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417 L’EUROPA VICINA E LONTANALa Civiltà Cattolica

421 TEOLOGIA SERENA, FATTA IN GINOCCHIOJuan Carlos Scannone S.I.

433 IL DIBATTITO SULLA RESIDENZA DEI VESCOVI AL CONCILIO DI TRENTOGiancarlo Pani S.I.

444 L’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE E IL FUTURO DELL’UMANITÀMarc Rastoin S.I.

457 YEMEN: LA NECESSARIA TRANSIZIONE ALLA DEMOCRAZIALuciano Larivera S.I.

468 L’ANALFABETISMO RELIGIOSO IN ITALIA. IL CASO DELLA BIBBIAGianPaolo Salvini S.I.

478 ANTON BRUCKNER, IL MUSICISTA MISTICOGiovanni Arledler S.I.

490 LA BIBLIOTECA DI PAPA FRANCESCOAntonio Spadaro S.I.

499 «LE MERAVIGLIE», UN FILM DI ALICE ROHRWACHERVirgilio Fantuzzi S.I.

502 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

SOMMARIO 3935

7 giugno 2014QuindicinaleAnno 165

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Come comprendere a fondo la visione della vita, dell’uomo e della Chiesa che Papa Francesco ha maturato nel tempo? I libri che ha letto e amato sono una chiave importante per entrare nel suo mondo interiore. Per questo Cor-riere della Sera propone La biblioteca di Papa Francesco, una collana in cui Antonio Spadaro ha riunito venti tra le sue opere più care. Classici di ogni tempo e capolavori ritrovati: saggi, romanzi, teatro e poesie. Una galassia di storie e pensieri in cui si riflette la ricchezza dell’esperienza e degli incontri di Papa Bergoglio. E in ogni volume, le prefazioni di amici, studenti e com-pagni di cammino spiegano il legame tra il libro e la sua vita.

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SOMMARIO 3935

EDITORIALE417 L’EUROPA VICINA E LONTANA

La Civiltà Cattolica

Il voto del 25 maggio, che ha eletto i 751 membri del Parlamento europeo, a causa della sua componente nazionalista rimette in discussione il ruolo e la funzione dell’Ue, ma anche la funzione della Francia, bloccata dal Front National di Marine Le Pen, e della Germania, in cui Angela Merkel vince senza convincere. Al di là di ogni previsione, il voto espresso dall’Italia è il più europeista e mette il presidente Renzi nella condizione di assumere un ruolo di pro-tagonista e alternativo alla proposta di rigore della Germania. Il leader del più grande partito democratico europeo è chiamato anche a riscrivere il riformismo sociale e l’identità del Pse.

ARTICOLI421 TEOLOGIA SERENA, FATTA IN GINOCCHIO

Juan Carlos Scannone S.I.

Papa Francesco ha lodato l’esposizione sulla famiglia che il card. Kasper ha fatto nell’ultimo Concistoro del 21 febbraio scorso, dicendo che si era trattato di una «teologia serena» e «fatta

contenuto che si comunica, poiché l’atteggiamento e il contesto rientrano nell’interpretazione

-gia tipologica di von Balthasar chiama «giacobeo» (il cui modello è Giacomo il minore), cioè il giusto timore di essere infedeli alla tradizione.

433 IL DIBATTITO SULLA RESIDENZA DEI VESCOVI AL CONCILIO DI TRENTO

Giancarlo Pani S.I.

Fin dall’inizio del Concilio di Trento il problema della residenza dei vescovi costituisce una

esso conduce alla paralisi dei lavori. La situazione di stallo è superata grazie alla diplomazia -

canonico perché priva di un fondamento biblico chiaro, viene proposta una nuova formula, divino praecepto mandatum: il pastore ha l’obbligo di coscienza dei doveri episcopali, ma l’im-pegno della residenza non va legato al diritto divino. La proposta sblocca lo stallo del Concilio

il traguardo da tutti auspicato: la riforma della Chiesa.

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SOMMARIO 3935

444 L’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE E IL FUTURO DELL’UMANITÀ

Marc Rastoin S.I.

Per millenni l’umanità è cresciuta a un ritmo molto lento. I progressi della medicina, nel cor-so degli anni, hanno gradualmente contribuito all’allungamento della vita e al conseguente

aumento della popolazione insostenibile per il pianeta. Tuttavia, dati alla mano, si registra,

fenomeno comporta una serie di cambiamenti sul piano sociale, economico, psicologico e

pastorali?

FOCUS457 YEMEN: LA NECESSARIA TRANSIZIONE ALLA DEMOCRAZIA

Luciano Larivera S.I.

-ziate nel 2011. Nell’attuale Governo di transizione coabitano, insieme alla «vecchia guardia»,

ma la costruzione di istituzioni nazionali inclusive (insieme con gli investimenti per favorire l’occupazione a breve termine). Inoltre, vista la fuga di capitali a causa della corruzione, la

VITA DELLA CHIESA468 L’ANALFABETISMO RELIGIOSO IN ITALIA. IL CASO DELLA BIBBIA

GianPaolo Salvini S.I.

-nare, con particolare attenzione all’insegnamento della religione a scuola, a una sua possibile revisione e ai motivi storici e teologici che hanno portato alla situazione attuale.

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SOMMARIO 3935

PROFILO478 ANTON BRUCKNER, IL MUSICISTA MISTICO

Giovanni Arledler S.I.

Rivisitato dalla cultura musicale italiana solo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, insieme a Mahler che si considerava in parte un suo ideale allievo, l’austriaco e cattolico Anton

verso mete artistiche ambiziose, iniziò la carriera come maestro elementare, pur suonando nello stesso tempo l’organo in chiesa e scrivendo, come dilettante, alcune composizioni litur-

fece ben presto conoscere in tutto il mondo.

RIVISTA DELLA STAMPA490 LA BIBLIOTECA DI PAPA FRANCESCO

Antonio Spadaro S.I.

Come comprendere a fondo la visione della vita, dell’uomo e della Chiesa che l’attuale Ponte-

Corriere della Sera, una collana, a cura del direttore de La Civiltà Cattolica, che ha riunito 20 tra le opere più care al Papa, classici di ogni tempo e capolavori ritrovati. Le sue letture sono legate a vi-sioni della realtà, alla sua stessa comprensione del mondo, che poi ha generato anche uno stile pastorale e una comprensione della missione della Chiesa. Ricostruire la «biblioteca di Papa Francesco» intende essere un’operazione di valore spirituale e culturale.

ARTE MUSICA SPETTACOLO499 «LE MERAVIGLIE», UN FILM DI ALICE ROHRWACHER

Virgilio Fantuzzi S.I.

Le meraviglie di Alice Rohrwacher, vincitore del Grand Prix della Giuria al recente

sono persone comuni. Una strana famiglia composta da un uomo (il padre) e sei donne — la

Lazio, Umbria e Toscana. La famiglia, che funziona con regole speciali, si dedica all’apicol-

continuo cambiamento, ma anche i sogni cambiano. I sogni di Gelsomina non coincidono

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SOMMARIO 3935

RECENSIONI502 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

510 - Fares

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L’EUROPA VICINA E LONTANA

© La Civiltà Cattolica 2014 II 417-420 | 3935 (7 giugno 2014)

L’Europa non è mai stata così vicina, ma allo stesso tempo così lontana dalla sensibilità politica dei cittadini dei 28 Stati che formano l’Ue. La narrazione che è stata fatta dai partiti e dai media in occa-sione delle votazioni del 25 maggio del Parlamento europeo sembra tradire la profezia di Konrad Adenauer — uno dei padri fondatori della Comunità europea, insieme a Jean Monnet, Robert Schuman e Alcide De Gasperi — quando confessò che «l’unità dell’Europa era un sogno per pochi. È diventata la speranza di molti. Adesso è una necessità per tutti. È una necessità per la nostra sicurezza, per la no-stra libertà, per la nostra esistenza come nazione e come comunità spirituale e creativa dei popoli». In realtà, l’elezione dei 751 membri del Parlamento europeo illumina e reinterpreta questa intuizione: l’Europa nel 2014 continua ad essere «una speranza» e «una necessi-tà» per la maggioranza degli europei, ma è anche il parafulmine su cui si scaricano le paure e le diffidenze di una significativa mino-ranza che ha fomentato i nazionalismi e chiede di erigere vecchie e nuove frontiere per separare tutto ciò che è diverso dalla propria storia, cultura e tradizione.

Se, da una parte, il numero dei cittadini che votano per partiti populisti ed euroscettici è cresciuto — sono circa 140 i deputati euro-pei che li rappresenteranno e che chiederanno di bloccare il processo politico europeo —, dall’altra parte, sono circa tre quarti gli elettori europei che hanno appoggiato forze politiche con vocazione euro-peista. A questi dati però va aggiunto il 56,9% degli astenuti, che formano la prima forza politica di un’Europa avvertita come lontana.

Ma c’è di più. I risultati emersi hanno smentito ogni ragione-vole previsione: in Francia i socialisti sono stati sconfitti dal Front

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EDITORIALE

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National di Marine Le Pen; in Inghilterra i laburisti e i conserva-tori dovranno confrontarsi con il successo della forza nazionalista dell’Ukip di Farage; in Germania l’elettorato tedesco non ha intro-nizzato Angela Merkel come «regina d’Europa». La rottura degli equilibri su cui si reggeva l’Europa prima del voto ha portato i suoi due protagonisti, Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e Mario Draghi, presidente della Bce, ad affermare che servono risposte urgenti.

Così, se il voto europeo rimette in discussione il ruolo e la fun-zione della mente dell’Europa (la Germania) e del suo cuore (la Francia), la politica europea, al di là di ogni previsione, ha dovuto prendere atto della salute e della funzione delle sue gambe e del suo «stivale», espresso dal voto dell’Italia che, senza prevederlo, assume un ruolo di protagonista e alternativo alla proposta di rigore della Germania.

* * *

Il Pd, la forza politica il cui segretario Matteo Renzi è anche Presidente del Consiglio, contro ogni previsione ha ottenuto un successo che va oltre il partito e lo schieramento a cui appartiene, ottenendo il 40,81% dei consensi. L’elettorato italiano si è ritrova-to, specialmente negli ultimi giorni prima del voto, di fronte a un bipolarismo, quello di Renzi e di Grillo, che esprimeva due idee di Europa opposte, definite dallo stesso Presidente del Consiglio: «Un ballottaggio tra speranza e paura». È davanti a questo bivio che gli elettori italiani hanno premiato il primo partito di Governo, che per la prima volta dal dopoguerra guadagna più di 2,5 milioni di voti rispetto alle ultime politiche e stacca di quasi 20 punti la secon-da forza politica.

Il centro-destra è stato costretto a subire una strategia elettorale che ha risentito delle divisioni interne, della stanchezza e dell’im-pedimento di candidarsi del suo leader storico, Silvio Berlusconi, e di una campagna elettorale troppo centrata su problemi politici nazionali, anche se, ad urne chiuse, l’intera area ha ottenuto poco più del 30% dei consensi.

Ma queste votazioni, oltre al loro significato politico, hanno so-

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L’EUROPA VICINA E LONTANA

prattutto un valore simbolico. Il voto europeo — che a differenza delle politiche non viene dato per la difesa di interessi personali o del proprio gruppo di appartenenza — è stato «liberante e di indi-rizzo». È per questo che la proposta del Pd di Renzi è stata premiata anche dai molti elettori moderati, inclusi quelli di ispirazione cri-stiana, non tradizionalmente legati al centro-sinistra. Se l’elettorato non ha appoggiato l’alternativa di Grillo per aver seminato paura, urlato troppo e offeso gli avversari — basti ricordare l’irriverente offesa di Casaleggio a Papa Giovanni XXIII alla chiusura della campagna elettorale e le ripetute allusioni al Capo dello Stato —, a Renzi chiede uno «sbilanciamento in avanti» sorretto dalla fiducia del consenso, che nei momenti di crisi della storia — come è stato nel 1948 — si ripresenta per riattivare nuovi processi.

È questa un’aspettativa carica di attesa, riposta un’altra volta — come la storia di questo Paese lo dimostra — sulle spalle di una per-sona che si è formata all’interno dell’eredità del pensiero cristiano e in particolare alla scuola di un politico come Giorgio la Pira, suo predecessore a Palazzo Vecchio di Firenze.

La responsabilità che viene consegnata a Renzi è anche quella di riscrivere il riformismo sociale e l’identità del Pse a cui i 31 deputa-ti del Pd aderiranno, deideologizzandolo della matrice socialista e post-comunista, e rimettendo al centro l’attenzione ai più deboli, la solidarietà tra i popoli, la coesione sociale, il lavoro dei giovani e la redistribuzione che introduca un reddito minimo di cittadinanza, il rafforzamento del sistema industriale basato sulla sostenibilità am-bientale e un’unione bancaria che renda unico il mercato del credito e i controlli sulle attività finanziarie. In generale, comunque, il suo consenso e la sua credibilità dipenderanno molto anche dall’attua-zione delle riforme interne che ha ripetutamente promesso.

* * *

La democrazia europea si basa su presupposti diversi rispetto alla democrazia su cui sono sorti gli Stati europei. Il voto dimostra che il cammino è ancora lungo, esistono ancora ferite da sanare e la mancanza di una lingua comune aumenta le diffidenze. Tuttavia le istituzioni europee possono funzionare solo attraverso il consenso

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EDITORIALE

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degli Stati membri e dei suoi rappresentanti, non secondo le logiche delle alternanze tra maggioranza e opposizione, su cui invece si co-struiscono le politiche degli Stati, e neppure sulla contrapposizione tra Nord e Sud dell’Europa, come dimostra la gestione del problema dell’immigrazione. È per questo che l’Europa si può costruire sola-mente con la logica della ricerca del bene comune che esprime non la somma, ma il prodotto degli apporti di tutti. La forza e la debo-lezza del metodo fa sì che basti un fattore per bloccare i processi di unione, come è capitato nel 2005 quando il doppio referendum in Francia e Olanda arrestò l’approvazione della Costituzione.

In questo nuovo contesto culturale la Chiesa può aiutare le po-polazioni a capire l’identità europea secondo l’insegnamento di Papa Francesco, il quale chiede di privilegiare l’unità sui conflitti. I valori umani e i princìpi che hanno ispirato la nascita dell’Ue affondano le loro radici nella tradizione dei circa 1.000 monasteri di Cluny e benedettini in genere un tempo sparsi in tutta Europa, che hanno permesso di custodire e trasmettere le radici comuni europee.

***

Matteo Renzi, accreditato anche dagli Usa come nuovo inter-locutore per l’Europa, dal 1° luglio assumerà la guida del semestre europeo. A lui tocca istituzionalizzare il suo carisma di leader per rendere possibile e solida la costruzione della casa comune euro-pea secondo l’insegnamento e il monito di De Gasperi al Consiglio d’Europa, il 10 dicembre 1951: «La costruzione degli strumenti e dei mezzi tecnici, le soluzioni amministrative sono senza dubbio necessarie (all’Europa) […]. Ma non corriamo il rischio che si de-compongano se un soffio vitale non vi penetri per vivificarle oggi stesso? […]. Senza vita ideale potrebbe anche apparire ad un cer-to momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva. […]. In questo caso le nuove generazioni, prese dalla spinta più ar-dente del loro sangue e della loro terra, guarderebbero alla costru-zione europea come a uno strumento di imbarazzo e oppressione. In questo caso il pericolo di involuzione è evidente».

La Civiltà Cattolica

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TEOLOGIA SERENA, FATTA IN GINOCCHIO

Juan Carlos Scannone S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 421-432 | 3935 (7 giugno 2014)

Nel Concistoro del 21 febbraio scorso, dopo la relazione intro-duttiva del cardinale Walter Kasper sulla teologia del matrimonio, Papa Francesco lo ringraziò vivamente dicendo di avervi trovato «un pensiero sereno nella teologia. È piacevole leggere teologia se-rena. E anche ho trovato quello che sant’Ignazio ci diceva, quel sensus Ecclesiae, l’amore alla Madre Chiesa… Mi ha fatto bene e mi è venuta un’idea — mi scusi, Eminenza, se la faccio vergognare —, ma l’idea è che questo si chiama “fare teologia in ginocchio”»1. Che cos’è la «teologia serena» che, come è stato detto da Hans Urs von Balthasar e già ripetuto da Benedetto XVI2, va «fatta in ginocchio»?

In ogni testo è importante non solo «ciò che» si dice, ma anche «come» lo si dice, poiché questo «come» fa parte del contenuto, non è una semplice circostanza accidentale estrinseca. Ebbene, quando una teologia «si fa in ginocchio», cioè con un atteggiamento di preghiera davanti al Signore e per il suo servizio, se il testo è ora-le, la disposizione d’animo serena si rivela nel tono della voce, nei tratti del volto o nei gesti che lo accompagnano; ma anche in uno scritto, essa si riflette spesso attraverso elementi dello stesso scritto, che possono essere figure retoriche (metafore, enfasi, iperboli…), ripetizioni, frasi esclamative o interrogative, interiezioni e così via.

Quando, il 10 aprile scorso, Papa Francesco ha parlato ai pro-fessori e agli studenti della Pontificia Università Gregoriana, del

1. http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/ 2014/02/21/0125/00276.html

2. Cfr H. U. von Balthasar, «Teologia e Santità», in Verbum Caro. Saggi teologici. I, Brescia, Morcelliana, 1968, 200-229; Benedetto XVI, Discorso all’ab-bazia di Heiligenkreuz, 9 settembre 2007.

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ARTICOLO

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Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale3, è tor-nato a toccare il tema di una filosofia e di una teologia realizzate «con mente aperta e in ginocchio», facendo riferimento di nuovo all’«atteggiamento esistenziale» che deve accompagnarle perché sia-no feconde, ma ha aggiunto qualcosa di nuovo, in relazione alla «mente aperta», cioè che «il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo».

Vedremo in seguito come la chiusura corrisponda a un pensiero univoco, non aperto, per mezzo dell’analogia del linguaggio, né alla trascendenza, né alla novità storica, né all’alterità irriducibile degli altri. Questo chiudersi spesso è provocato dal timore proprio di queste novità e alterità, e persino della propria libertà e dell’im-prevedibilità del Dio sempre più grande. Per questo la Scrittura spesso ripete: «Non temete!».

Papa Francesco ci avverte dell’importanza di un linguaggio ade-guato per la proclamazione e accettazione del Vangelo, quando ci fa rendere conto che «a volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo» (Evangelii gaudium [EG] 41). Sebbene lì egli si riferisca in primo luogo alla formulazione del «che cosa» si dice, pensiamo che qualcosa di simile si possa dire del «come» questo stesso contenuto si trasmette ai fedeli e a quelli che non lo sono.

In tutte le circostanze Papa Francesco parla con semplicità, ma non per questo smette di avere profondità. La riflessione filosofica ci può aiutare a calare la sua profondità nella sua apparente pura sempli-cità. Per questo, sia per comprendere meglio a che cosa si riferiva la lode fatta al cardinale Kasper, sia per cogliere il carattere sereno della sua teologia, ci serviremo innanzitutto di due filosofie del linguaggio contemporanee, cioè la filosofia analitica, prevalentemente anglosas-sone, e la fenomenologia, prevalentemente europea. Poi ci serviremo di una rilettura attuale (dopo Kant e le filosofie moderne e contem-

3. Papa Francesco, Discorso alla comunità della Pontificia Università Grego-riana e ai consociati del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale (10 aprile 2014), in www.vatican.va

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TEOLOGIA SERENA, FATTA IN GINOCCHIO

poranee) dell’«analogia tomista» dell’essere e, di conseguenza, del pen-sare e del dire aperti.

Quindi, in una prima parte delle nostre riflessioni tratteremo di tutti i testi — in generale —, per applicare le nostre considerazioni ai testi sopra menzionati. Poi, con brevi riflessioni a partire dalla teo­logia, chiariremo in primo luogo ciò che è stato detto nella prima parte, scoprendo nella fede trinitaria la radice ultima della distinzione e interazione tra il «che cosa» e il «come» dei testi teologici, in quanto essi ci parlano — o dovrebbero farlo — della «verità nella carità». Infine cercheremo di prevenire un possibile malinteso circa la critica che fa-remo all’ermeneutica del timore, valorizzando il principio «giacobeo» (di Giacomo) nella Chiesa, alla luce della teologia di von Balthasar.

Così capiremo meglio che cosa Francesco voleva dire parlando di una teologia serena, orante, di sensus Ecclesiae e di un pensiero aperto e incompleto. E potremo anche cogliere come atteggiamenti esistenziali non sereni, quali il disprezzo degli interlocutori o il timore di perdere la propria sicurezza, possano incidere sul significato di ciò che un testo dice, soprattutto se esso è orale, come quello del cardinale Kasper.

Alla luce della filosofia analitica del linguaggio ordinario

Ciò che abbiamo detto sopra riguardo al «che cosa» e al «come» di un discorso orale o scritto, la filosofia analitica lo esprime dopo la cosiddetta «svolta pragmatico-linguistica» del secondo Ludwig Wittgenstein e dei suoi seguaci britannici (John Austin, John Searle ecc.)4, distinguendo i momenti «semantico» e «pragmatico» di un te-sto. Ora, quest’ultimo consiste nel «come» il testo stesso è espresso e usato da chi parla o scrive, ed è ricevuto dal suo ascoltatore o lettore. Invece, il momento semantico si riferisce al significato, che si può trovare in un dizionario. Tuttavia questa stessa filosofia riconosce che anche il «come» fa parte del significato, cioè del momento semantico.

Per esempio, la parola «Dio» acquista sfumature, denotazioni e con-

4. Cfr L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell, 1953 (in it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967); J. Austin, How to do Things with Words, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1962 (in it. Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987); J. Searle, Speech Acts. An Essay in the Phi-losophy of Language, Cambridge, University Press, 1969 (in it. Atti linguistici. Saggio di Filosofia del linguaggio, Torino, Boringhieri, 1976).

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notazioni diverse quando affermiamo in modo teorico: «Dio esiste», o quando preghiamo umilmente il Signore: «Dio mio, salvami!». Nel primo caso, la forza che accompagna le nostre parole — che da questi filosofi è chiamata «illocutiva» — è una forza assertiva, propria di una affermazione di verità. Invece, nel secondo caso, la forza con cui pro-nunciamo la parola «Dio» è «invocativa», poiché si tratta di una preghie-ra di domanda, alla quale corrisponde un atteggiamento di sincera sup-plica. Per questo i buoni dizionari di lingue straniere, per esprimere il significato di una parola, presentano frasi nelle quali il termine cercato è usato in un contesto, e non appare la parola isolata o in astratto, perché l’«uso», il «modo» e il «tono» di come si dice qualcosa — a volte espressi mediante l’ammirazione, la domanda, l’interiezione ecc. — fanno parte del significato di questa o quella parola in un determinato «contesto».

Di conseguenza, se l’atteggiamento dell’autore nello scrivere o nell’esprimere un determinato discorso è sereno, se la fede e l’amore per la Chiesa accompagnano l’espressione o manifestazione orale di un testo in modo che si possa dire che esso è stato «scritto in ginocchio», l’ascoltatore o il lettore aperto all’ascolto e di buona volontà (cioè, sen-za pregiudizi) lo riceve captando anche questo momento pragmatico come facente parte del contenuto di senso che si trasmette.

Dobbiamo notare che non si tratta semplicemente di condiziona-menti psicologici, i quali, senza dubbio, ci sono, ma del valore episte-mologico del testo secondo un’analisi filosofica del linguaggio. Il mo-mento pragmatico non consiste in qualcosa di puramente soggettivo, ma nell’impronta oggettiva e verificabile della soggettività dell’autore nel testo: impronta che fa parte della verità integrale del testo stesso. Per questo prima abbiamo accennato al fatto che un testo perfetta-mente ortodosso può non trasmettere di fatto la verità del Vangelo: per esempio, se non esprime la verità nella carità ma, al contrario, strumentalizza la verità contro la carità, per condannare orgogliosa-mente non una dottrina falsa, ma un’altra persona.

Non si tratta sempre di testi, ma anche di realtà complesse — come la pietà popolare —, prese come un testo5. Lo segnalava già il Papa: per comprendere la pietà popolare, «c’è bisogno di avvicinarsi ad essa

5. Sull’azione considerata come testo, cfr P. Ricœur, Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Paris, Seuil, 1986 (in it. Dal testo all’azione. Saggio di ermeneutica, Milano, Jaca Book, 1989).

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con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare, ma di amare. Solamente a partire dalla connaturalità affettiva che l’amore dà possiamo apprezzare la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani, specialmente nei poveri» (EG 125). Notiamo qui sia il valore conoscitivo (sapienziale) dell’atteggiamento di amore — contrario a quello del giudizio che condanna —, sia il fatto che, per spiegarlo, si ricorre all’insegnamento tomista della «conoscenza per connaturalità».

Alla luce della fenomenologia, di Aristotele e dell’ermeneutica

Parimenti, la serenità (in tedesco: Gelassenheit) è, per la fenome-nologia contemporanea, proprio uno «stato d’animo» fondamentale (Grundstimmung)6. Come nel caso precedente, per la fenomenologia questo stato d’animo ha un’importanza non soltanto psicologica, ma epistemologica e anche ontologica, per la conoscenza della verità, pro-prio perché nell’atteggiamento sereno si permette alla cosa stessa di essere quello che è nella sua verità, senza imporle in modo soggettivo un’idea prefissata o un pregiudizio — quando il soggetto è mosso dalla passione disordinata di dominio o dal timore di perdere sicurezze —, cadendo allora in ideologie che sfigurano la verità. Heidegger ha tro-vato questa serenità esistenziale nell’apertura di Maestro Eckhart verso Dio e l’ha elevata al piano ontologico come la disposizione affettiva di apertura verso l’essere e ogni ente che si «lascia essere» — oggettiva-mente — in quello che è in sé, senza imposizioni soggettive. Da qui il valore ontologico di tale affettività per conoscere la verità.

Già Aristotele, nell’Etica nicomachea7, aveva affermato che in que-stioni di filosofia pratica, cioè di etica e di politica, si rende necessario l’«appetito retto» per una conoscenza prudente della verità pratica. Ignazio di Loyola, nelle sue Regole per il discernimento nella Secon-da settimana degli Esercizi spirituali insegna a distinguere la verità (delle consolazioni divine autentiche) dalle illusioni «sotto apparenza di bene» (nelle quali opera «il proprio amore, volere e interesse»: Es. Sp. 189), mediante una conoscenza affettiva, che san Tommaso chia-

6. Cfr M. Heidegger, Gelassenheit, Pfullingen, Neske, 1959 (in it. L’abban-dono, Genova, il melangolo, 1983).

7. Cfr Aristotele, Etica nicomachea, libro 5, cap. 2.

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ma «per connaturalità» (con il buono, il vero, il bello e con questa o quella virtù. Il Dottore Angelico presenta l’esempio della castità).

Dobbiamo notare che l’illusione (gli autori spirituali la chiamano sub angelo lucis, cioè l’angelo del male sotto l’apparenza di angelo di luce) non è un semplice errore né una bugia detta consapevolmente a un altro, ma è un auto­inganno non consapevole in modo rifles-so, che tuttavia non sempre esclude la cattiva fede, ma certamente la piena consapevolezza che ci si sta auto-ingannando, forse anche reprimendo colpevolmente la verità, come dice san Paolo in Rm 1,18.

Ma dopo le teorie critiche di quelli che Paul Ricœur chiama «i maestri del sospetto» (Marx, Freud, Nietzsche)8, l’affermazione ari-stotelica circa la necessità dell’appetito retto (Ignazio parla di libe-rarsi dagli «affetti disordinati») si estende a ogni conoscenza che im-plichi una interpretazione, quindi anche alla conoscenza scientifica di scienze che hanno un momento ermeneutico, come le scienze dell’uomo, della società, della storia, della cultura e della religione, comprese, ovviamente, la filosofia e la teologia9. Ora tutte queste, sebbene suppongano un sufficiente distacco critico dello scienziato da se stesso in quanto sono vere scienze10, tuttavia implicano sempre una auto­comprensione del soggetto che opera la ricerca scientifica. Quando la materia di queste scienze è l’esistenziale umano, non si tratta soltanto di «spiegarla» analiticamente — secondo diversi pro-cedimenti esplicativi: causale, strutturale, motivazionale ecc. —, ma anche e soprattutto di «comprendere» meglio l’uomo, la società, la storia, la cultura, la religione e così via, a seconda di quale scienza si tratti. Per ottenere ciò, si parte da una precomprensione già data, che viene criticata, modificata, approfondita usando la mediazio-

8. Cfr P. Ricœur, «La critique de la religion», in Bulletin du Centre Protestant d’Études 16 (1964) 5-16. In altri scritti riconosciamo Ignazio come «maestro del sospetto» avant la lettre.

9. Lonergan lo afferma a proposito di tutte le conoscenze, anche di quelle scientifiche, che si riferiscono al «mondo mediato dalla significazione e motivato dal valore». Cfr B. Lonergan, «Natural Rights and Historical Mindness», in F. Crowe (ed.), A Third Collection. Papers by Bernard J. F. Lonergan S.I., New York ­ London, Paulist Press, 1985, 169-183.

10. Cfr P. Ricœur, «Science et idéologie», in Revue Philosophique de Louvain 72 (1974) 326-356. Cfr anche J. C. Scannone, «La cientificidad de las ciencias sociales», in CIAS, Revista del Centro de Investigación y Acción Social, n. 378 (1988) 555-561, in cui si fa riferimento, tra gli altri, a questi e ad altri lavori di Ricœur e ad opere di Jean Ladrière, specialmente ai due primi volumi di L’articulation du sens, Paris, Cerf, 1970 e 1984.

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ne dei procedimenti esplicativi menzionati, fino a raggiungere una comprensione critica più profonda.

Ora, la precomprensione previa e la comprensione scientifi-ca ottenuta implicano sempre l’auto-comprensione del soggetto (perché è uomo e, in quanto tale, è implicato in esse) e le opzioni interpretative corrispondenti, senza che possiamo mai criticare in maniera riflessa tutti i nostri presupposti a mo’ di un sapere assoluto, come vorrebbe Hegel. Poiché siamo contingenti, siamo radicati in una natura, in una storia, in una cultura, in tradizioni alle quali ap-parteniamo, e la nostra appartenenza storica precede ogni distacco critico11, senza che possiamo distanziarci totalmente da noi stessi e dai nostri condizionamenti previ. Tuttavia siamo sufficientemen-te capaci di autocritica, e pertanto capaci di distinguere la verità dall’illusione, sebbene «con timore e tremore». Per di più, in quan-to credenti, lo siamo anche all’azione purificatrice e illuminatrice dello Spirito, che suppone la nostra libera accoglienza, purifica la nostra ragione pratica (cfr Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28), crea in noi la buona volontà e promuove, informa ed eleva il nostro «desiderio disinteressato di sapere» (come lo chiama Lonergan). San Tommaso parla del «desiderio naturale di vedere Dio».

Ma il disordine delle passioni (positive, come la superbia; ne-gative, come il timore) può deviare la conoscenza della verità, sfi-gurandola. Per esempio, a causa di interessi egoistici o di gruppo, della volontà di potere che desidera imporre idee o imporsi, del ti-more della novità inattesa o del futuro sconosciuto, che sono sem-pre una sfida e possono smuovere il piano della nostre (apparenti) sicurezze. Il proverbio dice che il timore è il peggiore consigliere: lo è non solo nelle decisioni pratiche, ma anche nelle affermazioni teoriche (quando esse suppongono il momento pratico di opzione ermeneutica per una determinata interpretazione o comprensione dell’elemento umano, storico, morale, sociale, politico, culturale, re-ligioso); e lo è soprattutto quando si tratta del timore della libertà (sia della propria, sia di quella dello Spirito Santo).

Da qui l’importanza di quella che Bernard Lonergan chiama

11. Cfr P. Ricœur, «La fonction herméneutique de la distanciation», in F. Bo-von ­ G. Rouiller (eds), Exegesis. Problèmes de méthode et exercises de lecture, Neuchâtel ­ Paris, Delachaux et Niestlé, 1975, 179-200.

