di lingua seconda per indicare sia la lingua se-conda vera e propria sia la lingua straniera, laddove non indicato diversamente, perché siamo convinti che non esista una netta differenza per quanto concerne i meccanismi inconsci che sottostanno al processo di acquisizione. Le differenze, quando presenti,

Capitolo I -Terminologia introduttiva

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si fanno più forti laddove si voglia parlare di questioni relative alla glottodidattica. Passiamo adesso ad una possibile definizione di approccio induttivo nei processi

di apprendimento. Attraverso l'approccio induttivo, l'insegnante ha il compito di stimolare l'apprendente a formulare ipotesi sull'oggetto della conoscenza. Le ipo-tesi formulate non sono da considerarsi errori, ma indicano che l'apprendente sta riflettendo in modo coerente sul proprio modo di appropriarsi alla realtà che sta studiando. Grazie a questa competenza, l'apprendente costruisce/de-costruisce le proprie ipotesi e ne riformula di nuove. L'approccio induttivo si rivela uno stru-mento efficace nel processo di apprendimento poiché lontano dall'idea che vi sia un sapere trasmesso dall'insegnante agli apprendenti, secondo la vecchia immagine che concepirebbe le teste degli apprendenti come imbuti in cui versare contenuti nozionistici. L'insegnante è dunque colei o colui che crea possibilità per l'interazio-ne in classe: si impara se, vivendo insieme agli altri, si accetta l'esistenza di differenti interpretazioni della realtà prodotte da ciascun individuo. In tal senso, l'induzio-ne è un approccio che stimola l'impiego di una didattica conversazionale (cfr. Freire 2004, Perticari (a cura di) 2005 [1996]) e induce ad accogliere una visione pluripro-spettica del mondo.

Tutte queste etichette descrittive che si usano per comprendere le specifiche situazioni di insegnamento/apprendimento delle lingue potrebbero far pensare a situazioni dai confini netti. In realtà, come puntualizza Rosa Pugliese,

costruire una tipologia delle diverse situazioni di apprendimento formale delle lingue risponde allo scopo di comprenderle nella loro specificità, di-stinguendole l’una in rapporto all’altra, ma anche descrivendone le interrela-zioni, approfondendo lo spazio intermedio in cui situazioni distinte possono sovrapporsi, senza tuttavia perdere di vista l’insieme, vale a dire il lor essere componenti di una più estesa categoria: gli apprendimenti linguistici. Non si tratta, quindi, di tracciare contorni netti e definiti, quanto di puntualizzare gli aspetti di distanza, di contiguità e di intersezione tra le varie situazioni. (Pugliese 2003: 25)

Dietro ogni comoda etichetta ed ogni acronimo accademico si nasconde una realtà più complessa e dai contorni più sfocati. Scopo del presente volume è anche quello di facilitare il rapporto di comunicazione tra ricerca accademica e prassi di-dattica, riportare quindi le “scoperte” accademiche in ambito di pedagogia linguisti-ca, linguistica teorica ed applicata e glottodidattica alla dimensione della classe per favorire quell’insegnamento riflessivo che ci auguriamo possa caratterizzare sempre di più la scuola italiana.

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CAPITOLO IIIl linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.

(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)

1. Laboratorio

Che cosa è il linguaggio? Come si apprende?

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Quali sono le varietà dell’italiano? Che cosa è la varietà standard? Che cosa sono i dialetti?

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Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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2. La variazione diafasica, diastratica e diamesicaLABORATORIO

Fare i giusti abbinamenti8

VARIETÀContenuto da trasmettere:

“dire a qualcuno che non si può andare da lui”.

1 ITALIANO FORMALE AULICO ATrasmettiamo a Lei destinatario l’informazione che la venuta di chi sta parlando non avrà luogo.

2 ITALIANO TECNICO-SCIENTIFICO B Le dico che non possiamo venire.

3 ITALIANO BUROCRATICO C Sa, non possiamo venire.

4 ITALIANO STANDARD LETTERARIO D Mica possiam venire, eh.

5 ITALIANO NEO-STANDARD E La informo che non potremo venire.

6 ITALIANO PARLATO COLLOQUIALE F

Mi pregio informarLa che la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile.

7 ITALIANO POPOLARE G Ehi, apri ‘ste orecchie, col cavolo che ci si trasborda.

8 ITALIANO INFORMALE TRASCURATO H Ci dico che non potiamo venire.

9 ITALIANO GERGALE IVogliate prendere atto dell’impossibilità della venuta dei sottoscritti.

Risposte: __________________________________________________________________

8 Liberamente tratto da: Berruto, G. (1993), Le varietà del repertorio, in Sobrero A. A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma-Bari, Laterza.

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Qui di seguito, liberamente tratto da Berruto (1998 [1987]: 21), presentiamo lo schema della gamma di varietà dell’italiano contemporaneo. Tuttavia tale schema, come precisa Gaetano Berruto,

va preso con molta cautela, giacché […] sarebbe in linea di principio impossibile ridurre a una rappresentazione grafica necessariamente bidimensionale una fenomenologia essen-zialmente pluridimensionale. (Berruto 1987: 20)

I tre assi di variazione:- Asse diamesico: dal polo scritto scritto (a sinistra) al polo parlato parlato (a

destra);

- Asse diastratico: dal polo alto (in alto) al polo basso (in basso);

- Asse diafasico: dal polo formale-formalizzato (in alto a sinistra) al polo in-formale (in basso a destra).

Come si precisa in Berruto (1998 [1987]), occorre “evitare di mescolare le dimen-sioni di variazione, e nello stesso tempo tenere, e dar, conto del fatto che esse si intersecano” (ibid.).

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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(PERIFERIA)

(PERIFERIA)

7. it. formale aulico

8. it. tecnico - scientifico

(CENTRO)

......

9. burocratico

1. it. standard letterario

(Asse diamesico)

3. it. parlato colloquiale

(Asse diafasico):(Sottocodici Registri)

4. it. regionale popolare

(Sub-standardità)

5. it. informale trascurato

6. it. gergale(Asse diastratico)

2. it. neo-standard(= it. regionale colto medio)

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(tratto da Berruto 1998 [1987]: 21)

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3. Leggendo Noi la farem vendetta di Paolo Nori9

LABORATORIO

Leggere i periodi che seguono: come possiamo descriverli dal punto di vista linguistico?10

Allora mi è venuto da pensare una cosa che ultimamente ogni tanto mi vien da pensarla [...]descrizione:

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Dopo qualche anno mi sono accorto che a me, l’automobilismo, mi fa venir sonno. descrizione:

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[...] Come in generale i turisti in tutte le parti del mondo dove ci vanno a dare fastidio.descrizione:

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Cosa vuoi che sappiano la televisione di Roma quel che succede a Parma. descrizione:

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9 Paolo Nori, Noi la farem vendetta, Feltrinelli, Milano 2006.10 Per una discussione dettagliata delle caratteristiche linguistiche dell’italiano spontaneo, si veda il paragrafo 6,

più avanti.

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Io adesso, non solo Reggio Emilia, io non sono mai andato nel Museo Morandi [...]descrizione:___________________________________________________________________

[...] Per me io ho un rispetto, di Niccolò dell’Arca, che prima non ce l’avevo. descrizione:

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[...] Non è un lavoro che si procede dal certo verso l’incerto [...] descrizione:

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L’impero austroungarico una delle sue caratteristiche che durante la settimana gli uomini andavano al bar [...] descrizione:

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Cioè praticamente questo libro vien fuori per via che nel nuovo millennio postim-pero austroungarico che ci siamo dentro [...] descrizione:

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[...] E gli ho chiesto ma cosa è successo, davvero, nel 1960, a Reggio Emilia? descrizione: _______________________________________________________________

[...] Per lui era come se era una cosa che era successa in Sud America [...] descrizione:

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[...] Gli avevo detto io a Al’bin e lui No no, mi aveva detto [...] descrizione:

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[...] La piazza dei commerci un po’ equivoci di San Pietroburgo che c’è in tanti romanzi di Dostoevskij che adesso ci han messo un arredamento urbano che sembra una pizzeria [...] descrizione:

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[...] Il momento che uno legge [...] È un momento che magari nel mondo non succe-de niente di speciale [...] descrizione:

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[...] Però quello lì è un libro che se lo leggi nel momento buono, non so come dire. descrizione:

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[...] Ah, non si dimentica queste cose [...] descrizione:

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[...] Bei tranquilli descrizione:

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[...] Le hanno prese, sode, la polizia descrizione:

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[...] saltavamo il muro dell’ospedale, non si trovava uscite da scappare [...] descrizione:

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Grande cultore delle scritture dei semicolti

L’italiano popolare è stato anche definito l’ “italiano dei semi-colti” perché sarebbe usato dalle fasce meno istruite della po-polazione accanto al dialetto e presenta quindi forti caratteri regionali. Si è parlato – e si continua a parlare – di “semplifi-cazione” rispetto all’italiano standard o normativo: da questo deriva una forte censura sociale applicata a chi è parlante na-tivo di queste varietà linguistiche.

Il nostro punto di vista sull’italiano popolare ribalta questa prospettiva:

- non vediamo la lingua standard come modello, né la usiamo come continuo riferimento per sanzionare le altre varietà lin-guistiche;

- osserviamo le caratteristiche linguistiche di queste lingue come possibilità formali offerte dalla nostra dotazione ge-netica: una forma non è mai, dal punto di vista linguistico, migliore rispetto a un’altra; semmai esistono convenzioni che danno maggiore prestigio ad una forma a danno di un’altra;

- riteniamo che occorra essere capaci di alternare le diverse varietà linguistiche nelle varie situazioni concrete di uso della lingua.

Quello che viene frequentemente definito come tratto “sem-plificato” dell’italiano popolare (e delle varietà d’apprendi-mento di italiano L2) compare in altri sistemi linguistici adulti, spesso persino standard: da questo l’inadeguatezza dell’uso del termine “semplificazione” e la nostra propensione verso analisi che tentino una descrizione e, se possibile una spiega-zione, delle scelte formali “altre”. (Masciello-Pona 2010)

Sarebbe utile, a questo punto, avviare una riflessione sulle varietà dell’italiano (italiano standard o normativo, italiano neostandard o dell’uso medio, italiano re-gionale, italiano popolare o dei semicolti) e sulle caratteristiche che lo standard impone alla lingua dei propri parlanti nativi.

Le varietà normative tendono a incamerare riflessioni di tipo logico, che poco

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hanno a che vedere con la lingua come sistema umano innato autonomo prodotto della facoltà del linguaggio. Non solo, le varietà standard tendono a caratterizzarsi come prodotti storici in cui la componente sociale interviene in modo massiccio su libere scelte linguistiche.

Il guaio l’hanno fatto, temporibus illis, un purismo intransi-gente e una grammatica logicizzante, che hanno ingenerato la convinzione che la norma sia un logos astratto, metafisi-co, calato in un catechismo grammaticale, mentre la norma è dentro i testi degli scrittori e i discorsi dei parlanti e spesso si offre a loro come un fascio di possibilità alterne, di scelte, ed essi possono più o meno consapevolmente, nel corso del tempo e nel mutare di certe condizioni, confermarla o modi-ficarla. (Nencioni 1985: 227)

A questo proposito, soccorre la riflessione di Laura Vanelli sulle lingue standard:

in italiano [...] le tendenze evolutive spontanee sono state parzialmente bloccate da un processo di normalizzazione, di cui la tradizione delle grammatiche normative e puriste si è fatta interprete. La volontà di fissare la lingua a uno stato particolare e definito ha avuto talvolta come esito quello di reprimere le tendenze innovative. Questa attitudine norma-lizzatrice è stata tanto più incisiva quanto più la lingua cui si è applicata non è stata per molto tempo una lingua praticata come lingua nativa ad ampio raggio. Ma a questa constata-zione se ne deve aggiungere un’altra: se è vero che l’evolu-zione della lingua può essere in qualche modo controllata o rallentata, è anche vero che le tendenze innovative, anche se combattute, non possono essere represse completamente o per sempre: resta comunque nella lingua il segno di contrad-dizione non risolta tra gli esiti imposti dalla norma e gli esiti spontanei. (Vanelli 1999: 111)

Abbiamo visto come quelli che ho chiamato “punti di cri-si” nell’italiano contemporaneo siano il risultato di un’evo-luzione della nostra lingua che non ha avuto un percorso lineare, accompagnato da quei processi di cambiamento spontaneo che scandiscono la trasformazione delle lingue.

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Conosciamo la causa di questa evoluzione parzialmen-te anomala: l’italiano è nato e si è diffuso per secoli piut-tosto come “progetto” di lingua che come lingua effettiva, con la conseguenza che a forgiarne la fisionomia sono sta-ti non tanto i veri utenti, i parlanti, quanto piuttosto i suoi “promotori”, i grammatici, che hanno assunto e promos-so un modello sostanzialmente purista di lingua d’autore. Gli effetti di questo atteggiamento si sono affievoliti da quando l’italiano, e ormai è passato più di un secolo, è di-ventato una lingua come le altre, una lingua parlata da un’in-tera comunità che la trasmette alla generazione successiva come lingua nativa. Ma tracce del suo passato si sono sedi-mentate nel suo sistema [...] Si tratta di elementi residuali che, dal momento che provengono da una fase superata che possedeva un sistema diverso, hanno difficoltà a integrar-si nelle strutture grammaticali vigenti: d’altra parte sono elementi che hanno il prestigio che viene dalla tradizione e, come tali, vengono tuttora conservati e salvaguardati. Ma la possibilità di conservare queste forme ha un suo limi-te nel loro statuto ambiguo e perciò più debole all’interno del sistema, e nella presenza di forme concorrenti al contra-rio ben integrate nel sistema stesso. La soluzione adottata è quella per cui [...] le forme in conflitto si distribuiscono tra registri diversi di lingua, con gli elementi meno stabili che sono riservati alla varietà scritta della lingua e ai registri più formali del parlato. Si tratta di varietà di lingua che, in quan-to permettono per le loro proprietà intrinseche di esercitare un maggior controllo sulla produzione linguistica, accedono più lentamente ai cambiamenti linguistici e si propongono perciò come espressione di fasi linguistiche più conservative e tradizionali. (ivi: 118-119)

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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4. Fiore di maggio

LABORATORIO

Ascoltare la canzone di Fabio Concato “Fiore di maggio” (1994) ed individuare nel testo audio possibili deviazioni dalla norma linguistica dell’italiano standard.

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Fiore di maggio Fabio Concato (1994)

Tu che sei nata dove c’è sempre il sole sopra uno scoglio che ci si può tuffare e quel sole ce l’hai dentro al cuore sole di primavera su quello scoglio in maggio è nato un fiore. E ti ricordi c’era il paese in festa tutti ubriachi di canzoni e di allegria e pensavo che su quella sabbia forse sei nata tu o a casa di mio fratello non ricordo più. E ci hai visto su dal cielo ci hai trovato e piano sei venuta giù un passaggio da un gabbiano ti ha posata su uno scoglio ed eri tu. Ma che bel sogno era maggio e c’era caldo noi sulla spiaggia vuota ad aspettare e tu che mi dicevi guarda su quel gabbiano stammi vicino e tienimi la mano. E ci hai visto su dal cielo ci hai trovato e piano sei venuta giù un passaggio da un gabbiano ti ha posata su uno scoglio ed eri tu. Tu che sei nata dove c’è sempre il sole sopra uno scoglio che ci si può tuffare e quel sole ce l’hai dentro al cuore sole di primavera su quello scoglio in maggio nasce un fiore.

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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5. La sintassi della frase

LABORATORIO

Immaginare che gli enunciati a destra siano risposte a possibili domande. Quali po-trebbero essere queste domande?

Franca gli ha dato una caramella, a Guido.

Guido, Franca gli ha dato una caramella.

A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).

A Guido, Franca gli ha dato una caramella.

Franca ha dato una caramella a Guido.

È a Guido che Franca ha dato una caramella.

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LABORATORIO

Fare i giusti abbinamenti

1 Ordine basico SVO A Guido, Franca deve comprare altre caramelle.

2Dislocazione a sinistra

con tematizzazioneB Franca gli ha dato una caramella, a Guido.

3Dislocazione a destra

con tematizzazioneC Guido, Franca gli ha dato una caramella.

4 Frase scissa D A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).

5 Frase a tema sospeso E A Guido, Franca gli ha dato una caramella.

6 Frase a tema libero F Franca ha dato una caramella a Guido.

7 Topicalizzazione/Focus contrastivo G È a Guido che Franca ha dato una caramella.

Risposte: ___________________________________________________________

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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LABORATORIO

Usando le parole in ordine sparso, qui di seguito, rispondere alla domanda: che cosa è successo?

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I ARRIVATI

NONNI SONO

2.

HAEDOARDO

LETTO MAIL

UNA

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Ordini diversi delle parole portano a diversi usi degli enunciati.Solo l’enunciato Sono arrivati i nonni presenta l’evento come tutto “nuovo”. Se

abbiamo ordinato le parole a formare I nonni sono arrivati, può darsi il caso che gia si aspettassero i nonni e che alla fine essi siano arrivati.

L’ordine della frase non marcata si caratterizza, generalmente, per una coinci-denza dei tratti sintattico, semantico e pragmatico: si ha, generalmente, soggetto-tema11-dato alla sinistra e predicato-rema12-nuovo alla fine.

Esempio. Franca ha dato una caramella a Guido.

In realtà, la situazione è più complessa. Proviamo a riassumerla. Per quanto ri-guarda la posizione del soggetto sintattico, esso nella frase non marcata, cioè che si adatta ad un numero maggiore di contesti di discorso, si trova in posizione pre-verbale con i verbi transitivi (es. Edoardo ha letto una mail [nuovo]) e in posizione post-verbale con i verbi inaccusativi (quelli con ausiliare essere) (es. È caduta la torre [nuovo]) e con alcuni verbi intransitivi (es. Ha telefonato Francesco [nuovo]).

Esempi. VERBI TRANSITIVI: leggere.Che cosa ha letto Edoardo? Edoardo ha letto [dato] una mail [nuovo]Che cosa ha fatto Edoardo? Edoardo [dato] ha letto una mail [nuovo]Che cosa è successo? Edoardo ha letto una mail [nuovo]

VERBI INACCUSATIVI (ausiliare “essere”): cadereChe cosa è successo alla torre? La torre [dato] è caduta [nuovo]Che cosa è successo? È caduta la torre [nuovo]

Presentiamo qui di seguito le frasi con ordine marcato: la dislocazione a sinistra, il tema sospeso, il tema libero, la dislocazione a destra, la topicalizzazione ed infine la frase scissa.

La dislocazione a sinistra presenta un elemento dato tematizzato (tema = ciò di cui si parla) alla sinistra della frase. Il costituente dislocato presenta una connessione sintattica con il resto della frase: la preposizione e/o il pronome clitico di ripresa.

Esempio. A Guido, Franca gli ha dato una caramella.

11 Il tema, nella grammatica del discorso, è ciò di cui si parla, l’argomento dell’enunciato, o meglio ancora l’informazione accessoria che facilita la comprensione del rema. Il tema tende a trovarsi alla sinistra degli enunciati. Esempio. I nonni sono arrivati.

12 Il rema, nella grammatica del discorso, è quella parte dell’enunciato che ne realizza lo scopo informativo. Il rema tende a trovarsi alla destra degli enunciati. Esempio. I nonni sono arrivati.

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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I costituenti dislocati possono essere pronunciati con una pausa intonativa dal resto della frase. La virgola serve ad indicare tale pausa.

La dislocazione a sinistra prende il posto, nel parlato spontaneo, delle costruzio-ni passive, tipiche di registri più formali della lingua: entrambe le strutture permet-tono, infatti, di spostare in prima posizione elementi diversi dal soggetto.

Esempio. I ragazzi hanno rotto la finestra. La finestra è stata rotta dai ragazzi. La finestra, l’hanno rotta i ragazzi.

Il tema sospeso presenta caratteristiche simili alla dislocazione a sinistra, soprat-tutto relativamente alla sua funzione pragmatica di tematizzazione, ma ha caratteri-stiche sintattiche diverse: il tema sospeso non si accompagna agli indicatori sintatti-ci (le eventuali preposizioni) e richiede necessariamente una ripresa (generalmente, un pronome clitico).

Esempio. Guido, Franca gli ha dato una caramella.

In presenza di tematizzazione di soggetto od oggetto, è difficile distinguere la dislocazione a sinistra dal tema sospeso: i costituenti dislocati non sono, infatti, accompagnati da alcuna preposizione perché non lo sono neanche nella posizione occupata nella corrispondente frase non marcata.

Esempi. Guido, ama Franca. Franca, Guido la ama molto.

Il tema libero prevede elementi alla sinistra della frase non legati sintatticamen-te al resto della medesima. Sarà il contesto linguistico ed extralinguistico ed il siste-ma di conoscenze dell’ascoltatore (nonché lo “spazio” comunicativo condiviso da parlante/ascoltatore) a permettere la decodifica e la comprensione del messaggio.

Esempio. Guido, Franca deve comprare altre caramelle.

La dislocazione a destra presenta costituenti dislocati alla fine della frase che si riferiscono a qualcosa ritenuto dal parlante dato come tema del discorso. Anche in questo caso la funzione pragmatica di questo ordine marcato è la tematizzazione di alcuni elementi della frase.

Esempio. Franca gli ha dato una caramella, a Guido.

Accanto a questi usi della dislocazione a destra, ne esistono altri in cui la frase non è marcata né dal punto di vista sintattico né da quello pragmatico. In questi

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casi, il pronome atono anticipa l’oggetto dislocato e funge da marca di accordo e la frase è pronunciata come gruppo tonale unico senza una pausa che preceda l’ele-mento dislocato.

Esempio. Lo vuoi un bacino?

La topicalizzazione pone un costituente alla sinistra della frase, non come te-ma-dato ma come elemento nuovo. Per la topicalizzazione, si parla generalmente di focus contrastivo perché il rilievo del costituente dislocato implicitamente od esplicitamente richiama il contrasto. Per indicare il focus, si usa convenzionalmente il maiuscolo.

Esempio. A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).

La frase scissa si costruisce tipicamente attraverso strutture del tipo è x che (op-pure con una preposizione è a x che…, ecc.) ed ha la funzione pragmatica di mettere in rilievo o enfatizzare un elemento della frase anche in termini di contrasto più o meno esplicito.

Esempio. È a Guido che Franca ha dato una caramella.

Le frasi con ordine marcato vengono da molti considerate caratteristiche del linguaggio popolare, a livello diastratico, o tipiche di contesti molto informali lega-ti alla oralità, a livello diafasico. La nostra opinione è che tali ordini, come appare chiaro dalla loro funzione pragmatica che abbiamo appena sottolineato, sono inve-ce una risorsa importante ed indispensabile dei parlanti e come tale non dovrebbe venire stigmatizzata (per approfondimenti, si veda Ferrari 2012).

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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6. Punti di crisi dell’italiano contemporaneoPresentiamo qui di seguito alcuni fenomeni della lingua italiana tipici dello stile

spontaneo. Cercheremo di offrire una descrizione adeguata dei suddetti fenomeni per allontanare il sospetto che tali deviazioni dalla norma libresca suscitano nei parlanti scolarizzati.

6.1 A me miLABORATORIO

Inserire la negazione NON nelle due frasi seguenti

A me piace…

Mi piace…

La negazione NON occupa la stessa posizione all’interno delle due frasi?Quali conclusioni possiamo trarre circa la posizione occupata da A ME e MI?Quali conclusioni possiamo tratte circa le funzioni di A ME e MI nella due frasi?

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Non siamo di fronte a pleonasmo. Le informazioni apportate dagli elementi pro-nominali all’interno di frasi con A me mi, A te ti ecc. sono diverse: rispettivamente, una di tipo pragmatico (che potremmo anche esprimere con Per quanto mi/ti ri-guarda), e una di tipo morfosintattico e semantico (chi sono i protagonisti di questi eventi? a chi piace? a chi pare?). Se seguiamo l’impianto valenziale di Tesnière, ripro-posto in Italia da Francesco Sabatini, a me è espansione della frase minima con mi.

Abbiamo visto come frasi del tipo A me mi piace, A me mi pare siano frasi corrette dell’italiano quando si interpreti (ed è possibile farlo) a me come dislocato a sinistra. Magari si può dare il consiglio, a insegnanti e alunni, di metterci una virgola dopo, un modo per indicare in maniera non equivoca che l’espressione è stata dislocata. (Vanelli 1998: 137)

Per approfondimenti, si veda Sabatini-Camodeca-De Santis (2011).

6.2 Soggetto, verboQuesto fenomeno rientra nei precedenti. Quando l’alunno mette una virgola tra

il soggetto e il verbo sta marcando una dislocazione a sinistra. In questo caso, la costruzione sarà linearmente identica all’equivalente non dislocata perché in italia-no standard non esiste un pronome clitico di ripresa soggetto. Diverso è il caso dei dialetti italiani.

Esempi. La mamma, va al mercato. La mamma, la va al mercato. (Fiorentino)

6.3 Lui/egliNell’italiano dell’uso medio (Sabatini 1985) o neostandard (Berruto 1987) o italia-

no tendenziale (Mioni 1983), i pronomi lei, lui, loro sono le normali forme di 3a per-sona (vd. anche Vanelli 1999). Questo dipende dalle caratteristiche intrinseche dei suddetti pronomi e dalle posizioni da essi occupate all’interno della stringa frasale.

Si prenda la frase del fiorentino: Maria la va al mercato.Il sintagma referenziale (Maria) si può trovare o in posizione periferica di frase (vd. Poletto 2000 per una possibile trattazione del soggetto preverbale come SpecC) o in una posizione della frase più alta rispetto a quella del soggetto morfosintattico (vd. Cardinaletti 2004); il pronome clitico (la) è il vero soggetto morfosintattico. Potrebbero così trovare una possibile spiegazione diversi fenomeni come, per esem-pio, l'uso frequente di lei/lui al posto di ella /egli nell’italiano contemporaneo:

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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essi occuperebbero, infatti, posizioni diverse all’interno della frase e non sarebbero associabili solo ai diversi registri della lingua.

Rimandiamo alla Sintassi italiana dell’uso moderno di Raffaello Fornaciari per una descrizione del fenomeno dell’uso delle forme pronominali oggettive al posto delle soggettive nell’italiano del XIX secolo (Fornaciari 1881: 39). Si vedano, inoltre, Cardinaletti (2004) e Rizzi (2005), per una accurata trattazione delle posizioni sog-getto nella frase. Si veda, infine, Sabatini (1990) per una interessante trattazione dell’uso di lui con funzioni di tema e rema e di egli come “mera ripresa anaforica, quando si voglia evitare la ripetizione nominale e, nello stesso tempo, si ritenga inopportuna l’ellissi, casi che si presentano, ovviamente, quasi soltanto nelle scrit-ture formali” (Sabatini 2011 [1990]: 97).

Qui di seguito, si illustrano casi in cui l’uso di lei/lui risulta obbligatorio pena la grammaticalità della frase.

Chi è stato? Lui. Io e lui. È venuto lui. È lui. Solo lui. Proprio lui.

Chi è stato? *Egli. *Io e egli. *È venuto egli. *È egli. *Solo egli. *Proprio

egli.

6.4 Il dativo in italianoL’uso di gli

In italiano standard, il pronome clitico gli esprime a lui in frasi del tipo Gli ho dato un calcio (‘Ho dato un calcio a lui’).

Nelle diverse varietà dell’italiano, gli viene usato per esprimere a loro/loro in frasi del tipo Gli ho dato un calcio (‘Ho dato loro un calcio).

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LABORATORIOOsservare le frasi qui sotto

Mi dice…Ti dice…Le/gli dice…Ci dice…Vi dice…Dice loro…

In che cosa consiste la differenza del pronome LORO rispetto agli altri pronomi ita-liani cosiddetti dativi?

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Il pronome loro rappresenta un’asimmetria nel sistema pronominale italiano: è bisillabo (lo-ro), porta l’accento (lóro), si colloca in una posizione diversa rispetto agli altri pronomi clitici (Mi hai dato vs. Hai dato loro). Questa posizione di loro all’interno della frase è in netto contrasto con il sistema della distribuzione del carico informativo nella lingua italiana, nella quale si tende a porre “la punta di “novità” (o rematicità)” (Sabatini 2011 [1990]: 93) sulla destra: loro è l’unico pronome all’interno del paradigma dei pronomi cosiddetti dativi (mi, ti, le/gli, ci, vi, loro) che presenta bassa informatività ma si colloca alla destra del verbo.

Il parlante risolve tutte queste asimmetrie sostituendolo.Inoltre, gli tende ad essere usato per esprimere a lei in sostituzione del normativo le

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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in frasi del tipo Gli ho dato un mazzo di fiori (‘Le ho dato un mazzo di fiori’).All’interno dei pronomi combinati (me lo, te la, ce le ecc.), l’unica forma possibile di terza persona singolare/plurale e maschile/femminile è la forma gli: gliela, gliele, glielo, glieli. In latino, esisteva un’unica forma per a lei/a lui: ILLI e una forma, ILLIS, per a loro. Da queste forme deriva il nostro gli.

Per approfondimenti, vd. Vanelli (1999).

L’uso di ciL’uso di ci per esprimere il dativo al posto di gli/le/loro dell’italiano standard si

trova in molte varietà della penisola italiana: in molte varietà linguistiche meridio-nali-insulari e settentrionali.

La lessicalizzazione, nelle diverse varietà dell’italiano, del dativo tramite clitico locativo di tipo ci (es. Ci do un libro ‘Gli/le do un libro’) è stata oggetto di numerosi lavori, tra i quali suggeriamo i lavori di Monica Berretta (1985a, 1985b) e di Manzini-Savoia (2005, 2007, 2008). L’interpretazione dativa di ci proviene dalla sua seman-tica di locativo direzionale: quando usiamo ci in frasi del tipo Ci do un libro stiamo esprimendo la posizione finale dell’oggetto (nel nostro esempio un libro) alla fine dell’evento. Niente di “illogico” od “irrazionale”.

6.5 Che nelle frasi relativeL’italiano standard presenta tre pronomi relativi che differiscono per funzione

all’interno della proposizione: che, con funzione di soggetto ed oggetto; la serie di quale, con funzione di soggetto e complemento indiretto; la serie di cui, con fun-zione di complemento indiretto. Il sistema dell’italiano normativo è, a ben vedere, alquanto complesso.

Accanto a questi usi strettamente normativi, esistono altri usi di che ampiamen-te accettati dai grammatici: che riferito ad un nominale che esprime tempo (Mi sono innamorato di lui il primo giorno che l’ho visto) in sostituzione del normativo in cui.

Esiste, poi, una costruzione con che, tipica dello stile spontaneo, normalmente considerata agrammaticale.

Presentiamo questa sezione sull’uso di che citando alcune belle parole in Noi la farem vendetta di Paoli Nori, “grande cultore delle scritture dei semicolti”.

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a.Allora mi è venuto da pensare una cosa che ultimamente ogni tanto mi vien da pensarla [...].

b.[...] per me io ho un rispetto, di Niccolò dell’Arca, che prima non ce l’avevo.

c. [...] Non è un lavoro che si procede dal certo verso l’incerto [...].

d. Cioè praticamente questo libro vien fuori per via che nel nuovo millennio postimpero au-stroungarico che ci siamo dentro [...].

e. [...] La piazza dei commerci un po’ equivoci di San Pietroburgo che c’è in tanti romanzi di Dostoevskij che adesso ci han messo un arredamento urbano che sembra una pizzeria.

f. [...] Il momento che uno legge [...] È un momento che magari nel mondo non succede niente di speciale [...].

In queste frasi, che non è un pronome relativo ma una congiunzione subordinan-te, un puro indicatore di subordinazione.

Lontano da essere innovazioni formali o recenti tendenze dell’italiano moder-no, queste scelte parametriche hanno attestazioni che risalgono al Boccaccio e al Petrarca per arrivare al Leopardi e al Manzoni (vd. Benincà 1993: 282-283), come mostra anche il brano tratto dalla Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori riportato qui di seguito (corsivi nostri).

Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste quotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali et curiali; e rivesti-to condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenti-co ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. (Dalla Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, Firenze, 10 dicembre 1513)

Anche in questo caso, si tratta di scelte parametriche diverse, non caratterizzabili con “un suonar più o meno bene” o facendo appello alla “correttezza” e alla conse-guente “scorrettezza”.Per approfondimenti, vd. Renzi-Salvi-Cardinaletti (a cura di) 2001 [1988] e Salvi-Vanelli (2004).

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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7. Alcune citazioni

L’insegnamento dell’italiano, sia in Italia che all’estero, non può essere tenuto “al riparo” dai problemi fin qui considerati. Almeno la distinzione – ormai fondamentale per la situazio-ne italiana – tra VARIETÀ STANDARD PER L’USO SCRITTO FORMALE e VARIETÀ DELL’USO MEDIO PARLATO E SCRITTO – dovrebbe essere presa in seria considerazione, specialmen-te se nell’insegnamento della lingua si perseguono obiettivi differenziati e graduati: ciò s’impone particolarmente per l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, a discen-ti che molto spesso puntano ad acquisire una competenza (dapprima passiva, poi attiva) innanzitutto sul piano della lin-gua dell’uso medio, parlato e scritto.È facile constatare, invece, che in molti strumenti didattici man-ca proprio l’attenzione verso la varietà dei tipi di lingua. […]Molti manuali, in verità, guardano ancora a un modello che non è neppure “superiore”, ma semplicemente “astratto” del-la lingua. A volte, più che la censura, nuoce l’omissione: anche questa rivela la mancanza di spessore nella considerazione della lingua. (Sabatini 2011 [1985]: 30)

Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’in-finito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. (Scuola di Barbiana 1967)

I fenomeni studiati sono gli esiti di un’evoluzione dell’italia-no – un percorso non lineare, accompagnato da processi di cambiamento spontaneo - anomalo rispetto ad altre lingue, perché nato e diffuso per secoli piuttosto come progetto di lingua che come lingua effettiva, la cui fisionomia è stata forgiata non tanto dai parlanti, quanto dai grammatici, che hanno promosso un modello sostanzialmente purista di lin-gua d’autore.Da circa un secolo, l’italiano è diventato una lingua come le altre, parlata da un’intera comunità e trasmessa alla genera-zione successiva come lingua nativa. Elementi residuali han-no difficoltà a integrarsi nelle strutture grammaticali vigenti: essi da una parte hanno il prestigio che viene loro dalla tra-dizione, dall’altra uno statuto ambiguo e perciò più debole all’interno del sistema. La soluzione adottata è quella per cui le forme in conflitto si distribuiscono tra registri diversi

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di lingua: gli elementi meno stabili sono riservati alla varie-tà scritta e ai registri più formali del parlato – espressione di fasi linguistiche più conservative e tradizionali. (Giuseppe Faso su Vanelli 1999)

Questa breve rassegna ha mostrato come siano privi di fon-damento giudizi che considerino “illogiche” o “irrazionali” delle forme linguistiche solo perché sono assenti in una de-terminata lingua o perché vengono interpretate sulla base di criteri irrilevanti o addirittura scorretti sul piano dell’analisi linguistica. (Vanelli 1998: 137)

8. Possibili conclusioniNon esistono errori all’interno delle varietà della lingua, come non ci sono

errori nelle varietà degli apprendenti stranieri di italiano L2. Ogni varietà è rego-lata dalla nostra grammatica interna, la cosiddetta Grammatica Universale, che è espressione della Facoltà di linguaggio di cui tutti gli uomini sono dotati sin dalla nascita, universalmente. I dialetti e tutte le varietà della lingua sono lingue vere e proprie in cui tutto tiene. Ascoltiamo, quindi, gli apprendenti perché la loro è una lingua splendida, libera espressione della nostra Grammatica Universale.

Capitolo II - Il linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche

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CAPITOLO IIIL’acquisizione delle lingue seconde

Io le lingue le ho imparate coi dischi. Senza neanche accor-germene ho imparato prima le cose più utili e frequenti. Esattamente come si impara l’italiano.

(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)

1. Analisi/descrizione di testi autentici

LABORATORIOLeggere il seguente testo autentico scritto da un apprendente di italiano come L2 e descriverlo

Come sono cambiata/o da quando sono a Firenze

Quando sono arrivato a Firenze, io ha cambiato un può, come persona, qui io visto piu culture la istoria dell’umanità, per questo adesso sono cresciuto la mia personalità, ho migliorato mia parola, mia maturità, per mio lavoro io visto di più, come le cose piu migliore per tratamenti, le medicina, la legge di protezione per animali, chè non vedere in [...].

Penso io que quando ritornare in [...], io portare un saco di cose per mia Universi-tà, le cose buone que succede qui, que si può migliorare in mio Paese, ciao è finitto arriveerdeci

Descrizione:___________________________________________________________________

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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde

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Come sono cambiata/o da quando sono a Firenze

Quando sono arrivato a Firenze, io ha cambiato un può, come persona, qui io visto piu culture la istoria dell’umanità, per questo adesso sono cresciuto la mia personalità, ho migliorato mia parola, mia maturità, per mio lavoro io visto di più, come le cose piu migliore per tratamenti, le medicina, la legge di protezione per animali, chè non vedere in Brasile.

Penso io que quando ritornare in Brasile, io portare un saco di cose per mia Uni-versità, le cose buone que succede qui, que si può migliorare in mio Paese, ciao è finitto arriveerdeci

Raphael studente universitario brasiliano (veterinaria)32 annida quattro mesi in Italia (Bologna, Firenze)cerca possibilità di stage formativo in un ippodromo

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Leggere il seguente testo autentico (tratto da Giacalone Ramat 1993) e descriverlo

IO PENSO COSÌ QUANTI TROVATO MOLTO BENE STARE QUI VA BENE

Tcinese da 4 anni in Italia

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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde

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io penso così quanti trovato molto bene stare qui va bene

‘se mi sarò trovato bene, rimarrò in Italia’

1) trovato:il participio passato compare abbastanza presto nelle varietà di apprendimento per indicare l’aspetto perfettivo, con verbi telici e puntuali. Spesso questo aspetto si lega ad eventi non passati come nel caso di cui sopra.