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«conversione affettiva» (conversione da un affetto disordinato alla se-renità di lasciar essere la verità a se stessa). Per questo studioso del me-todo, essa è necessaria anche per la metodologia delle scienze sopra menzionate, in primo luogo per la teologia12. Quanto più lo è allora nelle decisioni della vita ordinaria, specialmente nella convivenza con gli altri, sia nelle relazioni personali, sia nelle «macro-relazioni», me-diate da istituzioni e strutture, perché, come insegna Benedetto XVI (cfr Caritas in veritate, n. 2), la carità deve informare entrambe.

Teniamo presente che la virtù teologale della carità si sperimen-ta esistenzialmente in stati d’animo, quali possono essere la serenità di Maestro Eckhart; la sua parente stretta, l’indifferenza ignaziana; e, di fronte a coloro che soffrono, l’atteggiamento (virtù) di miseri-cordia, raccomandato in continuazione da Papa Francesco.

Il timore, la casuistica astratta e il pensiero univoco

Il timore di una novità imprevista — propria dell’azione di Dio in quanto mistero libero e insondabile —, del rischio della libertà e dell’irriducibile alterità di ogni altra persona, immagine di Dio, spesso si riflette in un pensiero e in un linguaggio univoci, cioè non aperti alla trascendenza di Dio, dell’imprevedibile e degli altri, forse per timore di perdere sicurezze. In questioni morali, esso allora tende a rinchiudersi in una pura casuistica astorica e astratta, che astrae dai contesti reali e personali, li formalizza in semplici applicazioni sil-logistiche, riducendoli così a semplici «casi» di una regola generale. Forse per questo il cardinale Kasper, nella sua relazione introduttiva al Concistoro, parlando della paternità responsabile, afferma che «da qui risulta non una casuistica, ma una figura sensata vincolante, la cui realizzazione concreta è affidata alla responsabilità dell’uomo e della donna»13. Crediamo che un pensiero e linguaggio non ambiguo, ma preciso e aperto come quello dell’analogia tomista possa essere

12. Qui non possiamo sviluppare questo tema; perciò rimandiamo al nostro articolo «Afectividad y método. La conversión afectiva en la teoría del método de B. Lonergan», in Stromata 65 (2009) 173-186.

13. Cfr W. Kasper, Il vangelo della famiglia, Brescia, Queriniana, 2014, 19. Nelle pp. 45 s. l’autore contrappone «un caso da esaminare nell’ottica di una regola generale» alla considerazione della «dignità unica» della persona; cfr anche p. 77.

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utile per pensare ed esprimere questa «figura sensata» senza cadere né nella casuistica, né in un’etica della situazione14.

San Tommaso, per parlare del Dio trascendente, ricorre all’a-nalogia, che conserva l’affermazione di ciò che si dice di Dio (per esempio, che è saggio), la fa passare attraverso la negazione del nostro modo di parlare astratto-concreto (non è qualche concreto che ha sapienza, né è la stessa sapienza astratta) e la porta all’eminenza (non è saggio, ma è la saggezza stessa, però non astratta, ma personale e sussistente), aperta sempre oltre, al mistero sempre più grande15.

Dopo Kant ed Hegel, per confutare il loro errore mantenendo la parte di verità che entrambi hanno, l’analogia fu applicata anche a tipi di trascendenza diversi da quella divina, come la trascendenza della novità storica (propria della libertà divina e umana) e dell’al-terità unica e irripetibile di persone e culture, affinché pensiero e linguaggio rimanessero — come dice Papa Francesco — «aperti», senza smettere per questo di mostrare — nel caso della novità — la continuità analogica del nuovo con il vecchio e — nel secondo caso — la continuità di ogni persona umana nella sua dignità irriducibile e di ogni popolo e cultura con le altre persone, popoli e culture, per il semplice fatto di esserlo (secondo una stessa natura posseduta analogamente)16. Si rimane aperti al nuovo e al trascendente, sen-

14. Anche in questioni di morale sociale Arthur Friedolin Utz non ricorreva alla casuistica univoca, ma all’analogia.

15. Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologica, I, q. 13; Id., De Potentia, q. 7, a. 5, ad 2: in questo testo san Tommaso, seguendo Dionigi, presenta l’esempio di chiamare Dio «saggio»; quando lo chiama, per eminenza, «supersaggio», il «su-per» non si deve intendere in forma quantitativa ed estensiva, come quando si parla di «Superman», ma deve passare attraverso la negazione del nostro modo catego-riale di pensare e di parlare, pur usando le categorie, ma trascendendole. Jean-Luc Marion, nella sua opera De Surcroît, Paris, 2001, fa notare il momento pragmatico dell’eminenza in Dionigi, usata in un contesto di lode divina; già Marie-Domi-nique Chenu si riferiva all’incrocio del semantico e del pragmatico, nell’analogia tomista dei nomi di Dio, nei suoi appunti L’ontologie théologienne de Saint Thomas d’Aquin, Institut Catholique de Paris, s/d.

16. Nella sua opera Analogie und Geschichtlichkeit, Freiburg – Basel - Wien, Herder, 1979, Lorenz B. Puntel offre una rilettura dell’analogia posteriore a Kant, Hegel ed Heidegger; da parte nostra, la continuiamo, tenendo presente anche l’er-meneutica di Ricœur e la pragmatica del secondo Wittgenstein, nel cap. 7 della nostra opera Religión y nuevo pensamiento. Hacia una filosofía de la religión para nuestro tiempo desde América Latina, Barcelona – Ciudad de México, Iztapalapa, 2005; cfr anche il nostro articolo «Nuevo pensamiento, analogía y anadialéctica», in Stromata 68 (2012) 33-56.

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za cadere nell’equivoco e quindi nell’ambiguità e nel relativismo, e non si astrae formalisticamente dal contesto storico e culturale, né dalle differenze (di persone e situazioni, nella loro identità irridu-cibile alla generalizzazione formale, che le ridurrebbe ad essere un semplice caso), con la pretesa di dominare e controllare la realtà, livellandola univocamente.

Ma anche qui il momento pragmatico dell’atteggiamento esi-stenziale o stato d’animo è fondamentale: il desiderio di voler con-trollare tutto o il timore di sfide che non si possano controllare chiu-dono una verità aperta e trascendente, deviandola e sfigurandola. L’analogia tomista permette di rispettare al tempo stesso l’«unicità» del singolare nella sua trascendenza rispetto a ogni generalizzazio-ne univoca e astratta, e l’«universale» (analogico) che abbraccia e trascende tutte le singolarità personali e tutte le situazioni storiche e/o culturali.

Quando Kasper fa riferimento a una «ermeneutica animata dall’amore pastorale»17 — che si contrappone all’ermeneutica del ti-more18 — di fatto unisce un’ermeneutica analogica19 con la conside-razione — indicata sopra — dell’importanza pragmatica dello stato d’animo. E nello stesso contesto allude alla prudenza aristotelico-tomista, e questo ci fa ricordare ciò che è stato detto sopra riguardo alla necessità, per esercitarla, dell’«appetito retto» (essere liberi dalle «affezioni disordinate», secondo Ignazio di Loyola; la «conversione affettiva», secondo Lonergan).

Approfondimento teologico della riflessione filosofica

Prima abbiamo menzionato la «conversione affettiva» che Lo-nergan considera necessaria anche per il metodo (scientifico e cri-tico) della teologia come scienza20. Il culmine di essa è la conver-

17. W. Kasper, Il vangelo della famiglia, cit., 46.18. Cfr ivi, 70.19. Maurizio Beuchot ha scritto il Tratado de hermenéutica analógica, México,

Itaca, 20094. Egli e i suoi discepoli applicano questa ermeneutica anche a quella teologica e giuridica. Kasper parla di una «ermeneutica giuridico-pastorale» (Il vangelo della famiglia, cit., 46).

20. Nella sua opera Method in Theology, New York, Herder and Herder, 1972 (in it. Il metodo in teologia, Roma, Città Nuova, 2007), Lonergan, parla, oltre

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sione religiosa cristiana alla fede che opera per mezzo della carità. Ebbene, questa conversione è forse molto più necessaria a livello della teologia come «sapienza», e non solo come scienza, sia in un primo momento di discernimento contemplativo e/o pastorale della verità, sia in un secondo momento, quello dell’apertura di un nuovo orizzonte di comprensione, grazie a tale conversione21. La ragione, illuminata dalla fede e formata dalla carità, esplicita l’orizzonte ap-pena menzionato in un nuovo paradigma — della cui necessità parla Kasper —, usando allora nuove categorie o rileggendo quelle pre-cedenti, sebbene, nel livello sapienziale, le usi di fatto e nella pratica, senza riflettere teoricamente su di esse in quanto tali.

Allora la ragione opera liberamente per riconoscere la verità pratica (e anche quella teoretica) senza che le deviazioni la sfigu-rino ideologicamente, a causa del disordine degli affetti. Inoltre, la ragione allora si lascia guidare in definitiva dal desiderio disinteres-sato di conoscere la verità, ma ora si tratta della Verità nella Carità: desiderio che non è altro che la risposta al Chiamato dalla stessa Verità che ci ha amati per primo22.

Quello che — a livello filosofico — la filosofia analitica chia-ma «il momento pragmatico della conoscenza e del linguaggio», e la fenomenologia descrive come lo stato d’animo di serenità che accompagna lo svelamento della verità (a-letheia) corrisponde, per una comprensione trinitaria della realtà, allo Spirito di Amore che, come la seconda mano del Padre, accompagna sempre il Verbo di Verità e senza la cui luce e forza non è possibile riconoscere quest’ul-timo come la Rivelazione del Padre. Questa stessa interazione («cir-cumsessione») trinitaria si riproduce in ogni discernimento storico

che delle conversioni intellettuale ed etica, della conversione religiosa: in seguito, nell’articolo citato nella nota 8, considera quest’ultima come il terzo e ultimo passo della conversione affettiva, i cui passi precedenti sono la conversione intrafamiliare e la conversione all’altro in quanto tale.

21. A nostro avviso, questi due momenti corrispondono, nella dimensione sapienziale, alle specializzazioni funzionali «dialettica» e «fondamenti» del metodo della teologia come scienza secondo Lonergan.

22. Sant’Ignazio, nel terzo tempo dell’elezione, ricorre alla ragione illuminata dalla fede, che è confermata, nel secondo tempo, dall’affettività o stato d’animo che l’accompagna, in quanto coincide con il Chiamato primo della carità (denominato da lui «consolazione senza causa precedente»), proprio del primo tempo dell’elezione: cfr Es. Sp. 175-178.

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del Chiamato dal Padre, e così si può cercare e trovare la Verità nella Carità in ogni situazione e avvenimento.

Gli stati d’animo fondamentali («Grundstimmungen») nella Chiesa

Infine, ispirandoci a von Balthasar, vorremmo distinguere chia-ramente il timore negativo, di cui abbiamo parlato sopra citando «l’ermeneutica del timore» alla quale fa riferimento il cardinale Ka-sper, dalla funzione essenziale (sebbene non sia la più essenziale) che nella Chiesa ha il timore di essere infedeli alla tradizione. Per questo ci può aiutare l’ecclesiologia tipologica del famoso teologo svizzero, il quale distingue «princìpi» o «tipi» ecclesiali che corrispondono anche a differenti «accenti» negli stati d’animo vissuti da differenti membri della Chiesa, con differenti carismi e funzioni nel popolo fedele di Dio. Non intendiamo esporre qui ciò che von Balthasar dice del principio petrino, paolino e giovanneo nella Chiesa, ma solo ricordare la funzione essenziale che ha il principio «giacobeo» (il cui prototipo biblico è Giacomo il minore) come custode della tradizione23.

Ebbene, von Balthasar afferma anche che tutti i cristiani e le cristiane condividono il principio mariano, in quanto Maria è ma-dre, immagine e prototipo di tutta la Chiesa e di ciascuno di noi nella Chiesa e in quanto Chiesa. Così che quelli che in essa hanno il carisma, il compito e la funzione di Giacomo non cessano di par-tecipare innanzitutto al principio mariano e al suo corrispondente stato d’animo di amore disinteressato per tutti e per ciascuno degli altri, e di misericordia materna verso quelli che soffrono. Per cui non soltanto sono capaci di fare e riconoscere una «teologia serena», «fatta in ginocchio», ma il loro timore fondato di essere infedeli alla tradizione non è mai il timore della libertà — cattivo consigliere —, ma fa parte dell’avvicinamento comunitario del popolo di Dio alla verità nella carità, e pertanto saprà anche riconoscere oppor-tunamente la voce che dice alla Chiesa ciò che Gabriele disse alla Vergine: «Non temere, Maria!».

23. Cfr H. Urs von Balthasar, Theodramatik II e III, Einsiedeln, Johannes Verlag, 1978 e 1980 (in it. Teodrammatica, Milano, Jaca Book, 1980­1983).

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IL DIBATTITO SULLA RESIDENZA DEI VESCOVI AL CONCILIO DI TRENTO

Giancarlo Pani S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 433-443 | 3935 (7 giugno 2014)

L’opera disciplinare del Concilio di Trento presenta nell’ultimo periodo, dal 1562 al 1563, una grossa novità. Lo «spirito» che anima l’assemblea conciliare si rinnova, orientando decisamente la Chiesa verso la sua missione pastorale: salus animarum suprema lex esto1. I protagonisti della svolta sono i vescovi, l’affermazione dei loro do-veri e poteri, ma soprattutto il loro coinvolgimento nella cura della vita cristiana dei fedeli: il pastore deve avere a cuore il gregge af-fidatogli dal Signore. Tale orientamento, di per sé antichissimo e fondamentale nella storia della Chiesa, è tuttavia all’origine di alcu-ne difficoltà che emergono già all’inizio e che si sarebbero protratte fino alla conclusione dei lavori. Una di queste è il dibattito sul do-vere della residenza dei vescovi nella propria diocesi. Il problema ha costituito una forte remora per l’approvazione del decreto di rifor-ma della Chiesa. Anzi, nel terzo periodo il dibattito sulla residenza è diventato così rovente da provocare contrasti irriducibili, rischiando di paralizzare il proseguimento stesso del Concilio.

La ragione dello stallo era dovuta alla resistenza incontrata per risolvere il problema dell’assenza dei vescovi dalle loro diocesi: un’assenza voluta, cercata, prolungata, talora per i più futili moti-vi. Essa era determinata fondamentalmente dal cumulo dei benefici concentrati nella stessa persona; poi dalle cariche nella Curia roma-na e nelle corti principesche; infine dalla facilità con cui si poteva-no ottenere le dispense. La trascuratezza nella vita pastorale della Chiesa e la leggerezza con cui si eludevano gli obblighi canonici

1. H. Jedin, «Il significato del Concilio di Trento nella storia della Chiesa», in Gregorianum 26 (1945) 117-136, in particolare 128.

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completano il panorama, a cui va aggiunta l’esenzione dalla giu-risdizione episcopale dei capitoli cattedrali e degli Ordini religiosi.

I Papi chiamati in causa addossano la colpa degli abusi all’in-gerenza dei prìncipi negli affari ecclesiastici. Gli Stati nazionali emergenti cercano di controllare la gerarchia della Chiesa, senza preoccuparsi della cura pastorale, ma riservandosi di attribuire i be-nefici maggiori ai loro favoriti. L’esempio francese fa scuola. Con il Concordato del 1516, viene conferito al re Francesco I il potere di assegnare vescovadi e abbazie, che vanno ovviamente ai suoi pro-tetti, con un rapido aumento del cumulo in una stessa persona.

Gli eccessi sono noti. Il cardinale François de Tournon aveva ben 10 abbazie in commenda2. Il cardinale Giovanni di Lorena ave-va tre arcivescovadi e nove vescovadi, insieme alle più importanti abbazie della Francia. Le ereditò il nipote, Charles de Guisa, uno dei protagonisti riformatori dell’ultimo periodo di Trento3. Alberto di Brandeburgo, il vescovo che è alle origini della predicazione delle indulgenze in Germania e delle «Tesi» di Martin Lutero, aveva già due vescovadi, quello di Magdeburgo e di Halberstadt (di cui era amministratore apostolico), ma riuscì ad accaparrarsi anche il ter-zo, quello di Magonza, dove divenne arcivescovo elettore nel 1514, all’età di 24 anni4: era la sede politicamente più importante della Germania. Per la terza diocesi dovette chiedere una onerosa dispen-sa, dato il cumulo di tre vescovadi, un fatto insolito in Germania. Nel 1556, dopo che Paolo III e lo stesso Concilio avevano proibito il cumulo dei benefici5, Alessandro Farnese, nipote del Papa, godeva il possesso di 10 vescovadi, 26 monasteri e 133 benefici6. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

2. J. Verkruysse, «Causa reformationis». La storia della Chiesa nei secoli XV-XVI, Roma, Pont. Univ. Gregoriana, 20145, 39.

3. A. Tallon, Il Concilio di Trento, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2004, 67 s.

4. L’età canonica per essere ordinati vescovi era di 27 anni.5. H. Jedin, Storia del concilio di Trento, II. Il primo periodo 1545-1547, Brescia,

Morcelliana, 19742, 412. 6. E. Iserloh, «Martin Lutero e gli esordi della Riforma (1517-1525)», in H.

Jedin, Storia della Chiesa. VI. Riforma e Controriforma. Crisi - Consolidamento - Diffusione missionaria (XVI-XVII secoli), Milano, Jaca Book, 1975, 9.

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IL DIBATTITO SULLA RESIDENZA DEI VESCOVI AL CONCILIO DI TRENTO

Il problema della residenza

Come è possibile — ci si chiede — che si sia giunti al punto che un ovvio principio quale il dovere del vescovo di risiedere nella propria diocesi diventi un problema così grave da mandare a monte un Concilio? E come si poteva essere vescovi di una diocesi, se non ci si trovava presso i fedeli da curare, evangelizzare e sostenere con i sacramenti? La presenza del vescovo nella diocesi è certamente un problema centrale per la riforma della Chiesa, tanto che al Concilio l’arcivescovo Giambattista Castagna, il futuro Urbano VII, dichiara che senza la residenza del pastore nella diocesi non può esserci alcu-na riforma nella Chiesa7.

Ma non è solo una questione di disciplina ecclesiastica. Nel 1547 — quindi all’epoca del primo periodo del Concilio — il domenicano Bartolomé Carranza, poi arcivescovo di Toledo, pubblica un trat-tato sul dovere di residenza dei vescovi. Fondandosi sulla Bibbia, lo difende quale ius divinum; inoltre rinvia al rito della consacrazione episcopale per confermare che l’impegno di risiedere è legato all’uf-ficio di pastore in quanto tale8; esso quindi non dipende dal diritto canonico, ma direttamente da Dio9.

Nello stesso anno, Ambrogio Catarino, un famoso domenica-no, divulga un saggio in cui confuta gli argomenti di diritto divino circa l’obbligo della residenza: esso deriva dalla stessa autorità che conferisce la consacrazione episcopale, cioè dal Papa. Non si tratte-rebbe quindi di ius divinum, ma di una legge canonica10.

Nel 1551, infine, il problema dello ius divinum circa la residenza dei vescovi viene collegato direttamente alla ecclesiologia. Il gesuita

7. Concilium Tridentinum Acta, [= CT] VIII, sessione del 7 aprile 1562, Friburgi Brisgoviae, Herder & Co., 1919, 411; cfr H. Jedin, «La lotta intorno all’obbligo di residenza dei vescovi - 1562/63», in Id., Chiesa della fede - Chiesa della storia, Brescia, Morcelliana, 1972, 304.

8. Nel rito della consacrazione episcopale è detto: Episcopum oportet iudicare, interpretari, consecrare, offerre, baptizare et confirmare; inoltre il consacrato riceve il mandato di predicare il Vangelo: Accipe Evangelium et vade, praedica populo tibi commisso. Cfr H. Jedin, «La lotta intorno all’obbligo della residenza dei vescovi - 1562/63», cit., 295.

9. Controversia de necessaria residentia personali episcoporum et aliorum inferiorum pastorum [...] explicata, Venetiis, Ad Signum spei, 1547.

10. Tractatio quaestionis, quo iure episcoporum residentia debeatur, Venetiis, apud Gabrielem Iolitum de Ferrariis, 1547.

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spagnolo Francisco de Torres, nel De residentia pastorum iure divino, sostiene che il vescovo riceve l’ufficio direttamente da Dio, in quan-to il Papa che gli assegna la diocesi è un ministro11. Il comando del Signore a Pietro, «Pasci le mie pecore», è diretto a tutti i pastori me-diante il Papa. L’obbligo della residenza viene così a incidere anche nel rapporto tra il primato del Papa e il potere dei vescovi. In altre parole, se l’obbligo di risiedere è di diritto divino, esso fonda non solo il dovere della residenza nella diocesi, ma anche quello dell’au-torità episcopale, che sarebbe derivata immediatamente da Dio e non dal Papa. In tal caso, nessuna dispensa sarebbe stata permessa, risultando anzi essa un abuso di potere.

Insomma, nel Concilio, quanto più i vescovi riformatori si fa-cevano intransigenti circa lo ius divinum quale soluzione per la ri-forma della Chiesa, tanto più duro diventava l’atteggiamento dei curiali difensori del papato e del suo potere primaziale. Il contrasto provoca una situazione di paralisi del Concilio e, proprio a diciotto anni dalla sua apertura, il rischio di un clamoroso fallimento12.

Il primo periodo del Concilio (1545-47)

In tutti e tre i periodi del Concilio, i decreti di riforma della Chiesa, dove è incluso il dovere della residenza, si trovano sotto il titolo De reformatione. Non costituiscono un corpo sistematico, ma è chiaro che convergono su un punto fondamentale per la cura pastorale: la presenza del pastore nella propria diocesi. Nel primo periodo, esso appare nella VI sessione del gennaio 1547, dopo la promulgazione del Decreto sulla giustificazione. Vi si ricordano i do-veri e gli uffici dei vescovi: l’esortazione a osservare il precetto ca-nonico tradizionale che richiede di risiedere nella diocesi, e vi com-pare pure una serie di pene per chi si assenta. Inoltre nella sessione seguente si proibisce il cumulo di benefici incompatibili.

L’obbligo della residenza, unito al rafforzamento dell’autorità

11. De residentia pastorum iure divino scripto sancita, Florentiae, Torrentinus, 1551.

12. Cfr i particolari in L. Castano, «Pio IV e la Curia Romana di fronte al dibattito tridentino sulla residenza», in Xenia Piana. Miscellanea Historiae pontificiae, VII, Roma, Herder, 1943, 139-175.

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episcopale, richiede pure al vescovo la visita pastorale ogni anno alle chiese della diocesi, comprese quelle affidate ai religiosi esenti. Vi appare anche il concetto, antico nella Chiesa e allora dimentica-to, che il vescovo è sposo di un’unica Chiesa e perciò porta l’anel-lo pastorale; quindi non può allontanarsi, né separarsi dalla propria sede per un’altra13. La decisione finale circa l’attuazione del precetto è tuttavia riservata al Papa; e sono previste pure dispense, contro il parere dei padri conciliari più intransigenti. Questi, per lo più spagnoli, esigevano che fosse chiaramente definito l’obbligo della residenza come di diritto divino (ius divinum), in modo da escludere qualsiasi dispensa.

Nella sessione, il gesuita spagnolo Alfonso Salmerón tenne un’omelia in cui presentava quale modello di vescovo l’evangelista Giovanni. La dedizione al Signore dell’apostolo dell’amore era la sorgente dello zelo pastorale, a cui si univa l’imitazione di Cristo. La franchezza con cui egli parlò sul dovere dei pastori di curare il gregge, di annunciare il Vangelo e di farsi amare dai fedeli piut-tosto che farsi temere, fu apprezzato, ma… non sortì alcun effetto. Concretamente il decreto rimase lettera morta. Lo storico Giuseppe Alberigo commenta con poche, ma incisive parole: «Il decreto fece un buco nell’acqua, non solo perché i papi non ne erano vincolati, ma perché era il vero tipo di programma minimo che non colpiva il fondo della questione, e sfiorava appena i grandi compiti positivi»14.

Il secondo periodo (1551-52)

Anche nel secondo periodo del Concilio il decreto sulla riforma viene ripreso, e riguarda prevalentemente la missione dei vescovi. Essi devono essere pastores, non percussores15, cioè pastori che, nella

13. «... Ut episcopi in ecclesiis [...] residendo oves sibi commissas, prout docet, exemplo et sermone pascere possint. [...] Quilibet [episcopus] sit unica sponsa contentus» (CT V/2, Friburgi Brisgoviae, Herder & Co., 1911, 839: sessione del 17 gennaio 1547).

14. H. Jedin, «Il concilio di Trento e Luis de Granada», in H. Jedin - G. Alberigo, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, Brescia, Morcelliana, 1985, 62.

15. CT VII/1, Friburgi Brisgoviae, Herder & Co., 1961, 204, con rinvio a 1 Pt 5,2-4, 1 Tm 3,3; Tt 1,7 (sessione dell’11 ottobre 1551).

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giurisdizione e nel governo della diocesi, trattano i fedeli come figli e fratelli, e non tiranni che impongono la disciplina mortificando il popolo. Il Concilio stabilisce norme sull’ordinazione sacerdotale e princìpi basilari: il dovere di vigilanza sul clero e alcune attenzio-ni nei loro confronti. I sacerdoti vanno esortati ad essere vicini ai fedeli con la parola e con la carità, con l’esempio e la santità di vita, mostrandosi «ministri di Dio».

Ottime direttive, ma, alla sospensione del Concilio (per una guerra che incombe), il generale degli agostiniani, Girolamo Seri-pando, fa un bilancio amaro: «Il Concilio non sta bene così, perché pare che non habbi havuto null’effetto né quant’alle cose della fede [...] né quant’alle cose della riforma, della quale non è seguito effetto alcuno»16. Nel 1556, a Roma si contano 113 vescovi che non risie-dono nella loro diocesi, e nel 1559, dopo l’elezione di Pio IV, sono ancora 7017.

Il terzo periodo (1562-63)

Il decreto sulla riforma è ripreso nel terzo periodo del Conci-lio, e viene riformulato in modo più rigoroso. Accanto ai problemi teologici fondamentali, quali l’origine dell’episcopato, i suoi poteri, il rapporto del vescovo con il Papa e il carattere dell’ordinazione sacerdotale, vi compare per la prima volta, strettamente collegato, il dovere della residenza. Lo ius divinum sembra essere l’unica ga-ranzia sia dell’origine dell’episcopato, sia dei doveri pastorali che ne derivano. Di qui le critiche e le controversie, tanto che le discussioni sul problema della residenza paralizzano i lavori del Concilio per diversi mesi, fino al luglio del 1563. Su un punto tuttavia converge l’accordo della maggior parte dei padri: il dovere della residenza dei vescovi è riconosciuto un rigoroso obbligo di coscienza e di responsabilità per la cura animarum.

Il problema che segna la spaccatura del Concilio è un altro: ci si interroga su quale sia il fondamento ecclesiologico della residenza.

16. J. Kögl, Breve Diarium S. Concilii Tridentini, Trento, Artigianelli, 1947 (Supplementum «Folium Diocesanum Tridentinum», 20, 1945, n. 11), 44.

17. Cfr J.-R. Armogathe - Y.-M. Hilaire, Histoire générale du christianisme du XVIe siècle à nos jours, II, Paris, Quadrige-Puf, 2010, 140.

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I curiali e molti vescovi italiani lo considerano un obbligo di diritto canonico. Ne segue che sono permesse le dispense e le deroghe da parte del Papa. E quindi — nessuno lo afferma, ma appare chiaro — tutto può diventare lecito o comunque permesso, una volta otte-nute le adeguate dispense. Gli intransigenti, invece, sostenitori del diritto divino, in particolare i vescovi spagnoli e molti francesi, tra cui Charles de Guisa (il quale però è presente nel Concilio solo dalla fine del 1562), ritengono impossibile qualsiasi dispensa. Anzi essi affermano che l’obbligo della residenza, poiché si fonda sul diritto divino, sarebbe il «vero rimedio» contro gli innumerevoli abusi che continuano a verificarsi. Tra gli spagnoli, l’arcivescovo di Granada, il capopartito, non accenna minimamente a mettere in discussione il problema o a fare un passo indietro.

I curiali tuttavia ribadiscono che lo ius divinum è eccessivo, perché privo di un chiaro fondamento biblico. Inoltre esso ha una conseguenza che riguarda direttamente il potere del Papa: lo limita considerevolmente ed è lesivo della sua autorità.

La mediazione del nuovo presidente

A questo punto interviene la mediazione del cardinal Morone, da poco nominato legato papale e presidente del Concilio, che deve affrontare la prima sfida con l’assemblea tridentina. Il problema del-la residenza sembra irrisolvibile, con gravi conseguenze qualora non si trovi una soluzione. Il Morone revisiona il testo su cui, nel dicembre precedente, il Concilio si era arenato: propone quale ius divinum l’obbligo di coscienza dei doveri episcopali, ma non lega il dovere della residenza in modo esplicito allo ius divinum. Si passa così «dalla norma alla coscienza, dalla regola al senso di responsabi-lità personale»18.

Dopo un dibattito estenuante si trova una sorta di compro-messo nella formula divino praecepto mandatum, che si fonda su innumerevoli passi del Nuovo Testamento19. Il praeceptum viene così a sostituire lo ius divinum circa il problema della residenza. Di

18. J. W. O’Malley, Il racconto del concilio, Milano, Vita e Pensiero, 2013, 189. 19. CT IX, Friburgi Br., Herder & Co., 1924, 623. Il praeceptum divinum

rinvia a Gv 10,1-16; 21,15-17; 1 e 2 Tm; Tt (sessione XXIII, del 15 luglio 1563).

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per sé si tratta di una modifica solo formale, definita addirittura dagli storici «puramente cosmetica»20, ma essa viene interpretata come un possibile punto di incontro, anche se traballante, tra gli intransigenti e i curiali.

La diplomazia del Morone fa passi in avanti: dopo aver ri-chiesto l’appoggio dell’imperatore, egli cerca anche il sostegno di Pio IV, da cui desidera un fermo sì o no alla formula del decreto sulla residenza. Ma il Papa, cogliendo l’ambiguità della norma, temporeggia prima di rispondere. Il presidente allora decide di agire di propria iniziativa, con una tattica di negoziati con gli esponenti più rappresentativi delle correnti conciliari. A suo pa-rere, occorre ribadire la struttura gerarchica della Chiesa senza entrare nel merito della delicata questione dell’origine dell’au-torità episcopale, se provenga direttamente da Dio o dal Papa; e, nel frattempo, occorre insistere sul dovere della residenza che lega il pastore al proprio gregge.

Va qui ricordato anche l’intervento del generale dei gesuiti, Gia-como Laínez, il quale decide di affrontare la discussione parlandone apertamente il 9 luglio 1563, alla vigilia della sessione. Il Laínez, «che era un po’ l’oracolo del Concilio»21, spiega che la ricerca di un compromesso sarebbe la strada migliore da seguire: «Tra i cattolici si danno diverse opinioni sulla questione se la residenza e l’autorità episcopali discendano dalla legge divina e da Cristo. Il modo di affrontare questa situazione non consiste nel condannare una delle opinioni, perché farlo significherebbe condannare un gran numero di cattolici. In casi del genere è più sicuro stare in silenzio. Nell’in-teresse della concordia possiamo accettare questi decreti, sebbene il loro linguaggio sia a volte ambiguo»22. L’intervento ha un risultato imprevisto, causando un grande cambiamento di pareri tra i prelati. In tal modo gli spagnoli e i francesi non sono scontenti e i curiali non negano il loro assenso. Ma il vero artefice del dialogo fra i due gruppi è stato il Morone.

20. J. W. O’Malley, Il racconto del concilio, cit., 189 s.21. C. Marcora, Storia dei Papi da san Pietro a Giovanni XXIII, III. Da

Bonifacio VIII a Pio IV, Milano, Ed. Librarie Italiane, 650.22. CT III/1, Friburgi Brisgoviae, Herder & Co., 1931, 688.

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L’approvazione del decreto

La disposizione sulla residenza viene così inserita come primo capitolo nel decreto di riforma e portata all’approvazione dei padri conciliari il 15 luglio 1563. Essa non risolve il problema di fondo, e nemmeno chiarisce quale sia l’origine dell’episcopato, ma propone una mediazione efficace tra le due fazioni opposte. Non si parla di ius divinum, e nemmeno di ius canonicum, ma di praecepto divi-no mandatum. Di fatto è un compromesso tra coloro che volevano l’obbligo della residenza come diritto divino e coloro che invece lo volevano come diritto canonico.

Il testo recita: «Poiché con precetto divino è stato comandato a tutti quelli cui è stata affidata la cura delle anime di conoscere le proprie pecore, di offrire per esse il sacrificio, di pascerle con la pre-dicazione della parola divina, con l’amministrazione dei sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona, di avere una cura paterna per i poveri e per gli altri bisognosi e di attendere a tutti gli altri doveri pastorali — cose tutte che non possono essere fatte e compiute da quelli che non vigilano sul proprio gregge e non lo assistono, ma lo abbandonano come mercenari —, il santo sinodo li ammonisce e li esorta, perché, memori dei divini precetti e divenuti esempi del gregge, lo pascolino e lo reggano nella saggezza e nella verità»23.

Si propone quindi come ideale di vescovo non solo chi annuncia il Vangelo e amministra i sacramenti, ma anche colui che guida e soccorre i fedeli, i poveri, i bisognosi e chiunque necessiti di un so-stegno. Poi il testo conclude: «Tutti coloro che sono capi di chiese, anche se cardinali, sono obbligati alla residenza personale nella loro chiesa o diocesi»24.

Il decreto De reformatione viene approvato nella stessa seduta del 15 luglio 1563, con 231 voti favorevoli e 11 contrari: i voti contrari riguardano tutti il decreto sulla residenza e indicano che gli irridu-cibili non si sono arresi25. L’indirizzo generale e il criterio di fondo sono la cura pastorale e la salvezza delle anime. I vescovi (cioè gli ordinarii loci) devono risiedere nella diocesi e averne la responsa-

23. CT IX, cit., 623. 24. Ivi.25. CT IX, cit., 632.

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bilità: hanno la giurisdizione per governare la diocesi e possono imporre la disciplina. La riforma tuttavia inizia dalla testimonianza della loro vita, e si parla di frugalità e di modestia, di continenza e di umiltà, di abitazione discreta e perfino di suppellettili semplici, di mensa e vitto da poveri: «Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare il proprio interesse, né per procu-rarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. [...] I fedeli saranno più facilmente incitati alla reli-gione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste. Il santo sinodo comprende che questi princìpi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina della Chiesa»26.

Il decreto contiene inoltre le regole da seguire per assentarsi le-gittimamente dalla diocesi e prevede pene, anche pecuniarie, per i trasgressori.

Nella stessa seduta viene approvato il decreto dottrinale: vi si afferma che l’Ordine è un sacramento istituito da Cristo e che la Chiesa è una struttura gerarchica; i vescovi sono di grado superiore rispetto ai presbiteri, e i vescovi nominati dal Papa sono veri vesco-vi. Il decreto evita qualsiasi cenno sul primato papale, riaffermando la dottrina tradizionale dell’insegnamento della Chiesa.

La paralisi del Concilio viene meno e il lavoro dei padri può finalmente proseguire e raggiungere il traguardo finale da anni de-siderato e auspicato: la riforma della Chiesa.

Conclusione

Il 4 dicembre 1563, il Concilio di Trento giungeva alla sua con-clusione: erano passati diciotto anni dalla prima seduta. Forse mai un Concilio era durato così a lungo. Tanto ardentemente richiesto e tanto a lungo evitato, sciolto due volte e altrettante volte riconvo-cato, scosso dalle tempeste dell’impero e dalla contestazione dei lu-

26. Cfr il decreto De reformatione, in CT IX, cit., 623-625; il canone è ripreso tale e quale nella redazione finale del 18 novembre: ivi, 1033 s.

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IL DIBATTITO SULLA RESIDENZA DEI VESCOVI AL CONCILIO DI TRENTO

terani, ancora pieno di pericoli alla terza convocazione, finalmente il Concilio di Trento si chiudeva nella concordia generale.

Se si esamina il decreto De reformatione nel suo complesso, si possono distinguere due punti fondamentali: il primo e più genera-le è la salvezza delle anime come legge assoluta; il secondo concerne la missione del «pastore» nella Chiesa, da cui discendono le funzioni dei presbiteri. Fin dall’inizio del Concilio si può osservare che, no-nostante le difficoltà e le incomprensioni, Trento cerca di fare dei vescovi il cardine dell’opera di riforma pastorale; i contemporanei non lo hanno compreso immediatamente — un’impressione, que-sta, che durerà a lungo —, ma appare chiaro nell’ultimo periodo. Guardando i fatti in prospettiva storica, oggi si può affermare che gli artefici principali della riforma di Trento sono stati proprio i vescovi. Il decreto sulla riforma ha imposto non solo al Concilio, ma alla Chiesa post-tridentina, una nuova direzione e ha costituito la prima vera testimonianza di riforma cattolica. La proposta poi di creare in ogni diocesi un seminario per la formazione del clero, benché non immediatamente attuata, fu l’altro passo decisivo.

Un fatto nuovo, alla conclusione del Concilio: i vescovi ritor-nano nelle loro case, o meglio nelle loro sedi. Due legati papali, Stanislao Hosius e il cardinale Bernardo Navagero, non si dirigono a Roma, ma ritornano nelle proprie diocesi. Era, questo, un primo segno di obbedienza ai decreti del Concilio: si impegnavano a ri-siedere nella propria diocesi27. La residenza era divenuta un princi-pio chiaro, più che una norma ecclesiastica o una regola canonica: dipendeva dalla coscienza del vescovo, ma era parte essenziale della missione episcopale28.

27. C. Marcora, Storia dei Papi…, cit., 658.28. Il dovere della residenza porterà in seguito a discutere il tema dei vescovi

titolari e della loro presenza nella Chiesa: si tratta cioè dei vescovi di una diocesi che si è estinta, o è stata soppressa, o non è mai stata diocesi residenziale, oppure diversamente istituita. Oggi è il caso dei vescovi curiali, degli ausiliari e dei nunzi apostolici.

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L’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE E IL FUTURO DELL’UMANITÀ

Marc Rastoin S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 I 444-456 | 3935 (7 giugno 2014)

Di recente la notizia che il Governo cinese ha rivisto la sua po-litica detta «del figlio unico» ha impressionato molti. La politica ci-nese simboleggiava, ben più di molti discorsi, ciò che era percepito come la più grande minaccia incombente sull’umanità in relazione al piano demografico: la crescita eccessiva della popolazione. Non-dimeno, quattro anni fa, un rapporto dell’Onu indicava già che l’in-vecchiamento accelerato della popolazione mondiale sarebbe stato la grande sfida dei decenni a venire (World Population Ageing 2009), soprattutto considerando l’esiguo numero di giovani che avrebbe dovuto reggere questo potenziale fardello sociale.

Nei Paesi occidentali, tuttavia, il rumore di fondo mediatico risuo-na già da 40 anni — si veda il rapporto del Club di Roma del 19721 — di grida d’allarme per la crescita pericolosa della popolazione mondiale. Questo dato psicologico è anche affermato da alcune coppie europee per avvalorare la loro scelta di non avere figli. Tuttavia oggi i demogra-fi sono ancor più colpiti dalla decrescita impressionante della fertilità su scala planetaria2. Occorre attribuire questa differenza al ritardo dei media nel comprendere ciò che dicono gli esperti? Come sono potute cambiare le cose fino a questo punto negli ultimi due decenni?

Il modello della «transizione demografica»

Dobbiamo ripercorrere rapidamente i grandi momenti dell’e-voluzione della demografia umana. Tutti i manuali descrivono con

1. Cfr D. H. Meadows - D. L. Meadows - J. Randers - W. W. Behrens III, The Limits to Growth, New York, Universe Books, 1972.

2. Cfr i libri recensiti nella rivista Books nel dicembre 2013: «La Terre va-t-elle manquer d’hommes? Un milliard de moins en 2100».

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INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE E FUTURO DELL’UOMO

semplicità gli avvenimenti del passato. L’umanità ha conosciuto, nel corso di tutta la sua storia e fino a tempi molto recenti, una situa-zione di fortissima natalità e di altrettanto fortissima mortalità. La crescita della popolazione è stata lenta e spesso frenata da catastrofi sanitarie (come, ad esempio, la peste nera del 1347, che provocò la scomparsa di oltre un terzo della popolazione europea) o dalle guerre. Poi, in un secondo tempo, i progressi della medicina han-no consentito di ottenere un calo della mortalità, dapprima assai lento, tra il 1750 e il 1900, in seguito molto rapido. In questa fase, poiché la natalità rimane alta, la popolazione aumenta rapidamente. Infine, in un terzo tempo, gli esperti demografi prevedevano una stabilizzazione, sia della natalità sia della mortalità, su tassi bassi. Per ragioni che essi ritenevano evidenti, supponevano che il livello di stabilizzazione si sarebbe attestato attorno ai 2,1 figli per ogni donna, ovvero al livello che avrebbe permesso la semplice conserva-zione delle popolazioni. Questo modello è denominato «transizione demografica».

Se questo modello aveva il vantaggio di descrivere con preci-sione gli avvenimenti del passato e si concludeva con una affer-mazione di buon senso, tuttavia ha fallito nell’anticipare il fatto che alcune popolazioni umane possano collettivamente scegliere di non riprodursi ed entrare in una dinamica di forte diminu-zione del loro numero. Il fatto che in un tempo di pace e senza aggressioni esterne o terribili epidemie (come quelle subite dalle popolazioni autoctone d’America dopo il 1492) una popolazione di svariati milioni di persone non si stabilizzi, ma entri addirittu-ra in una spirale di riduzione massiva, semplicemente non è stato previsto.

Il demografo Alfred Sauvy fu uno dei pochi a intuire questo fenomeno e a difendere la scelta di politiche attive di sostegno alla natalità per quei Paesi che negli anni Settanta entravano nel perio-do di non riproduzione della popolazione (Germania Ovest 1971; Regno Unito e Usa 1973; Francia 1975; Italia 1977), o poco dopo (Spagna 1982). Ma le anticipazioni pessimistiche che egli aveva fat-to negli anni Trenta (da 29 a 39 milioni di abitanti in Francia nel 1980, mentre ce ne sarebbero stati 55) avevano minato la sua cre-

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dibilità, come fa osservare il demografo H. Le Bras3. In effetti, non aveva previsto né il baby-boom del dopoguerra, né l’immigrazione di massa che, a partire dagli anni Settanta, andò a rinnovare le po-polazioni del «primo mondo» che invecchiavano.

Ma, se i Paesi detti del «primo mondo» hanno conosciuto tale evoluzione, c’è stata una differenza considerevole con i Paesi del Sud del mondo, che hanno continuato a crescere durante i succes-sivi decenni (sebbene con ritmi che, generalmente parlando, si sono abbassati con regolarità).

La differenza Nord-Sud

I demografi hanno a lungo sottolineato che il tasso di crescita demografica di numerosi Paesi detti del Sud del mondo (in partico-lare africani) del 3%, tra il 1950 e il 1990 all’incirca, corrispondeva a un tasso che l’umanità non aveva mai conosciuto nel corso della sua storia. In effetti, per millenni, l’umanità è cresciuta a un ritmo molto lento. E quando i progressi della medicina hanno iniziato a produrre i loro frutti, l’Europa, nel momento della sua grande espansione pla-netaria del XIX secolo, è cresciuta a un ritmo molto più vicino all’1%. Questo ritmo permette più facilmente di creare posti di lavoro e di gestire i costi d’istruzione di una popolazione in crescita moderata.

Ad ogni modo, i Paesi che hanno beneficiato improvvisamente di mezzi tecnici per la riduzione della mortalità, pur mantenendo la natalità dei tempi del passato, hanno iniziato a crescere in modo stra-ordinario. Il grafico delle strutture per classi di età di queste società as-somigliava a una piramide: la maggior parte delle persone aveva meno di 20 anni, e questa fascia raddoppiava nell’arco di una ventina di anni. È sufficiente guardare le statistiche di qualche Paese africano per avere la misura del fenomeno.

Secondo molti esperti, questa crescita quasi esponenziale è parzial-mente responsabile dei problemi sociali di tali Paesi: difficoltà nell’i-struire una tale massa di giovani, incapacità di creare un numero suffi-ciente di posti di lavoro, pressione estrema sulle risorse alimentari (vedi

3. Cfr H. Le Bras, Vie et mort de la population mondiale, Paris, Le Pommier, 2012.

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l’Egitto) o sulle disponibilità idriche (vedi i Paesi del Sahel). Mai, nella loro storia, i Paesi d’Europa si sono confrontati con un tale fenomeno.

Da una decina di anni le cose sono cambiate: il continente sud-americano nel suo insieme ha visto prodursi un calo molto importante della fecondità, al punto che il suo Paese più popolato, il Brasile, è a 1,8 figli per donna, e il Messico a 2,05. Inoltre — e questo non era stato assolutamente previsto — alcuni Paesi musulmani come l’Iran (1,9) e la Turchia (2) hanno avuto un calo estremamente rapido, che li ha por-tati a un livello vicino a 2 figli per donna da dieci anni. La fecondità è precipitata in quasi tutta l’Asia, e rari sono i Paesi in cui essa supera ancora i 3 figli per donna (ad esempio, Afghanistan, Pakistan, Filip-pine, Timor). L’India stessa, secondo Paese più popolato al mondo, è a 2,4 figli per donna, e ciò le assicura una crescita reale (tanto più che la popolazione è giovane e non ha mai subìto incidenti demografici), ma il ritmo diminuisce regolarmente da 20 anni. Poche persone hanno notato, come invece ha fatto Amartya Sen4, che nove dei venti Stati più popolati dell’India sono già sotto il 2,1. Per la globalità del pianeta, secondo l’Onu, l’indice di fecondità5 è passato da 4,95 di media nel periodo 1950-55 a 2,36 nel periodo 2010-15. Ciò che dunque colpisce nelle evoluzioni recenti non è soltanto il loro senso, ma anche la loro portata.

Pertanto una parte sempre più importante dell’umanità si ritrova a livelli di decrescita della sua popolazione a lungo termine, con indici di fecondità molto inferiori a 2. Secondo il World Factbook della Cia, pubblicato ogni anno, su 224 entità politiche recensite nel 2013 (ben più dei 197 Paesi riconosciuti dall’Onu), 95 hanno un indice di fecon-dità inferiore a 2. Indubbiamente ci vuole del tempo — circa una ge-nerazione — affinché questo si traduca in una decrescita effettiva della popolazione (se non si tiene conto dell’immigrazione). Ma in seguito il fenomeno è irreversibile o quasi.

Come faceva notare il saggista americano Georges Weigel in un libro che non fu sufficientemente commentato a suo tempo, cer-

4. Cfr New York Review of Books, 10 ottobre 2013.5. Come afferma il demografo J. P. Sardon: «L’indice congiunturale di

fecondità, contrariamente a quanto indica il suo nome e all’unità con cui si esprime, è in realtà non un indice di fecondità, ma una misura del grado di avvicendamento delle generazioni».

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ti Paesi, come la Spagna o l’Italia, hanno raggiunto negli anni 2000 un punto in cui le donne in età per avere figli formano schiere che in termini numerici sono all’incirca la metà di quelle delle loro madri. Detto in termini semplici, bisognerebbe che queste donne avessero quattro figli di media affinché la popolazione riconquistas-se il livello degli anni precedenti (nascite degli anni Sessanta). Ma ciò è fortemente improbabile6.

In realtà, già il semplice mantenimento di un livello di fecon-dità attorno ai 2 figli per donna sembra un obiettivo quasi irreali-stico per un rilevante numero di Paesi (non soltanto europei, ma anche asiatici e americani). La maggior parte dei Paesi dell’Europa dell’Est, che hanno cominciato il loro «inverno demografico» in-torno al 1990, hanno oltrepassato questo punto di non ritorno: un caso particolarmente impressionante è quello della Polonia, Paese tradizionalmente cattolico, ma in cui il tasso di fecondità si colloca da vent’anni a un livello molto basso (attorno all’1,3). Se all’inizio si trattava di giustificare questo dato con il rinvio della maternità a causa della necessità delle donne di lavorare, questa situazione, che si credeva provvisoria, sta perdurando.

Nel corso della storia i demografi si sono indubbiamente di gran lunga sbagliati nelle loro stime, ma una cosa è certa: in questo am-bito bastano venticinque anni perché sopravviva una popolazione ridotta alla sua metà, e a questo livello non c’è possibilità di tornare indietro; solo l’immigrazione, con il tempo, può allora impedire (o meglio, ridurre) il declino demografico. Inoltre, si deve necessaria-mente constatare che una stabilizzazione durevole attorno al 2,1 non si produce in nessun luogo. La risposta a tale questione rimane una sfida per i demografi.

Due apparenti eccezioni?

La Francia e gli Usa sono i due grandi Paesi di cui si potrebbe pensare che costituiscano delle eccezioni. In effetti, entrambi hanno

6. Cfr G. Weigel, La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2006, in cui cita P. Longman, The Empty Cradle, New York, Basic Books, 2004, 63.

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un indice sintetico di fecondità attorno al 2 da più di una decina di anni. I motivi di questa apparente stabilità sono stati studiati appro-fonditamente. In Francia, dopo una fase di calo — ma ciononostan-te superiore a quello della stragrande maggioranza dei Paesi europei — raggiunta nel 1994 (1,66), il tasso è risalito per avvicinarsi al 2 fin dal 2000, per poi stabilizzarsi. Perché? Vi è indubbiamente un fattore evidente (comune a tutti i Paesi europei e agli Usa), che è dato dall’importante presenza di stranieri, un poco più fecondi: in Francia la popolazione straniera di origine africana, e negli Usa la popolazione di origine ispanica hanno una fecondità superiore, che compensa in qualche modo il deficit della popolazione autoctona.

Tuttavia, in entrambi i casi, non si dovrebbe credere che questo da solo basti a spiegare la doppia «eccezione». Di fatto, l’aumento constatato in Francia fin dal 2000 poggia su un aumento dell’indice di fecondità delle donne francesi, passato dall’1,8 all’1,97. La politica familiare, che in Francia si esprime in modo molto generoso, basata sull’idea di incoraggiare la fecondità delle donne che lavorano, e un clima culturale che non contrappone maternità e femminilità con-tribuiscono al buon mantenimento della fecondità.

Il modello per le coppie è quello di avere due figli — ed even-tualmente tre, se le circostanze sono favorevoli —, laddove la mag-gior parte di Paesi europei è entrata in un modello incentrato di più sul figlio unico (ad eccezione della Gran Bretagna e dei Paesi scandinavi). Negli Usa, diversi fattori contribuiscono in ugual mi-sura a una maggiore fecondità: l’età media al momento della nascita del primo figlio è di due anni inferiore rispetto all’Europa, e questo favorisce l’arrivo di un secondo figlio. In alcuni ambienti, il rinvio delle nascite che si constata nella maggior parte dei Paesi sviluppati è meno pronunciato che altrove.

Altri autori si sono chiesti se la maggiore religiosità di buona parte degli americani non sia parzialmente responsabile di questa fecondità sviluppata8. Essa, senza dubbio, gioca un ruolo importan-te — circa il 15%, secondo questi autori —, ma non può spiegare da

7. Cfr F. Héran - G. Pison, «Deux enfants par femme dans la France de 2006: la faute aux immigrées?», in Population et Sociétés, n. 432, marzo 2007, 2-4.

8. Cfr T. Frejka - C. F. Westhoff, «Religion, Religiousness and Fertility in the US and in Europe», in European Journal of Population 24 (2008) 5-31.

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sola tale differenza. Oltre che per la fecondità di donne molto gio-vani, gli Usa si distinguono per il fatto che le donne laureate hanno in media meno figli che in Francia.

Infine, si noti che i demografi sono stati incapaci di spiegare il mini-boom in corso in Francia dal 2000. Dopo aver evocato l’effet-to «Coppa del mondo» (1998), alcuni hanno addotto l’ipotesi che la legge sulle trentacinque ore lavorative (2000), permettendo alle madri che lavorano di dedicare più tempo ai loro figli, sia servita da incoraggiamento (la politica familiare restava immutata in quel periodo). La fecondità umana ha i propri misteri che le statistiche non riescono a spiegare.

La situazione italiana

In Italia, l’ultimo rapporto demografico pubblicato nel novem-bre 2013 ha sottolineato il ruolo sempre più in crescita degli stra-nieri nell’ambito di una natalità che permane molto bassa. Nel 2012 ci sono stati 612.883 decessi e 534.186 nascite. Vi è dunque, come in Germania, un deficit netto delle nascite9. Da un lato, si rileva che l’indice di fecondità permane molto basso, a quota 1,42 (1,29 per le donne italiane e 2,37 per le straniere). Ma ciò che colpisce soprat-tutto è l’aumento delle nascite da genitori entrambi stranieri (quasi 80.000, ovvero il 15% del totale). L’aumento è in rialzo: dal 4% del 1999 al 12,6% nel 2008. Se si aggiungono le nascite da coppie in cui uno solo dei genitori è straniero, si arriva a 107.000, ovvero al 20% del totale.

L’Italia si avvicina agli altri Stati europei a forte immigrazione (come la Francia o la Germania). Nell’insieme, la fecondità italiana continua a restare molto bassa fin dalla metà degli anni Settanta (ossia, da più di una generazione), e ciò significa che la popolazione autoctona sta per conoscere una forte riduzione del suo numero, poiché le giovani donne in età fertile sono molto meno numerose delle loro madri (e soprattutto delle loro nonne). L’età media al mo-

9. Cfr Istat, «Natalità e fecondità nella popolazione residente», rapporto dell’anno 2012.

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mento della nascita del primo figlio continua a crescere e supera i 30 anni.

Anche se le donne straniere hanno più figli, questo fattore non deve essere sovrastimato, poiché il loro indice di fecondità è infe-riore a 3. Questo dato varia da regione a regione. Infatti, solo la presenza degli stranieri permette al Nord Italia di avere un tasso di fecondità più elevato. Se l’indice di fecondità in generale è di 1,5 al Nord (fino all’1,6 nelle province autonome di Bolzano e Trento e in Valle d’Aosta), di 1,4 al Centro e di 1,3 al Sud, ciò dipende dal fatto che le donne straniere nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est hanno un tasso di fecondità rispettivamente del 2,48 e del 2,40 (1,27 per le donne italiane), mentre le straniere residenti nel Mezzogiorno sono a quota 2,19 (1,3 per le italiane). Dopo aver resistito per una ventina di anni, la Campania e la Sicilia presentano ora tassi molto vicini a quelli del Nord.

Come tutti sanno, l’Italia spende molto più per le pensioni ri-spetto alla media dell’Unione europea, e molto meno per le politi-che familiari. Una politica familiare forte, che tenda a consentire di conciliare la vita professionale e la maternità (asili nido, scuole ma-terne, sostegni alla persona…), ad aiutare le famiglie sul piano fisca-le (quoziente familiare) e a livello quotidiano (buoni per la scuola, assegni familiari consistenti), potrebbe rilanciare la natalità in Ita-lia? Si constata, in effetti, che in Germania gli importanti incentivi implementati da qualche anno da Angela Merkel non hanno avuto alcuna incidenza sulla natalità tedesca. Da un lato, il desiderio di avere figli espresso dalle coppie italiane sembra più consistente di quello in Germania, ma, dall’altro, si deve necessariamente consta-tare che in Italia il numero di coppie che non ha figli è molto eleva-to10. Tra le donne nate nel 1965, il 24% non ha avuto figli, contro solamente il 10% delle francesi. Al di là delle questioni economiche, il contesto culturale è molto importante: la società italiana permette veramente di conciliare femminilità e maternità? Questa domanda non può essere elusa.

10. Cfr M. Cavallieri, «Via dai figli: arrivano i “childfree”», in L’Espresso, 14 novembre 2013.

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Un peso sociale inedito

Il peso degli anziani nella struttura sociale delle società del pri-mo mondo — e attualmente in quella di Paesi che rappresentano oltre la metà dell’umanità — non ha solamente un costo sociale, anche se il problema delle pensioni è acuto ovunque. Gli articoli sulla stampa dedicati alla questione si focalizzano soprattutto sulla questione del costo, più che sugli aspetti prettamente sociali.

La questione del welfare non è quindi che una delle sfaccettature del problema. Sociologi e psicologi si interrogano sempre più sulle conseguenze che comporta l’allungamento della durata della vita alle persone attive. Come misurare il peso psicologico rappresentato dal fatto di avere attorno a sé così tanti genitori e nonni a carico? Se, da un lato, i genitori investono sempre più, affettivamente parlando, nei loro (rari) figli, portatori delle loro speranze umane, dall’altro i figli devono subire l’onere sempre più gravoso di genitori anziani a carico, le cui infermità diventano sempre più pesanti con l’aumen-tare dell’età.

La crescente pressione sociale in favore della depenalizzazione dell’eutanasia nei Paesi occidentali non può essere compresa senza tenere in considerazione questo tsunami demografico, che in Ger-mania è detto «marea grigia». Sull’altro versante della società, i gio-vani crescono in società sempre più dominate da persone anziane e che favoriscono in buona parte coloro che hanno superato i 35 anni. Il fenomeno dell’inseguimento dell’adolescenza a un’età più avanzata si inscrive in questo contesto. Per designarlo, alcuni hanno coniato il termine «adultescenza».

Il pioniere di tali questioni è lo psicologo americano Jeffrey Ar-nett, che ha coniato l’espressione young adulthood per parlare di quel tempo che intercorre tra la fine dell’adolescenza e l’ingresso reale nell’età adulta11. La personalità che si sviluppa in questa fase della vita presenta le seguenti caratteristiche: una ricerca d’identità dif-ficile, spesso narcisistica; una notevole instabilità con il sentimento di essere fra due età e la volontà di mantenere aperte «le possibilità».

11. Cfr J. J. Arnett, Emerging Adulthood: The Winding Road from Late Teens through the Twenties, Oxford, University Press, 2004.

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Alle prese, soprattutto in Europa, con una crisi degli alloggi e la carenza di lavoro dignitosamente remunerato, questi giovani sono estremamente dipendenti dalla generazione dei loro genitori e non possono impegnarsi stabilmente. Ciò che è certo è che l’in-vecchiamento della popolazione, in una economia stagnante, pone problemi di vasta portata e inediti, che necessitano di risposte nuo-ve. Il malthusianismo e l’eutanasia sono presentati da alcuni come soluzioni, ma tali dottrine non fanno altro che evidenziare ulterior-mente il problema.

Un cambiamento degli equilibri religiosi e continentali

L’evoluzione demografica dell’ultimo secolo, e in particolare de-gli ultimi cinquant’anni, ha comportato — e comporterà ancora — conseguenze importanti per la composizione religiosa dell’uma-nità. In questo quadro, si possono rilevare due fenomeni: da una parte, il recupero importante dell’Africa, ormai unico continente in forte crescita demografica; dall’altra, la continua crescita del mondo musulmano.

Tra il 1900 e il 2000, i musulmani sono passati da 200 a 1200 milioni. Pertanto, al momento dell’elezione di Giovanni Paolo II, c’era all’incirca lo stesso numero di cattolici e di musulmani. Nel 2012 c’erano 1,2 miliardi di cattolici contro 1,6 miliardi di musul-mani. In altri termini, i cristiani e i musulmani costituiscono oggi oltre la metà dell’umanità (32% di cristiani e 23% di musulmani su 7 miliardi di persone). Tra 15 anni essi ne rappresenteranno circa il 60% (30% ciascuno, con i cattolici che equivarranno alla metà del mondo cristiano). Da 20 anni l’arresto della crescita demografica dell’Asia e dell’America latina ha fatto sì che il numero dei cristia-ni sia aumentato solo lievemente, con la considerevole eccezione dell’Africa (unico continente in cui i cristiani aumentano).

La percentuale di musulmani su scala planetaria non può quindi che aumentare indiscutibilmente. In effetti, malgrado il forte ral-lentamento della crescita demografica dell’Iran, della Turchia (oggi con indice di fecondità attorno a 2) o del Bangladesh, a titolo di esempio, la popolazione musulmana è complessivamente più giova-ne e vi gioca l’effetto di inerzia. È probabile che la demografia mu-

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sulmana continui a diminuire nei prossimi decenni, se si conside-rano le curve già prese in osservazione, dal Marocco all’Indonesia. Ma il divario con il mondo cristiano che si è prodotto in precedenza non può essere cancellato.

Il dialogo e la vita comune con le più importanti comunità mu-sulmane sono all’ordine del giorno, non solo nei Paesi tradizional-mente musulmani, ma anche altrove, là dove l’immigrazione ha in-sediato comunità musulmane. Si può notare, incidentalmente, che, contrariamente a quanto si pensa, nel corso del XX secolo un ben maggior numero di persone si è convertito al cristianesimo piutto-sto che all’islàm (in particolare in Africa, dove il cristianesimo era molto poco rappresentato nel 1900). In altre parole, la crescita dell’i-slàm nel mondo da oltre un secolo si spiega quasi esclusivamente tramite una demografia più dinamica.

Constatare questo non significa che la questione delle conver-sioni all’islàm in Occidente debba essere elusa, ma queste stesse con-versioni nascono in gran parte dal contatto diretto con le persone di religione islamica. Nei quartieri popolari francesi, è spesso tramite i loro amici musulmani che i giovani dei luoghi scristianizzati sco-prono la fede in Dio. Il rapporto dei giovani e degli anziani nelle società europee implica, in tal modo, anche una dimensione reli-giosa, perché è modificato da questa nuova sociologia.

Una sfida pastorale

L’impressionante cambiamento delle condizioni demografiche pone una sfida pastorale a diversi livelli. Come sostenere meglio le famiglie che, in un contesto umano difficile, sceglieranno di met-tere al mondo dei figli? Come evitare che i figli unici subiscano il peso eccessivo delle attese dei loro genitori e diventino figli viziati? Come presentare — e vivere — la vocazione religiosa e sacerdotale in una società dove i figli poco numerosi avranno molte persone anziane a carico (quando tradizionalmente le famiglie numerose sono la fonte del numero maggiore di vocazioni)? Come edificare una società che contemporaneamente riservi uno spazio reale alle persone molto anziane e non sia ostile alla gioventù? Come accom-pagnare al meglio tutti questi «giovani adulti» dai 20 ai 35 anni che

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si sentono esclusi dalla società, alla ricerca di una identità che sfugge loro e che sono incapaci di impegnarsi?

L’accompagnamento alle coppie, in particolare a quelle tra i 40 e i 60 anni, è più che mai una questione centrale delle società che invecchiano. L’immigrazione non può essere presentata come la semplice soluzione ai problemi della nuova struttura demografica di tutti questi Paesi del mondo (non solo in Europa) che sono en-trati nell’inverno demografico. In realtà, anche nei Paesi africani la natalità si abbassa, e nel contempo è già molto debole in Asia e in America Latina.

Pertanto, come constatava il rapporto dell’Onu del 2009, l’in-vecchiamento della popolazione non può essere evitato e rappre-senta un fenomeno assolutamente senza precedenti nella storia dell’umanità. È nel 1998 che nel mondo cosiddetto «sviluppato» il numero degli ultra-sessantacinquenni ha superato quello di coloro che hanno meno di quindici anni. Secondo l’Onu, il mondo intero raggiungerà questa condizione tra trent’anni. Questo fenomeno, dapprima limitato solo a qualche Paese europeo, definisce oggi un numero importante di Paesi nel mondo. La sfida non è più regiona-le, ma riguarda l’intero pianeta.