2) stare qui:gli infiniti che registriamo nelle varietà di apprendimento sin dalle prime fasi pos-sono essere considerati o forme basiche del verbo (così come le forme sovraestese del presente) o forme con sfumature aspettuali che esprimono la non effettiva col-locazione dell’evento in questione in un preciso punto temporale.

RiflessioneGli italiani, generalmente, non sono abituati a riflettere sull’aspetto verbale13 perché la scuola pubblica li addestra all’individuazione del tempo verbale e solo su di esso si sofferma, spesso, la riflessione metalinguistica.

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13 Per una definizione di Aspetto verbale si veda il Glossarietto.

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2. Le varietà degli apprendenti

LABORATORIOFormulare una definizione personale delle seguenti espressioni

Interlingua (Selinker 1972):___________________________________________________________________

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Sistema approssimativo (Nemser 1971):___________________________________________________________________

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Competenza transitoria, competenza di transizione (Corder 1967):___________________________________________________________________

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Varietà di apprendimento (Klein – Dittmar 1979; Klein – Perdue 1992, 1997; Giacalo-ne Ramat 1993; Andorno 2006a, 2006b):___________________________________________________________________

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2.1 Le varietà degli apprendenti: alcune definizioni possibili

Larry Selinker

(vd. Selinker 1972)

INTERLINGUA

Un sistema linguistico a sé stante [...] che risulta dal tentativo di produzione da parte dell’apprendente di una norma della LO [lingua obiettivo, lingua target].

William Nemser

(vd. Nemser 1971)

SISTEMA APPROSSIMATIVO

Il termine sistema approssimativo mette in risalto che lo sviluppo della lingua del discente tende al sistema della lingua d’arrivo (Corder 1983).

Un sistema approssimativo è il sistema linguistico deviante adottato dall’apprendente nel tentativo di utilizzare la L2 […] La lingua dell’apprendente […] è organizzata strutturalmente e manifesta l’ordine e la coesione di un sistema, anche se di uno che cambia frequentemente, con una rapidità atipica, e che è soggetto a radicali riorganizzazioni tramite l’inclusione massiccia di nuovi elementi via via che l’apprendimento procede.

Stephen Pit Corder

(vd. Corder 1967, 1983)

COMPETENZA TRANSITORIA O DI TRANSIZIONE; DIALETTO IDIOSINCRATICO

Il termine interlingua suggerisce che la lingua del discente presenterà dei tratti sistematici sia della lingua d’arrivo che di altre lingue di sua conoscenza, soprattutto della sua lingua madre. In altre parole il suo sistema è misto o intermedio. Il termine in questione sottolinea una dimensione di variabilità della lingua di chi sta imparando, mentre il termine sistema approssimativo mette in risalto che lo sviluppo della lingua del discente tende al sistema della lingua d’arrivo. Il termine che io ho proposto, competenza di transizione, prende a prestito il concetto di competenza da Chomsky e dà rilievo al fatto che il discente possiede una certa quantità di conoscenza, presumibilmente in continuo sviluppo, che sta alla base degli enunciati che produce e che è il compito del linguista applicato studiare.

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Wolfgang Klein

(vd. Klein 1998)

VARIETÀ DI APPRENDIMENTO L’alternativa alla prospettiva della deviazione da una lingua target è di considerare la produzione dell’apprendente in ogni dato momento come una manifestazione immediata della sua capacità di parlare e di comprendere: la forma e la funzione di tali enunciati sono governate da principi e questi principi sono caratteristici della facoltà del linguaggio.I primi tentativi in questa direzione si riflettono in nozioni quali interlingua (Selinker), sistemi approssimativi (Nemser) e nozioni correlate. Tuttavia queste nozioni si basano ancora sull’assunzione che ci sia “la cosa reale” – la lingua target e, similmente, la lingua di partenza -, e che ci siano sistemi intermedi, o meglio sistemi che mancano la “la cosa reale” per poco. La prospettiva che ho in mente – la prospettiva delle varietà di apprendimento – è alquanto più radicale.

[…]

Sotto questa prospettiva, le varietà di apprendimento non sono imitazioni imperfette di una “lingua reale” – la lingua target – ma sistemi veri e propri, per definizione senza errori, e caratterizzati da particolari repertori lessicali e particolari interazioni di principi organizzativi.

Le lingue pienamente sviluppate, come l’inglese, il tedesco, il francese, sono casi speciali di varietà di apprendimento. Esse rappresentano uno stadio relativamente stabile di acquisizione linguistica – quello stadio in cui l’apprendente cessa di apprendere perché non c’è differenza tra la sua varietà e l’input – la varietà del contesto sociale.

Heidi Dulay

Marina Burt

Stephen Krashen

(vd. Dulay – Burt – Krashen 1982)

Quando la mente comincia ad incamerare parte della seconda lingua, essa la organizza in modo tale da produrre l’ordine comune in cui vengono apprese le strutture grammaticali, gli errori sistematici che vengono fatti e le costruzioni temporanee che usano gli apprendenti. Questa organizzazione non riflette necessariamente l’organizzazione e il programma di insegnamento e tende ad essere simile per la maggior parte degli apprendenti della seconda lingua indipendentemente dalla loro prima lingua.

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Anna Giacalone Ramat

(vd. Giacalone Ramat 1993, 2003)

L’interlingua è un insieme di varietà di lingua che si collocano nel continuum che va dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo (lingua target): è un sistema linguistico in continua evoluzione, organizzato sulla base di una “grammatica” specifica, cioè di un sistema di regole (relative alla fonetica, alla fonologia, morfologia ecc…) che l’apprendente “costruisce, elabora”, a partire dalle caratteristiche dell’input (cioè “campioni” di lingua target. Si può parlare di una vera e propria “costruzione della grammatica”).

Gabriele Pallotti

(vd. Pallotti 1998)

L’interlingua è un sistema linguistico vero e proprio, con le sue regole e la sua logica, parlato da chi sta apprendendo una seconda lingua. Per capire come un alunno sta progredendo verso la lingua d’arrivo, la nozione di interlingua è più utile di quella di errore, perché è formulata in positivo e dal punto di vista di chi impara, cercando di dare conto delle sue ipotesi. Vedremo come si possa parlare di interlingua sia per la lingua seconda che per quella straniera, per le lingue classiche e persino per l’italiano standard appreso dagli italiani.

Sistema linguistico elaborato dall’apprendente che risulta dai tentativi di produrre una norma della lingua di arrivo.

La nozione di interlingua tiene conto del fatto che le produzioni degli apprendenti non devono essere viste come insieme di parole e frasi costellate di errori, ma un sistema governato da regole ben precise.

Cecilia Andorno

(vd. Andorno 2006a)

L’ipotesi di interlingua suppone quindi che le regolarità che si riscontrano nelle produzioni in lingua non nativa (lingua seconda) siano dovute al fatto che un apprendente dispone, in ogni momento del suo percorso di apprendimento, di una competenza linguistica strutturata, basata su proprie regole e principi1, e che sia sulla base di questa competenza che egli produce i propri enunciati. Questa competenza linguistica strutturata è detta sistema di interlingua.

1. Questo non significa che l’interlingua non sia una lingua che “si serve” anche di strutture proprie della lingua di partenza e di arrivo (anche se, specie nelle prime fasi di ricerca sulle lingue seconde in prospettiva di interlingua, sono state adottate anche prospettive “radicali” che escludevano specialmente il peso della lingua di partenza), ma significa piuttosto che non è sulla base della grammatica di queste lingue che l’interlingua è organizzata.

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Federica Ledda

Assunta Giuseppina Zedda

(vd. Ledda – Zedda 2005)

L’interlingua (IL) si può definire una varietà della L2 parlata da un apprendente che si trova ad affrontare il compito impegnativo di imparare una lingua straniera o seconda; è un sistema linguistico instabile e incompleto caratterizzato da regole che dipendono da quelle della lingua d’arrivo e da quelle della L1 ma anche da regole indipendenti da entrambe. Gli apprendenti riorganizzano continuamente il loro sistema linguistico attraverso ipotesi, quali tentativi di raggiungere le norme della L2, l’IL perciò attraversa molte fasi cambiando frequentemente.

Anna Ciliberti (1994)

Interlingua Sistema linguistico di natura instabile che il discente di una L2 costruisce dai dati della L2 cui è esposto. La denominazione risale a Selinker (1972). significato analogo hanno le espressioni: “dialetto idiosincratico” (Corder 1971) e “sistema approssimativo” (Nemser 1971). La lingua del discente viene denominata “interlingua” nel senso che costituisce una lingua a mezza via – o, meglio, una lingua che sta in un continuum – tra la lingua madre e quella straniera, e nel senso che è una lingua dinamica, che cambia cioè nel tempo, essendo soggetta a processi di accomodazione ai nuovi dati con cui il discente viene via via a trovarsi in contatto.

Leonardo Maria Savoia

Benedetta Baldi

(vd. Savoia-Baldi 2009)

Anche le varietà apparentemente più diverse dalla lingua obiettivo e semplificate sono dotate di una specifica dotazione grammaticale [...] possiamo pensare che la padronanza di una lingua, compresa quella di L2 e le varianti pidginizzate di italiano L2, debba essere interpretata come un particolare sistema di conoscenza che l’individuo sviluppa sulla base di una facoltà specializzata della sua mente, e non come il risultato di un procedimento per prove ed errori o di dispositivi finalizzati alla comunicazione.

Gloria Cocchi

Mariangela Giusti

Maria Rita Manzini

Tiziana Mori

Leonardo Maria Savoia

(vd. Cocchi et alii 1996)

In nessuno dei casi che precedono, infatti, si può parlare di una arbitraria e imprevedibile deviazione dalla norma. Al contrario ciascun fenomeno riflette possibilità strutturali che sono disponibili nelle lingue e sono realizzate in alcune di esse [...] i costrutti che affiorano non corrispondono necessariamente a strutture presenti nella lingua materna del bambino in questione.

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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde

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2.2 Riflessioni

I registri più informali dell’italiano legati soprattutto all’ora-lità (ma non solo) presentano caratteristiche strutturali tipi-che anche delle varietà d’apprendimento dell’italiano come L2. [...] Ogni lingua, ogni varietà, è il prodotto di scelte di tipo parametrico della mente-cervello dei parlanti/ascoltatori, di scelte, in ultima analisi, di tipo lessicale. Per questo non consideriamo la lingua standard come modello, né la usia-mo come continuo riferimento per sanzionare le altre varie-tà linguistiche. Le caratteristiche strutturali di queste lingue sono, quindi, possibilità formali offerte dalla nostra dotazio-ne genetica: secondo questa concezione internalista, una for-ma non può essere mai migliore rispetto a un’altra; semmai esistono convenzioni esterne alla competenza dei parlanti/ascoltatori che danno maggiore prestigio ad una forma a danno di un’altra. (Pona 2010)

Si tratta di scelte tutt’altro che innocenti. (Faso 2009: 29)

La scelta lessicale, al di là delle apparenze, è ben lontana dal dirsi neutra poiché mette in essere campi semantici e asso-ciazioni di senso completamente differenti. (Savoia-Baldi 2009: 70)

[...] un approccio mentalista [...] chiarisce in maniera ancora più netta il collegamento tra biodiversità e diversità linguisti-ca: ogni varietà linguistica infatti attua in maniera particolare le potenzialità della nostra facoltà di linguaggio, ritagliando una specifica organizzazione cognitiva e dando vita a quello che potremmo chiamare un particolare stile grammaticale. In questo senso la diversità linguistica non è una sorta di su-perficiale e pittoresca coperta multicolore ma corrisponde a proprietà fondamentali della nostra mente. (ivi: 222)

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3. I cinque postulati di Stephen Krashen

1. ACQUISIRE/IMPARARE2. ORDINE NATURALE DI ACQUISIZIONE3. TEORIA DEL MONITOR4. INPUT COMPRENSIBILE e i + 15. FILTRO AFFETTIVO

Modello di Krashen:

INPUT - FILTRO - ORGANIZZATORE - MONITOR – OUTPUT

PERSONALITÀ ETÀ

INPUT FILTRO AFFETTIVO ORGANIZZATORE MONITOR OUTPUT

PRIMA LINGUA

(adattato da Dulay-Burt-Krashen 1982)

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LABORATORIO14

Completare la colonna “Le nostre ipotesi” prima di leggere le pagine seguenti

Il modello di S. Krashen

Le nostre ipotesi Dopo la lettura

Acquisire / Imparare15

Ordine naturale di acquisizione

Teoria del Monitor

Input comprensibile e i + 1

Filtro affettivo

14 Questo percorso guidato alla scoperta del modello proposto da Stephen Krashen nasce dal confronto con l’amico e collega Edoardo Masciello sull’importanza di un approccio di tipo induttivo anche nei percorsi di formazione degli insegnanti/facilitatori linguistici.

15 Per la distinzione tra acquisire ed imparare, si rimanda al capitolo 1 sulla terminologia introduttiva. Le traduzioni italiane della celebre coppia di termini proposta da Stephen Krashen, acquisition/learning, riportano acquisizione/apprendimento. Un parlante nativo di italiano, tuttavia, non può non avvertire in tali termini soprattutto le differenze dei due suffissi: “i nomi in -mento indicano a volte un’azione in corso, mentre quelli in -zione il fatto che ne deriva” (Ambrosini 2002: 88). Noi abbiamo, quindi, preferito, acquisire/imparare, per mantenere la distinzione originaria tra processo subconscio (acquisizione) e consapevole (imparare), che si perderebbe, in parte, a nostro avviso, nella traduzione in acquisizione/apprendimento.

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Il filtroIl filtro è quella parte del sistema interno di elaborazione che nel subconscio seleziona l’ingresso della lingua sulla base di ciò che gli psicologi definiscono “affetto”: i motivi dell’ap-prendente, le esigenze, le attitudini e gli stati emozionali. Il filtro sembra essere il primo grosso ostacolo che i dati lingui-stici in ingresso devono affrontare prima di venire elaborati ulteriormente. Esso determina: 1) quali modelli della seconda lingua selezionerà l’apprendente; 2) quali parti della lingua saranno prese in considerazione per prime; 3) quando do-vrebbero finire gli sforzi per l’apprendimento della lingua; 4) quanto rapidamente un individuo può imparare una lingua. (Dulay-Burt-Krashen 1985: 84)

L’ordine di acquisizione delle strutture

Gli studiosi hanno scoperto un ordine di apprendimento del-la L2 che è caratteristico sia dei bambini che degli adulti, e che vale sia per le forme orali che scritte, purché l’interesse del parlante sia di comunicare qualcosa. Questa scoperta di ordine generale è uno dei risultati più stimolanti e significa-tivi delle ricerche dell’ultimo decennio (anni ‘70) sull’appren-dimento della seconda lingua. Evidentemente è l’organizza-tore che guida il processo di apprendimento, limitando ciò che può essere appreso soltanto al nuovo materiale che si adatta alla crescente organizzazione del sistema della nuova lingua, e rifiutando il materiale che non si è ancora adattato al sistema emergente. Il risultato è che gli osservatori sono effettivamente in grado di mostrare gruppi di strutture che vengono apprese secondo un ordine quasi fisso ed uguale nei sistemi linguistici di molti apprendenti di diverso background nella prima lingua.Queste gerarchie di apprendimento osservate, insieme alla natura sistematica dei tipi di errori e delle costruzioni transi-torie, sono tra le prove più evidenti dei controlli interni che esercita l’organizzatore nello sviluppo della seconda lingua. Tutte le osservazioni generali indicano che l’organizzatore agisce da guida e da meccanismo regolatore che permette la crescita graduale e sistematica che è stata osservata per l’acquisizione della L2 in situazioni naturali e formali. (Dulay-Burt-Krashen 1985: 96)

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Il monitorIl monitor è quella parte del sistema interno dell’appren-dente che pare sia responsabile dell’elaborazione linguistica consapevole (apprendimento). Quando una persona tenta di imparare una regola leggen-dola da una grammatica o nel corso di una lezione in cui l’insegnante la descrive in modo esplicito, la persona è im-pegnata nell’apprendimento cosciente della lingua. Tutte le volte che si compie un’elaborazione linguistica consapevole, l’apprendente fa uso del monitor. Allo stesso modo quando si esegue un esercizio che chieda attenzione cosciente alla forma linguistica, o quando si memorizza un dialogo, si com-pie un’elaborazione consapevole e si fa uso del monitor. La conoscenza linguistica ottenuta grazie al monitor può es-sere utilizzata per formulare consapevolmente delle frasi e per correggere la propria lingua scritta o parlata. La funzione “correttiva” del monitor entra in gioco quando uno studente tenta di correggere delle composizioni o delle frasi agram-maticali nelle parti di un test linguistico, o quando autocor-regge spontaneamente gli errori fatti durante una conversa-zione naturale.[…] Il grado di utilizzazione del monitor dipende almeno da quanto segue:

1) età dell’apprendente; 2) insieme dell’istruzione formale ricevuta dall’apprendente; 3) natura e attenzione richieste dal compito verbale che si sta eseguendo; 4) personalità individuale dell’apprendente.

Ad esempio, prestare attenzione a produrre espressioni grammaticalmente corrette è un tratto della personalità di molti adulti. Ciò da luogo spesso a molte autocorrezioni ed esitazioni nel parlare. Allo stesso modo i compiti che spin-gono l’apprendente a concentrare la sua attenzione sull’a-nalisi linguistica consapevole (come riempire gli spazi vuoti con morfemi corretti) sollecitano l’azione del monitor; men-tre ciò non avviene per gli esercizi che spingono il parlante a concentrare la sua attenzione sulla comunicazione (come rispondere a una domanda reale). (Dulay-Burt-Krashen 1985: 99)

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Ipotesi dell’input

Gli esseri umani imparano il linguaggio solamente in un modo – comprendendo i messaggi, o ricevendo un “input compren-sibile”. (Krashen 1985: 2)

La lingua che non è capita non è nemmeno appresa. L’apprendimento progredisce quando il discente, giunto ad un certo stadio di conoscenza, riceve un input che appar-tiene ad uno stadio immediatamente successivo e che, pur essendo nuovo, viene capito con l’aiuto di informazione con-testuale, linguistica o extralinguistica. (Ciliberti 1994: 52-53)15

4. La linguistica acquisizionale16

4.1 Cos’è una Lingua Seconda La Lingua Seconda (L2) è la lingua appresa nel Paese in cui è parlata in un periodo

successivo all’apprendimento della lingua materna (o nativa o L1).L’acquisizione avviene soprattutto attraverso contatti quotidiani con parlanti nativi.

Si apprende grazie alle relazioni: a scuola, in quanto ci si rapporta con altri bambini/ragazzi e con adulti; fuori dalla scuola, in contesti sociali (da qui, l’importanza di frequen-tare amici, attività sportive, ricreative, musicali ecc.).

L’insegnante può solo agire da facilitatore, predisponendo percorsi didattici efficaci e stimolando relazioni significative per facilitare l’apprendimento spontaneo della lin-gua seconda.

È importante che l’insegnante conosca le tappe di acquisizione della lingua, che sono le stesse indipendentemente dalla lingua materna, e che conosca la differenza tra la lingua della comunicazione di base e la lingua dello studio. Queste due “lingue” hanno tempi di acquisizione diversi: almeno due anni per una comunicazione efficace - almeno cinque/sei anni per la lingua dello studio; i tempi possono variare a seconda dell’appren-dente e del contesto in cui è inserito. Il passaggio tra la lingua della comunicazione e la

16 Il presente paragrafo è il frutto di una riflessione laboratoriale di gruppo sulla Letteratura scientifica che fa capo al Progetto di Pavia e sulle sue possibili ricadute didattiche e non solo nella Scuola; riflessione all’interno del corso di formazione L’italiano in classe: per una costruzione del curriculum di apprendimento dei minori non italofoni – intervento di ricercazione, tenuto dagli autori del presente volume durante l’anno scolastico 2010-2011 presso il 2° Circolo di Colle di Val d’Elsa, Firenze. Cogliamo l’occasione per ringraziare di cuore le insegnanti del corso per il lavoro laboratoriale svolto con noi e per la dimensione umana che hanno saputo valorizzare.

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lingua dello studio è un passaggio impegnativo e necessario e va seguito con attenzione.L’acquisizione è strettamente connessa alla ricchezza di stimoli ricevuti, alla qua-

lità delle relazioni che si instaurano, ad un ambiente sereno e accogliente. È fonda-mentale, pertanto, curare le relazioni tra pari e tra insegnanti e alunni.

Nel percorso di insegnamento/apprendimento di una lingua seconda occorre tenere conto dell’individualità, della provvisorietà, del “movimento” delle persone, dello stile cognitivo17 che non è detto rimanga sempre lo stesso, ma che può cam-biare a seconda del periodo, dello stato d’animo, delle attività.

Il processo di apprendimento di una lingua seconda e lo sviluppo cognitivo sono, inoltre, favoriti dalla padronanza della lingua materna. È, quindi, importante che l’apprendente possa mantenere la lingua d’origine in famiglia.

La L1 è la lingua degli affetti, la lingua della “pancia”: lingua che trova le parole per riconoscere ed esprimere sensazioni, emozioni e sentimenti.

4.2 Fasi (e processi) acquisizionali18

L’acquisizione di qualsiasi nuova lingua segue gli stessi stadi indipendentemente dall’età, dalle caratteristiche individuali e dalla lingua di origine; quelli che possono cambiare sono i tempi.

Le lingue si imparano dapprima ascoltando: naturalmente, nei bambini picco-li che apprendono la lingua materna, c’è una fase di ascolto/elaborazione molto lunga (fase del silenzio), poi compare la produzione di parole nome, i verbi sono espressi in modo che noi definiremmo grammaticalmente non corretto dal punto di vista della lingua di arrivo (l’italiano degli adulti italofoni). Gli adulti accolgono i tentativi di comunicazione con gioia, sono consapevoli che è in atto un processo e ne hanno fiducia.

Anche gli apprendenti di una lingua seconda vivono la fase del silenzio durante la quale cominciano ad entrare in contatto con il nuovo sistema linguistico.

Molto spesso gli insegnanti devono confrontarsi con il silenzio iniziale dei propri alunni apprendenti l’italiano L2, silenzio che sembra mettere in discussione la validi-tà dell’intervento didattico e in crisi la loro stessa funzione di educatori/insegnanti.

Questo periodo è normale nei bambini/ragazzi che imparano una lingua secon-da. La durata della fase del silenzio varia molto da individuo a individuo: alcuni ap-prendenti si esprimono già dopo qualche giorno, altri impiegano più tempo per iniziare a produrre oralmente brevi enunciati. Questo dipende da molti fattori indi-

17 Per approfondimenti sulla teoria degli stili cognitivi, rimandiamo al cap. 9 del presente volume.18 Per una trattazione dettagliata delle fasi e dei processi dell’apprendimento dell’italiano come seconda lingua,

rimandiamo a Andorno 2003, 2006a, 2006b.

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viduali e legati al contesto di apprendimento. Tuttavia è necessario non affrettare o forzare i tempi: spesso capita che un alunno rimasto silenzioso per tre o quattro mesi inizi improvvisamente a parlare esprimendosi come gli altri compagni e re-cuperando i tempi di “attesa” iniziali. Evidentemente è necessario un periodo nel quale i dati linguistici siano elaborati e sistemati implicitamente dall’apprendente. Questo periodo, dunque, ha un grosso valore per l’alunno. Il silenzio iniziale ha una propria funzione nello sviluppo di una seconda lingua.

Nella programmazione è bene prevedere attività che non richiedano subito la produzione orale da parte dell’apprendente. Il primo periodo di inserimento sco-lastico, in pratica, dovrebbe essere dedicato all’ascolto e alla comprensione della nuova lingua, la prima “abilità” a svilupparsi naturalmente anche nell’apprendimen-to della lingua materna (L1).

Durante questa prima fase, l’insegnante che voglia facilitare e non ostacolare il naturale processo di acquisizione della lingua seconda si aspetta risposte orali nella L1 dell’apprendente oppure “risposte fisiche”.

Per concludere, quindi, è bene ricordare che anticipare i tempi non è proficuo: spingere incessantemente gli apprendenti di italiano L2 a parlare significherebbe spingerli a compiere passi forzati e questo non faciliterebbe l’apprendimento della lingua seconda.

Il processo di acquisizione di una lingua segue queste fasi, o varietà:

• varietà iniziali • varietà basiche • varietà post-basiche:

◊ stadi intermedi◊ varietà avanzate◊ varietà quasi-native

Il passaggio dall’una all’altra fase è determinato da due momenti fondamentali:

Varietà iniziali Varietà basiche Varietà postbasiche Scoperta delle categorie grammaticali Uso della morfologia

Quindi, nel passaggio tra la prima e la seconda fase si scoprono le categorie grammati-cali, tra la seconda e la terza fase la varietà di lingua comincia ad utilizzare la morfologia, nell’ultima si ha un progressivo ampliamento e raffinamento a livello lessicale, sintattico e di competenza per quanto riguarda i registri comunicativi e le tipologie testuali.

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Ciascuna varietà della lingua possiede una propria dignità. Si usa il termine va-rietà della lingua per indicare che le lingue non sono blocchi monolitici, ma sistemi poliedrici con tante facce, ovvero tante varietà linguistiche, al loro interno: ne con-segue che non esiste una lingua italiana, ma tante lingue italiane19 (vd. Pona 2010).

Se ascoltate e lette con sensibilità, in modo attento e senza pregiudizi, le varietà linguistiche creano sorpresa, sono poesia, sono espressive e comunicano bellezza.

Le varietà di apprendimento dell’italiano L2 fanno parte integrante del reperto-rio delle varietà della lingua italiana.

Varietà iniziali20 Le varietà iniziali comprendono i primi tentativi di comunicare. Consistono pre-

valentemente di elementi lessicali e di pochi elementi funzionali e seguono principi di tipo pragmatico. Ci si esprime usando:

- costrutti fissi e formule, pezzi di lingua non analizzati: comesichiama, nonloso. - singole parole, che possono designare oggetti, persone, azioni: zio, penna, tavo-

lo, parlare; ma anche intere situazioni: Cina, che vuol dire: ‘In Cina’, o ‘quando ero in Cina’, o ‘la Cina’, o ‘i cinesi’ o, semplicemente, ‘prima, quando ero piccolo’.

- parole funzione, come io (‘chi parla’); non; basta, finito (‘non devo dire altro’ oppure, abbinato a un verbo ‘ho smesso di …’ o ‘non voglio …’).

- tema iniziale/rema finale: l’argomento di un enunciato è posto all’inizio dell’e-nunciato stesso, lo scopo informativo alla fine:

- io (tema) parlare italiano bene - bambini niente (‘non ci sono bambini’)

In questa fase è massima la dipendenza dell’apprendente dall’interlocutore e dal contesto

19 L’Italiano L2 è una varietà linguistica autonoma e specifica caratterizzata, come altre, da tentativi, ipotesi ed elaborazioni: dei veri e propri esperimenti inconsapevoli e/o consapevoli con la lingua. È una varietà di apprendimento della lingua di arrivo. Ogni persona apprendente manifesta strategie di apprendimento: attraverso un’analisi attenta, si possono cogliere le operazioni e i processi utilizzati per comunicare e per acquisire la nuova lingua.

20 Per una trattazione esaustiva delle varietà di apprendimento, si rimanda, tra gli altri, ad Andorno (2003, 2006a, 2006b), a Chini (2005), e a Giacalone Ramat (1986, 1988, 1993, 2003). Gli esempi illustrati sono, in parte, tratti dalla copiosa Letteratura che fa capo al cosiddetto Progetto di Pavia, progetto interuniversitario di ricerca coordinato prima da Anna Giacalone Ramat, poi da Giuliano Bernini e che ha coinvolto molti ricercatori dell’Italia settentrionale. Le sedi universitarie che hanno partecipato al progetto sono state Pavia, Bergamo, Milano Bicocca, Torino, Trento, Vercelli e Verona. Base comune dei diversi progetti locali è la condivisa impostazione teorica di tipo funzionale. Spesso in letteratura si utilizzano termini come “varietà prebasiche” per indicare le varietà iniziali: noi preferiamo quest’ultima etichetta, convinti che il termine prebasico possa portare a contraddizioni interne al modello linguistico-comunicativo che seguiamo (come non può esistere, per definizione di competenza comunicativa, un livello A zero (A0), così riteniamo che non possa esistere una competenza linguistica osservata come prebasica) e a perniciose discriminazioni.

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situazionale e discorsivo. Il massimo sforzo di apprendimento è volto al riconoscimento e alla memorizzazione di vocaboli e alla strutturazione di enunciati. In questa fase – ma anche nelle altre – il contesto interazionale è fondamentale per l’apprendimento.

Le varietà iniziale e basica sfumano gradualmente l’una nell’altra e paiono ri-flettere principi organizzativi simili e indipendenti dalla lingua di partenza (lingua materna) e da quella di arrivo (lingua seconda).

Varietà basicheLa varietà basica è caratterizzata dall’aumento degli elementi lessicali e in parti-

colare di quelli avverbiali. Non esiste ancora invece un uso della morfologia legata, cioè delle terminazioni delle parole: le parole sono espresse in forme base non flesse o la cui flessione è priva di valore distintivo.

I nomi non hanno marche di genere e di numero, la parte finale della parola non ha quindi valore di marca grammaticale. “Ad es., possiamo trovare alternanze di forme in -o e in -i nei nomi senza che si possa ancora parlare dell’acquisizione della categoria grammaticale del numero” (Giacalone Ramat 1993: 348).

Il verbo italiano ha in questa fase una forma basica che coincide di solito con una forma radice o con l’infinito. Infatti compare generalmente coniugato alla ter-za/seconda persona singolare del presente indicativo ed è utilizzato per esprimere situazioni diverse nel tempo (Io mangia). Si può trovare anche l’infinito, spesso con valore modale cioè per esprimere necessità, intenzionalità (Dire basta problema = “io voglio dire basta ai problemi”).

Il discorso dell’apprendente è organizzato anche sulla base degli schemi valen-ziali del verbo, il quale, come ogni bravo regista, chiama intono a sé degli attori per quel piccolo “dramma” che si chiama enunciato. Le frasi si strutturano maggiormen-te in modo autonomo sulla base di modelli come:

agente21 – verbo – oggetto: bambino lo prende vestiti esperiente22 – verbo – oggetto: bambino guarda

21 L’agente è il ruolo tematico selezionato dal verbo/regista, che corrisponde a colui che compie l’azione. Esempi. Luigina (agente) mangia gli spaghetti. Gli spaghetti sono mangiati da Luigina (agente). Occorre, a questo punto, fare delle precisazioni. La grammatica tradizionale, generalmente, confonde i livelli di

analisi del linguaggio e chiama soggetto “colui che compie l’azione” (l’agente: nozione semantica) o “ciò di cui si parla” (tema, topic, argomento: nozione che pertiene alla grammatica del discorso). In realtà, il soggetto è una funzione morfosintattica: in italiano il soggetto accorda con il verbo flesso ed è quindi facilmente individuabile prescindendo da considerazioni di tipo semantico e/o informativo. Spesso il soggetto grammaticale è anche agente e/o topic: da qui la confusione che, tuttavia, non deve spingere verso inutili semplificazioni.

22 L’esperiente è il ruolo tematico selezionato dal verbo/regista, che corrisponde a colui che prova un’emozione

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Varietà postbasiche Nelle varietà postbasiche c’è una graduale acquisizione delle strutture (foneti-

che, morfosintattiche, semantiche, pragmatiche, ecc.) della lingua italiana.Per quanto riguarda l’aspetto del verbo, compare una prima distinzione nel

modo di esprimere gli eventi in corso, quindi di aspetto imperfettivo, e gli eventi conclusi, quindi di aspetto perfettivo. In italiano queste due funzioni si realizzano sulle forme:

azioni in corso (imperfettive): forma basica (Io gioca)azioni concluse (perfettive): participio (Io giocato)

La distinzione aspettuale fra perfettivo e imperfettivo consente di esprimere anche distinzioni di passato/non passato e di anteriorità, ma non coincide con esse. Per esempio, io giocato indica azione conclusa, ma non necessariamente nel pas-sato; potrebbe corrispondere anche ad un futuro anteriore dell’italiano normativo (“Quando avrò giocato…”), ovvero azione conclusa nel futuro.

In un secondo tempo, questo sistema tende a introdurre, accanto alla distinzione aspettuale, il riferimento temporale:

azioni del tempo presente e futuro: presente azioni del tempo passato imperfettive: imperfetto azioni del tempo passato perfettive: passato prossimo o participio

Accanto a queste tre forme di valore tempo-aspettuale, l’infinito si specializza con valore modale, esprimendo vari casi di intenzionalità, volontà e futuro:

- e se non fossi costretto a stare a scuola cosa faresti? - andare via

Il processo di elaborazione del sistema verbale inizia dall’aspetto, considera in seguito il tempo e, successivamente, il modo, secondo un percorso di questo tipo:

aspetto > tempo > modoIl tempo, come abbiamo visto per le fasi iniziali, può essere espresso attraverso ele-

o una sensazione. Esempi. A Luigina (esperiente) piace l’equitazione. Luigina (esperiente) ama l’equitazione. Sia l’agente sia l’esperiente sono ruoli semantici, con esiti grammaticali diversi che dipendono dalla scelta del

verbo/regista.

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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde

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menti lessicali (“Cina”, “domani”, “ieri”, ecc.).In questa fase si consolidano progressivamente gli altri elementi grammaticali,

come si può osservare dalle sequenze acquisizionali che seguono.

4.3 Sequenze acquisizionaliNumerose ricerche svolte in Europa hanno dimostrato le regolarità nel processo

di acquisizione linguistica; si parla allora di sequenze di acquisizione. Il concetto di sequenza, come ci ricorda Anna Giacalone Ramat, consente agli insegnanti di fare alcune predizioni importanti riguardo al percorso di acquisizione e alle competen-ze specifiche in ogni dato momento, in quanto:

- l’acquisizione segue stadi precisi, conosciuti, indagati, studiati. - il passaggio ad uno stadio successivo è caratterizzato dall’uso sistematico di

una nuova struttura e avviene gradualmente: la nuova struttura acquisita può con-vivere più o meno a lungo con le strutture precedenti.

- gli stadi sono tra loro in rapporto implicazionale, cioè la presenza di una data struttura nella varietà dell’apprendente implica la presenza di specifiche struttu-re che la precedono nella sequenza, come si è cercato di mostrare nelle tabelle a gradoni qui di seguito: ogni stadio/gradone poggia sugli altri, permettendo all’ap-prendente ad ogni tappa di sostenersi sulle competenze acquisite nella tappa pre-cedente.

Sequenza d’acquisizione per Tempo/Aspetto/Modo23 in italiano L2 (studi in Bernini-Giacalone Ramat (a cura di) 1990; Giacalone Ramat 1993, (a cura

di) 2003; Banfi 1993; Berretta 2002):

presente/infinito > participio passato (anche con ausiliare) > imperfetto > futuro > condizionale > congiuntivo

23 L’espressione della temporalità nelle varietà deggli apprendenti una qualsiasi L2 tende a procedere da strategie pragmatiche (legate all’universo del discorso come, per esempio, l’uso dell’ordine cronologico) a strategie lessicali (l’uso di avverbiali temporali), fino a stategie di tipo grammaticale (l’uso della morfologia verbale).

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6

5 congiuntivo

4 condizionale condizionale

3 futuro futuro futuro

2 imperfetto imperfetto imperfetto imperfetto

1 participio passato

participio passato

participio passato

participio passato

participio passato

presente/infinito

presente/infinito

presente/infinito

presente/infinito

presente/infinito

presente/infinito

Acquisizione delle forme di imperativo in italiano L2 (Berretta 2002 [1993]):

2a Singolare (SG) Verbi(VB) in -ere/-ire, perché è la stessa forma del presente indi-cativo > 2a SG NEG > 2a PL > 2a SG Vb –are, perché è una forma diversa dal presente indicativo > 2a SG ‘di cortesia’ (imperativo di cortesia, congiuntivo esortativo)

Ordine d’acquisizione per le categorie:

persona > numero > genere

Sequenza di acquisizione dell’accordo di genere (Chini 1995):

pronome anaforico (lui/lei) > articolo (la donna) > aggettivo attributivo (la donna bella) > aggettivo predicativo (la donna è bella) > participio passato (la donna è arri-vata)

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Capitolo III - L’acquisizione delle lingue seconde

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5

4

participio passato

(la donna è arrivata)

3aggettivo

predicativo (la donna è bella)

aggettivo predicativo (la donna è bella)

2aggettivo

attributivo (la donna bella)

aggettivo attributivo (la donna bella)

aggettivo attributivo (la donna bella)

1articolo

(la donna)

articolo

(la donna)

articolo

(la donna)

articolo

(la donna)

pronome anaforico (lui/

lei)

pronome anaforico (lui/

lei)

pronome anaforico (lui/

lei)

pronome anaforico (lui/

lei)

pronome anaforico (lui/

lei)

Sequenza di acquisizione della negazione (Bernini 1996):

no > non > niente/nessuno > neanche/mica

Sequenza d’acquisizione dei pronomi clitici (Berretta 1986; cfr. Pona 2009a, 2009b):

ci (+ ‘essere’) anche non analizzato > mi dativo > mi riflessivo > si impers/passivante > si riflessivo > ti > lo flesso (lo>la>li>le) > gruppi me lo/te lo > ci locativale > dativi di 3a > ci/vi di 1a pl. e 2a pl. > ne in gruppi (non analizzato: “non me ne frega niente”) >

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ne partitivo (analizzato: “ne voglio due”) > ne accusativo genitivale (analizzato: “ne ha parlato la maestra”)> ne locativo (dapprima non analizzato, poi analizzato: “me ne vado”).

Come si vede da queste sequenze, il processo di elaborazione segue delle tap-pe forse influenzate dall’input e dalla frequenza di determinate strutture dell’input stesso ma indipendenti da esso. Può accadere che strutture molto frequenti nell’in-put appaiano relativamente tardi nel percorso di apprendimento. Occorre, quindi, non affidarsi ad esercitazioni e correzioni sistematiche di una determinata struttura, ma fidarsi del naturale programma di apprendimento della lingua.

4.4 Riflessioni24

Qual è il ruolo dell’interferenza della lingua materna e delle strategie di appren-dimento in generale? Qual è il ruolo della Grammatica Universale?

Come spiegare la performance di un apprendente ispanofono che produce frasi del tipo io fare i compiti tutti i giorni (‘io faccio i compiti tutti i giorni’) o del tipo mi piacerò andare a Parigi (‘mi piacerà andare a Parigi’)? Sicuramente l’apprendente non sta facendo ricorso alla L1, lo spagnolo, che presenta caratteristiche strutturali simi-li a quelle della lingua italiana per quanto riguarda il presente abituale e la struttura argomentale del verbo gustar ‘piacere’, ma a possibilità generali della Grammatica Universale (vd. Pona 2009a, 2009b), possibilità altrimenti definite come strategie di apprendimento (si veda tutta la letteratura che fa capo al Progetto di Pavia).

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24 Si rimanda a VanPatten-Williams (2008) per una presentazione introduttiva delle diverse teorie e dei diversi modelli dell’acquisizione della seconda lingua e per un confronto dei medesimi su tematiche molto dibattute quali, per esempio, il ruolo della lingua materna e quello della Grammatica Universale nel processo di acquisizione della L2.

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CAPITOLO IVL’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

La prima lingua straniera è un avvenimento nella vita del ra-gazzo. Deve essere un successo, sennò guai.

(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, 1967)

1. LaboratorioQuando sono stato studente in un corso di lingua…

Che cosa mi piaceva? Che cosa non mi piaceva?

Quali erano gli aspetti positivi ai fini dell’acquisizione/apprendimento della

seconda lingua?

Quali erano gli aspetti negativi ai fini dell’acquisizione/apprendimento della

seconda lingua?

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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Che cosa è la "grammatica"? Quale potrebbe essere una possibile definizione di "grammatica"?___________________________________________________________________

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Qual è il ruolo della grammatica nell’insegnamento/apprendimento delle lingue se-conde?___________________________________________________________________

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Qual è il nostro obiettivo come insegnanti/facilitatori linguistici?___________________________________________________________________

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Che cosa è la “competenza comunicativa”?___________________________________________________________________

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Qual è il nostro ruolo come insegnanti/facilitatori linguistici nel processo di sviluppo della competenza linguistico-comunicativa degli apprendenti?___________________________________________________________________

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2. Una possibile definizione di grammatica

1. il libro scolastico che così si intitola (o ha mutato il titolo in più accattivanti formule, rimanendo un insieme di prescrizioni in parte inspiegabili);

2. l’insieme delle regole di senso comune, con forte impianto normativo, tramandate fondamentalmente per via orale, senza tema di smentite provenienti dall’uso o dalla teoria (ad es., l’uso obbligatorio di “egli” contro il dirompente “lui” come pronome soggetto di terza persona), con rimando indebito ad auctores che, a leggerli davvero, si rivelano partigiani della pratica rispet-

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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to a quella imposta nelle scuole: tanto per citarne uno, e non recente, Manzoni;

3. le competenze implicite, profondamente interiorizzate, che permettono a ogni parlante di costruire, nella lingua materna, frasi mai udite prima e di decidere della grammaticalità e accet-tabilità di quanto si ascolta: ad esempio, “ne sono arrivati tre” oppure “ne hanno colpiti tre” viene universalmente accettato dagli italofoni, mentre “ne hanno telefonato tre” no;

4. il sistema dei meccanismi che regolano il funzionamento del-la lingua, che va descritto e ricostruito scientificamente, senza fermarsi di fronte a norme storicamente agitate da minoranze di letterati o burocrati. Ad esempio, esiste una spiegazione del perché dell’esempio fatto al n. 3, di cui non sono a conoscenza le persone che “insegnano la grammatica” basandosi solo su (1) e (2).

(da Bisogna insegnarla, la grammatica, di Giuseppe Faso)

2.1 Tipi di grammatiche (cfr. Giunchi 1990, Ciliberti 1991)

• Grammatiche teoriche (hanno l’obiettivo di validare una particolare teoria: cfr. Aspects of a Theory of Syntax di Noam Chomsky)

• Grammatiche linguistiche (esplicitano le conoscenze che il destinatario, par-lante nativo, già possiede implicitamente)

• Grammatiche pedagogiche e didattiche (contengono solo alcuni fatti poiché limitano esplicitamente il loro ambito di indagine)

Con il termine grammatica, intendiamo più cose: la grammatica intesa come conoscenza (implicita, inconsapevole, innata, crea-tiva) che tutti i parlanti hanno della lingua; la descrizione di tale conoscenza. All’interno di questo secondo gruppo, abbiamo una ulteriore divisione:

1) le grammatiche teoriche, rivolte a destinatari specialisti, hanno l’obiettivo di parlare dei fatti linguistici in modo da raggiungere adeguatezza descrittiva ed esplicativa: fornire, cioè, al contempo una descrizione e una spiegazione dei fatti linguistici in modo da

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tentare di penetrare il fenomeno lingua. Un esempio noto di gram-matica teorica è la Grammatica Generativa di Noam Chomsky;

2) le grammatiche linguistiche, rivolte generalmente ai parlanti na-tivi delle lingue medesime, hanno come obiettivo la descrizione delle conoscenze implicite dei parlanti. Spesso, tuttavia, molte grammatiche di questo tipo hanno natura prescrittiva, cioè im-pongono delle norme (delle regole) da rispettare e affrontano il fenomeno lingua più come fatto convenzionale che scientifico. Le grammatiche di questo ultimo tipo si rifanno ad una norma con-solidatasi nel tempo attraverso gli usi letterari: impongono una varietà di tipo standard e non si interessano degli usi, ovvero degli aspetti dell’esecuzione. Esistono anche delle grammatiche lingui-stiche meno dogmatiche che si concentrano non sulla norma ma sull’uso della lingua, evidenziandone, tra l’altro, la natura diatopica (legata allo spostamento nello spazio geografico), diafasica (legata ai diversi contesti di uso e alle diverse situazioni comunicative), diastratica (legata alle diverse componenti sociali) ed infine dia-mesica (legata al mezzo di trasmissione, scritto od orale). Esempi di buone grammatiche linguistiche sono la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi-Salvi-Vanelli, la Nuova gram-matica italiana di Salvi-Vanelli ed infine La grammatica italiana di Andorno;

3) le grammatiche pedagogiche, rivolte agli apprendenti di L2, hanno l’obiettivo di presentare una selezione dei fatti linguistici in modo da facilitarne l’acquisizione negli apprendenti. Hanno carat-tere marcatamente non esaustivo. (Masciello-Pona 2010: 201)

3. Una possibile definizione di competenza comunicativa

Il termine competenza comunicativa descrive la capacità del parlante di selezionare, nell’ambito di tutte le espressioni gram-maticali a sua disposizione, quelle forme che riflettono in modo appropriato le norme sociali che governano il comportamento in situazioni specifiche. (Hymes 1972: 270)

Dobbiamo considerare il fatto che il bambino acquisisce non solo la grammaticalità delle frasi ma anche la loro appropriatezza. Egli acquisisce la capacità di sapere quando parlare o non parlare, cosa dire con chi, quando, dove ed in che modo. In breve, il bam-bino impara ad usare un repertorio di atti linguistici, a prendere parte ad eventi linguistici, a comprendere come gli altri li valuta-

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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no. Questa competenza, inoltre, si integra con attitudini, valori e motivazioni che riguardano la lingua, le sue caratteristiche, i suoi usi, fondendosi con la competenza che i parlanti hanno nell’inte-grare la lingua ad altri codici comunicativi. (ivi: 277-278)

[…] capacità dei partecipanti di procedere nell’interazione verba-le con possibilità di successo. (Duranti 1996: 157)

La competenza comunicativa è “un sistema soggiacente di conoscenze e di abilità richieste per comunicare” (Canale 1993: 5).

4. Oltre la competenza comunicativa: la competenza d’azione La competenza d’azione può essere definita come “la capacità di interagire lin-

guisticamente con altri individui in modo partecipativo ed orientato al messaggio per raggiungere determinati scopi” (Diadori 2011: 57).

5. Modelli operativi

ATTIVITÀ 1 Scambiamoci delle opinioni.

Come abbiamo imparato le lingue straniere?25

ATTIVITÀ 2Leggiamo il testo.

Ecco qui un metodo pratico per imparare una lingua straniera in classe. L’Ass. Vol. Centro Internazionale Studenti “G. La Pira” segue, fra gli altri, anche questo metodo. Prima di tutto, il nome: Unità di lavoro/apprendimento. Poi, le fasi che compongono l’unità. Presentiamole.

Nella fase di Motivazione/Contestualizzazione si sviluppano l’interesse e la motivazione e, allo stesso tempo, si iniziano a conoscere gli argomenti dei testi – audio (per esempio canzoni, dialoghi, conversazioni), video (per esempio pub-blicità o film senza audio), audio-video (per esempio film, cortometraggi), scritti (per esempio racconti, descrizioni) od iconici (per esempio immagini reali, vignette

25 Questa unità didattica è liberamente tratta da Gabbanini-Goudarzi-Masciello-Pona (2010). Le attività 4), 5), 6) non sono pensate per un percorso di autoformazione rivolto agli insegnanti, ma agli apprendenti di italiano L2. Abbiamo deciso di lasciare tali attività per mostrare l’intera unità didattica.

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senza parole) - che si affrontano durante l’unità di lavoro/apprendimento. Durante questa fase, si recuperano e si rielaborano le conoscenze e si attiva la grammatica dell’aspettativa, cioè la capacità di ipotizzare, di immaginare quello che forse si dirà o si scriverà in un dato contesto; si crea, inoltre, curiosità per quello che seguirà.

La fase di Globalità/Verifica della comprensione è la fase della scoperta del testo. Questa scoperta sarà progressiva: si inizia con l’osservazione del paratesto (immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), e con la conseguente formulazione di ipo-tesi, si va avanti con l’analisi del cotesto e si arriva infine all’analisi del testo vero e proprio. Si legge il testo dall’informazione generale all’informazione particolare attraverso fasi di skimming e scanning: si fa skimming per stabilire di cosa tratta il te-sto e si passa allo scanning soltanto in una fase secondaria per recuperare nel testo informazioni particolari e specifiche.

Nella fase di Analisi/Attività di Comunicazione sul testo si fa una ricerca sul testo, precedentemente osservato e compreso, e si trovano: 1) i mezzi per esprime-re bisogni comunicativi dell’apprendente (per esempio, “Come si invita qualcuno ad uscire a cena fuori?”); 2) elementi linguistici e grammaticali (sottolineando, cer-chiando, mettendo dentro delle tabelle o degli insiemi vuoti) (per esempio, “Sotto-lineiamo tutti i verbi che esprimono azioni al passato”); 3) elementi lessicali appar-tenenti a specifici campi semantici (“Sottolineiamo tutte le parole che associamo alla colazione”). In questa fase, senza l’insegnante, si scoprono, da soli, cose molto importanti e tutte queste scoperte vengono dal testo.

Nella fase di Sintesi/Attività di Comunicazione dal testo si usano le informa-zioni del testo, per parlare di altre cose (per esempio, se il testo conteneva verbi imperfetti, una attività di sintesi potrebbe essere “Che cosa facevi per le vacanze da bambino?”).

Nella fase di Riflessione/Attività metalinguistica si verificano quelle ipotesi formulate nelle precedenti fasi dell’unità. L’insegnante può anche dare una spiega-zione grammaticale delle strutture, ma prima si deve far riflettere gli apprendenti da soli sulle regole.

Nell’attività di Rinforzo si va a fissare quanto appreso nelle fasi precedenti dell’u-nità. In questa fase si possono fare esercizi di tipo tradizionale (per esempio, “Co-niuga il verbo fare”).

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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Nell’attività di Verifica/Output o Azione si mettono in pratica, fuori dalla classe, le cose che si sono imparate precedentemente in classe.

ATTIVITÀ 3Mettiamo in ordine e descriviamo le diverse fasi dell’unità di lavoro/ apprendimento

Unità di Lavoro/ Apprendimento Descrizione

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ATTIVITÀ 4Sottolineiamo, nel testo, tutti i verbi e i loro soggetti grammaticali. Osserviamo i verbi alla terza persona plurale. Quali sono i soggetti?

ATTIVITÀ 5Quali lingue hai studiato a scuola e come? E qual è il tuo metodo preferito?

ATTIVITÀ 6Quando si usa “si”? Come si usa?

5.1 Unità di lavoro/apprendimento

In questo paragrafo andiamo a descrivere i modelli operativi oggi maggiormen-te impiegati dagli insegnanti/facilitatori linguistici: l’unità di apprendimento pro-posta da Balboni (2002), l’unità didattica centrata sul testo proposta da Vedovelli (2002) e l’unità di lavoro (UdL) proposta da Diadori (2009). Diamo, qui di seguito, uno schema riassuntivo sia dei suddetti modelli (con l’indicazione delle fasi di cui sono composti) sia del modello operativo proposto nel manuale di italiano come L2 Ci siamo! Comunicare, interagire, contaminarsi con l’italiano: la tabella permette un rapido raffronto. Da ora innanzi useremo un solo termine per i diversi modelli glot-todidattici – unità di lavoro/apprendimento – poiché risultano affini e facilmente integrabili. Il primo modello, della scuola di Freddi, Balboni e Porcelli, si richiama apertamente alla psicologia della Gestalt e alle nozioni di bimodalità e direziona-lità proposte da Danesi (1988); i modelli di Diadori e Vedovelli rimandano, invece, al Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue e alla funzione chiave del testo nella comunicazione e nell’apprendimento delle lingue.

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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Gabbanini-Goudarzi-Masciello-Pona

(2010),

Ci siamo! Comunicare,

interagire, contaminarsi con

l’italiano

Unità di Apprendimento (Balboni 2002)

Unità didattica centrata sul testo

(Vedovelli 2002)

Unità di lavoro

UdL

(Pierangela Diadori 2009)

Per cominciare Motivazione Contestualizzazione Introduzione

Per capire Globalità Verifica della comprensione

Svolgimento

Per cercare AnalisiAttività di

comunicazione sul testo

Per usare SintesiAttività di

comunicazione dal testo

Per scoprire Riflessione Attività metalinguistica

Esercizi Attività di rinforzo Attività di rinforzo

Attività di verifica Output o Azione Conclusione

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La Motivazione/Contestualizzazione è quella fase dell’unità di apprendimento/la-voro nella quale l’insegnante/facilitatore linguistico cercherà di motivare l’apprendente e allo stesso tempo introdurrà l’universo del testo, sia esso audio, video, audio-video, scritto od iconico, che affronterà durante l’unità di apprendimento/lavoro. Questa fase ha anche lo scopo non secondario di facilitare la ripresa e la rielaborazione delle proprie conoscenze, non solo linguistico-comunicative, e di attivare la expectancy grammar, la capacità di ipotizzare quello che potrebbe venir detto o scritto in un dato contesto.

La fase di Globalità/Verifica della comprensione è la fase della scoperta del testo. Questa scoperta sarà progressiva: si andrà dall’osservazione del paratesto (immagini, ti-tolo, aspetto del testo ecc.), e dalla conseguente formulazioni di ipotesi, all’analisi del cotesto per arrivare infine all’analisi del testo vero e proprio. La lettura del testo avviene dal generale al particolare attraverso fasi di skimming e scanning. Swaffar (1983) propone che gli apprendenti si muovano attraverso le due fasi di skimming e scanning per ogni testo: si avrà skimming per stabilire di cosa tratti il testo e si passerà allo scanning soltan-to in una fase secondaria per recuperare nel testo informazioni particolari e specifiche.

Nella fase di Analisi/Attività di Comunicazione sul testo si farà una ricerca sul testo su come risolvere un bisogno comunicativo (analisi funzionale), una problematica lingui-stica (analisi grammaticale) o lessicale (analisi lessicale). Questa fase è induttiva perché permette all’apprendente scoperte personali a partire dal testo.

La fase di Sintesi/Attività di Comunicazione dal testo permette all’apprendente di riutilizzare le informazioni comunicative e linguistiche, precedentemente incontrate ed analizzate nel testo per rispondere a propri bisogni comunicativi.

Nella fase di Riflessione/Attività metalinguistica gli apprendenti saranno indotti a verificare quelle ipotesi formulate nelle precedenti fasi dell’unità. L’insegnante/facili-tatore potrà anche offrire una spiegazione grammaticale delle strutture, ma solo dopo che il gruppo-classe abbia riflettuto autonomamente sulle medesime. La novità di que-sti modelli rispetto agli approcci di tipo deduttivo risiede nel collocamento di questa fase all’interno dell’unità: se metodi di tipo tradizionale (il modello operativo era quello della lezione) partivano dalla spiegazione della regola da parte dell’insegnante per poi chiedere agli studenti di lavorare su esercizi di tipo decontestualizzato (come i drills o gli esercizi manipolativi) per fissare le strutture in un’ottica di tipo deduttivo, l’unità di ap-prendimento/lavoro si concentra sul testo e permette induttivamente all’apprendente di fare delle ipotesi e di verificarle personalmente.

L’Attività di rinforzo è la fase nella quale si va a consolidare quanto appreso nelle fasi precedenti dell’unità. In questa fase si possono proporre attività di tipo più tra-dizionale; quello che conta è che la somministrazione degli esercizi vada a seguire una riflessione metalinguistica che l’apprendente ha fatto personalmente.

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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L’Attività di verifica/Output o Azione si riferisce, oltre alla possibilità di veri-ficare formalmente quanto appreso in classe, alla possibilità di misurare fuori dal contesto classe ciò che l’apprendente ha appreso all’interno del gruppo-classe.

Questo tipo di modello operativo permetterebbe, secondo Balboni (2002, 2008), che riprende le proposte del neurolinguista Marcel Danesi, di sfruttare la bimodalità e la direzionalità26 del nostro cervello. Citiamo da Balboni (2008):

Il termine suggerisce che le modalità del cervello, quella ana-litica dell’emisfero sinistro e quella globale dell’emisfero de-stro, sono coinvolte nella comunicazione linguistica. Ne con-segue che quando si studia una lingua, e soprattutto quando la si usa per comprendere o per produrre testi, per dialogare ecc., si devono attivare entrambi le modalità, quella globale e quella analitica […]. (Balboni 2008: 15)

Il principio della direzionalità stabilisce che l’uso bimoda-le del cervello avviene secondo una direzione ben precisa: dall’emisfero destro (modalità contestuali, globali, emozio-nali) a quello sinistro (modalità più formali, analitiche, razio-nali). Bisogna prestare molta attenzione a questo principio: il percorso naturale (cioè quello previsto dal nostro patrimo-nio genetico) è quello direzionale, dalla percezione globale a quella analitica, anche se molta tradizione scolastica ci ha abituati al percorso opposto (prima il teorema e poi gli esempi, prima le regole e poi le attività, prima la storia della letteratura e poi i testi letterari). (ivi: 16)

Benché i suddetti modelli operativi possano, a nostro avviso, avere una loro utili-tà all’interno del processo di apprendimento/insegnamento di una seconda lingua, qualora se ne superi la rigidità programmatica che li caratterizza e se ne consideri il potenziale relazionale all’interno del gruppo-classe, siamo, tuttavia, d’accordo con quanto affermato da Stefano Rastelli, il quale lamenta la mancanza di studi specifici con riscontri empirici neurolinguistici sulla “bontà” di certe scelte didattiche e l’uso di determinati modelli operativi. Occorre precisare che anche i modelli operativi che abbiamo appena presentato, perché ampiamente utilizzati per l’insegnamento

26 Si veda Danesi (1998) per una trattazione diffusa delle caratteristiche neurolinguistiche dell’apprendimento di una lingua seconda e per una riflessione attenta sulle possibilità glottodidattiche di tali caratteristiche.

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dell’italiano come L2, in Italia e all’estero, non sono supportati da nessuno studio specifico che dimostri un significativo rapporto di causa-effetto tra variazioni del modello operativo e variazioni a livello fisiologico nel cervello degli apprendenti.27

5.2 Esempi di unità di lavoro/apprendimentoDiamo qui di seguito alcuni esempi pratici di unità di lavoro/apprendimento

(liberamente tratti da Gabbanini-Goudarzi-Masciello-Pona (2010), che possano de-scrivere un possibile incontro didattico basato sul testo. Siamo infatti convinti so-stenitori della centralità del testo nell’insegnamento delle lingue straniere.

Abbiamo scelto questi esempi perché sperimentati in diversi gruppi classe che hanno reagito dimostrando creatività ed entusiasmo nell’affrontare dei testi perso-nali. L’ostentata partecipazione in prima persona dell’insegnante/facilitatore lingui-stico e la stesura di un testo marcatamente autobiografico ha spinto gli apprendenti ad una maggiore partecipazione in prima persona e alla produzione di testi per-sonali. Riteniamo, infatti, che l’autonarrazione non sia un mero strumento didatti-co, ma una componente fondamentale di riduzione delle distanze in classe e che sostenga una modalità cognitiva lontana da qualunque forma di categorizzazione, che si tratti della provenienza dell’apprendente o del suo particolare modo di cono-scere e apprendere la lingua. Riuscire a raccontare di sé per l’apprendente richiede specularmente l’attenzione e la preparazione all’osservazione dell’insegnante, che dovrebbe sempre privilegiare l’aspetto dialogico. La classe ideale può divenire un micocosmo di avvicinamenti spontanei, in cui “viversi la lingua” coincide con un modo naturale di parlare di sé. Per tali ragioni, siamo convinti che l’unità didattica conservi la sua efficacia solo se orientata alla conoscenza reciproca e solo se aperta a metamorfosi durante il suo svolgimento, ovvero a modifiche provocate dal dia-logo tra l’insegnante/facilitatore e gli apprendenti, al punto tale che l’idea stessa di unità didattica talvolta svanisce, lasciando spazio ad una comunicazione fluida e reale, profonda proprio perché distante dall’artificiosità di attività programmate. Le unità di apprendimento qui proposte privilegiano pertanto spunti autobiografici, mai da intendersi come racconti forzati di presunte differenze immaginate dall’in-segnante/facilitatore (il classico e violento chiedere “da noi è così. Da voi?”) 28. Da

27 “Le ipotesi che si leggono in Danesi (1990) (oggetto di ampia divulgazione) non sono supportate da nessuno studio di neuroimmagine condotto in una classe (all’epoca le tecniche di neuroimmagine non erano state ancora inventate)”. (Nuzzo- Rastelli 2011: 39)

28 I capp. 9 e 10 del presente volume sono dedicati ad una trattazione critica del modello di unità didattica standard (in cui la componente autonarrativa è assente o presente in termini di etnicizzazione), e ad alcune

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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un punto di vista strettamente operativo, l’unità di apprendimento ha inizio con un brainstorming o una elicitazione sulle espressioni quando ero bambino..., posta elettronica, il regalo più bello... rispettivamente. Dopo questa prima fase di moti-vazione, che ha permesso di introdurre l’universo del testo, abbiamo distribuito al gruppo classe il seguente testo da noi elaborato e di chiara natura autobiografica29. Lo abbiamo letto insieme ed infine siamo passati alle attività che seguono. Consi-gliamo di accompagnare tutte le attività che seguono con della musica o dei video clip selezionati di volta in volta insieme agli apprendenti, contrariamente a quanto suggerito dalla suggestopedia che vedrebbe nella musica barocca un veicolo privi-legiato di apprendimento della lingua e che, in realtà, preseleziona “culturalmente” modelli musicali di tipo eurocentrico30.

proposte per il suo superamento. 29 A teacher’s own story can serve as source for a personalized and thus ‘authentic’ text (Omaggio 2001: 223).30 Per una trattazione dettagliata del metodo suggestopedico, si veda Vignozzi (2003).

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Unità didattica per giovani-adulti

QUANDO ERO BAMBINO ...

ATTIVITÀ 1Leggiamo il testo e rispondiamo alle domande:

Chi? .................................................................................................................................................

Dove? .............................................................................................................................................

Come? ...........................................................................................................................................

Quando? .......................................................................................................................................

Azione? .........................................................................................................................................

Perché? ..........................................................................................................................................

Quando ero bambino, in estate, andavo al mare in Toscana, a Marina di Massa, ad un’ora di macchina da dove abito. Lì mia zia aveva una casa molto bella con un giardino spazioso. La casa mi piaceva molto perché aveva un tavolo da biliardo, un tavolo da ping pong e il calcio balilla. Che cosa è il calcio balilla?

La mattina appena alzato, la mia famiglia ed io andavamo a mangiare i bomboloni caldi alla crema e poi, dopo tre ore, facevo il bagno nel mare. Il mar Ligure, che non è un oceano perché è molto piccolo, è abbastanza caldo: noi diciamo che è caldo come un brodo!

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A Mezzogiorno pranzavo a casa, e, dopo pranzo, volevo tornare al mare. Ma mia madre mi diceva sempre che non si può stare sulla spiaggia nelle ore più calde della giornata perché i raggi violetti fanno molto male! Allora aspettavo le 4 del pomeriggio e poi correvo a tuffarmi nell’acqua.

La sera andavo a fare quattro passi nel centro di Marina di Massa con tutte le sue bancarelle di libri illuminate. Ovviamente compravo sempre dei libri perché anche da bambino ero un secchione malefico! Che bei ricordi!

ATTIVITÀ 2Leggiamo nuovamente il testo e rispondiamo alle domande:

1. Dove andava Alan da bambino in vacanza?

______________________________________________________

2. Dov’è il mar Ligure?

______________________________________________________

3. Quali sono le differenze tra il mare e l’oceano?

______________________________________________________

4. Che cosa faceva Alan nel pomeriggio?

______________________________________________________

5. Che cosa faceva Alan la sera?

______________________________________________________

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ATTIVITÀ 3Sottolineiamo tutti i verbi al passato. Qual è la coniugazione dell’IMPERFETTO?

Andare Volere Partireio

tu avanti

lei / luinoi

voi volevateloro partivano

ATTIVITÀ 4Che cosa facevi da bambino per le vacanze? Scrivi una breve composizione.

__________________________________________________________

__________________________________________________________

__________________________________________________________

__________________________________________________________

ATTIVITÀ 5Quando si può usare l’imperfetto indicativo?

__________________________________________________________

__________________________________________________________

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__________________________________________________________

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Unità didattica per il secondo ciclo delle primarie e i primi anni delle secondarie

IO, AL MARE...

Quando ero bambino, in estate, andavo al mare in Toscana, a Marina di Massa, ad un’ora di macchina da dove abito. Lì mia zia aveva una casa molto bella con un giardino spazioso. La casa mi piaceva molto perché aveva un tavolo da biliardo, un tavolo da ping pong e il calcio balilla. Che cosa è il calcio balilla?

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La mattina appena alzato, la mia famiglia ed io andavamo a mangiare i bomboloni caldi alla crema e le ciambelle e poi, dopo tre ore, facevo il bagno nel mare.

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Il mar Ligure, che non è un oceano perché è molto piccolo, è abbastanza caldo: noi diciamo che è caldo come un brodo!A Mezzogiorno pranzavo a casa, e, dopo pranzo, volevo tornare al mare. Ma mia madre mi diceva sempre che non si può stare sulla spiaggia nelle ore più calde della giornata perché i raggi violetti fanno molto male! Allora aspettavo le 4 del pomeriggio e poi andavo nell’acqua e nuotavo.

La sera andavo a fare quattro passi nel centro di Marina di Massa con tutte le sue bancarelle di libri. Ovviamente compravo sempre dei libri perché anche da bambino ero un secchione! Che bei ricordi!

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ATTIVITÀ 1

1. Dove andava Alan da bambino in vacanza? _____________________________________________________

2. Quali sono le differenze tra il mare e l’oceano? _____________________________________________________

3. Che cosa faceva Alan nel pomeriggio? _____________________________________________________

4. Che cosa faceva Alan la sera? _____________________________________________________

ATTIVITÀ 2Cosa facevi quando eri molto piccolo per le vacanze? Scrivi una breve composizione.

__________________________________________________________

__________________________________________________________

__________________________________________________________

__________________________________________________________

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Unità didattica per giovani-adulti

PER COMINCIAREATTIVITÀ 1 Parliamo.

IL REGALO PIÙ BELLO…

PER CAPIREATTIVITÀ 2Leggiamo.

Cosa regaliamo ad Andrea?

Il 16 luglio è il compleanno di Andrea, un mio caro amico, e non so ancora cosa regalargli. L’anno scorso gli abbiamo comprato una canottiera per andare in palestra e gli è piaciuta molto. E quest’anno? Ho chiamato Gloria e le ho chiesto un consiglio. Mi ha risposto che gli voleva acquistare un abbronzante con filtro protettivo, visto che è sempre sulla spiaggia a prendere il sole. Gli piacerà, ad Andrea, un regalo di questo tipo? E Silvia? Le ho telefonato e mi ha risposto che voleva comprargli un libro su un argomento molto interessante: smettere di fumare. Benissimo, perché non aggiungere al regalo anche un bell’accendino per ridere un po’ del suo proposito di smettere di fumare? Non riuscirà mai a smettere: fumare gli dà tanta soddisfazione e sicurezza. Questa, infine, è stata la mia proposta. Così per riassumere abbiamo deciso di fargli questo regalo: libro sul fumo, accendino e crema solare con filtro protettivo. Gli piacerà? Mah, è difficile accontentare Andrea ma devo ammettere che i regali che gli abbiamo dato in passato gli sono sempre piaciuti. Speriamo bene!!! Quindi, stasera gli abbiamo organizzato una cena a casa mia e di Silvia e gli offriremo una bella torta al cioccolato con panna. Quando Andrea sarà sazio gli daremo i regali e sono convinto che gli piaceranno molto.

ATTIVITÀ 3 Troviamo le affermazioni vere.

1. So cosa regalare ad Andrea.2. È la prima volta che facciamo un regalo ad Andrea.3. Lo scorso anno abbiamo sbagliato a fargli il regalo.

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4. Gloria vorrebbe comprargli una crema protettiva per il sole.5. Ad Andrea non piace prendere il sole.6. Andrea è un grande appassionato di alta montagna.7. Ho telefonato a Silvia ma non mi ha risposto.8. Lo scorso anno ho regalato un libro per aiutarla a smettere di fumare.9. Silvia vorrebbe regalare un libro ad Andrea.10. Andrea fuma molte sigarette.11. Vorrei regalare ad Andrea un pacchetto di sigarette.12. Alla fine ho deciso cosa regalare ad Andrea: gli faremo tre doni.13. Abbiamo organizzato una cena per Andrea a casa di Gloria.14. Io e Silvia viviamo insieme.15. Appena Andrea arriverà, gli daremo i regali.

PER CERCAREATTIVITÀ 4 Completiamo

Trovare nel testo dei verbi con un significato simile a quello di “dare”. Conosci altri verbi con un significato simile a “dare”?

Trovare un verbo con significato simile a “dire”.Conosci altri verbi con un significato simile a “dire”?

Trovare tutti i sinonimi di “telefonare”.Conosci altri modi per dire “telefonare”?

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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ATTIVITÀ 5 Completiamo.

1) Sottolineare nel testo tutti i verbi e i pronomi e inserirli in due insiemi.

2) È possibile raggruppare i pronomi in modo diverso?

Perché?

PER USAREATTIVITÀ 6 Scriviamo un testo con massimo 80/100 parole.

L’ultimo regalo che ho fatto alla mia migliore amica o al mio migliore amico…

__________________________________________________________

__________________________________________________________

__________________________________________________________

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PER SCOPRIREAttività 7 Completiamo.

A

gli comunica

le comunica

B

Qual è la posizione di gli e le rispetto al verbo?

C

Di solito usiamo i pronomi gli e le con questi verbi:

D

Quanti partecipanti all’azione/evento ci sono quando usiamo i verbi della griglia “C”?

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Capitolo IV - L’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde

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CAPITOLO VIl Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue

Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

(Risposta di don Lorenzo Milani ai cappellani militari to-scani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11-2-1965)

Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (Qcer, qui di seguito), altrimenti conosciuto come Framework, è un documento del Consiglio d’Europa (da non confondersi con l’Unione Europea), una organizzazione politica fondata nel 1949 con sede a Strasburgo. Apparso in versione elettronica negli anni 1996-1997 e successivamente rielaborato ed integrato, viene pubblicato in versione cartacea nel 2001 in lingua inglese e francese. La prima versione tradotta in italiano è del 2002.

Il documento nasce dall’esigenza di promuovere all’interno della Comunità Europea la conoscenza delle lingue straniere e, al contempo, uniformare la preparazione lingui-stica dei cittadini europei nell’ottica di una politica che favorisca il plurilinguismo e la mobilità interna. Altro obiettivo del documento è quello di conformare i livelli di com-petenza linguistico-comunicativa raggiunti in ambito scolastico.

Il Qcer descrive in modo dettagliato ciò che gli apprendenti una lingua devono im-parare a fare per usare la lingua nella comunicazione e quali conoscenze ed abilità de-vono sviluppare per essere capaci di operare efficacemente.L’approccio promosso dal Qcer nell’apprendimento linguistico è orientato all’azione.Il Qcer non è un modello prescrittivo o un insieme fisso e rigido di prescrizioni ma un insieme aperto di indicazioni da selezionare in base al contesto e ai bisogni degli apprendenti.

The Common European Framework provides a common basis for the elaboration of language syllabuses, curriculum guidelines, examinations, textbooks, ecc. across Europe. It describes in a comprehensive way what language learners have to learn to do in order to use a language for com-munication and what knowledge and skills they have to develop so as to be able to act effectively. The description also covers the cultural context in which language is set. The Framework also defines levels of proficiency which allow learners’ progress to be measured at each stage of learning and on a life-long basis. (Common European Framework: 1)

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Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue

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1. LABORATORIOIl Qcer stabilisce dei criteri generali per definire i livelli di competenza nelle lin-

gue straniere. Qui sotto vengono riportati i sei livelli del Qcer: A1-A2 (basico), B1-B2 (indipendente), C1-C2 (competente).

A1 CONTATTO (breakthrough)A2 SOPRAVVIVENZA (waystage) B1 SOGLIA (threshold)31

B2 PROGRESSO (vantage level)C1 EFFICACIA (proficiency)C2 PADRONANZA (mastery)

Nella tabella che segue si riporta una sintesi degli indicatori per ciascuno dei livelli di competenza comunicativa. Abbinare ciascun livello del Qcer ai propri descrittori di competenza comunicativa.

COMPETENZA COMUNICATIVA

Livello Indicatori

Comprende un’ampia gamma di testi complessi e lunghi e ne sa riconoscere il significato implicito. Si esprime con scioltezza e naturalezza. Usa la lingua in modo flessibile ed efficace per scopi sociali, professionali e accademici. Riesce a produrre testi chiari, ben costruiti, dettagliati su argomenti complessi, mostrando un sicuro controllo della struttura testuale, dei connettori e degli elementi di coesione.

Comprende e usa espressioni d’uso quotidiano e frasi basilari tese a soddisfare bisogni di tipo concreto. Sa presentare se stesso/a e gli altri ed è in grado di fare domande e rispondere su particolari personali come dove abita, le persone che conosce e le cose che possiede. Interagisce in modo semplice purché l’altra persona parli lentamente e chiaramente e sia disposta a collaborare.

31 “I livelli soglia per le varie lingue – il primo ad essere approntato fu quello per l’inglese […] – specificano quali sono i mezzi linguistici 'minimi' per affrontare situazioni di uso comune nelle principali lingue occidentali” (Ciliberti 1994: 215).

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Comprende i punti chiave di argomenti familiari che riguardano la scuola, il tempo libero, ecc. Sa muoversi con disinvoltura in situazioni che possono verificarsi mentre viaggia nel paese in cui si parla la lingua. È in grado di produrre un testo semplice relativo ad argomenti che siano familiari o di interesse personale. È in grado di descrivere esperienze ed avvenimenti, sogni, speranze e ambizioni e spiegare brevemente le ragioni delle sue opinioni e dei suoi progetti.

Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che astratti, comprese le discussioni tecniche nel suo campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile un’interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni.

Comprende con facilità praticamente tutto ciò che sente e legge. Sa riassumere informazioni provenienti da diverse fonti sia parlate che scritte, ristrutturando gli argomenti in una presentazione coerente. Sa esprimersi spontaneamente in modo molto scorrevole e preciso, individuando le più sottili sfumature di significato in situazioni complesse.

Comprende frasi ed espressioni usate frequentemente relative ad ambiti di immediata rilevanza (es. informazioni personali e familiari di base, fare la spesa, la geografia locale, l’occupazione). Comunica in attività semplici e di routine che richiedono un semplice scambio di informazioni su argomenti familiari e comuni. Sa descrivere in termini semplici aspetti del suo background, dell’ambiente circostante; sa esprimere bisogni immediati.

La competenza grammaticale viene così definita nel paragrafo 5.2.1.2:

La competenza grammaticale può essere definita come la conoscenza e la ca-pacità di usare le risorse grammaticali della lingua. Formalmente la grammatica di una lingua può essere considerata come un insieme di regole che governano il modo in cui gli elementi si combinano per formare stringhe definite e delimi-tate, dotate di significato (le frasi). La competenza grammaticale consiste nella capacità di comprendere ed esprimere significati riconoscendo e producendo espressioni e frasi strutturate in base a queste regole (che è cosa diversa dalla loro memorizzazione e riproduzione come formule fisse).

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Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue

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Nella tabella che segue si riporta una sintesi degli indicatori per ciascuno dei livelli di correttezza grammaticale. Abbinare ciascun livello del Qcer ai propri indicatori di correttezza grammaticale.

CORRETTEZZA GRAMMATICALE

Livello Indicatori

Ha solo una padronanza limitata di qualche semplice struttura grammaticale e di semplici modelli sintattici, in un repertorio memorizzato.

Comunica con ragionevole correttezza in contesti familiari; la padronanza grammaticale è generalmente buona anche se si nota l’influenza della lingua madre. Nonostante gli errori, ciò che cerca di esprimere è chiaro. Usa in modo ragionevolmente corretto un repertorio di formule di routine e strutture d’uso frequente, relative alle situazioni più prevedibili.