Questo invecchiamento certamente è dovuto ai progressi della medicina che si occupa dei problemi dell’età avanzata, ma anche alla concomitanza della bassa fertilità, che precipita sempre più frequen-temente al di sotto dell’indice di rinnovo delle popolazioni. In breve, questo fenomeno obbliga ogni società a ripensare profondamente il patto intergenerazionale e il modo in cui le risorse sono assegnate a ogni fascia di età. «L’invecchiamento delle popolazioni è intenso, con conseguenze e implicazioni di vasta rilevanza su tutte le sfac-cettature della vita umana. In campo economico, l’invecchiamento delle popolazioni influirà sulla crescita economica, sul risparmio, sugli investimenti, sui consumi, sui mercati del lavoro, sui sistemi pensionistici, sui regimi impositivi e sui trasferimenti intergenera-zionali. Nella sfera del sociale, l’invecchiamento delle popolazioni influisce sulla composizione delle famiglie e le sistemazioni abitati-ve, la domanda di alloggi, le tendenze migratorie, l’epidemiologia e la necessità di servizi di assistenza sanitaria. In ambito politico, l’in-vecchiamento delle popolazioni può modellare sistemi di votazione

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e rappresentanze elettorali»12. Questi profondi cambiamenti sociali non possono non incidere anche sui differenti aspetti pastorali. Ri-fletterci è un’urgenza incombente.

Conclusione

La demografia è una scienza umana imperfetta. Come molte altre, essa ha visto il mancato avverarsi di diverse sue predizioni. Ma queste si riferivano precisamente al futuro! Ciò che, di contro, il de-mografo calcola molto bene sono le generazioni già nate, o meglio, come nel caso dell’Europa, quelle che non sono nate. Quando una generazione di donne ha terminato la sua vita fertile, non è possibile tornare indietro. Come si può, in un mondo sempre più anziano, continuare a lottare per una cultura della vita, attenta a favorire la vita dei più giovani, prendendosi contemporaneamente cura dei più vecchi?

Più che mai i cristiani devono portare, in modo profetico — specialmente nei continenti segnati da un rifiuto sempre più accen-tuato nei confronti della vita —, la loro fede in un Dio che non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi (cfr Mc 12,27). «Nella mo-bilitazione per una nuova cultura della vita, nessuno si deve sentire escluso: tutti hanno un ruolo importante da svolgere»13.

12. Cfr Onu, World Population Ageing 2009, VIII.13. Giovanni Paolo II, s., Evangelium vitae, n. 98.

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YEMEN:LA NECESSARIA TRANSIZIONE

ALLA DEMOCRAZIA

Luciano Larivera S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 457-467 | 3935 (7 giugno 2014)

I territori dello Yemen e dell’Oman erano noti, agli antichi romani, come Arabia Felix a motivo dei ricchi traffici commer-ciali. E lo stesso Augusto provò, inutilmente, a conquistarli. Lo Yemen, in particolare, ha una bellezza nascosta. È il paradiso dei fotografi. Pier Paolo Pasolini, in Corpi e luoghi (1981), scrisse: «Lo Yemen, architettonicamente, è il Paese più bello al mondo. Sana’a, la capitale, è una Venezia selvaggia sulla polvere senza San Marco e senza la Giudecca, una città-forma, la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incompatibile disegno […]; è uno dei miei sogni».

Lo stile architettonico yemenita, secondo Pasolini, «è un enigma solo parzialmente risolto, o di cui pochi sanno se c’è so-luzione». Lo stesso vale — non sotto il profilo estetico — per il sistema politico del Paese. Nonostante la crisi permanente sotto il profilo economico e della sicurezza, questo Paese, con i suoi 26 milioni di abitanti, mostra ancora una volta la sua originalità nel panorama delle rivolte arabe iniziate nel 2011. Nell’attuale Governo di transizione coabitano, insieme alla «vecchia guardia», Fratelli Musulmani e salafiti. La tradizionale logica consociativa ha evitato, finora, la «guerra totale» come in Siria. Ma aprirà a una vera democrazia inclusiva?

La «primavera» yemenita

La Repubblica Unita dello Yemen nacque il 22 maggio 1990 dalla fusione dello Yemen del Nord (Repubblica dal 26 novembre 1962, dopo il colpo di Stato contro la teocrazia zaidita) e dello Ye-

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FOCUS

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men del Sud (ex-protettorato britannico, indipendente dal 20 no-vembre 1967 e di orientamento marxista)1.

La popolazione si caratterizza soprattutto per l’appartenenza a una tribù e a un clan con a capo uno sceicco, perché soltanto il 32,9% vive in aree urbane (dato del 2012). Per gruppi etnici, essa si suddivide in yemeniti di etnia araba (93%), somali (3%), neri (1%), asiatici (1%), altri (2%). Dal punto di vista religioso, i musulmani sono il 99,1% degli yemeniti (58% sunniti e 42% sciiti), il resto si compone di ebrei, bahai, indù, cristiani2. Nel Paese, oltre a più di 300.000 sfollati per i conflitti armati interni al Nord, sono presenti almeno 5.000 rifugiati etiopi e 230.000 somali. Ma i profughi stra-nieri potrebbero essere 1,2 milioni, includendo quelli non registrati. Sperano di proseguire il loro esodo altrove, in particolare nell’Ara-bia Saudita, da cui però già alcune centinaia di migliaia di yemeniti clandestini sono stati rimpatriati, aggravando così i già tanti proble-mi economici, sociali e di sicurezza del vicino meridionale.

Nella Penisola araba lo Yemen è, infatti, lo Stato più popoloso e più povero. Ed è l’unico a non appartenere al Consiglio di Coopera-zione del Golfo. La sua economia dipende dagli aiuti internazionali, dato anche il cronico deficit pubblico. Il 46% della popolazione ye-menita è a rischio alimentare e ha bisogno di sostegno umanitario internazionale. Più di un milione di bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta (oltre a non andare a scuola); molti di più già lavorano, senza menzionare le migliaia di minori oggetto di tratta, sfruttamento sessuale o avviati al «mestiere delle armi».

Circa dieci gruppi familiari controllano l’80% di import, in-dustria, banche, telecomunicazione, trasporti. Nel 1990-2008, per ogni dollaro speso in Yemen per aiuti internazionali, altri 2,7 sono fuggiti dal Paese verso paradisi fiscali. Inoltre, le rivolte del 2011 hanno fatto crollare il Pil dell’11%. E non si è ancora recuperato il

1. Il suo territorio si estende per 528.067 kmq. Comprende gli arcipelaghi di Barīm e Kamarān sul Mar Rosso e quello di Socotra sull’Oceano Indiano. E confina a nord con l’Arabia Saudita per 1.458 km e, a est, con l’Oman per 228 km. Si affac-cia, per complessivi 1.906 km, a sud sul Golfo di Aden (Oceano Indiano) e, a ovest, sul Mar Rosso (e sulla sponda occidentale dello stretto di Bab el-Mandeb).

2. Dal 1998 la Santa Sede e lo Yemen hanno relazioni diplomatiche. Nel Paese esistono quattro parrocchie, per i circa 4.000 cattolici, inserite nel Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale con sede ad Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti).

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YEMEN

livello di produzione precedente. È difficile il calcolo della disoccu-pazione, probabilmente superiore al 20%, ma quella giovanile è ben più elevata. E in effetti il Paese dipende molto dalle rimesse degli emigrati, soprattutto in Arabia Saudita. La condizione delle donne è peggiore di quella maschile. In particolare è più bassa l’occupazione femminile, ma pure la scolarizzazione delle bambine, che sono mol-to esposte al rischio di un matrimonio a 14-15 anni, nonostante l’età minima per legge sia 17 anni3.

I gruppi armati secessionistici al Sud, gli attentati di al-Qaeda nella Penisola araba (Aqap) e la pirateria somala hanno deprivato lo Yemen di molti proventi e posti di lavoro nel commercio portuale sia ad Aden sia sul Mar Rosso. Tuttavia lo sfruttamento disuma-no del traffico e della tratta di clandestini è diventato un’industria nazionale. La corruzione, poi, raggiunge uno dei picchi mondiali. Senza di essa non si reggerebbe il sistema familistico/tribale/cliente-lare, che produce pure una pessima distribuzione dei redditi4.

Sono crollati anche i redditi del turismo, a causa di rapimenti, attentati e scontri armati. Anche i bombardamenti dei droni statu-nitensi contro i qaedisti, legittimati dai Presidenti yemeniti, ren-dono più insicura la vita. E per gli jihadisti, la denuncia dell’uso sproporzionato di questa tattica militare, a causa delle vittime tra i civili, rafforza la «narrativa qaedista», il sostegno delle popolazioni civili e il reclutamento. Ma rende indispensabile l’alleanza militare di Sana’a con gli Usa, come per altri Paesi del Golfo.

Un altro «turismo» si è invece diffuso: l’ingresso di jihadisti stra-nieri (sauditi, ceceni, daghestani, tunisini ecc.). Oltre al fatto che forse almeno 5.000 miliziani yemeniti sono andati come mercenari in Siria a combattere contro il regime di Bashar. Ma, se e quando ritorneranno, vorranno sostenere la creazione di un emirato isla-

3. Circa 13,1 milioni di yemeniti non hanno un accesso di qualità all’acqua e ai servizi igienici. E 8,6 milioni ai servizi sanitari. Le risorse petrolifere si stanno esaurendo, ma si spera in giacimenti di gas inesplorati (e forse anche di petrolio). Anche le risorse idriche si vanno riducendo per l’eccessivo sfruttamento, in partico-lare quando vengono impiegate per la coltivazione di qat, un’erba con blandi poteri allucinogeni, che è tradizionalmente masticata dai maschi yemeniti.

4. Cfr G. Hill et alii, «Yemen. Corruption, Capital Flight and Global Drivers of Conflict (September 2013)», in www.chatamhouse.org/

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mico yemenita sullo stile dei talebani afgani? Lo Yemen è infatti in grande mutamento politico per non tornare a quello che era5.

Per 33 anni, fino all’«abdicazione» del novembre 2011, esso è stato nelle mani del presidente Ali Abdallah Saleh. Il potere politico cen-trale ha ottenuto la fedeltà delle periferie mediante elargizioni ai capi tribali, ma non ha mai avuto il controllo dell’intero territorio. L’uni-ficazione del 1990 non è stata ben metabolizzata al Sud, che si sente vittima di un neo-colonialismo. Si è costruita soltanto una rete clien-telare neo-patrimoniale, con la repressione del dissenso6.

Al Sud il movimento secessionista armato è ancora operativo, no-nostante il tentativo fallito del maggio 1994. E in parte collude con al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), che opera anche nel centro del Paese e compie attentati «spettacolari» nella capitale Sana’a. Inoltre l’Aqap ha approfittato dell’anarchia istituzionale post-2011 per con-quistare alcune città costiere. Neppure al Nord le armi tacciono. Dal 2004, fino agli inizi del 2010, si sono succeduti sei cicli di conflitti armati tra le forze governative, appoggiate da quelle saudite, contro la tribù Huthi di religione zaidita, una variante dello sciismo. Ed è in corso un settimo round, che crea spazi a varie gang criminali7.

Secondo la Costituzione del 1991, emendata più volte, il Presi-dente è eletto a suffragio diretto con mandato di sette anni. È il Capo dello Stato e lo guida, anche se nomina un Capo di Governo. Il Par-lamento, che può sfiduciare il Premier, si compone della Camera dei Rappresentanti (301 membri, eletti per sei anni) e del Consiglio della Shura (111 componenti nominati dal Presidente). Ma le elezioni le-gislative dell’aprile 2009 non si sono ancora tenute. E nella Camera l’assegnazione dei seggi risale al voto del 27 aprile 2003. Il Congresso Generale del Popolo, il cui segretario resta l’ex-presidente Saleh, ha

5. Purtroppo la logica della guerra permanente al terrore è un circolo di vio-lenza che alimenta se stessa, insieme con le strutture industriali (armi, ma pure in-formatica, telecomunicazioni ed edilizia per la sicurezza), alcuni servizi finanziari (come il trasferimento di fondi per «beneficenza», il riciclaggio) e di protezione (da parte di contractors occidentali e mercenari jihadisti, estorsori ecc.). Costoro prospe-rano sull’economia di guerra (e su quella della criminalità organizzata a essa simbio-tica) nelle periferie del mondo e impediscono un vero sviluppo integrale.

6. Cfr E. Ardemagni, «Frantumazione della sovranità e nuove sfide di sicurez-za. Yemen e penisola del Sinai dopo il 2011 (febbraio 2014)», in www.ispionline.it/

7. Cfr L. Larivera, «I problemi dello Yemen», in Civ. Catt. 2009 IV 613-622.

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238 seggi; 46 per Islah («riforma», una coalizione di islamisti: Fratelli Musulmani, salafiti, capitribù conservatori); indipendenti 4; altri par-titi 13. Dal punto di vista amministrativo, lo Yemen è suddiviso in 20 governatorati e una municipalità (Sana’a).

I colori della bandiera yemenita sono, lungo fasce orizzontali dall’alto in basso: rosso, bianco e nero. Come Iraq, Siria ed Egitto, ma senza simboli al centro. E come in questi e in altri Paesi arabi, dopo l’inizio delle proteste tunisine sul finire del 2010, la gente è andata a manifestare per strada. Dal gennaio 2011 le piazze di Sana’a e poi di altre città yemenite si riempirono di giovani, donne, oppositori po-litici e altri cittadini che si lamentavano per l’alta disoccupazione, le povere condizioni economiche e la corruzione8.

Nel marzo 2011 le contestazioni popolari nella capitale si raffor-zarono. E dopo l’azione repressiva del Governo del 18 marzo, che causò 50 morti tra chi protestava, si ruppe il fronte presidenziale. Alla «primavera yemenita», che così si trasformò in rivolta, si unirono una parte rilevante delle Forze armate (cioè la Prima Divisione Armata del generale Ali Moshin, membro della stessa tribù di Saleh) e diversi leader tribali, in particolare quelli legati alla famiglia Ahmar, che gui-davano la Hashid (la più potente federazione tribale yemenita) e con-trollavano il maggior gruppo economico del Paese. Il «tradimento» è stato la risposta al tentativo progressivo di Saleh di spianare al figlio Ahmed Ali la strada alla presidenza e di indebolire militarmente Ali Moshin. Ma già nel 2006 si era consumata una frattura nel sistema di potere, quando la famiglia Ahmar spostò il partito Islah tra le fila dell’opposizione nell’alleanza Joint Meeting Parties. Inoltre, ai 10 mesi di proteste di piazza per ottenere cambiamenti politici si sono dichia-rati solidali il Movimento meridionale (Hirak) e gli huthi.

Sul finire dell’aprile 2011, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, nel tentativo di evitare una guerra civile ai suoi confini (ma provocandola in Siria), offrì alle vecchie élites yemenite (escluden-do dai negoziati gli huthi e Hirak) una soluzione di compromesso, avallata da Onu, Usa, Ue: le dimissioni del Presidente in cambio

8. In particolare, i media internazionali hanno rimarcato il ruolo straordi-nario delle donne yemenite che protestavano anche bruciando i veli (cioè per chie-dere agli uomini aiuto per difendere i loro diritti umani). Una di loro, Tawakkul Karman, è stata insignita del premio Nobel per la Pace 2011.

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dell’immunità propria e dei suoi stretti collaboratori. Saleh rifiutò, e le violenze di strada aumentarono. Poi, il 3 giugno, Saleh rimase gravemente ferito in un attentato nella moschea del palazzo presi-denziale. E si rifugiò in Arabia Saudita, prima per le cure e poi per restare «sotto protezione». Ma le armi non tacevano.

In seguito, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la Risolu-zione 2014 del 21 ottobre 2011, richiamando il Governo yemenita alla «responsabilità primaria di proteggere la propria popolazione» e minacciando sanzioni, chiese alle parti di cessare le violenze e di procedere verso l’accordo per il trasferimento dei poteri. Finalmen-te, il 23 novembre Saleh siglò l’accordo a Ryadh, e una parte dei poteri presidenziali andarono al suo vice, Abd Rabuh Mansur Hadi.

Nel voto presidenziale «speciale» del 21 febbraio 2012, con un consenso del 99%, essendo il candidato di maggioranza e opposi-zione, è stato confermato Hadi, membro dello stesso partito di Saleh. Tuttavia, il 25 gennaio scorso le elezioni presidenziali «regolari», pre-viste per il febbraio 2013 in base all’accordo di transizione promosso dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, sono state posticipate all’a-prile 2015. Ma prima, nel settembre 2014, un referendum popolare dovrà approvare la nuova Costituzione, la cui elaborazione è però soltanto agli inizi.

Con il formale Governo di transizione si è dato l’avvio alla ri-forma dell’apparato di sicurezza e di quello militare, che fanno capo, rispettivamente, al ministero degli Interni e a quello della Difesa. A fine 2013, ad Ahmed Ali Saleh (l’ex-delfino presidenziale) è stato tolto il comando della Guardia Repubblicana, che è stata pure sciolta. Egli è stato inviato come ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, mentre suo cugino è stato destituito da capo dell’intelligence.

È stato indebolito direttamente, ma meno, anche il network degli Ahmar, perché il generale Ali Moshin, alleato dei sauditi, ha perso il comando della sua divisione, che è stata sciolta, ma gli è stato assegna-to un ruolo importante nel ministero della Difesa. Ciò gli consente di mantenere un forte ascendente nel comparto militare, il quale resta ancora frammentato e abbastanza legato a diversi capi fazione. Tutta-via i settori della difesa e della sicurezza devono diventare veramente istituzioni nazionali al servizio di tutti i cittadini e dello Stato, per garantire l’unità nazionale contro la frammentazione anarchica tri-

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bale. Oltre alla professionalizzazione dei militari e dei poliziotti e al controllo politico dei civili su di loro (senza accentramenti presiden-ziali), questi apparati devono integrare gli uomini armati delle milizie tribali, in particolare quelli del Nord e del Sud, senza che essi godano di autonomia assoluta nelle loro aree di provenienze9.

In accordo con l’iniziativa del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che però invitava a maggiore celerità, il 18 marzo 2013 il «Pre-sidente di transizione» lanciava il Dialogo Nazionale per discutere le questioni principali (costituzionali, politiche e sociali). Vi erano rap-presentati, tra i 563 componenti, il Congresso Generale del Popolo (112 membri), i Joint Meeting Parties (137 membri ripartiti tra otto partiti, con 50 esponenti islamisti di Islah e 37 dei Socialisti), e altri due partiti (7 ciascuno). Poi i rappresentanti del presidente Hadi (62), dei «giovani indipendenti» (40)10, delle donne (40), di altre organizza-zioni della società civile (40), del movimento Ansar Allah degli huthi (35) e di quello meridionale Hirak (85).

Con alcuni mesi di ritardo, l’iniziativa del Dialogo si è conclusa il 21 gennaio 2014. Ed è stato nominato, lo scorso dicembre, il Co-mitato per elaborare la nuova Costituzione, che però è stato criticato perché è di esclusiva nomina presidenziale. I suoi componenti sono pochi e non rappresentativi di tutte le istanze yemenite; inoltre, sol-tanto un suo membro sarebbe esperto di diritto costituzionale. In particolare, il Movimento meridionale Hirak (85), come durante il Dialogo Nazionale, dichiara che le sue richieste troppo spesso sono ignorate. E ha ripreso la sua azione di protesta contro la marginaliz-zazione del Sud, al fine di ottenere la secessione, eventualmente come secondo passo dopo la costituzione di una Repubblica federale11.

Il Presidente ad interim ha dichiarato ufficialmente che il Co-

9. Cfr International Crisis Group, «Yemen’s Military-Security Reform: Seeds of New Conflict (4 April 2013)», in www.crisisgroup.org; E. Ardemagni, «Riforma e sicurezza. L’anno cruciale dello Yemen (24 gennaio 2013)», in www.affarinternazionali.it; Id., «Le forze armate nella Penisola arabica: tra conservazione e nation building (1° aprile 2014)», in www.aspeninstitute.it; Id., «Economia e insi-curezza: il circolo vizioso dello Yemen (14 maggio 2014)», in www.ispionline.it/

10. Cfr A. Z. Alwazir, «Yemen’s Independent Youth and Their Role in the National Dialogue Conference. Triggering a Change in Political Culture (August 2013)», in www.swp-berlin.org/

11. Cfr International Crisis Group, «Yemen’s Southern Question: Avoiding a Breakdown (25 September 2013)», in www.crisisgroup.org/

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mitato costituzionale dovrà elaborare una struttura federale dello Yemen che preveda sei regioni, due delle quali al Sud. Questa solu-zione si oppone a quella voluta dal Movimento Hirak, che puntava a una sola entità federale per lo Yemen meridionale. Da parte loro, gli huthi criticano quella disposizione presidenziale perché non aveva ottenuto il consenso del Dialogo Nazionale, che era entrato in stallo nel proporre il numero delle entità territoriali federate.

Neanche troppo sotto traccia, è in corso una guerra di potere fra tre élites per prendere il controllo delle istituzioni e delle risorse sta-tali, al fine di preservare interessi economici e reti clientelari esistenti o in fieri. I tre networks collegano tribù, partiti politici, istituzioni statali e media. E rischiano di produrre una guerra civile o di pro-trarre sine die la transizione alla democrazia, allo scopo di ricreare un regime autoritario analogo a quello precedente, nel quale chi co-manda prende tutto ed esclude dal benessere le altre minoranze (e la maggioranza in miseria). Per questo il Consiglio di Sicurezza, con la Risoluzione 2140 del 26 febbraio 2014, ha minacciato sanzioni personali a chi pone ostacoli al processo di transizione yemenita12.

Le tre alleanze in competizione sono quella di Saleh, che include suo figlio Ahmed Ali, che ambisce a diventare il Capo di Stato e quindi a controllare le Forze armate. Il secondo network è quello del Presidente ad interim, appoggiato dai Fratelli Musulmani (presenti nella coalizione Islah), dai leader di altri partiti di opposizione, come il Partito socialista yemenita, dalle «colombe» nel proprio partito, il Congresso Generale del Popolo, e ha un certo sostegno nel gover-natorato meridionale di Abyan, di cui Hadi è originario. Egli gode anche, visto il mandato politico, di un maggior supporto della co-munità internazionale (almeno occidentale) e dello Special Advisor on Yemen dell’Onu, il marocchino Jamal Benomar. Il terzo network fa capo al clan di Abdullah al-Ahmar, morto nel 2007, che fu lo «sceicco supremo» della federazione tribale Hashid. Questo incarico è passato al figlio Sadeq, che è pure presidente del partito Islah, nel quale anche il fratello Hamid, potente uomo di affari, ha un ruo-lo di rilievo. Ali Moshin, l’ex-capo della Prima Divisione Armata,

12. Cfr M. Transfeld, «Yemen’s GCC Roadmap to Nowhere. Elite Bargaining and Political Infighting Block a Meaningful Transition (May 2014)», in www.swp-berlin.org/

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fa parte di questa élite, che è interessata alle rendite economiche del settore degli idrocarburi e delle telecomunicazioni, ma ha perso molta influenza tra le tribù del Nord.

C’è pericolo grave che, come in Iraq, il conflitto tra élites si tra-sformi in conflitto settario tra zaiditi-sciiti e sunniti. I «falchi» di Saleh, infatti, dopo le dimissioni presidenziali del loro leader, sem-brano sostenere le milizie huthi, che al Nord si sono battute vittorio-samente, per il controllo del territorio, contro il network Ahmar e i gruppi salafiti e del partito Islah che lo sostengono. Inoltre nel 2013, durante il mese di ramadan, zaiditi e salafiti hanno avuto scontri armati per il controllo delle moschee della capitale. Ma gli Ahmar, spesso percepiti come corrotti, hanno perso il sostegno anche di un numero significativo di tribù della federazione Hashid.

Per il presidente Hadi, l’azione degli zaiditi, se lasciata prose-guire, può portare addirittura all’assalto di Sana’a. Per questo sono ripresi gli scontri tra le Forze armate e le milizie ben più addestrate degli huthi. Tuttavia le tre alleanze sono concordi nel non favorire la secessione del Sud, che ha l’80% delle riserve petrolifere dello Yemen. E così la National Dialogue Conference non ha conseguito il cessate il fuoco definitivo al Nord e al Sud (al di là delle iniziative dei qaedisti), perché i gruppi in conflitto non si sono riconciliati.

Le responsabilità della comunità internazionale

Nel 2011-13, gli attacchi alle infrastrutture energetiche del Pae-se sono costati 3,5 miliardi di dollari al bilancio statale. E proseguo-no. Ma si è anche verificato che diversi comitati popolari e grup-pi tribali combattono al fianco delle autorità contro l’Aqap, come avvenne in Iraq nel 2007-08 con la Sahwa (il Risveglio) quando alcune importanti tribù sunnite diedero consistenza al surge statu-nitense. Inoltre, dallo scorso 29 aprile è in atto una controffensiva governativa nelle zone centrali e meridionali del Paese per elimina-re gli ultimi bastioni di al-Qaeda, che però non ha perso la capacità di compiere attentati clamorosi e azioni di guerriglia.

Lo Yemen deve promuovere la fiducia tra i gruppi sociali, ri-spondendo alle loro legittime richieste. Resta pertanto essenziale il ruolo di mediazione delle potenze regionali e internazionali, in

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particolare dell’Unione europea e dei suoi Stati più forti. È su tale fiducia che si può sperare di (ri)costituire la sovranità dello Stato, delegittimato anche dal diffuso senso di esclusione sociale, dalla po-vertà, dalla disoccupazione e dalla corruzione, che sono aumentati dal 2011. Accade invece che gli huthi cercano di creare con la vio-lenza una propria zona di influenza settentrionale nel futuro Stato federale, rendendo ancora più insostenibile la vita degli sfollati, che non soltanto aumentano, ma ricevono con sempre maggiore diffi-coltà gli aiuti umanitari. Inoltre la diffusione del salafismo saudita sta erodendo il potere tradizionale degli sceicchi anziani, anche nel-la loro funzione di giudici e di fornitori di welfare.

Friends of Yemen, un gruppo di oltre 20 Stati, tra cui l’Italia e l’Arabia Saudita, non ha ancora trasferito tutte le somme promesse in aiuti, anche perché teme l’inefficacia dei sussidi a causa della cor-ruzione e delle migliaia di impiegati pubblici «fantasma» (dai mili-tari alle forze dell’ordine fino al personale sanitario), cioè di persone morte o inesistenti a cui arrivano stipendi che vengono dirottati a capitribù per mantenere il loro welfare clientelare. Tuttavia perde effi-cacia anche l’aiuto internazionale quando viene polverizzato in tante iniziative di organizzazioni non governative locali, senza che venga canalizzato in priorità definite dal potere politico locale, come quella dell’educazione.

Gli analisti si domandano se la Monarchia saudita voglia veramente la transizione yemenita a una Repubblica democratica, quindi inclu-siva, perché si tratterebbe di un modello istituzionale «rivoluzionario» per il regime di Ryadh. Inoltre la sconfitta di al-Qaeda in Yemen po-trebbe motivare gli jihadisti a spostare a nord la loro guerra. Per Ryadh, lo Yemen è sempre stata una questione di politica interna, perché i flussi migratori e di qaedisti sono un minaccia alla stabilità del Regno wahabita. Negli anni, i sauditi hanno sostenuto economicamente capi tribali e i principali partiti politici, e adesso, in particolare, i salafiti pre-senti in Islah. Anche il Qatar è più attivo nella scena yemenita, perché sembra stia finanziando i Fratelli Musulmani locali, anch’essi membri del partito Islah e partecipi al Governo di transizione.

Sul fronte del tutto opposto in ottica saudita, c’è l’Iran, che si scontra (non solo politicamente) con la Monarchia wahabita in Liba-no, Bahrain, Iraq, Pakistan, Afghanistan e Yemen (e forse nei terri-

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tori sauditi abitati dagli sciiti). Teheran è accusata dal presidente Hadi di fornire armi e denaro agli huthi; e sembra cercare il dialogo con il Movimento meridionale. Per questo l’Arabia Saudita è più attenta a rafforzare il potere centrale, ma il predominio di Sana’a sullo Yemen distruggerebbe quel senso di unità nazionale che si vuole costruire con un regime federale e non più centralizzato13.

La ultradecennale politica statunitense di securitization in Yemen ha consolidato le élites al potere e ha privilegiato la collaborazione con i re-parti militari legati al regime, quindi ha favorito l’autoritarismo di Saleh. Adesso pare (o è un auspicio) che Washington promuova la democratiz-zazione interna, l’inclusione sociale e l’irrobustimento delle Forze armate nazionali dello Yemen. Sembra pure che gli Usa abbiano messo sotto revisione il drone programme, magari limitandolo alla sola sorveglianza. Anche per l’Ue è decisivo sostenere la democratizzazione yemenita, ossia una riforma costituzionale inclusiva, perché essa sia la vera priorità, in parallelo alla lotta alla corruzione, al posto della sicurezza e dell’antiter-rorismo. Forse per questa novità di atteggiamento politico, le ambasciate occidentali temono ulteriori attacchi e rapimenti del personale.

Riteniamo che la priorità sia focalizzare il sostegno internazionale alla costruzione delle istituzioni governative e agli investimenti in pro-getti, coordinati con le autorità locali, per la crescita dell’occupazione a breve termine. Tuttavia non è facile uscire da una cultura economica fondata sul paternalismo e sul clientelismo, perché questi alimentano la dipendenza della popolazione dalle autorità politiche. Allo sviluppo, invece, servono diffusa intraprendenza e vera concorrenza tra privati. Ma se lo Yemen deve essere un Paese prioritario per il successo dell’A-genda globale dell’Onu post-2015 sullo sviluppo sostenibile, allora la comunità internazionale deve contrastare con vigore i paradisi fiscali che assorbono le risorse finanziarie yemenite.

13. Cfr E. Ardemagni, «Le mani su Sana’a: perché lo Yemen non può essere sovrano (19 settembre 2013)», in www.limesonline.it; D. Grassi, «Yemen, pedina della contesa tra Arabia Saudita e Iran (24 gennaio 2014)», ivi. È di buon auspicio anche per lo Yemen, che teme guerre interne per procura tra Ryadh e Teheran come in Siria, la ripresa di interesse tra Arabia Saudita e Iran a riaprire il dialogo diploma-tico. Adesso sembrano più interessate, anche su suggerimento di Washington, a sta-bilizzare la regione mediorientale. Inoltre se, entro il 20 luglio, sarà siglato l’accordo internazionale sul nucleare iraniano, potrebbero allentarsi le tensioni tra sauditi e iraniani, oltre che sul fronte bellico in Siria anche nello Yemen.

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L’ANALFABETISMO RELIGIOSO IN ITALIA. IL CASO DELLA BIBBIA

GianPaolo Salvini S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 468-477 | 3935 (7 giugno 2014)

Non è una novità che si parli dell’ignoranza religiosa in Italia, che pure spesso si considera un Paese cattolico, anche se, come ab-biamo più di una volta documentato, la pratica religiosa è ormai minoritaria e i contenuti della fede cui i cattolici rimasti dichiarano di aderire non coincidono sempre con quelli della Chiesa.

Ma in questo articolo non vorremmo soffermarci tanto sulla pratica religiosa e sulla persistenza del cattolicesimo, più o meno «ortodosso», in Italia quanto sulle conoscenze religiose degli italiani, anche dal semplice punto di vista culturale. È un problema annoso, formulato efficacemente da Umberto Eco nel 1989 su L’Espresso, in forma di domanda retorica: «Perché i ragazzi devono sapere tutto degli dèi di Omero e pochissimo di Mosè?». Alla riflessione di Eco, venticinque anni dopo, ci permetteremmo di aggiungere che for-se gli italiani oggi non sono molto informati neppure sugli dèi di Omero.