Mantiene costantemente il controllo grammaticale di forme linguistiche complesse, anche quando la sua attenzione è rivolta altrove (ad es. nella pianificazione di quanto intende dire e nell’osservazione delle reazioni altrui).

Mantiene costantemente un livello elevato di correttezza grammaticale, gli errori sono rari e poco evidenti.

Usa correttamente alcune strutture semplici, ma continua sistematicamente a fare errori di base – per esempio tende a confondere i tempi verbali e a dimenticare di segnalare gli accordi; ciononostante ciò che cerca di dire è solitamente chiaro.

Ha buona padronanza grammaticale; nella struttura delle frasi possono ancora verificarsi sbagli occasionali, errori non sistematici e difetti minori, che sono però rari e vengono per lo più corretti a posteriori.Mostra una padronanza grammaticale piuttosto buona Non fa errori che possono provocare fraintendimenti.

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2. I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento nella ScuolaIl Qcer nasce per l’apprendimento, l’insegnamento e la valutazione delle lingue

straniere (LS).Non è pensato per l’apprendimento di una lingua seconda (L2) nel senso ristretto

del termine, ovvero di lingua non materna appresa nel Paese dove questa lingua è strumento di comunicazione quotidiana.I descrittori del Qcer ai livelli più bassi presuppongono apprendenti che abbiano già sviluppato competenze di base nella letto-scrittura.I descrittori del Qcer ai livelli più alti presuppongono alti livelli di scolarizzazione. Paradossalmente, un parlante nativo della lingua italiana con licenza media molto probabilmente non rientra all’interno dei livelli C di competenza linguistico-comu-nicativa del Qcer.I descrittori del Qcer sono pensati per adulti ed adolescenti, ma non possono esse-re applicati ai bambini.I descrittori del Qcer non sono né esaustivi né specifici abbastanza da essere usati nelle scuole per la costruzione di curricula per apprendenti di origine straniera (vd. Van Avermaet 2008).

Da quanto affermato segue che occorre riadattare il Qcer ai diversi contesti che si presentano, ai diversi apprendenti e ai loro diversi bisogni ed infine ai diversi scopi di utilizzazione: pensiamo, per esempio, alla scuola italiana, con le sue bambine e i suoi bambini figli di immigrati e/o con bisogni diversi e variegati.

Infine, ci vogliamo soffermare su un punto molto importante e che riguarda pur-troppo l’Europa e, dal 2010 (si veda il Decreto Ministeriale del 4 giugno 2010), anche l’Italia: il Qcer non può essere utilizzato all’interno di politiche linguistiche che le-ghino la concessione di diritti civili al superamento di un “test di conoscenza della lingua italiana”: il Framework nasce per favorire il plurilinguismo e la mobilità all’in-terno dei Paesi rappresentati dal Consiglio d’Europa; il suo uso indiscriminato per la tutela di un apparente monolinguismo e per assecondare istanze nazionalistiche consiste in uno snaturamento degli scopi di questo strumento (vd. Faso-Pona 2011).

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Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue

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LABORATORIOQui di seguito, vengono proposte delle griglie per l’osservazione delle competenze/abilità linguistico-comunicative in italiano L2. Esse sono ispirate al Qcer, ma riadat-tate al contesto scuola e all’apprendente.

Associare le quattro griglie di descrizione ai seguenti livelli: livello iniziale, livello A1, livello A2, livello B1.

LIVELLO… Sì

Ricezione

Comprensione orale

Comprende un breve enunciato orale se articolato lentamente.

Comprende e segue enunciati relativi a contesti a lei/lui familiari.

Comprensione scritta

Comprende testi molto brevi e semplici con un lessico di uso frequente.

Produzione

Produzione orale

Sa gestire brevi enunciati su persone e luoghi.

Sa fare brevi descrizioni.

È in grado di interagire in attività di routine che richiedono scambi di informazioni su argomenti personali, purché la comunicazione sia facilitata dall’interlocutore.

Produzione scritta

Produce autonomamente brevi testi contenenti informazioni personali e descrizioni minime.

Sa scrivere brevi messaggi e compilare semplici moduli.

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LIVELLO… Sì

Ricezione

Comprensione orale

Comprende brevi consegne e domande a risposta chiusa.

Comprende brevi enunciati e domande.

Comprensione scritta

Distingue le lettere dell’alfabeto singolarmente ma non legge parole complete.

Comprende brevi testi scritti.

Produzione

Produzione orale

Si esprime utilizzando codici extralinguistici.

Produce enunciati brevi ma comprensibili.

Produzione scritta

Sa copiare quello che scrivono gli altri in stampato e/o in corsivo.

Sa scrivere sotto dettatura parole o brevi frasi.

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Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue

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LIVELLO… Sì

Ricezione

Comprensione orale

Comprende e segue agevolmente conversazioni e monologhi nella maggior parte dei contesti comunicativi.

Comprende i punti-chiave di argomenti relativi alla lingua dello studio.

Comprensione scritta

Comprende testi in lingua corrente relativi ad interessi personali, opinioni, stati d’animo.

Legge e comprende in maniera globale testi relativi a discipline scolastiche.

Produzione

Produzione orale

Si esprime nella maggior parte dei contesti comunicativi, descrivendo esperienze, avvenimenti e progetti ed esprimendo stati d’animo e opinioni.

Riferisce i concetti principali relativi a testi disciplinari orali e scritti di media difficoltà.

Sa gestire una conversazione in modo fluido e autonomo condotta in un ambito a lei/lui familiare.

Produzione scritta

Produce testi con frasi subordinate generalmente corretti su argomenti di tipo descrittivo e narrativo; esprime stati d’animo e opinioni motivandole in modo sintetico.

Riferisce per iscritto i nuclei informativi di testi disciplinari orali e scritti di media difficoltà.

È in grado di prendere appunti, scrivere lettere personali, sms, e-mail, argomentare richieste e opinioni, se l’interazione si svolge in un ambito a lei/lui familiare.

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LIVELLO… Sì

Ricezione

Comprensione orale

Comprende i punti principali di un discorso chiaro su argomenti noti in campo scolastico ed extrascolastico.

Comprende ed estrae informazioni essenziali da un breve testo su fatti quotidiani.

Comprensione scritta

Comprende testi relativi ai suoi interessi (messaggi personali, opuscoli, moduli, istruzioni di giochi, semplici giornalini).

Produzione

Produzione orale

Sa fornire una breve descrizione di soggetti vari ed esperienze.

Sa raccontare una breve storia.

Sa interagire con facilità nelle situazioni strutturate e in brevi conversazioni, purché l’interlocutore collabori se necessario.

Produzione scritta

Sa scrivere brevi testi in forma paratattica su argomenti familiari.

Sa scrivere brevi e semplici appunti che trasmettono informazioni pertinenti a contesti noti.

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Capitolo V - Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue

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3. Il Qcer e il testo come unità base dell’azione didattica

3.1 Una possibile definizione di testoConoscere una lingua vuol dire attivare processi linguistici per produrre e/o ri-

cevere testi.Possibili definizioni di testo:

• il testo è l’uso linguistico correlato a uno specifico contesto e che diventa occasione per mettere in pratica un atto linguistico;

• il testo è il perno centrale dell’evento comunicativo;• il testo è l’unità della comunicazione.

Se, come appena sostenuto, il testo è l’unità base della comunicazione e, di conseguen-za, della competenza comunicativa, all’interno di un impianto teorico di questo tipo, la nozione di enunciato, ma soprattutto quella di frase (equivalente idealizzato e decon-testualizzato dell’enunciato), subirà necessariamente un ridimensionamento rispetto ad approcci formalistici all’insegnamento/ apprendimento delle lingue seconde.Il termine testo32 ha principalmente due significati basilari in glottodidattica:

• si riferisce, comunemente, ad un enunciato scritto autonomo e autosufficiente;• si riferisce, nel linguaggio scientifico, a tutti gli enunciati sia scritti sia pro-

nunciati: il testo è allora una unità che va al di là e al di sopra della frase.In questa seconda accezione, il testo viene considerato in glottodidattica come l’unità base: si parte dal testo per arrivare ad analizzare le unità più piccole (frasi complesse o periodi, frasi semplici o proposizioni, sintagmi, parole, morfemi, foni e fonemi).

3.2 Il testo nel QcerIl documento europeo dedica molto spazio al testo. Le tipologie testuali (testo

descrittivo, testo narrativo, testo argomentativo, ecc.) si ritiene siano universali. È quindi possibile aiutare l’apprendente a recuperare le proprie conoscenze enciclo-pediche sulla funzione comunicativa svolta da queste tipologie testuali. L’appren-dente già gestisce, nella propria lingua, questi testi. Fatto questo che lo aiuterà a cogliere più facilmente gli aspetti lessicali, morfosintattici che caratterizzano, a grandi linee, queste tipologie nella LS/L2. Quello che invece è più specifico di ogni appartenenza linguistica è il genere testuale (canzone, lettera, messaggio, relazione, testo giornalistico, fiaba, filastrocca, poesia, romanzo, ecc.).

32 Questa sezione relativa al testo è liberamente tratta da Masciello-Pona (2010).

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3.3 Le tipologie e i generi testualiTradizionalmente quando si parla di testo si fa riferimento alle seguenti tipologie testuali:

− testo descrittivo;− testo narrativo;− testo espositivo/informativo;− testo regolativo/prescrittivo;− testo argomentativo.

LABORATORIOFare i giusti abbinamenti tra tipologie, funzioni e generi testuali.

SERVE PER… LO TROVI IN…

TESTO ESPRESSIVO-PERSONALE

dare informazioni, notizie su un argomento.

articoli di giornale (cronaca), libri scolastici.

TESTO INFORMATIVO-ESPOSITIVO

comunicare i propri pensieri, le proprie emozioni.

saggi filosofici, propaganda politica, editoriali.

TESTO POETICOsostenere una tesi o una opinione e convincere gli altri.

guide turistiche, libri, avvisi, comunicati, cronache.

TESTO NARRATIVO dare regole da seguire e/o istruzioni per l’uso

istruzioni allegate, regole di comportamento, regolamenti, ricette.

TESTO DESCRITTIVO

trasmettere pensieri e sentimenti attraverso il suono e il ritmo delle parole.

poesie, filastrocche, canzoni.

TESTO REGOLATIVO-PRESCRITTIVO

raccontare fatti che accadono nel tempo.

fiabe, favole, romanzi, racconti, leggende.

TESTO ARGOMENTATIVOdescrivere animali, persone, cose, ambienti ecc.

lettera, pagina di diario, canzone.

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CAPITOLO VILa lingua dello studio. La semplificazione e la facilitazione dei testi nella Scuola

La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene.

(Don Lorenzo Milani, Una lezione alla scuola di Barbiana)

1. Alcune premesseLa lingua dello studio presenta delle caratteristiche diverse dalla lingua della

comunicazione. Lo studioso canadese Jim Cummins, dividendo queste diverse com-petenze ed abilità linguistico-comunicative, introduce nel 1979 la distinzione tra Calp (Cognitive Academic Language Proficiency) e Bics (Basic Interpersonal Commu-nication Skills) e sottolinea quanto diversa sia la tempistica per il raggiungimento di tali competenze ed abilità: almeno 2 anni per il possesso della competenza e delle abilità comunicative di base e almeno 5/7 anni per la competenza e le abilità della lingua dello studio (questi, ovviamente, sono solo numeri indicativi: ogni appren-dente rappresenta un microcosmo di variabili che influenzano i diversi processi di apprendimento/acquisizione).

In questa sede, continueremo ad usare questa comoda distinzione, utile nella scuola per graduare la presentazione dell’input, la richiesta di riconoscimento/riu-tilizzo delle strutture dell’input stesso da parte degli apprendenti, e per rendere più efficace l’osservazione delle competenze e delle abilità degli apprendenti. Tuttavia, occorre precisare che cosa si intenda veramente per Calp: essa è costituita da un insieme di varietà linguistiche, abilità e tecniche che, ed è bene evidenziarlo molto bene, sono specifiche del contesto scuola e delle discipline della scuola e poco han-no a che fare con lo sviluppo cognitivo generale33 degli apprendenti (diversamente

33 Per una trattazione sintetica ma puntuale del cosiddetto “vantaggio bilingue”, si veda, tra gli altri, Bonifacci (2011), dal quale citiamo, qui di seguito:

oggi la maggior parte di studi ha dimostrato che il bilinguismo costituisce […] un potenziale vettore di migliore efficienza cognitiva. L’ambito nel quale il vantaggio è stato osservato con maggiore coerenza è quello delle funzioni esecutive: i soggetti bilingui sono più capaci di inibire le risposte “impulsive” e di controllare più informazioni fra loro incongruenti. Gli studi più recenti sembrano sottolineare come sia soprattutto la componente di controllo, e quindi la capacità di inibire informazioni interferenti e gestire indicazioni incongruenti, a essere il marcatore più significativo che caratterizza il vantaggio bilingue. […] Essendo competenze centrali per lo svolgimento di molte altre

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da quanto affermato in più occasioni da Jim Cummins34, e, in Italia, da Marco Mez-zadri 2011, che parla, al riguardo, di rischio di deficit cognitivo per gli apprendenti di origine straniera). Il vantaggio di alcuni apprendenti italofoni nell’apprendimento della lingua dello studio (rispetto agli altri italofoni e agli studenti di origine stranie-ra), e il loro conseguente successo scolastico, deriva allora non tanto da un maggio-re sviluppo cognitivo generale degli stessi ma dalla vicinanza di certo linguaggio al linguaggio della classe media a cui appartengono e il cui ordine la scuola mantiene e preserva (vd. MacSwan 2000)35.

Occorre, inoltre, liberare la distinzione lingua della comunicazione/lingua dello studio da giudizi di valore di natura prescrittivista legati a presunte lingue migliori di altre. Ogni lingua, ogni dialetto, ogni varietà linguistica (per noi tutti sinonimi) possiedono sistematicamente una propria complessità intrinseca in quanto manife-stazioni specifiche della Facoltà del Linguaggio, caratteristica biologica della specie umana. Non ci sono, scientificamente parlando, lingue “buone” e lingue “cattive”, lingue semplici e lingue complesse36. Lasciamo pure questi discorsi alla chiacchiera del bar (per un’opinione diversa, si veda Mezzadri 2011).

La scuola richiede ai suoi allievi, a volte ignorando la specifica complessità della lingua dello studio, la compresenza di queste competenze. Se da un lato la ricerca scientifica ha dimostrato che gli apprendenti di italiano L2 impiegano naturalmen-te molto tempo a padroneggiare la lingua dello studio, altre ricerche rivelano che molte difficoltà per quanto concerne tale lingua e le abilità richieste dalla scuola sono riscontrabili anche negli apprendenti italiani (Basile et al. 2006). Questo dovreb-be stimolare a riflettere sull’utilità della facilitazione linguistica all’interno dell’intero gruppo-classe. Sarebbe auspicabile, quindi, favorire la facilitazione a gruppi nella clas-se anche attraverso attività cooperative e di tutoraggio. Forse i primi tempi la quantità

operazioni cognitive, sono stati riscontrati effetti positivi anche in altri ambiti (ad es. flessibilità cognitiva, problem solving) […] Un altro ambito nel quale è stato osservato un relativo vantaggio in soggetti bilingui riguarda le abilità metalinguistiche […]. (Bonifacci 2011: 39)

34 Ci preme ricordare in questa sede che la nozione di “semilinguismo” (introdotta per la prima volta nel 1962, all’interno di una trasmissione radio, dal filologo svedese Nils Erik Hansegård), di cui fa largo uso Jim Cummins nelle sue pubblicazioni (sostituendola, poi, con la nozione di “bilinguismo limitato”), in riferimento alla supposta mancanza di competenza linguistica di alcuni bambini di madrelingua spagnola negli Stati Uniti, non ha fondamenti di tipo empirico. Si veda, a tal proposito, Valadez-MacSwan-Martínez (2002).

35 “This middle-class advantage relates not to some presumed superior quality of the oral language of middle-class children, but to some special alighnment of their particular home experiences and speech registers with those encountered at school”. (MacSwan 2000: 18)

36 “Considerable research has shown that there simply is no human language or language variety which does not have complex grammatical structures, or the mechanisms to create new words as new situations arise, or to make complex meanings explicit by means of language itself”. (MacSwan – Rolstad 2003: 332)

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di programma svolto potrà diminuire; questo, tuttavia, a favore della qualità dell’ap-prendimento e delle emozioni positive associate alla vita scolastica (vd. Fabbro 2004). In un secondo tempo, questo metodo di lavoro si coniugherà con i tempi frettolosi della scuola e dei programmi ministeriali armonizzando quantità e qualità.

Per quanto riguarda i termini facilitazione e semplificazione linguistica in riferi-mento all’abilità di lettura, usiamo il primo per riferirci a tutta una serie di attività atte a favorire la comprensione del testo scritto. Il testo, scritto nella lingua dello studio, sarà presentato nella sua veste originaria (quella del libro di testo) e l’inse-gnante/facilitatore linguistico e, auspicabilmente, tutto il gruppo-classe lavoreran-no in armonia alla ricerca della decodifica di un messaggio di difficile comprensione.

Si presenta qui di seguito un possibile percorso di facilitazione del testo, sud-diviso in fasi, che riprende e riadatta le prime due fasi dell’Unità Didattica (Ud) presentata al cap. 4.

Motivazione/Contestualizzazione: l’insegnante/facilitatore linguistico cercherà di suscitare l’interesse dell’apprendente, motivandolo, e allo stesso tempo intro-durrà l’argomento che si affronterà. Questa fase ha anche lo scopo non secondario di recuperare e rielaborare conoscenze linguistico-comunicative e non solo e di at-tivare la capacità di ipotizzare quello che potrebbe venir detto o scritto in un dato contesto (la grammatica delle aspettative).

Globalità/Verifica della comprensione: fase della scoperta del testo. Questa scoperta sarà progressiva: si andrà dall’osservazione del paratesto (immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), e dalla conseguente formulazioni di ipotesi, all’analisi del contesto e del cotesto (il contesto linguistico) per arrivare infine all’analisi del testo vero e proprio. La lettura del testo avviene dal generale al particolare attraverso fasi di lettura globale e lettura analitica. Nella prima fase, si avrà una comprensio-ne generale del testo e nella seconda fase si recupereranno nel testo informazioni particolari e specifiche. L’introduzione di nuovo lessico avviene gradualmente e si-stematicamente.

La semplificazione, invece, è la riscrittura del testo in microlingua (linguaggio specifico delle discipline) in un linguaggio più vicino alla comunicazione di base. L’i-taliano normativo, solitamente usato nei libri di testo, presenta delle caratteristiche specifiche dovute al suo statuto centenario di lingua di cultura e non di comunica-zione (vd. Vanelli 1999): per questo le tendenze creative dei parlanti sono a tuttoggi condannate dai grammatici e tenute fuori dalla norma gelosamente custodita (vd.

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Pona 2010). Questa varietà normativa è, quindi, di difficile impiego da parte degli apprendenti di italiano L2 e l’uso della semplificazione dei testi in una prima fase può essere di aiuto. In una seconda fase, i testi semplificati dovranno, tuttavia, esse-re sostituiti dai testi originali facilitati per permettere agli apprendenti di ricevere input ed acquisire una familiarità con la lingua dei testi di studio.

Sarebbe opportuno, per concludere, non trascurare le attività di facilitazione lin-guistica all’interno di tutto il gruppo-classe e di fare della semplificazione un utile strumento sia di riflessione sulla lingua per gli apprendenti italofoni sia di compren-sione guidata per gli apprendenti di italiano L2. Le attività di semplificazione diven-tano più efficaci se portate avanti dai bambini/ragazzi, che collaborano a coppie, a piccoli gruppi, a classe intera, condividendo, elaborando e negoziando significati.

2. Tecniche di semplificazione testuale2.1 Lessico

1. Usare espressioni del vocabolario di base.Esempi. volto > viso, faccia

porre > mettere giungere > arrivare avvenire, accadere > succedere

anche usando perifrasi: estrarre > tirare fuoriSe è necessario utilizzare lessico specialistico occorre facilitarne la comprensione.

2. Ripetere le parole chiave evitando sinonimi.Esempio. Il congresso di Vienna ebbe luogo nel 1815. A tale consesso parteciparono le autorità politiche di tutta l’Europa. > Il congresso di Vienna è del 1815. A questo congresso hanno partecipato le autorità politiche di tutta l’Europa.Tuttavia, si può gradualmente ridurre la ripetitività inserendo alcuni sinonimi (se appropriati), guidando lo studente ad associarli al termine di primo riferimento. Ogni parola fuori dal vocabolario di base deve essere facilitata per essere compresa.

3. Evitare le forme figurate e le espressioni idiomatiche che non siano di uso comune.Esempio. Nei suoi romanzi, Paolo Nori pone l’accento sulla lingua della quotidia-nità. > Nei suoi romanzi, lo scrittore Paolo Nori usa la lingua di tutti i giorni.Tuttavia, quando si introducono nuove parole, è buona prassi offrirne parafrasi e facilitarne la comprensione.

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4. Evitare le nominalizzazioni.Esempio. La costruzione del Colosseo da parte dei Romani impiegò 8 anni. > I Ro-mani hanno costruito il Colosseo in 8 anniTuttavia, considerando l’importanza delle nominalizzazioni nelle microlingue disci-plinari, se ne possono introdurre gradualmente alcune importanti (legate però a ter-mini già acquisiti), facilitando la comprensione globale anche attraverso il contesto, l’enciclopedia (quello che io so del mondo), e al contempo sollecitando l’attenzione dell’apprendente alla composizione delle parole.Esempio. L’altezza del Monte Bianco è di 4810 metri. Quale parola semplice vi ricorda la parola altezza? Quale parola semplice troviamo dentro altezza? Come possiamo riscrivere la frase?Il Monte Bianco è alto 4810 metri.

5. Usare espressioni concrete ed evitare espressioni astratte e personificazioni. Esempio. La Presidenza del Consiglio è a capo del CSLI. > Il Presidente del Consiglio è a capo del Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI).

6. Preferire termini monosemici a termini polisemici.Esempio. Secondo te, cosa significa il termine “emozione”? > Per te, cosa signi-fica la parola “emozione”?Secondo e termine sono parole polisemiche (con più significati) e spesso usate nell’accezione rispettivamente di numero ordinale e di fine.Occorre porre particolare attenzione ai termini specialistici trasversali a di-verse discipline e spiegarne le singole accezioni. Tale strategia è utile in gene-rale per facilitare il processo di comunicazione e apprendimento per tutto il gruppo-classe.

2.2 Morfosintassi

7. Comporre frasi brevi (massimo 20-25 parole).

8. Preferire la coordinazione (paratassi) alla subordinazione (ipotassi). Preferire un ordine di tipo cronologico e logico.Esempio. Non conoscendo i piani offensivi delle forze nemiche, il generale non poté adeguatamente organizzare la difesa... > Il generale non conosceva i piani di attacco del nemico e, quindi, non ha potuto organizzare un efficace piano per difendere...

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9. Evitare la subordinazione implicita, tendenzialmente polisemica.Esempio. Sapendo dell’imminente sconfitta del proprio esercito, il sovrano fuggì. > Il re è fuggito poiché sapeva che il proprio esercito stava perdendo.Meglio ancora: Il re sapeva che il suo esercito stava perdendo ed è fuggito.

10. Evitare le forme impersonali e passivanti, preferendo invece soggetti espliciti e con ruoli agentivi, se possibile.Esempio. Nell’anno Mille si credeva che il mondo sarebbe finito. > Le persone cre-devano che il mondo finiva nell’anno Mille.

11. Usare verbi attivi di modo finito.Esempio. La Triplice Alleanza fu sconfitta dalla Triplice Intesa. > La Triplice Intesa ha sconfitto la Triplice Alleanza.

12. Preferire l’uso del presente storico (ma accompagnato da chiara indicazione temporale) o il passato prossimo/imperfetto rispetto al passato remoto.Esempio. Cristoforo Colombo arrivò in America nel 1492 > Cristoforo Colombo arri-va in America nel 1492. > Cristoforo Colombo è arrivato in America nel 1492.Tuttavia, si può lavorare con gli apprendenti e aiutarli a riconoscere la radice ver-bale, e la parziale equivalenza tra passato remoto e passato prossimo. Si può, per esempio, richiedere agli apprendenti di sottolineare tutte le parole che esprimono azioni, eventi, processi al passato e cercare di ricavarne delle regolarità nel para-digma. Si può anche richiedere di immaginare quali funzioni specifiche un tempo come il passato remoto possieda e quali usi lo caratterizzino. Per fare questo, si può chiedere a tutto il gruppo classe di fare dei piccoli “esperimenti grammaticali” attingendo alla propria esperienza personale.

13. Usare, quando possibile, una sintassi della frase secondo l’ordine basico Sogget-to-Verbo-Oggetto.Esempio. Quello che il poeta vuole esprimere è... > Il poeta vuole esprimere...

14. Evitare incidentali e sintassi troppo frammentata che separi il verbo e i suoi ar-gomenti l’uno dall’altro.Esempio. Mario, funzionario di banca, ha deciso, dopo lunga riflessione, di telefona-re, suo malgrado, al collega Giorgio, da poco trasferitosi in altra sede. >…

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Tuttavia, si può lavorare con gli apprendenti ed aiutarli a riconoscere i costituenti di frase, all’inizio nella frase semplice con ordine basico poi nella frase complessa con costituenti lontani tra loro o dislocati.

15. Preferire il rimando anaforico al rimando cataforico.Esempio. Sapendo di essere in vantaggio, il generale decise di continuare ad incal-zare le truppe nemiche (occorre aspettare la fine della proposizione dipendente per scoprire il soggetto del verbo sapere) > Il generale ha deciso di continuare la battaglia poiché sapeva di essere in vantaggio.

2.3 Coerenza/coesione

16. Offrire ridondanza (più sintagmi nominali pieni che pronomi, poche ellissi, ripe-tere le stesse forme piuttosto che cercare sinonimi).

17. Organizzare i contenuti in modo da favorire la loro elaborazione cognitiva.

18. Esplicitare i passaggi tra argomenti con connettivi semplici e frasi di collegamento.

19. Segnalare il passaggio tra diversi argomenti con una paragrafatura adeguata.

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SECONDA PARTE

L’insegnante apprendenteLa pratica etnografica nella didattica dell’italiano L2

di Franca Ruolo

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CAPITOLO VIIInsegnare esige il saper ascoltare

Il dialogo come processo di apprendimento e conoscenza deve sempre comprendere un progetto politico con l’o-biettivo di smantellare le strutture e i meccanismi di op-pressione più diffusi sia nell’educazione che nella società.

(Paulo Freire)

Il titolo è una citazione ripresa da Paulo Freire che, nel descrivere la dinamica del rapporto insegnante/apprendente, definisce l’ascolto una pratica necessaria e co-stante, grazie alla quale l’educatore dubita delle proprie certezze e impara a tramu-tare il parlare all’apprendente unidirezionale e autoritario in un dialogo. La rinuncia all’addestramento possiede una rilevanza etico-politica: l’insegnante dialogico non instilla contenuti nella testa degli apprendenti, ma agisce con loro.37 In altre parole, la didattica conversazionale consente di mantenere una tensione cognitiva costan-te verso l’oggetto della conoscenza, che è sempre una conoscenza e una compren-sione più critica del mondo. (vd. Freire 2004, Brighi-Giornelli 2005).

Per sostenere questo cambiamento di sguardi da parte dell’insegnante, l’approc-cio alla facilitazione della lingua italiana L2, come uno dei luoghi della pratica edu-cativa, si avvale in questa sede di alcune discipline scientifiche, la linguistica acquisi-zionale e l’osservazione etnografica. Esse segnano un progresso scientifico rispetto alle indicazioni della glottodidattica e della pedagogia, ma non costituiscono un metodo: possono essere invece usate strumentalmente, evitando l’ingabbiamento metodologico, in quanto nessuna pratica educativa è possibile senza una diffidenza costante nei confronti delle proprie certezze e una predisposizione alla pluridimen-sionalità del fare didattica, contro l’assolutizzazione delle idee e l’uso acritico di metodologie (vd. Freire 2004, 2008, Perticari 2005).

La linguistica acquisizionale costituisce lo strumento scientifico per osservare le varietà linguistiche di italiano L2 e aiuta l’insegnante ad operare una sorta di rivolu-zione copernicana nell’approccio alla lingua seconda parlata e vissuta dagli appren-

37 Oggi il rischio per l’insegnante di tornare o rimanere su posizioni autoritarie non è affatto remoto, se si pensa alla visibilità e ai consensi ottenuti da un libro come Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, che sostiene il ritorno allo studio nozionistico, contro le proposte pedagogiche di Don Milani e Gianni Rodari. Per una lettura attenta del libro della Mastrocola, si veda lo scrittore Paolo Nori all’interno del suo blog (http://www.paolonori.it/ciao).

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Capitolo VII - Insegnare esige il saper ascoltare

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denti, affinché non ne venga forzato e travisato il percorso naturale di acquisizione. Si accompagna, per questo, ad una pratica etnografica di osservazione, che age-

vola la conoscenza e la relazione all’interno della classe. L’insegnante come etno-grafo raccoglie dati di qualità, è competente nell’osservare gli imprevisti e flessibile nell’accogliere i cambiamenti delle proprie ipotesi iniziali, assumendo uno sguardo critico sul proprio modo di insegnare. La didattica dialogica s’interseca quindi ad un’autoriflessività che è apprendimento anche per l’insegnante ed implica l’ammis-sione di poter imparare dai propri apprendenti. (vd. Freire 2008; Perticari 2005). Questa autoriflessività non coincide con l’interrogativo sul “che ci faccio qui?” (Zo-letto 2007: 159) con cui l’insegnante avrebbe la pretesa di vivere il senso di estra-neità dei propri apprendenti. Tale domanda è autoreferenziale e riconduce il fare della scuola ad un discorso ancora monodirezionato, dove la reciprocità con gli ap-prendenti è negata e sminuito il loro ruolo di partecipanti (vd. Baroni 2010: 48-49). Le pratiche di osservazione aiutano a decostruire convinzioni e a costruire relazioni, che si annodano e si arricchiscono nel quotidiano, opponendosi al bisogno di cate-gorizzazione da parte dell’insegnante. L’osservatore che guarda e ascolta riconosce di non essere invisibile e ammette che il suo lavoro non si predispone solo sulla base dei dati raccolti nello spazio di osservazione, ma anche su quelli provenienti da modifiche e reazioni suscitate in lui dalle situazioni osservate (vd. De Lauri 2008).

In altre parole, l’insegnante diventa un “apprendista perenne” (Piasere 2010: 55), un etnografo che riconosce le voci delle molteplici agentività coinvolte nella ri-cerca, riconfigurando la pratica etnografica a scuola come lo strumento che “rende possibili analisi e valutazioni più approfondite, più dettagliate e meno predetermi-nate” (Herzfeld 2006: 204).

1. Un bambino va alla guerra (o forse no)

LABORATORIOLEGGERE IL TESTO E SVOLGERE LE ATTIVITÀ

C’è un bambino che si chiama Ernesto e c’è un’insegnante o un insegnante (non ne abbiamo il nome). L’insegnante chiede a Ernesto di raccontare la storia osservata in queste immagini: nella prima, dei ragazzi giocano a pallone, nella seconda c’è una finestra rotta, nella terza una donna anziana, nella quarta un uomo, nella quinta si vedono alcune persone che corrono.

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Immaginiamo adesso che si verifichino due possibili situazioni dialogiche tra Erne-sto e l’insegnante. Leggiamo i due dialoghi e le attività seguenti, liberamente tratti da Marianella Sclavi (2003)38.

38 Anche la scelta del nome Ernesto è di paternità (o di maternità?) di Marianella Sclavi.

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Capitolo VII - Insegnare esige il saper ascoltare

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DIALOGO 1

ERNESTO: Stanno giocando a pallone e lui gli dà un calcio…

INSEGNANTE: Chi è che gioca a pallone? Qual è il soggetto che compie l’azione?

ERNESTO: Loro! INSEGNANTE: Chi loro?

ERNESTO: I ragazzi!

INSEGNANTE: Bravo, e allora dillo. Bisogna sempre precisare il soggetto altrimenti chi ti ascolta non capisce. E quanti sono i ragazzi?

ERNESTO:Tre!

INSEGNANTE: Bravo! Allora come dovevi dire?

ERNESTO: (sta in silenzio).

INSEGNANTE: Tre ragazzi stanno giocando a pallone. Adesso continua il racconto

ERNESTO: Lui gli dà un calcio.

INSEGNANTE: Chi è ‘lui’?

ERNESTO: Uno dei ragazzi!

INSEGNANTE: E allora dillo! Stai iniziando una nuova proposizione e di nuovo devi precisare il soggetto. Ve l’ho ripetuto tante volte. Allora, uno dei tre ragazzi… cosa fa?

ERNESTO: Dà un calcio alla palla e va a finire lì.

INSEGNANTE: Lì dove? Vedi che non sei preciso? Dove va il pallone?

ERNESTO: Il pallone rompe il vetro.

INSEGNANTE: Vedi che ti esprimi bene, quando vuoi? Soggetto, verbo, complemento. Continua così.

ERNESTO: Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida perché l’hanno rotta. Poi loro scappano.

INSEGNANTE: Ma allora non mi ascolti quando parlo! Hai troppa fretta, tiri via… Chi sono ‘loro’? ‘La guardano’… chi, cosa guardano? Non puoi essere così superficiale. Devi impegnarti di più. Adesso ascolta gli altri e poi per casa ti darò dieci esercizi per imparare a precisare soggetto e complementi.

DIALOGO 2

INSEGNANTE: Ci sono dei ragazzi che giocano a pallone e succede qualcosa…

ERNESTO: Stanno giocando a pallone e lui gli dà un calcio e va a finire lì e rompe la finestra. INSEGNANTE: e perché l’uomo li sgrida?

ERNESTO: Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida perché l’hanno rotta.

INSEGNANTE: e poi qui i ragazzi scappano?

ERNESTO: Poi loro scappano e lei guarda fuori e li sgrida.

INSEGNANTE: E scappano perché hanno paura, vero?

ERNESTO: Sì.

INSEGNANTE: Sei un bravo narratore, Ernesto. Io, guardando la vignetta, ho capito sempre a cosa ti riferivi. Ma adesso ti vorrei porre un problema più difficile: come racconteresti la storia a una persona che non la sa e che non ha questa vignetta sotto gli occhi?

INSEGNANTE: Per esempio facciamo finta che sul banco tu abbia un telefono e tu chiami una tua amichetta che è a casa ammalata. Per tenerle su il morale, le racconti quello che abbiamo fatto in classe e vuoi descriverle la vignetta. Lei non può vederla e quindi tu in questo caso devi dirle proprio tutto, devi essere un po’ pignolo in modo che lei possa immaginarsi tutti i vari personaggi e quel che succede. Vediamo se sei un bravo narratore anche in questo caso… INSEGNANTE: (fingendo di fare un numero in un immaginario telefono) Ciao Giovanna, come stai? Quando torni a scuola? C’è qui Ernesto che ti vuole raccontare una storia sulla quale abbiamo lavorato oggi. (Passa la cornetta ad Ernesto).

ERNESTO: Ciao Giovanna…

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Dopo aver letto i due dialoghi, riflettere sui seguenti punti.

Nei due scenari

• Cosa osserva e cosa ignora l’insegnante nel racconto di Ernesto?• Nei due dialoghi, l’insegnante lo sta ascoltando nella stessa misura?• Quali differenze si possono riscontrare nei due modi di ascoltare?• È possibile ipotizzare, per entrambe le situazioni dialogiche, come Ernesto con-

cepirà il suo rapporto con l’apprendimento e con la scuola?

È possibile pensare ad un’altra modalità dialogica tra Ernesto e l’insegnante?

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CAPITOLO VIIIL’illusione di insegnare la lingua

Il linguaggio non è un comportamento (più o meno raffina-to e sancito), ma una forma di conoscenza, che non si lascia mettere in scacco da chi nega l’evidenza, come i potenti davanti al cannocchiale di Galileo, rischiando, come quelli, tutta una serie di involontarie gags. A una persona che so-stenga seriamente che il pronome di terza persona singo-lare maschile è “egli” basterà dopo pochi minuti chiedere, alla prima occasione, “chi è stato”, “chi lo dice”, per sentirsi infallibilmente rispondere “lui”.Cosa si può fare a scuola? La proposta è in buona parte implicita in quanto già detto. Si tratta di indagare la gram-matica con metodi che qualifichino scientificamente il percorso di indagine, e che quindi portino alla costruzione condivisa di una grammatica.Bisogna perciò imparare cosa fa l’apprendente spontanea-mente, e intervenire a facilitare i processi di acquisizione. E perciò non ci si illuda di insegnare grammatica.

(Giuseppe Faso)

1. Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche in glottodidattica

LABORATORIOQuali critiche si potrebbero muovere a metodi e tecniche glottodidattiche, ritenu-ti efficaci nell’insegnamento dell’italiano L2? Quali sono i punti deboli di queste proposte?39

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39 Per un esame dei testi di italiano L2, in cui tali proposte vengono adottate, si può far riferimento a Mezzadri-Balboni (2003, 2005). La maggior parte dei testi di Italiano L2, comunque, presenta una suddivisione in unità didattiche secondo i modelli proposti da Balboni e Vedovelli. Manuali di base di glottodidattica sono considerati P. E. Balboni (2002), Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse e M. Vedovelli (2002), Guida all’italiano per stranieri. La prospettiva del Quadro comune europeo per le lingue.

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Capitolo VIII - L’illusione di insegnare la lingua

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2. Analisi di materiali didattici per l’italiano L2: critica degli stili cognitivi e della culturizzazione

LABORATORIOLeggere e riflettere sulle seguenti affermazioni relative agli “stili cognitivi analitico/globale” (I) e sulle proposte sui “temi culturali” (II) presenti in testi sulla didattica dell’italiano L2.

I. STILI COGNITIVI

Le persone possono essere “analitiche” o “sincretiche” […] e quindi risul-terebbero poi intro- o estroverse […]. In sintesi […] nella fase iniziale è opportuno spingere gli studenti più riflessivi a rischiare, a procedere intu-itivamente, [mentre] è opportuno spingere gli studenti più tolleranti per le ambiguità e gli errori a dedicare crescente attenzione alla riflessione sulla lingua, anche se ciò non è tipico del loro stile di apprendimento. (Balboni 2002: 44-47)

II. “TEMI CULTURALI”

[…] il modo di nutrirsi, di vestire, di formare famiglie e gruppi sociali, di immaginare la divinità ecc. In didattica delle lingue si fa riferimento a questo significato quando si parla di insegnamento della “cultura”. L’unità minima di analisi della cultura è il “modello culturale” […] del paese di cui si parla la lingua. (Balboni 2002: 64-65)

Culturizzazione, cioè la conoscenza e il rispetto (in alcuni casi può esserci l’assunzione) di modelli culturali e di valori di civiltà dei paesi dove si parla la lingua straniera. (ivi: 92)

[…] questo atteggiamento di rispetto, e possibilmente, interesse per la di-versità culturale rappresenta una meta educativa essenziale della glottodi-dattica e viene definita relativismo culturale. (Mezzadri-Balboni 2005c: 25)

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Riflessioni____________________________________________________________________

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CAPITOLO IXUno sguardo critico sulla glottodidattica

Per questo è fondamentale che, nella pratica della forma-zione docente, l’apprendista educatore si convinca che l’ir-rinunciabile modo di pensare correttamente non è un dono degli dei né lo si può trovare nei manuali per insegnanti redatti da illuminati intellettuali che si collocano al centro del potere.L’accettazione superficiale e acritica di qualsiasi metodo, a prescindere dalle sue promesse progressiste, può facilmen-te trasformarsi in una nuova forma di rigidità metodologica che costituisce, dal mio punto di vista, una forma di terro-rismo metodologico.

(Paulo Freire)

1. I rischi di banalizzazione nei modelli operativi standard nella didattica dell’i-taliano L2

La glottodidattica moderna, definita scienza pratica, si propone dei cambia-menti nella didattica delle lingue, sia per la sua componente teorica, da cui de-rivano approcci e metodi ritenuti più efficaci nell’insegnamento, sia per quella operativa che ha proposto modelli e tecniche per l’acquisizione linguistica, af-fermando di distanziarsi dall’ insegnamento tradizionale delle lingue (vd. Serra Borneto 2000). Il quadro teorico su cui la glottodidattica si basa ha contribuito all’adozione di alcuni concetti chiave, come “centralità dello studente” e “faci-litazione linguistica” binomio che, ritenendo l’insegnante “un alleato dello stu-dente contro le difficoltà della lingua”, vedrebbe nello studente “il primo attore del processo educativo e didattico” (Balboni 2002:14-30). In questa sede, le due definizioni verranno messe in discussione attraverso l’analisi di una nozione base ella glottodidattica: l’unità di apprendimento o di lavoro, uno schema elaborato su presupposti teorici, da cui scaturiscono l’uso dell’approccio induttivo, il pas-saggio da una fase di comprensione globale ad una più analitica e riflessiva su aspetti funzionali e metalinguistici (vd. Balboni 2002, Vedovelli 2002). Nell’unità di apprendimento è previsto anche l’inserimento di elementi di “civiltà”, perché, secondo Balboni, “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che le sta dietro” (ivi: 63)40.

40 È diffuso, in glottodidattica, il ricorso al termine cultura. Si veda Balboni (2002), Vedovelli (2002), Scalzo (2004),

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Questo modello operativo, fortunamente, si è rivelato inefficace nella pratica quotidana della classe: esso è concepito a prescindere dalle individualità degli ap-prendenti, nonostante si ammetta l’esigenza di una certa “flessibilità” (vd. Balboni 2002: 100-109).

Ci si chiede quale concetto di flessibilità si possa conciliare con:

a. la convinzione che l’insegnamento linguistico sia strettamente connesso all’in-segnamento di “civiltà e cultura”41. Questa idea muove dal convincimento che le persone siano soggetti portatori di culture: in classe, dagli insegnanti e dagli ap-prendenti, nei modi di fare fino agli stili cognitivi, ci si attende conformità di com-portamenti al modello culturale di provenienza. Questa visione essenzialistica delle culture (il cosiddetto culturalismo), è un concetto semplicistico criticato nel di-battito scientifico e, come vedremo più avanti, produce effetti di banalizzazione e di tipizzazione. Contrariamente agli intenti enunciati in glottodidattica (e, peggio, stimolati a venir praticati in classe), l’idea che l’insegnamento della cultura sia una meta educativa con cui si realizzerebbe “l’incontro interculturale”, impedisce la di-dattica e contribuisce ad erigere barriere, annullando qualunque pretesa di intera-zione positiva all’apprendimento della lingua.

b. l’idea che la lingua costituisca un ostacolo per l’apprendente e che l’insegnan-te sia un alleato “contro” la lingua. Se la lingua è concepita come una difficoltà, l’in-segnante/facilitatore non solo non riconosce all’apprendente di sapere molto cose (e qui, la linguistica generativa ha molto da dire ai glottodidatti: vd. cap. 3 e 4), ma si affannerà a produrre nuovi schemi per superare presunte difficoltà dell’apprenden-te. Le tecniche didattiche non sono neutre, come si vorrebbe far credere (vd. Bal-boni 2002): la formulazione delle domande (attività di vero/falso, scelta multipla, ecc.) non attivano una vera interazione e finiscono per rispecchiare l’inadeguatezza dell’insegnante. Il dialogo tra gli interlocutori diventa vuoto e la tecnica inefficace,

Caon-Rutka (2004), che ritengono l’insegnamento della cultura una via per l’integrazione e/o assimilazione. In merito alla parola integrazione, ricorda Giuseppe Faso:

Ogni volta che ci si sieda a discutere di immigrazione, la maggior parte di chi sta dall’altra parte del tavolo, quella servita dal microfono, parla di integrazione. Non se ne rendono conto, i più, ma intendono “assimilazione”. Come si dice “cultura” o “etnia” e si intende “razza”, si dice “integrazione” e si intende “assimilazione”. Che stiano qui, alle “nostre” regole, che si adattino; nulla di più rassicurante, per una fetta (sembra, indecisa) di elettori. (Faso 2008: 76)

41 I termini civiltà e cultura vengono spesso usati in modo distinto, riproponendo un approccio etnocentrico con cui si oppone la nostra civiltà (quella del “noi”, citata nelle retoriche politiche come unica detentrice della legalità e del progresso) alla loro cultura (quella dei migranti) (vd. Gallissot [2001] 2007, Rivera 2005, Faso 2008).

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distante da quella prospettiva conversazionale - vedremo più avanti - in cui l’inse-gnante impara dalle persone cui sta insegnando (Perticari 2005).

Accanto alla lingua come veicolo di contenuti culturali e alla lingua “ostacolo”, vi sarebbe un terzo strumento della glottodidattica: l’individuazione dei “bisogni pragmatici futuri” degli apprendenti , per lo sviluppo della loro “competenza co-municativa”, attraverso un esame del contesto extrascolastico (Balboni 2002: 73, 91). La questione della conoscenza del contesto è delicata e richiede un’ analisi di tipo scientifico: i dati sul territorio e le interviste alle famiglie, laddove hanno luogo, spesso non solo ignorano tecnicamente la complessità di un’indagine di tipo quali-tativo (Olivier De Sardan 2009: 27-60), ma ad un esame attento si rivelano discorsi e pratiche di inferiorizzazione dello straniero (vd. Baroni 2010: 39-66), mostrando come la cosiddetta accoglienza, dalla classe al contesto socio-politico più ampio, mascheri spesso pratiche discriminanti, secondo una strategia che Aiwha Ong ha definito “civilizzatrice salvifica” (Ong 2005). Su quali basi (a meno che l’insegnante e la rete scolastica non dispongano di una formazione sociologica o antropologica e di analisi approfondite dei contesti) la conoscenza della realtà extrascolastica e delle famiglie degli apprendenti, dovrebbe essere impiegata praticamente per co-struire un curricolo o una programmazione? Non rischia l’insegnante di impiegare dati in modo superficiale, rafforzando o elaborando modelli lontani dalla comples-sità dei dati reali?42

Con queste premesse, la glottodidattica invita insegnanti e apprendenti a vivere la classe come un luogo di banalizzazioni, dove vengono stimolati la produzione e lo scambio di infiniti luoghi comuni, che rischiano di far emergere contenuti xenofobi e razzisti in nome dell’interculturalità43.

Quando si dichiara che “come sempre lo stereotipo contiene probabilmente un fondo di verità”, avvertendo al contempo del rischio di generalizzazioni (Mezzadri-Balboni 2005d: 38), ci si domanda su quali presupposti scientifici poggi questa af-fermazione. La conseguenza è che si accettino per vere spiegazioni culturaliste che derivano dal senso comune44:

42 Per una analisi sulla complessità delle esperienze migratorie si veda Riccio (2007). 43 Un testo esemplare in questo senso e su cui si è discusso in altra sede (vd. Ruolo-Pona 2010) è Foto parlanti.

Immagini lingua e cultura (Tettamanti-Talini 2004), in cui il “fare intercultura” diviene pretesto per costruire una unità didattica discriminante contro i Rom.

44 Al paragrafo 2 di questo capitolo, sono riportati brani tratti da alcuni noti manuali di didattica di italiano L2, in cui emergono stereotipi e pregiudizi. La prima difficoltà riscontrata nell’impiego dell’unità di apprendimento riguarda, infatti, proprio le proposte sui temi culturali (Balboni 2002: 102). Molti materiali di didattica di Italiano L2, pensati per apprendenti di qualunque età (bambino, adolescente, adulto), presentano

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nascendo dal luogo comune, lo stereotipo è molto prossimo al banale, al déja vu, al giudizio dato a priori. Il termine designa associazioni di idee condivise dai membri di un gruppo, idee così radicate che è difficile con-testarle o rimetterle in discussione. (Kilani 2007: 337)

Con questi atti di nominazione dell’alterità, quale meta educativa può vantare di perseguire la glottodidattica?45 La creazione di stereotipi semplifica la pratica didattica e annulla qualunque processo pedagogico.

Il nodo cruciale, qui, consiste proprio in questo: l’apprendente non appare “il primo attore del processo educativo e didattico” (Balboni 2002: 28-29): si trova invece in un contesto in cui viene costruita una conoscenza fittizia, non solo perché il processo conoscitivo è ricondotto alla meccanicità del domandare e del rispondere, ma anche perché l’apprendente è etnicizzato e al contempo in-dotto a etnicizzare la cultura italiana. Il facilitatore di lingua, che seleziona testi o input per l’insegnamento dell’italiano L2, diventa un “esecutore di banalità” (von Foerster-Pörksen 2001: 61-72): il dialogo scolastico sostituisce il dialogo naturale. Chiedere e rispondere non sono concepiti come una ricerca intorno all’oggetto di conoscenza e possibilità di conoscenza tra le persone che vivono e agiscono all’interno della classe, ma il dialogo è limitato a tutta una serie di domande che svuotano il senso di una didattica realmente dialogica, oltretutto in una dimensione culturalista e pertanto già falsata46.

i cosiddetti argomenti culturali in termini banalizzanti. Vengono reintrodotte generalizzazioni e cliché sulle presunte abitudini degli italiani e sulle differenze tra nord e sud d’Italia, spesso ricorrendo ad argomenti tipici dell’antimeridionalismo, come quando si afferma che, nonostante la forte richiesta di manodopera nel nord d’Italia, i giovani meridionali disoccupati “non sono disposti a emigrare al nord, preferendo restare in famiglia fino a 30, 35 anni in attesa di trovare un posto al sud” (Mezzadri-Balboni 2005c: 33) contrapponendolo ad un modello di famiglia nord-settentrionale, dove “sia l’uomo che la donna devono lavorare” (Mezzadri-Balboni 2005d: 12). Le affermazioni di Mezzadri e Balboni risultano prive di basi scientifiche e non si comprende a quali studi si rifarebbero. Oltretutto, i due glottodidatti ignorano gli studi sulla ripresa di migrazioni interne, che nel 2005 (anno di pubblicazione del testo di Mezzadri e Balboni) erano ben conosciute e in atto già dalla prima metà degli anni novanta, come confermano i rapporti dello Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) e studi socio-antropologici sulle migrazioni dal Sud al Nord Italia (vd.Bonifazi-Heins 2005, Pugliese 2006, Berti-Zanotelli 2008).

45 Quando Balboni sostiene che una delle mete educative dell’educazione linguistica è la “culturizzazione, cioè la conoscenza e il rispetto (e in alcuni casi l’assunzione) di modelli culturali e di valori di civiltà dei paesi dove si parla la lingua straniera ” (Balboni 2002: 92), si sta sostenendo un lessico diffuso, quello del “razzismo democratico” (Faso 2008), che esclude o assimila attraverso un esteso elenco di diversità culturali, incoraggiando “l’integrazione nel senso dell’assimilazione” (ivi: 76), e un “differenzialismo culturale, che è notoriamente la più insidiosa forma odierna del razzismo” (Faso 2005: 4). A proposito del neorazzismo differenzialista, l’antropologa Annamaria Rivera precisa che il concetto genetico della razza, la cui assoluta infondatezza è stata ampiamente dimostrata in ambito scientifico, viene sostituito da presunte differenze culturali, immaginate come naturali, per cui al posto del determinismo biologico chiaramente espresso tramite la parola razza, vengono utilizzate le nozioni di cultura o di etnia secondo una modalità che cela o legittima la discriminazione (Rivera 2007: 295-296).

46 Si arriva a concepire la classe plurilingue come un universo codificabile in formule matematiche (Vedovelli

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Anche le più belle definizioni possono diventare un’attribuzione di iden-tità che bloccano anziché produrre un movimento verso un riconosci-mento reciproco. Fino a che un bambino rimarrà bloccato nello stereo-tipo (già designato dall’attribuzione di appartenenza), sarà difficile realiz-zare un apprendimento che valorizzerà le sue potenzialità. Rimarrà nella condizione di essere detto da un altro, e la sua voce faticherà ad aver voce. (Perticari 2005: 285)

Nelle proposte didattiche presentate come interculturali, invece, i suoi autori continuano a reificare stereotipi e aderiscono in modo acritico al concetto di cultu-ra, già dibattutto da molti anni in antropologia, la quale riflette sulla visione sostan-ziale delle culture. La cultura ritenuta come sistema coerente e omogeneo, annulla la complessità dell’essere individui 47. Così appiattita ed essenzializzata, la cultura diviene inevitabilmente strumento di costruzioni dell’alterità, stabilisce separazioni e conduce a istituire rapporti gerarchici tra le persone. In altre parole, il culturali-smo non è un atto innocuo: la pratica in classe può rivelare il carattere performativo delle affermazioni espresse in glottodidattica e produrre effetti sul reale.

Se osserviamo le varie proposte teoriche e didattiche per l’insegnamento della seconda lingua, esse mostrano la loro inadeguatezza e non operano quel rovescia-mento di prospettiva professato rispetto ai vecchi modelli di insegnamento della lingua che vorrebbero criticare. Anzi, la glottodidattica moderna appare, a nostro

2002: 116-126) e l’unità di apprendimento, con le sue tecniche, i suoi approcci e modelli, è vista come “una griglia di categorie strutturanti l’interazione […]”, dove la tecnica didattica è considerata “l’arte del maestro di lingua” e lo strumento per “gestire correttamente la sempre nuova realtà sociale e comunicativa in cui si trova inserita e che crea con la sua presenza” (ivi: 135-136). Questa metodologia didattica concepisce “il processo di insegnamento e apprendimento della L2 […] un contatto tra culture e si nutre di un gioco di rinvii intertestuali al quale gli apprendenti sono esposti” (Vedovelli 2002: 118). Di seguito, è riportato il brano tratto da Vedovelli (2002: 117-118), da cui il lettore è libero di trarre le proprie conclusioni:

il Gruppo classe (GS) è, nella nostra proposta, un Universo di socialità (US): è costituito da tutti i soggetti coinvolti nel processo di apprendimento/insegnamento. I rapporti di socialità si stabiliscono fra i soggetti in una duplice dimensione: l’Interazione sociale (IS) fra di loro (e pertanto i ruoli istituzionali e spontanei che hanno e assumono) e lo Scambio comunicativo (Sc) che in essa si sviluppa. L’ IS è caratterizzata dai ruoli sociali, dagli atteggiamenti, dalle motivazioni, dalle identità culturali degli attori della comunicazione didattica. Lo SC è costituito dai flussi di comunicazione che si sviluppano entro l’US. Possiamo formalizzare tale rapporto come segue:

GC= US = IS + SC[…] dal punto di vista semiotico, la Lingua (L) è costituita da testi (T), che

intrinsecamente costituiscono la Cultura (C). La lingua è perciò intrinsecamente cultura in quanto istanza di formazione, di creazione di identità mediante la forma del codice:

L = C47 La bibliografia su questo tema è vasta. Si veda, tra gli altri, Abu-Lughod (1991), Amselle (1999), Fabietti (1999),

(2004), Hannerz (2001), Matera (2008), Remotti (2010), Rivera (2007), Wagner (1992).

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avviso, potenzialmente più pericolosa, operando quelle semplificazioni che abbia-mo affrontato sopra: semplificazioni didattiche e culturaliste e dove anche i bisogni degli apprendenti sono ridotti a interpretazioni schematizzate.

Esattamente come i vecchi modelli che critica, l’unità di apprendimento esami-nata non aiuta a creare in classe le condizioni reali di mutuo riconoscimento (vd. Perticari 2005). L’insegnante di lingua (il cosiddetto facilitatore) crede di favorire il processo di apprendimento e ritiene qui di aver perso il suo ruolo direttivo, propo-nendo attività libere o guidate di comprensione e di riflessione sul testo, ma ripro-duce gli stessi modelli autoritari biasimati e si pone nella prospettiva dell’ideologia dominante48.

Un altro punto importante da sottolineare è il rischio di percepire i facilitatori come non direttivi. Trovo che questo sia un discorso ingannevole e che […] finisce per aiutare la struttura di potere. […] I facilitatori sono autoritari perché, in quanto soggetti della pratica educativa, essi riducono chi apprende a un oggetto delle direzioni che essi impongo-no. In altre parole, il facilitatore finisce per non assumere il proprio ruolo di educatore dialogico che può illustrare l’oggetto di studio. Come insegnante, ho la responsabilità di insegnare e, al fine di insegnare, cerco sempre di facilitare. Per iniziare a comprendere il significato di una pratica dia-logica, dobbiamo mettere da parte un’idea semplicistica di dialogo come mera tecnica, [il quale] non dovrebbe mai es-sere concepito come una semplice tattica per coinvolgere gli studenti in un certo compito. (Freire 2008: 10-13)

Interrogarsi sulla qualità dialogica del domandare e del rispondere evita l’abitu-dine di “fare e ricevere domande illegittime” (Perticari 2005: 77), ovvero quelle che nascono nel contesto dialogico contraffatto delle risposte già attese dall’insegnan-

48 Si pensi ai test d’intelligenza somministrati ai bambini italiani in Germania nel corso del XX secolo, a cui accenna Cesare Cornoldi, il quale afferma che tali test riflettevano i condizionamenti culturali, i modelli e i valori di chi li aveva costruiti, manipolando i risultati sul presunto deficit intellettivo dei bambini testati (Cornoldi 2007). Leonardo Piasere riporta la stessa critica riguardo ai test che negli anni Settanta dovevano valutare a scuola i bambini Rom e finivano per “provarne” anch’essi il deficit intellettivo. Basati sull’idea di una supposta oggettività, non essendo mai problematizzati, tali test si orientavano addirittura su teorie di deprivazione culturale dei Rom (Piasere 2010). Il problema dell’equità dei test è oggi drammaticamente attuale, a causa dell’introduzione dei test di lingua ai migranti per ottenere la carta di soggiorno. Sul pericolo di assenza di eticità, vd. Faso-Pona (2011).

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te, che non accetta opinioni inattese e non impara dagli imprevisti a scuola a ricer-care e proporre “domande legittime” (ibid.). Il dialogo è efficace solo se si basa sulla legittimità delle domande: su una curiosità autentica, legittima, che contraddistin-gue una relazione epistemologica, poiché il dialogo possiede un carattere sociale, ossia è una modalità dell’apprendere e conoscere non solo l’oggetto di studio, ma anche del conoscersi reciproco (vd. Freire 2008). L’input proposto dall’insegnante è il testo su cui si negozia e si affrontano insieme domande e risposte fuori dalla cornice costrittiva delle attività di vero/falso o di qualunque altra domanda nel contesto artefatto del dialogo scolastico. L’errore dell’apprendente non comporta un semplice “atto di tolleranza” (vd. Balboni 2002) da parte dell’insegnante: la pro-spettiva conversazionale vede nel dialogo naturale l’avvicinamento dell’insegnante alle modalità di conoscenza che l’apprendente mette in atto (Perticari [1996] 2005). In questo senso, l'insegnante esecutore di banalità è colui che, non imparando da una conversazione naturale dai suoi apprendenti, diventa un prevaricatore di prin-cipi etici.

La classe, invece, è un luogo in cui quotidianamente si possono eludere i vincoli meccanicistici e sperimentare quello che von Foerster definisce la de-banalizzazio-ne delle pratiche di insegnamento (vd. von Foerster-Pörsken 2001). L’insegnante, con le sue richieste preordinate, crea silenzi e chiusure attribuiti spesso alla presunta in-capacità di comprendere o, peggio, a quelle caratteristiche ancora una volta etniche dell’apprendente49. Invece, facilitare comporta riuscire a fare in concreto qualcosa percepita e vissuta come importante da chi impara (Faso 2005), in cui l’apprenden-te diventa soggetto critico, in grado di ricostruire o riformulare ciò che apprende e di esserne partecipe (vd. Freire 2004). Ciò comporta anche evitare domande e percorsi didattici folclorizzati o che ricostruiscano situazioni realistiche a prescin-dere dall’apprendente, il quale risponderà sul chi e sul perché, sul vero e sul falso, ma non sarà stimolato a comunicare il suo sguardo e i suoi racconti (vd. Giornelli-Maioli 2003). La creazione di percorsi realmente condivisi con lo studente crea un’ esperienza di scombussolamento, negata nel modello operativo di unità didattica

49 Come facilitatrice di italiano L2 nella scuola pubblica, ho avuto modo di annotare molti episodi di categorizzazione avvenuti in classe con la presenza di alunni stranieri (vd. Faso 2005). L’insegnante di italiano di una seconda media giustificava così il proprio disagio nei confronti di un ragazzo albanese che parlava e scherzava con i compagni italiani, rifiutandosi di “aprire bocca in classe” durante le ore di lezione, per due anni: “all’inizio pensavamo che fosse disabile, poi abbiamo capito che è testardo e duro, come tutti gli albanesi”. Questa impellenza di categorizzazione è radicata non solo fra molti insegnanti, ma anche facilitatori di L2, quando affermano che “i cinesi sono chiusi, parlano solo tra loro e non capiscono nulla di italiano”, “i giapponesi sono timidi e riservati”, “i peruviani parlano poco”. In definitiva, “accozzaglie di stereotipi etnici che funzionano da modello e da spauracchio al tempo stesso” (Kilani 2007: 354-355).

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(Balboni 2002, Vedovelli 2002)50, ma che è invece fondamentale: essa consente di giocare “con gli eventi per trasformali in occasioni” per dirla come Michel De Cer-teau il quale, parlando di sociabilità e di quotidianetà, riconosce alla capacità di inventare il quotidiano un potere altamente creativo (De Certeau 2005: 15).

La classe come spazio in cui l’apprendimento “procede soprattutto mediante un chiarimento attraverso disorientamenti” (Herzfeld 2006: 24), dove sia possibile una didattica che fa emergere la complessità di una visione multifocale. Una di-dattica dell’incontro, la cui dinamica articolata non può essere ridotta alla logica del dialogo semplice con l’alterità (vd. De Lauri 2008: 9-25) ma si sottrae ad un modo riduttivo di intendere l’insegnamento delle lingue, distanziandosi da quella “galleria di stranezze esotiche” (Callari Galli 2000: 23) messe in atto ogni qualvolta si parli di intercultura.

2. Contro la teoria semplicistica degli stili cognitivi

Lo stile cognitivo non è una caratteristica fissa dell’appren-dente ma può, invece, essere una sua scelta strategica con-nessa al “qui e ora”, ossia connessa a circostanze variabili, alla mutevolezza di eventi interni ed esterni, dipendenti da rela-zioni di reciprocità.

(Pona-Ruolo, domenica 26 Settembre 2010, durante una pau-sa caffè delle 17:43)

50 Nell’illustrare i “problemi” dei codici non verbali e della “comunicazione interculturale”, Balboni ritiene che rappresentino “turbative alla serenità […], elementi che possono concorrere a una valutazione errata dell’interlocutore” (Balboni 2002: 69), e sostiene che

l’insegnante di lingua straniera, che voglia contribuire a creare una competenza comunicativa interculturale, non può “insegnarla”, date le dimensioni del problema e la sua continua variabilità, ma può insegnare a “osservarla”. (ivi: 70)

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TAVOLE SINOTTICHE

NO SÌ

I cliché semplificanti sugli stili cognitivi

[Le persone] estroverse [...] sarebbero persone più sociali e quindi avvantaggiate dall’approccio comunicativo. (Balboni 2002: 44)

un ragazzo “sincretico”, “olistico”, che da qualche anno fa il poliziotto, ha assunto una forma mentis che chiede grammatiche esplicite, a differenza del suo gemello che è andato invece in pellegrinaggio in Oriente. (Balboni 2002: 46)

Insegnando le lingue straniere dobbiamo insegnare diverse forme di concettualizzazione; un americano concettualizza secondo enunciati che vanno straight to the point, un latino usa enunciati interrotti da digressioni in cui si esprimono condizioni, premesse, commenti e così via, un orientale concettualizza secondo una spirale che lentamente giunge all’obiettivo, per avvicinamenti successivi, e ritiene che andare straight to the point sia volgare… (Balboni 2002: 61)

Un altro punto debole degli studenti cinesi è la comprensione globale di quello che si ascolta. Siccome gli studenti cinesi generalmente sono abituati a fare attenzione ai particolari e alle sfumature, qualche volta anche eccessivamente, gli insegnanti dovranno promuovere tecniche che favoriscano un approccio mirato alla comprensione globale dei contenuti e delle informazioni. (Maggini 2006: 4-5)

La ricerca di stili cognitivi specifici in diversi gruppi etnico-linguistici può essere un’impresa legittima e utile. (Pallotti 1998: 235)

La complessità degli stili cognitivi

Utilizzando la distinzione gestaltica tra persone analitiche/sincretiche e persone globali/olistiche in maniera classificatoria, è compiuta un’operazione semplicistica, spesso accompagnata da affermazioni pseudo-scientifiche, che attribuiscono uno stile cognitivo al luogo d’origine dello studente.

La teoria degli stili cognitivi è un’idea categoriale. Come afferma Paolo Perticari, la questione degli stili cognitivi è da riportare su un piano di maggiore complessità:

Questa distinzione olistico/seriale è utile, ma molto probabilmente si dovrebbe moltiplicare una immagine del genere per il numero dei casi in cui una persona utilizza l’uno o l’altro stile, per il numero dei partecipanti, per il numero delle materie, argomenti e sottoargomenti affrontati in una sequenza […] fino agli elementi dello stile che sono inconoscibili, ai moltri altri elementi dell’apprendimento che sono indeterminabili […]. Ne salta fuori un quadro sicuramente complesso. Si potrebbe dire che confrontarsi con l’enigma dello stile è una risorsa per cominciare a limitare i tassi di banalizzazione che pervadono i meccanismi di insegnamento/apprendimento di cui siamo parte. (Perticari 2005: 47)

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3. Contro l’idea che “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che le sta dietro”

NO

La “culturizzazione” e la creazione di stereotipi

La prima difficoltà riscontrata nell’impiego dell’unità di apprendimento riguarda le proposte sui temi culturali (vd. Balboni 2002: 102). Molti materiali di didattica di Italiano L2 presentano i cosiddetti argomenti culturali in termini banalizzanti.

Affiorano, tra le proposte culturali, etichettature che abituano al pensare la classe come un luogo di rappresentanza delle culture, dove vi è la pericolosa tendenza a stimolare la produzione e lo scambio di infiniti luoghi comuni, che, nel peggiore dei casi, fanno emergere contenuti xenofobi e razzisti, in nome dell’interculturalità.

Nelle unità didattiche e nei testi in cui ogni apprendente è etnicizzato e categorizzato, è in atto un processo di esclusione sulla base di classificazioni che hanno come fondamento una visione inferiorizzante basata sull’opposizione Io/l’Altro (vd. Herzfeld 2006; Piasere 2009, 2010; Remotti 2001, 2007, 2010).

Quando i glottodidatti dichiarano che «come sempre lo stereotipo contiene probabilmente un fondo di verità», (Mezzadri-Balboni 2005d: 38), l’insegnante è giustificato a/ giustifica la reificazione di spiegazioni culturaliste, trasformando la classe in un luogo di stigmatizzazioni e inficiando di fatto qualsiasi interazione positiva all’apprendimento della lingua seconda, oltre che qualunque pretesa di relazione pedagogica.

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4. Stereotipi e pregiudizi nei libri di italiano L2

Sapete cosa fa il pregiudizio? I miei pregiudizi mi impedisco-no di comprendere qualcuno. Se una persona mi piace avrò pregiudizi favorevoli, se non mi piace avrò pregiudizi contro di lui. Non voglio capirlo in entrambi i casi. Perciò il pregiu-dizio è come un vetro scuro che non mi permette di vedere il sole.

(Jiddu Krishnamurti)

Lo stereotipo è un prodotto culturale. È l’immagine sintetica che media il nostro rapporto con il reale. Noi percepiamo infatti solo quello che la nostra cultura ha elaborato per noi: la nostra visione della realtà e la nostra esperienza pratica si formano entro i contesti trasmessi nella nostra cultura. In tal senso, stereotipo e pregiudizio possono essere paragonati ai concetti: come questi hanno la pretesa di significare il reale e il modo di organizzarlo. La differenza fondamentale sta nel fatto che gli stereotipi (e i pregiudizi) sono più rigidi dei con-cetti poiché resistono all’esame della critica. Sono un’opinio-ne (o meglio una credenza) senza ragionamento.

(Mondher Kilani)

Di seguito sono elencati brani tratti da noti manuali di italiano L2. Le attività di “civiltà e cultura”, così come teorizzate in glottodidattica (Balboni 2002, Vedovel-li 2002) e solitamente previste come parte finale dell’unità didattica, nell’intento di stimolare gli apprendenti a riflettere su aspetti culturali, si configurano come reiterazione e reificazione di stereotipi. In questi testi, l’appropriazione non scien-tifica del termine cultura, ben lontana da una formulazione che ne restituisca la complessità del dibattito antropologico, induce a considerare la classe plurilingue uno spazio di alterità, secondo una logica schematica fortemente ideologizzata del “noi” e “loro”, che costruisce recinti intorno agli individui anche nella retorica delle pratiche dell’incontro interculturale, poiché, che si erigano confini per allontanare o per incontrare gli Altri, con l’atto della separatezza si è già sulla strada della loro cancellazione (vd. Remotti 2001, Herzfeld 2006).

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Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica

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Cliché sui temi culturali nei libri di italiano L2

IL NORD, IL SUD E GLI IMMIGRATISe lo ritiene opportuno e ne ha la possibilità, può dare agli studenti alcune di queste informazioni.Oggi in Italia il lavoro c’è, ma è mal distribuito: le aziende del nord, soprattutto quelle del nord-est, hanno un enorme bisogno di mano d’opera e non riescono a trovarla, per cui si rivolgono a stranieri: a sud, c’è mano d’opera in sovrabbondanza, con conseguente disoccupazione, ma non ci sono molte aziende disposte a investire in quelle regioni e i giovani, spesso con un diploma o una laurea, non sono disposti a emigrare al nord, preferendo restare in famiglia fino a 30, 35 anni in attesa di trovare un posto al sud […] ma non si trovano disoccupati disposti a fare lavori faticosi o ritenuti umili, quali l’infermiere, lo spazzino, il lavapiatti in un ristorante, l’addetto alle pulizie. In tutti questi casi troviamo degli immigrati: i cittadini stranieri con normale permesso di soggiorno. (Studiare e Lavorare, Mezzadri-Balboni 2005c: 33).

Ci sono molte differenze tra una parte e l’altra del paese […] soprattutto al centro-nord, in una famiglia sia l’uomo che la donna devono lavorare. (Il negozio, i soldi, Mezzadri-Balboni 2005d: 12).

Le informazioni date in questi brevi testi sono quelle standard, tendenziali, ma va ricordato che nel sud la tendenza è mangiare più tardi di quanto indicato [nella tabella], e, nel nord, soprattutto nelle campagne della Pianura Padana e nelle montagne, si mangia invece prima. (Il cibo, al ristorante, Mezzadri-Balboni 2005c: 55).

Come abbiamo visto parlando di prossemica, i corpi hanno bisogno di una distanza di sicurezza: viviamo dentro una sorta di bolla che ha il raggio di un braccio teso: chi entra nella bolla ci assale. Ma un mediterraneo entra senza problemi nella bolla altrui, tocca l’interlocutore, lo prende a braccetto, il che infastidisce gli italiani del nord – ma lo stesso italiano del nord non si rende conto che provoca altrettanto fastidio in un inglese, in quanto in quella cultura è il doppio braccio teso a rappresentare il confine della bolla. (I codici non verbali, Balboni 2002: 69)

[…] Allora, professore, gli uomini italiani sono ancora dei latin lover? […] Che peso ha l’educazione familiare nella figura di un latin lover? Grandissimo: specialmente al Sud ci sono ancora tante famiglie che considerano i figli maschi più importanti delle femmine. È per questo che molte ragazze, appena ci riescono, si allontanano dalla loro famiglia per avere una vita più indipendente e più libera. (Facciamo un’intervista!, Trifone-Filippone-Sgaglione 2008: 168).

“NOI” E “LORO”Faccia notare che è abitudine degli italiani lavarsi le mani prima di mangiare. Quando si hanno

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ospiti si prepara un asciugamano pulito per loro. (La famiglia, Mezzadri-Balboni 2005c: 35).

La maggior parte degli italiani vivono in appartamenti di due stanze da letto, sala, cucina e bagno, spesso con cantina e garage. (La casa, Mezzadri-Balboni 2005c: 40).

In molti paesi parlare del tempo e soprattutto seguire l’evoluzione del tempo meteorologico in tv o alla radio fa parte della quotidianità […]. Gli italiani mediamente non sono così legati al tempo […]. (Il tempo, Mezzadri-Balboni 2005d: 38).

È ovvio, per un italiano, che la giornata inizi con l’alba, mentre è ovvio a molti asiatici e africani pensare che la giornata inizia al tramonto (…). Il concetto di puntualità ad esempio è molto cangiante a seconda dell’industrializzazione, quindi della gestione del tempo per fini produttivi: ne consegue che la chiave psicologica e i ruoli sociali dei partecipanti possono essere espressi dalla puntualità, da un lato, e dal fare anticamera, all’estremo opposto. (Il concetto di tempo, Balboni 2002: 66)

No, questo non si fa! L’educazione a tavola: in Italia e nel tuo Paese le regole sono le stesse?

Parlare con la bocca pienaRuttare dopo il pastoLegare il tovagliolo al colloFumare durante il pastoRispondere al telefonoDire “buon appetito” prima di iniziare a mangiareSoffiare se il cibo è troppo caldoAppoggiare i gomiti sul tavoloTenere la mano sotto il tavoloMangiare gli spaghetti aiutandosi con un cucchiaioVersare da bere alle altre personeAspettare che tutti abbiano terminato di mangiare prima di alzarsiPulire il piatto con il pane(Tutti a tavola!, Tettamanti-Talini 2003: 17).

Generalmente, per non disturbare, un italiano evita di telefonare a casa d’altri dopo le 10 di sera e prima delle 8 del mattino. (Scrivere e telefonare, Marin-Magnelli 2006: 55).

Gli italiani sono un popolo elegante e sono molto attenti alla moda. Tant’è vero che spendono parecchio per l’abbigliamento, anche se non tutti si possono permettere i capi firmati dei grandi stilisti. La maggior parte, infatti, si rivolge a tanti altri stilisti, meno conosciuti all’estero, che offrono alta qualità e prezzi più bassi. (In giro per i negozi, Marin-Magnelli 2006: 146).

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Gli italiani amano molto la musica, ma anche cantare. Oggi la musica leggera italiana piace sempre di più a livello internazionale e fa parte della cultura del Belpaese. (Un concerto, Marin-Magnelli 2006: 182).

Un arabo, per quanto fluido sia il suo inglese, sarà in alcune situazioni incapace di dire “I’m sorry”, se ritiene che scusarsi gli faccia perdere la faccia (Balboni 2002: 67).

La testa che annuisce significa sì per noi ma significa no dai Balcani al Medioriente al Mediterraneo del sud; i nostri occhi fissano direttamente qualcuno per indicare franchezza e sincerità, ma in molte culture comunicano una sfida; gli occhi ancora possono restare semichiusi, il che in Europa significa noia, ma in Giappone può voler dire no se si tratta di un sorriso silenzioso. Mani e braccia non solo informano sulla nostra tensione, ma gli italiani le agitano troppo, quindi vengono percepiti dagli anglosassoni come ridicoli, caricaturali, se non come aggressivi e scalmanati, e questo è sufficiente a compromettere la comunicazione; i gesti cambiano da cultura a cultura […]. Il corpo emana odori e produce rumori che in alcune parti del mondo sono vietati: soffiarsi il naso in Oriente è simile a defecare in pubblico da noi, quanto a effetto, mentre un rutto sonoro sta a significare il piacere di un buon pranzo […]. Il corpo parla con i suoi gesti, ma anche con i suoi vestiti: una giacca cammello, per quanto raffinata e costosa, non va bene per un ambiente lavorativo in USA, che considera il marrone adatto per il week-end e il grigio indispensabile per il lavoro […] (Balboni 2002: 68-69).