Tocchiamo questo tema incoraggiati e aiutati da un ponde-roso volume, apparso recentemente, curato dallo storico Alberto Melloni, che affronta la problematica in modo interdisciplinare1. Il Rapporto, che il Curatore più volte presenta come «primo», annun-ciando quindi l’intenzione di inaugurarne una serie, costituisce una riflessione organica mirata soprattutto a comprendere ciò che sfug-ge dal sistema e dai programmi scolastici italiani e le cause storiche e teologiche che hanno portato a questa situazione. Contiene una

1. Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, a cura di A. Melloni, Bolo-gna, il Mulino, 2014, 512, € 38,00. Il Rapporto è in realtà una pubblicazione realiz-zata dalla «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII», di Bologna, di cui Melloni è segretario. Le pagine citate nel testo, con il nome dell’Autore rispettivo, si riferiscono al volume.

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ANALFABETISMO RELIGIOSO IN ITALIA

trentina di saggi di altrettanti autori — giuristi, teologi, storici, so-ciologi, educatori ecc. — che approfondiscono in particolare quanto riguarda la scuola pubblica italiana e le università italiane e il loro rapporto con la religione, e una loro eventuale riforma.

Noi ci limiteremo ad alcuni aspetti più di tipo generale e so-ciologico, non prevalenti nel testo, rinviando al volume quanti de-siderassero approfondire l’argomento. Il Rapporto infatti si pone a un livello più alto, volendo «mostrare come si possa (e dunque si debba) entrare in questo ambito del sapere con strumenti adeguati e conoscenze raffinate come quelle dei giuristi, degli storici, dei teo­logi, dei pedagogisti e dei sociologi qui coinvolti, liberi dai luoghi comuni» (A. Melloni, p. 11).

L’analfabetismo religioso in Italia

Esistono numerose pubblicazioni che cercano di fare un quadro del cattolicesimo in Italia2. Da esse risulta un panorama di cattolici che, pur rivendicando la loro appartenenza confessionale, sono in-certi sui contenuti dogmatici che la definiscono, sono individualisti quanto alle scelte etiche su temi religiosamente rilevanti, sono di-stanti dai sacramenti, in particolare dalla confessione, sono aperti nei confronti del pluralismo religioso, ma con idee abbastanza con-fuse in proposito, e così via.

«Da questo quadro emerge una religiosità diffusa ma sempre più inconsapevole, tratteggiata come appartenenza a una tradizione culturale rilevante ma interpretata liberamente e individualmente, secondo lo schema di quel bricolage spirituale ampiamente docu-mentato nel contesto occidentale e soprattutto europeo» (P. Naso, p. 393). Le risposte sono note: l’81,4% degli italiani che si professano cattolici afferma che si può avere una vita spirituale senza far parte di un’organizzazione religiosa. Tra coloro che aderiscono a una re-ligione, soltanto il 30% si riconosce senza problemi nelle proposte della Chiesa o della confessione di cui fa parte, mentre il 26,5% le accetta con riserva, il 32,4% si dichiara credente «a modo proprio».

2. Cfr in particolare gli studi di F. Garelli, come Religione all’italiana. L’a-nima del Paese messa a nudo, Bologna, il Mulino, 2011; R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, ivi, 2011.

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In questa libertà del credere, è facile che alcuni aspetti fondamen-tali della propria fede vengano ignorati o distorti. Alla domanda su che cosa vi sia dopo la morte, il 14,6% degli italiani risponde molto semplicemente: «nulla»; il 43,9% dichiara di non potersi pronun-ciare a questo proposito, e solo il 36,3% ritiene che vi sia un’altra vita, cioè dà la risposta che ci si attende da un credente. In Italia, il 79,1% degli abitanti, cioè la stragrande maggioranza, si dichiara cattolico, ma il dato sembra manifestare più l’appartenenza a una tradizione religiosa che il possesso di una fede intimamente vissuta. Il fatto che l’Italia diventi sempre più multiculturale e multireligiosa pone il problema del confronto con le altre religioni. L’analfabeti-smo religioso si fa incalzante, sfidando il senso di un’appartenenza confessionale teoricamente affermata.

I luoghi in cui può avvenire la formazione religiosa sono la fa-miglia, la scuola, la parrocchia e la comunicazione di massa. L’87,1% del campione3 ha fatto frequentare o farebbe frequentare a scuola ai propri figli l’insegnamento religioso confessionale cattolico. Come motivi vengono addotti la fiducia nell’educazione cristiana (45,9%) e la volontà di salvaguardare la tradizione cattolica (37,6%). Va no-tata comunque la disponibilità, anzi l’interesse di molti italiani a un insegnamento anche delle altre religioni, sino a ritenere utile che siano coinvolti anche insegnanti di religione diversa.

Il libro fondamentale della tradizione cristiana, la Bibbia4, è pos-seduto dal 70% degli italiani e dall’86% dei cattolici praticanti. Ma possederlo non significa leggerlo: coloro a cui capita di leggere la Bibbia da soli sono il 29,3%. Il 70% degli italiani, praticanti e non praticanti, non si accosta mai alla Bibbia o lo fa soltanto in occa-sione delle cerimonie liturgiche. Si può notare che la lettura della Bibbia aumenta con il titolo di studio. Tra quanti hanno la licenza elementare arriva al 22,7%, mentre tra i laureati sale al 38,5%. I non cattolici leggono la Bibbia più dei cattolici, e così pure coloro che hanno avuto un’educazione non cattolica la leggono più di quanti sono stati educati all’interno delle parrocchie. Le donne leggono

3. L’Autore, P. Naso, usa i dati elaborati da GFK Eurisco per conto della Ta-vola valdese in un survey sulla religiosità degli italiani realizzato nel 2013.

4. Nel corso dell’articolo, parlando di ignoranza religiosa, faremo riferimen-to soprattutto al contenuto della Bibbia, come testo fondante del cristianesimo.

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individualmente la Bibbia poco più degli uomini: 30,3% contro il 28,1% degli uomini.

Il risultato è che la Scrittura è poco conosciuta: il 26,4% afferma che la Bibbia è stata scritta da Mosè; il 20,4% da Gesù: quindi il 46,9% degli italiani non conosce gli autori della Bibbia. Per il 27,1% i Vangeli e la Bibbia sono la stessa cosa, mentre per il 14,8% la Bib-bia degli ebrei e quella dei cristiani non hanno nulla in comune. Se si chiede chi siano gli autori dei Vangeli, soltanto il 30,1% li sa citare tutti e quattro. A una domanda sull’Esodo, il 66,2% risponde cor-rettamente che il testo racconta il viaggio degli ebrei verso la terra promessa, per il 14,2% esso indica il viaggio di Giuseppe e Maria da Nazaret a Betlemme, per il 2,7% il viaggio di Paolo a Roma ecc. La cronologia biblica è poco nota: coloro che sanno mettere nell’ordine cronologico esatto Noè, Abramo, Mosè e Gesù sono il 31%. Del restante 69%, il 12% indica Gesù come vissuto prima di tutti gli altri.

Anche per i comandamenti le cose non vanno meglio. Coloro che sanno dire correttamente di che cosa si tratta sono il 48,8%, mentre sono un po’ di più (51,2%) coloro che sanno chi li ha dettati. Ma il 9,1% li attribuisce a Gesù, il 22,2% a Mosè, altri ad Abramo, a san Pietro o allo Spirito Santo. Ma, se si passa ai contenuti, solo un modesto 1,6% li sa citare correttamente, percentuale che sale al 2,9% tra i cattolici praticanti. Il comandamento più conosciuto è «non rubare», considerato come il primo comandamento, seguito da «non desiderare la donna d’altri», «onora il padre e la madre» e «non uccidere». Il comandamento più dimenticato o mai imparato è «non commettere atti impuri». Molto trascurato è il fondamentale «non avrai altro Dio fuori di me». Tra coloro in grado di citare al-meno un comandamento, anche solo approssimativamente, i catto-lici praticanti se la cavano meglio dei non praticanti (43,2% contro 34,9%), ma meno bene dei credenti di altre confessioni (60,7%).

Chiedendo se certe espressioni siano bibliche, non pochi affer-mano che si tratta di storie o espressioni bibliche quando si parla della Cupola di San Pietro, del Sacro Graal, delle visioni di Fatima e del priorato di Sion. Tra i giovani compresi tra i 18 e i 24 anni, vissuti quindi al momento della maggiore diffusione del Codice da Vinci di Dan Brown, coloro che ritengono espressione biblica il

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Priorato di Sion sono il 54,2%. Quanto alle virtù teologali, solo il 17,2% del campione le indica correttamente. Il 76,7% non sa o non capisce neppure la domanda. Va un po’ meglio tra i cattolici prati-canti (24,7%). Le uniche categorie che se la cavano discretamente sono i laureati e le persone con più di 45 anni.

Se si passa alla «religione degli altri», mentre il 64,8% sa dire che la regina Elisabetta è anglicana o protestante e che il Dalai Lama è buddista (62,1%), solo il 44,3% conosce il legame di Vladimir Putin con l’ortodossia, mentre per il 10,4% Putin è protestante, e per il 4,6% è cattolico. Venendo al mondo italiano, il 62,3% non sa che Primo Levi era ebreo. Per il 38% anche Barak Obama è cattolico e per il 30,3% anche Angela Merkel è cattolica, mentre solo il 27,4% la indica correttamente come protestante o luterana. Del resto il 59,1% del campione intervistato non sa dire chi iniziò la Riforma protestante. In questo caso gli uomini rispondono più correttamen-te delle donne e, insolitamente, i giovani più degli anziani.

Quanto all’interesse per le altre religioni, sempre più presenti nel nostro Paese, molti lamentano la scarsità di informazioni sulle religioni, sia su quella cattolica sia sulle altre. Si dichiara una certa disponibilità ad aprire nuovi luoghi di culto, moschee comprese: è favorevole il 63,2%, contrario il 29,6%, indeciso il 7,2%; tra i cat-tolici praticanti, i favorevoli salgono leggermente (64,9%), mentre i contrari scendono al 27,8%. Ma a questa teorica disponibilità non corrisponde l’impegno a saperne di più, tranne che nei centri con più di 500.000 abitanti e per le persone comprese tra i 18 e i 44 anni.

La conoscenza della Bibbia in Italia

Non potendo affrontare tutte le tematiche toccate dal volume, ci limitiamo alla conoscenza della Bibbia in Italia, trattandosi del testo fondamentale della fede maggioritaria del nostro Paese, dove, paradossalmente, esso in passato è stato ben poco conosciuto, anche perché la gerarchia temeva l’esempio del mondo protestante, con la sua frammentazione dovuta alla libera interpretazione del testo. Lo facciamo seguendo il saggio di Piero Stefani.

Nell’ultimo secolo si è assistito a un maggiore interesse per la

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Sacra Scrittura, in particolare dopo il Concilio Vaticano II, ma con alcune contraddizioni che sembrano andare in direzione opposta. «Questa situazione ibrida fa sì che da un lato si noti un interesse sen-za precedenti per il testo biblico e dall’altro si registri un’ignoranza crescente dei riferimenti biblici un tempo largamente conosciuti» (P. Stefani, p. 309 s).

In realtà la Bibbia rientrava in quel genere di testi che in qualche modo erano conosciuti anche da chi non li aveva letti, così come Cappuccetto rosso è noto anche a chi non ne conosce neppure l’auto-re. Nella cultura anche popolare italiana esiste una serie di locuzioni di origine biblica che tutti conoscono: «essere un buon samarita-no», «nessuno è profeta in patria», «è proprio un figliol prodigo», «ci vuole la pazienza di Giobbe» e così via. Non è difficile intuire da questi segni che l’Italia è un Paese culturalmente cattolico. Questo è dovuto al fatto che «in virtù di una scelta strategica compiuta dal-la chiesa post-tridentina la Scrittura, infatti, fu a lungo conosciuta nella forma sostitutiva e mediata della “storia sacra”» (p. 310). Essa veniva esposta in modo catechetico e divulgata seguendo un itine-rario preciso che metteva in fila le varie figure bibliche, partendo da Adamo sino a giungere a Gesù. I vari personaggi che scandiscono la storia della rivelazione erano perciò noti ai bambini che frequen-tavano il catechismo o la chiesa. In questo metodo la Bibbia era pre-sentata come un racconto unitario nel quale tutto si teneva e già sin dal peccato di Adamo ed Eva si era rinviati alla redenzione operata da Gesù. Tutto aiutava a seguire la storia della salvezza, molte volte prefigurata dai vari personaggi, senza che fosse possibile deviare dal percorso con un’interpretazione personale del testo, che veniva di fatto ignorato.

Ora è proprio questo metodo che è andato in crisi nel postcon-cilio. «L’approccio legato alla storia sacra non accostava i fedeli alla Bibbia. La sua funzione era un’altra: far conoscere in modo parziale e selettivo qualcosa della Scrittura» (ivi). Un serie di fattori ha fat-to venir meno questo modello. Anzitutto la secolarizzazione e la caduta della pratica religiosa, che ha ridotto il numero di coloro che venivano raggiunti con questo metodo. Inoltre, il ritorno al testo originale della Bibbia, l’aver legittimato e praticato gli approc-ci storico-critici e letterari alla Scrittura, e soprattutto la riforma

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liturgica, che ha reso più familiari molti testi dell’Antico e del Nuo-vo Testamento, hanno messo in crisi il predominio assegnato pri-ma alla storia sacra. La catechesi, anche di preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima, è stata opportunamente rinnovata, ma questo ha di fatto portato con sé una drastica riduzione della cono-scenza dei contenuti della fede. «Il vecchio metodo non ha trovato sostituti» (p. 311). Il vecchio catechismo non è stato adeguatamente sostituito dai nuovi testi, più lunghi e complessi, anche se più orga-nici e unitari nel presentare i contenuti della fede.

La scuola pubblica non ha certamente supplito, in quanto non ha mai prospettato un programma sistematico di cultura biblica. L’insegnamento della religione cattolica lo prevede, ma in realtà esso non viene sviluppato se non in particolari contesti cultural-mente più maturi. Nelle scuole secondarie si cede volentieri alla tentazione di discutere problemi etico-psico-sociologici, mentre nella scuola primaria la storia sacra è andata in crisi come tutte le «grandi narrazioni».

Chiesa e scuola, le due grandi istituzioni di formazione cultu-rale italiana, non forniscono ormai alle nuove generazioni i rudi-menti biblici della storia sacra, e non si sono dimostrate in grado di sostituirli con una cultura biblica organica. Inoltre, aggiungiamo noi, nelle famiglie, sempre più secolarizzate, neppure le mamme sono più in grado di fornire ai bambini quella conoscenza biblica di base, fatta di racconti e di figure bibliche, che consentiva di andare poi alla «dottrina» in parrocchia per ricevere una serie di nozioni più organiche e strutturate.

Esiste invece una relativa abbondanza di libri (sia nell’editoria religiosa sia, in misura ridotta, in quella laica) ben redatti, che po-trebbero aiutare ad accostarsi alla Bibbia in modo adeguato, ma sono relativamente pochi quelli che se ne avvalgono, anche se certo più di una volta. Il risultato è che, mentre aumentano coloro che mostrano un profondo desiderio di conoscere la Bibbia, aumenta anche il numero di coloro che non ne sanno più nulla.

Secondo Stefani, anche nel mondo culturale italiano si può con-statare il declino del ruolo una volta attribuito alla storia sacra. La cultura italiana ha mostrato il proprio interesse per la Bibbia soprat-tutto in tre ambiti: quello estetico, quello filosofico­sapienziale e

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quello filosofico­politico. Il primo è certamente il più consistente, «e al suo riguardo un ruolo di rilievo va assegnato all’opera plu-ridecennale compiuta da Gianfranco Ravasi» (p. 312). Si può dire cioè che nella Bibbia c’è la dimensione del bello, e la Bibbia ha in-fluenzato il bello. Nell’espressione artistica, architettonica, pittori-ca, scultorea, musicale, poetica ecc. dell’Occidente vi sono profondi e innumerevoli lasciti biblici, anche se, essendo la Bibbia un testo scritto, è soprattutto nella forma letteraria e poetica che il bello tro-va un riscontro preciso all’interno di essa. Il rischio è che, quan-do l’interesse estetico diviene predominante, è il genere letterario a diventare la via maestra per legittimare l’apertura alla Bibbia. «A coinvolgere i lettori è il respiro poetico-letterario della Scrittura e non la Bibbia in se stessa» (ivi).

Visti gli enormi influssi culturali ricevuti dalla Bibbia in tanti campi del sapere e dell’agire, sarebbe ovvio che si andasse alla ricerca della causa di effetti così diffusi, prendendo in mano direttamente il testo biblico. Ma spesso si pensa che si tratti di una fonte religiosa, e quindi affrontabile soltanto in termini confessionali, cosa che «co-stituisce una distorsione senza attenuanti». Occorre che la Bibbia sia conosciuta come «classico», cioè come «un libro che incide sul pub-blico anche quando non lo si legge», perché è diventato un punto di riferimento per tutti, prescindendo dai gusti individuali. A rendere un libro «classico» è il consenso che si crea intorno ad esso, perché nessun libro nasce come «classico».

Essendo la Bibbia un testo anche sacro, occorre trovare criteri pure «laici», che cioè possano essere accettati da tutti, in un am-biente largamente pluralistico come è ormai quello italiano. Essa va perlomeno accomunata ad altri testi antichi, appunto «classici». «L’esemplificazione più immediata sta nell’accettazione, ormai uffi-cialmente sottoscritta dalle chiese occidentali storiche, del metodo storico-critico, di quelli letterari o di quelli connessi alle scienze umane» (p. 313). Le pagine sacre infatti, oltre a essere produttrici di cultura, sono anche prodotti culturali legati a un’epoca, a con-testi, redazioni, scritture e rifacimenti. Occorre quindi legittimare la possibilità di presentare in modo culturale un testo sacro, anche se per un credente, o per una comunità di credenti, essi sono pure testi accolti come parola di Dio. Gli stessi autori dei vari libri della

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Bibbia del resto intendevano compiere un’opera religiosa e non un’attività culturale. Un approccio comprensivo e rispettoso alla Scrittura deve perciò comportare un’attenzione costante all’aspet-to religioso, anche da parte di chi non lo condivide.

Strumento prezioso per farlo dovrebbe essere la scuola. Un’in-chiesta commissionata all’Eurisco in vista del Sinodo sulla Parola di Dio (2008) affermava che il 62% degli intervistati era favorevole all’inserimento della Bibbia nell’insegnamento scolastico. Si consta-ta perciò una volontà di far entrare la Bibbia nelle scuole, a cui non sempre sinora ha corrisposto una realtà effettiva.

Non sembra infatti che la scuola pubblica italiana si sia dimostra-ta sinora in grado di inserire nei suoi programmi delle superiori un serio studio aconfessionale della Bibbia. La Conferenza Episcopale Italiana si è sempre preoccupata di affermare che l’insegnamento della religione cattolica effettuato a scuola non è una catechesi, e i programmi da essa elaborati vanno effettivamente in questo senso, insistendo sulla dimensione culturale della religione e riservando ampio spazio alla Bibbia. Ma il risultato non è sempre soddisfacente. Buona parte dei saggi raccolti nel volume sono dedicati proprio a questo delicato problema e a quello della formazione degli inse-gnanti, non essendoci in Italia Facoltà teologiche statali che metta-no gli insegnanti di religione al livello degli altri docenti. Anche se notevoli passi in questo senso sono stati certamente compiuti.

Rimane il fatto che l’insegnamento della religione è tuttora le-gato alla scelta di avvalersi dell’insegnamento proposto, con il risul-tato che quanti non se ne avvalgono rimangono teoricamente privi di ogni possibilità di approfondire a scuola lo studio della Bibbia in un modo organico. Al momento degli accordi sull’insegnamento della religione cattolica, infatti, lo Stato si è preoccupato anzitutto che esso fosse libero, mentre la Chiesa si è preoccupata che ne fos-se garantita la qualità cattolica. Il problema non ha ancora trovato una soluzione che soddisfi tutte le esigenze. In ogni caso, la via che appare più percorribile per inserire l’insegnamento della Bibbia nella scuola consiste nell’evidenziare come gli influssi di quel libro siano tanto evidenti in molti ambiti disciplinari, che non si limitano all’arte e alla letteratura, ma si riferiscono anche alla filosofia, alla storia, alla politica, al diritto e così via.

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Qualche riflessione conclusiva

Il testo che abbiamo parzialmente presentato è naturalmente molto più complesso dei pochi elementi che ci siamo proposti di indicare, ed è in buona parte dedicato, ad esempio, al problema isti-tuzionale dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, della sua eventuale riforma ecc. Si parla largamente del pluralismo religioso presente in Italia sia per la presenza di immigrati non cri-stiani, sia per l’interesse di molti italiani, ma il confronto con queste altre tradizioni è spesso ignorato o semplicemente dominato dalla non conoscenza reciproca, che impedisce anche un dialogo che ar-ricchisca tutti gli interlocutori. La produzione legislativa sulla liber-tà religiosa è significativa, ma ancora molto carente, come rilevato dagli Autori.

Ci pare però che in questo primo Rapporto sia abbastanza as-sente l’aspetto potremmo dire «privato» della cultura religiosa, cioè quanto, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, si è cercato di fare, con la creazione di migliaia di gruppi spesso spontanei, ma an-che suscitati dalle parrocchie, dalle associazioni e dai movimenti per supplire a un contesto di cultura religiosa ormai in buona parte as-sente nella nostra società. Venuto meno il criterio nozionistico alla base del vecchio catechismo, i nuovi testi o le loro fonti ispiratrici, come i documenti del Concilio Vaticano II, ricchissimi e organica-mente costruiti ma complessi, non hanno ancora trovato un canale di divulgazione adeguato che li renda parte della cultura attuale.

Le famiglie, a loro volta, spesso non sono più in grado di fornire il clima favorevole alla diffusione di una cultura di base impregnata di elementi cristiani, a cui la scuola dovrebbe fornire l’impianto cul-turale più sistematico, mentre alle parrocchie toccherebbe il compi-to di dare la dimensione catechetica indispensabile. Né si rendereb-be giustizia alla storia e al cristianesimo considerando quest’ultimo soltanto una religione civile che definisce l’identità italiana. Il com-pito per il futuro è quindi complesso, ma ricco di molte possibilità.

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ANTON BRUCKNER, IL MUSICISTA MISTICO

Giovanni Arledler S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 478-489 | 3935 (7 giugno 2014)

Il duplice anniversario mahleriano (2010-11)1, la ricorrenza che riguardava Liszt2, il secondo centenario della nascita di Richard Wagner3 hanno portato, direttamente e indirettamente, a parlare di altri musicisti diversamente coevi, e tra questi merita di essere approfondita la vicenda dell’austriaco e cattolico Anton Bruckner, figura del tutto unica nel panorama della storia della musica. Mite, irresoluto, profondamente religioso, pur desiderando mete artisti-che ambiziose, iniziò la carriera come maestro elementare, suonan-do nello stesso tempo l’organo in chiesa e scrivendo, come dilettan-te, alcune composizioni liturgiche. Prima del compimento dei suoi 40 anni, iniziò finalmente una carriera di compositore che lo fece ben presto conoscere in tutto il mondo.

Infanzia e primi studi

Anton nasce ad Ansfelden, Alta Austria, il 4 settembre 1824, da Joseph Bruckner e da Theresia Helm, e fin da piccolo riceve lezio-ni all’organo della chiesa parrocchiale dal padre e i primi elementi del canto dalla madre, donna di fede, di profonda umiltà e intensa laboriosità. La povertà, insieme alla mancanza di igiene e alle limi-tate risorse della medicina del tempo, è la causa della morte precoce di sei dei dieci fratelli di Anton, cui segue presto anche quella del padre il 7 giugno 1837. Questa esperienza della morte contribuirà a segnare per sempre il carattere mite e indeciso del compositore, per

1. Cfr Civ. Catt. 2011 II 338-350.2. Cfr ivi 2013 I 360-368.3. Cfr ivi 2013 IV 594-602.

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condurlo, attorno ai quarant’anni, a una forma di delirio paranoico, dalla cui fase acuta egli guarirà per fortuna nell’arco di alcuni mesi, pur rimanendo sempre vulnerabile dal lato psichico.

Attorno agli undici anni, Anton riceve lezioni di armonia e contrappunto dal cugino Johann Weiss, mentre lo stesso giorno della morte del padre la madre lo affida al priore dell’abbazia dei canonici agostiniani di Sankt Florian, alla quale tornerà più volte e rimarrà legato per sempre anche con una semplice lapide che ne indica la sepoltura. A Sankt Florian il giovane Bruckner non solo completa la sua formazione scolastica, ma fa eccellenti progressi sul piano musicale, grazie a ottimi insegnanti, tra i quali Anton Kat-tinger, ai suoi tempi definito il «Beethoven dell’organo».

Quando nel 1840, a sedici anni, Anton deve decidere se rimane-re lì per intraprendere la vita religiosa, sceglie di diventare maestro di scuola come il padre e, per conseguire l’abilitazione, si sposta nel-la vicina Linz, dove approfitta, sempre assieme alla pratica dell’or-gano, per coltivare anche lo studio della musica.

Studi personali fino al Conservatorio

Nell’autunno 1841 Anton inizia la sua esperienza di insegnante elementare in piccoli villaggi dell’Austria del nord e dell’est, cer-cando di non perdere i contatti con Sankt Florian. In questo perio-do studia a fondo Bach, Mozart e i fratelli Franz Joseph e Michael Haydn. Nel 1845 vince un concorso musicale a Linz, e nel set-tembre dello stesso anno torna come maestro salariato nella scuola parrocchiale dell’abbazia di Sankt Florian. Nel 1848, resosi momen-taneamente vacante il posto di organista titolare, è orgoglioso di assumere l’incarico in un ambiente dove da anni è conosciuto e stimato da tutti.

È significativo che in questo periodo Bruckner torni alla com-posizione più convinto delle proprie capacità, e nel 1849 vede la luce il suo Requiem in re minore4, che egli definisce «non malvagio». Questa opera è preceduta da un certo numero di lavori destinati

4. Il Requiem è inciso per la Hyperion sotto la direzione di M. Best, che ha curato per la stessa etichetta altre incisioni di musiche religiose di Bruckner.

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alla liturgia (inni, mottetti), da una Messa per contralto e coro misto (1842), e da un’altra completamente corale (1844)5, in cui colpisce una suadente cantabilità di origini schubertiane.

Nel settembre del 1851 l’incarico di organista a Sankt Florian diviene definitivo, ma le insicurezze di Bruckner sia umane (ogni genere di relazione sentimentale rimarrà sostanzialmente platonica) sia artistiche non accennano a svanire. A metà del 1852 egli sotto-pone alcuni suoi lavori a un celebre maestro di cappella di Vienna, Ignaz Assmayr, che era stato amico di Schubert, e questi, dopo aver esaminato il Salmo 1146, gli consiglia di non pensare più alla com-posizione.

Dopo un lungo periodo di abbattimento, durante il quale egli concorre invano a un posto di impiegato statale, ci sono due altri eventi che contribuiscono a risollevarlo. Il primo, in forma di let-tera, è dell’amico Schaarschmidt, consigliere al tribunale di Linz, il quale lo assicura che «il solo campo dove può riuscire» è quello mu-sicale; il secondo, più significativo, viene dal celebre teorico musica-le Simon Sechter7, organista di corte e insegnante al Conservatorio di Vienna, che gli suggerisce di continuare a studiare, ampliando il più possibile gli orizzonti, meglio se fuori dall’ambiente un po’ retrivo di Sankt Florian.

Nel novembre 1855 viene indetto un concorso di organista ti-tolare a Linz, che Bruckner vince con facilità. Il suo servizio inizia il 25 gennaio dell’anno successivo. Anton, a partire dal 1856, studia privatamente sotto la guida severa di Sechter, che gli suggerisce tra l’altro di sospendere la composizione per concentrarsi sul suo perfezionamento e che riconosce di non aver mai avuto un allievo più zelante di lui. La regolarità di questi anni di studi favoriscono successi e riconoscimenti in campo organistico, e un primo artico-lo elogiativo sulla Wiener Zeitung, il 28 luglio 1858, riporta questa affermazione: «Devono esserci poche cattedrali a vantare un orga-nista come Bruckner».

5. Questa Messa si trova incisa in un cd della Orfeo (C 327 951 A) assieme a un’ampia antologia di brani liturgici.

6. È registrato con il Salmo 112 nel cd della Hyperion che contiene il Requiem.7. Lo stesso con cui Schubert avrebbe voluto studiare il contrappunto, se la

morte non lo avesse colto a soli 31 anni, nel 1828.

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Nel 1861 Anton si iscrive ufficialmente al Conservatorio per avere un certificato di «maestro di musica», e Johann Herbeck8, che lo esamina con Sechter e altri, scriverà poi in una lettera: «Se io sapessi la decima parte di ciò che lui sa, mi considererei felice. È lui che avrebbe dovuto esaminare noi».

Questo prestigioso traguardo non lo appaga, ed egli continua a studiare a Linz, sotto la guida di Otto Kitzler, più giovane di lui di dieci anni, avvicinando finalmente le grandi opere musicali del tempo, come quelle di Berlioz, e quelle che stavano dando lustro alla cultura germanica: le opere di Liszt, in particolare e, soprattut-to, quelle di Wagner, del quale Anton diviene un fervente ammi-ratore. Egli conoscerà personalmente questi compositori tra il 1865 e il 1866.

Finalmente in carriera

Il 1863 si può considerare l’inizio dell’importante carriera di musicista di Anton Bruckner. Nonostante le insicurezze personali — molti grandi compositori, come Pergolesi, Mozart, Schubert, a 39 anni erano già scomparsi —, con la determinazione che osser-viamo nei geni egli conquista rapidamente il suo linguaggio con alcuni abbozzi di sinfonie, con un Quartetto per archi, con l’Ouver-ture in sol minore, la Sinfonia in fa maggiore, il Salmo 112 e la prima stesura della Sinfonia in re minore9, che in seguito sarà indicata con il n. 0 (Die Nullte)10. Quando, a partire dal 1865, inizia a comporre la Sinfonia n. 1 in do minore, ha alle spalle un grande tirocinio, per cui il successo che otterrà in seguito, comunque prodigioso, non sarà, in pari tempo, del tutto incomprensibile.

Bruckner si farà conoscere sempre più anche al di fuori del suo Paese, in Francia, Inghilterra e Germania, non solo come organista,

8. Johann Ritter von Herbeck è noto, tra l’altro, per aver rinvenuto l’Incompiuta di Schubert ed averla eseguita per la prima volta nel 1865.

9. Di rara esecuzione e registrazione, assieme alla successiva si trova in un cd della Melodyia, con Rojdestvenski direttore. La Sinfonia n. 0 è anche inclusa nelle integrali di Barenboim (DG), Chailly (Decca), Inbal (Teldec), Maazel (Bavarian Radio Set), Solti (Decca).

10. Nel 1864 compone una Missa Solemnis in si bemolle minore che, rispetto alle Messe successive, si può considerare anch’essa una opus Zero.

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ma, grazie all’interessamento di alcuni grandi direttori d’orchestra (Levi, Nikisch, Richter, Mahler), anche come compositore: le sue opere maggiori si potranno ascoltare in tutta Europa e fin negli Stati Uniti d’America. Egli stesso salirà più volte sul podio di or-chestre importanti per dirigere le sue sinfonie e le sue partiture su testo religioso, come le tre Grandi Messe, il celebre Te Deum (1884) e il Salmo 150 (1892), che, in effetti, per il loro linguaggio e la loro grandiosità, sono più adatte ai concerti sinfonici, e non tanto alle cerimonie liturgiche.

Le tre «Grandi Messe»

Insieme alla costruzione del suo linguaggio sinfonico, Bruckner vuole misurarsi con il genere che più gli sta a cuore, e tra il 1864 e il 1868 compone tre Grandi Messe per solisti, coro e orchestra, che, come le sinfonie, egli sottoporrà a numerose rielaborazioni. Mentre la Prima in re minore e la Terza in fa minore possono collegarsi alle Messe realizzate da Haydn e da Beethoven e spesso lasciano appari-re un linguaggio sinfonico con punti di contatto con le sue prime sinfonie, la Seconda Messa11 (1866) in mi minore, per coro a otto voci e orchestra di soli strumenti a fiato, cerca una fonte di ispira-zione nella grande polifonia, soprattutto in Palestrina, e possiede un tono arcaico, austero, a tratti aspro, per cui qualche critico la mette in relazione addirittura con la Messa (1944-47) di Igor Stravinski, anch’essa per un organico simile, benché assai più ridotto.

Non è inutile ricordare che i testi di queste Messe sono in latino, mentre quelli dei Salmi12 sono in lingua tedesca. Con la sua musica di carattere sacro, Bruckner si accosta a Liszt — al quale si ispira pure per le più ardite armonie —, per tentare di dare una rispo-sta alle istanze del coevo Movimento Ceciliano, avvicinato però in modo così personale e originale da non offrire molte partiture alla sede liturgica.

11. Di queste tre Messe esiste una registrazione diretta da Eugen Jochum, che ha firmato anche un’integrale delle Sinfonie sempre per la Deutsche Grammophon (d’ora in avanti DG).

12. Ai Salmi 112, 114 (116) e 150, già citati, occorre aggiungere i Salmi 22 e 146.

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ANTON BRUCKNER

Dalla Prima alla Terza Sinfonia

L’esecuzione della Prima Sinfonia in do minore, detta anche «Linz», nel maggio 1868, non ebbe un grandissimo successo. Poco dopo Bruckner si trasferì definitivamente a Vienna come incaricato di armonia, contrappunto e organo al Conservatorio, e organista di corte. Un anno prima aveva superato la più grave delle sue nevro-si, che lo aveva costretto per alcuni mesi al ricovero in una clinica specializzata a Bad Kreutzen. Molti artisti e letterati nell’Ottocento sprofondarono nell’obnubilamento: se Anton ne venne fuori, ciò è dovuto in gran parte alla sua umiltà e alla sua fede profonda, che non gli facevano ricercare a ogni costo successi sul lavoro e in cam-po artistico.

Concluso il ciclo delle Grandi Messe, Bruckner non smise di comporre nel genere sacro e liturgico e, oltre ai brani già citati, possiamo ricordare il graduale Os Iusti (1879), Christus factus est (1884), Virga Iesse (1885), Ecce sacerdos magnus (1885), Vexillas Regis (1892)13. Sta di fatto che, con consapevolezza, egli decise di dedicare tutti i suoi sforzi al genere sinfonico, componendo con regolarità partiture di concezione vasta e sempre più nuova, fino a un’ultima sinfonia, la Nona, che rimase priva del finale, di cui pure rimango-no importanti abbozzi.

La Sinfonia n. 1, sebbene abbia un impianto tradizionale, mostra già la caratteristica di un terzo tema che comparirà con una certa frequenza nei primi movimenti: in questo caso, un «Allegro», cui segue un «Adagio» di ampie proporzioni e di grande suggestione, che rivela sia l’ascolto del Tannhäuser — che era stato rappresenta-to a Linz il 13 febbraio 1863 —, sia quello del Tristan und Isolde, sempre ovviamente di Wagner. Bruckner aveva assistito alla prima rappresentazione di questo a Monaco, il 10 giugno 1865, prima di mettere mano all’«Adagio», che venne composto per ultimo rispetto alle altre parti della Sinfonia.

Il terzo movimento, lo «Scherzo con Trio», è di un piglio e di un vigore che diventeranno sempre più inconfondibili, così come il Finale («Mosso, con fuoco»), molto elaborato, che va a concludere

13. Questi brani si trovano registrati nel cd della Orfeo.

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con una sorta di fanfara, di apoteosi. Eseguita da grandi interpreti come Karajan14, questa partitura può perfino lasciare a bocca aperta. Bruckner chiamerà questo suo lavoro con particolare affetto das ke-cke Beserl (la piccola scopa impertinente), fiera e vigorosa, come l’a-spetto del suo autore, che non si vergognava delle sue origini con-tadine, anche se alcuni amici definivano i suoi abiti come «tagliati con la scure» del boscaiolo.

La Sinfonia n. 2 (1872)15, anch’essa in do minore, è una sorta di risposta a chi giudicava ineseguibile la Prima. A parte il tempo lento, il secondo movimento, «Andante», che è uno dei più felici concepiti dal musicista per la sua linea melodica e la classica forma di canzone, questa composizione non aggiunge molto a quanto Bruckner aveva finora realizzato. È ricordata anche come «Sinfonia delle pause», in quanto l’autore, per evidenziare meglio la costruzione musicale, ne segnala le varie sezioni con degli arresti che, a orecchie non prepa-rate, risultano bizzarri.

La Sinfonia n. 3 (1873) in re minore, anche se non raggiunge la sapienza formale e il fascino delle successive, è un lavoro molto si-gnificativo, tanto che Bruckner la dedicò a Wagner e fece in modo che il grande compositore ne leggesse effettivamente la partitura. L’incipit, con un tipico segnale sulla base di un accordo minore che ricorda l’inizio della Nona di Beethoven, è seguito da un primo tema molto articolato. Ad esso fanno seguito altri spunti temati-ci di varia natura, compreso un corale, che saranno sviluppati con grande maestria. Lo stesso avverrà nel Finale, «Allegro», dove si riascolta anche un caratteristico tema affidato alla tromba, che colpì subito Wagner. Completano questa Sinfonia dal carattere eroico un bellissimo e lirico «Adagio, mosso, quasi Andante» e un altro dei suoi Scherzi, inconfondibile, con un piglio di ascendenze beetho-veniane.

L’esecuzione della Sinfonia n. 3 a Vienna, nel 1877, per i giu-dizi dell’autorevole critico musicale del tempo, Eduard Hanslick, aprì una netta e spiacevole frattura tra il partito dei classicisti, che

14. Cfr un cd DG 415 985. Karajan incise anche le altre Sinfonie per l’etichetta tedesca.

15. Di solito parliamo dell’anno del completamento della composizione, senza tener conto delle numerose rielaborazioni sia delle Messe sia delle Sinfonie.

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aveva il suo campione in Johannes Brahms, e quello dei novatori e «wagneriani», che da allora in avanti scelse come paladino Anton Bruckner. Tra i due, il più estraneo a questa lunga querelle fu pro-prio Bruckner, il quale alcuni anni dopo riuscì a scambiare alcune battute simpatiche con Brahms nella famosa locanda All’istrice rosso, davanti a un piatto di knödel (canederli), una specie di grossi gnoc-chi ripieni.

Dalla Quarta alla Sesta Sinfonia

La Sinfonia n. 4 (1873) in mi bemolle maggiore è l’unica che fu creata con un appellativo prestabilito: Romantische (Romantica). Questo romanticismo l’autore lo rappresenta fin dall’inizio, con-ferendogli quelle accezioni così care ai romantici tedeschi: natura, arte, religione. La visione di un castello che si risveglia tra i richiami dei cacciatori come un quadro dai colori suggestivi e sfumati indu-gia su temi agresti, grazie al suono dei legni e dei corni. Più avanti prevalgono altri elementi che fanno pensare a una sacralità rituale, esaltati dal caratteristico incedere bruckneriano che si spinge verso amplificazioni sonore inaudite.

L’«Andante, quasi allegretto» e lo «Scherzo con Trio» sono tesi a ribadire l’unità stilistica della Sinfonia, messa in evidenza ancor più nel Finale, che sembra concludersi con atmosfere simili a quelle dell’inizio. Pur in un clima potenzialmente ostile, la Sinfonia fu eseguita a Vienna, nel febbraio 1881, dal grande direttore Hans Richter, al quale Bruckner, con commovente semplicità, donò alla fine un tallero, esclamando: «Bevete un bicchiere di birra alla mia salute!»16. Il compositore dovette presentarsi al pubblico dopo ogni movimento, commentato da grandi ovazioni.

La Sinfonia n. 5 (1878) in si bemolle maggiore può essere analiz-zata come una risposta alla fiducia che sempre di più veniva accor-data a Bruckner come didatta. Nel luglio 1875, benché a titolo non remunerativo, gli era stata affidata la cattedra di armonia e contrap-punto all’Università. Nella sua Sinfonia n. 5, dunque, egli manifesta un magistero compositivo di alto livello, arricchendo la «forma so-

16. Richter, commosso, lo inserì nella catena del suo orologio.

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nata», tipica del primo movimento e, a volte, dell’ultimo, con tutte le risorse del contrappunto fino allora conosciute, riuscendo a far coincidere lo sviluppo del primo movimento con una grande dop-pia fuga su un tema che nasce da quello principale.

Lo stesso avverrà, con diversi accorgimenti, per il secondo mo-vimento («Adagio») e il terzo, lo Scherzo («Molto vivace»), mentre il Finale, che si collega al primo movimento, anche perché è intro-dotto da un breve «Adagio», presenta ancora una fuga, seguita da un grandioso corale, cui segue un’ulteriore doppia fuga. La conclu-sione conferisce alla partitura quella solita apoteosi, che chi ascolta favorevolmente Bruckner interpreta come espressione di grande e religioso candore, uno spirito che lo avvicina alla grandezza di Jo-hann Sebastian Bach.

Come abbiamo visto, le prime importanti interpretazioni del-le Sinfonie si ebbero dopo alcuni anni. Per la Quinta si dovranno aspettare 16 anni, oltretutto per ascoltarla in forma ridotta: la prima esecuzione integrale si avrà presso la Filarmonica di Monaco di Ba-viera nel 193517.

Tra la Quinta e la Sesta Sinfonia, Bruckner compose un Quin-tetto (1879) per archi, che, pur essendo di una qualità che richiama il Quintetto più famoso di Schubert (che però ha un secondo vio-loncello al posto della seconda viola), è purtroppo di rara esecu-zione18. L’importante partitura si rivela una tipica composizione di Bruckner, anch’essa sospesa tra elementi tradizionali e particolarità sperimentali, e fonde insieme lo stile cameristico e l’inconfondibile pathos sinfonico che ormai era divenuto così consono alla natura stessa del compositore.

La Sinfonia n. 6 in la maggiore (1879-81) suole essere considerata come la «Pastorale» di Bruckner, in analogia con la Sesta di Beetho-ven19. Un motivo che avalla questa pretesa è la tranquilla linearità della composizione, che presenta meno problematiche e ripensa-

17. L’incisione, su etichetta Orfeo, di W. Sawallish (1923-2013) con l’Orchestra del Bayerische Rundfunk vuole celebrare questo avvenimento.

18. Varie incisioni, tra le quali quelle dei Quartetti Amadeus e Melos, arricchiti di una viola.

19. È una sinfonia congeniale a R. Muti, che la incise per la EMI nel 1988: cfr Civ. Catt. 1989 III 447 s.

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menti rispetto a tutte le altre. Anche la sua durata è contenuta in circa 50 minuti.

Il 13 ottobre 2008 questa Sinfonia venne eseguita dai Wiener Philharmoniker, diretti da Christoph Eschenbach, in San Paolo fuori le mura, alla presenza di Papa Benedetto XVI. Questi, ringraziando con parole essenziali ma ricche di significato, affermò che la musica di Bruckner è «intrisa di religiosità e profondo misticismo», nonché «di senso della storia», testimoniando come il romanticismo tedesco abbia contribuito a portare a compimento il «processo di interioriz-zazione» di tanti contenuti fondamentali20.

Le ultime Sinfonie

Bruckner, nonostante il progressivo scemare delle sue forze, continuò sino alla fine a creare le sue grandiose Sinfonie, convinto che fossero il tipo di composizione che lo aiutava di più a riconci-liarsi con la vita, cercando anche un senso alla sofferenza personale. Le ultime tre Sinfonie mettono in evidenza in maniera sorpren-dente questi intenti; perciò sono state le predilette da direttori come Sergiu Celibidache e Carlo Maria Giulini21, i quali, con sensibilità diversa, erano capaci di cogliere ed esprimere il senso sacrale inte-riore di tali partiture così sublimi.

La Sinfonia n. 7 (1881-83) in mi maggiore è la più nota tra le Sinfonie di Bruckner, grazie anche all’acume di Luchino Visconti, che del suo inizio fece il motivo conduttore della colonna sonora del film Senso (1954), allo stesso modo in cui utilizzò l’«Adagietto» della Quinta di Mahler in Morte a Venezia22. Questo incipit, che diventa una frase assai lunga e, come di abitudine, viene ripreso ed esaltato dall’intera orchestra, è una degna premessa23 a tutto quello che si ascolterà per tutta la durata della Sinfonia, che raggiunge risultati altamente qualitativi in tutte le sue parti.

20. Cfr J. Ratzinger - Benedetto XVI, Lodate Dio con arte, Venezia, Marcianum Press, 2010, 223.

21. Esistono cd e dvd delle straordinarie interpretazioni di entrambi i direttori.22. Vedi G. Arledler, «Il mondo di Gustav Mahler», in Civ. Catt. 2011 II 347.23. «È una pagina di musica scritta benissimo!», afferma Ennio Morricone, che

di musica adatta al film se ne intende.

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Nell’«Adagio» Bruckner celebrò la notizia della morte di Richard Wagner, avvenuta a Venezia il 13 febbraio 1883, aggiungendo ver-so la fine del movimento un corale, affidato a quattro tube, secondo una maniera cara a Wagner. L’esecuzione della Sinfonia dovette at-tendere, al solito, alcuni anni per quanto riguardava Vienna, ma già il 30 dicembre del 1884 essa fu eseguita a Lipsia da Arthur Nikisch, con grande successo. Nel gennaio 1885 Hermann Levi la propose a Monaco di Baviera, e l’anno successivo Theodor Thomas la fece ascoltare a New York, Chicago e Boston.

La Sinfonia n. 8 (1884-87) in do minore riprende la grandiosità di concezioni della Quinta e gli intenti compositivi della Sesta, che peccava strutturalmente in alcune parti, specie nel Finale. Bruckner riesce a conciliare la varietà di ispirazioni, che caratterizza i consueti quattro movimenti (I: fanfare eroiche e campane a morto; II: con-templazione della natura; III: reminiscenze dal Tristano di Wagner; IV: l’incontro tra l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia a Olo-mouc), con l’intero inventario della sua maestria compositiva. La continua tensione che nasce dalla narrazione e dalla vena melodica è ai limiti del sostenibile per il direttore e gli orchestrali, tenendo conto che la composizione può durare anche oltre un’ora e venti minuti.

Le forze fisiche e psichiche di Bruckner andarono progressiva-mente scemando nel corso dei suoi ultimi sei anni; per questo fu costretto ad abbandonare sempre più l’insegnamento. Per fortuna, la sua arte subì meno contrasti. Egli inoltre meritò alcuni ricono-scimenti ad honorem, come una pensione dall’Imperatore (autunno 1890) e il dottorato dall’Università di Vienna (7 novembre 1891). Il 10 novembre 1893 dettò il suo testamento, disponendo che i suoi resti venissero sepolti nell’Abbazia di Sankt Florian.

In questo clima Bruckner dedica il suo ultimo lavoro dem lieben Gott, al buon Dio, consapevole che con la sua Sinfonia n. 9 in re minore (1891-96) avrebbe messo il punto alla sua parabola creatrice. Il primo movimento, dai temi eroici, con un suggestivo afflato reli-gioso nello sviluppo centrale, viene concluso il 23 dicembre 1893, e lo «Scherzo con Trio» il 15 febbraio dell’anno seguente.

Occorre attendere il 30 novembre 1894 per vedere terminare il terzo movimento, l’«Adagio», una delle pagine a più alto contenuto

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di tutta la storia della musica. Bruckner stesso confessò che doveva «essere il più bello tra quelli scritti», aggiungendo: «Mi commuovo tutte le volte che lo suono». Wolfgang Sawallisch24 affermava: «Per me dirigere una sinfonia di Bruckner è sempre un’emozione unica. Il terzo movimento della Nona è una pagina di musica che mozza il respiro, senza bisogno di cercarne l’elevatezza mistica o significati reconditi».

Il compositore lavorò a un Finale fino a pochi giorni prima del-la morte25, avvenuta l’11 ottobre 1896. Progettava, eventualmente, di rielaborare il suo Te Deum, per concludere la Sinfonia con le voci e con il coro come avviene nella Nona di Beethoven, che è significativamente nella stessa tonalità. Durante i funerali, avvenuti nella chiesa di San Carlo tre giorni dopo, Ferdinand Loewe diresse l’«Adagio» della Settima Sinfonia. Erano presenti Johannes Brahms e Hugo Wolf, i quali, in modi diversi26, dovevano congedarsi dalla vita nell’anno successivo.

24. Vedi la nota relativa all’incisione della Quinta.25. G. Mazzuca e N. Samale completarono gli abbozzi del Finale, che venne

registrato da Inbal per la Telefunken nel 1988. Un lavoro più approfondito, con il contributo di J. Phillips e B.-G. Coohrs, venne utilizzato nel 2012 da S. Rattle per la EMI.

26. J. Brahms morì il 3 aprile 1897; la mente di H. Wolf invece sprofondò progres sivamente nell’oblio.

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LA BIBLIOTECA DI PAPA FRANCESCO

Antonio Spadaro S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 490-498 | 3935 (7 giugno 2014)

L’arte non è «per l’arte»

Dall’8 maggio al prossimo 18 settembre, in edicola ogni set-timana con il Corriere della Sera apparirà un volume della collana La Biblioteca di Papa Francesco, realizzata in collaborazione con La Civiltà Cattolica. Leggendo l’intervista rilasciata alla nostra rivista e pubblicata il 19 settembre scorso1, si comprende come Bergoglio sia una persona che vive l’arte e l’espressione creativa come una di-mensione che fa parte integrante della sua spiritualità e della sua pa-storale. È accaduto varie volte di ascoltare una citazione di passag-gio, posta lì senza premesse né spiegazioni «colte». Ad esempio, la citazione del Divino impaziente di José María Pemán durante la sua omelia ai gesuiti per la festa di sant’Ignazio nella chiesa del Gesù di Roma, il 31 luglio 2013. Così anche il riferimento a Joseph Malègue nella nostra intervista, per parlare della «classe media della santità». Per Bergoglio l’arte è vita e discorso sulla vita. L’arte non è «per l’ar-te», non è un mondo a parte, colto, dotto, aulico, sostanzialmente «borghese». La sua visione radicalmente «popolare» tocca anche la produzione artistica e la sua fruizione. Il Papa è molto sensibile al «genio» e alla «creatività», che per lui non sono eccezioni, ma di-mensioni della vita ordinaria affrontata con energia e intensità.

Seguendo nell’intervista i nomi dei suoi scrittori preferiti, e così degli artisti, registi, musicisti e direttori d’orchestra, si è formato non un elenco di puro gusto estetico, ma un vero e proprio territorio di esperienza umana. Le sue letture sono legate a visioni della realtà,

1. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477. Poi in volume, in edizione estesa e commentata, Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Milano, Rizzoli, 2014.

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alla sua stessa comprensione del mondo, che poi ha generato anche uno stile pastorale e una comprensione della missione della Chiesa.

La dinamica popolare dell’estetica bergogliana

«Io amo gli artisti tragici», ha detto il Papa nella nostra intervi-sta. La sua non è pura attrazione per la tragedia intesa come genere letterario, ma è desiderio di entrare dentro la condizione umana anche per la via della rappresentazione estetica. Non è il tragico elitario, raffinato (o che tale diventa) a colpire Bergoglio, ma il tra-gico «popolare». A tal punto che egli fa sua la definizione di opera «classica» che si ricava da Cervantes: l’opera «classica» è l’opera che tutti in qualche modo possono sentire come propria, non quella di un gruppetto di raffinati intenditori.

La passione per il neorealismo è da inserire in questa visione dell’arte legata al popolo. Così come l’interesse per un’opera che a Bergoglio piace, anche se non si tratta affatto, per sua stessa am-missione, di un capolavoro: il poema epico argentino Martín Fierro. Scritto da José Hernández nel 1872, esso dà forma al desiderio di una società in cui tutti trovano posto: il commerciante porteño, il gaucho del litorale, il pastore del Nord, l’artigiano del Nord-Est, l’aborigeno e l’immigrante, nella misura in cui nessuno di essi de-sidera avere tutto per sé, espellendo l’altro dalla terra. I suoi accenti nel parlare di Martín Fierro ricordano il romanticismo democratico e popolare di un Walt Whitman, contemporaneo di Hernández, che mette in campo il falegname del Dakota e il minatore della California, il meccanico e il muratore, il battelliere e il calzolaio.

È interessante dunque notare come la dinamica popolare dell’e-stetica bergogliana sia la stessa della sua visione pastorale ed eccle-siologica. L’arte non è un «laboratorio» di sperimentazione di dina-miche culturali ed espressive: è invece parte del flusso della storia, parte del cammino dell’uomo sulla terra. Semmai è frontiera avan-zata, ma non circolo elitario. Gli artisti non sono isolati dagli altri: creare arte e coltivare la bellezza sono patrimonio della comunità, non del singolo.

Ma un uomo come Bergoglio, che ha sempre vissuto una inten-sissima attività pastorale di contatto e di relazione con molta gente,

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che ha conosciuto tante situazioni esistenziali, avrebbe dunque avuto bisogno di leggere romanzi e poesia per fare esperienza di umanità?

Viene in mente a questo punto una riflessione apparsa in un vec-chio numero de L’Annuario del parroco, fondato dal celebre letterato don Giuseppe De Luca nel 19552, in cui si notava che l’affinamento della sensibilità estetica può portare a un impulso nell’arte pastorale, perché la lettura permette di comprendere meglio le vicende uma-ne, le sue altezze e le sue miserie. In realtà lo aveva già scritto Marcel Proust nel primo tomo della sua Recherche: il romanziere «scatena in noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima par-te, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione»3. Insomma: leggendo si fa esperienza concentrata della vita, si cono-sce meglio e più estensivamente l’animo umano.

In fondo noi, leggendo, diventiamo lebbrosi, ciechi, ricchi epu-loni, ma anche facciamo l’esperienza di essere drogati, pirati, amanti sull’orlo della disperazione, omicidi, eroi… Il campo della nostra esperienza si amplia perché «viviamo» cose che altrimenti mai po-tremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell’uomo e anche la capacità di discernere le mozioni che lo agitano e lo spin-gono ad agire e a scegliere. Ecco dunque perché Bergoglio ama la letteratura e l’arte: perché amplia la sua capacità di fare esperienza e gli permette di essere più vicino a chi ha effettivamente accanto, di comprenderlo meglio. Ecco perché, come aveva scritto Flannery O’Connor in un suo saggio, «un impoverimento dell’immagina-zione significa anche un impoverimento della vita religiosa»4.

Uno dei gravi problemi della fede, per Bergoglio, consiste nel fatto che non possiamo «immaginare» le verità che crediamo: ci mancano immagini potenti. Questo è uno dei motivi per cui egli ama la «pietà popolare», perché è una riserva aurifera di immagini forti e ben innestate nell’immaginario collettivo di un popolo. È

2. G. Badini, «Il posto di Cristo è veramente tra i poeti», in L’Annuario del parroco. Testi e documenti di vita sacerdotale e di arte pastorale 16 (1970).

3. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. I. La strada di Swann, Milano, Mondadori, 1983, 104 s.

4. F. O’Connor, «Il romanziere cattolico nel Sud protestante», in Id., Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di servire, Roma, minimum fax, 2010, 101.

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questa capacità immaginifica che, a volte, rischia di essere mortifi-cata dall’austerità del concetto astratto. La letteratura latinoamerica-na, in generale, potrebbe aiutarci a comprendere meglio il legame tra la pietà popolare e la formazione di un immaginario ricco.

La riprova del legame che lui avverte tra opera d’arte e visione della vita si ha proprio nel momento dell’intervista in cui Bergo-glio ha sottolineato con forza che le forme di espressione della ve-rità possono essere varie e discordanti, e che anzi l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso. Per esprimere il concetto, ha preferito non ricorrere a riflessioni sofisticate sul cambio antropo-logico, ma dire, più semplicemente e direttamente, che una cosa è l’immagine ellenistica di uomo che ha prodotto la Nike di Samo-tracia, altra è quella che trova la sua forma nelle tele del Caravaggio, e altra ancora è quella del surrealismo di Dalí. Poi, per parlare del pensiero che inganna l’uomo e della necessità che la Chiesa recuperi «genialità» nel comprendere la vita e l’esperienza umana, ha citato Ulisse, Tannhäuser e Parsifal. Dunque la letteratura, la musica, l’arte sono da considerare pienamente «dentro» il discorso sull’uomo, sulla spiritualità, sulla pastorale e la missione della Chiesa.

La letteratura, in particolare, insegna a confrontare la parola con la vita. A questo proposito è utile notare, nell’intervista, il ri-ferimento ai Promessi sposi. Il Papa ha implicitamente citato questo romanzo quando, incontrando i movimenti ecclesiali nella veglia di Pentecoste, ha scritto: «Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita». In particolare qui cita il capitolo che più ama, quello della conversione dell’Innominato, lì dove leggiamo: «La vita è il para-gone delle parole». Ecco il punto: la vita è il paragone delle parole.

Perché e come ricostruire la biblioteca di Bergoglio?

Dunque la parola letteraria, la fiction, vive della vita reale sia perché ne è espressione, sia perché l’aiuta a comprendere più pro-fondamente. Questo ha a che fare anche col motivo per cui è nata l’idea de La Biblioteca di Papa Francesco. Certamente il suo primo obiettivo è quello di comprendere meglio la visione del Pontefice circa il mondo, la realtà e la persona umana, entrando nel suo im-maginario. In ultima analisi, ciò significa indagare meglio che cosa

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il Signore sta chiedendo oggi alla Chiesa. Ma significa anche com-prendere meglio lo spirito del tempo, che riconosce nella sua figura un leader. Dunque, ricostruire la biblioteca di Francesco intende essere un’operazione di valore spirituale e culturale.

Il primo passo nella scelta dei volumi da pubblicare ha coinciso con la mia intervista, con il colloquio diretto con Papa Francesco nel quale sono emerse alcune letture importanti. Il secondo passag-gio è maturato nel confronto con vari scritti di Bergoglio nei quali fa riferimento ad autori significativi. Il terzo passaggio è stato reso possibile dal colloquio diretto con persone che negli anni lo hanno conosciuto bene: alunni, confratelli gesuiti, amici; ma anche dalla lettura di scritti su di lui che qua e là hanno fatto riferimento a opere letterarie a lui care. Dunque ho cercato di ricostruire una mappa sulla base di testimonianze scritte e orali.

In un paio di occasioni però ho avuto anche occasione di poter continuare il discorso con lo stesso Pontefice, dialogando su questa o quell’opera, a volte persino chiedendogli se esse avevano avuto davvero una certa importanza nella sua formazione. Questo con-fronto diretto, una sorta di scambio sulle preferenze personali, ha avuto importanza anche sulla scelta di opere di autori per lui signi-ficativi. Un esempio: Dostoevskij. Sapevo che il grande romanziere russo era tra i più amati da Bergoglio, ma quale opera in particolare? I fratelli Karamazov? Era quella che avevo segnato. Papa Francesco mi ha corretto: Memorie del sottosuolo. Ovviamente mi si è aperto un mondo di riflessioni, e così spero accada al lettore.

La scoperta di un territorio dell’anima

Scorrendo l’elenco delle venti opere che appariranno nella col-lana è possibile riconoscere i tratti fondamentali del pontificato di Bergoglio, oltre che avvertire le vibrazioni della sua sensibilità per-sonale. E sarà anche l’occasione per scoprire opere di grande valo-re dimenticate o leggerle per la prima volta o anche rileggere con un’ottica differente opere ben note.

Intrecciando la lettura di Hernández, Malègue, Dostoevskij e Manzoni, si avvertirà qual è l’umanità che Bergoglio ha nel cuo-re. Si estende come dentro un quadrato. Si parte dalla schietta di-

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LA BIBLIOTECA DI PAPA FRANCESCO

mensione popolare di Renzo e Lucia, fino all’umanità gaucha dei personaggi dell’epopea di Martín Fierro; si prosegue a partire da les classes moyennes de la sainteté — quelle della gente modesta, sem-plice, umile, sconosciuta, ma con un forte senso della bontà e della misericordia di Dio che troviamo nelle pagine di Malègue — fino alla brutalità della vita sociale dell’antieroe dostoevskijano, uomo del «sottosuolo», condizione che respinge sempre più la persona nell’o-scurità, che rimane, pur sempre, una vita interiore dal significa-to cupamente spirituale. Ma soprattutto il fatto che per Bergoglio, come per Dostoevskij in questo romanzo, non è detto che «due-per-due-quattro», ma potrebbe essere anche «due-per-due-cinque». «L’uomo — si legge infatti nel romanzo — ha una tale passione per il sistema e per la deduzione logica che è disposto ad alterare consa-pevolmente la verità, a non vedere il vedibile, a non udire l’udibile pur di legittimare la propria logica». Per Bergoglio, lo sappiamo, la realtà viene sempre prima dell’idea, e la complessità del poliedro è superiore alle equidistanze della sfera.

Collegando tra loro la lettura dell’Autobiografia e degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio al Memoriale di Pietro Favre, si coglieran-no le coordinate spirituali profonde di Bergoglio e il significato della parola chiave e centrale del suo pontificato: il «discernimento».

Se poi a queste letture si accostano le poesie del gesuita Gerard Manley Hopkins e il romanzo Tardi ti ho amato di Ethel Mannin, scrittrice originale, anarchica e insieme capace di capire che cosa sia la conversione, si comprenderà meglio l’anima del Pontefice, così piena di affetto, di capacità di legame, e anche attenta alla singolari-tà (l’ecceitas, tanto cara a Hopkins) di ogni situazione, di ogni volto, di ogni realtà. Ma soprattutto, come si legge nel romanzo, si capirà che quella dei gesuiti è «la via migliore per avvicinarsi allo spirito di Agostino nel mondo moderno». Si capirà inoltre la radice della passione bergogliana per le «opposizioni polari» della vita di cui ci parla Guardini, vera radice speculativa del pensiero del Papa.

Fa da contraltare alla passione per la «gloria» e la bellezza del concreto, la distopia de Il Signore del mondo di Robert Hugh Ben-son, nella quale appaiono i frutti della menzogna di un ideale astrat-tamente umanitario. In questo romanzo si percepisce qual è per Bergoglio la vera grande tentazione per l’uomo contemporaneo. È

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RIVISTA DELLA STAMPA

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da leggere in direzione antinichilista la passione per Hölderlin (che invece oggi spesso è letto nichilisticamente a causa di Heidegger). L’esperienza del poeta tedesco è radicale, tesa verso l’assoluto e, nello stesso tempo, sospesa sull’abisso. Bergoglio riconosce nei suoi versi la condizione di confine tra rischio e salvezza che anima la sua vi-sione drammatica della vita.

Ed è questa direzione di trascendenza che troviamo nel Megafón di Leopoldo Marechal, permeato del simbolismo della guerra. Per l’autore, un classico della letteratura argentina, l’esistenza umana è una immagine barocca del theatrum mundi per cui la vera realtà è al di là di tutte le illusioni e le farse. Marechal scova e stana il ridicolo delle apparenze e delle forme del «sistema». Del resto, Papa France-sco, parlando alla comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica il 6 giugno 2013, ha affermato che quando ci si lascia coinvolgere nelle tante forme e nelle tante maniere di mondanità spirituale, al-lora ci si rende ridicoli.

Leggendo i Sermoni scelti di Agostino insieme alle Meditazioni sulla Chiesa di de Lubac, si capirà qual è la visione ecclesiale di Fran-cesco e qual è la figura ideale di «pastore» del gregge.

Il senso della «missione» è rivelato dall’Eneide, molto amata da Bergoglio, insieme a Il divino impaziente di Pemán. Se lette insie-me, queste due opere creeranno una combinazione virtuosa delle figure di Enea e di Francesco Saverio. Si capirà il senso del destino, del compito, forse anche dell’«utopia» non ideologica, che è vivo nel cuore del Papa. Ma anche il rapporto tra periferia e centro, dove è la prima a fondare il secondo.

A queste letture di viaggio è possibile accostare le Poesie pie-montesi di Nino Costa, che esprimono l’animo dell’emigrante e la sua religiosità. Francesco conserva nel suo breviario una poesia di Costa dedicata alla Consolata.