Modalità sensoriale: Cinestetica Obiettivo: Conoscere i vestiti tipici di diversi paesi. Livello: A1[…]Svolgimento:1. Ogni studente, oppure ogni coppia, riceve dall’insegnante le sagome (maschio e femmina)2. Su un foglio di carta che viene distribuito loro, gli studenti disegnano e colorano i vestiti tipici del paese d’origine, per esempio: i vestiti per andare a scuola, per andare in chiesa, per una festa, per il tempo libero, ecc. […]3. In plenum, si avrà la possibilità di discutere le caratteristiche che riguardano la moda e le tradizioni dei paesi di provenienza degli studenti.Suggerimenti: Gioco per classi di bambini (Dimmi come sei vestito e ti dirò chi sei, Ferencich-Torresan 2005: 99).

San Silvestro. Piccoli riti per il nuovo anno. Attenzione alla prima persona che incontrate dopo la mezzanotte. Se è un barbone si profila un anno finanziario strepitoso! (Un anno in Italia, Toffolo-Merklinghaus 2005: 113).

ITALIANI, BRAVA GENTEGli italiani sono persone aperte, molto cordiali e spesso per salutarsi si abbracciano o si baciano sulla guancia. (Italia e Italiani, Toffolo-Nuti-Merklinghaus 2003: 31).

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Che cosa fanno gli italiani per Capodanno?[…] Da un po’ di tempo una parte degli italiani ha scoperto un Capodanno differente: vicino ai poveri, ai malati, alle persone che hanno bisogno un po’ di affetto e di attenzioni. Ci sono molte associazioni di volontariato che organizzano per la notte del 31 dicembre cene nelle parrocchie o nelle palestre per dare conforto alle persone bisognose o per offrire una fetta di panettone anche a chi non può comprarlo. (Feste e tradizioni, Trifone-Filippone-Sgaglione 2007: 182).

GLI STILI COGNITIVI TIPICIun ragazzo sincretico, olistico, che da qualche anno fa il poliziotto ha assunto una forma mentis che chiede grammatiche esplicite, a differenza del suo gemello che è andato invece in pellegrinaggio in Oriente (Balboni 2002: 46).

insegnando le lingue straniere dobbiamo insegnare diverse forme di concettualizzazione; un americano concettualizza secondo enunciati che vanno straight to the point, un latino usa enunciati interrotti da digressioni in cui si esprimono condizioni, premesse, commenti e così via, un orientale concettualizza secondo una spirale che lentamente giunge all’obiettivo, per avvicinamenti successivi, e ritiene che andare straight to the point sia volgare… (Balboni 2002: 61)

un altro punto debole degli studenti cinesi è la comprensione globale di quello che si ascolta. Siccome gli studenti cinesi generalmente sono abituati a fare attenzione ai particolari e alle sfumature, qualche volta anche eccessivamente, gli insegnanti dovranno promuovere tecniche che favoriscano un approccio mirato alla comprensione globale dei contenuti e delle informazioni (Maggini 2006: 4-5).

LE “RAZZE”Gli zingari causano solo problemi e vanno emarginati? Tu da che parte stai?Leggi attentamente le affermazioni.• Gli zingari sono una delle cause dell’aumento della microcriminalità.• Gli zingari non devono vivere chiedendo l’elemosina, ma lavorare come fanno tutti.• Gli zingari sono un costo per la comunità e non dovrebbero avere il permesso di

vivere in Italia.• Gli zingari sfruttano le donne e i bambini quindi sono un esempio negativo.• È giusto che gli zingari difendano le proprie tradizioni e il proprio modo di vivere.• Hanno usanze molto diverse e “contaminano” la nostra cultura.• La nostra società sta diventando sempre più multirazziale perciò bisogna educare

tutti alla tolleranza.• Con l’apertura alle altre culture anche la nostra si arricchisce.Cerca nella classe gli studenti che hanno le tue stesse opinioni e formate dei gruppi. Avete 10/15 minuti di tempo per discutere insieme ed elaborare una serie di pro e contro.Ogni gruppo deve presentare e sostenere il proprio punto di vista.La discussione è libera. Sedetevi in cerchio e intervenite liberamente. Se necessario, potete chiedere aiuto all’insegnante. (Dammi qualcosa!, Tettamanti-Talini 2003: 43).

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Capitolo IX - Uno sguardo critico sulla glottodidattica

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C’è un secondo Diluvio Universale. Noè costruisce l’Arca per salvare gli animali. Tu sei un cane di razza Dobermann. Corri verso la barca per essere il primo della tua razza a salvarti. Ma davanti alla porta trovi questo manifesto: “Sull’Arca di Noè vietato l’ingresso ai cani dobermann. I cani di razza dobermann non stati creati dal Signore e quindi non sono ammessi sull’arca. Inoltre i dobermann, benché siano certamente belli, possiedono evidenti problemi caratteriali di aggressività e pericolosità che rischierebbero di creare seri problemi sulla nave. Stiamo stilando una lista con tutti gli animali nati da incroci creati dall’uomo, come il Mulo e molte specie di cani e gatti. Invitiamo quindi tutti gli animali di questo genere a non cercare di salire sull’Arca”. Scrivi una lettera a Noè per sostenere la tua utilità e i tuoi pregi, invitandolo a farti salire sull’Arca. (Opinione, Guastalla 2004: 89).

5. Lingua italiana e razzismi

LABORATORIOLeggere: Molte sono le parole che hanno contribuito in questi ultimi anni a diffondere,

riprodurre, legittimare il razzismo in Italia. Una buona parte ha seguito un percorso discensionale, dalla bocca e dalla penna di uomini, o almeno con buon accesso ai media, fino alle dicerie da cortile e da bar. Altre, presenti nel senso comune, sono state avallate, come del resto alcune leggende urbane, da chi si presenta nella sfera pubblica come detentore di un sapere accreditato. […]

Si tratta di scelte tutt’altro che innocenti. Come tutt’altro che innocenti sono le strategie sottese non solo alla scelta del lessico, talora denigratorio fino alla di-sumanizzazione, con cui si parla di immigrati, ma alla posizione delle parole, ai giri sintattici alle forzature semantiche e agli slittamenti di senso, per non parlare delle manipolazioni dei dati statistici e dei sondaggi d’opinione. [Si tratta di] una strategia comunicativa discriminatoria. (Faso 2009: 29-30)

Raccogliere materiali (da giornali, libri, slogan pubblicitari) in cui si ritiene siano presenti parole e concetti discriminanti e razzisti. ____________________________________________________________________

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CAPITOLO XParlare insieme

1. Una proposta didattica

LABORATORIO Leggiamo insieme il testo.

UNA DECISIONE DIFFICILE

Molti anni fa un mercante non riuscì a pagare un grosso debito che aveva con un usuraio. Il mercante doveva andare in prigione, ma quando l’usuraio, che era vecchio e brutto, vide la bella e giovanissima figlia del mercante, ebbe un’idea: “Se la ragazza si sposa con me, io ti cancello il debito e tu non andrai in prigione”- gli disse.Il mercante e sua figlia rifiutarono la proposta, allora l’usuraio disse: -“Sapete che non potete dire di no. Ma io sono buono e onesto, così ho deciso che lascerò decidere alla sorte. Vi propongo un gioco: metto in questa borsa vuota due sassolini, uno bianco e uno nero. Tu devi prenderne uno senza guardare e hai tre possibilità:

• “se rifiuti di prendere i sassolini, tuo padre andrà in prigione e tu morirai”.

• “se prendi il sassolino nero, tu diventerai mia moglie e io cancellerò il debito di tuo padre ”.

• “se prendi il sassolino bianco, rimarrai con tuo padre e io cancellerò il debito di tuo padre”.

In quel momento, il vecchio usuraio, il mercante e la ragazza si trovavano su un vialetto pieno di sassolini. Mentre l’usuraio sceglieva i sassolini da terra, la ragazza, che era più attenta a causa della paura, vide che il vecchio metteva nella borsa due sassolini neri. Poi l’usuraio invitò la ragazza a estrarre il sassolino, che doveva decidere la sua sorte e quella di suo padre. La ragazza era molto spaventata, ma all’improvviso ebbe un’idea: introdusse la mano nella borsa e prese un sassolino, poi lo lasciò cadere a terra in mezzo agli altri sassolini e disse all’usuraio: “Che sbadata! Non riesco più a trovarlo. Ma se guardi nella borsa, dal colore del sassolino rimasto, potrai dedurre il colore di quello che è caduto a terra”. Naturalmente, poiché il sassolino rimasto nella borsa era nero, l’usuraio capì che la ragazza lo prendeva in giro ma, siccome non voleva ammettere la propria disonestà, non disse nulla e la ragazza riuscì a salvare se stessa e il padre.(liberamente tratto da Edward de Bono, Il pensiero laterale. Come diventare creativi, Rizzoli, Milano, 1997 [1967]

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Capitolo X - Parlare insieme

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• Per riflettere un po’ sul testo, svolgiamo queste attività:• Quali parole della storia conosco e quali non conosco: cerchiamo sul

vocabolario le parole difficili.• Cosa ho capito/non ho capito: confrontiamoci con i compagni e,

insieme, chiariamo le parti più difficili del testo. • Confrontiamo le nostre idee sul testo e, se abbiamo capito cose diverse,

discutiamone insieme.

• Esprimiamo insieme una nostra opinione sul comportamento dei tre personaggi di questa storia.

L’usuraio Il padre La ragazza

• Nel testo troviamo tanti verbi al passato. Riscriviamo i verbi trovati nella tabella qui in basso.

I verbi al passato nella storia sono:

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• Discutiamo insieme sulla differenza di significato fra queste tre frasi.

La ragazza ha preso una decisione

La ragazza prese una decisione

La ragazza prendeva una decisione

• La storia letta insieme parla di una ragazza che deve decidere come comportarsi in una situazione difficile.

Tu come ti comporteresti in una situazione difficile ?

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Capitolo X - Parlare insieme

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2. Confronti

Individuare le differenze rispetto ad un’unità didattica standard51 ____________________________________________________________________

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Esaminare la sezione grammaticale nell’unità didattica “Una decisione difficile” e descrivere l’approccio adottato (quali differenze si notano con esercizi e/o attività e tecniche glottodidattiche; quale approccio allo studio della grammatica viene pri-vilegiato).____________________________________________________________________

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51 Per le unità didattiche standard, si può fare riferimento a Mezzadri-Balboni (2003, 2005).

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3. Le fasi dell’unità di apprendimento: critica al modello di unità didattica e pro-poste per un percorso possibile

TAVOLE SINOTTICHE

Motivazione

Durante la fase di Motivazione, l’insegnante cerca di suscitare l’interesse della classe per introdurla al testo. Le idee espresse dagli apprendenti in questa fase possono essere spunti per riflettere e discutere insieme su parole e argomenti emersi in classe.

NO SÌ

La fase di motivazione nell’unità di apprendimento standard si rivela poco flessibile:

la motivazione non è una fase di libera produzione orale da parte dello studente (p.e. con la tecnica del brainstorming), ma si configura come un’interazione forzata perché:

• le tematiche con cui l’insegnante introduce un testo (su cibo, vestiti, al bar, al ristorante ecc.), potrebbero creare chiusure da parte degli studenti, che percepiscono le domande (p.e. “Cosa vi viene in mente se dico la parola cibo?”) troppo generiche, astratte e spesso illegittime.

• Sebbene non conosca quali associazioni saranno espresse dagli studenti (p.e. con un brainstorming sulla parola cibo), il rischio è che l’insegnante richieda implicitamente alla classe di non uscire fuori tema, perché si aspetta una coerenza di associazioni. Infatti, se uno studente fornisce una risposta inattesa, interrompe il flusso di associazioni previste dall’insegnante, che forse chiederà una spiegazione, ma poi riprenderà il filo del discorso e ricondurrà gli studenti a rientrare nel percorso prestabilito.

La fase di motivazione dovrebbe:

- stimolare lo studente a parlare di qualcosa di rilevante per sé e non di argomenti in termini astratti e culturalisti.

- riguardare un piano individuale/personale (la quotidianità, le emozioni, la memoria ecc.). Il parlare di sé non coincide con uno strumento patologgizzante per ‘farsi raccontare il trauma migratorio’, secondo una logica che reifica identità e culture (Baroni 2010)

- stimolare la curiosità di fronte ad un evento spiazzante, adottando una metodologia basata sulla dialogicità, che non ricorre a spiegazioni rigide e stereotipate, ma si basa su un apprendimento realmente condiviso, che ammette la presenza di multi-interpretazioni e può procedere “mediante un chiarimento attraverso disorientamenti” (Herzfeld 2006)

- l’interazione studenti/insegnante non è forzata, perché le domande (di tutti) nascono realmente da un non sapere, contrastando la formulazione di domande illegittime e riconducendo il dialogo ad una conversazione naturale (von Foerster-Pörksen 2001, Perticari 2005)

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Capitolo X - Parlare insieme

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Globalità, analisi, sintesi, riflessione, rinforzo

Durante la fase di Globalità, l’insegnante presenta un testo (scritto, audio, video), che viene scoperto progressivamente dagli studenti. Questa fase prevede: un’esplorazione del paratesto (immagini, titolo, aspetto del testo ecc.), con ipotesi enunciate dagli studenti e un’analisi del testo con attività di verifica della comprensione.Durante la fase di Analisi, lo studente ricerca nel testo funzioni comunicative (analisi funzionale) e elementi linguistici (analisi grammaticale) o culturali (analisi culturale).Durante la fase di Sintesi, lo studente riutilizza le informazioni sulle ‘funzioni comuni-cative’ esaminate per “rispondere ai propri bisogni comunicativi”.Durante la fase di Riflessione/Attività metalinguistica, lo studente scopre le strutture grammaticali con un approccio di tipo induttivo.Durante la fase di Rinforzo, lo studente svolge attività /esercizi sulla lingua.

NO SÌ

In queste fasi, la rigidità è determinata dal legame con la fase precedente di motivazione: costituisce una sequenza meccanica, in cui l’argomento presentato durante la motivazione viene riorientato su un testo spesso situazionale astratto (il viaggio, la stazione, la famiglia, la casa, il tempo libero ecc.).La situazione astratta non risponde ai bisogni specifici degli studenti: p.e. proporre un’unità di apprendimento su studio e lavoro, presentando lessico e funzioni comunicative generiche, ossia non connesse direttamente all’esperienza quotidiana degli studenti, può rivelarsi inefficace, perché la competenza comunicativa è un’acquisizione legata all’esperienza personale in un determinato contesto.Le attività di verifica, su testi vissuti come non rilevanti dallo studente, diventano meccaniche e le domande di comprensione risultano illegittime. Spesso, la distanza pragmatica di una funzione comunicativa non aiuta lo studente a riflettere sulla lingua. In questa fase, la varietà delle tecniche, che sarebbero proposti per non annoiare gli studenti, diventa attività virtuosistica e non riflessioni sulla lingua.Infine, questa scansione è rigida e poco dinamica, in quanto non lascia spazi di riflessione, di “attesi imprevisti”.

Un testo (o input ) deve:

- essere vissuto come rilevante dall’allievo (Faso 2005), vicino alla propria esperienza individuale e quotidiana.

- essere stimolante sul piano della soggettività.

- le fasi di skimming (comprensione globale) e scanning (comprensione analitica) non risultano illegittime, perché la lettura e la comprensione del testo è condivisa, discussa e riformulata continuamente tra l’insegnante e gli studenti (Brighi-Giornelli 1998).

La grammatica può: - essere discussa con gli studenti, sotto forma di “esperimenti grammaticali”, considerando gli aspetti pragmatico-linguistici fondamentali per stimolare riflessioni sulla lingua (Lo Duca 2004).

- Possono essere previsti momenti di rinforzo (attività/esercizi), adottando preferibilmente un approccio di tipo induttivo.

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CAPITOLO XILo spazio comune delle relazioni

Un giorno è avvenuto un fatto che mi è rimasto nel cuore e che ho portato con me in Italia. Qualcosa che mi hanno insegnato i bambini e cioè che la diversità nella lingua, spesso, non rappre-senta un problema di comunicazione. Mi trovo nella sezione Bullerby che accoglie bambini da 1 a 2 anni. Una bambina è arrivata a scuola da poco, ha 1 anno e 4 mesi e in mano tiene stretto il piccolo libro che ha portato con sé da casa e che le permette di separarsi dalla mamma. Io non parlo svedese, lei non comprende l’italiano. Mi prende per mano, mi invita a sedermi per terra, mi sale in brac-cio e mi consegna il suo libro. Glielo leggo in italiano affidandomi alle figure, lei segue con il suo ditino e vocalizza. Un’altra bambi-na incuriosita dalle sonorità della lingua si avvicina, si ferma per un momento in piedi, di fianco a me, e poi mi viene in braccio e ascolta attenta. A dimostrazione che un’immagine, un gesto e un suono possono bastare per incontrarsi e stare insieme.

(Astrid Valeck)

1. Quello spazio fra due punti

LABORATORIORiflettere sul concetto di ‘intercultura’ e scrivere una definizione.____________________________________________________________________

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2. Lettura sul concetto di intercultura

[…] le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sul-le altre, senza confini precisi, con aloni che si sovrappongono in abbondanza, come scivolamenti di enfasi, con le identità che si configurano come autoenfatizzazioni locali. Ma nell’atlante non esistono colori che sfumano uno sull’altro, come è pensabile avvenga di fatto tra una cultura e l’altra e una lingua e l’altra. Il relativismo classico, quello centrato sul soggetto, marcava la di-scontinuità e figurava i rapporti tra culture come dei “ponti” tra due entità separate: è da qui che nascono espressioni come “in-tercultura” e simili, ancora molto in voga.

(Leonardo Piasere)

[…] bisogna interrogarsi sulle nozioni di cultura, appartenenza, etnia, con cui si rischia di ricondurre il bambino a una supposta differenza naturale (“… loro sono così), e che ci vengono incontro ogni volta che insorge un conflitto o una difficoltà, con un ripie-gamento sulle dicerie della nostra tribù (“lo sanno tutti che…”, “sai come sono loro…” ecc.). […] Sappiamo bene che in questi casi scattano alcune forme di difesa, anche rozze […] e quando si ha il tempo per operare una maggiore riflessività, sorgono teorie interpretative folk del malinteso. La più diffusa presso il senso comune insiste sulla “differenza fra le culture”, e si espone inge-nuamente agli sviluppi del differenzialismo culturale, che è noto-riamente la più insidiosa forma odierna del razzismo.

(Giuseppe Faso)

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Nessun individuo può essere considerato un soggetto da cui attendersi confor-mità di comportamenti in base alla cultura d’appartenenza. Questa visione essen-zialista del termine cultura, che ritiene le persone assimilabili alla cultura d’origine e le culture delle entità separate, restituisce una lettura uniformante e semplicistica degli individui: essi vengono rinchiusi dentro interpretazioni culturaliste, dove ogni atto è spiegato con la provenienza culturale, sottoponendo la cultura ad un proces-so di naturalizzazione. La ricerca antropologica ha mostrato, invece, che le culture non sono contenitori chiusi ma reti mutevoli, i cui fili vanno costantemente ad in-trecciarsi: si tratta di processi diversificati al loro interno e in continua alterazione (Hannerz 2001, Matera 2008, Fabietti 2008).

Se con il termine cultura si vuole indicare una entità circo-scritta, localizzata e descrivibile nei suoi elementi compo-nenti, è evidente che oggi tale concetto è […] in crisi. Il pro-cesso di reificazione delle culture può essere sia interno […] che esterno. Quello esterno coincide con una esagerazione delle culture come quella che può risultare da una descrizio-ne etnografica. Quello interno consiste invece nell’assegna-zione, da parte di chi condivide certi codici e significati, di una natura extra-culturale a questi ultimi, che diventano en-tità sottratte al flusso comunicativo basato sulla negoziazio-ne, la convenzione e l’accordo. Tali codici e significati vengo-no in questo modo reificati, trattati come cose che, tuttavia, invece di essere frutto di flussi negoziali che contrassegnano lo stesso mutamento culturale, sono ipostatizzati, eternizza-ti. La cultura viene cioè destoricizzata. (Fabietti 2008: 42)

Al concetto di cultura, pensata con tratti distintivi e immutabili aderisce una mo-dalità cognitiva che genera confini e che, come prevede lo spazio delimitato di un contenitore, valuta l’elemento categorizzato per essere collocato al suo interno o al suo esterno (vd. Piasere 2010). La conseguenza è quella di creare gli altri, di impor-re identità, situandosi su un sentiero scivoloso dove anche la buona intenzione di “congiungere trasversalmente popoli e culture e, nello stesso tempo, di raccontare della loro specificità” (Favaro 2002), richiama inevitabilmente un argomento auto-contraddittorio (vd. Herzfeld 2006), quello della “difesa dei propri principi” (Favaro 2002: 112), che conferma il pericolo dello slittamento dall’individuazione e dal ri-spetto delle differenze alla loro eliminazione (vd. Remotti 2001: 29). Ad entrare in relazione sono invece gli individui, che non si assimilano né si separano ma operano

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Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni

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delle connessioni, oltrepassando i rispettivi confini e gli sbarramenti, seguendo an-che procedure di ritessitura (vd. Remotti 2001).

Nelle reti di connessione (spesso confuse, non propriamente nette, talvolta aggrovigliate, in alcuni punti mancanti o lace-rate) l’identità è senz’altro presente; ma lo è con difficoltà: la contrastano i fili che, in certi casi sotterranei, passano sotto le linee di confine. In questo paesaggio connessionistico, pro-dotto dall’esigenza del “ricucire” […] non ci sono solo le co-struzioni isolate dell’identità (forme prevalentemente stabili, recinti eretti con materiali durevoli): ci sono anche le connes-sioni, e più ancora le “possibilità” di connessione, le quali, se non altro, indicano modi alternativi di costruire le identità. (Remotti 2001: 9)

Una visione sostanziale della cultura crea tipizzazioni e l’appropriazione del ter-mine cultura, attraverso pratiche di etnicizzazione, assume un carattere performati-vo sulla realtà (Fabietti [1995] 2010). Verena Stolke identifica la retorica culturalista che si cela dietro la parola “cultura”, fondando ideologie e pratiche di esclusione sociale nei confronti dell’Altro. L’Autrice definisce queste retoriche “fondamentali-smo culturale” (Stolcke 1995: 2): esso consiste nell’evidenziare le differenze cultura-li, ritenendo al contempo che la cultura sia un “insieme compatto, ben demarcato, localizzato e storicamente radicato di tradizioni e valori trasmessi di generazione in generazione” (ivi: 4). L’accezione del termine in chiave culturalista è quella di cui si è appropriata il senso comune (anche in ambito politico), dove “è pleonastico sottoli-neare che nelle strategie retoriche del neorazzismo cultura, identità, etnia, risultano sovente nient’altro che sostituti funzionali di razza” (Rivera 2008: 60). Questo fon-damentalismo culturale è applicabile ad ogni forma di politica di integrazione o di riconoscimento, in cui si parli di facilitare il contatto tra culture ed in cui si reifichi-no identità fittizie: atti di nominazione tramite cui sono stabilite relazioni di potere e che producono l’effetto di far esistere ciò che annunciano e ci si rappresenta e, per questo, non risultano mai innocui (Stolcke 1995, Sayad 2008).

Sull’idea di culture isolate, con caratteristiche di fissità e invariabilità, deriva in modo analogico il termine “intercultura”, dove il prefisso inter specifica un collega-mento tra quelle culture inscatolate. Con l’idea dell’ingabbiamento culturale si raf-forza la convinzione che vi siano dei tratti culturali genetici o tipici, in altre parole razze, che sostengono

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[…] l’ibridazione, o il meticciamento culturali, e simili. Tale metafora nascosta, pericolosa per la storia che veicola, appa-re a volte anche nei nomi delle associazioni o dei progetti di educazione interculturale. Oggi, al contrario, in antropologia prevale un approccio distributivo della cultura, intesa come senso comune esternato e diversamente condiviso all’inter-no delle reti sociali, in cui agiscono persone con differenti “agentività” e quindi diversamente in grado di influenzare il cambiamento di un dato senso comune. Vista così, ogni per-sona diventa “un punto di congiunzione per un infinito nu-mero di culture che si sovrappongono parzialmente” (Piasere 2007: 14, vd. Hannerz 2001).

Di conseguenza, accettare l’opposizione io/l’altro, noi/loro (la nostra cultura/ la loro cultura) significa attribuire una sostanza stabile all’identità, costantemente orientata a controllare le possibili alterazioni prodotte dall’Altro e a produrre im-plicazioni che spaziano dal rifiuto delle differenze al rispetto delle diversità, ma che sostanzialmente si muovono entrambe all’interno delle stesse pratiche di assogget-tamento (Baroni 2010, Remotti 2010). Anche il principio del “rispetto delle differen-ze culturali”, infatti, si configura come una pratica di esclusione sociale: rimarcare una differenza significa individuare una separazione netta tra culture e una divisione del mondo in noi e gli altri, che è vincolata a scelte politiche di controllo sociale e inferiorizzazione nei confronti di chi è visto come Altro, lo straniero (Herzfeld 2001, Remotti 2010).

Operare un distacco netto dal modello noi/loro non significa rifiutare la diversi-tà, ma ricondurre la relazione su un piano di somiglianza e di reciprocità, dove non è soltanto la negoziazione dei significati a favorire le relazioni, ma soprattutto una dinamica dove il vivere simbiotico comporta una vera condivisione di conoscenze e competenze di tutti (Remotti 2010). Si tratta di non accettare acriticamente gli incontri vìs a vìs nelle relazioni quotidiane e di osservare le potenzialità di cono-scenza che essi comportano. Questo modello relazionale non implica una semplice co-esistenza, su uno sfondo fondato sempre sul principio della separazione o su discorsi interculturali atti a favorire forti asimmetrie nelle relazioni di potere (Re-motti 2010). Con questi discorsi interculturali si ha sempre la sensazione di essere “davanti ad un linguaggio costruito soprattutto per essere parlato dagli operatori sociali e dai consulenti interculturali costruendo un’immagine delle migrazioni a misura delle loro pratiche professionali e degli ambienti organizzativi in cui sono collocati” (Baroni 2010: 44-45). Le relazioni di reciprocità e il confronto implicano,

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invece, una progettualità del coinvolgimento. Sul piano sociale, il coinvolgimento comporta non solo una riflessione critica sulla costruzione dei concetti di domina-zione dell’Altro e sulle conseguenze che ne derivano (Herzfeld 2001), ma anche una pragmatica dello stare insieme, dove la costruzione di significati assomiglia più ad uno “sforzo di coerentizzazione” (Remotti 2010), ossia ad un tentativo di corrispon-dere ad una identità. Quest’ultima non presenta però caratteristiche di fissità: essa è sottoposta a variabili diacroniche e sincroniche.

Per ricondurre il discorso sul piano della pratica educativa, se a scuola circolari e documenti suggeriscono prassi fondate sulla relazione con l’Alterità52 e se in classe l’insegnante attribuisce ai suoi alunni stranieri identità che incorporano problemi e comportamenti etnicizzati, il piano di una possibile relazione e la sfera educativa sono già invalidate. Mentre riconoscere uno sforzo verso la coerenza (e non arrivare mai ad essa) (Remotti 2010) significa prendere atto che nella pratica dell’incontro, ciascun individuo possiede una pluralità di sé, come l’alunno che afferma “io sono italiano, albanese e interista”53, opponendo all’ideale abito fittizio di un’identità monolitica che la scuola vorrebbe cucirgli addosso, la concretezza della moltepli-cità di relazioni intessute con i compagni. Francesco Remotti afferma che ogni per-sona è l’insieme delle relazioni in cui è coinvolta e che gli altri sono già dentro il nostro mondo (Remotti 2010). “Per togliere quel bavaglio invisibile che non fa uscire la voce” (Giornelli 1996: 318), a scuola, come in ogni sfera sociale e politica, risulta efficace abbandonare il campo delle retoriche interculturali (Baroni 2010).

Quando si chiede ad un apprendente di italiano L2 di parlare, questa non è una

52 Sul rapporto tra il discorso interculturale (o delle differenze culturali) e gli effetti di assoggettamento da esso prodotti, Walter Baroni (2010) fa una analisi lucida, esaminando alcuni testi sull’ intercultura, in cui si reificano concetti fittizi, di fatto pregiudizi, come quello dello straniero portatore di diversità o dello straniero visto come una risorsa (vd., tra gli altri, Demetrio-Favaro 2002, Zoletto 2007).Preoccupa il fatto che nel documento ministeriale La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri del 2007, tutt’ora in vigore, permanga una visione incentrata sulla valorizzazione delle differenze culturali e sull’idea che un alunno straniero sia una risorsa per la scuola italiana, suggerendo di

adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra le culture […].come paradigma dell’identità stessa nella scuola del pluralismo, come occasione per aprire il sistema a tutte le differenze[…]. Le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili,promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare i conflitti che ne derivano [per] la ricerca di una coesione sociale […] in cui si dia particolare attenzione a costruire la convergenza verso valori comuni. (Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale, 2007)

Per un’analisi sul rischio di una politica di “integrazione forzata” e sulla complessità dell’incontro tra differenti identità culturali si vd. Callari Galli, Guerzoni, Riccio 2005.

53 La frase è di Erjon, un ragazzo di origine albanese, in Italia da 3 anni, che in un tema sulle differenze culturali proposto in classe dall’insegnante di italiano, rispose così, opponendosi all’identità immaginata dalla scuola, sulla quale si chiedeva di scrivere e di confrontarla con una altrettanto immaginata identità italiana.

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semplice pratica informativa per l’insegnante (che dovrebbe, per altro, mettersi sempre in gioco e comprendere la natura non neutrale della sua presenza in classe ) (vd. Freire 2004 ). Con il dialogo reale e legittimo si compie una sorta di viaggio in cui il “capire attraverso la frequentazione” comporta un senso di sradicamen-to, ma anche un “lasciar macerare acquisizioni che non avvengono tramite semplici concatenazioni lineari, ma con procedimenti complessi” (Piasere 2002: 56-57). Un coinvolgimento che avviene nel mondo reale dell’esperienza, non sul riduzionismo di un attività didattica precostituita.

Instaurare la relazione fra gli individui, fra le soggettività implicate, significa saper ascol-tare anche racconti, non come esercizio di dialogo banalizzante interculturale, ma con

la possibilità di creare, preliminarmente, uno spazio comu-ne […] d’intelligibilità condivisa, una relazione che sia anche uno scambio di significati e processo comune di conoscenza: della propria reciproca umanità e dei propri mondi sociali, culturali e morali. […] Poiché l’estraneo non è veramente tale e sono piuttosto le sue rappresentazioni sociali a restituirlo connotato da qualche forma di alterità irriducibile. Alla luce dell’esperienza, penso che la dialettica “familiarizzare l’estra-neo/relativizzare il familiare” vada resa più problematica e complessa: le biografie dei migranti spesso ci restituiscono un altro volto di ciò che ci è familiare e un’altra dimensione di ciò che ci è divenuto estraneo. (Rivera 2008: 47-61)

In questa relazione, tuttavia, è importante essere consapevoli di un pericolo in cui la cosidetta didattica interculturale incorre. Il racconto di sé contiene delle ambiguità con-troproducenti. Visto come incontro delle differenze, e come risorsa per chi ascolta (vd. Demetrio-Favaro 2002), il racconto autobiografico rischia di riproporre ancora una moda-lità differenzialista. Le differenze culturali vengono trasferite dal piano dell’esteriorità a quello dell’interiorità del migrante, dove quest’ultimo è condannato a raccontare unica-mente il proprio passato e sé stesso in un’ottica rassicurante per chi ascolta e che connota l’Altro come soggetto deprivato e patologgizzato, recludendolo in una eterna condizione di infantilismo (vd. Baroni 2010). Mentre, come sostiene lo scrittore martinicano Édouard Glissant, un dialogo è liberato se, al contempo, è consapevole e rispettoso delle propria e altrui sfumature, le quali conferiscono a chi racconta il diritto alla non trasparenza e dove conoscere non coincide con la pretesa di una com-prensione totale e permanente delle differenze, ma mantiene un grado di opacità che preserva i soggetti osservati dall’ossessio-

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ne dell’incontro interculturale (Glissant 2007), in definitiva dal controllo inferiorizzante di chi ha la presunzione di capire e rispettare le differenze.

3. Con-vivenze

LABORATORIO Osservare e descrivere le competenze di M., autrice di questo testo54.

Happy. A … vita no-stop. Vita pazza prima gira.A italia io ho vita lenta.No rido tanto io sono solaNostalgia. Guardo fuori la finestra e penso dove amici che aiutare me?Io arabbiata perché a italia no fai tutto esempio la musica.StancaStanca e stufaDire basta problemaMolta problema. Dio no amico perché no aiuta meContact. Mouse penna sono importanti perché amici sempre contacto.Tristezza. Perché goccia acqua sempre sono problema.Ho il mio stile che non possono essere copiate.Io sola ho chiave mia camera e mi secreti io sola apro la camera.io sono fuoco artificio no sai che esplodereio e specchioquesta è mia caracterePaura no guarda me.Princess. (fine)

(M., 17 anni)

54 Il seguente racconto nasce senza alcun intento autonarrativo/autobiografico, all’interno di un laboratorio di italiano L2. M., la mia apprendente e autrice di questo testo, durante le nostre conversazioni, mi raccontava della sua passione per la fotografia. Durante una di queste chiacchierate, ho chiesto a M. se le sarebbe piaciuto fotografare degli oggetti per lei significativi, accompagnandoli, se avesse voluto, con delle didascalie. Ne è nato questo testo, un insieme di frasi che sottotitolano delle foto da lei scattate, e da cui, in collaborazione con M., è stato realizzato un video.

Quest’esperienza di racconto si inserisce dunque in una pratica che, a mio avviso, non può essere ricercata con l’obiettivo curativo del “far parlare di sé” (vd. Demetrio-Favaro 2002), riconducendo ancora il racconto autobiografico alla “gabbia della propria cultura di appartenza” (Baroni 2010: 64). Tale pratica, al contrario, non necessita di retoriche comunicative, in cui valorizzare significa ugualmente porre delle distanze, rischiando di ri-creare l’Altro nell’accentuazione delle differenze. Saper ascoltare un racconto richiede un approccio etnografico e una sospensione del giudizio. Con la consapevolezza che ogni persona è una pluralità di persone, come recentemente ha affermato l’antropologo Remotti durante un incontro all’Università la Bicocca di Milano, ricordando che, per i Kanach della Nuova Caledonia, “la persona è un fascio di relazioni, al cui centro c’è il mondo. La persona è l’insieme delle relazioni in cui è coinvolta. Il che significa che gli altri sono già dentro di noi” (Remotti, Identità o convivenza?, lezione tenuta al Corso di Antropologia delle Migrazioni, Bicocca, Milano, il 19 ottobre 2011, vd. anche Remotti 2010).

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Osservazioni____________________________________________________________________

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4. “Qualche piacevole sentimento”: un piccolo racconto sull’importanza delle contro-rappresentazioni nella didattica dell’italiano L2

Nel mio gruppo di alunni cinesi che studiano italiano, è accaduto un fatto: i ra-gazzi producono controrappresentazioni. La proposta di realizzare un video tutti insieme è nata con l’intento di contrapporre alle immagini arbitrarie che la scuola produce sui ragazzi cinesi una propria costruzione di significati.

La scelta di fotografare oggetti importanti per gli studenti, accompagnati da una serie di didascalie esplicative per esprimere pensieri ed emozioni, ha l’obiettivo di rovesciare l’immaginario costruito su una presunta alterità chiusa, “tipica dell’es-sere cinese”. Questa categorizzazione racchiude uno spettro ampio di stereotipi, da negativi a 'positivi', in cui l’immagine-schema della chiusura fornirebbe la chiave interpretativa dei comportamenti dei ragazzi cinesi e delle misure che la scuola ha adottato per integrarli, secondo una visione evoluzionistica in cui l’istituzione sco-lastica è convinta spesso di rappresentare un’opportunità di miglioramento.

La co-costruzione di questo video, in cui i ragazzi hanno scattato e selezionato le foto, scritto testi, scelto la musica, rappresenta una forma di piccola protesta, un tentativo sperato di decostruire la produzione di retoriche culturaliste.

Dal mio “diario di campo”, marzo 2012:

L. F.: “Franca, ieri hai detto facciamo un video”Franca: “Sì, cominciamo oggi. Hai le foto?”L. F.: “No, io sono poeta qui. Gli altri fanno foto, io penso qualche piacevole sentimento. Ti dico e tu scrivi. Va bene?”Franca: “Sì, allora dimmi”.

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Capitolo XI - Lo spazio comune delle relazioni

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L. F.: “Prof, io dico ma tu scrivi bene, eh? Questo, attenta:Ti ricordi il tuo sogno da bambino? Avevo tre anni, voglio diventare un pilota, ero otto anni voglio diventare musicista, dodici anni voglio diventare scrittore, quindici anni voglio diven-tare astronomo. Oggi i miei genitori mi chiedono: chi vuoi diventare in fondo? Rispondo che possibile sono la fantasma. Voglio dire che il mio futuro è come un foglio si disegnare da me”.(L. F., 16 anni, gruppo di italiano L2)

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CAPITOLO XIIL’insegnante-apprendente

Possiamo usare questa comunanza – questo “spazio condiviso” […] – per cercare di capirci l’un l’altro. Dobbiamo farlo, in realtà, perché non abbiamo altro. […] Quello che conta è porre attenzio-ne a quello che la gente ha da dire e all’intenzione che cerca di trasmettere, e non brancolare alla ricerca di risposte “più ampie” nei particolari delle parole che hanno pronunciato. Io lo chiamo “andare oltre le parole”.

(Unni Wikan)

Il taglio volutamente laboratoriale di questo capitolo nasce dall’idea di auto-rifles-sività sulla pratica quotidiana dell’insegnante e si configura come una messa a fuoco di alcuni concetti accennati o descritti e variamente sparsi nei capitoli precedenti. La complessità che caratterizza lo spazio aggrovigliato e mutevole delle relazioni tra l’insegnate e l’apprendente è così espresso dall’antropologa Matilde Callari Galli:

esistono analogie tra il lavoro sul campo, compiuto dagli an-tropologi e il lavoro svolto dagli insegnanti: si tratta in am-bedue i casi di esplorare e registrare quotidiane dinamiche scomposte, spesso apparentemente prive di un’organizzazio-ne coerente e finalizzata, di intravedere i microprocessi e le microrelazioni e di trovare strumenti di notazione e di inter-pretazione; e se il lavoro dell’antropologo era un tempo solo dedicato al livello conoscitivo, sempre più numerose sono oggi le esigenze che anch’egli, al pari di un insegnante, in-stauri con i suoi interlocutori un dialogo costruttivo di cono-scenze comuni e dal quale ambedue escano profondamente cambiati. (Callari Galli 2000: 97)

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Capitolo XII - L’insegnante-apprendente

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1. Punti di vista

LABORATORIOIn che senso questa immagine può essere rappresentativa del rapporto tra l’inse-gnante e l’apprendente?

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Il taccuino dell’insegnante – etnografo

L’osservazione non è la colorazione di un disegno tracciato preliminarmente: è la prova del reale a cui è sottomessa una curiosità pre-programmata. La competenza del “ricercatore sul campo” sta tutta nel poter osservare ciò a cui non era preparato (mentre si sa quanto sia forte la normale propen-sione a scoprire soltanto quello che ci si aspetta) e nell’essere in grado di produrre i dati che l’obbligheranno a modificare le proprie ipotesi. (Olivier De Sardan 2007: 32)

Dopo aver letto il brano dell’antropologo Olivier De Sardan, riflettere su questi punti:

Cosa comporta, nella relazione in classe, che l’insegnante abbia una forte propen-sione a scoprire soltanto quello che si aspetta?____________________________________________________________________

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Cosa significa per un insegnante cambiare le proprie ipotesi iniziali? ____________________________________________________________________

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2. Il paradosso dell’osservatore

LABORATORIO

L’osservatore stesso è una parte della sua osservazione. (Lévi- Strauss 1965: XXXI)

L’etnografia è una curvatura dell’esperienza ma, per cogliere i significati altrui, si concentra nelle soste, negli angoli di mon-do. (Piasere 2002 : 57)

L’etnografo, riflettendo il mondo all’interno del quale cerca di intervenire, diviene egli stesso (s)oggetto deformabile del processo conoscitivo. (De Lauri 2008: 11)

In che misura, come osservatore (insegnante/facilitatore) trasformo il modo di pen-sare, di vivere e di esprimersi degli apprendenti che osservo e con cui mi trovo in classe o fuori dalla classe?____________________________________________________________________

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CAPITOLO XIIIOsservare le relazioni

Se è vero che un approccio antropologico può influenzare l’a-nalisi e la presentazione dei dati […] è altrettanto vero che l’e-sperienza per immersione “ti salva” dagli eccessi delle ipotesi de-duttive per lasciare ampio spazio di manovra all’empiria induttiva del quotidiano. La conoscenza etnografica è sempre il risultato di una relazione […]

(Leonardo Piasere)

1. Sguardi etnografici

LABORATORIORiflettere sui seguenti concetti e darne una descrizione, indicando in che modo pos-sono contribuire alla costruzione (o all’ostacolo) delle relazioni/conoscenze in classe.

• decentramento• spiazzamento/spaesamento• esperimento di un’esperienza • negoziazione• co-esistenza e condivisione

2. Riflessioni finali

Maa Ka maaya ka ca a yere kono. In bambara significa: le perso-ne di una persona sono numerose in ogni persona. Mia madre, quando voleva vedermi, aveva l’abitudine di chiedere a mia mo-glie “Quale persona di mio figlio abita qui oggi? Il toubab [l’uomo bianco]? L’uomo di religione oppure mio figlio?” Se mia moglie rispondeva “Tuo figlio” allora entrava in casa, senza cerimoniali e mi diceva cosa voleva. Se diceva “è l’uomo di Dio” mia madre si limitava a fare proposte, ma se mia moglie rispondeva “il toubab”, allora mia madre ripartiva senza neppure provare a incontrarmi.

(Amadou Hampâté Bâ)55

55 Il racconto è riportato da Marco Aime in Eccessi di culture (Aime 2004 :57).

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Capitolo XIII - Osservare le relazioni

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L’osservazione partecipante è principalmente una pratica, in cui l’osservatore (l’insegnante-etnografo) s’incontra con la realtà che vuole studiare. Non s’inten-de qui fornire una metodologia sull’approccio all’osservazione, che renderebbe il discorso sulle relazioni in classe un manualetto pratico sull’intercultura (Herzfeld 2001: 178-181). S’intende piuttosto illustrare una teoria e una pratica della riflessività, quella sull’osservazione etnografica: essa parte dal presupposto che ogni giudizio formulato è sempre sottoposto ad una auto-riflessione, in cui l’interazione esce dal-lo schema ideologizzato dell’io/altro per entrare nella complessità e fluidità delle relazioni in cui è coinvolto, in “modi che le formule semplicistiche non possono rilevare e che, di fatto, possono solo distorcere” (ivi: 181).

Nell’interazione, la componente dell’osservazione (essere spettatori) e quella della partecipazione (essere co-attori) si realizzano contemporaneamente e tutto ciò che viene osservato può essere trasformato o registrato in un dato (prendere appunti, segnare una risposta, porsi una domanda, selezionare alcuni fatti ritenuti importanti) e può essere successivamente rielaborato .

Il prendere appunti su ciò che succede in classe o fuori dalla classe comporta, come abbiamo visto, una consapevolezza da parte dell’insegnante:

i dati, così come li intendiamo qui, […] sono la trasformazio-ne in tracce oggettivate di “pezzi di realtà” come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore. […] Le osservazioni del ricercatore sono strutturate da quello che ricerca, dal suo lin-guaggio, dalla sua problematica, dalla sua formazione e dalla sua personalità […]. [Ma] una problematica iniziale può, grazie all’osservazione, modificarsi, ampliarsi, spostarsi. (Olivier De Sardan 2009: 32)

Un’altra dimensione fondamentale dell’osservazione consiste in un sapere da parte dell’insegnante-etnografo che viene incorporato senza essere annotato, e che nella ricerca sul campo prende il nome di impregnazione.

Possiamo considerare il “cervello” del ricercatore come una “scatola nera” […]. Ma ciò che egli osserva, vede, ascolta du-rante un soggiorno sul campo, così come le proprie esperien-ze nei rapporti con gli altri, tutto ciò ‘entrerà’ nella scatola nera, produrrà degli effetti in seno al suo meccanismo di con-cettualizzazione, analisi, intuizione, interpretazione, per poi ‘uscire’ in parte dalla scatola nera contribuendo a strutturare le sue interpretazioni […]. Qui sta tutta la differenza […] tra un

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ricercatore sul campo che ha di quello di cui parla una cono-scenza sensibile (“impregnazione”), e un ricercatore di biblio-teca che lavora su dati raccolti da altri. Questa padronanza che un ricercatore acquisisce del sistema di senso del gruppo presso cui fa l’inchiesta si acquisisce per una buona parte in modo inconscio, come la lingua, attraverso la pratica. (ivi: 34)

L’insegnante osserva un apprendente non isolandone le reazioni, ma rilevando tutto ciò che accade, all’interno e fuori dalla classe, esaminando la complessità delle interazioni tra gli apprendenti e tra gli apprendenti e l’insegnante stesso, gli imprevisti che necessariamente accadono, ponendosi domande con la consapevo-lezza che la soggettività dell’osservato (e dell’osservatore) cambia forma e accoglie in sé una pluralità irriducibile ad un’identità immutabile (Remotti 2010). Tutti que-sti elementi orientano l’insegnante verso la modifica delle proprie idee su un dato evento , in cui i partecipanti di un incontro portano dentro di sé una molteplicità di “noi” (ibid.) e non possono essergli attribuiti comportamenti identitari o etnici.

L’approccio etnografico all’osservazione e le riflessioni proposte per la classe mirano a evidenziare lo spettro ampio di elementi di complessità, per un esame approfondito e articolato imprescindibile dalla didattica. La cura e l’osservazione degli aspetti relazionali implicano, come abbiamo cercato di mostrare, che qualsiasi approccio, materiale o tecnica per quanto moderni si rivelano vani, ogni qualvolta prescindano dagli aspetti relazionali che emergono solo se il dialogo tra insegnante e apprendente è autentico. L’autenticità implica la capacità dell’insegnante di osser-vare/ascoltare e auto-osservarsi, grazie a cui l’azione pedagogica diventa efficace. Non si tratta di nuove teorie sulla ricerca come spazio di socializzazione, poiché “l’etnografo non è come un bambino che impara il mondo, perché un suo mondo ce l’ha già e ben radicato dentro. Però è evidente che qualcosa impara […]” (Piasere 2002: 183), nel senso profondo di un’impressione iniziale di disorientamento e di una conoscenza successiva che rende più competenti (ibid.), dove qualunque teoria elaborata da qualunque esperto di didattica e pedagogia non può mai precedere la concretezza dell’apprendere (vd. Perticari 2005).

Ma cosa comporta assumere un cambiamento di sguardi? Cosa significa saper osservare/ascoltare in un’ottica in cui l’auto-osservazione dell’insegnante appare imprescindibile dagli aspetti relazionali instaurati con i propri apprendenti?

Un primo passo essenziale è sicuramente la capacità di decentramento di sé. La riflessione sul rapporto insegnante/apprendente, che necessita un ribaltamento nella pratica scolastica quotidiana, il riconoscere da parte dell’insegnante la possi-bilità di un rovesciamento del proprio punto di vista, sono ben presenti nella ricerca

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Capitolo XIII - Osservare le relazioni

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di due discipline specialistiche, l’antropologia dell’educazione e la pedagogia inter-culturale56. Tale de-centramento non significa però identificare differenze sostan-ziali o tratti culturali supposti come caratteristici dei nostri apprendenti, secondo un’ottica, non è superfluo ribadire, distante dalle retoriche culturaliste. Il decentra-mento implica invece una modifica della distanza interpersonale, e una disponibili-tà a riconoscere come esperienza emotiva la sperimentazione e la consapevolezza del punto di vista di ciascuno. La riduzione dello spazio sociale, l’avvicinamento fra due persone con esperienze eterogenee, richiede una competenza empatica, con-divisa perché fondata su un sistema di corporeità simile che fa esperire e conoscere il mondo ed in cui le dinamiche relazionali appaiono come una “disomogenea con-tinuità sfumata” (Piasere 2002: 129-130).

[…] l’empatia è un comportamento “affettivo” che ha come prerequisito la capacità di riconoscere cognitivamente lo stato emotivo di un’altra persona. Non è “pura sensibilità”, ma “razionalità immaginativa” […]. Mettersi nei panni dell’al-tro […] non significa perdere la consapevolezza del proprio punto di vista, che si conserva attivo e saliente. Nell’empatia per “condivisione partecipatoria” (propria dell’età adulta, ma anche dell’etnografo) l’osservatore non si perde nell’altro, si mantiene un qualche distanziamento, non si fonde “conta-giosamente”, ma piuttosto si avvicina all’altro. […] Talora l’at-to empatico è circoscritto nella sua durata temporale, può consistere in un micro-episodio, magari insignificante per “l’osservatore”, ma denso di significato per colui che viene ac-cettato nel gioco empatico. (Cappelletto 2009: 218)

Afferma Paulo Freire che l’nsegnamento è “una forma di intervento sul mondo” (Freire 2004: 78) e questa affermazione si applica ogni volta che emerge la necessità di distanziare e separare, omologare l’apprendente ad un modello culturale, che sia quello della madrelingua o quello della lingua di studio, perché significa riprodurre questioni di potere e comporta discriminazione (vd. Piasere 2002), a dispetto di una apparente aurea progressista e moderna di modelli via via proposti.

Come espresso precedentemente, il dibattito antropologico sottolinea l’impor-tanza di considerare l’interazione fra i differenti individui, la loro capacità di in-fluenzare il cambiamento di un dato senso comune, attraverso esperienze costruite e condivise, in cui la tracciabilità dei confini, sfumati e mai netti, si rivela una pratica

56 Per approfondimenti, vd. Callari Galli (2000), Gobbo (2004), Piasere (2010).

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impossibile (vd. Hannerz 2001, Piasere 2002). L’osservazione, dunque, implica che l’insegnante non si aspetti di vedere quello

che conosce già57. Comporta, invece, un suo cadere dall’alto, un posizionamento di-verso e spiazzante, che lo costringe a interrogarsi sulle perturbazioni che comporta la sua stessa osservazione sui fenomeni osservati, sulle modifiche provocate dalla sua presenza di insegnante in classe: un “esperimento di un’esperienza” in cui l’espe-rienza di osservazione deve essere pensata in termini soggettivi e di imperfezione, piuttosto che di raccolta di dati coerenti e immutabili (vd. Piasere 2002). L’osserva-zione è, dunque, strettamente legata ad ogni singolo contesto, aperto a modifiche dovute al tempo e allo spazio articolato dell’interazione (vd. Callari Galli 2000).

Essere consapevoli del carattere soggettivo delle osservazioni, la fonte di infor-mazione “imperfetta” per l’insegnante, significa prendere atto del potere trasforma-tivo dell’osservazione (ibid.), dove l’incontro traccia uno spazio fecondo di possibile trasformazione politica e sociale anche futura (vd. De Lauri 2008: 20).

Ammettere che i giudizi sugli apprendenti possano derivare da una distorsione dovuta alle proprie osservazioni, poter modificare le proprie certezze attraverso l’ascolto e l’osservazione di concreti e quotidiani rapporti di relazione e interazione tra gli apprendenti e l’insegnante, essere consapevoli che non esistono tratti cultu-rali intrinseci da cui desumere i comportamenti degli individui, creare possibilità di con-ricerca e di co-esperienze, significa di fatto pensare ad un progetto di coinvol-gimento di tutte le persone, nel nostro caso degli “abitanti” di una classe, secondo un progetto di convivenza (Remotti 2010) e significa anche osservare un “imperativo etico e non un favore che possiamo o meno concederci reciprocamente” (Freire 2004: 48).

57 È qui espresso il concetto di “serendipità”, la quale “comporta che il ricercatore segua la corrente e, al tempo stesso, si accorga degli eventi critici […]. Impossibile da programmare, la serendipità può essere tuttavia faci-litata cercando di mantenere una condizione mentale disponibile alle eventualità […]” (Gobbo 2003: 11). Come afferma l’etnografo Peter Woods, “seguire la corrente pone l’accento sul processo e implica intuizione, sponta-neità, entusiasmo e divertimento. La serendipità nella ricerca è qualcosa di simile, poiché spesso i risultati più esaltanti capitano nei momenti più inaspettati” (Woods in Gobbo 2003: 35).

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Capitolo XIII - Osservare le relazioni

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CAPITOLO XIVPossibili letture

Qui di seguito, si presenta una possibile rassegna di materiali teorici sulla pedagogia linguistica dell’italiano L2.

BOSC F., MARELLO C., MOSCA S. 2006 (a cura di) Saperi per insegnare. Formare insegnanti di italiano a stranieri.

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Capitolo XIV - Possibili letture

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dattica acquisizionale, Perugia, Guerra Edizioni.

Tuttavia, la glottodidattica nasce programmaticamente connessa a discipline scienti-fiche con tradizioni di ricerca consolidate, di cui ogni manuale compie una selezione parziale e soggettiva.Il nostro consiglio, quindi, è il rimando diretto a tali ambiti di indagine scientifica, di cui proponiamo una bibliografia accurata, ma volutamente non conclusa.

Linguistica teorica ed applicata

AGLIOTI S. M., FABBRO F. 2006 Neuropsicologia del linguaggio, Bologna, Il Mulino.

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2006b Varietà di apprendimento tra ricerca e didattica, in Bosc F., Marello C., Mo-sca S. (a cura di), Saperi per insegnare. Formare insegnanti di italiano a stra-nieri. Un’esperienza di collaborazione fra università e scuola, Torino, Loe-scher: 86-111.

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MADDII, L. 2000 Dire, Fare, Comunicare. Quaderni operativi tematici, Brescia, Vannini Editrice.

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Sulla percezione del bambino straniero a scuola

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http://www.paesaggieducativi.it/ (Rivista pedagogica e didattica di insegnanti per insegnanti)

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APPENDICE Piccolo scritto sulle “parole parassite” di Franca Ruolo

“Le parole parassite” è un’espressione con cui, nella prefazione a Lessico del raz-zismo democratico di Giuseppe Faso, lo scrittore Paolo Nori definisce quelle parole che si annidano nei nostri pensieri (Nori in Faso 2008). Ma che non si fermano lì, perché le parole “sono tutt’altro che innocenti” (Faso 2009: 29). Parole e frasi paras-site che agiscono.

A scuola (e non solo) sopravvivono queste parole, a proposito di chi arriva ed è subito extracomunitario. E siccome non sa niente, la scuola provvederà ad un corso di alfabetizzazione, per affrontare l’emergenza.

Quell’alfabetizzazione che, a ben guardare, si rivela un utilizzo appartenente ad una terminologia privativa. Alfabetizzare, dice il dizionario Devoto-Oli, è “liberare dall’analfabetismo insegnando a leggere e scrivere”. E quindi, tanti manuali e corsi per alunni di livello 0 che aiutano a contrastare il problema grave e urgente, come se la scuola fosse diventata una sorta di pronto soccorso per curare dal virus che avrebbe colpito la lingua italiana (paradossalmente, poi, quella normativa e nozioni-stica dei libri, che non è viva, né mai lo è stata).

Immaginare che adulti e bambini stranieri che imparano l’i-taliano vadano “alfabetizzati” può indurre a una grave con-fusione sugli scopi, i metodi, le maniere del lavoro stesso da svolgere […] viene rimosso il fatto che l’apprendimento di una lingua non consiste nell’acquisizione di convenzioni grafiche, ma soprattutto in un buon processo di integrazione sociale e, per i bambini, nell’inserimento in un gruppo di pari (pre-valentemente) italofoni. Può darsi che una parte di bambini non italofoni vada alfabetizzata, ma ciò avverrà nelle prime elementari, con gli stessi tempi e metodi degli altri bambini, senza immaginare di dover approntare spazi speciali per tale scopo. Ovunque avvenga – nelle pratiche di chi “alfabetizza” o nell’immaginario di chi viene a contatto con tale termino-logia – tale distorsione non può che produrre inconvenienti. (Faso 2008: 19)

Emerge negli insegnanti l’aspetto della carenza nell’alunno straniero collocando quest’ultimo in un prima trascurabile, la vita del bambino nel paese d’origine. Di

Appendice

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quella bambina o di quel bambino al limite si rilevano conoscenze e competenze nella propria madrelingua, una prassi certamente importante e indispensabile, ma spesso un’arma a doppio taglio perché riduce l’osservazione solo alle competenze linguistiche nella lingua d’origine, contrapposte o affiancate alle mancanze dell’a-lunno nella lingua italiana, quando si afferma a scuola che non capisce, non sa parla-re, non sa leggere, non sa scrivere in italiano.

Il problema non riguarda solo la lingua, perché è anche attraverso i gesti che si rischia di dare un’interpretazione alle reazioni di chi ci ascolta e ci osserva, quando pensiamo di aver individuato il tratto culturale evidente: “loro sono così, è la loro cultura…”. Allora, poi, si fa intercultura, perché è necessario che loro si integrino e accogliamo progetti dai titoli che ci sembrano veramente interculturali e che, spes-so, evidenziano la mappa concettuale del folklore che equivale, con tutte le buone intenzioni, ad un vera e propria mancanca di riconoscimento della soggettività degli individui. Scrive ancora Giuseppe Faso:

Ogni volta che ci si sieda a discutere di immigrazione, la mag-gior parte di chi sta dall’altra parte del tavolo, quella servita dal microfono, parla di integrazione. Non se ne rendono con-to, i più, ma intendono “assimilazione”. Come si dice “cultura” o “etnia” e si intende “razza”, si dice “integrazione” e si inten-de “assimilazione”. Che stiano qui, alle “nostre” regole, che si adattino; nulla di più rassicurante, per una fetta (sembra, indecisa) di elettori. (Faso 2008: 76)

La classe con bambine e bambini che parlano lingue diverse è invece uno dei luoghi da cui iniziare a cancellare “parole parassite”, perché, come ci ricorda il pe-dagogista brasiliano Paulo Freire, la disuguaglianza sociale è resa invisibile dall’uso di un certo linguaggio che distorce e condiziona la realtà, mentre essere insegnante comporta il dovere etico di “intervenire e sfidare gli studenti a impegnarsi nel loro mondo, per poter agire su di esso” (Freire 2008: 52).

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GLOSSARIETTO

Accordo. L’accordo è la condivisione di informazioni grammaticali tra più ele-menti all’interno della frase. Un esempio tipico è l’accordo tra soggetto e verbo:

Esempi. Ludovico (3° persona singolare) legge (3° persona singolare). I bambini (3° persona plurale ) leggono (3° persona plurale).

Un altro esempio di accordo è quello tra il nome e gli elementi che tipicamente si accompagnano ad esso.

Esempi. Il (maschile singolare) mio (maschile singolare) gatto (maschile singolare). I (maschile plurale) miei (maschile plurale) gatti (maschile plurale).

Agente. L’agente è colui che compie un’azione.Esempi. 1) Edoardo parla. 2) I leoni mangiano le gazzelle. 3) Le gazzelle sono mangiate dai leoni.

Nelle frasi (2) e (3) cambia la struttura sintattica, ma i ruoli semantici restano invariati: la scena è sempre la stessa. Nella frase (3), le gazzelle sono il soggetto e ac-cordano con il verbo, però non compiono l’azione ma la subiscono: sono il paziente o l’oggetto della frase.

Aggettivi. Gli aggettivi si accompagnano tipicamente ai nomi (sono modificatori dei nomi): tra nomi ed aggettivi c’è accordo in genere (maschile/femminile) e nu-mero (singolare/plurale).

Esempi. Qualche mese fa ho incontrato la moglie giapponese di Many. Ieri ho visto un film noioso.

Se l’aggettivo precede il nome, esso ha generalmente funzione descrittiva; se segue il nome, esso ha generalmente funzione restrittiva.

Esempi. Ho giocato con la piccola figlia di Edoardo. (La figlia di Edoardo è piccola) Ho giocato con la figlia piccola di Edoardo. (Ho giocato con la figlia piccola, non con la figlia più grande

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Glossarietto

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Alfabeto. L’alfabeto è uno dei tanti sistemi di rappresentazione grafica delle lin-gue. Con l’alfabeto, questa rappresentazione avviene tramite segni convenzionali (grafemi) che tentano di riprodurre i suoni (foni) della lingua.

Il risultato è soltanto parziale. Ci sono lingue come l’italiano in cui esiste una buona corrispondenza tra la lettera dell’alfabeto (grafema) e il suono (fono): a volte, però, una lettera può rappresentare più suoni (il grafema < c > corrisponde, general-mente, ai suoni [ k ] e [ tò ]) o, viceversa, sono necessarie più lettere per trascrivere un suono (il grafema < sci > corrisponde, se seguito da altre vocali, al suono [ ò ]); ci sono lingue come l’inglese in cui questa corrispondenza è meno forte: una lettera rappresenta tipicamente più suoni (mum [ mʌm ] / put [ pʌt ]).

Non solo, l’alfabeto non rappresenta, se non parzialmente, informazioni come l’intonazione, l’intensità di pronuncia, l’accento, ecc.

Per rendere veramente rappresentabili le lingue attraverso dei segni convenzio-nali, si sono creati dei sistemi fonetici di trascrizione: il più noto è l’Alfabeto Fo-netico Internazionale (comunemente conosciuto come IPA, International Phonetic Alphabet).

Articoli. Gli articoli sono elementi funzionali che si accompagnano ai nomi e li precedono. Gli articoli determinativi (il, l’, lo, i, gli, la, le) accompagnano un nome a referenza nota, cioè nomi il cui referente (a che cosa o a chi si riferiscono) è dato dal parlante come conosciuto. Gli articoli indeterminativi (un, uno, una, un’, dei, degli, delle) si accompagnano a nomi che hanno referenza indeterminata, cioè si riferisco-no a cose, persone, ecc., date come non note.

Esempi. Il leone è un animale maestoso. (Qui ci riferiamo al leone come specie animale, quindi nota) Ho visto un video su Youtube su un leone. Il leone si chiamava Christian. (La prima volta che ci riferiamo al leone e lo introduciamo nel testo

usiamo un perché parliamo di qualcosa non noto, non conosciuto; la seconda occorrenza si accompagna all’articolo il perché ormai l’ascoltatore sa a che cosa ci si riferisca).

Aspetto verbale. L’aspetto è una categoria grammaticale che esprime i diversi modi di presentare la situazione descritta dal verbo.

Ecco le maggiori dicotomie aspettuali:Perfettivo/imperfettivo. La perfettività di una azione o di un evento coincide

con la sua compiutezza; l’imperfettività, invece, coincide con una presentazione dell’evento dall’interno senza riferimenti alla compiutezza. Il passato prossimo in-

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dicativo, in italiano, si caratterizza generalmente per aspettualità perfettiva (Ieri sono andato a Lucca); l’imperfetto, generalmente, per aspettualità imperfettiva (Ieri andavo a scuola e per strada ho incontrato Elisa).

Abituale/continuo. Un evento di aspetto abituale si caratterizza come regolar-mente ricorrente in un periodo piuttosto lungo di tempo ma senza precisazione del numero delle ricorrenze (Da bambino, andavo sempre al mare in Versilia); un evento di aspetto continuo è presentato come non interrotto nel suo svolgimento (Mentre facevo la doccia, Elisa scriveva al computer; Mia madre era bella).

Progressivo/non progressivo. Un evento si caratterizza per aspettualità progres-siva se osservato nel corso del suo svolgimento. In italiano, per esprimere un evento progressivo al presente possiamo usare indistintamente la forma del presente indi-cativo (Che fai?) o una perifrasi con il gerundio (Che stai facendo?); per esprimere un evento progressivo al passato possiamo usare indistintamente la forma dell’im-perfetto indicativo (Che facevi?) o una perifrasi con il gerundio (Che stavi facendo?).

L’aspetto verbale è una delle categorie funzionali del verbo così come il tem-po (presente, passato, futuro, ecc.) E l’Azione o Aktionsart (proprietà intrinseca del significato dei singoli verbi e delle costruzioni in cui i verbi compaiono: azione du-rativa, azione non-durativa, ecc.). A differenza di quest’ultima, l’aspetto non è una categoria lessicale legata al significato del verbo ma una categoria grammaticale legata alle singole forme verbali.

Ausiliari. Gli ausiliari (dal latino auxilium ‘aiuto, soccorso’) sono quei verbi che ri-corrono con altri verbi ed hanno funzione grammaticale (morfosintattica) perdendo la propria autonomia semantica (di significato): servono, infatti, a formare i tempi composti e le costruzioni passive.

Gli ausiliari essere e avere, seguiti da un participio passato, si utilizzano per for-mare i tempi composti (sono andato, ho mangiato, ero andato, avevo mangiato, ecc.); l’ausiliare essere si utilizza per formare le frasi passive (La gazzella è mangiata del leone). Nelle frasi passive possiamo utilizzare, come ausiliare, il verbo venire che, rivestendo questa sua nuova funzione, perde la propria autonomia (semantica) e si mette al servizio (grammaticale) del verbo che lo segue.

Avverbi. Il termine avverbio deriva dal latino adverbium e significa ‘accanto a una parola’. L’avverbio, infatti, è la parte invariabile del discorso che si aggiunge a una parola o a un gruppo di parole per spiegarne o modificarne il significato.

L’avverbio di solito sta vicino ad un verbo (mangio velocemente), ma lo troviamo anche vicino a nomi (Una ventina circa di studenti erano di nazionalità brasiliana),

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Glossarietto

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o ad aggettivi (Aurora è una bambina molto vivace), o ad avverbi (Mangio molto velocemente), o può riferirsi a un’intera frase (Sicuramente, Aurora preferirà andare ad atletica che al cinema).

La grammatica tradizionale ha spesso considerato la categoria dell’avverbio come categoria “ripostiglio”: se una parola non rientrava chiaramente all’interno di una categoria, diventava per i grammatici un avverbio.

Coniugazione. Il termine coniugazione indica la flessione del verbo: in italiano, il verbo subisce una variazione morfologica in rapporto a diverse categorie grammati-cali: il tempo (passato, presente, futuro), l’aspetto (perfettivo, imperfettivo, ecc.), il modo (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo, ecc.), la persona (1°, 2°, 3°), il numero (singolare, plurale) e la diatesi (attiva, passiva).

In italiano, tutte queste informazioni grammaticali sono generalmente contenu-te alla fine del verbo (nella desinenza); la parte iniziale (la radice) porta con sé infor-mazioni di tipo lessicale: per esempio, la forma (io) cammino può essere così scom-posta cammin-o, nella quale cammin- porta l’informazione lessicale (quale verbo?); -o, invece, ci dà informazioni grammaticali, tutte racchiuse in un unico suono [o] (presente, indicativo, 1° persona, singolare).

In italiano, esistono 3 paradigmi di coniugazione in rapporto alla vocale tematica del verbo: parlare (-a-), vedere (-e-), sentire (-i-). Si parla quindi di 1° coniugazione (-are), 2° coniugazione (-ere), 3° coniugazione (-ire): per chiarire, tutti i verbi che fan-no parte di una coniugazione presentano affinità formali che derivano dalla vocale tematica (parl-ano, cant-ano, mangi-ano / ved-ono, mett-ono, legg-ono, ecc.)

Consecutio temporum. Il termine consecutio temporum (‘sequenza ordinata dei tempi’) riguarda i tempi verbali all’interno della frase complessa e del periodo ed esprime le regolarità nell’uso dei tempi nelle proposizioni subordinate: la relazione tra il tempo della proposizione dipendente (o subordinata) e quello della proposi-zione reggente, che fa da punto di riferimento.

Coordinate (proposizioni). Le proposizioni coordinate sono proposizioni all’in-terno della frase complessa legate tra loro, ma che non hanno rapporto di dipen-denza.

Esempi. Sono andato al mare e mi sono rilassato. Vieni con me o vai con Francesco?

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Dato. In ogni momento del discorso è dato ciò è attivo nella mente del ricevente.Esempio. Dove è la mamma? L’ho vista al mercato.

L’informazione data (la mamma) può ricevere scarso rilievo informativo attraver-so mezzi linguistici modesti (come, in questo caso, il pronome clitico la).

Ciò che è psicologicamente dato tende ad essere realizzato linguisticamente alla sinistra della frase, tramite proforma e senza prominenza intonativa (o tramite for-me non realizzate foneticamente).

(Vd. Nuovo)

Dislocazione a destra. La struttura della frase cosiddetta dislocazione a destra presenta costituenti dislocati alla fine della frase che si riferiscono a qualcosa rite-nuto dal parlante dato come tema del discorso. La funzione pragmatica di questo ordine marcato è la tematizzazione di alcuni elementi della frase.

Esempio. Franca gli ha dato una caramella, a Guido.(Vd. Dato, Tema)

Dislocazione a sinistra. La struttura della frase cosiddetta dislocazione a sinistra presenta un elemento dato tematizzato (tema = ciò di cui si parla) alla sinistra della frase. Il costituente dislocato presenta una connessione sintattica con il resto della frase: la preposizione e/o il pronome clitico di ripresa.

Esempio. A Guido, Franca gli ha dato una caramella.

I costituenti dislocati possono essere pronunciati con una pausa intonativa dal resto della frase. La virgola serve ad indicare tale pausa.(Vd. Dato, Tema)

Frase. Frase è il termine generico per indicare l’unità strutturale di massima estensione composta di unità più piccole e costruita secondo regole sintattiche. Ci sono molte definizioni di frase: la definizione tradizionale, di tipo semantico, dice che la frase è “ogni sequenza di parole dotata di senso compiuto”; un’altra definizio-ne di frase definisce la frase come unità costituita da soggetto e predicato (elemen-to centrale), seguiti da eventuali complementi, o unità costituita da verbo e attanti (argomenti e circostanziali); un’altra definizione vede la frase come unità formata da un sintagma nominale e da un sintagma verbale (F = SN + SV); un’ultima definizione individua la frase come “una forma linguistica indipendente, non compresa median-te alcuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”.

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La frase può essere semplice e in tal caso prende il nome di proposizione (Lu-dovico legge un bel libro di linguistica), o composta da più frasi semplici e in tal caso prende il nome di frase complessa o periodo (Ludovico legge un bel libro di linguistica perché desidera migliorare la propria conoscenza dei meccanismi di fun-zionamento delle lingue).

Frase scissa. La frase scissa si costruisce tipicamente attraverso strutture del tipo è x che (oppure con una preposizione è a x che…, ecc.) Ed ha la funzione pragmatica di mettere in rilievo o enfatizzare un elemento della frase anche in termini di con-trasto più o meno esplicito.

Esempio. È a Guido che Franca ha dato una caramella.

Genere. Il genere è una categoria grammaticale presente nel sistema nominale (nomi, aggettivi, articoli) e talvolta anche nel sistema verbale. Il genere non apporta solitamente, salvo rare eccezioni (uomo/donna), informazioni semantiche (o di si-gnificato): è semplicemente una categoria grammaticale, non semantica (gli oggetti, per fare un esempio, non hanno sesso ma le parole che li designano possiedono genere). Questa categoria si riflette nell’accordo, cioè in quelle regole di combina-zione delle parole che prevedono la condivisione di informazioni grammaticali (La mia mamma è andata al mercato preoccupata della salute di mio padre). In italiano, troviamo genere maschile (libro, cane, ecc.) E femminile (penna, chiave, ecc.).

Grammatica. Con il termine grammatica, intendiamo più cose: la grammatica intesa come conoscenza (implicita, inconsapevole, innata, creativa) che tutti i par-lanti hanno della lingua e la descrizione di tale conoscenza. All’interno di questo secondo gruppo, abbiamo una ulteriore divisione:

1) Le grammatiche teoriche, rivolte a destinatari specialisti, hanno l’obiettivo di parlare dei fatti linguistici in modo da raggiungere adeguatezza descrittiva ed esplicativa: fornire, cioè, al contempo una descrizione e una spiegazione dei fatti linguistici in modo da tentare di penetrare il fenomeno lingua. Un esempio noto di grammatica teorica è la Grammatica Generativa di Noam Chomsky;

2) Le grammatiche linguistiche, rivolte generalmente ai parlanti nativi delle lin-gue medesime, hanno come obiettivo la descrizione delle conoscenze implicite dei parlanti. Spesso, tuttavia, molte grammatiche di questo tipo hanno natura pre-scrittiva, cioè impongono delle norme (delle regole) da rispettare e affrontano il fenomeno lingua più come fatto convenzionale che biologico. Le grammatiche di questo ultimo tipo si rifanno ad una norma consolidatasi nel tempo attraverso gli

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usi letterari: impongono una varietà di tipo standard e non si interessano degli usi, ovvero degli aspetti dell’esecuzione. Esistono anche delle grammatiche linguistiche meno dogmatiche che si concentrano non sulla norma ma sull’uso della lingua, evi-denziandone, tra l’altro, la natura diatopica (legata allo spostamento nello spazio geografico), diafasica (legata ai diversi contesti d’uso e alle diverse situazioni co-municative), diastrica (legata alle diverse componenti sociali) ed infine diamesica (legata al mezzo di trasmissione, scritto od orale). Esempi di buone grammatiche linguistiche sono la Grande grammatica italiana di consultazione di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Laura Vanelli, la Nuova grammatica italiana di Giampaolo Salvi e Laura Vanelli, ed infine La grammatica italiana di Cecilia Andorno.

3) Le grammatiche pedagogiche, rivolte agli apprendenti di L2, hanno l’obiettivo di presentare una selezione dei fatti linguistici in modo da facilitarne l’acquisizione negli apprendenti. Hanno carattere marcatamente non esaustivo.

Italiano. Quale italiano parliamo? Quale italiano scriviamo? Quale italiano insegniamo?

Queste domande, apparentemente scontate, in realtà non lo sono dal momento che, al momento, senza contare i dialetti, nel nostro Paese convivono e vengono usate diverse lingue italiane che la letteratura scientifica solitamente così identifica:

• Italiano standard (o normativo);• Italiano neostandard;• Italiano regionale;• Italiano popolare.

L’italiano letterario prende le origini dal fiorentino del Trecento ed è stata per molti secoli la lingua dell’arte, delle classi colte, usata nei testi scritti ufficiali ed è ri-masta pressoché immutata fino al romanzo di Alessandro Manzoni I promessi sposi.

Per gli usi quotidiani, la popolazione usava il dialetto e ha continuato a farlo praticamente fino alla metà del Novecento. È grazie alle migrazioni interne, all’au-mento della scolarizzazione, all’avvento della radio e quindi della televisione, dell’i-struzione obbligatoria e del servizio militare di leva che si è cominciato ad usare una lingua italiana comune.

Italiano standardPerché una lingua sia considerata standard è necessario che soddisfi tutti o la

maggioranza dei seguenti requisiti:• Che sia di riferimento per tutta la società;

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• Che sia la più usata;• Che sia la meno marcata da un punto di vista sociolinguistico;• Che sia sovraregionale;• Che sia descritta e codificata da grammatiche e dizionari;• Che sia usata da parlanti appartenenti alle classi sociali dominanti;• Che sia utilizzabile come lingua scritta per tutti gli usi;• Che sia utilizzabile come lingua orale per parlare di qualsiasi argomento. Ad oggi non tutti i linguisti sono concordi nell’identificare quale sia l’italiano

standard. Per quanto riguarda la pronuncia alcuni lo identificano con il fiorentino contemporaneo depurato della gorgia, cioè l’aspirazione di alcuni suoni consonan-tici (tipicamente, in alcuni contesti, [k] diventa [h], [t] diventa [ʌ], ecc.). Per quanto riguarda l’aspetto grammaticale, l’italiano standard sarebbe rappresentato dall’ita-liano dell’ottocento e del Novecento dopo Manzoni. Questa tipologia di italiano è stata prevalentemente utilizzata per i testi scritti aventi un carattere formale.