L’esperienza creativa

A Borges lo lega soprattutto la gratitudine per una esperienza che Bergoglio visse a 28 anni (il poeta ne aveva 66) connessa alla sua attività di docente di Lettere presso il Liceo del Colegio de la Inmaculada Concepción, una antica scuola di gesuiti. «È stata una

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LA BIBLIOTECA DI PAPA FRANCESCO

cosa un po’ rischiosa», ha detto Bergoglio durante l’intervista per La Civiltà Cattolica. «Dovevo fare in modo che i miei alunni stu-diassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente loro volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”, contemporanee come La casada infiel, o classiche come La Celestina di Fernando de Rojas. Ma, leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il programma, ma in ma-niera destrutturata, cioè non ordinata secondo ciò che era previsto, ma secondo un ordine che veniva naturale nella lettura degli autori. E questa modalità mi si confaceva molto: non amavo fare una pro-grammazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho cominciato anche a farli scrivere. Alla fine ho deciso di far leggere a Borges due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui propose di scrivere l’in-troduzione a una raccolta».

Questa esperienza creativa ha un ruolo molto importante nel-la vita di Bergoglio. Per questo non può mancare nella «Biblioteca di Papa Francesco» il volume dei «racconti originali» che ne sono nati con la prefazione di Borges. Bergoglio, del resto, è stato at-tento lettore delle storie dei suoi alunni, e da queste ha imparato a dialogare con la visione del mondo dei più giovani facendo anche attento discernimento spirituale. Un esempio inedito: Jorge Cibils, oggi musicista in Germania e allora alunno di Bergoglio, conserva il commento del professore di allora a una sua esercitazione su La hora undécima della scrittrice María Esther de Miguel. L’alunno ritiene che il messaggio finale dell’opera sia che la negazione di sé e la mortifica-zione portino a Dio. Bergoglio commenta elogiando il lavoro fatto dallo studente, ma propone un cambiamento nella formulazione del messaggio finale, che gli sembra troppo negativo perché, scrive, «la dedizione è frutto dell’amore», non della mortificazione. E conclude tra parentesi con un messaggio personale per José: «Chiaro che stai attraversando un periodo di negatività». L’esposizione all’esperienza

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RIVISTA DELLA STAMPA

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creativa o il suo esercizio generano una dinamica che coinvolge psi-cologicamente e spiritualmente la persona.

Sapere significa anche gustare

E allora infine ecco una domanda: come leggere i libri de La Biblioteca di Francesco?

Innanzitutto il lettore si troverà guidato da prefatori che, per la quasi totalità, conoscono non solo l’opera, ma anche direttamente Jorge Mario Bergoglio. Le loro prefazioni hanno anche il tono della testimonianza, dunque, capace di avviare il lettore a comprendere il motivo per cui quel libro ha contribuito a formare la «visione» di Papa Francesco. Ovviamente si tratta di tentativi di comprensione, ma spesso sono fondati su dialoghi o addirittura lezioni ascoltate dall’attuale Pontefice molti anni fa.

Dopo le prefazioni, il lettore si troverà ad affrontare direttamente il testo. Come farlo in modo da essere fedeli anche in questo alla lezione bergogliana? Nella nostra intervista, il Papa, dopo aver par-lato della sua passione per il Mozart eseguito da Clara Haskil, ha aggiunto: «Mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo». In queste poche parole c’è tutta una concezione della fruizione estetica, che distingue «sentire» e «pensare». Un artista si gusta se è «sentito», non se è «pensato». Non che la prima cosa escluda la seconda. Però è possibile che il sentire sia talmente forte, ricco e coinvolgente, da su-perare immensamente la sua analisi teorica. Aveva scritto Bergoglio nel 2005: «La sapienza non si ferma alla conoscenza. Sapere significa anche gustare. Si sanno le conoscenze... E si sanno anche i sapori».

Occorre comprendere che dietro questa sorta di abbozzo di este-tica bergogliana c’è un passaggio degli Esercizi spirituali ignaziani nel quale, proprio all’inizio, si dice che «non è il molto sapere che sazia e appaga l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente (no el mucho saber harta y satisface al ánima, mas el sentir y gustar de las cosas internamente)» (Es. Sp. 2). E per Bergoglio, come per sant’I-gnazio, il «sentire», in un modo o nell’altro, ha sempre a che fare con la manifestazione di Dio nell’anima e nella vita di una persona. Ecco un altro buon motivo per leggere i libri cari a Papa Francesco.

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«LE MERAVIGLIE», UN FILM DI ALICE ROHRWACHER

Virgilio Fantuzzi S.I.

© La Civiltà Cattolica 2014 II 499-501 | 3935 (7 giugno 2014)

Vincitore del Grand Prix della Giuria al recente Festival di Can-nes, il film Le meraviglie di Alice Rohrwacher assomiglia a una fiaba, anche se la regista ci tiene a preci-sare: «Una fiaba dove non c’è trac-cia di magia. I protagonisti sono persone comuni. Non ci sono né prìncipi, né castelli».

La vita in campagna

Un casolare in aperta campa-gna tra Lazio, Umbria e Toscana, con rovine etrusche nei paraggi, ospita una strana famiglia. Il padre (Sam Louwyck) si chiama Wolf-gang. La madre (Alba Rohrwa-cher) è Angelica. Quattro figlie capeggiate da Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), la primogenita e prediletta dal padre. Cocò (Sabine Timoteo), ospite permanente. La lingua in uso è il dialetto viterbe-se, ma quando qualcuno si arrabbia volano imprecazioni in tedesco e in francese. L’attività alla quale la fa-miglia si dedica è l’apicoltura.

La famiglia funziona con rego-le speciali. Gelsomina, pur avendo soltanto 12 anni, è capofamiglia. Le sue tre sorelle devono obbedire a lei, dormire quando decide lei e lavorare sotto il suo assiduo con-trollo. Il mondo esterno non deve sapere nulla delle loro regole, deve essere mantenuto separato e biso-gna imparare a mimetizzarsi.

Wolfgang è uno straniero e vede in Gelsomina la principessa ereditaria del suo improbabile re-gno. Avrebbe preferito che fosse un maschio, tanto più che il fatto di es-sere il solo maschio in una famiglia con sei femmine lo rende irascibile. Ma Gelsomina è una ragazza forte e determinata. Ha un talento innato per il lavoro con le api e con il mie-le. È lei che cattura gli sciami sugli alberi, è lei che organizza la smiela-tura e sposta gli alveari.

Il mondo esterno, quello dal quale la famiglia di Wolfgang ten-de a isolarsi, subisce nel frattempo un cambiamento profondo e do-loroso. La lunga lotta per la terra,

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ARTE MUSICA SPETTACOLO

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teatro millenario di scontri tra pro-prietari e lavoratori, non si è risolta, si è soltanto allontanata, ha cam-biato forma. Il campo di battaglia è stato lasciato libero e sono arrivati gli sciacalli. Prima hanno dato fuo-co a tutto quello che incontravano sul cammino, poi hanno arraffato quei pochi spazi rimasti più o meno intatti e li hanno trasformati in una specie di museo all’aria aperta, uno strabiliante parco tematico per assi-curare le gite domenicali.

Alice Rohrwacher, che abita nella regione dove il film è stato gi-rato, dice di aver interpellato a lun-go contadini, imprenditori agricoli e paesani prima di mettersi al lavo-ro. Se venissero gli extraterrestri — si è chiesta —, cosa capirebbero di questo posto? Cosa significa abitare in questo paesaggio, esserne parte, arginare la commercializzazione da un lato e le difficoltà ambientali dall’altro? Esiste un’immagine che può sintetizzare tutto questo?

Il casolare scelto per ambientare il film era già presente sul posto. È un edificio dove ci sono parti an-tichissime e parti più recenti. Nes-suno l’ha mai ristrutturato secondo lo stile di un’unica epoca. Fino a poco tempo fa vivere così era nor-male: si entrava a far parte di una storia precedente, che non si poteva controllare fino in fondo. Gli spif-feri venivano riparati con un pez-

zo di gommapiuma, le mattonelle sostituite dove era necessario. Ci si adattava a un mondo già esisten-te. Solo le generazioni più recen-ti hanno desiderato conferire un aspetto uniforme al luogo dove si abita, antico o moderno che sia.

Le persone della famiglia, inve-ce, prima non c’erano. Non appar-tengono a questa regione. Gli adulti, con ogni probabilità ex-sessantotti-ni, sono arrivati in campagna sulla base di una scelta ideologica, per-ché nella città non si sentivano più a loro agio. Anni di manifestazioni e di prolungate analisi sociopolitiche sono sfociati nella violenza e nella delusione. Hanno letto libri, hanno imparato dai manuali a coltivare l’orto. Non provengono da un pas-sato campagnolo. Hanno faticato a lungo prima di trovare un posto dove potersi trapiantare pur avendo origini diverse. Hanno combattu-to contro le avversità di una natura matrigna prima di adattarsi al pre-cario equilibrio in cui vivono. Cosa fanno qui?

Il fallimento di un progetto

La risposta è semplice. Voglio-no proteggere se stessi e le bambine da una catastrofe incombente. San-no che questo mondo sta per finire. Intorno tutto è sfacelo, distruzione, corruzione. Soltanto la campagna è

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«LE MERAVIGLIE», UN FILM DI ALICE ROHRWACHER

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in grado di assicurare un argine di protezione. Le loro intenzioni sono sincere, anche se a volte si espri-mono in forma rabbiosa. Ma come spiegare tutto questo a Gelsomi-na, la primogenita, la principessa ereditaria, l’amore del babbo? Lei vorrebbe una vita più semplice, con meno ideali e più solidità. Wolf-gang sente che quella figlia che è più brava di lui nel lavorare con le api, che è solida e responsabile, gli sta sfuggendo.

Mentre intorno il paesaggio ingiallisce sotto l’effetto dei diser-banti e l’ambiente della campagna si sfalda e si trasforma, dalla città arriva un concorso televisivo che promette «un sacco di soldi» al mi-glior produttore di cibi genuini: salumi, caciotte… Il programma è condotto dalla fata bianca Mil-ly Catena (Monica Bellucci), e si chiama «Il paese delle meraviglie». Gelsomina vorrebbe partecipare, ma Wolfgang non prende neanche in considerazione questa proposta. Un altro problema lo tormenta: le nuove norme europee per la pro-duzione alimentare.

C’è bisogno di lavorare tanto, aumentare le api, sistemare il la-boratorio. Nella ricerca di mano-dopera a poco prezzo, Wolfgang prende a lavorare con sé un ra-

gazzo difficile, Martin, che viene da un programma di rieducazione dello Stato tedesco. La situazione si fa sempre più tesa. Da una parte un bambino silenzioso e sfuggente su cui Wolfgang proietta il desiderio di un figlio maschio. Dall’altra la forza centrifuga che anima Gelso-mina, la quale è disposta a qualsiasi cosa pur di rivedere la fata bianca.

Il film procede a strappi, con scene che sembrano incompiute e parole il cui senso rimane sospe-so. L’angoscia di Gelsomina per non aver cambiato il bidone sotto la smielatrice mentre è bloccata in ospedale per la ferita di una sorel-lina. Il colpo di testa del padre, che pensa di risolvere ogni cosa com-prando il cammello che le figlie sognavano da piccole. Le api che escono dalla bocca di Gelsomina mentre Martin fischietta il verso di un usignolo. L’incontro notturno dei due adolescenti nel fondo di una grotta che fu abitata dagli etruschi e, prima ancora, da uomini preisto-rici…

Le meraviglie racconta l’infran-gersi di un sogno utopico contro la dura realtà. Ma mentre un sogno si chiude, altri se ne aprono perché non tutto vada perduto e accanto al bruciore delle ferite non manchi il balsamo della tenerezza.

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DIEGO FARES

PAPA FRANCESCO È COME UN BAMBÙ. ALLE RADICI DELLA CULTURA DELL’INCONTRO

Milano, Àncora, 2014, 78, € 11,00.

Diego Fares, da circa quarant’anni amico e discepolo di Jorge Mario Bergo-glio, ripercorre, in questo saggio agile ma denso, il pensiero e la figura di Papa Francesco, suo padrino di ordinazione sacerdotale alla fine degli anni Settanta. P. Antonio Spadaro, dal quale è scaturita l’idea di richiedere a padre Fares questa sua testimonianza, scrive nell’Introduzione al testo: «Jorge e Diego sono amici da quasi quarant’anni. Leggere le pagine di questo libro dunque significa entra-re nelle vene di un’amicizia e di un pensiero che si è sviluppato nel tempo e nel confronto sia a livello spirituale, sia a livello intellettuale, sia a livello di azione pastorale e sociale».

Diego Fares, professore di Metafisica presso la Universidad del Salvador (USAL) della Compagnia di Gesù e presso la Pontificia Universidad Católica Argentina (UCA), lavora in un centro di accoglienza per adulti che vivono in condizioni di estrema povertà e in una casa di ricovero per malati terminali: il pensiero che egli elabora nei suoi scritti e nelle sue lezioni nasce dunque a contatto con l’esperienza diretta sia della vita dura delle periferie, sia di quella dell’accompagnamento alla morte dei ricoverati. Per lui, è stato proprio l’incontro con Bergoglio a rivelarsi di fondamentale esempio nel rapporto con i bisognosi: un rapporto basato sul rispet-to, sul servizio, sul recupero e sulla promozione della loro dignità umana.

Il pensiero di Papa Francesco, infatti, in ogni frangente affonda le proprie radici in una relazione autentica, diretta, esperienziale con l’altro, tanto che Fares ne ha coniato l’originale definizione di «pensiero scarpa» (p. 78): un «pensiero che cammina; un pensiero di metodo (cammino) fenomenologico, che pensa uscen-do all’incontro, accompagnando, mettendosi nel fango, peregrinando con il suo popolo, facendo la fila» (ivi).

© La Civiltà Cattolica 2014 II 502-519 | 3935 (7 giugno 2014)

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

La cultura bergogliana dell’incontro, ripercorsa in questo saggio dall’A., trova nel pensiero di Romano Guardini uno dei suoi capisaldi intellettuali, come sprone a un rapporto che sia sempre personale, concreto, effettivo; mentre il suo «mani-festo» può essere considerato lo storico documento di Aparecida, del 2007, a cui l’A. dedica ampi stralci, e di cui l’allora cardinale Bergoglio fu alla guida nel lavoro di redazione.

Aparecida è il santuario mariano più frequentato del Brasile, dove si svolse l’ultima Assemblea generale del Celam, l’episcopato dell’America Latina; il docu-mento, vera e propria summa della visione bergogliana dell’autentico relazionarsi, insiste sulle caratteristiche necessarie per un incontro capace di divenire vivifican-te: «la gratitudine, l’inclusione, l’ascolto e la conversione» (p. 43).

Per questo il pensiero di Bergoglio, associato alla sua capacità comunica-tiva nei confronti sia del «popolo fedele», sia dei non credenti e dei membri di altre religioni, può essere interpretato anche come un «pensiero campana» (p. 77), «perché risuona convocando, invitando tutti — come una campana — ad accorrere al dialogo e all’incontro che necessitano di essere convocati» (p. 78).

L’ascesa al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio rappresenta, secon-do padre Fares, una sorta di culmine di un processo iniziato in precedenza. Le cose che egli ha pensato, predicato e soprattutto messo in pratica nell’arco di tutta la sua vita si stanno riproponendo amplificate, potenziate in questo suo pontificato: da qui il ricorso dell’A. all’originale immagine del «bambù», che ha significativamente ispirato il titolo di questo saggio.

Questa pianta giapponese, «per la durata di sette anni ha una crescita impercettibile, e poi, in sei settimane cresce più di trenta metri» (p. 48). Papa Francesco, dunque, è come «fiorito», dopo anni trascorsi a generare radici; in ogni occasione si è lasciato forgiare, con umiltà, dalla missione affidatagli, vi-vendo ora, con la massima pienezza, ma con l’usuale freschezza e spontaneità, la grazia ulteriore dell’essere Papa.

Elena Buia Rutt

ENRICO CATTANEO

IL COMMENTO A ISAIA DI BASILIO DI CESAREA. ATTRIBUZIONE E STUDIO TEOLOGICO-LETTERARIO

Roma, Ist. Patristico Augustinianum, 2014, 602, € 65,00.

Nella struttura dell’imponente volume si colgono al volo almeno due tratti caratteristici: la ricchezza della documentazione e la linearità del di-

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scorso nell’analisi dei tanti temi affrontati. È quasi inutile dire che qui si può procedere solo per cenni, nell’intento di offrire una piccola antologia.

Dopo i rimandi alle più antiche attestazioni di questo commento a Isaia, si pone l’accento su un dato di capitale importanza per la vexata quaestio dell’attribu-zione a Basilio, notando che essa è pressoché unanime nelle testimonianze della tradizione manoscritta, diretta e indiretta. Non mancarono, però, personaggi di gran nome che negarono la paternità basiliana dell’opera, quasi sempre unifor-mandosi all’opinione di Erasmo, il quale, dopo averla tradotta, sentenziò che si era ben lontani dallo «stile divino di Basilio» (p. 37).

Questa opera ebbe, comunque, una florida vita nella storia della letteratura, come risulta dai dati raccolti, nel volume, sulle catene esegetiche, i frammenti sparsi, le edizioni e le traduzioni in latino o nelle lingue moderne. Si offrono an-che due prove di dipendenza letteraria, attraverso una sinossi di passi paralleli, fra il nostro commento e opere di Basilio, sui temi dell’ebbrezza e del digiuno.

Affrontato il tema — in verità arduo — della paternità basiliana del commen-to, la trattazione si fissa sui contenuti e sugli orizzonti di cultura ai quali esso si ispira, notando ancora, nell’analisi dei testi, significative congruenze lessicali fra questo commento a Isaia e le opere di Basilio. Si incontra spesso il tema della na-tura, evocata e descritta nei fenomeni che ne attestano la potenza e la vita, dagli astri alle piante e agli animali, con attenzione alle valenze simboliche dalle qua-li ogni realtà è segnata. Grande attenzione il commento riserva all’arte medica, come si nota anche in un lungo brano dell’omelia quinta di Basilio sulla Genesi, ed è impressionante l’impegno con cui, in molti passi, si offrono definizioni chia-re e distinte soprattutto di concetti relativi ad ambiti dell’etica. Ci si trova così — come si precisa — nella scia di Clemente Alessandrino e di Origene, e non mancano collegamenti con miti dell’antichità classica.

Ai grandi temi biblici evocati nel commento è dedicata la successiva tratta-zione, a cominciare dal discorso sulla profezia e i carismi della Parola. All’intento di precisare la natura e il ruolo del munus propheticum si affianca l’impegno di porre l’accento sulla condizione spirituale di chi, per esserne rivestito, deve avere capacità di discernimento, purezza dell’anima ed esercizio di virtù. Si elencano poi criteri ben precisi per attendere all’esegesi biblica, soprattutto di fronte agli antropomorfismi del testo sacro, alle oscurità in cui talora si presenta e quanto alla necessità di distinguere, in esso, il senso letterale da quello profondo e spirituale. In questa prospettiva si evidenzia il senso spirituale di tipiche prassi veterotestamenta-rie riguardo ai sacrifici, ai pellegrinaggi, al santuario, all’offerta del fior di farina, dell’incenso, e alla celebrazione di alcune solennità.

Quanto al testo di Isaia, di cui sono commentati i capitoli 1-16, si precisa che esso di solito è usato nella recensione esaplarica della LXX, non senza significative varianti, e che è continuo, salvo alcuni casi di rilevanti lacune. Singolare è invece che siano due i commenti dedicati a Is 6,6b-7. Nell’analisi di particolari testi di Isaia, si segnalano passi e temi di speciale significato. Il cenno di Is 4,1 alle sette

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donne e all’unico uomo offre lo spunto per ribadire che «il senso profondo ci invita a scrutare con la mente cose più grandi» (p. 253). Nel commento alla parabola della vigna (Is 5,1-7), si segnala l’affinità con la quinta omelia di Basilio sulla Genesi. A proposito della vocazione e della missione del profeta, il commento ha grandi affi-nità con quanto si legge nelle superstiti omelie origeniane. Sempre per documen-tare tale affinità si segnalano casi comuni di digressione, come avviene nei passi in cui le due opere analizzano i termini e i concetti di profumo, casa e mattino.

L’ultima parte della trattazione è dedicata a temi teologici e morali, con attenzione ai contenuti specifici dell’insegnamento cristiano o alle situazioni in cui l’Adamo di tutti i tempi, peccando, soccombe alle insidie dell’inganno e del male. I testi mariologici scaturiscono dalla profezia dell’Emmanuele (Is 7,10-14) come segno dato da Dio. La Chiesa è definita corpo di Cristo, casa di Dio, monte elevato. I temi cristologici sono ben presenti nel commento, ove, però, non ci sono riferimenti all’eresia ariana, come, del resto, quanto allo Spirito Santo, alle dispute del IV secolo. Risulta poi «del tutto nuova l’ipotesi che Dio avesse concesso al diavolo uno “spazio di pentimento” prima della creazione dell’uomo» (p. 405). Sui temi morali è molto intenso lo sguardo rivolto ai mi-nistri della Chiesa.

Non viene mai meno, nella vastità di questi orizzonti, l’impegno a sor-reggere il discorso con ampia e accurata documentazione.

Giuseppe Cremascoli

MARCO PAPPALARDO

NELLE «TERRE DELL’EDUCAZIONE». NON SI EDUCA BENE CHE COL CUORECinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013, 78, € 10,00.

L’A. è un giovane cooperatore salesiano, docente di latino e greco al Liceo «Don Bosco» di Catania, giornalista e pubblicista. In questo libro, frutto di esperienze condivise con i giovani a scuola e in oratorio, documenta e sug-gerisce come incarnare nella quotidianità gli ideali educativi, in particolare quelli che si richiamano alla pedagogia di don Bosco.

Già dall’introduzione l’A. chiarisce che il suo non è un manuale di studio, ma un percorso di vita orientato all’educativo. Suo obiettivo è aiutare genitori ed educatori a formare, non a plasmare, i giovani, a tenerli per mano per un tratto di strada senza poi volerli trattenere con sé.

Con questo intento l’A. traccia un percorso concreto dell’educazione, ca-landolo nella realtà quotidiana. Si parte dal primo incontro con i giovani, in

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cui sono decisivi la meraviglia e l’accoglienza. Si avvia, quindi, la relazione educativa, da fondare sull’amore, come ricorda don Bosco: «Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati». Per educa-re bisogna stabilire un rapporto umano e, per quanto possibile, l’educazione deve essere pensata per il singolo, il «tu» della relazione. Insieme al singolo giovane e a sua misura, l’educatore deve individuare il progetto di vita indivi-duale, unico e irripetibile, di cui il ragazzo deve sentirsi protagonista.

Con particolare riferimento alla scuola, l’obiettivo è innanzitutto quello di riuscire a motivare i giovani allo studio. Per quanto riguarda, invece, l’uso dei nuovi media, anche qui l’educazione ha uno spazio di intervento: i media non vanno demonizzati, ma accettati come strumenti indispensabili per i giovani di-gitali di oggi.

Nelle varie esperienze educative non possono mancare i fallimenti, ma non bisogna cedere allo scoraggiamento: occorre trasformare sempre il negativo in positivo, essere più vicini al giovane proprio quando ci sta deludendo.

Occorre puntare in alto, ricordare ai giovani che la vita ha un senso, che ognuno è chiamato a qualcosa di particolare, ma, prima ancora, occorre entrare in sintonia con loro, decodificare le loro richieste di aiuto, solo apparentemen-te incomprensibili. Prima ancora di porle ai giovani, l’educatore deve porre a se stesso le domande di senso: «Per chi cammino? Per chi faccio quello che faccio?», meglio ancora affidandosi a una guida che aiuti a mantenere desta la coscienza senza lasciarsi trascinare solo dall’esperienza.

In questo percorso, sia per il formatore sia per il giovane è fondamentale la qualità della propria personale esperienza di fede. Gli adulti riescono a educare solo quando sono testimoni credibili, coraggiosi e umili, portatori di speranza, capaci di donarsi nelle esperienze missionarie, di volontariato e di servizio: è que-sto che attira veramente i giovani. E gli educatori sono credibili quando risulta-no modelli non soltanto nella fermezza, ma anche nella capacità di perdonare e di chiedere perdono. È fondamentale, infine, che nella relazione educativa, oltre all’educatore e ai giovani, ci sia sempre Dio, referente primo e ultimo dell’educa-zione per il credente.

I criteri guida proposti dall’A., utili anche come contrasto all’indifferenza e alla noia che caratterizzano i giovani di oggi, effettivamente potrebbero ridurre quei fallimenti che tanti educatori purtroppo devono sperimentare con frequenza.

Anche grazie a uno stile fresco e scorrevole, il libro, frutto di evidente profes-sionalità educativa, riesce a dare la carica al lettore, a motivarlo di nuovo all’impe-gno educativo, ridandogli speranza e slancio. Un libro, quindi, particolarmente indicato per tutti i formatori che si occupano concretamente dei giovani.

Giuseppe Esposito

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PAOLO DALL’OGLIO

COLLERA E LUCE. UN PRETE NELLA RIVOLUZIONE SIRIANABologna, Emi, 2013, 171, € 12,90.

Un libro difficile da definire: un’autobiografia dell’A., gesuita disperso da quasi un anno in Siria, la descrizione del suo sogno (simboleggiato dal mo-nastero di Deir Mar Musa, da lui ricostruito e fatto luogo di dialogo) di una Siria che fosse punto di incontro tra fedi ed etnie diverse in un Vicino Orien-te sempre esposto al rischio di violenze interminabili, ma anche esame della situazione siriana, impantanatasi apparentemente in una violenza senza fine e senza sbocchi. Ma è anche il grido appassionato di una persona che al popolo siriano ha dedicato tutta la sua vita, immedesimandosi nella sua lingua, nella sua cultura, nel suo cammino (parlando dei siriani scrive sempre «il nostro popolo», i «nostri martiri») e nelle sue tragedie.

In ogni caso è la testimonianza di un religioso cattolico che non inten-de tirarsi indietro, né giudicare da lontano. Per questo, espulso dal Governo dittatoriale di Bashar al-Asad, egli è rientrato clandestinamente ed è stato catturato con ogni probabilità da una fazione degli insorti, trasformandosi in simbolo di una tragedia senza fine, come appare essere la guerra civile siria-na. Di quest’ultima l’A. cerca di dare una visione complessa e alternativa, che rifugge da facili schematismi, ma che è piena di contraddizioni. Egli prende risolutamente partito per la rivoluzione contro una dittatura (quasi ereditaria) spietata. Ma non si nasconde i rischi che la lotta ha messo in luce: di fazioni divise tra di loro; di una repubblica islamica intollerante, che farebbe sparire le speranze di una democrazia degna di questo nome (di cui però l’A. non traccia i lineamenti precisi, anche perché toccherebbe al popolo indicarli).

Purtroppo la Siria è diventata un crocevia di violenze, attirando combat-tenti idealisti, ma fanatici, da ogni parte del mondo islamico e non, in parti-colare contrapponendo sunniti e sciiti (alleati, questi, degli alawiti al potere). Molti cristiani hanno preso parte attiva alla rivoluzione. Dall’Oglio espone con chiarezza il rischio che l’antichissima cristianità siriana venga spazzata via insieme alla dittatura che l’ha protetta sinora, in cambio della rinuncia a ogni opposizione politica. Ma anche il rischio che, come dice qualche vesco-vo siriano, «se Assad è il male, quello che verrà dopo sarà il peggio», qualora prendesse il potere un islamismo radicale. E si aggiungono i problemi etnici, come quello dei curdi del Nord-Est, da sempre in cerca di una propria pa-tria, con il pericolo di frantumare la Siria, cosa che in teoria tutti vorrebbero escludere. Ma da tanta violenza contrapposta non è facile che nasca una vera democrazia e che i cristiani non siano costretti all’esilio.

Alle analisi si intrecciano episodi personali e aneddoti che grondano sangue e distruzione, ma anche umanità e fratellanza interreligiosa, dando

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vivacità al racconto appassionato, che rimane «a macchie» non sempre ordi-nate, così come è la situazione locale. L’A. rimprovera all’Occidente l’inerzia di fronte alla spietata repressione governativa, ma ammette anche gli scarsi risultati ottenuti altrove, con gli interventi armati come in Libia e in Iraq, quando si è trattato di ricostruire un vero Stato moderno e libero, una volta eliminata la dittatura. È evidente la tensione dell’A. — forse anche per tempe-ramento — tra il ricorso alla violenza (che giudica indispensabile) e l’annun-cio di pace proprio del cristiano, che parla di perdono e di riconciliazione, continuamente auspicati nel libro, come le speranza in una Siria riconciliata e democratica, ma rinviati a un orizzonte lontano.

Il volume (scritto nella primavera 2013) si chiude con un testamento do-loroso e intenso, che riecheggia quello dei monaci di Tibhirine, in Algeria, prima della loro tragedia finale. Ci auguriamo vivamente che l’intensa testi-monianza di p. Dall’Oglio abbia un finale ben più lieto, simbolo anche di una Siria libera e che si apre alla vita e alla riconciliazione.

GianPaolo Salvini

VITTORE MARIANI

DISABILITÀ INTELLETTIVA. EDUCAZIONE AFFETTIVA E SESSUALEMilano, Paoline, 2013, 208, € 12,50.

Il testo affronta il delicato argomento dell’educazione affettiva e sessuale delle persone con disabilità intellettiva. Un tema tabù e praticamente disatteso fino a non molto tempo fa, ma anche affrontato dalle prospettive più diverse, che finiscono per diventare più un ostacolo che un aiuto a una possibile let-tura e proposta educativa.

Il libro è diviso in tre parti. La prima parte è una riflessione sull’universo complesso e sofferto della disabilità e del suo rapporto con la dipendenza. In sede educativa viene fatto notare come questa relazione possa diventare buo-na o distruttiva. È distruttiva quando il disabile viene sfruttato per ricavare profitti, o viene emarginato, ghettizzato. La dipendenza può invece diventare buona quando trova vicinanza ed empatia da parte dell’accompagnatore. In tal caso la disabilità può dare origine in maniera sconcertante, ma reale, a una proposta di valori che smentisce una visione efficientista, ma disumana della vita.

Un esempio emblematico di questa elaborazione sofferta e preziosa viene dall’esperienza di Claudio Imprudente, fondatore a Bologna dell’associazione

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Accaparlante. Egli, affetto da un grave handicap motorio e di parola, passa da una fase di rifiuto della vita, a motivo del proprio handicap, alla capacità di viverla all’insegna dell’impegno e della solidarietà. Questa svolta è avvenuta quando ha trovato accanto a sé persone che lo hanno ascoltato con affetto e interesse, coinvolgendolo nei loro progetti. In tutto ciò egli non è fisicamente guarito, ma si è scoperto tuttavia felice di vivere e di avere qualcosa da dire a coloro che cercano di dare un significato alla propria esistenza.

Questa lettura previa della disabilità risulta indispensabile anche per comprendere il passo successivo: l’elaborazione di una proposta educativa nel campo delle relazioni, oggetto della seconda parte del libro. Un’impostazione di vita legata soprattutto all’autodeterminazione e al dominio porta a esiti distruttivi e alienanti, anche se si è in possesso di una buona salute e della piena efficienza fisica. Il problema, ancora una volta, è di tipo sapienziale. La dipendenza buona, nota Mariani, «è propria delle grandi religioni di lunga tradizione, sparse nel pianeta. Ci sono dunque antropologie che sono im-prontate alla dipendenza buona, che non la considerano un problema ma una condizione esistenziale formidabile in termini rasserenanti, generativi, rige-nerativi, salvifici» (p. 33).