Ad oggi la vitalità dell’italiano standard è messa in forte discussione non solo perché non rintracciabile nell’oralità ma anche nei testi scritti: molte norme e forme codificate come standard vengono, infatti, sempre più sostituite dalle corrispon-denti ed equivalenti norme e forme orali, spesso esistite ed usate per secoli pro-duttivamente a fianco delle prime e considerate, tuttavia, meno affettate di queste.

Italiano neostandardL’italiano “neostandard” (Berruto 1987), indicato anche con i termini “comune”,

“dell’uso medio” (Sabatini 1985), “tendenziale” (Mioni 1983), è identificabile con la lingua di questi ultimi cinquant’anni. È una varietà scritta e parlata, che coincide in gran parte con l’italiano standard, ma accetta molti aspetti che in precedenza erano percepiti come non accettabili: fenomeni linguistici caratteristici del parlato che sono, ad oggi, accettati anche nello scritto.

In particolare, a livello morfosintattico, il neostandard accoglie forme apparte-nenti alle diverse varietà (diatopiche, diastratiche, diafasiche, diamesiche); vi è la contaminazione con il lessico proveniente da linguaggi diversi (sportivo, tecnico, scientifico, ecc.) E anche da lingue straniere (oggi molte parole inglesi sono abitual-mente usate nell’oralità e nello scritto).

Oggi il neostandard è parlato e scritto dalla maggioranza della comunità italiana come varietà di media formalità.

Italiano regionaleL’italiano regionale è descritto dai linguisti come una varietà di italiano, molto

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influenzata dal dialetto, che si distingue dall’italiano standard e dagli altri italiani re-gionali per elementi tipicamente locali. L’italiano regionale è la conseguenza dell’as-sorbimento dei dialetti nell’italiano neostandard secondo il seguente percorso:

Dialetto dialetto regionale italiano regionale italiano neostandard.

Sentendo parlare una persona, ad esempio, anche in contesti molto formali, ci si può rendere conto della regione di provenienza dalla pronuncia e dall’intonazione. Si possono incontrare regionalismi per l’aspetto lessicale. Non accade altrettanto, invece, specialmente in contesti formali, per la costruzione grammaticale delle frasi.

Le quattro varietà regionali principali sono: settentrionale, toscana, romana, me-ridionale; a queste si aggiungono le varietà sarde e quelle meridionali estreme.

Italiano popolareL’italiano popolare è stato anche definito l’ “italiano dei semicolti” perché sareb-

be usato dalle fasce meno istruite della popolazione accanto al dialetto e presenta quindi forti caratteri regionali. Si è parlato – e si continua a parlare – di “semplifica-zione” rispetto all’italiano standard o normativo, relativamente all’italiano popola-re: da questo ne deriva una forte censura sociale applicata a chi è parlante nativo di queste varietà linguistiche.

Il nostro punto di vista sull’italiano popolare ribalta questa prospettiva: • Non vediamo la lingua standard come modello, né la usiamo come continuo

riferimento per sanzionare le altre varietà linguistiche; • Osserviamo le caratteristiche linguistiche di queste lingue come possibilità for-

mali offerte dalla nostra dotazione genetica: una forma non è mai, dal punto di vista linguistico, migliore rispetto a un’altra; semmai esistono convenzioni che danno maggiore prestigio ad una forma a danno di un’altra.

• Riteniamo che occorra essere capaci di alternare le diverse varietà linguistiche nelle varie situazioni concrete di utilizzo della lingua.

Quello che viene frequentemente definito come tratto “semplificato” dell’italia-no popolare (e delle varietà d’apprendimento di italiano L2) compare in altri sistemi linguistici adulti, spesso persino standard: da questo l’inadeguatezza dell’uso del termine “semplificazione” e la nostra propensione verso analisi che tentino una de-scrizione e, se possibile una spiegazione, delle scelte formali “altre”.

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L2. Parliamo di L2 quando l’apprendimento della lingua non materna avviene in un contesto situazionale nel quale essa venga utilizzata come lingua di comunica-zione quotidiana (per esempio l’italiano appreso in Italia attraverso i normali scambi comunicativi quotidiani).

LS. Parliamo di LS (lingua straniera) quando l’apprendimento della lingua non materna avviene in un contesto situazionale nel quale essa non sia presente se non nella scuola (per esempio l’italiano appreso all’estero in una scuola di lingua).

Marcato. Si dice che un elemento della lingua all’interno di una coppia di elementi correlati è più marcato se segnala esplicitamente la proprietà, l’informazione, il tratto, la marca appunto, che lo distingue dall’altro elemento cosiddetto meno marcato.

Esempi. Studente/studentessa Student/students

Nel primo esempio, studentessa è più marcato di studente perché aggiunge il morfema -essa di genere femminile; nel secondo esempio, dall’inglese, students è più marcato di student perché aggiunge il morfema -s di numero plurale.

C’è poi un altro significato più esteso del termine marcato che associa agli ele-menti meno marcati una maggiore semplicità e una maggiore basicità: secondo que-sti modelli linguistici, certe forme, certi elementi sarebbero più semplici, più basici, più neutri, più versatili nell’uso, più naturali, più frequenti nelle lingue e anche più facilmente acquisibili di altri.

Per quanto concerne l’apprendimento dell’italiano come L2, si sostiene l’esisten-za di scale di marcatezza che permettano di spiegare l’ordine di acquisizione delle strutture della lingua: le forme meno marcate sarebbero apprese prima e con mino-re difficoltà rispetto alle forme marcate. Secondo queste scale, il maschile sarebbe meno marcato del femminile, il singolare del plurale, l’ordine della frase italiana soggetto-verbo-oggetto (SVO) meno marcato di altri ordini, ecc.

Modali (verbi). I verbi modali (detti anche verbi servili per la loro funzione ancil-lare, servile nei confronti del verbo principale) sono quei verbi che si accompagna-no ad altri verbi (all’infinito) modificando la modalità di realizzazione dell’evento espresso dal verbo principale.

In italiano, i verbi generalmente considerati modali o servili sono, per esempio, potere, volere e dovere: essi sono specializzati ad esprimere come il parlante si pone verso ciò che dice.

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Nomi. I nomi si accompagnano tipicamente all’articolo e agli aggettivi e possie-dono genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale).

Esempio. Il cane, il mio babbo, la mia mamma, i miei vecchi amici, la verde Umbria, i cari vecchi tempi.

Spesso, ma non sempre, i nomi si riferiscono a entità fisiche come gli oggetti, le persone, gli animali, ecc.

Numero. Il numero è una categoria grammaticale che esprime, generalmente, la quantità degli elementi presenti nell’enunciazione. In italiano, sono presenti il sin-golare (libro, cane, penna, chiave) e il plurale (libri, cani, penne, chiavi).

Nuovo. In ogni momento del discorso è nuovo ciò che psicologicamente non è attivo nella mente del ricevente.

Esempio. Ieri ho visto un cane zoppo.

L’articolo indeterminativo possiede, solitamente, la funzione di introdurre nel discorso elementi nuovi.

L’elemento nuovo tende ad essere codificato linguisticamente alla destra della frase, tramite sintagmi pieni e sotto prominenza intonativa.

(Vd. Dato)

Ordine delle parole. Generalmente la struttura dell’enunciato tipico (non mar-cato) italiano presenta l’articolazione dato/nuovo, cioè elemento noto, dato, pre-supposto, in prima posizione, ed elemento nuovo, alla fine. Per chiarire, il parlante, nell’enunciazione, cerca di adattare l’informazione a quello che pensa sia presente nella mente dell’ascoltatore: pronuncerà prima quello che pensa sia già conosciuto dall’ascoltatore e posticiperà le informazioni non note.

Per quanto riguarda la posizione del soggetto sintattico, esso nell’enunciato non marcato, cioè che si adatta ad un numero maggiore di contesti di discorso, si trova in posizione pre-verbale con i verbi transitivi (Edoardo ha letto un libro [nuovo]) e in posizione post-verbale con i verbi inaccusativi (quelli con ausiliare essere) (È caduta la torre [nuovo]) e con alcuni verbi intransitivi (Ha telefonato Francesco [nuovo]).

Esempi. VERBI TRANSITIVI: leggere Che cosa ha letto Edoardo? Edoardo ha letto [dato] un libro [nuovo]. Che cosa ha fatto Edoardo? Edoardo [dato] ha letto un libro [nuovo]. Che cosa è successo? Edoardo ha letto un libro [nuovo].

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VERBI INACCUSATIVI (ausiliare essere): cadere Che cosa è successo alla torre? La torre [dato] è caduta [nuovo]. Che cosa è successo? È caduta la torre [nuovo].(Vd. Dato, Nuovo)

Preposizioni. Le preposizioni sono degli elementi funzionali che, posti davanti a dei sintagmi (da qui, il prefisso pre-), ne definiscono le relazioni all’interno nella fra-se. Ci sono preposizioni tradizionalmente note come proprie (di, a, da, in, con, per, tra, fra), che svolgono solo la funzione di preposizioni, ed altre preposizioni tradi-zionalmente note cone improprie perché svolgerebbero diverse funzioni all’interno della frase (es. Le chiavi sono sul tavolo; Elisa ha chiesto a Ludovico di salire su).

Proposizione. La proposizione è una unità sintattica elementare (frase sempli-ce): soggetto (quando presente) e predicato, seguiti da eventuali complementi; ver-bo e suoi argomenti, seguiti da eventuali circostanziali. Esistono proposizioni coor-dinate (Sono andato al mare e ho visto Andrea), legate tra loro ma indipendenti, e proposizioni subordinate (Penso di andare al mare), legate tra loro da un rapporto di dipendenza (la proposizione subordinata dipende dalla proposizione reggente).

Punteggiatura. Quando scriviamo, la punteggiatura scandisce pause e precisa specifiche intenzioni pragmatiche (quello che “facciamo” con la lingua). Una buona punteggiatura facilita la lettura/comprensione di un testo, chiarendone la struttura sintattica e le diverse sfumature interpretative.

I segni di interpunzione in italiano sono:. Punto o punto fermo, virgola; punto e virgola: due punti? Punto interrogativo o di domanda! Punto esclamativo… puntini di sospensione( ) parentesi- trattino“ ” virgolette alte« » virgolette basse‘’ apici

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– lineetta* asterisco

L’uso della punteggiatura, anche se regolato da norme e regole generali, dà spa-zio alla individualità e alla creatività di chi sta scrivendo.

Registro. In sociolinguistica il termine registro indica come viene realizzato un evento comunicativo tenuto conto della situazione. Grazie ai registri abbiamo tanti modi diversi di dire la stessa cosa. La scelta del come “dire” dipende dalla situazione.

Il registro pertiene alla variazione linguistica di tipo diafasico. (Vd. Varietà linguistiche)

Rema. Il rema, nella grammatica del discorso, è quella parte dell’enunciato che ne realizza lo scopo informativo.

Il rema tende a trovarsi alla destra degli enunciati.Esempio. I nonni sono arrivati.

Soggetto. Il soggetto non è sempre “colui che compie l’azione” (agente) né tan-tomeno sempre “ciò di cui si parla” (topic); il soggetto è, in italiano, quell’elemento della frase che accorda con il verbo. Questa analisi morfosintattica è l’unica possi-bile e l’unica che non cade in contraddizione. Nell’inglese it’s raining, il soggetto sin-tattico it non ha un referente (non si riferisce a niente e a nessuno) e non ha nessun ruolo tematico: non compie l’azione né corrisponde a ciò di cui si parla; è soltanto un elemento grammaticale.

Ci sono lingue che hanno soggetti espressi necessariamente (inglese) e lingue che possono omettere il soggetto (italiano). La differenze tra questi due tipi di lin-gua consiste in una scelta parametrica.

Esempio. Piove. (soggetto non espresso) It’s raining. (soggetto espresso)

Subordinata (proposizione). La proposizione subordinata dipende da una pro-posizione reggente. La proposizione principale è la proposizione che regge tutte le altre all’interno di una frase complessa.

Esempio. Penso di andare al mare. Penso: proposizione reggente Di andare al mare: proposizione subordinata

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Tema. Il tema, nella grammatica del discorso, è ciò di cui si parla, l’argomento dell’enunciato, o, meglio ancora, l’informazione accessoria che facilita la compren-sione del rema.

Il tema tende a trovarsi alla sinistra degli enunciati.Esempio. I nonni sono arrivati.(Vd. Rema)

Tema libero. La struttura della frase cosiddetta a tema libero prevede elementi alla sinistra della frase non legati sintatticamente al resto della medesima. Sarà il contesto linguistico ed extralinguistico ed il sistema di conoscenze dell’ascoltatore (nonché lo spazio comunicativo condiviso da parlante e ascoltatore) a permettere la decodifica e la comprensione del messaggio.

Esempio. Guido, Franca deve comprare altre caramelle.

Tema sospeso. La struttura della frase cosiddetta a tema sospeso presenta ca-ratteristiche simili alla dislocazione a sinistra, soprattutto relativamente alla sua funzione pragmatica di tematizzazione, ma ha caratteristiche sintattiche diverse: il tema sospeso non si accompagna agli indicatori sintattici (le eventuali preposizioni) e richiede necessariamente una ripresa (generalmente, un pronome clitico).

Esempio. Guido, Franca gli ha dato una caramella.

Topicalizzazione. La struttura della frase cosiddetta topicalizzazione pone un costituente alla sinistra della frase, non come tema-dato ma come elemento nuovo. Per la topicalizzazione, si parla generalmente di focus contrastivo perché il rilievo del costituente dislocato implicitamente od esplicitamente richiama il contrasto. Per indicare il focus, si usa convenzionalmente il maiuscolo.

Esempio. A GUIDO, Franca ha dato una caramella (non a Luigina).

Valenza. La valenza del verbo si può spiegare come quel determinato numero di posti vuoti, controllati dal verbo, da riempire all’interno della frase. Ogni verbo ha un numero di posti vuoti (argomenti) da riempire secondo il suo significato. Ogni verbo esprime una scena con degli attori (detti partecipanti o attanti) che possie-dono ruoli specifici (ruoli tematici).

Esempio. Edoardo dà un fiore a Cristina.

Il verbo dare si accompagna tipicamente a 3 argomenti che possiedono dei ruoli tematici all’interno dell’evento espresso dal verbo: Edoardo è l’agente della frase; un

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fiore subisce l’azione ed è quindi il tema o l’oggetto dell’evento; Cristina è il desti-natario di questo evento del dare, più semplicemente dove termina l’evento, dove viene a trovarsi l’oggetto alla fine dell’evento.

La frase minima si forma attorno ad un nucleo fondamentale, il verbo, ed è co-stituita da esso più i suoi argomenti (da 0 a 4); al di là della frase minima, possono essere presenti altri elementi con funzione accessoria: le cosiddette espansioni. Per quanto riguarda la valenza, i verbi si classificano in:Verbi zerovalenti Piove.Verbi monovalenti Gino dorme. Verbi bivalenti Francesco bacia Francesca. Verbi trivalenti Francesco dà una lettera a Francesca. Verbi tetravalenti Marco trasferisce le sue cose da Firenze a Prato.

Nella frase Francesco va in Liguria in auto, soltanto Francesco e in Liguria sono argomenti del verbo e costituiscono una frase minima; in auto è un elemento acces-sorio, fuori dalla frase minima.

Varietà linguistiche. Il modo con cui si usa la lingua può variare per situazioni, canali di trasmissione, luoghi, tempo. Per questo motivo, in letteratura si usa fare una distinzione tra:• Varietà diamesica: la variazione linguistica determinata dal canale di trasmissio-

ne (lingua orale/lingua scritta) dell’evento comunicativo;• Varietà diatopica: la variazione linguistica determinata dall’uso della lingua che

si fa in un determinato luogo geografico (l’italiano parlato in Toscana ha delle peculiarità sue proprie rispetto a quello parlato, per esempio, in Lombardia o nel Lazio);

• Varietà diafasica: la variazione linguistica determinata dal contesto d’uso della lingua (italiano formale, italiano burocratico, italiano colloquiale, italiano infor-male trascurato);

• Varietà diastratica: la variazione linguistica determinata dalla situazione socio-culturale del parlante.

(Vd. Registro)

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Verbi. I verbi (dal latino verbum ‘il dire’) hanno una flessione che esprime, al suo interno, persona, numero, tempo, aspetto e modalità.

Esempio. Ieri sono andato al mare. Sono andato: Persona e numero: 1a persona singolare Tempo: passato prossimo Aspetto: perfettivo (evento concluso, isolato) Modo: indicativo

Spesso i verbi indicano un’azione, una cosa che si fa (es. Ludovico cammina). Tuttavia, possono anche indicare: un processo, cose che capitano (es. Ludovico è caduto); una proprietà del soggetto (es. Ludovico è basso e magro); uno stato (es. Ludovico esiste); una sensazione (es. Ludovico ama Elisa).

I verbi possono essere transitivi, se possono essere seguiti da un oggetto diretto e possono essere trasformati in passivi, e intransitivi, se hanno le caratteristiche opposte.

Esempi. Edoardo ama Cristina. (verbo transitivo) (Cristina è amata da Edoardo). Edoardo dorme. (verbo intransitivo)

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CHIAVI DELLE ATTIVITÀ

PRIMA PARTEL’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua seconda. Ricadute didattiche nella classe plurilingue.

ATTIVITÀ cap. 2, par. 2La variazione diafasica, diastratica e diamesica1F2A3I4E5B6C7H8D9G

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ATTIVITÀ cap. 2, par. 4Fiore di Maggio

Tu che sei nata dove c’è sempre il sole

sopra uno scoglio che ci si può tuffare

e quel sole ce l’hai dentro al cuore

sole di primavera

su quello scoglio in maggio è nato un fiore.

E ti ricordi c’era il paese in festa

tutti ubriachi di canzoni e di allegria

e pensavo che su quella sabbia

forse sei nata tu

o a casa di mio fratello

non ricordo più.

E ci hai visto su dal cielo

ci hai trovato e piano sei venuta giù

un passaggio da un gabbiano

ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.

Ma che bel sogno era maggio e c’era caldo

noi sulla spiaggia vuota ad aspettare

e tu che mi dicevi guarda su quel gabbiano

stammi vicino e tienimi la mano.

E ci hai visto su dal cielo

ci hai trovato e piano sei venuta giù

un passaggio da un gabbiano

ti ha posata su uno scoglio ed eri tu.

Tu che sei nata dove c’è sempre il sole

sopra uno scoglio che ci si può tuffare

e quel sole ce l’hai dentro al cuore

sole di primavera

su quello scoglio in maggio nasce un fiore.

Che polivalente

Dislocazione a sinistra con tematizzazione

DATO a sinistra, NUOVO a destra

Pensare + indicativo

Ci hai visti/o

Ci hai trovati/o

Preferenza del discorso diretto

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ATTIVITÀ cap. 2, par. 5La sintassi della frase1F2E3B4G5C6A7D

ATTIVITÀ cap. 5, par. 1Il Qcer: la competenza comunicativaC1A1B1B2C2A2

Il Qcer: la correttezza grammaticaleA1B1C2C1A2B2

ATTIVITÀ cap. 5, par. 2I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento nella scuolaA1Livello inizialeB1A2

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ATTIVITÀ cap. 5, par. 3.3Le tipologie e i generi testuali

SERVE PER… LO TROVI IN…

TESTO INFORMATIVO-ESPOSITIVO

dare informazioni, notizie su un argomento.

articoli di giornale (cronaca), libri scolastici.

TESTO ESPRESSIVO-PERSONALE

comunicare i propri pensieri, le proprie emozioni.

lettera, pagina di diario, canzone.

TESTO ARGOMENTATIVO

sostenere una tesi o una opinione e convincere gli altri.

saggi filosofici, propaganda politica, editoriali.

TESTO REGOLATIVO-PRESCRITTIVO

dare regole da seguire e/o istruzioni per l’uso

istruzioni llegate, regole di comportamento, regolamenti, ricette.

TESTO POETICO

trasmettere pensieri e sentimenti attraverso il suono e il ritmo delle parole.

poesie, filastrocche, canzoni.

TESTO NARRATIVO raccontare fatti che accadono nel tempo.

fiabe, favole, romanzi, racconti, leggende.

TESTO DESCRITTIVOdescrivere animali, persone, cose, ambienti ecc.

guide turistiche, libri, avvisi, comunicati, cronache.

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SECONDA PARTEL’insegnante apprendente. La pratica etnografica nella didattica dell’italiano L2.

ATTIVITÀ cap. 7, par. 1 Un bambino va alla guerra o forse noNel descrivere le differenze fra i due dialoghi, Marianella Sclavi afferma:

L’insegnante dello scenario 1 [dialogo 1] […] non ascolta Ernesto, pretende solo di essere ascoltata. Mette in atto un ascolto passivo e non attivo; ascolta e osserva del compor-tamento di Ernesto solo quanto si adegua o si discosta da norme predeterminate, da quello che la scuola in cui opera definisce “un comportamento adeguato”. Nella sua missiona-ria insistenza ad elevare la capacità di espressione di Ernesto, ritiene sia del tutto legittimo e “professionale” trattarlo come un minus habens. Non è difficile immaginare che la valutazione di fine anno sarà del tipo: “io non ho pregiudizi verso Ernesto. La sua cattiva fama si basa su una reputazio-ne ben meritata”. […] il comportamento dell’insegnante nello scenario 1 è chiaramente caratterizzato da un pregiudizio: c’è l’omologazione sulla base di uno stereotipo negativo, c’è la minaccia, la distorsione, l’irrigidimento dei rapporti e l’indi-cazione di una modalità di convivenza fondata sulla collusio-ne della vittima con l’aguzzino. […] c’è l’interessamento bene-volo e continuativo di riportare il dominato nel consesso ci-vile e un esito facilmente immaginabile come deludente. […]

Un insegnante che desideri passare dallo scenario 1 [dialogo 1] allo scenario 2 [dialogo 2] non dovrà solo cambiare “meto-do pedagogico”, dovrà abbandonare un atteggiamento rigido, difensivo, di controllo a favore di un atteggiamento flessibile, fiducioso, incerto, esplorativo. Deve cambiare il tipo di per-sonalità che prima riteneva il più adeguato allo svolgimento del suo lavoro. […] Possiamo per esempio faclmente imma-ginare che anche l’insegnante dello scenario 2 come quella dello scenario 1, quando Ernesto inizia il suo racconto con le parole: “Stanno giocando a pallone” abbia avuto come prima reazione la tentazione di inchiodarlo sul suo errore, di ripor-tarlo al proprio modo di inquadrare gli eventi. Il processo di trattenersi cercando di rispettare la logica dell’altro è una di-sposizione d’animo di accoglienza delle ambiguità, della po-

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lisemanticità, è un muoversi in attesa di una possibile bisocia-zione delle rispettive matrici percettivo-valutative. La con-statazione che tale bisociazione ha dei fondamenti (Ernesto dimostra una coerenza nel suo non rispetto delle norme…) ri-manda a ulteriori esplorazioni in attesa che l’accumularsi dei piccoli particolari, dei segnali metacomunicativi permetta di interpretare con un grado soddisfacente di approssimazione non solo il comportamento di Ernesto, ma l’intera dinamica e gioco dei reciproci equivoci. (Sclavi 2003: 109-112)

L’Autrice considera la seconda modalità dialogica come rappresentativa di un ascolto attivo. A nostro avviso, nonostante l’insegnante del secondo dialogo sia in-dubbiamente accogliente, anche in questa seconda situazione non si verificano le condizioni per una efficace didattica conversazionale. L’insegnante guida il bambino in una lettura poco spontanea, anticipandone e influenzandone le risposte: ricon-duce la conversazione all’innaturalità del dialogo scolastico, non adottando real-mente un “atteggiamento di tipo esplorativo”. Infine, l’insegnante chiede ad Ernesto di simulare una conversazione telefonica, in cui dovrà aggiungere ulteriori dettagli al racconto precedente. Questo tipo di attività, per quanto possa apparire ludica, non ci appare efficace né didatticamente, né pedagogicamente: il bambino dovrà sforzarsi di ripetere la storia, aggiungendo quei particolari che l’insegnante si aspet-ta secondo un modello narrativo che lei /lui e la scuola considerano appropriato. In realtà, Ernesto non sta commettendo alcun errore (non si capisce perché l’inse-gnante dello scenario 2 potrebbe avere la tentazione di “inchiodare” il bambino ai suoi sbagli), mentre illegittime ci appaiono le anticipazioni fornite dall’insegnante e le sue richieste: non vediamo lo spazio dato alla “polisemanticità” né il rispetto della logica del bambino.

Una terza modalità dialogica potrebbe invece prevedere una sospensione dell’intervento da parte dell’insegnante e la richiesta di descrivere semplicemente le immagini, attendendone le connessioni/non connessioni spontanee che il bam-bino può elaborare parlando. Dal suo racconto (da cui potrebbe emergere, ad esem-pio, una descrizione diversa da quella elaborata dall’insegnante e/o da un testo scolastico), è possibile trarre conoscenza sulla modalità interpretativa di Ernesto, formulando domande volte a capire il motivo (il come e il perché) di interpreta-zioni eventualmente differenti. Questo tipo di dialogo consente all’insegnante di mantenere un interesse euristico nell’apprendente, rispettare le differenti logiche di appropriazione dell’oggetto di conoscenza, avere uno spazio di negoziazione dei significati: ciò permette di comprendere/conoscere i propri apprendenti e di im-

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parare da loro. Potremmo dire che è con questa terza modalità, secondo noi, che si concretizza una didattica efficace: essa si basa su un concetto di insegnamento che diventa accogliente ed efficace solo se abbandona l’idea del dialogo scolastico (quello delle risposte attese dall’insegnante: vd. Perticari 2005).

ATTIVITÀ cap. 8, parr. 1 - 2Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche in glotto-didattica. Analisi di materiali didattici per l’italiano L2: critica degli stili cognitivi e della culturizzazione.Vd. cap. 9

ATTIVITÀ cap. 9, par. 5Lingua italiana e razzismiPer lo svolgimento di questa attività si consiglia la lettura di:

• AA.VV. 2011, Cronache di ordinario razzismo. Secondo libro bianco sul razzismo in Italia, Roma, Edizioni dell’Asino.

• Faloppa, F. 2011, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Roma-Bari, Laterza.• Faso, G. 2008, Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, Roma,

Edizioni DeriveApprodi.• Faso, G. 2009, La lingua del razzismo: alcune parole chiave, in Naletto G. (a cura

di), Rapporto sul razzismo in Italia, Roma, Manifestolibri: 29-36.

ATTIVITÀ cap. 10, par. 2 Confronti

L’unità didattica Una decisione difficile presenta un testo (input) su cui non si pro-pongono attività predeterminate di vero/falso, scelta multipla, mappe predefinite ecc. con cui si richiederebbe all’apprendente di fornire la risposta corretta, esclu-dendo così la possibiltà che vengano formulate ed espresse altre risposte. Grazie ad eventuali differenti interpretazioni e a dubbi che emergono in classe, è possibile pensare ad un confronto di idee e consentire una conversazione/negoziazione dei significati elaborati a partire dal testo. Questa dimensione di riflessione collettiva è sottolineata anche dalla scelta di non esprimere le consegne con la forma impe-rativa o infinita del verbo, ma con la prima persona plurale (leggiamo, discutiamo, svolgiamo ecc.). Non si tratta, a nostro parere, di un particolare dettato da scelte sti-listiche, ma connesso al rifiuto di impiegare forme imperative in modo inadeguato (leggi/leggete, svolgi/svolgete ecc.): l’insegnante è parte del contesto, non veicola

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significati dall’alto, ma li condivide e li negozia con gli apprendenti, stimolando l’ela-borazione di domande che possano mettere in crisi le spiegazioni date e sollecitino a nuove ipotesi esplicative. In questa attività si propone di concepire la didattica come luogo in cui riflettere significa ammettere le proprie incertezze, confrontan-dole con altre incertezze e procedendo verso nuove scoperte. Per questa ragione, la riflessione sulla grammatica è proposta non attraverso tecniche insiemistiche e procedurali, molto in voga nei testi di italiano L2 (vd. Balboni 2002: 258-261): esse ripropongono un modello didattico di tipo impositivo (e l’imposizione, come ha sempre sottolineato un grande educatore come Alberto Manzi, non produce e non crea conoscenza). Si è preferito invece stimolare un ragionamento sulla grammatica sollecitando gli apprendenti a riflettere partendo dalla propria competenza sulla lingua (vd. Lo Duca 2004). Infine, la richiesta di elaborare una possibile soluzione di “un problema difficile” non si configura come una proposta su elementi di “civiltà e cultura” (vd. Balboni 2002, Vedovelli 2002), che riporterebbe ad una dimensione di spiegazioni culturaliste, banalizzando la didattica in classe (vd. capp. 9-11). Le do-mande dell’attività non chiedono il “racconto di sé” secondo un’ottica che ristabili-sce una visione dell’apprendente “patologizzato” (vd. Baroni 2010): durante l’esecu-zione dell’attività in classe è possibile che emergano dei racconti spontanei di espe-rienze personali, ma questa proposta vuole stimolare l’apprendente ad esprimere soluzioni possibili e creative. In essa la creatività non è semplice fantasia, ma è vista come “la capacità produttiva della ragione ed è connessa alla fantasia, che serve per affrontare, senza limitazioni e pregiudizi, ogni problema […]. La creatività [è] saper riconoscere un problema e saper realizzare i modi per trovare una soluzione […], è la capacità di rompere conformismi e adattamenti”. È quindi un’attività costante che non può essere programmata: è un approccio che stimola alla scoperta e si scontra con il mondo della velocità (vd. gli appunti di Alberto Manzi, scaricabili dal sito http://www.centroalbertomanzi.it/linguistica.asp).

ATTIVITÀ cap. 11, par. 1Quello spazio fra due puntiPer lo svolgimento di questa attività, si possono confrontare le proprie risposte con la lettura del cap. 11.

ATTIVITÀ cap. 11, par. 3Con-vivenzePer una analisi delle competenze linguistiche di M., si rimanda alla lettura dei capp. 2-3.

Il testo, a nostro avviso, presenta ulteriori livelli di analisi non trascurabili e che

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riguardano la sfera “percettiva” del lettore/insegnante, che assegna una propria in-terpretazione al testo. Esso offre una lettura parziale, opaca, non necessariamen-te suscettibile di una lettura chiaramente decifrabile, come a rivendicare da parte dell’apprendente il diritto di sottrarsi alle interpretazioni dell’insegnante (vd. Glis-sant 2007).

ATTIVITÀ cap. 12, parr. 1-2; cap. 13, par. 1Punti di vista.Il paradosso dell’osservatore. Sguardi etnografici.

Per lo svolgimento di queste attività, si rimanda ai capp. 11-13. L’immagine ripor-tata nell’attività 12.1 è ricordata da Leonardo Piasere che, parlando dell’immaginario che la scuola edifica sui bambini rom e dei test/valutazioni a cui questi bambini sono stati sottoposti, commenta così:

Zingari disadattati? Rovesciamo il punto di vista. Si ricorde-rà quel topolino dei comportamentisti che diceva: “Questo psicologo è condizionato. Ogni volta che premo la levetta mi dà un po’ di cibo. Così potrebbe dire l’alunno zingaro: “Questo educatore è condizionato. Ogni volta che entro in classe io, diventa un disadattato”. […]Ora, la cosa per me inaccettabile delle ricerche che leggevo non era che venissero somministrati ai bambini zingari dei test, ma che la somministrazione non venisse mai problema-tizzata: i risultati venivano presentati col distacco dell’og-gettività derivante dalla “misurazione” decontestualizzata; e quando non riuscivano a dimostrare deficit intellettivi sci-volavano verso l’idea della deprivazione culturale (Piasere 2010: 98-103).

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GLI AUTORI

Alan Pona, nato a Prato nel 1978, è dottore di ricerca in linguistica. Si è dedicato soprattutto allo studio di alcuni aspetti della morfosintassi della lingua italiana e dell’apprendimento dell’italiano come L2. Ha collaborato a pubblicazioni di didatti-ca della L2. Al momento lavora come facilitatore linguistico di italiano L2 e forma-tore di docenti in Toscana.

Franca Ruolo, nata in Sicilia nel 1970, è facilitatrice linguistica di italiano L2 nelle scuole primarie e secondarie e in corsi di italiano L2 e di letto-scrittura per migran-ti adulti. È formatrice di didattica dell’italiano come lingua seconda in Toscana, con particolare attenzione all’approccio etnografico nella didattica della seconda lingua.

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INDICE

Premessa di Salah Ibrahim ............................................................................................................... 3

Introduzione ......................................................................................................................................... 5

PRIMA PARTEL’italiano e l’acquisizione dell’italiano come lingua seconda. Ricadute didattiche nella classe plurilingue, di Alan Pona ............................................. 7

Capitolo ITerminologia introduttiva ............................................................................................................. 9

Capitolo IIIl linguaggio, le lingue naturali e le varietà linguistiche ................................................ 151. Laboratorio .................................................................................................................................. 152. La variazione diafasica, diastratica e diamesica .......................................................... 163. Leggendo Noi la farem vendetta di Paolo Nori ............................................................194. Fiore di maggio .......................................................................................................................... 265. La sintassi della frase .............................................................................................................. 286. Punti di crisi dell’italiano contemporaneo .................................................................... 34

6.1 A me mi ................................................................................................................. 346.2 Soggetto, verbo .................................................................................................. 356.3 Lui/egli ................................................................................................................... 356.4 Il dativo in italiano ............................................................................................ 366.5 Che nelle frasi relative ..................................................................................... 38

7. Alcune citazioni ....................................................................................................................... 408. Possibili conclusioni ................................................................................................................ 41 Capitolo IIIL’acquisizione delle lingue seconde ........................................................................................ 431. Analisi/descrizione di testi autentici .............................................................................. 432. Le varietà degli apprendenti ............................................................................................... 47

2.1 Le varietà degli apprendenti: alcune definizioni possibili ................ 482.2 Riflessioni .............................................................................................................. 52

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3. I cinque postulati di Stephen Krashen ............................................................................ 544. La linguistica acquisizionale ................................................................................................ 58

4.1 Che cosa è una Lingua Seconda .................................................................. 584.2 Fasi (e processi) acquisizionali ...................................................................... 594.3 Le sequenze acquisizionali ............................................................................. 644.4 Riflessioni .............................................................................................................. 67

Capitolo IVL’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde ................................................ 691. Laboratorio ................................................................................................................................. 692. Una possibile definizione di grammatica ....................................................................... 71

2.1 Tipi di grammatiche .......................................................................................... 723 Una possibile definizione di competenza comunicativa .......................................... 734. Oltre la competenza comunicativa: la competenza d’azione ................................ 745. Modelli operativi ..................................................................................................................... 74

5.1 Unità di lavoro/apprendimento ................................................................. 775.2 Esempi di unità di lavoro/apprendimento ............................................. 81

Capitolo V Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue ............................................... 951. Laboratorio ................................................................................................................................ 962. I livelli del Qcer e il loro possibile riadattamento a Scuola ................................. 993. Il Qcer e il testo come unità base dell’azione didattica ........................................ 104

3.1 Una possibile definizione di testo ............................................................ 1043.2 Il testo nel Qcer ............................................................................................... 1043.3 Le tipologie e i generi testuali ................................................................... 105

Capitolo VILa lingua dello studio. La facilitazione e la semplificazione dei testi nella scuola ....................................................................................................................................... 1071. Alcune premesse .................................................................................................................... 1072. Tecniche di semplificazione testuale ............................................................................ 110

2.1 Lessico .................................................................................................................. 1102.2 Morfosintassi ....................................................................................................... 1112.3 Coerenza/coesione ......................................................................................... 113

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SECONDA PARTEL’insegnante apprendente. La pratica etnografica nella didattica dell’italiano L2, di Franca Ruolo ................................................................................................ 115

Capitolo VII Insegnare esige il saper ascoltare ........................................................................................... 1171. Un bambino va alla guerra (o forse no) .......................................................................... 118

Capitolo VIIIL’illusione di insegnare la lingua ............................................................................................. 1231. Analisi di materiali didattici: le contraddizioni dei metodi e delle tecniche in glottodidattica .................................................................................................................. 1232. Analisi di materiali didattici per l‘italiano L2: critica agli stili cognitivi e alla culturizzazione ............................................................................................................... 124

Capitolo IXUno sguardo critico sulla glottodidattica ......................................................................... 1271. I rischi della banalizzazione nei modelli operativi standard nella didattica dell’italiano L2. ....................................................................................................................... 1272. Contro la teoria semplicistica degli stili cognitivi ................................................... 1343. Contro l’idea che “non si insegna solo la lingua, ma anche la cultura che le sta dietro” ............................................................................................................................ 1364. Stereotipi e pregiudizi nei libri di italiano L2 .............................................................. 1375. Lingua italiana e razzismi .................................................................................................... 142

Capitolo XParlare insieme ................................................................................................................................ 1431. Una proposta didattica ....................................................................................................... 1432. Confronti ................................................................................................................................... 1463. Le fasi dell’unità di apprendimento: critica al modello di unità didattica e proposte per un percorso possibile ........................................................................... 147

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Capitolo XILo spazio comune delle relazioni ........................................................................................... 1491. Quello spazio fra due punti .............................................................................................. 1492. Lettura sul concetto di intercultura ............................................................................... 1503. Con-vivenze ............................................................................................................................. 1564. “Qualche piacevole sentimento”: un piccolo racconto sull’importanza delle contro-rappresentazioni nella didattica dell’italiano L2 ........................... 157

Capitolo XIIL’insegnante-apprendente ......................................................................................................... 1591. Punti di vista ............................................................................................................................ 1602. Il paradosso dell’osservatore ............................................................................................. 162

Capitolo XIIIOsservare le relazioni .................................................................................................................. 1631. Sguardi etnografici ................................................................................................................ 1632. Riflessioni finali ....................................................................................................................... 163

Capitolo XIVPossibili letture ............................................................................................................................... 169

AppendicePiccolo scritto sulle “parole parassite” di Franca Ruolo ................................................. 193

Glossarietto ...................................................................................................................................... 195

Bibliografia ......................................................................................................................................... 211

Chiavi delle attività ..................................................................................................................... 227

Gli autori ............................................................................................................................................ 237

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Finito di stampare nel mese di maggio 2012

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