Il progetto, concretamente, si articola in cinque tappe fondamentali: assi-stenza, addestramento, riabilitazione, cura, educazione. Base irrinunciabile di questo percorso è la concezione integrale della persona, nelle sue molteplici dimensioni: fisica, relazionale, affettiva, intellettuale, sociale, morale e reli-giosa. Si tratta di dimensioni irrinunciabili dell’essere umano che rendono la proposta più articolata, ma nello stesso tempo maggiormente rispettosa della sua ricchezza.

Alla luce di questa impostazione trova la sua collocazione l’ultima parte del libro: l’educazione affettiva e sessuale. Degni di nota in particolare sono i capitoli III-V, dedicati alla lettura ed educazione del linguaggio del corpo e delle manifestazioni sessuali del disabile. In essi si nota la capacità di af-frontare la complessità del problema, senza rifuggire le difficoltà, ma anche senza fare sconti, respingendo le facili proposte di una visione «politicamente corretta» che finisce per banalizzare sia la persona disabile sia la sua sessualità.

La sfida che anima questo progetto è di promuovere il valore integrale della persona umana, nel contesto di relazioni capaci di favorire una dipen-denza sana. Quando ciò accade, un tale progetto risulta di indubbio aiuto anzitutto ai cosiddetti «sani», perché si scoprono capaci di cogliere, insieme alla sofferenza, anche l’insegnamento che il disabile può offrire a tutti circa il significato della vita e le possibilità di viverla in pienezza.

Per questo risulta particolarmente significativa l’esperienza di Franca, madre di un bambino Down, morto all’età di 14 anni, riportata nelle ultime pagine del libro: «Sono contenta che il Signore mi abbia dato l’opportunità di un’esperienza con un bambino Down. Quello che questi bambini sanno

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dare non è una cosa che si riesce a descrivere, ma un qualcosa che entra a far parte di te e ti fa sentire che sei cambiata. Il vederli sempre tranquilli e senza chiedere mai di avere più di quello che la vita ha dato loro è un qualcosa che ti fa riflettere; ti fa pensare: “Che cosa ho io di sbagliato nel non sentirmi mai soddisfatta, nel volere sempre di più o nell’arrabbiarmi se in posta c’è troppa coda o se ho la febbre e non posso partecipare a una festa?”. Non riesco a dar-mi una risposta. So solo che Gesù ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché il regno di Dio appartiene a chi è come loro”. E forse i Down, che in fondo rimangono sempre bambini, sono proprio l’esempio da seguire che Dio mette sulla nostra strada» (p. 195 s).

Giovanni Cucci

DIFFERENZE E RELAZIONI. VOL. I: IL PROSSIMO E L’ESTRANEOa cura di SERGIO LABATE

Roma, Aracne, 2013, 244, € 15,00.

Il volume pubblica le relazioni presentate sul tema «Il prossimo e l’estraneo» al LVII Seminario per ricercatori e dottori di ricerca in filosofia, che si è svolto presso l’Università di Macerata dal 5 al 7 settembre 2012. Sono ventidue contri-buti di spessore differente su un tema di viva attualità.

Il secolo scorso si era chiuso con una forte insistenza della filosofia etica sull’altro quale «prossimo». Vi confluivano, con approcci magari assai diversi, correnti di pensiero come la fenomenologia, l’ermeneutica, l’analitica, il perso-nalismo di matrice cristiana. Parliamo di filosofi, distanti tra loro, quali E. Hus-serl, M. Scheler, P. Ricœur, E. Lévinas, J. Maritain e altri ancora. Noi, cultori di teologia morale, scoprivamo analisi e percorsi interessanti per cogliere la pro-fondità e l’originalità dell’agire morale e rispondere al politeismo etico, che se-condava l’individualismo e privava di fondamento razionale le scelte dei singoli.

Il seminario di Macerata rivisita quelle correnti di pensiero con approcci settoriali e puntuali; fa notare che non siamo solo alla presenza di un «io» e di un «tu», bensì esiste la terza persona, esiste il plurale, che cela tante differenze. Il prossimo, in effetti, può rimanere un estraneo sia a causa della cultura indi-vidualistica, sia perché non si tiene conto della sua specificità. L’estraneo può assumere di volta in volta la veste di nemico, pirata, barbaro, e altre fattezze ancora, se attingiamo non solo alla filosofia analitica, ma anche alla narrativa, alla psicologia. La donna, per esempio, è un essere differente dal maschio; esige quindi un approccio specifico.

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Balza in primo piano la «relazione», una categoria fondamentale per cogliere la complessità dei rapporti umani. Parecchi studiosi sondano que-sta categoria per esplorare la dinamica dell’ospitalità nell’episodio biblico di Abramo che accoglie i tre personaggi, che sono uno (cfr Gen 18,1-8): si può innalzare lo sguardo fino ad attingere le relazioni del mistero trinitario.

Un accenno specifico soltanto a tre provocazioni. Roberto Mancini indi-ca un percorso per superare l’impasse nella quale si trova il dilemma prossimo versus estraneo. Alessandro Colella rivisita l’etica discorsiva di J. Habermas, il filosofo tedesco che apre la riflessione alla società e alla politica, per volge-re l’attenzione in un secondo tempo alla sfida della manipolazione biologica del genoma umano. Daniele Referza allarga l’orizzonte all’originalità della «negritudine» nel pensiero del senegalese L. S. Senghor. Sono tre prospettive aperte sul futuro per trovare un fondamento solido alla proposta etica, di-fendere la dignità della persona umana dinanzi ai rischi della manipolazione genetica, e immaginare un’etica coerente con la cultura della globalizzazione.

Si nota con piacere l’accanimento con il quale giovani studiosi affron-tano i problemi di grossa rilevanza umana che l’evoluzione della cultura ci pone. Sotto questo aspetto, la ricerca dell’Università di Macerata è aperta alla società. La comunicazione con l’ambiente può essere però ostacolata da un linguaggio a volte troppo astratto, magari astruso, che si esprime in una prosa poco chiara e scorrevole.

Francesco Cultrera

ANNALI DELLA PONTIFICIA INSIGNE ACCADEMIA DI BELLE ARTI E LETTERE DEI VIRTUOSI AL PANTHEON, XIII/2013

Roma, Palombi, 2013, 668, € 39.00.

Nell’editoriale, il presidente dell’Accademia, Vitaliano Tiberia, evocando il carisma comunicativo che fin da subito ha caratterizzato il magistero di Papa Francesco, sottolinea come fede e verità siano costitutive dell’esperienza estetica. Tiberia inoltre auspica che la carità, sgorgante dalla Lumen fidei, si traduca in educazione alla bellezza, in virtù di quell’incontro autentico tra gli uomini caldeggiato dal Papa, affinché si recuperi il valore dei simboli tramandati dalla Chiesa, come pure la conformità dei contesti architettonici urbani alla dignità umana.

Il Presidente poi tratta del rapporto tra la Chiesa e gli artisti contempora-

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nei nella sua relazione (cfr pp. 241-257). Nel panorama iconografico attuale, si riflette la crisi del pensiero contemporaneo, contraddistinto da derive mate-rialistiche, assenza di telos e fuga dall’idea di bellezza. Tiberia rileva l’incom-patibilità di tali forme con un’accezione di arte che si caratterizza invece come finalistica, comunicativa, simbolica, veritiera e capace di portare alla salvezza; che si caratterizza, in definitiva, come arte cristiana.

Il volume presenta diciannove contributi degli accademici e ventidue dei corrispondenti esterni, corredati da immagini e documenti. Tra gli acca-demici, il saggio di Tito Amodei — Musei per i beni ecclesiastici — richiama all’obbligo della ricognizione, catalogazione, conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico della Chiesa.

Sandro Benedetti nel suo scritto osserva che il rapporto tra architettura e liturgia è stato articolato nella sua evoluzione storica, dagli inizi fino al No-vecento, secondo una triplice modalità di declinazione della relazione duale che si stabilisce tra il presbiterio e il luogo dell’assemblea. Per l’A., la struttura ideale, conforme allo scopo dell’edificio sacro, più che in un’espansione oriz-zontale, consiste nella verticalizzazione, cioè nella creazione di aperture sopra il presbiterio, tiburi di luce, che permettano di individuare, nella discesa della luce, la luce di Cristo che scende sull’altare.

Il saggio di Giovanni Carbonara, su Alcune questioni di restauro architet-tonico e urbana, sottolinea l’impegno etico che deve contraddistinguere chi opera nel restauro.

Gugliemo De’ Giovanni Centelles rievoca la figura di Giovanni Paolo II e il suo spirito umanistico. È alla luce del binomio evangelizzazione-cultura e dell’armonia tra fede e ragione che questo Papa ha promosso un progetto di emancipazione umana.

Il card. Gianfranco Ravasi, nel suo saggio Il Pantheon e l’immortalità, ha definito innanzitutto la differenza tra il tempo, in cui si porta a com-pimento la storia nel libero attuarsi dei gesti e delle decisioni, e l’eternità, in cui tutta la creazione sarà trasfigurata. L’antitesi greca psyché-sarx, anima-carne, viene superata con la variante paolina che introduce la ca-tegoria di pneuma. Il corpo psichico esprime la creaturalità dell’uomo, esposto al limite e al peccato; il corpo spirituale, grazie all’irruzione dello Spirito Santo, introduce alla dimensione eterna, realizzando in pienezza l’immagine di Dio, sul modello del corpo del Cristo risorto, che è piena-mente spirituale.

Non è possibile dare conto qui della ricchezza e della varietà degli in-terventi. Ricordiamo alcuni saggi che si possono leggere in continuità con i volumi precedenti. Ad esempio, quello di Vittorio Di Giacomo, Italia mia, viaggio cinematografico nell’arte e nel paesaggio; quello di Anna Masala, Bene-detto XIII e lo scisma d’Occidente; quello di Errico Cuozzo, La rappresentazione della regalità nella Palermo di Re Ruggero II d’Altavilla; e quello di Antonella

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Pampalone, Dalle esequie di Innocenzo XI all’Incoronazione di Alessandro VIII. Di grande significato sono anche i contributi del card. P. Poupard, I tre grandi monoteismi e le sfide del XXI secolo; dell’arcivescovo Bruno Forte, Educare alla fede; e di don Ennio Innocenti, L’ermeneutica mistica della pittura.

L’elemento di continuità dei saggi e le novità, frutto delle molteplici ed eterogenee ricerche condotte in sito e negli archivi, invita a seguire costan-temente il corso degli Annali, per avere una maggiore consapevolezza del patrimonio di storia e di bellezza di cui disponiamo e per diffonderne la co-noscenza.

Gianna Forlizzi

JOHN HENRY MACKAY

MAX STIRNER. VITA E OPERERoma, Bibliosofica Editrice, 2013, 228, € 13,00.

Nell’estate del 1887 John Henry Mackay, un giovane scrittore tedesco di origini scozzesi — era nato, nel 1864, nella cittadina di Greenock — si trova nella biblioteca del British Museum di Londra: sta leggendo la Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange quando, per caso, si imbatte nel nome del filosofo Max Stirner e nel titolo della sua opera maggiore, L’unico e la sua proprietà. Mackay non li aveva mai sentiti nominare prima; ne prende nota, ma soltanto un anno dopo decide di acquistare quel libro, la cui lettura suscita in lui una forte emozione, tanto da fargli prendere la decisione di de-dicarsi anima e corpo alla ricostruzione della vita di quel pensatore pressoché dimenticato da tutti.

È questa l’origine della biografia di Stirner scritta da Mackay, che ne curò tre successive edizioni, negli anni 1898, 1910 e 1914. Essa rimane tutt’oggi la fonte più attendibile per conoscere la vita e l’opera di Johann Caspar Schmidt (Max Stirner è lo pseudonimo con cui è passato alla storia), il filosofo tedesco vissuto fra il 1806 e il 1856, comunemente considerato il padre dell’anarchi-smo. Scritta con grande passione e viva partecipazione interiore, l’opera ha il pregio di presentare al lettore il volto umano di un pensatore che teorizzò con particolare asprezza l’individualismo più estremo, finendo per approdare a una sorta di nichilismo egoistico, non soltanto privo di qualunque riferi-mento alla Trascendenza, ma anche lontano da qualsiasi forma di solidarietà e filantropia.

Mackay non tralascia di parlare del pensiero filosofico di Stirner, ma pre-

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ferisce soffermarsi a tratteggiare con precisione le varie tappe della sua esi-stenza, che non fu certo particolarmente fortunata. Perso il padre a un anno di vita, Max non trascorre un’infanzia facile. Intorno ai vent’anni si iscrive per la prima volta all’Università, che presto abbandona, per poi riprendere a frequentarla dopo un periodo di viaggi e trasferimenti. Intanto, la madre si ammala di mente e viene ricoverata in un ospedale di Berlino. Dopo un breve periodo di insegnamento, nel dicembre del 1837, si sposa con Agnes Clara Burtz, che muore durante il puerperio.

Stirner tira avanti grazie a qualche collaborazione giornalistica e nel 1843 convola a nozze con Marie Wilhelmine Dähnhardt. L’anno seguente pubblica L’unico e la sua proprietà e, per sbarcare il lunario, si dedica alla distribuzione del latte: l’attività non avrà successo e pure il matrimonio fallirà, lasciandolo in una situazione così difficoltosa che egli sarà addi-rittura incarcerato, per ben due volte, a causa di debiti. Nonostante tutte queste traversie, continua a studiare: nel 1847 termina un’opera intitolata L’economia nazionale dei francesi e degli inglesi e nel 1852 pubblica un’ampia Storia della reazione. Stirner muore il 25 giugno del 1856: al suo funerale non partecipa quasi nessuno.

Il libro di Mackay è sostenuto dalla solida e attenta scrupolosità del ricer-catore serio e, nello stesso tempo, dalla simpatia da lui provata nei confronti dell’oggetto della sua indagine, così che anche il lettore, per quanto distante e critico nei confronti delle idee propugnate da Max Stirner, non può non avvertire un sentimento di umana vicinanza nei suoi riguardi.

Maurizio Schoepflin

GUIDO PADUANO

IL TESTO E IL MONDO. ELEMENTI DI TEORIA DELLA LETTERATURATorino, Bollati Boringhieri, 2013, 138, € 16,00.

E se la vita fosse solo «il racconto di un idiota», come la definisce Macbeth, un racconto pieno di furia e suoni, che non significa niente? L’orribile con-danna all’assurdo può venire ribaltata prendendo sul serio l’esperienza stessa del racconto: un narratore insegue una trama che lo ha affascinato, e la offre a qualcuno che, ascoltandola, la percorra e la completi con i contributi della sua immaginazione interpretativa, affinché altri ancora possano fruirne e andarla a «vedere».

La potenza del testo alimenta il godimento della lettura e l’impegno della

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critica. In questo spazio estetico non vige una fumosa arbitrarietà: un testo teatrale può venire portato in scena e recitato diversamente, ma regista e attori sono i primi a pretendere un giudizio di corrispondenza. Essi — e con loro gli spettatori e i critici teatrali, che concorrono alla ricezione e incarnazione della parola poetica — non intendono tradire l’opera in cui hanno trovato notizia della loro identità, umana e professionale. La lingua li ha chiamati all’azione espressiva. La lingua richiede la loro obbedienza creativa.

Paduano, docente di Filologia classica all’Università di Pisa, traduttore di importanti testi antichi, aggiunge ai suoi saggi critici anche questa esplora-zione sulla letteratura, come territorio in cui le cose si fanno parole, e le parole cose. Egli propone un’interpretazione del patto comunicativo tra narratore e lettore: non è in gioco una trasmissione di istruzioni pragmatiche, ma l’in-gresso in un inedito universo di senso, che offre il piacere di una trasfor-mazione veritativa. La definizione divide le cose in categorie, la metafora le scopre simili (cfr p. 118) e allude al principio di questa unione.

Se lo scrittore rappresenta la realtà, egli non ne produce una mimesi inge-nua. Ciò di cui parla il racconto sono «azioni» legate da un intreccio unitario, interessanti per la prospettiva del lettore. Ora, le azioni non sono fatti grezzi, per quanto minuziosamente descritti, ma espressioni di personaggi, che nelle loro imprese cercano di dare un significato all’esistenza (cfr p. 107), creando un mondo più degno di quello che la cronaca ci getta negli occhi. L’esperien-za letteraria è una prova di resistenza dell’umano (cfr p. 126).

Il volume tocca indirettamente argomenti significativi per l’etica religiosa contemporanea, che sta riabilitando narrazione e sentimenti, contro antichi veti razionalisti. Come la critica letteraria accetta il compito di elaborare giu-dizi di valore — l’opera è riuscita, se restituisce la ricchezza della vita (cfr p. 127) —, così i criteri di giudizio morale si scoprono intessuti di simboli, creduti come veri, prima di poterne fornire una dimostrazione incontrover-tibile. Anzi, è dentro la cornice di un dramma — che inscrive ruolo e destino dell’uomo tra un inizio e una fine delle cose — che prende luce il senso nobile o degradante, giusto o rovinoso di un comportamento.

Credere nella verità di un testo è condizione per comprenderlo e mante-nerlo vivo; ma questa credenza non è idolatria faziosa né ripetizione acritica. Quel testo parla della realtà e assieme della letteratura: conosciamo a fondo le cose attraverso i nomi che le ritagliano; aderiamo alla verità dei nomi (anche ai nomi del divino) attraverso le cose che vi rimandano simbolicamente. Fare alleanza con la parola significa onorare un comandamento: desiderare la ve-rità, senza pretendere di ingabbiarla in un possesso sterile.

Paolo Cattorini

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MINORANZE NEGLI IMPERI. POPOLI FRA IDENTITÀ NAZIONALE E IDEOLOGIA IMPERIALE

a cura di BRIGITTE MAZOHL - PAOLO POMBENIBologna, il Mulino, 2012, 470, € 34,00.

I saggi presentati nel volume sono adattamenti delle relazioni tenute nella LIII Settimana di studio promossa a Trento dall’Istituto storico italo-germa-nico della Fondazione Bruno Kessler e sono stati coordinati da Brigitte Ma-zohl, professore ordinario di Storia dell’Austria all’Università di Innsbruck, e Paolo Pombeni, professore ordinario di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna.

Proprio la natura saggistica del presente lavoro ha reso possibile un’at-tenta cura degli elementi di archivio, delle fonti e della letteratura, utilizza-ti dagli studiosi per realizzare gli interventi. Nel testo vari studiosi, con di-versa sensibilità, si alternano nell’analisi di differenti casi storici di impero. In particolare esaminano gli imperi asburgico, tedesco, russo, ottomano e britannico, cercando di dare voce alle contraddizioni interne generate dagli inevitabili attriti tra le élites culturali, burocratiche e militari, da un lato, e le minoranze etniche, religiose e linguistiche, dall’altro.

Il periodo preso in esame va dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla pri-ma guerra mondiale. La scelta di questa fascia temporale è dovuta al fatto che in questo periodo gli «imperi» iniziarono ad affrontare le ultime sfide poste dall’entrata in scena di alcuni nuovi fenomeni sociali: basti pensare a tutte le problematiche collegate all’avvento dei nazionalismi che inizia-rono a nascere di lì a poco. Tali problematiche sono identificabili come conseguenza sia di dinamiche storiche precise, sia del difficile equilibrio tra tentativi di omogeneizzazione interna e ovvia resistenza delle minoranze. Infatti, se tra il 1500 e il 1900 in Europa si era assistito non soltanto alla na-scita degli Stati-nazione, ma anche al passaggio da cinquecento e più Stati sovrani a un massimo di venti Stati, è indubbio che questa contrazione si è realizzata non di certo basandosi su parametri principalmente «etnici», ma grazie a dinamiche storiche peculiari di un dato territorio.

Del resto, a partire dalle rivoluzioni europee del 1848 si iniziò ad af-fermare un nuovo modello di legittimazione del potere su base rappre-sentativa, che pose i princìpi per la ricerca del consenso attraverso nuove strade, alcune delle quali esulavano dai tradizionali circuiti corporativi. In questo periodo gli imperi dovettero iniziare a convivere non soltanto con la mutazione del sistema sociale e politico interno, ma anche con una istanza internazionale, quindi esterna, dove l’idea dominante, presto elusa, era nella possibile convivenza pacifica delle grandi potenze.

È in questo quadro generale che iniziò ad affermarsi nei sistemi impe-

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riali la consapevolezza dell’esistenza di «minoranze»; fu proprio lo sforzo di «omogeneizzazione» condotto dai sistemi imperiali che mostrò la presenza di raggruppamenti sociali organizzati in modo da poter mettere in atto tentativi di resistenza alla egemonia imperiale con il fine di vedere affer-mato il diritto al proprio riconoscimento.

Ciò che diversificò le nazioni dagli imperi è il fatto che, nel caso degli Stati-nazione, le identità e i vantaggi di appartenenza vengono assimilati grazie a presupposti di omogeneità etnica; nel caso degli imperi, invece, è la capacità di acquisizione di dominio su territori più vasti: in quest’ultimo caso, la dimensione dei possedimenti e delle risorse, divenuta sempre più una forma di potenza, nulla o poco ha che fare con elementi identitari comuni ai popoli conquistati. Ora, proprio negli anni Ottanta del XIX secolo iniziò a verificarsi una crisi che, con modalità diverse, condusse i sistemi imperiali a perdere progressivamente di forza.

Secondo Paolo Pombeni, «l’affermarsi del sistema di legittimazione costituzionale e liberale, basato sul principio della forte connessione fra istituzioni di governo (intese in senso lato) e volontà popolare, così come in definitiva era imposto dal suo fondarsi su un sistema rappresentativo a base elettorale, e la conseguente necessità di disporre di una “cultura” capace di supportare quelle novità con meccanismi di costruzione del “consenso”, mise sostanzialmente in crisi gli imperi che, come conteni-tori di componenti popolari (istituzionalizzate) diverse, basavano invece la propria legittimazione sulla possibilità di offrire ai loro soggetti con-dizioni di eguaglianza giuridica, di progresso economico e di inclusio-ne» (p. 451).

L’unico impero che intuì l’importanza e la necessità della creazione di un idem sentire de re publica fu l’impero britannico, che iniziò un’operazio-ne culturale volta a miscelare le esigenze di raccolta del consenso elettorale con le emergenze sostenute dai sistemi di leadership nazionale al fine di consentire la creazione di un nuovo sistema politico ideologico in grado di rispondere alle sfide e ai mutamenti interni all’impero. Queste moda-lità non furono assimilate dagli altri tre imperi europei (tedesco, austro-ungarico e russo), poiché in questi casi vi fu diffidenza verso il sistema di legittimazione elettorale-parlamentare (cfr p. 457). Si può affermare che l’incapacità degli imperi di individuare formule di «invenzione della tra-dizione», necessarie per fondere istanze comunitarie, culturali, nazionali in costruttive identità politiche definite attraverso un’accettazione del co-stituzionalismo rappresentativo, fu uno dei motivi della decadenza degli imperi moderni.

Concetta Coretti

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CATERINA CIRIELLO

PIETRO PAVAN. LE METAMORFOSI DELLA DOTTRINA SOCIALE NEL PONTIFICATO DI PIO XII

Bologna, il Mulino, 2012, 341, € 29,00.

La storia, o meglio il resoconto che ne fornisce la storiografia, appare spesso come il risultato delle azioni di grandi personaggi che condizionano, talvolta in maniera drammatica, il destino degli uomini e delle nazioni. In realtà, le decisioni, le svolte, i cambiamenti che si riconducono in maniera diretta a «uomini di potere» sono per lo più determinati dall’opera costante di persone che, per le circostanze storiche o per vari fattori combinati tra loro, sono chiamate a prestare un servizio tanto defilato quanto efficace.

Il volume di Caterina Ciriello, docente di Storia della spiritualità e della vita consacrata alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, presenta, in maniera gradevole e appassionata, una di queste figure: Pietro Pavan, creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1985, e definito da Papa Ratzinger «il mio amico sapiente» (p. IX).

Pavan (1903-94), trevigiano, «svolge il suo lavoro di sacerdote, sociologo, filosofo e consigliere […] negli anni duri del pontificato di Pio XII» (p. 2). È «attivo, in prima linea nella formazione delle coscienze, nella riorganizza-zione fisica di tutti quegli enti e associazioni soppressi durante il ventennio fascista, contribuendo alla ricostruzione accanto a quelli che saranno poi i protagonisti della politica italiana» (p. 4). È autore di opere di carattere so-ciologico ed economico apprezzate da Papa Pacelli. Le due encicliche Mater et magistra e Pacem in terris, promulgate da Giovanni XXIII e capisaldi della dottrina sociale della Chiesa nella seconda metà del XX secolo, sono state redatte da lui, e questo elemento sarebbe già sufficiente per farci apprezzare la sua statura. Pavan fu fiduciario, per le materie sociali ed economiche, di quattro Papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Il volume è articolato in tre parti. Nella prima, si delineano i tratti della vicenda umana, della personalità e dell’azione di Pavan con un taglio storio-grafico e biografico obiettivo, sottolineando il ruolo che, nel dopoguerra, egli ha svolto presso l’Istituto cattolico di attività sociale (Icas) in favore del plura-lismo associativo, che determinerà poi la nascita delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), nonché il suo ruolo nella ripresa delle Settimane Sociali.

Nella seconda e terza parte viene esposta l’evoluzione del pensiero sociale ed economico di Pavan, ponendo l’accento sulla difesa della dignità uma-na, sull’impegno profuso nel favorire le organizzazioni sindacali cattoliche e nell’affrontare le problematiche relative al mondo rurale e alla questione me-ridionale. L’idea di democrazia di Pavan era fondata sulla centralità dell’uo-

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mo, dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni, in maniera conforme per molti versi al pensiero di Jacques Maritain e di buona parte dei Padri costituenti, cogliendo l’importanza che avrebbe dovuto avere — come di fatto poi ebbe — l’Azione Cattolica nella ricostruzione politica, sociale e morale dell’Italia del dopoguerra.

Alla parte espositiva segue un’Appendice, in cui viene riportata una serie di testi documentari.

Di notevole pregio sono i capitoli nei quali viene esposta l’evoluzione del pensiero filosofico di Pavan. Egli pone come punto di partenza la dimensione spirituale dell’uomo, da cui dipendono le ulteriori speculazioni e le relative af-fermazioni in materia sociale, economica e politica. Proprio dalla dimensione spirituale dipende, secondo lui, l’aspetto di socialità dell’uomo, zoon politikon.

Pavan prende le mosse da un ragionamento tanto semplice quanto effica-ce: «Se l’Infinito è Spirito e l’essere umano ha in sé questa profonda esigenza di Infinito, vuol dire che anche lui “deve essere spirito”» (p. 169). La prima conseguenza che ne deriva è che «la spiritualità reclama anche la libertà» (p. 170). Spiritualità, socialità e libertà sono, dunque, gli assi cartesiani entro cui si inscrivono e da cui sono generati innanzitutto la famiglia, e poi le istitu-zioni, lo Stato e le stesse relazioni internazionali. Da questi presupposti nasce la critica in materia economica del sistema collettivista marxista e di quello liberista, entrambi considerati inapplicabili.

La maturazione progressiva del pensiero politico di Pavan culmina con l’opera La democrazia e le sue ragioni, pubblicata nel 1958, in cui egli presenta come soggetto, fondamento e fine del sistema democratico la persona umana, la cui autenticità non può che basarsi sul riconoscimento, la promozione e la tutela dei diritti dell’uomo (cfr p. 254 s).

Luigi De Cristofaro

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NOTA. Non è possibile dar conto delle molte opere che ci pervengono. Ne diamo intanto un annuncio sommario, che non comporta alcun giudizio, e ci riserviamo di tornarvi sopra secondo le possibilità e lo spazio disponibile.

OPERE PERVENUTE

FILOSOFIA AGUTI A., Filosofia della religione. Storia, temi, problemi, Brescia, La Scuola, 2013, 393, € 23,00. GRANDE E., Come il raggio rispetto alla luce, Crotone, D’Ettoris, 2013, 134, € 12,90. HAJME T., Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Milano - Udine, Mimesis, 2013, 155, € 14,00. HEGEL G. W. F., Credere e sapere (A. TASSI), Brescia, Morcelliana, 2013, 243, € 18,00. KIERKEGAARD S., La nostra epoca (D. BORSO), Brescia, Morcelliana, 2013, 97, € 10,00. MOSER P. K., Amore e obbedienza in filosofia, Torino, Lindau, 2013, 131, € 14,00. PALPACELLI L., Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Brescia, Morcelliana, 2013, 696, € 42,00. PEROLI E., La trasparenza dell’io e l’abisso dell’anima. Sul rapporto tra platonismo e cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2013, 159, € 15,00. Pietra (La) dello scandalo. La sfida antropologica del pensiero di René Girard (U. COCCONI - M. PESENTI GRITTI), Massa, Transeuropa, 2013, 425, € 28,00. RICKEN F., Etica generale (A. CAMPO-DONICO), Milano, Vita e Pensiero, 2013, XXIV-268, € 26,00. RUMINELLI P., La natura, l’uomo e il sacro. Studi per una filosofia dell’esistenza, Roma, Armando, 2013, 79, € 9,00. SACCENTI R., Conservare la retta volontà. L’atto morale nelle dottrine di Filippo il Cancelliere e Ugo di Saint-Cher (1225-1235), Bologna, il Mulino, 2013, 244, € 22,00. SCOTO G., Sulle nature dell’Universo, vol. II (Libro II) (P. DRONKE), Milano, Mondadori, 2013, III-328, s.i.p.

VARIE BO YIN RA, Il libro del Dio vivente, Roma, Castelvecchi, 2013, 138, € 16,50. CIOTTI L., Cambiare noi, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013, 139, € 10,00.

Educare nella postmodernità (I. SANNA), Roma, Studium, 2013, 237, € 20,50. GIROLAMO, S., Commento a Isaia (1-4) (R. MAISANO), Roma, Città Nuova, 2013, 386, € 75,00. MICUNCO G., Il seme e il fiore. Vita e spiritualità della beata Elia di San Clemente (1901-1927), Bari, Edipuglia, 2013, 400, € 40,00. MONDA A., Il paradiso dei lettori innamorati, Milano, Mondadori, 2013, 153, € 17,50. PERGOLI CAMPANELLI A., Cassiodoro alle origini dell’idea di restauro, Milano, Jaca Book, 2013, XIII-143, € 18,00. Tempo (Un) per vivere e un tempo per morire (L. SAVARINO), Torino, Claudiana, 2012, 104, € 9,80. TERNYNCK C., L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Milano, Vita e Pensiero, 2012, 203, € 16,00. Terra, lavoro e mafia (D. CORVI), Roma, Istituto per gli Studi Economici e Giuridici Gioacchino Scaduto, 2012, 166, € 22,00. THELLUNG A., I due cristianesini, Molfetta (Ba), la Meridiana, 2012, 155, € 16,00. TORNESE G., Marito & Marito, Torino, Claudiana, 2012, 210, € 14,90. TORRALBA F., Vida espiritual en la sociedad digital. Es posible desarrollar las vivencias interiores en la era de la globalización?, Lleida, Milenio, 2012, 178, s.i.p. Transazioni (Le) on line: definizioni, aspetti legali e fiscali gli strumenti di controllo della pubblica amministrazione, Conegliano (Tv), Grafiche Battivelli, 2012, 235, € 20,00. TRIANNI P., Henri Le Saux (Svami Abhisiktananda). Un incontro con l’India, Milano, Jaca Book, 2011, 389, s.i.p. TRIPP P., Strumenti nelle mani del Redentore. Cambiare aiutando altri a cambiare, Caltanissetta, Alfa & Omega, 2011, 410, € 22,90. TUCCI V. A., La Visita Apostolica di mons. Andrea Pierbenedetto alla Città e Diocesi di Cosenza 1628, Cosenza, Archivio Storico Diocesano di Cosenza, 2012, 479, s.i.p. TUCCIUS S., Christus Nascens. Christus Patiens. Christus Iudex. Tragoediae (M. SAULINI), Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2011, LX-292, s.i.p. Uomo (L’) moderno e la Chiesa (P. GILBERT), Roma, Gregorian & Biblical Press, 2012, 488, € 37,00.

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RIVISTA QUINDICINALE DI CULTURA DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, FONDATA NEL 1850

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